L’educazione come vita. Per una nuova pedagogia della scuola 9788857559872

“Queste lezioni non si pongono come scopo la pura analisi teorica dell’attività pratico- pedagogica, da esse non devono

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L’educazione come vita. Per una nuova pedagogia della scuola
 9788857559872

Table of contents :
Indice......Page 210
Frontespizio......Page 3
Profilo biografico del curatore......Page 209
Alessandra Peluso. Saggio introduttivo. Pedagogia e vita tra filosofia e cultura in Georg Simmel......Page 6
Nota del traduttore e curatore......Page 59
Opere di riferimento......Page 61
Riferimenti bibliografici......Page 63
(Vorrede des Herausgebers)......Page 68
(Einleitung)......Page 70
(Das grundsätzliche Verhältnis zwischen Erziehung und Unterricht)......Page 73
(Von der Aufmerksamkeit und dem Lernen)......Page 107
(Von der Konsequenz)......Page 122
(Vom Fragen)......Page 132
(Von den Beurteilung)......Page 139
(Von der Strafen)......Page 145
(Von der Sprache und den Sprachen)......Page 154
(Vom deutschen Aufsatz)......Page 165
(Vom deutschen Aufsatz)......Page 172
(Vom Geschichtsunterricht)......Page 179
(Von der sittlichen Erziehung)......Page 188
(Anhang über sexuelle Aufklärung)......Page 201

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MIMESIS / FILOSOFIE N. 628 Collana diretta da Pierre Dalla Vigna (Università “Insubria”, Varese) COMITATO SCIENTIFICO

Paolo Bellini (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como), Claudio Bonvecchio (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como), Mauro Carbone (Université Jean-Moulin, Lyon 3), Antonio De Simone (Università degli Studi di Urbino Carlo Bo), Morris L. Ghezzi (†, Università degli Studi di Milano), Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza), Giovanni Invitto (Università degli Studi di Lecce), Micaela Latini (Università degli Studi di Cassino), Enrica Lisciani-Petrini (Università degli Studi di Salerno), Luca Marchetti (Università Sapienza di Roma), Antonio Panaino (Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna), Paolo Perticari (†, Università degli Studi di Bergamo), Susan Petrilli (Università degli Studi di Bari), Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari), Riccardo Roni (Università di Urbino), Viviana Segreto (Università degli Studi di Palermo),Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis), Tommaso Tuppini (Università degli Studi di Verona), Antonio Valentini (Università di Roma La Sapienza), Jean-Jacques Wunenburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)

GEORG SIMMEL

L’EDUCAZIONE COME VITA Per una nuova pedagogia della scuola A cura di Alessandra Peluso

Titolo originale: Schulpädagogik. Vorlesungen, gehalten an der Universität Strassburg, Verlag Von A.W. Zickfeldt, Osterwieck-Harz 1922. MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Filosofie n. 628 Isbn: 9788857559872 © 2019 – mim edizioni srl Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone +39 02 24861657 / 24416383

Al Maestro

ALESSANDRA PELUSO SAGGIO INTRODUTTIVO Pedagogia e vita tra filosofia e cultura in Georg Simmel Filosofo della cultura1 e della vita2, sociologo, teorico dell’educazione, Georg Simmel è colui che in molti hanno tentato di definire, numerosi gli “epiteti” ascritti alla sua persona, quale quello di Ortega y Gasset, suo allievo, che lo chiamò “scoiattolo della filosofia”; infatti, Simmel “non considerò mai i suoi argomenti come fine a se stessi, ma piuttosto li adoperò come piattaforme sulle quali eseguire i suoi meravigliosi esercizi analitici”3. Di un’intensità intellettuale che molti gli riconoscevano, ragion per cui i suoi contemporanei dicevano: “Simmel simmelifica tutto ciò con cui entra in contatto” 4, dando, in tal modo, prova della sua peculiare capacità di filosofare, della sorprendente versatilità su qualsiasi argomento, lasciando la sua impronta individuale. Lo stesso Banfi rimase estasiato osservando Simmel, il Maestro, dai banchi mentre incalzava sempre più da vicino il “segreto”5 delle cose, o ancora Giuseppe Rensi, che lo ritrasse come “filosofo del relativismo”6, o sarebbe più opportuno parlare di “relazionismo”7, che accanto alla teoria di psicologismo ripresa da Nietzsche8 e dalla “concezione weberiana della posizione ascientifica del valore”9, l’intera produzione simmeliana sembra esserne pervasa; ma, in realtà, è talmente vasto lo spettro di studi, scritti e interessi, così come la sua personalità eclettica, che risulta complicata una sintesi. Alquanto inoperosa attuarla nel momento in cui Simmel individua la presenza di una contraddizione, di una dualità nell’individuo e in ogni forma della vita. Non contempla la soluzione, né la dissoluzione, ma l’unità, l’universalità all’interno della quale il soggetto si nutre di individuale e universale, in un abbraccio che comprende il tutto, l’αἰών, l’eterno, la “vita più che vita”10, proprio come Dio ritorna in se stesso nell’amor spinoziano: “la vita ritorna in se stessa come Dio, nell’amor dei di Spinoza”11. Generato da una “vitalità esegetica”12, è uno dei pensatori del Novecento che si è sbarazzato, giustappunto, della staticità e dogmaticità del pensiero. Brillante, poliedrico, ha anticipato di gran lunga l’attuale condizione di conflittualità senza soluzioni e di lacerazione senza pathos; ha

analizzato ogni forma della vita così come quella educativa che è, appunto, vita. Ecco allora che risulta fondamentale generare e discutere una teoria educativa rivolta ai ragazzi e agli adulti poiché sono loro a costituire la scuola, così come la storia, e non l’umanità. Sono gli individui, le parti, a conformare il tutto e non viceversa; è chiaro che Simmel conferisce rilievo al singolo, dal momento che è da qui che tutto ha inizio e nella fattuale esperienza si crea l’amore per sé, per l’altro e per la vita, giungendo a una condizione metafisica, sebbene, come tenderà a sottolineare un altro suo allievo fedele, Hauter, negli anni in cui ha conosciuto il maestro a Strasburgo, non creda nell’eternità. Infatti, “Simmel era agnostico. Non credeva nella vita eterna, pur non escludendone l’eventualità”13. Affermava: “non si può sapere in modo rigoroso”14. Leggendo la Schulpädagogik pubblicata nel 1922 da Karl Hauter15, riguardante le Lezioni di pedagogia tenute a Strasburgo nel 1915-1916, durante, appunto, il semestre invernale accademico, sembra ascoltare le sue parole come se oggi fosse ancora presente: “parole vive, carnali e dense di significato”. Di un’attuazione pedagogica simmeliana, del suo insegnamento, di un’educazione vitale abbia urgenza la società odierna: la famiglia, la società, lo Stato perché la scuola sia un luogo in cui si formano ed educano i ragazzi all’autonomia, alla libertà, alla responsabilità. Ed ecco allora riprendere in mano il testo in questione di Georg Simmel, Schulpädagogik, (tr.it. Pedagogia della scuola), di basilare importanza, le cui Lezioni qui riportate sono state tradotte non soltanto in Italia, ma nel mondo, si ricordi tra tutte, la traduzione in spagnolo e in francese; la sua opera, una “scintilla”16 dunque, da far brillare, alimentandone il fuoco che le appartiene. Un testo che, innanzitutto, assume come punto di riferimento l’individuo e le intersoggettività che caratterizzano la vita, la cultura. Gli esseri umani hanno bisogno di relazioni, affinché possano tessere la tela della cultura, della conoscenza, dell’identità e, infatti, ne La differenziazione sociale, scritto antecedente alle Vorlesungen di Georg Simmel: “Il singolo non può salvarsi contro la totalità, solo cedendo una parte del suo Io assoluto ad alcuni altri, unendosi a essi, egli può conservare il sentimento dell’individualità e può farlo senza un’esagerata segregazione, senza durezza e senza un isolamento stravagante”17. Nell’ambito della vita “vi è una combinazione di energie naturali che confluiscono negli sviluppi e nelle sintesi delle energie stesse che siano conformi allo scopo e che siano altrimenti impossibili, e dunque,

dall’individuo, la necessità di realizzarsi in cerchie sempre più ampie della società”18. Forse, interpretando tale descrizione, si potrebbe addire all’individuo un “sentimento cosmopolitico”; lo stesso che si evince nelle lezioni simmeliane, in un contesto tuttavia complesso all’interno del quale risultano le varianti fisse “Educazione” e “Vita”: il particolare si nutre dell’universale e in esso si riconosce e si realizza; pertanto, come l’educazione e la formazione pedagogica confluiranno nella stessa vita, allo stesso modo avverrà per la filosofia e la cultura. È evidente, a proposito della condizione individuale, come ne La differenziazione sociale, Simmel tuteli le identità in quanto valori individuali, portatori di differenze; Ferrarotti lo considera infatti, un grande “teorico della differenza”19. Idea questa, cruciale, che si rispecchia in ogni Lezione, qui riportata, in ciascun singolo afflato: l’individuo, le relazioni sociali, la vita. E, rifacendosi ad Aristotele, Simmel muove dalla persona per cogliere l’uguaglianza universale, in quanto essere umano. Tuttavia, comprende come ciascuno consegua delle finalità che col tempo sono state indotte dall’unico strumento di potere: il denaro. Se ne legge cenno appena, nel capitolo dieci della Schulpädagogik riguardante l’“Educazione morale”, sull’importanza di trasmettere ai bambini il valore di scambio del denaro, in palese riferimento alla “menzogna” (Lüge)20 e alla “finzione” (Fiktion), sentimenti che a scuola non dovrebbero verificarsi, ma che nella “modernità”21 esistono in virtù di un’esigenza vitale, la sopravvivenza, volta a reggere e sorreggere le relazioni sociali, tentando con tali modalità di evitare il conflitto (senza mai risolverlo). Nella Schulpädagogik che qui ha assunto il titolo di L’educazione come vita. Per una nuova pedagogia della scuola, valutando una prospettiva ermeneutica complessiva sia fenomenologica sia storica, si alimenta solo e soltanto la “scintilla”22 della vita, la vis medicatrix, i ruoli del discente e del docente. Simmel, quale maestro per molti, tiene alla pedagogia come educazione in quanto processo formativo, considerando fondamentale educare all’autonomia, alla libertà del pensiero e al senso del dovere sin da piccoli. In particolare, dal punto di vista simmeliano, il valore, il dover essere si manifesta categoria originaria del pensiero a guisa dell’essere, pur riconoscendo che esso agisce e vive soltanto nella coscienza empirica dell’uomo e in relazione al suo contenuto psicologico; infatti, Rossi sottolinea come Simmel nell’Einleitung in die Moralwissenschaft (1892-1893) dimostri per di più la possibilità di una conoscenza scientifica della vita morale,

individuando il campo di ricerca tra psicologia, scienze sociali e storia23. Inoltre, Simmel, pur considerandosi responsabile di fornire criteri e metodi, non si aspetta e non intende apparire l’epigono di una cultura borghese d’evasione che per auto-conservarsi escogita espedienti, viziata persino da una concezione metafisica della realtà. Questo denota anche la sua avversione alla pedagogia sistematica. Egli, infatti, non contempla la fine di un rapporto creativo e dialettico tra la soggettività del docente e quella dello scolaro. La pedagogia non può essere sistemica, si tratta di una realtà viva; e, a sostegno di quanto detto, si legge, nelle Vorlesungen: La pedagogia è viva (Pädagogik ist ein Lebendiges): ha per oggetto il vivente, non può essere sottoposta alla forma sistematica. È decisamente meglio che un cattivo metodo e un cattivo sistema didattico siano esercitati da un pedagogo valido, piuttosto che un cattivo pedagogo si serva di eccellenti princìpi oggettivi e contenuti didattici. L’insegnante ne terrà sempre conto, per non abbandonarsi troppo al disappunto e all’opposizione nei confronti delle regole che ritiene inadeguate.24 È opportuno sottolineare quanto Simmel si dedichi allo studio della filosofia, psicologia, pedagogia, storia dell’arte, sociologia: una produzione talmente vasta da ricoprire quasi tutte le scienze umane del tempo. Ma, senza dubbio costui è, dopo Nietzsche, con Hannah Arendt, il “filosofo della vita”25. In Simmel “il concetto della vita tende a conquistare il posto centrale in cui hanno il loro punto di scaturigine e di incrocio la realtà e i valori, tanto metafisici quanto psicologici, tanto etici quanto artistici”26. Pertanto, contro ogni filosofia dello spirito come assoluto e contro ogni assolutista “idealismo attuale”27, si eleva ad antagonista invincibile il nostro “filosofo del forse”28: “la metafisica della vita è utile a dissipare i fiumi e il torpore del narcotico idealistico-assoluto che circola nel sangue di tanti efebi”29; così come Simmel farà comprendere che la “situazione nella nostra civiltà attuale con i suoi urti, le sue spezzature, le antitesi, e con quella multilateralità contraddittoria che, all’interno e all’esterno, ci rende insieme intellettualmente orgogliosi e infelici”30. Nell’ambito di una dimensione critica e conflittuale relativa al tempo storico nel quale vive, prima a Berlino, poi a Strasburgo, il filosofo dell’educazione, si origina come propedeutica la filosofia della cultura, dalla quale è necessario, senonché indispensabile in questo particolare e specifico interesse, rivolgere l’attenzione – per comprenderne il valore – alla

caratterizzazione e all’analisi dell’opera pedagogica di Simmel. La Schulpädagogik è il titolo delle Lezioni, qui affrontate, che tiene all’Università di Strasburgo nel semestre invernale del 1915-1916, un periodo che comprende il primo conflitto mondiale: il mondo è in guerra; ma, nonostante l’uditorio ridotto, Georg Simmel con ligio dovere prosegue e diffonde le sue idee con quella vis creatrix che lo contraddistingue. Leggere tale opera come altri scritti, comprendere l’ermeneutica del linguaggio attraverso la parola che si fa carne e spirito, limitarsi all’individuo e andare oltre ogni limite e confine perché la vita è tutto, risulta essenziale, così come insegnare nell’attuale epoca storica vacillante di valori, di sensi, di “forme” in crisi, ai ragazzi, agli adulti, o anche semplicemente condividere come è stato nell’intento di Simmel e dei suoi allievi. Conoscere la Schulpädagogik dovrebbe essere per giovani, adulti, maestri, studenti, o studiosi, un desiderio inoppugnabile, un’energia insopprimibile, dovrebbe significare quella stessa necessità scintillante che illumina le coscienze e rende pratico il pensiero attorno alle Lezioni che si leggeranno a seguire. È necessario, innanzitutto, mettere in discussione la scuola, come riporta Hauter, attraverso le parole di Simmel: Le lezioni devono avere influsso esclusivamente sul carattere/sentimento principale con il quale la giovane generazione di docenti dovrebbe approcciarsi al proprio impegno. Al posto delle generiche raccomandazioni con le quali si cercava di influenzare le tendenze fondamentali, sforzarsi di illustrare la formazione di concetti concreti guardandola attraverso nuove prospettive,31 oltre alla problematica “pedagogia”: educazione e formazione, discusse nelle Vorlesungen dal filosofo berlinese e riportate in auge, in Italia, grazie a un’interpretazione filosofica e pedagogica curata da Antonio Banfi, mentre, per la prima volta, le stesse sono state tradotte nel 1995 da Francesco Coppellotti e curate da Antonio Erbetta. Schulpädagogik offre dal punto di vista odierno ed evitando di farne un’egoica interpretazione già prevista da Simmel: “so che morirò senza eredi spirituali (e va bene così). La mia eredità assomiglia al denaro in contanti, che viene diviso tra molti eredi, di cui ognuno investe la sua parte in modo conforme alla sua natura senza interessarsi dell’origine di quella eredità”32, l’opportunità di far dismettere il soggiacimento di un’etica della responsabilità e della cura a un’economia utilitaristica, ponendo in auge un

rapporto di fiducia ormai slabbrato tra docente e allievo alla cui magmatica e tragica realtà moderna e contemporanea si è giunti, non essendo più in grado di venirne a capo. Una soluzione definitiva probabilmente non si vedrà, come ricorda lo stesso Simmel; ma, sottolinea uno dei suoi maggiori studiosi Antonio De Simone, si deve sperare nell’“alchimia del segno”, nella capacità di costruire “ponti e porte”33 per far sì che sia ragguardevole osservare la via dell’anima e della vita in una spazialità a-temporale34. Educare e formare a questo è possibile nell’odierno come lo era altrettanto in un contesto drammatico nel quale verteva l’Europa negli anni Venti-Trenta. Le Lezioni erano seguite, amata la vivacità intellettuale di Simmel e tra i suoi adepti vi era anche un folto numero di filosofi e intellettuali italiani, amanti della sua geniale personalità. Vi partecipa per l’appunto, Antonio Banfi, uno dei più importanti filosofi contemporanei dell’Italia che ha seguito il maestro insieme agli amici Confucio Cotti e Andrea Caffi, compagni di studio a Berlino. Banfi dedicherà uno scritto alle lezioni simmeliane, ossia il Pensiero filosofico e pedagogico di Georg Simmel, nel 1931, pubblicato sulla “Rivista Pedagogica”, e poi ripresentato postumo, nel volume del 1961 curato da Giovanni Maria Bertin, La problematicità dell’educazione e il pensiero filosofico/pedagogico di Georg Simmel. Qui, Banfi, “oltre a designare la peculiarità del proprio orizzonte pedagogico, organizza una complessa rappresentazione del pensiero simmeliano, inserendolo come sarà evidente all’interno di un quadro generale della filosofia tedesca contemporanea”35. Dalle lezioni rimarrà ammaliato e infatti, si legge: In piedi, sulla cattedra, segnava in punta di penna l’anatomia sottile dei pensieri e nel silenzio sospeso componeva e scomponeva le fila delle idee, la trama della vita, badando a che nulla si spezzasse. Alla sua parola, la lucidezza dell’idea traspariva in un intreccio di vita sottile, quasi che il suo splendore fosse il fremito teso di mille stami vitali. Amor vitae intellectualis, sentito e vissuto con una tale acutezza di spasimo, ma con una tale serietà d’abbandono da ricordare l’Amor Dei spinoziano.36 Un altro allievo italiano è stato Giuseppe Rensi, il quale ha tradotto per la prima volta in Italia Il conflitto della civiltà moderna del Maestro, Georg Simmel, nel 1925, che qui riprendo perché Rensi affronta la questione del relativismo o meglio del “relazionismo”, in riferimento alla vita e alle sue molteplici “forme”, e coglie, leggendo Il conflitto della civiltà moderna, l’aspetto educativo sull’essenza della vita, il suo valore e la forza creatrice

che si può rintracciare nell’esistenza umana, universale e irripetibile37. Rensi sembra intravedere nel relativismo l’autentica fondazione etica del processo educativo, in quanto in esso si stabilisce quella dialettica tra forma e vita, tra spirito soggettivo e vita, che fa pensare alla Schulpädagogik, nel momento in cui Rensi fa riferimento al momento costitutivo dell’esperienza umana in quanto forma filosoficamente determinata, “processo questo universale e irripetibile”38. Nel numero cospicuo di fedeli sostenitori del pensiero e delle idee simmeliane, è opportuno ricordare Martin Buber che da lui riprenderà il senso e il significato della parola e del “dialogo”39; Karl Hauter, al quale il “pensatore dell’intermedio”40 chiede di pubblicare dopo la morte le lezioni tenute nell’Università di Strasburgo, controllando gli eventuali refusi e indicandogli di riguardare gli scritti in modo tale da comporli nell’ordine giusto, “per eventuali errori tecnici”; aspetto che quest’ultimo non curò affatto, “restando fedele alla scrittura del maestro”41. Nella versione aggiornata della Schulpädagogik42 inoltre, si legge il nome di Gertrud Kantorowicz, amante e allieva di Simmel, incontrata alla Friedrich Wilhelm University dove Simmel era già professore, e dalla cui relazione nacque “la figlia Angela”43. Mai riconosciuta dallo stesso per via della sua posizione riguardo l’etica coniugale, ma la moglie Gertrud Kinel lo scoprirà da Margarete Susman solo dopo tre anni. Sotto la direzione di Simmel, Gertrud Kantorowicz tradurrà in tedesco L’évolution créatrice di Bergson. “Le due donne pubblicheranno in seguito e separatamente un certo numero dei suoi lavori. Numerose allieve del filosofo dell’educazione, tra cui Margarete Susman, erano sue amiche e partecipavano alle serate culturali che organizzava”44. Kantorowicz poetessa, scrittrice, romanziera, interprete di alcuni frammenti delle opere di Simmel pubblicate negli ultimi anni, sottolinea giustappunto la profondità del pensiero del Maestro45. Dell’allievo Hauter invece, si sa che costui lo ha sempre seguito anche dopo la morte, testimonianza un’intervista all’età di ottantatré anni realizzata da Becker, dove si parla di Simmel a Strasburgo e si evince la profonda ammirazione ma anche un certo distacco nelle parole dell’allievo, Hauter nei riguardi del Maestro, Simmel, dovuto probabilmente all’età matura raggiunta da Hauter e forse anche dall’epoca differente nella quale ha vissuto l’allievo, che, infatti, muore nel 1981. D’altro canto, puntualizza Becker nell’intervista su “Charles Hauter”46, preside della facoltà di Teologia protestante all’Università di Strasburgo, “non dobbiamo sminuire il fatto che i ricordi sono ricostruiti, a

sessant’anni di distanza da un testimone novantenne, che li evoca nel quadro del proprio pensiero, quello di un pastore non più esercitante, teologo che, si vede chiaramente quando si parla delle esequie di Simmel, per esempio, confonde ciò che è moralmente accettabile, con quello che lui pensa che sarebbe stato coerente col pensiero simmeliano”47. Si evince inoltre, che Simmel nei riguardi della guerra sia stato favorevole sino allo scoppio del conflitto come una sorta di miglioramento per i tedeschi; una disposizione propositiva sul “fenomeno” guerra è evidente anche nel capitolo otto della Schulpädagogik, sarà così fino a quando poi sarà costretto a trasferirsi a Strasburgo, durante il quale si distaccherà completamente da tali tematiche come quelle religiose, dedicandosi con i suoi allievi alla vita e alla metafisica della vita, la Lebensanschauung. Durante il periodo delle guerre e come sarà anche nel dopoguerra, a proposito di vita, Leben e Schüle, scuola e Lehre (insegnamento) vertevano in circostanze drammatiche. Le condizioni storiche. Si pensi, nello specifico, alla situazione italiana frammentaria e ancora non ben congegnata, per via di un’altissima dispersione scolastica dovuta a una povertà stringente, soprattutto nelle terre del meridione. “Al Sud, infatti, i bambini non potevano andare a scuola, erano altresì costretti ad aiutare le famiglie nel lavoro dei campi, in quanto bisognose di braccia-lavoro”48. Il tasso di analfabetismo variava, tuttavia, di livello da Stato a Stato: “in Italia, nel 1871, la percentuale è del 69 per cento, diminuisce del 58 nel 1901; in Francia, varia dal 40 al 18; in Gran Bretagna si stimò che due terzi degli uomini e il 50 per cento delle donne fossero alfabetizzati, fino a raggiungere addirittura il 93%. La Prussia appare la realtà più alfabetizzata”49. La scuola si rende obbligatoria e gratuita, in Italia con la legge Casati, nel 1859, si insegna a leggere e a scrivere, inserendo come fondamentale anche l’esperienza ludica. Dopo l’Unità d’Italia e nel secolo XX con i conflitti mondiali, la realtà cambia in modo preponderante e catastrofico soprattutto per il Sud, il quale, da Stato egemone nel regno dei Borboni, diviene poverissimo con un elevato numero di mortalità infantile e la stessa alienazione dell’infanzia. è una conseguenza gravissima, un fenomeno diffuso dovuto al fabbisogno per gli adulti di sopravvivere e sfruttare persino la forza lavoro dei bambini. Il bisogno non era istruirsi, ma sfamarsi. Le inchieste di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino del 187650 e quella di Stefano Jacini del 188451 ne sono l’emblema, la dimostrazione di una situazione catastrofica; descrivono per l’appunto un’analisi e una

denuncia delle condizioni di vita degli italiani. Si svilupperà in seguito, nel corso degli anni, una linea pedagogica paternalistica, legata all’esigenza di educare il popolo al senso morale che significa il rispetto quasi sacrale della proprietà, oltre all’introduzione del principio dell’ordine borghese. “Nei congressi internazionali, soprattutto in quello di Berlino, si discuteva di estendere l’età obbligatoria scolare fino a 15 anni; mentre, in Italia si giunse all’età di dodici anni con la ‘legge Orlando’, sebbene la situazione restava pur sempre drammatica, in quanto o si lavorava o si moriva di fame. Un ineludibile rapporto: miseria-analfabetismo, lavoro-fame, Sud-Nord, povertàricchezza, borghesia-sfruttamento”52. Dopodiché, fu attuata la riforma gentiliana che apportò notevoli cambiamenti sino all’avvento del fascismo e all’età delle due guerre. Una tale condizione conflittuale, di crisi, Simmel sembra averla già prevista e con la sua lungimiranza anticipa di gran lunga gli anni successivi a lui, nelle lezioni e negli scritti che grazie ad Antonio Banfi, anche l’Italia ha conosciuto la grandezza della sua poliedrica ed eclettica personalità. Dopo aver affrontato in maniera dettagliata l’individuo e le relazioni sociali nello scritto La differenziazione sociale53, in seguito all’inclusione della psicologia delle donne, della “cultura femminile”54 e la disamina sulla Filosofia del denaro55, perseguendo comunque una visione complessiva, comprende la questione etica e filosofica, analizzando con altrettanta attenzione la sfera educativa proprio nelle Lezioni (qui trattate) tenute all’università di Strasburgo. Occorre educare sin dall’età scolare colui che dovrà diventare un adulto libero e responsabile. Simmel concentra la sua diligenza e passione nella pedagogia, concependo come essenziali la formazione e l’educazione del ragazzo. D’altro canto, le Lezioni raccolte nella Schulpädagogik sono rivolte a valorizzare la personalità del bambino, le sue capacità e competenze, oltre a svilupparne la creatività. Simmel condanna qualsiasi forma di pedagogia che non tenga conto dell’individualità infantile, delle peculiarità dalle quali non si può né si deve prescindere, dell’aspetto vitale e dell’importanza della relazione di fiducia da stabilire con l’adulto. Accusa la società capitalistica, nata con la borghesia proprio nel Novecento e con il progresso scientifico, di insegnare una pedagogia alienante e omologante. Il pensiero educativo simmeliano converge, al contrario, a salvaguardare il singolo, la diversità e a differenziare quella che lo stesso riprende nella Differenziazione sociale come “pleonessia delle masse”, “tracotanza”,

rifacendosi ad Aristotele, e che con Ortega, invece, si giungerà a parlare di “ribellione delle masse”. Si avverte, dunque, in Simmel l’urgenza di creare dei validi scolari autonomi e responsabili, capaci di “pensare e agire”, in una sinergia dalla quale non può esserci frattura, come sarà evidente anche nella teoria filosofico-politica di Hannah Arendt56, ma, ancor prima, dal massimo esponente dello stoicismo romano, Lucio Anneo Seneca, che, in qualità di filosofo ed educatore, sostiene: “la vita è una sola, senza fratture tra pensiero e azione”57. Nella pedagogia, evidenzia Simmel, argomentata nella Schulpädagogik, ogni sapere è un mezzo che mira alla formazione dell’uomo e ha bisogno quindi, di un ordine del tutto diverso da quello in cui è fine a se stesso. All’interno di questa finalità della pedagogia che sono i soggetti umani si aprono indicazioni di carattere soggettivo e oggettivo, il cui chiarimento (insieme alla problematica che ne scaturisce) è indispensabile per un’analisi più profonda dei compiti del pedagogo (infra, cap. 1, p. 82). Riferimenti (anche filosofici) alla storia della pedagogia. Georg Simmel insiste nella partecipazione attiva dello scolaro come soggetto e non come contenitore passivo, il maestro deve educare all’apprendimento tenendo conto delle sue capacità e competenze. Per inciso, non si può non far riferimento alle teorie kantiana e nicciana sull’educazione. Kant nella persuasione che l’educazione sia fondamentale per umanizzare l’individuo, si concentra sull’aspetto etico. L’educazione è affidata in modo privilegiato al maestro, quindi, alla scuola e non alla famiglia58. D’altro canto, Nietzsche, contrariamente a quanto si pensa, lo si può anche considerare un “pedagogista”, ha scritto sull’inaccettabilità dell’ingerenza statale nella scuola e sull’educazione basata su “nuovi valori”, perché si possa creare un “uomo nuovo”59. A loro volta, nella storia della pedagogia, per Pestalozzi e Montessori la figura del maestro, nella pratica pedagogica, rappresenta “colui che, più di altri, ha incarnato nella concretezza della sua storia quel legame indissolubile fra concezione educativa, concezione antropologica e teoria dell’educazione, considerato da Lucien Laberthonnière, il nodo cruciale di ogni riflessione pedagogicamente fondata e, nel contempo, la radice dell’idea che ci si fa dell’ufficio dell’Educatore”60. Pestalozzi, nello specifico, mira a un’educazione che ha le medesime peculiarità argomentate dallo stesso Simmel; infatti, egli intende rendere il bambino attivo e curioso attraverso lo sviluppo delle sue capacità

critiche naturali. Sulla scia di Pestalozzi, che, secondo Martha Nussbaum, si rifà al “metodo socratico”61, o piuttosto riprende la “pedagogia di Seneca”62, la figura del maestro ideale era tanto una figura con tratti materni quanto un pungolatore socratico. Pestalozzi, per l’appunto, sottolineava l’importanza del gioco e la messa al bando delle punizioni che in questi anni erano molto in voga. Spesso, infatti, veniva utilizzato nelle scuole un atteggiamento autoritario e costrittivo. Aspetti che non congegnavano di certo né con l’educazione di Pestalozzi, né con quella di Simmel, il quale a tal proposito, dichiara che l’atteggiamento migliore per un insegnante è quello di essere sì serio e riservato, ma non ostile per non incutere paura: “la punizione (Straf) non deve mai distruggere la fiducia dello scolaro”. E infatti, il tipo migliore di pena (e anche il modo migliore di renderla superflua) è quello che risveglia nel bambino l’intuito (Einsicht) di avere agito in modo sbagliato. Portare il ragazzo a questa consapevolezza significa infatti, che ci si appella a qualcosa di giusto e sano che è in lui (infra, cap. 6, p. 151). In Europa, l’opera che risulta un valido modello educativo è l’Emilio di Rousseau; poi, si può fare un esplicito riferimento a Fröbel, il quale introdusse diverse novità nell’istruzione infantile. Creò infatti, i “Giardini dell’infanzia”, Kindergarten, dove “venivano incoraggiate le potenzialità cognitive dei bambini attraverso il gioco e, in seguito, lo stesso modello fu imitato da Alcott, Dewey, Lipman in Nord America e Tagore in India”63. Ecco, qualsivoglia metodo, quello socratico, in tal caso, o simmeliano nello specifico, sono stati e sono ancora validi, affinché non si accetti né si verifichi che si permetta di soggiogare le menti dei bambini o degli adulti. Nella vita, come nella pedagogia, occorre tenere in considerazione un contenuto soggettivo e oggettivo e valutare la relazione educazione-lezione come dualità all’interno però di un’unità della scuola. Così Simmel si esprime nelle Lezioni: “Deve esserci chiaro che non la coltiviamo qui, […], solo per amore del sapere, come avviene per l’egittologia o la paleontologia: essa è per noi in funzione di una prassi e ne costituisce il fondamento”; come è altrettanto chiaro che la lezione abbia come oggetto il contenuto dell’“insegnamento” (Unterricht), mentre, l’“educazione” (Erziehung), il processo64. Indubbiamente, Simmel, in quanto filosofo, ha saputo accostare le diverse discipline delle scienze umane e osservarle profondamente dall’interno, valutando l’individuo e le relazioni sociali, ovvero il quotidiano,

scrutandone ogni aspetto, mentre egli è stato tenuto in cantina da sociologi e studiosi dell’epoca che, al contrario, ritenevano banale interessarsi dell’ordinario e di affari sociali. Simmel, il primo filosofo e sociologo della modernità, teorico dell’educazione, “prende sul serio le banalità e i piccoli dettagli dell’esistenza pratica quotidiana, considerati ai suoi tempi troppo volgari, insulsi e non sociologici per ricevere l’attenzione degli scienziati sociali”65. Ed è proprio l’attenzione nei dettagli, la sensibilità dimostrata ad aver permesso di vedere ciò che gli altri non hanno saputo cogliere, fornendo per lo più alla Contemporaneità una trama sociale non indifferente da studiare, per comprenderne il tessuto, le dinamiche ridotte a meri meccanismi di utilità e di automatismi come son diventati poi col tempo, artificiosi e farraginosi. Il Maestro è riuscito a carpire l’essenza del Moderno nella frammentarietà e nella complessità delle relazioni di reciprocità, “garanzia di approfondimento delle forme fluide della vita quotidiana come il fenomeno della moda, della civetteria, i sentimenti dell’amore, dell’amicizia, persino i valori del dono, della gratitudine, della socievolezza. Ma non soltanto, ha affrontato persino le categorie del mediatore, del povero, dello straniero, del migrante”66. Schulpädagogik: struttura e caratteristiche. Il vasto pensiero simmeliano può essere compreso senza tuttavia delimitarlo in una vera e propria filosofia della vita, o metafisica della stessa; Simmel è da annoverarsi per l’appunto tra i filosofi della vita. Dal momento che nella Schulpädagogik (Pedagogia della scuola), qui L’educazione come vita. Per una nuova pedagogia della scuola si affrontano nello specifico la questione dell’educazione, della pedagogia, si può parlare a ragion veduta di “pedagogia della vita”. L’educazione è vita che si fa forma. È realtà viva che ha per oggetto il vivente e i compiti del pedagogo sono eterogenei, come educare lo scolaro a essere un soggetto attivo e non un contenitore da riempire. Simmel, infatti, provvede a elaborare un pensiero educativo diverso da quelli confluenti in un’unica pedagogia, cucito meticolosamente addosso al bambino-scolaro, soprattutto, e all’adultomaestro o genitore, concependo l’autonomia del bambino, il dovere e l’autorevolezza dell’adulto responsabile, considerando essenziale non solo la sua funzione di “mediatore”67 e l’oneroso compito di riconoscere le capacità soggettive del discente, ma anche quella di sviluppare l’intuizione interiore dell’allievo, attuando un metodo fondato sulla coerenza. D’altro canto, pur essendo le Lezioni costituite da una serie di argomenti da non pretenderne

una definitiva sistematicità, sono comunque accomunate da un unico motivo fondamentale che è l’a priori educativo: la legge teleologica dell’educazione in generale, vale a dire il naturale determinarsi di un fine dell’attività pedagogica nella sfera educativa attraverso l’esperienza68. Innanzitutto, le Vorlesungen sono raggruppate in una sorta di dualità come lezioneeducazione, attenzione-apprendimento. Ogni lezione educa i giovani a proseguire da soli il processo educativo. Simmel insegna l’autonomia, l’indipendenza del pensiero, e asserisce: Nessuna materia deve essere insegnata ai fini del puro sapere, o perché qualcosa che già si trova in un libro venga inciso in una coscienza nella stessa forma irrigidita. Non deve essere studiato nulla che al di là del suo contenuto sostanziale non offra un contributo alla vita dello scolaro – sia esso un potenziamento dell’energia, che sostiene funzionalmente questo studio, o attraverso il senso ulteriore operante che questo contenuto acquisisce per l’approfondimento e la chiarezza, l’ampiezza e la moralità dello scolaro (infra, cap. 1, p. 92). I cinque capitoli seguenti costituiscono un altro grappolo di insegnamenti in cui vengono analizzati degli aspetti più caratteristici della vita educativa scolastica quali l’attenzione del bambino, la coerenza del maestro, le interrogazioni scolastiche, il giudizio valutativo e le punizioni. Tuttavia, il problema dell’educazione è certamente universale, riguarda la personalità verso la quale Simmel non intende semplicemente una spontaneità soggettiva, ma dall’elevarsi di tale spontaneità si deve giungere all’obiettività, tramite anche l’esperienza, sino a condursi alla vita spirituale, e “non solamente come processo creativo infinito, sempre più vita, ma più che vita uno sviluppo nel suo proprio interno di valori ideali per cui l’esperienza complessa e mutevole trova ordine e significato, fino a far comunicare le anime e ad affermare quello che Simmel definisce il mondo dell’umana cultura”69. L’a priori educativo è imparare a vivere attraverso i princìpi di ordine e armonia che il maestro, educatore responsabile e confidente insegna ai discenti. La vita è tutto. E oltre la vita, probabilmente Simmel da agnostico – come sostiene Hauter – non nega l’eternità come non nega Dio, pur non affermandoli, non è un caso per esempio che affidi l’a priori sociologico alla religione come necessità insita in ogni essere umano per far sì che siano possibili le relazioni, non sufficienti come in Hobbes, in Durkheim, o in Rousseau per autoconservazione o utilità. Seguono, poi, i

capitoli che riguardano la didattica: insegnamento (Unterricht) della lingua, del tema o nel dettaglio, prova tedesca (Vom deutschen Aufsatz), lo studio della storia, senza che manchino le altre discipline scolastiche come l’arte, la poesia, la geografia, le lettere classiche. L’ultimo capitolo concerne il momento dello sviluppo dell’unità personale e perciò, dell’etica, del saper agire in modo retto e responsabile, pur sempre libero. “La libertà è infatti una condizione presente nella responsabilità, senza questa non si può essere liberi”70. “Senza la responsabilità, l’esperienza di libertà sarebbe vuota, come del resto tutta la relazionalità umana, la quale di per sé implica l’apertura all’altro da sé e al mondo”71. In conclusione, o per meglio dire in Appendice alla Schulpädagogik, Simmel tratta, in tempi non facili né tantomeno aperti ai venti dell’azione, persino l’educazione sessuale in virtù del temprare la personalità individuale capace di vivere, di saper tramutare dignitosamente la propria esistenza in vita, insegna inoltre, a usare il proprio corpo e la mente, gestendo le emozioni, senza vergogna o finzioni. Simmel cerca, utilizzando sempre un condizionale e mai un imperativo categorico, o un obbligo, di indirizzare l’adulto a insegnare al bambino di essere libero e responsabile, parimenti si può dire di Hannah Arendt con la sua filosofia politica, forse perché entrambi vivevano la medesima condizione complicata di paria72, stranieri in patria in conflitto anche loro tra privato e sociale, tra intimo e pubblico, in crisi con il tempo storico vissuto. Una crisi che perdura nel secondo millennio, la cui causa dovrebbe ritrovarsi probabilmente anche nell’assenza di etica. Non è fortuito che il filosofo in questione abbia trattato anche dell’etica, dedicando dapprima una conferenza a tale problematica, pubblicata da Kurt Gassen come L’Etica e i problemi della cultura moderna. Ma, ancora prima, Simmel ne affronta il contenuto in Introduzione alla scienza morale73 e ne La legge individuale74. Contro ogni formalismo etico di tipo metodico razionale, il filosofo pone al centro la vita e superando la legge etica kantiana, considera libertà, uguaglianza, essere, dovere, soggetti a sollecitazioni interne ed esterne atte a generare conflitti; necessari in quanto vita che “in ogni possibile sfera, si ribella contro questo suo dover scorrere in forme fisse di qualsiasi specie”75. Esiste, infatti, un’assolutezza, sì, ma deve essere chiaro all’individuo moderno che non si può comprenderla totalmente per far sì che si possa evitare il tragico conflitto. Esso in concomitanza con un non rispetto dei limiti infatti, comporteranno la drammatica realtà della prima guerra mondiale, e l’incapacità di pensare, di ricoprire ruoli, affidando agli

altri o a uno solo la propria libertà. Ecco perché, anche e soprattutto, si desume dalle Lezioni simmeliane, che le scuole debbano favorire la libertà incoraggiando il libero pensiero. D’accordo in questo, filosofi come Arendt, Einstein, il quale afferma: “solo se la libertà esterna e quella interiore vengono coscienziosamente e costantemente ricercate vi è la possibilità di uno sviluppo e di un perfezionamento spirituale, e perciò di un miglioramento della vita materiale e interiore dell’uomo”76. La libertà è indispensabile: è vitale anche nella comunicazione, ma non può esistere senza responsabilità e la vita di Simmel, come quella di molti altri intellettuali, ne sono l’emblema. E come conseguenza al conflitto, Simmel affronta il problema della crisi; emergono, studiando le Lezioni della Schulpädagogik, la doppiezza dell’esistenza individuale, la comprensione della dualità non accettata in quanto libertà e uguaglianza, o libertà e responsabilità, sino inoltre, a sostenere che la libertà comporti anche l’agire e il senso del dovere. È d’obbligo sottolineare che lo stesso, pur parlando di crisi, non inserisca mai il termine dissoluzione o distruzione, non dimostri di essere una personalità nichilista, né conservatrice, ma liberale, nella misura in cui la realtà, le forme che la caratterizzano vengono esaminate come sono. Si accorge che i problemi della cultura moderna attanagliano l’etica perché “la libertà si presenta come la possibilità della plasmabilità del centro della vita, la vita più armonica è una vita più libera”77; ma, nello stesso tempo, risulta complicato considerare un’etica dell’universalità. L’etica comune contrappone l’uno all’altro: vita e dovere appaiono dei nemici. Questa è stata la grande lacuna di quelle teorie che non hanno saputo conciliare realtà e dovere contenuti nella vita, tale dualità della vita è, per l’appunto, propria dello spirito. Essere e dovere sono soltanto forme diverse dell’enigmatica vita. Si legge allora ne L’etica e i problemi della cultura moderna: “Se invece si riconosce che realtà e dovere sono fondati sulla base della vita, allora anche il dovere non è più un fenomeno legato al contenuto, bensì un fenomeno funzionale della vita individuale. Per esprimersi con un’immagine, il dovere è disegnato al di sopra o anche in ogni umana esistenza e realtà come con linee ideali, dunque immediatamente legato con la realtà”78. In tale modo, è possibile una vera responsabilità. Simmel è convinto, tuttavia, che l’equazione libertà e felicità non sempre sia possibile: “qui come

altrove non è detto affatto che la libertà dell’uomo si debba manifestare come un sentimento di benessere nella sua vita affettiva”79. Questa penuria accade quando la libertà non pone dei limiti e non è responsabile; in tal caso, Simmel allude sì alla vita delle metropoli, intuendo con il suo acume forse anche l’epoca del totalitarismo, che da lì a breve avrebbe avuto inizio. L’etica, aggiunge, non ha mai trovato espressione di tutto l’io nell’azione; in ogni attimo, infatti, agisce l’uomo e non una parte di esso, ovvero la ragione o la sensibilità, e qui emerge la questione anche della coerenza discussa nel testo analizzato sulla teoria educativa. “Se un uomo è avaro non è avara soltanto l’avarizia ma tutto l’uomo. Come la vita non è una somma di frammenti, così anche il dovere è qualcosa di unitario, nato dalla vita totale”80. Anche i doveri sono in conflitto: considerando quello materiale o quello meramente spirituale, ogni attimo l’umanità è in conflitto; e dunque, la differenza sta nel divenirne cosciente. C’è poi il conflitto dello spirito soggettivo e oggettivo e, di conseguenza, della cultura che costituisce la sintesi di soggettivo e oggettivo. Il conflitto è anche nella scuola in cui l’io si forma e tanto più unitariamente si vuole formare l’io, tanto più sarà ricco di conflitti. Laddove profondamente “ogni impressione affonda nella vita interiore, tanti più conflitti sorgeranno, ma anche l’uomo si sentirà unità. Il conflitto è appunto la forma in cui l’io si forma e si contrappone al mondo. L’anima è ciò in cui ha luogo la lotta e la pace”81. Si tratta di una nitida analisi dell’essere umano, dell’individuo che spesso non vede i conflitti solo perché accetta i compromessi. L’assolutezza delle pretese ucciderebbe la vita, ma non conosciamo la misura relativa. L’uomo etico, per l’appunto, sbagliando, pone la pretesa dell’assolutezza, per ignoranza, creando tutti quei conflitti che sembrano turbare l’io, non essendo cosciente che è proprio il conflitto a costituire l’io, la persona. Tuttavia, nonostante “il conflitto sia la scuola in cui l’io si forma”82, Simmel all’interno delle Vorlesungen cura, ai fini di un valido processo educativo, l’aspetto etico, concependolo indispensabile al bambino che impara così a vivere, a sviluppare sentimenti altruistici, di cura e rispetto all’interno di una comunità organica che è la scuola. È parte integrante dunque, del proprio essere il principio di responsabilità, che diventerà “etica della responsabilità”83 con Jonas e Arendt. È necessario, dice Simmel, che “i bambini imparino a farsi del bene reciprocamente e ad aiutarsi, piuttosto che sia facile al docente

trovare il giusto voto per i suoi scolari in aritmetica o in latino” (infra, cap. 10, p. 189). Come accadrà per le lezioni tenute a Strasburgo sulla pedagogia, pubblicate dall’allievo Karl Hauter, parimenti, quelle riguardanti l’etica sono state raccolte insieme e pubblicate da un altro suo discepolo, Kurt Gassen. Anche lui come Banfi descrive il Maestro dotato di fascino nell’esposizione e infatti scrive: “Incatenava all’attenzione con esposizioni sempre piene di spirito e profonde, esposte con uno stile ricco di periodi, difficile ad abbracciarsi in un solo sguardo, richiedeva doti elevatissime di mobilità spirituale, capacità deduttiva e finezza di discernimento dialettico. Avevo circa vent’anni quando ascoltai nei tre anni 1912-1914 cinque lezioni di Simmel e affascinato […] non mi lasciai sfuggire una sola parola e presi appunti senza apportare mutamenti al testo da me ora elaborato dopo trentacinque anni”84. Così il Maestro per quanto riguarda l’educazione morale discussa nelle Lezioni cerca di andare oltre l’aspetto individualistico, sostenendo come per l’individuo è essenziale l’altro, e dunque, anche su tale obiettivo da raggiungere dovrebbe impegnarsi la scuola, dal momento che sono i maestri e gli alunni a formare una scuola, come gli individui a fare la storia. Autonomia, creatività, libertà, responsabilità sono i contenuti delle Lezioni simmeliane qui discusse e sono soprattutto, le quattro parole chiave sulle quali si costruisce la personalità. E infatti, è l’elevarsi di una certa spontaneità a centro originale dell’obbiettività che diviene elemento della sua esperienza e motivo della sua attività. In altre parole, la vita personale, in quanto vita e vita spirituale non è solamente sempre più vita, processo creativo infinito, ma più che vita, uno sviluppo cioè nel suo proprio interno di valori ideali per cui l’esperienza complessa e mutevole trova ordine e significato. Ora, evidenzia Banfi, “questo elevarsi della personalità alla sfera dell’universale, attingendo in essa più vigorosa energia per l’affermazione della propria individualità, avviene non su una semplice univoca direzione, ma con il risultato dell’agire e del reagire verso le cose e gli eventi”85. Pertanto, nella costruzione della personalità giova anche l’affiorare e il radicarsi di sentimenti altruistici poiché si segua il fine di creare una comunità organica. L’idea cardine dell’educazione simmeliana è caratterizzata, come più volte ribadito, dall’autonomia dello scolaro che deve essere raggiunta con l’aiuto del maestro e dal sentimento di fiducia che in tale rapporto dovrebbe

nascere e consolidarsi. E perciò, per quanto riguarda le sanzioni, o in tal specifico caso, l’eclettico filosofo insiste sulla questione “fiducia”: Dire bruscamente in faccia al bambino: “tu menti!” ha un effetto distruttivo che suscita comprensibilmente ostinazione e testardaggine come ultimo istinto di autoconservazione. Piuttosto si indaghi e si parli in modo che lo scolaro capisca che l’insegnante sa che egli ha mentito (infra, cap. 6, p. 151). Simmel distingue inoltre, nella Schulpädagogik, la colpa dalla punizione: la prima è periferica, la seconda è qualcosa di più generale. “Non la leggerezza o la brutalità peccano, ma l’uomo, ed è giusto che il peccato nella periferia trovi la propria punizione al centro” (infra, cap. 6, pp. 152-153). Riconoscendo tale rischio, bisogna essere quindi più prudenti e dosare le punizioni, in modo tale che le forze di questo centro non vengano soffocate ma ravvivate e perseguano la giusta strada della correzione. E dunque, evidenzia Simmel: la scuola non deve rientrare nella categoria di luogo di punizione e lo scolaro non deve pensare: “questo è il posto in cui devo stare per una trasgressione”. Non si può suscitare questa associazione (infra, cap. 6, pp. 154-155). È imprescindibile dal rapporto maestro-allievo il sentimento di fiducia, come si è detto, e questo è attuabile nel momento in cui si registra nel comportamento dell’insegnante la “coerenza”. Un altro aspetto essenziale per capire il senso della vita e il significato del vivere: essere coerenti nell’odierno appare una chimera. Ineffabile utopia. Cos’è la coerenza, Simmel lo spiega in modo esaustivo e lo traduce come attitudine dell’educatore: libero e tuttavia attento ad ascoltare la volontà del fanciullo, perché il bambino acquisti energia, vis medicatrix, non la disperda e alimenti la fiducia in sé. Tema affrontato nel terzo capitolo delle Lezioni che in tedesco rende ancora più specificatamente rispetto all’italiano: Von der Konsequenz. Tutto deve essere una conseguenza, vale a dire “di equilibrio e armonia secondo un ordine universale”. Non ci sono possibilità di fraintendimento. Simmel non lo permette, né tutela la figura del maestro o pedagogo intrisa di responsabilità nei confronti di chi educa. Il bambino va rispettato nella sua integrità. E dunque, la vita abbraccia sì, gli errori, senza però ricevere deviazioni. L’insegnante può procedere in due modi: può riprendere le piccole

colpe, obbiettivamente, e lasciare la reazione puramente morale al bambino. Se il bambino nel complesso è equilibrato, la situazione in tal caso assume nel modo più veloce il giusto significato; e provoca il giusto effetto. Il docente può anche agire come se non avesse notato nulla (infra, cap. 3, p. 131). Questo comportamento, descritto da Simmel, può avvenire solo se si tratti di una situazione unica e passeggera; in caso contrario, infatti, il ragazzo può sentirsi stimolato a ripetere l’errore. È preferibile, comunque, dimostrare una “sovranità”86 che lasci capire allo scolaro che non può colpire il suo docente. “L’individualismo”87 è qualcosa che si oppone alla concettualità della coerenza puramente oggettiva, razionale. Pertanto, non può prevalere nella vita perché in questo modo non solo vien meno la coerenza, ma lo stesso equilibrio dell’individuo nella società. Occorre mediare. Il maestro ha l’onere di mediare il suo compito di “sovrano”, meglio educatore e amico, confidente. Non c’è autorità, ma autorevolezza; non ci sono punizioni o costrizioni, ma richiami, sollecitazioni ad agire nel modo migliore possibile e a permettere al bambino che si auto-corregga. Nella scuola, sembra di capire, “leggendo Simmel”88, in quanto luogo di formazione ed educazione, che debba prevalere un clima di serenità perché si possa lavorare bene: i maestri non si sentano sovrani assoluti, né inutili soggetti assoggettati a un programma, a compilare carte, a realizzare progetti senza soddisfare e raggiungere un obiettivo primario che non deve essere altro che vivere, imparare a vivere. I ragazzi non sono contenitori da riempire, come ripetevano spesso anche pedagogisti di fama quali Comenius, Pestalozzi, Fröbel o Montessori, ma persone, individui dotati di pensiero, come insegnano anche i filosofi greci; anzi, meglio, l’intera filosofia, sino alla contemporanea. La filosofia è “un temperamento visto attraverso un punto di vista”89, afferma Simmel, è un pensiero libero da ogni presupposto, prenderne coscienza è essenziale in ogni grado della vita intellettuale, affinché, come Banfi scrive, attraverso le parole di Simmel: “le nozioni acquisite non si cristallizzano dogmaticamente, ma si dispongono in una struttura elastica: dà in altre parole al pensiero quell’agilità e freschezza che è la condizione di una cultura veramente umana”90. Occorre ribadire però, che la determinazione personale o soggettività non è sinonimo di arbitrio, di oscillazione dell’umore soggettivo, né dipende dalla mera singolarità delle vicende psichiche individuali. La posta in gioco,

secondo uno dei maggiori interpreti di Simmel, De Simone, è un’altra: “l’anima, inesprimibile con i concetti tradizionali”91. Questo tertium datur92, o “terzo regno”93 è quella “tipicità” che contraddistingue l’umano e lo differenzia anche in ambito educativo tra gli scolari, la particolarità consente loro di vedere il mondo nella sua complessità, come insieme di frammenti e non, invece, di coglierne una sola parte. Un mondo nuovo al quale confluisce la vita. La via che vince giungendo a ciò che Simmel chiama “autotrascendenza della vita”, individuando nelle fenditure dell’anima il “sentimento dell’unità”94. Egli, pertanto, insiste sull’aspetto umano, sull’umanità costituita da individui e società. La cultura umana non concepisce un metodo, come la pedagogia ha fatto credere per lunghi anni, o la finta e viziata cultura borghese. La cultura è arricchimento, è crescita, è creatività. Si genera, così come al contempo, si forma un adulto attraverso domande; ecco anche perché Simmel, nelle sue Lezioni, critica aspramente le domande schematiche e le risposte mnemoniche e, infatti, si legge: Le risposte frammentarie dei fanciulli al gioco di botta-risposta (KlippKlapp-Spiel) devono scomparire sempre più dalla lezione, per lasciare il posto a un’espressione continua e coerente degli alunni. I bambini devono essere educati a raccontare (infra, cap. 4, pp. 133-134). Dal momento che il punto di partenza per la teoria educativa simmeliana è sempre il fanciullo e la sua esperienza, allora, il maestro dovrebbe preoccuparsi affinché l’arricchisca di osservazione e analisi. Per far sì che questo strumento si realizzi c’è bisogno anche della lingua. Prima di tale lezione, Simmel affronta nel secondo capitolo “L’attenzione e l’apprendimento”: “autentici oggetti della tecnica didattica psicologica”95. Egli insiste molto sulla capacità dell’insegnante di ottenere l’attenzione, di saperla gestire, sostando sul ritmo, il tempo, e quindi, l’attesa, finanche la pausa. Inoltre, raccomanda di “sottolineare, non troppo spesso, ma comunque con fermezza i limiti del nostro sapere e comprendere. Rispettare serenamente l’imperscrutabile, non per scoraggiare l’alunno nella sua incapacità di raggiungere l’irraggiungibile, ma per spingerlo a ottenere quanto gli è possibile conquistare”96. Altri argomenti ai quali il filosofo, psicologo e pedagogo dedica attenzione all’interno delle sue Lezioni sono: “La lingua e le lingue”, così come “Le domande”, proprio perché è essenziale la comunicazione come trasmissione e comprensione; nella completezza, peculiarità del pensiero simmeliano, si inseriscono anche il raccontarsi, la

capacità creativa di parlare di sé e per l’allievo l’opportunità di essere accolto come “persona viva”. Risuona come eco assordante il concetto di persona e vive in ogni capitolo delle Lezioni tenute all’Università di Strasburgo. Si legge: Die Sprache ist ein Mittel in unzähligen teleologischen Schicten des Lebens, von der oberflächlichsten bis zur fundamentalsten, zugleich aber immer Zweck, ihre sinnvolle Schönheit, ihre Anmut und Würde, ihre Klarheit und ihre Mystik, ihre Kraft und Tiefe ist ein Wert, der sich selbst genug tut; denn sie ist seine Kunst, und Kunst ist “überall am Ziele”, sie, als Kunst, dient nicht (7. Kapitel, Von der Sprache und der Sprachen). Qui, tradotto: La lingua è un mezzo su infiniti piani teleologici della vita, dal più superficiale al più fondamentale, ma al tempo stesso è sempre scopo, la sua bellezza sensibile, la sua grazia e meraviglia, la sua chiarezza e la sua mistica, la sua forza e profondità sono valori che bastano a se stessi perché si tratta di un’arte, e l’arte è “ovunque alla meta”; essa, in quanto arte, non serve (infra, cap. 7, p. 157). La lingua è non solo la parte nel tutto, ma il tutto è nella parte. Questo sembra rispecchiare il “principio ologrammatico” di Edgar Morin nel definire la “complessità”97, che invece Pascal configura in una dualità asintotica. Si tratta, pertanto, di una definizione aulica della “lingua”, in quanto considerata da Simmel “ritmo essenziale dello spirito”, ed è cultura: sintesi di raffinatezza e sviluppo di una spontaneità espressiva che conducono a “essere ciò che si è”. La lingua giova al processo di conoscenza, riconoscenza e autoriconoscimento che può rendere possibile “un’identità indipendente dallo sguardo dell’altro, oltre il conformismo”98. Il giovane, dunque, conosce e si conosce attraverso la lingua, mettendo in dialogo e in comunicazione le anime. Per tale nobile meta, non si può accettare l’uso di un linguaggio schematico a scuola senza ricchezza né valore personale oppure, ancor peggio, il linguaggio retorico di luoghi comuni e delle frasi fatte. L’uso scolastico del linguaggio retorico è inespressivo. Insegnare l’esercizio della lingua, del tema e della storia appaiono condizioni indispensabili per formare un ragazzo a divenire un adulto responsabile. Simmel insiste sulla purezza della lingua tedesca nello specifico e, infatti, si legge: È importantissimo che l’insegnante curi la lingua tedesca non solo nelle ore di tedesco, nelle sfumature e nella ricchezza delle flessioni che

cominciano a morire nella nostra fretta americanizzante, nell’applicazione alla semplice prassi, – che punta sempre al massimo della brevità –, e nel lessico dei giornali. Le proposte di lingue universali sono la continuazione dello sviluppo iniziato perché in esse le parole definiscono solo il nucleo logico più indispensabile dei concetti, e uno dei loro sostenitori definisce perciò, l’arte come spreco di energie. Con ciò si annulla la bellezza propria della lingua che diventa “mezzo” nel senso più basso del termine, cosa che da un punto di vista pedagogico dovrebbe essere assolutamente evitata (infra, cap. 7, p. 157). Si oppone il filosofo berlinese al meccanicismo praticato a scuola sia per quanto riguarda la lettura sia per la lingua, insistendo, giustappunto, sulla creatività e, infatti, nel “Tema”, nello specifico delle Vorlesungen nella “Prova del tedesco”, lo scolaro può far sfoggio di questo grande strumento, “la lingua”, se solo le tracce dettate dal maestro non siano “rigorosamente determinate”. E infatti, bisogna che i temi di tipo generale riflessivo consentano sempre diverse prese di posizione individuale. È bene lasciare allo scolaro la possibilità di uno svolgimento libero e originale per il quale deve assumersi la completa responsabilità e che deve difendere con le proprie forze. Da un punto di vista etico questo è molto educativo, e la guida a ciò deve spingersi solo fino al punto in cui – in relazione alle età – può intervenire la libertà dello scolaro. Egli imparerà che le affermazioni non possono essere fatte a vanvera, ma che bisogna garantire per esse; ma d’altra parte, quanto può essere sostenuto, può anche essere confermato. È fondamentale che lo scolaro esprima i propri pensieri e sensazioni. Compito della scuola è formarlo in modo tale che essi siano accettabili e razionali (infra, cap. 8, p. 167). Il maestro, così chiaramente descritto da Simmel, dovrebbe, dunque, vigilare e tentare di far comprendere all’allievo quanto sia importante la sua creatività perché esprime la propria identità, il proprio sé e, al contempo, quanto sia essenziale gestirla e imparare a essere responsabili. Il bambino come l’adulto è caratterizzato da impulsi e ragione. È ciò che li rende vivi. Ma, è anche questo l’obiettivo da raggiungere per l’allievo a scuola: imparare a vivere. Pedagogia e vita. “Partire dalla vita è una condizione fondamentale”. Infatti, Simmel lo dimostra anche nella Schulpädagogik, e si legge:

“L’insegnante non perda occasione per indagare le esperienze dello scolaro, per dare loro un senso, un nesso, una valorizzazione interiore ed esteriore. Dovrebbe inoltre, verificare lo spirito filosofico per il quale da ogni punto dell’essere superficiale parte una linea retta collegata alle profondità fondamentali. […] Ad esempio, un’ottima prova sarebbe La passeggiata99 di Schiller, o anche La campana; le poesie filosofiche di Schiller dovrebbero essere curate con la massima ampiezza nelle ultime classi” (infra, cap. 1, p. 94). Questo denota l’importanza della vita nel pensiero simmeliano e, in particolare, quanto sia considerevole educare attraverso la pedagogia e la filosofia, parimenti con la poesia, perché, in tal modo, si aiuta a raggiungere le profondità, a cogliere la totalità attraverso i dettagli e a dare un contenuto non esplicitamente e unicamente nozionistico, tenendo lontano la vita, la realtà, ma cogliendone invece una sorta di parallelismo, o meglio dualità, essenza di tutto l’impianto del pensiero simmeliano. Un carattere dualistico che investe una logica interna di sviluppo di ogni istanza e che, però, è “conflitto nella vita come in tutte le forme”100. È chiaro che educare un bambino sia un’impresa difficile, formare il giovane sino a garantire poi di proseguire in autonomia il processo educativo. Pertanto, Simmel consiglia di muovere dalla vita come educazione fondamentale e, dunque, come esperienza, senza tuttavia trascurare il momento del “gioco” (Spiel) e il mondo della fiaba, parte essenziale di un percorso formativo del bambino, sulla quale pare doveroso soffermarsi. Si legge, infatti, a proposito della “fiaba” nel primo capitolo delle Vorlesungen: La fiaba (das Märchen) non ha un significato pedagogico, nel senso di preparare il bambino al mondo dell’adulto. Dispone piuttosto della struttura immanente dello spirito infantile, porta il bambino a un certo completamento, totalità, forma ideale del suo modo di pensare, si definisce e giustifica in funzione del bambino in quanto tale e non in quanto futuro adulto. Per questo viene rifiutata dai pedagoghi che vogliono educare i fanciulli solo come candidati al mondo degli adulti. Meumann rifiuta le fiabe perché sarebbero “innanzitutto un patrimonio non elaborato, relativamente estraneo al bambino di intrecci immaginativi, che il fanciullo non è in grado di valorizzare nella vita”. Come se ci fosse solo un’esistenza esteriore! Come se il bambino non fosse in grado di sfruttare nel modo più intensivo la fiaba per la sua vita interiore.101 Attraverso le “fiabe”102, come sottolinea Simmel, i bambini esprimono la

loro interiorità. È difficile considerare per il maestro il potere immaginifico che il bambino possiede; non è un caso, infatti, che Simmel insista su questo aspetto: non perdere di vista l’intuizione interiore del bambino, del giovane e svilupparlo, farlo crescere affinché si realizzi in un abbraccio armonico e ordinato della complessità. Nella Schulpädagogik Simmel argomenta l’esigenza di parlare di persone vive, sottolineandolo più volte, per l’appunto, individui caratterizzati da interiorità, spirito, anima, portatori di valori e sentimenti; ribadisce come la lezione non debba essere un semplice trapianto di contenuti conoscitivi, ma una funzione che porta con sé il contenuto, il quale non dovrebbe consistere in una forma rigida e chiusa in sé, bensì dissolversi nell’attività dell’insegnante. E un altro aspetto da sottolineare è che dallo scritto emerge la liberale anima simmeliana, la poliedricità e nobiltà d’animo. Infatti Simmel, oltre a non accettare il carattere punitivo e coercitivo della scuola, si esprime puntualmente utilizzando un condizionale italiano, o un futuro intenzionale inglese, mai compare nel testo un dovere come obbligo, un “tu, devi”, kantiano. Dall’Introduzione sino all’Appendice vi è uno stile persuasivo ma non condizionante, appunto, educativo e formativo, ma mai “deformante”, senza sfociare nella coercizione o in faziose parole tipiche di una cultura borghese che lo stesso Simmel detestava. E per di più, la magnanimità del filosofo berlinese si denota anche nell’attenzione all’estetica, al Bello, trattata in un passo preso come riferimento della Schulpädagogik, qui tradotta: La formazione estetica dell’allievo non necessita di una particolare lezione di storia ed estetica delle arti figurative e no. In quasi tutte le materie si presenta l’occasione di formare il senso estetico. Si dovrebbe formare in ogni materia un nucleo intorno al quale, senza sfiorare le sue caratteristiche particolari, si raggruppano in genere tutti i valori pedagogici: quelli morali, quelli religiosi, gli interessi culturali generali, l’aspetto linguistico e quello estetico. Ogni materia deve essere considerata – ogni volta con colori diversi – come un microcosmo di tutta la pedagogia. Come in ogni ora devono venire coltivate le qualità etiche dell’oggettività, dell’attenzione, della veracità, così deve accadere per le altre qualità dei valori. Infine, il docente dovrebbe essere in grado di guidare all’osservazione delle opere d’arte e allo scopo sono buone occasioni l’ora di storia e quella di religione, anche le visite ai musei, che in inverno potrebbero sostituire

le gite all’aperto. L’educazione estetica visiva è un punto malamente trascurato della nostra educazione. È inaudito che i giovani a scuola imparino della grecità solo quello che si può leggere, ma non l’infinitamente più immediato e più convincente di cosa si può vedere (infra, cap. 8, p. 172). Simmel, come è noto, estende l’esperienza estetica in ogni aspetto della vita, nella natura, nel “paesaggio” e l’argomenta in molti altri scritti103. L’estetismo, sostiene Troeltsch, è la cifra del suo tempo: “la lirica di Rilke è per lui la religione del presente”104. Tuttavia, senza incappare in critiche relativiste, si evince nell’interpretazione di De Simone una visione nitida e accurata di ciò che Simmel intenda per estetica, per arte e per bellezza attraversando “le grandi città storiche italiane del Rinascimento e dell’antichità”105, il paesaggio, la natura che si scoprono osservandoli dal vivo e non sui libri. E infatti, si legge in Roma, Firenze, Venezia, testo simmeliano, interpretato da Massimo Cacciari: “la bellezza è sempre forma di elementi che in sé le sono indifferenti ed estranei e che soltanto nel loro insieme acquistano valore estetico. La singola parola, il singolo frammento di colore, la singola pietra, il singolo tono mancano di valore estetico. L’unità che plasma e forma ogni particolarità e ne costituisce la bellezza sopraggiunge come un dono che nessun elemento singolo potrebbe di per sé ottenere”106. La formazione estetica del giovane oltre a riguardare l’arte, la poesia, la lingua e le lingue, la prova di tedesco, la cultura classica, comprende anche la storia. Sa bene il poliedrico Simmel quanto sia complicato insegnare la storia ai bambini che non conoscono il tempo nella sua complessità se non quello che vivono: il presente. Per tal motivo, invita gli insegnanti a raccontare la storia, a narrarla in un certo modo. Stupisce Simmel quando nel capitolo nove delle Vorlesungen dice: Si consideri sempre che il ragazzo è un essere del tutto non storico, assorbito dal presente e che è possibile gettare un ponte tra lui e la realtà storica solo facendogli vedere che gli stessi valori e interessi, che lo avvincono nel presente, sono dati anche al di fuori di esso. Il valore atemporale unisce presente e passato e deve essere sicuro affinché il bambino acquisti interesse per i loro collegamenti, il loro situarsi nel tempo, le condizioni. Si cerchi, se qualcosa va bene, di rinunciare all’aneddotico: si eviti quanto sia collegato solo esteriormente (in

particolare in forma aneddotica) con l’argomento autentico come per esempio le biografie dettagliate degli scrittori. Ma non si perda mai d’occhio che alla fin fine si tratta dell’unità della vita in sviluppo; innanzitutto, occorre, finché si fa riferimento ai singoli paragrafi, alle singole storie, che ogni singolo sia trattato come un tutto contestuale, e questi tutti devono poi essere a poco a poco uniti finché nasca quell’immagine così difficile da comprendere per i giovani, di una vita temporale complessiva dell’umanità. Perciò, è necessario evitare le domande sui singoli atomi di una storia, sia che mirino a completarla o a chiarirla, sia che si tratti di una verifica cosicché la domanda del docente contiene tutta la frase e si interroga solo su un chi? – come? – che cosa? – dove? – verso dove? (In particolare le domande qua e là su periodi molto diversi). Il bambino dovrebbe imparare una storia articolata come un’unità, non avere l’impressione che sia formata da frammenti. Se la storia è troppo lunga per essere recepita come unità, il docente la deve presentare in un primo tempo con un racconto breve, volto a illustrarne solo il nucleo, ne anticipi casomai il lato principale, e quando si è formata questa epitome, la ampli gradualmente, ma in modo che lo scolaro sia cosciente della connessione organica di ogni singolarità con il processo centrale, e che nulla rimanga fuori atomizzato. La separazione mediante domande su componenti isolate favorisce al massimo questa meccanizzazione e questa frantumazione (Lezione di storia, cap. 9, pp. 175-176). E ancora, Nonostante tutte le sue difficoltà la storia è uno dei mezzi più irrinunciabili della Bildung. Le materie storiche, cioè quelle il cui contenuto è la volontà e il sentimento dell’umanità non possono per questo essere sostituite da nient’altro, perché solo con esse si forma la cultura dei valori (infra, cap. 9, p. 179). Durante lo stesso periodo in cui Simmel affronta le Lezioni di pedagogia a Strasburgo, inserisce anche quelle sulla storia, tra il 1916 e il 1918, infatti, “affronta il problema storico del tempo, necessario di comprensione complessiva”107. Simmel è concorde con Dilthey108 nel ritenere che il “compito della storia è quello di conoscere non solo l’oggetto del sapere, ma anche del volere e del sentire; tale compito è assolvibile partecipando in una qualche forma di trasposizione psichica, con la volontà a ciò che viene voluto

e col sentimento a ciò che viene sentito”109. Aggiunge Giacomini: “La peculiarità della comprensione storica risiede nell’assumere e tenere insieme identità e differenze dei vissuti, immedesimazione, estraniazione”110, abbracciando l’identità dei protagonisti e riconoscendo che sarà possibile comprendere lo stato d’animo altrui, solo avendolo esperito in precedenza. Nella filosofia della storia intercorre anche la psicologia e lo sviluppo psicologico di essi. Parallelamente alla Lezione di storia, contenuta nella Schulpädagogik, si inseriscono quelle sulla geografia e la matematica: La lezione di geografia deve partire dall’edificio scolastico, dalla strada, dalla città – deve prendere come punto di partenza il clima particolare, la vegetazione, le condizioni di luce, le configurazioni del suolo, in breve ciò che è visibile-spaziale (Sichtbar-Räumliche), per poter giungere tramite la modificazione di ciò che è noto a una certa intuizione di quanto è estraneo. Il senso di questa lezione deve essere che lo scolaro si orienti sulla terra, come quello della lezione di scienza dello spirito è che si orienti nel mondo spirituale. La lezione di geografia non dovrebbe rinunciare mai al rapporto con la patria dello scolaro, cioè con l’ambiente che è sempre o spesso visibile. Quando si trattano i paesi stranieri la patria dovrebbe venir sempre ricordata almeno per un confronto (Vergleichung) di strade, di caratteristiche del paesaggio, di prodotti culturali, ecc. Non per uno sciovinismo o per un patriottismo campanilistico, ma perché questo risulta essere il mezzo adeguato per gli obiettivi pedagogici, anche se vanno al di là della realtà della patria, e per la tecnica didattica (infra, cap. 9, p. 178). Poi, Simmel spiega anche il significato educativo della matematica: “la sua purezza e la possibilità di raggiungere lo stesso risultato partendo da punti diversi”. Nel capitolo dieci, l’ultimo, in sostanza, prima dell’Appendice sull’educazione sessuale, Simmel affronta un altro argomento a lui confacente: l’educazione etica. Tuttavia, preme sottolineare che proprio come il filosofo detestava la sistematicità, la meccanicizzazione che rende il tutto vuoto e sterile, compresa anche la vita, essendo tutto vita, – dipano e spiego, cerco per quanto possibile di togliere le “pieghe”111 – senza aggiungere nulla di quanto non sia stato già detto dall’eclettica personalità, ma seguendo il suo ritmo, la sua interiorità, la sua alternanza, e dunque, andando oltre l’ordine formale del testo che si leggerà dopo siffatta introduzione. Le Lezioni di

Simmel non sono didascaliche. Ognuna ha un valore a sé ed è necessaria a creare armonia e ordine secondo i princìpi universali che lo stesso stabilisce costituiscano la vita, più che vita. È inoltre, opportuno sottolineare come l’individuo sia considerato non solo in questo testo un intreccio di realtà e possibilità. Eppur tuttavia, l’unico protagonista delle relazioni sociali, della comunità, della storia. L’individuo non è una monade, ma la somma e il prodotto di svariati fattori. È libero, e si differenzia nella società; certo non può diventare l’unico alla maniera stirneriana o “questo singolo”, per dirla kierkegaardianamente, né accettare l’assoluta conformità con gli altri, ma differenziarsi all’interno dell’unità. Un’educazione attiva si concilia con una “vita attiva”, e qui non si può non far riferimento ad Hannah Arendt, sebbene anche lei sosterrà insieme a Simmel nel periodo maturo dei suoi scritti, la crisi e il conflitto della vita che condurranno a rinchiudere l’individuo nella famiglia, come ultimo rifugio, limitando la comunicazione, il rapporto con gli altri, le relazioni vitali. La famiglia assumerà con l’avanzare della borghesia e di una società capitalistica, il controllo sociale delle affettività e quindi, di socializzazione: “Quanto più attività produttiva erode lo spazio della vita individuale razionalizzando e mercificando i bisogni personali, tanto più la vita familiare acquista per gli individui la funzione di protezione dallo strumentalismo al mondo esterno”112. Lo spazio è sempre l’esito di relazioni reciproche. È il principale movente che guida Simmel: “avere una costellazione di relazioni e azioni reciproche cogliendone la forma materiale, e quindi in primo luogo le specifiche determinazioni e configurazioni spaziali”113. All’interno di uno spazio sociale si interpola la relazione dualecorrispondente del maestro e dell’allievo, nell’ambito del quale l’adulto si pone come educatore responsabile, mediatore e confidente. Qui, è opportuno evidenziare come intende Simmel la presenza del mediatore, che non è il tertium datur quale appare nelle “cerchie” sociali allargate, né uno spettatore che potrebbe attentare alla privacy, ma è lo stesso maestro che si impegna a mediare la sua attività con quella esperienziale del ragazzo, attento ad aver cura e a non soffocare la creatività e “spontaneità dell’anima infantile”114. Educare, pertanto, secondo la pedagogia simmeliana, significa saper vivere. Il fondamento della teoria educativa è la vita e anche in una comunità organica quale è la scuola, ciò che è di pertinenza è per l’appunto imparare a dare valore al pensiero, all’azione come esperienza, alla vita, sviluppando la propria spontaneità soggettiva nell’oggettività all’interno di una Vita da

amare, per “diventare”, come Nietzsche sosteneva, “ciò che sei”. “L’educazione è essenzialmente un’opera condotta secondo lo spirito dell’individualismo poiché essa deve guidare ciascuno al grado più elevato, per lui possibile, di formazione spirituale”. Nel pensiero simmeliano, l’educazione costituisce la cultura di un individuo e l’etica, in parte trasferite dalla famiglia, dalla società e dall’ambiente nel quale si vive. Ecco perché Georg Simmel considera fondamentale osservare la persona nella cerchia delle relazioni umane e conoscerne la quotidianità. Attraverso le Vorlesungen si riesce a comprendere quanto siano fondamentali: educazione, etica, cultura, ciò che si identificherà come pedagogia, filosofia, sociologia, psicologia. Osservando il dispiegarsi delle relazioni tra individuo e società, inoltre, si scoprono il mondo interiore, la profondità, quel dualismo che va dalla superficie al profondo presente nell’individuo e nelle relazioni sociali, divenendo poi conflitto, assume toni tragici e senza soluzione apparente. Simmel è stato, senza dubbio, lungimirante nel prevedere con la nascita della borghesia, la rivoluzione industriale, l’epoca di dissoluzione della saggezza, “la conflittualità tra spirito soggettivo e spirito oggettivo, così come le conseguenze psicologiche della crisi del lavoro intellettuale all’origine dell’età contemporanea”115. Crisi che, nell’epoca borghese, “avrebbe comportato l’alienazione assoluta della vita e lo smarrimento dell’attore sociale, incapace di agire e di comunicare”116. La comunicazione è, invece, indispensabile ed è parte integrante dell’educazione di un individuo. Tuttavia, le parole, aggiunge Martin Buber, altro allievo di Simmel, non sono indispensabili semplicemente per comunicare; si tratta, infatti, “di una messa in gioco dell’umanità dove uomo-donna sono in relazione con il mondo, con la natura, col divino”117. L’attore sociale di Simmel, pertanto, diventa una proiezione dell’intellettuale estraniato, del quale manifesta le caratteristiche oggettive che vanno dall’indisponibilità affettiva all’incomprensione della realtà sociale in cui sono in gioco interessi materiali. Perciò, per salvaguardarsi, la tendenza obbligata della cultura borghese diventa la finzione, l’esaurirsi dei rapporti sociali nelle convenzioni, lo svuotamento di contenuti nelle relazioni sociali; il contrario di ciò che Simmel ha cercato di trasmettere all’uditorio, augurandosi che ai bambini e agli insegnanti giunga un’educazione vera, sincera, fondata sulla fiducia e sull’abitudine al dialogo, necessario per comunicare. Un’educazione etica è intrisa di rispetto, di cortesia. Una vera e propria

Lezione di morale (Von der sittlichen Erziehung): Bismarck disse una volta che uno dovrebbe, anche quando è sopraffatto dall’ira, essere cortese. L’insegnante deve ricordarlo. Soprattutto, dovrebbe possedere egli stesso la cortesia che educa i giovani (infra, cap. 10, p. 182). Inoltre, Non si dovrebbe mai pronunciare la parola stupidità di fronte a uno scolaro; perché la stupidità dello scolaro non è un oggetto di rimprovero per chi ne è affetto. La “stupidità” è qui un insulto che non dovrebbe mai comparire (infra, p. 182). In tal modo, sembra evidente che la pedagogia sia indirizzata per far affiorare sentimenti altruistici e creare in siffatta maniera una comunità organica di insegnanti e allievi che devono seguire una finalità comune. Purtroppo però, “la scuola, così come è ora, con la preoccupazione della valutazione individuale, non costituisce una comunità organica, e non solo raramente giova, ma qualche volta ostacola lo sviluppo dei sentimenti altruistici”118. L’insegnante incoraggia il comportamento dello scolaro a volte nel modo migliore ponendosi per così dire sul suo stesso piano – da qui può tendere nel miglior modo la mano. Il docente in genere deve avere vicino gli occhi sempre entrambi gli atteggiamenti possibili: stare di fronte all’alunno come rappresentante di uno strato superiore, autoritario – o stare con lui su uno stesso livello, che nella sua totalità riconosce sopra di sé un ideale supremo, un compito supremo. Nella maggioranza dei casi le due possibilità si confondono e compenetrano, e l’una abbraccia sempre anche l’altra. Bisogna determinare precisamente se l’accento cade sull’uno o sull’altro atteggiamento. […]. Insegnare allo scolaro il rispetto, al quale si oppongono spesso l’incontrollata forza vitale e la presunzione dei giovani, il loro tendere all’illimitato, è il mezzo migliore, se il docente non solo predica questo rispetto, – ma si dimostra pieno di esso – senza formularlo sempre astrattamente. È opportuno che l’insegnante sia cortese verso gli allievi, mantenga la buona forma e saranno anch’essi così verso di lui. I giovani devono piegarsi alla forma sociale superiore, non hanno nessun mezzo contro di essa. Tuttavia dovrebbe essere anche realmente la buona forma (cioè piena di contenuto) non la farsa. Ci si deve guardare

sempre dall’essere cortesi in senso ironico, la cortesia deve essere sempre seria (ernst) (v. infra, p. 182). Un altro compito oneroso spetterebbe all’insegnante: dimostrare nella quiete autorevolezza. Simmel pertanto, nelle Vorlesungen “accentua il valore dello spontaneo processo di sviluppo individuale, contro la comune persistente direttiva”119. Le Lezioni sembrano rivolte al bambino e all’adulto in egual misura, seppur con differente entità. E ancora, il pedagogo dovrebbe sapere che non solo l’agire nasce dall’atteggiamento, ma che anche l’atteggiamento nasce dall’agire. “È una buona pratica essere cortesi, insegnare a far del bene agli altri, ad amarli, ad amare il lavoro, a diventare diligente e ad assumere un atteggiamento rispettoso nei confronti degli altri, in modo tale da imparare ad avere il rispetto interiore proprio e dell’altro”. Sono bandite, inoltre, la finzione e la menzogna, le quali, tuttavia, prenderanno il sopravvento comunque per sfuggire al dramma della modernità. La “menzogna”120 è identificata per l’appunto, nella metropoli, simbolo di finzioni sociali e di menzogne che mirano alla forma e all’apparire, in tal senso, “Simmel cita Venezia come simbolo allegorico, mero artificio, che esprime unicamente la bellezza della maschera. La sua immagine esprime la crisi e il conflitto della Kultur, non la sua utopia, la sua forma”121. Si legge infatti: “che la nostra vita sia questa facciata dietro la quale sta come unica cosa certa la Morte, questo è il fondamento ultimo della doppiezza della vita. E Venezia è l’equivoca bellezza dell’avventura, ondeggia nella vita senza radici, come un fiore strappato nel mare […] Non poter essere patria per la nostra anima, ma avventura soltanto”122. Con l’utilizzo dell’“allegoria veneziana”123, il filosofo tedesco identifica la crisi della cultura, una crisi anche dell’etica che coincideranno con la modernità e lo si legge soprattutto nelle ultime opere di Simmel come Le metropoli e la vita dello spirito (1903), L’etica e i problemi della cultura moderna (1913), mentre, ne l’Intuizione della vita (1918) si assiste a una filosofia della vita che “vibra incessante e tende all’infinito, alla vita dell’anima, in qualsiasi senso sia creatrice, sta il suo prodotto solido, idealmente immutabile, con l’effetto inquietante di fissare quella vitalità, anzi di irrigidirla; spesso è come se la mobilità creatrice dell’anima morisse nel proprio prodotto. Da ciò dipende una forma fondamentale del nostro soffrire a causa della nostra caducità, del nostro dogma, delle nostre fantasie”124. E aggiunge: “la vita, quale che sia la misura assoluta, può esistere solo in

quanto vita in generale sussiste, essa crea qualcosa di vivente, infatti già l’autoconservazione fisiologica è produzione continua di nuova vita: questa non è che una funzione esercitata accanto ad altre, bensì solo così facendo la vita è appunto vita”125. Se è compiuta la demarcazione della vita nell’ultima opera l’Intuizione della vita, appare chiara come nucleo fondativo anche nella teoria della pedagogia, nella quale Simmel considera la vita il fondamento della teoria educativa, la vita è il tutto, l’eterno (αἰών), essa ritorna in sé come Dio ritorna in se stesso nell’Amor Dei spinoziano. A sostegno di ciò, si legge sia nel Frammento sulla libertà sia nel Frammento sull’amore, entrambi pubblicati nel 1922: “la vita non è una sintesi di finito e infinito, ma la matura unità della vita. La vita rivela ciò che è più che vita”126. Tramutare la propria esistenza in vita è un grande atto di dignità dell’uomo, e Simmel declara ciò in tutti i suoi scritti, prima ancora parole, idee che si ergono sulla costruzione, sull’evoluzione, creazione, giammai sulla dissoluzione o distruzione. Tutto muove dal particolare, individuo-vita, all’universale vita, spirituale, finanche divina. La vita personale è vita e vita spirituale ed è in uno sviluppo continuo, come un’“evoluzione creatrice” à la Bergson, tenendo in considerazione i valori universali che costituiscono un a priori (termine kantiano, molto caro a Simmel e frequente negli scritti Schulpädagogik e Die Religion), la vita, ordinata armonia e creazione, e dove appunto, l’esperienza complessa e mutevole trova ordine e significato. In tal caso, le anime comunicano e si costituisce il mondo dell’umana cultura. Di conseguenza a ciò, Simmel anela al trionfo della cultura e all’ideale della pura umanità. Banfi, riprendendo le parole del Maestro, afferma come la “cultura non sia un semplice possesso di contenuti del sapere e neppure il semplice essere, ma piuttosto un sapere penetrato nella vitalità dello sviluppo soggettivo dell’individuo e la cui energia spirituale trova la concretezza in una cerchia quanto possibile vasta e sempre più estendentesi di contenuti ricchi di valore”127. “Meglio definita come incontro e questi è ben riuscito quando la persona viene non soltanto divertita ma anche sfidata, non soltanto istruita ma anche potenziata, impara delle nozioni ma diventa anche molto più consapevole e più raffinata, grazie a ciò che apprende ed esperisce nell’entrare in rapporto coi prodotti dell’attività intellettuale ed estetica di altri”128. Inoltre, la cultura è intesa come coltivazione, raccolta, allo stesso modo è ripresa tale definizione da Adolfo Zamboni nell’Introduzione a Le passioni dell’anima di Cartesio129, e

da Arendt, come “Cultura animi”130, mente coltivata. Significa infatti, uno stretto legame con l’agricoltura, attività che i romani tenevano in molto rispetto, a differenza delle arti poetiche e figurative. Il concetto di cultura per l’appunto, si formò in un popolo eminentemente agricolo e le connotazioni artistiche eventualmente legate a questa cultura richiamavano il rapporto quanto mai stretto che i latini intrattenevano con la natura, la creazione del famoso paesaggio italiano – che lo stesso “Simmel aveva conosciuto durante i suoi viaggi”131. Come ha scritto anche Hannah Arendt: “Per i Romani l’arte nasceva spontaneamente come la campagna e doveva essere natura coltivata, fonte di ogni poesia”132. E dunque, filosofia, cultura, educazione, conducono al fondamento della teoria educativa che è la Vita. Vivere significa anche essere responsabili prima che liberi. La responsabilità è la categoria originaria dell’essere e il valore. Il dovere è la categoria originaria del pensiero come scrive Simmel nell’Introduzione alla Scienza morale133. È opportuno appalesare che nelle Vorlesungen che Simmel dispensa ai suoi allievi a Strasburgo nel 1915-1916 non solo si affrontano gli argomenti, ma sono anche ben spiegate la didattica, la lingua, la storia, il tema; nell’elaborare una nuova pedagogia, finanche in appendice, Simmel affronta la questione dell’educazione sessuale. Il filosofo osserva inoltre come la modernità è la causa di effetti irreversibili; gli statuti del soggetto e dell’individualità sono modificati secondo direzioni che sembrano spezzare o incrinare il primato dell’auto-trascendenza della vita. La modernità si è ingannata quando ha chiesto agli individui di affermare e perseguire a tutti i costi la libertà senza responsabilità, come detto poc’anzi, adattandosi a una visione meccanicistica della realtà, sgravando il soggetto dal peso di compiere delle scelte dopo avergli chiesto di divenire il creatore della propria esistenza, ma la stessa “libertà senza responsabilità viene privata della sua base”134. Il moderno rappresenta “la dissoluzione dell’identità personale e insieme il problema di una nuova identità. Convivono in una stessa epoca il fatto della disunità e l’istanza all’unità, la crisi e il bisogno del suo superamento”135. L’uomo moderno dovrebbe essere sostituito dall’uomo nuovo. Occorre dunque, un equilibrio, indirizzare verso un ordine universale e “fondare la libertà nella responsabilità”136. In una società della crisi, governata da una pedagogia e cultura di “massa”137, dalle quali il poliedrico pensatore rifugge, Simmel sviluppa una consapevolezza per la quale nessuna concezione etica o metafisica possa pretendere di trascendere i conflitti e le

aporie del moderno. Egli anzi, giunge addirittura a tradurre il conflitto in una vera e propria concezione “tragica della cultura”138. Il paradosso della cultura consiste nel fatto che la vita soggettiva, che noi avvertiamo nel suo scorgere incessante e che preme per un impulso interno verso la propria perfezione, non può raggiungere questa perfezione, dal punto di vista dell’idea della cultura, rimanendo in se stessa, ma solo percorrendo quelle forme divenute estranee e autonome nella loro cristallizzazione. Alla vita soggettiva finiscono così per contrapporsi quelle forme in cui il soggetto trova la possibilità stessa di esistere. Di fronte alle vibrazioni incessanti della vita, i prodotti culturali si pongono come ostacoli contro cui si frange l’idea stessa di vita: spesso è come se la mobilità creatrice dell’anima morisse nel proprio prodotto139. Sia la scissione sia la tragedia della cultura appaiono alle volte come caratteristiche universali, altre invece sfociano in una separazione incolmabile e irreversibile tra soggettività creatrice e oggettivazione dei prodotti culturali, come nel caso del denaro, della moda o della metropoli, per i quali Simmel dedica a ciascuno uno spazio ben dettagliato e dai quali emerge nettamente lo studio sull’individuo e sulla società e le problematiche derivanti. In un’altra opera140, costui scriverà invece che la cultura è sintesi di soggettivo e oggettivo. Ecco perché l’individuo va studiato in tutto il suo essere e in ogni sua manifestazione, anche in qualità di realtà e possibilità, determinato dai rapporti di reciprocità con altri uomini, ripensando il concetto società in “associazione”141 o “sociazione”142, ossia un evento che accade con l’essere in interazione dei soggetti: “La società è solo il nome in cui si indica una cerchia di individui, legati uno all’altro da varie forme di reciprocità, la cui unità è la stessa che si osserva in un sistema di masse corporee, tali da influenzarsi a vicenda e comportarsi secondo la determinazione che ricevono”143. Nell’associazione si realizza la socievolezza come forma ludica dell’associazione. È una possibile soluzione al problema della società e al rapporto-contrapposizione con l’individuo. Tuttavia, la socievolezza rappresenta il modello ideale, in quanto può realizzarsi allo stato puro; il rischio è invece quello che si trasformi in caricatura o pettegolezzo, cosa che può accadere quando essa venga rappresentata non come puro “gioco” fine a se stesso, ma con scopi ulteriori da parte dei partecipanti. La reciprocità, da categoria fondamentale per vivere in società e, dunque, in famiglia e a scuola, può diventare, da modello educativo, una pericolosa tragedia per la società

che sarà costituita da finte relazioni a uso e consumo di particolarismi individuali e drammatici utilitarismi. Questo comporterà ciò che Dal Lago definisce “una tragedia senza eroi”144. La modernità assurge a luogo e spazio di conflitto. L’individuo moderno diventa un raffinato prodotto di un’articolata differenziazione sociale, perde il proprio ruolo di soggetto invaso da una razionalità priva di coscienza che tende ad aumentare e a invadere sempre più sfere della vita e dell’attività umana. La razionalità mira a diventare priva di senso e si insedia in automatismi e supporti materiali: denaro e tecnica, in primis, che conducono l’individuo in una situazione tragica. Pertanto, la questione fondamentale appare non quella di come sopravvivere, bensì di come non sotto-vivere, ossia tentare di non soggiacere rimanendo al di sotto delle proprie possibilità inespresse. Bisognerebbe, quindi, mettere in condizione di sfruttare la ricchezza della propria soggettività, vale a dire tutto ciò che caratterizza una persona rispetto a un’altra, e dell’oggettività, riguardante le forme che costituiscono il mondo moderno. Simmel è ben consapevole che il limite, sebbene l’uomo moderno e contemporaneo evitino di considerarlo, c’è ed è la morte, anzi caratterizza l’umano. I limiti ci sono e risultano essenziali come presenze anche nelle Lezioni, perché secondo Simmel fanno crescere i bambini, gli scolari che sollecitati dal maestro dovranno avere “coscienza del limite”, in modo tale che l’interesse sia tenuto desto, non si cristallizzino le conoscenze acquisite e il pensiero acquisti freschezza e agilità: condizione di una cultura veramente umana. Si educa il bambino perché diventi ciò che è: un adulto libero e responsabile. È indicativo dunque, ciò che si andrà a leggere in questo testo riguardo l’educazione e con riferimenti espliciti anche all’etica, nell’ambito della quale si inseriscono non solo l’aspetto individuale e della reciprocità, costanti presenti nella Sociologia di Simmel, ma si parla persino del valore di scambio che il denaro può assumere tra i bambini: Il docente favorisce gli scambi tra i bambini! Francobolli, libri, oggetti curiosi. In questo modo viene inculcato il valore oggettivo delle cose, a differenza della compera che lo estingue. Trasmettere continuamente l’intima mancanza di valore del denaro. Lo scambio alimenta la mescolanza tra giustizia e affermazione del proprio vantaggio, la cui formazione forte e onesta è della massima importanza. Inoltre vincolo sociale importante, l’azione reciproca, prima di diventare intellettuale, si rivolge giustamente agli oggetti esterni. “Ci piace che nella vita scolastica

la bontà e il cameratismo si affermino così spesso anche contro i divieti della scuola, per esempio quando i compagni si aiutano nei compiti a casa o suggeriscono in classe, ecc. Il bambino impara così a sacrificarsi e a correre dei rischi per il prossimo. È però deplorevole che queste azioni altruistico-sociali divengano così spesso sotto la pressione degli ordini scolastici inganno e offrano l’occasione alla menzogna” (infra, cap. 10, p. 188). La personalità simmeliana si manifesta obiettiva ed esperisce ogni aspetto della vita. Per questo si può certamente affermare come sia propenso e fiducioso a educare alla vita: Educazione come vita. Si può insegnare e imparare a vivere; a tal punto, si concluderebbe il ciclo spinoziano dell’Amor Dei: la vita come una sorta di divenire cosmico, insieme biologico e spirituale, in una più ampia cornice all’interno della quale particolare attenzione sembra essere riservata al processo di costituzione della cultura e alle problematiche a esso connesse. “La vita è, al contempo, ininterrotto fluire e forma definita, è qualcosa che ha preso forma, si è individualizzata intorno a un nucleo centrale e perciò, vista nell’altra direzione, una struttura sempre limitata che oltrepassa continuamente la propria limitatezza”145. La vita ha un valore notevole se la si confronta con e si conosce la morte, come momento necessario per considerare il limite, la finitudine, l’essere caduco non immortale. Essa nel suo movimento tende verso l’assoluto e parimenti verso il nulla. La morte invece, abita sin da principio e per sempre nella vita, ne è il momento formale costitutivo. Per il Cristianesimo, in particolare, la morte è solo del corpo, in quanto la vita dell’anima è eterna146. Mentre, Simmel osserva: “Il segreto della forma sta nel fatto che essa è limite. Essa è la cosa stessa e ad un tempo il cessare della cosa, il territorio in cui l’essere e il nonessere più della cosa sono una cosa sola”147. In realtà, “vita e morte stanno su un medesimo gradino dell’essere, come tesi e antitesi”148. La questione principale risiede nel fatto che l’uomo debba rassegnarsi alla morte, affinché non continui ad andare controcorrente, o a sfuggirgli, sopravvivendo. In tal modo, non si conferisce la giusta attenzione e considerazione alla vita, svantaggiandola, si percepisce la morte come forma limitante di essa. Una costruzione del pensiero siffatto sembra possa ricordare il pensiero filosofico di Bergson, Goethe, Kant o anche Nietzsche, sebbene Simmel cerchi di superarli fornendo possibili risposte attraverso la Sociologia149. La volontà di vita di Schopenhauer è vicina all’idea di vita di Simmel,

quantunque nel primo è evidente la continuità senza limiti, nel secondo invece, l’individualità nella limitatezza della sua forma. Tuttavia, è la vita stessa a costituire l’assoluta unità delle due, vita e morte, e sfugge quando gli individui concepiscono unilateralmente l’autotrascendenza della vita nella forma della volontà. La vita comprende due definizioni complementari, è piùvita e più-che-vita: è in ogni istante unica e irripetibile ed è per questo osserva Max Adler, “Simmel mostra che solo rivolgendosi alla nostra soggettività, cioè solo stando in ascolto di tutte le voci che risuonano nella nostra anima, solo portando attenzione al modo multiforme in cui siamo collocati nella vita, possiamo scorgere l’autentica oggettività della vita”150. Da qui, al contempo, scaturisce l’assioma della metafisica simmeliana, non corrispondente al “penso, dunque sono” di Cartesio, né al “penso, dunque esisto” di Kant, ma al “vivo, dunque se non altro c’è vita”. Il pensiero di Georg Simmel si spinge oltre, dietro l’uomo, oltre il suo aspetto puramente intellettuale e l’antropomorfismo che si scorgeva nelle filosofie cartesiana e kantiana. La vita, dunque, come realtà immediata è totalità e incompiutezza, in ogni suo momento è intera e perfetta, diventa un incessante fluire e ondeggiare tra nascita e morte e in questa contraddizione si colloca la posizione dell’uomo nel mondo. La vita però, è anche concepita come “trama di relazioni, azioni reciproche, pulsioni, desideri, affetti, disegna forme oggettivate che solidificano in altrettanti spazi, su tale gioco incombe inesorabile il rischio che queste forme finiscano per ingabbiare e intrappolare quelle relazioni e quelle percezioni”151. Sembra che Simmel veda qui il topos tragico della modernità. Simmel però ha a cuore il valore della personalità e il suo concretizzarsi individualmente, comprende anche come l’individuo non abbia capito di avere un limite: la morte, senza la quale, nemmeno la vita ci sarebbe. L’uomo contemporaneo, a ben vedere, non si è lasciato convincere dalla morte, rimanendo sordo agli inviti della filosofia umanistica o antropologica. È giunta la crisi della morte, o meglio la crisi della cultura contemporanea152. Il singolo ha abbracciato l’idea di farsi intrappolare dal suo stesso relativismo, assolutizzando il proprio io. E anche quando l’individuo tedesco si subordina a delle leggi, a delle forme, a delle totalità in modo disinteressato, è posto di fronte a una responsabilità che si sviluppa da un centro che appartiene solo a lui, mentre invece nell’ideale classico o latino dell’individualità, la responsabilità costituisce in una certa misura uno stile generale e un’ideale legge formale condivisa che costituiscono il tipo e l’idea

sovraindividuale di tale individualità153. È evidente che tale tendenza a far prevalere il proprio io non appartiene solo all’individuo tedesco, ma a ogni essere umano. Imporre la propria “Herrschaft” (regola) potrebbe comportare nient’altro che la distruzione di sé e del pianeta. Non di certo in questa modalità si generano le Vorlesungen, all’interno delle quali Simmel intende salvaguardare la libertà dell’individuo, il suo differenziarsi nel limite della stessa vita e nelle relazioni con l’altro, salvaguardando in modo responsabile il proprio io. In sostanza, nettamente opposta è la modernità dove il singolo entra in conflitto con tutte le forme non accettando il limite e spersonalizzandosi, privilegiando la tecnica e non il pensiero. Verrà fagocitato dalla stessa e dal dio denaro, onnipresente e onnipotente come l’unico Dio. Simmel, come è noto, ha dedicato in più un’intera opera al denaro, tant’è che è stato definito un “apologeta del denaro”154; in realtà, egli, da sociologo, filosofo, osservatore attento della verticalità e orizzontalità delle “cose” (Sachen), compie un’attenta e dettagliata analisi su questo simbolo che regge ogni tipo di relazione umana. Da puro “mezzo”, indifferente a qualsiasi scopo e oggetto privo di qualità, diventa il più potente fattore oggettivante, servitore universale che a sua volta assoggetta l’uomo al mondo delle cose, il mezzo che diventa assoluto ed esautora qualsiasi fine di natura personale. Annulla persino la libertà dell’individuo, strumentalizzata dallo stesso mezzo che diventa il soggetto: il denaro. Simmel non interpreta soluzioni, come già accennato, non intende porsi quale risolutore delle problematiche della vita, lo dice esplicitamente nella Schulpädagogik, ma in realtà in nessuna sua opera si evincono evidenti soluzioni, forse perché da uomo libero non potrebbe imporre limiti o soluzioni dogmatiche agli altri, lasciando la possibilità di scegliere e di attuare una decisione attraverso una coscienza critica e del limite, o come direbbe Kant, a un’“ermeneutica della finitudine”. La vita ha un valore inestimabile, pare voglia dirci giustappunto questo, il caro filosofo. È crescita, mai dissoluzione o distruzione. È rinnovamento infinito. E infatti, valutando il vasto dinamismo culturale che risiede nella personalità di Georg Simmel, non si può certo rischiare di definirla o circoscriverla a una determinata appartenenza; tuttavia, una prima considerazione da argomentare è l’attento studio sull’individuo, sulla società in virtù dei quali si conoscono persino le relazioni con la famiglia che diviene

il principale strumento di controllo sociale e dell’affettività, unico oggetto di bisogno degli individui. Mentre nella Schulpädagogik, Simmel, accanto al ruolo della famiglia, pone centrale la figura del maestro; in realtà, nelle sue precedenti lezioni, si era soffermato interpretando analiticamente l’individuo e la famiglia, che nell’impossibilità di forme pubbliche di solidarietà offre agli individui un modello di vita non strumentale e insieme le possibilità di manipolarsi reciprocamente155. La “famiglia”156 diviene l’unica istituzione in cui è possibile esprimere gli affetti e lo strumento che media l’affettività e prepara l’ingresso nei ruoli e nell’attività produttiva. I futuri membri della società imparano così l’uso delle maschere da indossare nelle molteplici attività professionali e nelle istituzioni. “L’intimità domestica si rivela così come un rifugio non fonte di appagamento ma di tensione157. Se nell’epoca moderna la famiglia costituiva un luogo di formazione e secondo Simmel, nelle Vorlesungen deve esserlo soprattutto la scuola, nella contemporaneità tale punto di riferimento addirittura scompare. Innanzitutto, la famiglia pare non abbia più le caratteristiche del passato e i ruoli di padre e madre non sono più nettamente definiti. La famiglia ha subìto una metamorfosi, un cambiamento radicale, non esiste un tipo patriarcale o una forma matriarcale, ma, nella famiglia odierna, i ruoli sono diventati mutevoli e plasmabili e impongono un costante confronto, una costante rinegoziazione tra uomo e donna. Il fatto sociale di stare assieme viene equiparato a un diritto e, quindi, si cerca aiuto all’ordinamento giuridico. Se ne deduce un individuo costantemente in conflitto con una personalità liquida; sono evidenti un rifiuto di responsabilità e una mancanza di solidarietà: gli individui sembrano nati nel vuoto generazionale e destinati a finire in un altro vuoto generazionale. Esiste tuttavia, una famiglia di fatto, una “famiglia autopoietica”158, vale a dire un gruppo di persone che si auto-crea, autodefinisce. Non si accettano le differenze, si annullano, omologando come è costume dall’intero mondo occidentale globalizzato; mentre, le differenze esistono e vanno riconosciute, ed è qui che risiede la grandezza del pensiero simmeliano. Le diversità si riconoscono e si tutelano. E allora, occorrerebbe un’educazione mirata anche alle affettività, ad accogliere le differenze riconoscendone il valore e la diversità e a migliorarare gli individui in una società multiculturale quale è la nostra. La cultura è indispensabile per evitare di creare “uomini senza passato”159, irresponsabili e impersonali. Dovrebbe consolidarsi la necessità di “pensare”160, in modo libero e critico, di

ricostruire su valide basi istituzioni come i genitori e la scuola in modo tale che la società non sia una massa informe. Nella prospettiva simmeliana, la famiglia è essenziale sia come luogo di cultura sia di educazione e di vita, per di più Simmel conferisce alla scuola il luogo per eccellenza dove al bambino dovrebbero essere assicurate l’educazione e la formazione per divenire un adulto libero e responsabile. Simmel aveva designato una modernità caratterizzata da conflitti, che sembra impossibile risolvere alla maniera moderna; si può rettificare, in realtà, perché si possono risolvere, ma mai definitivamente, accettando le dovute contraddizioni dell’individuo per superare le crisi e non cadere in visioni apocalittico-nichiliste; riconoscere i limiti è possibile e rappresenta un fondamento essenziale dell’educazione simmeliana. La pedagogia di vita è un esempio da considerare per sanare la realtà scolastica, le riforme dell’istruzione che tralasciano, ed è evidente, i saperi umanistici. La conciliazione tra umanesimo e scienza è una concreta e valida soluzione, dal momento che l’opacità comunicativa, il dominio delle forme, il regno dell’indifferenziato non hanno più ragione di esistere; mentre, le humanae litterae e le scienze dovrebbero riemergere per combattere al cospetto della cultura una stessa battaglia, difendendo la libertà della ricerca scientifica e la libertà della ricerca umanistica dal servile e obnubilante “mezzo”, “il denaro”, un principio utilitaristico che si contrappone alla legge kantiana161. Nell’ambito di questo dualismo non antitetico, si interseca la pedagogia considerata dal filosofo berlinese una realtà viva, come vivi sono gli attori sociali: scolaro, insegnante, giovane, adulto, affinché una visione futura sia possibile come parte integrante di un tempo della complessità che ci appartiene: il dettaglio è fondamentale per conoscere il tutto. Presente, passato, futuro: bambino, adulto, vecchio, in aperto dialogo e confronto continuo con la totalità, solo così la società potrà considerarsi matura e completa. Nella completezza si interpola la parte conclusiva delle magnifiche Lezioni impartite da Simmel, riguardanti l’educazione sessuale, “Anhang über sexuelle Aufklärung”. Egli non espunge tale complicato argomento dalla teoria educativa, anzi, insiste sulla questione, invitando non solo la casa a interessarsene ma anche la scuola. La sessualità non viene scacciata dalla vita come il suo nemico, cosa di cui si vendicherebbe con l’inevitabile risentimento dello straniero (paria), ma ogni discorso su di essa la deve assumere nella vita, e solo così può

nobilitarla per i suoi valori e le sue forme significative (App. sull’educ. sess., infra, p. 198). Evitare il discorso potrebbe essere dannoso per i fanciulli in quanto affrontato tra coetanei in modo erroneo, crea nei ragazzi ancor più confusione. Per questo, dovrebbe in ogni caso essere trattato prima che inizino le pulsioni della pubertà, in questa fase, infatti, lo scolaro non nutre un vero interesse soggettivo, ma accoglie tali pulsioni; e ancora, aggiunge Simmel: La cosa migliore sarebbe che l’esposizione avvenisse nell’ora di storia naturale; quando il docente spiega la fecondazione delle piante, può anche senz’altro alludere a quella degli animali e può partire dalla riproduzione degli animali più infimi per operare così un passaggio il più possibile continuo e privo di sorprese. (Si deve sottolineare il meno possibile il maschile e il femminile dal punto di vista umano). Quando poi passa alla separazione del maschile e del femminile, che è nota a ogni bambino dal regno animale, può aggiungere senza mutare per nulla il tono: “Allo stesso modo è per l’uomo” (App. sull’educ. sess., infra, p. 194). Si comprende come anche il tono della voce è essenziale e va curato, ci sono dei modi da rispettare per comunicare correttamente senza annoiare per quanto riguarda le letture, le ripetizioni, (argomento affrontato nelle Lezioni precedenti all’Appendice sull’educazione sessuale) e nel caso specifico, evitando un’ironia improduttiva. Il maestro pertanto, ha grande responsabilità. Un ruolo centrale, ad esempio, non è rivestito nell’opera De Magistro di S. Agostino162, che, rispetto alla figura del maestro delineata da Simmel nella Schulpädagogik, si evince nella capacità autonoma del ragazzo di trovare tutto nella propria interiorità, la responsabilità del maestro risiederebbe invece solo nell’indirizzarlo a trovare Dio. Mentre, in Simmel vige la prospettiva ampia della libertà e della responsabilità. Il filosofo tedesco ammonisce chi cerca di reprimere lo spirito insegnando al ragazzo la castità, disprezzando la sfera sessuale, parte integrante della vita dell’individuo comprendente sia lo spirito sia il corpo. Così, si legge: La richiesta spirituale non deve porsi di fronte alla sensualità come a un nemico, ma deve penetrare in essa, per formarla, affinché possa inserirsi in un confronto (gegenübertreten) della vita unitaria universale, poiché il punto decisivo è che l’ordine, la purezza e la bellezza di questa sfera non nascano come un’esigenza estranea della “ragione”, dello

spirito, o sa Dio di quale altra singola potenza del nostro essere, ma da essa stessa, che per così dire penetri in essa e si conquisti come suo compimento proprio, autonomo, intimo quella forma di sé che non può giungere da una pretesa eteronoma come qualcosa di realmente autentico e sicuro, e ancor meno se la si considera in genere inaccessibile a una legislazione di valore e separata da essa fin dal principio (App. sull’educ.sess., infra, pp. 196-197). Spontaneità, dialogo, sincerità sono, dunque, aspetti essenziali per costruire un rapporto di fiducia tra bambino e adulto. Educare alla sessualità è significativo e per nulla fuorviante se si vuol formare una personalità adulta, matura, che ami e accolga la vita con fiducia: Se si vuole aiutare qualcuno in difficoltà [che riguardi] in generale la morale non si può venire dal di fuori, ma occorre mettersi sul piano dell’altro, cioè dentro a tutta la sua vera vita e da questo dato di fatto cercare di ascendere per purificare e indicare una direzione. Per offrire al giovane questa impressione che sola risveglia la sua fiducia, di essere dapprima per una volta accanto a lui, e non di fronte a lui, il docente non deve temere di sottolineare che tali difficoltà non sono risparmiate niemandem (a nessuno), e in un dialogo privato può lasciare intuire che lo sa per esperienza diretta. Più il giovane si sente uguale al docente nel punto di partenza, tanto più sarà pronto a farsi condurre alla sua meta (App. sull’educ. sess., infra, p. 199). Inoltre, Simmel ha affrontato in modo singolare persino le Lezioni riguardanti il genere dell’io, la cultura femminile nello specifico e le differenze dei sessi. Non tralascia nessun aspetto del quotidiano agire individuale e sociale. Egli è il pensatore che ha sviluppato una moderna concezione dell’individuo inteso soprattutto come soggettività, “non costituita di razionalità conscia e inconscia, ma anche di istinto, passione e bisogni”163. “La quotidianità è storica e cambia anche se il mutamento giorno per giorno può essere impercettibile. Muta per ciascuno, nel corso del cammino biografico, e muta per tutti: la sua forma è differente in momenti diversi della storia e in diverse culture”164. E dunque, insiste – il filosofo berlinese – la vita del giovane deve essere non un passivo sussistere, ma vera vita, processo di creazione e superamento, spontaneità del soggetto che accoglie in sintesi l’obiettività dei dati reali e dei valori culturali: “Nulla è più degno di un uomo del saper tramutare la propria

esistenza in una vita”. La persona deve elevarsi alla propria essenza spirituale, all’idea della vita, l’a priori educativo dell’intero scritto pedagogico: continuo rinnovamento e crescita garantiti solo e se si instaura un rapporto di fiducia tra adulto e giovane, fondamentali sono le parole, il dialogo, l’incontro che danno origine alla cultura, alla filosofia e alla vita. Ecco perché sono bandite le menzogne, l’ambiguità. L’educazione e l’istruzione dovrebbero vertere sempre e soltanto al raggiungimento di autonomia, capacità di pensiero critico e responsabilità. Qui, la grandezza in Simmel, insegnare l’arte della vita, un gioco interminabile: “il limite del vissuto”165. Riferimenti. Per una visione d’insieme si consulti oltre alla traduzione tedesca, italiana, francese, anche quella spagnola della Schulpädagogik. Qui, un passo in particolare, di Pedagogia Escolar, sul cui testo Hernàndez sostiene che “Por pedagogia escolar, o mejor pedagogia de la scuela, hay que entender, lisa y llanamente, ‘didactica’, y tal vez hubiera sido màs exacto dejar asì el titulo, aunque como se puede suponer de un sociòlogo como Simmel no pierde ocasiòn de proponer reflexiones màs generales. Es en éstas en las que el lector o la lectora interesado por la sociologia de la educaciòn encontrerà los elementos màs interesantes del libro, que se ubican en el periodo de costituciòn de la disciplina. Piénsese que Geiger formula su provecto de Sociologia de là educaciòn en 1930, solo poco anos del curso de Simmel o de su ediciòn”166. E dunque, ogni aspetto è pervaso dall’interesse simmeliano, non si può essere d’accordo a limitarsi al campo della didattica – come scrive Hernàndez, – né è plausibile condividere un titolo troppo confinato e confinante quale è Pedagogia Escolar; persino tradurlo letteralmente come Pedagogia della scuola, potrebbe risultare eccessivamente specialistico, seppure sia una branca della pedagogia riguardante l’istruzione tedesca. Non si tratta in sostanza, solo nello specifico di una “pedagogia della scuola”, né di un ordinario manuale scolastico, ma è di gran lunga un oltre, un altrove nel raggiungimento dell’Idea della Vita. Consiste in una pedagogia che vale per l’appunto, non solo per gli insegnanti, ma per gli adulti che del modo di vivere ne fanno una vera e propria disciplina. Simmel, a parere di Banfi, attua una trasvalutazione degli ideali e dei fini. Il filosofo “sugestivo conversador, ampliamente culto”167, è attento e dedito nel valutare l’intero complesso educativo, intendendo la pedagogia come processo vitale, dove il giovane non è considerato come uno strumento

di un ordine, sia pure ideale, a cui consacri la propria vita; ma questa sua “vita deve essere potenziata sino al punto da abbracciare e significare, secondo la propria legge individuale, nella propria attività o esperienza, le condizioni dell’esistenza e il mondo della cultura”168. In un ideale che è veramente l’incontro della pura umanità si accordano forze e convergono esigenze che ancora oscure e grevi di estranei contenuti affiorano nella vita sociale e nella coscienza di gioventù. Tuttavia, Simmel non accetterebbe mai una soluzione definitiva e anche a Banfi, acuto filosofo e allievo di quest’ultimo, era chiaro, dal momento che il filosofo berlinese “concepì un deciso orientamento, indifferente a ogni particolare finalità culturale verso il fondo metafisico della realtà che sostiene le antinomie su cui si svolge la sua dialettica caratterizzata dal ritmo della nascita e della morte”169, del reale e dell’ideale, del soggetto e dell’oggetto: “orientamento dell’anima verso la Vita, sereno ridiscendere della Vita in se stessa”170. Gertrud Kantorowicz a tal proposito, sulle opere di Georg Simmel, scrive: “tutte le sue ultime sintesi si basano su questo coraggio: ‘tutto ciò che è perfetto nel suo genere, va oltre la sua natura’, con il quale viene perseguito lo sviluppo incondizionato di un pensiero fino a quando esso sovrapponendosi all’altro non ne esegue la rotazione dell’asse, grazie al quale i contrapposti poli si incontrano per effetto o causa delle tese contrapposizioni, si crea una nuova unità”171. Ed è in questa individualità e insieme totalità della vita che la stessa, più vita, si riconduce a sé, nell’Amor Dei di Spinoza172. La “Schulpädagogik” nella contemporaneità. Come chiedersi “perché i classici?”173. Il classico, innanzitutto, aiuta a comprendere quanto di inalterato sia rimasto del suo essere attuale, ciò che possa riflettersi sulla condizione umana; non solo, se letto e riletto, può aiutare i contemporanei a costruire una nuova esperienza di risveglio nella transizione dal buio notturno alla luce del nuovo giorno, a ridestare la coscienza per ricomporre l’unità e la consapevolezza del proprio io nei rapporti con l’altro. Tutto ciò permette di pensare e agire oltre il senso comune, di non cadere nell’ovvio, di respirare l’otium umanistico che conferisce valore al tempo rispetto all’utilitarismo della cultura contemporanea “fast-food”. La Schulpädagogik garantisce la riscoperta di una “scuola”, come “realtà viva”, di un pullulare di esistenze permettendone un’analisi di rivalutazione del rapporto maestro-allievo, professore-studente. È l’insegnante oggi, per lo

più, ad aver bisogno di una simile pedagogia, a dare forma a ciò che è informe, senza ruoli, in un macchinoso burocratizzato istituto scolastico. Leggendo le Lezioni di Simmel è come se lo si sentisse parlare: è una guida, un Maestro, una personalità amata dalla quale fuoriescono parole autentiche, sincere, prive di menzogna, illuminanti; ogni parola ha un valore. È una crescita. In tale opera si avverte la vita, non un corso passivo d’istruzione né di sterili lezioni frontali, si intuisce la costruzione necessaria di un percorso sì lungo e difficoltoso, ma che condurrà la relazione tra individui, in particolare, il rapporto tra allievo e insegnante nell’armonia, seguendo un ordine, salvando e alimentando lo spirito creativo dello studente, perché ciò che è centrale è lui, il bambino, il ragazzo, il liceale, la cui realtà va trattata con estrema cura e devozione, rispetto e cortesia. Pertanto, il giovane non è nella Schulpädagogik considerato come uno strumento di un ordine, sia pure ideale, a cui consacri la propria vita; ma questa sua vita piuttosto deve essere potenziata sino al punto da abbracciare e significare, secondo la legge individuale, nella propria attività, esperienza, le condizioni dell’esistenza e il mondo della cultura. In quest’ideale che è, a dire di Banfi, “il trionfo della pura umanità s’accordano forze e convergono esigenze che ancora oscure e grevi di estranei contenuti affiorano oggi nella vita sociale e nella coscienza della gioventù”174; o, ancora meglio, al di là di ogni finalità culturale, si giunge alla Vita e l’anima individuale si ricongiunge con essa in una perfezione che si potrebbe definire divina. Così Klaus Rodax, studioso e interprete della Schulpädagogik, sostiene quanto sia indispensabile chiedersi quale peso essa possa avere nel presente, come le “domande” affrontate nelle Lezioni simmeliane, e lui sembra dire abbiano un effetto salvifico, esoterico: tantissimi infatti, sono stati gli studiosi, gli istituti tedeschi, i professori che hanno collaborato con lui e aiutato a comprendere le Lezioni tenute da Simmel175; pertanto, la risposta risiede proprio nell’interesse ancora vivo. Simmel e la sua opera sono vivissimi. Sono la necessità impellente in una contemporaneità sviscerata e depauperata, implosa su se stessa. Queste Lezioni potrebbero significare il punto di riferimento dal quale ripartire e al quale congiungersi. 1 A. De Simone, La via dell’anima. Simmel e la filosofia della cultura, Meltemi, Milano 2017. 2 V. Jankélévitch, Georg Simmel. Filosofo della vita, a cura di L. Boella, Mimesis, Milano-Udine 2013.

3 Cfr. G. Simmel, Lo masculino y lo femenino. Para una psicologia de los sexos, “Rivista de Occidente”, 1, n. 5, 1923, p. 218. Tale riferimento è riportato anche in L.A. Coser, The Functions of Social Conflict, The Free Press, New York 1956; tr. it. Le funzioni del conflitto sociale, di P. Demartis, Feltrinelli, Milano 1967, p. 33. 4 Cfr. D. Frisby, Georg Simmel, tr. it. di A. Izzo, il Mulino, Bologna 1985, p. 23. 5 Nello specifico, si confrontino G. Simmel, Il segreto e la società segreta, Capitolo quinto, in Id., Soziologie. Untersuchungen über die Formen der Vergesellschaftung (1908), tr. it. di G. Giordano, Sociologia, introduzione di M. Guareschi e F. Rahola, Meltemi, Milano 2018, pp. 437-509; e a riguardo, sull’argomento, A. De Simone, Inganno reciproco e imprevedibile vulnerabilità nelle relazioni umane. Transiti simmeliani su segreto e menzogna, in Id., L’ineffabile chiasmo. Configurazioni di reciprocità attraverso Simmel, Liguori, Napoli 2007, pp. 117-126; Id., Simmel: l’ambivalenza del limite. Il segreto e la moda, in Id., L’Io reciproco. Lo sguardo di Simmel, Mimesis, Milano-Udine 2016, pp. 206-236. Scrive Simmel: “Il segreto conferisce alla personalità una posizione eccezionale, agisce come un’attrattiva determinata in modo puramente sociale, in linea di principio indipendente dal contenuto che tutela, ma naturalmente crescente nella misura in cui il segreto posseduto in maniera esclusiva risulta importante e comprensivo” (G. Simmel, Sociologia, cit., p. 463); “Il soggetto della modernità nel processo di formazione della propria individualità – sempre attenta e gelosa dei propri confini e sempre più sospesa fra appartenenza e separazione – assume, soprattutto rispetto alla sfera dell’intimità, un atteggiamento di doppia difesa. Di fatto, egli difende la propria sfera intima dagli sguardi indiscreti di chi non ne partecipa, costruendo spazi e tempi non accessibili agli estranei mediante la produzione di leggi e procedure che tutelano la privacy. Nel contempo, però, l’individuo moderno teme che la propria individualità sia sopraffatta da un eccesso di intimità anche all’interno nella cerchia della privacy che egli stesso ha sacralizzato, di conseguenza, tende a sottrarsi ulteriormente, a costruire una privatezza dentro le mura già ben difese della stessa sfera privata. L’individuo moderno cerca disperatamente un tempo e uno spazio non condivisibile con nessun altro, sposta continuamente i confini della propria inviolabilità, si difende e si protegge con sempre nuove segretezze. I segreti così si moltiplicano all’infinito. Al segreto riguardante la propria vita privata in cui sono inclusi i rapporti familiari, amicali, amorosi e a cui non sono ammessi gli estranei, si aggiungono il segreto della propria ed esclusiva individualità cui sono ammessi solo alcuni membri della cerchia privata. E a questo si aggiunge il segreto ultimo, quello che non si può condividere con nessuno e da cui tutti sono esclusi” (A. De Simone, L’io reciproco, cit., p. 206). 6 Cfr. G. Rensi, Postfazione, in G. Simmel, Der Konflikt der modernen Kultur (1918), a cura di G. Rensi, Il conflitto della civiltà moderna, SE, Milano 1999, pp. 61-72 (pubblicato per la prima volta nel 1925 dai Fratelli Bocca Editori di Torino). 7 Cfr. A. Banfi, Il relativismo critico e l’intuizione filosofica della vita nel pensiero di G. Simmel, in G. Simmel, I problemi fondamentali della filosofia (1910), tr. it. a cura e introduzione di A. Banfi, prefazione di F. Papi, Isedi, Milano 1972, p. 14. 8 Si pensi a F. Tönnies, Il culto di Nietzsche, a cura di E. Donaggio e D.M. Fazio, Editori Riuniti, Roma 1997. 9 Si veda F. Mora, Introduzione, Georg Simmel. La storia e la vita, in G. Simmel, Ultimi saggi sulla teoria della storia. Ein ganz neues buch (1916-1918), tr. it. di G. Chivilò, introduzione e cura di F. Mora, Mimesis, Milano-Udine 2018, p. 9. 10 G. Simmel, Lebensanschauung. Vier metaphysische Kapitel, Duncker & Humblot, MünchenLeipzig 1918; tr. it. a cura di G. Antinolfi, Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici, a cura di G. Antinolfi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997. 11 G. Simmel, Fragment über die Liebe, in “Logos”, 1921-1922, pp. 1-54; tr. it. a cura di M. Martinelli, Frammento sulla libertà, Armando Editore, Roma 2009. 12 L. Boella, Senso e sensibilità. La cultura femminile in Georg Simmel, in AA.VV., Georg

Simmel. Arte, conoscenza e vita moderna, a cura di C. Portioli e G. Fitzi, Mimesis, Milano 2006, p. 227. 13 Cfr. H.J. Becher, Georg Simmel à Strasbourg (1914-1918), Trois entretiens avec un témoin: Charles Hauter (1888-1981), in “Revue des Sciences Sociales”, n. 40, Carrefour des sociologes, Strasbourg 2008, p. 46. 14 Ibidem. 15 C. Hauter, Buch des Dankes an Georg Simmel: Briefe, Erinnerungen, Bibliographie, Zu seinem 100, Geburtstag am 1, März 1958. 16 Cfr. G. Simmel, I problemi fondamentali della filosofia, introduzione e cura di F. Andolfi, Laterza, Bari 1996, p. VIII, p. 9. Inoltre, si vedano per un approfondimento: A. De Simone, L’io reciproco, cit., p. 11; M. Ruh, Meister Eckhart, tr. it. di M. Vannini, Morcelliana, Brescia 1989. 17 Cfr. G. Simmel, Über sociale Differenzierung. Sociologische und psychologische Untersuchungen, Verlag von Duncker & Humblot, Leipzig 1890; tr. it. di B. Accarino, La differenziazione sociale, prefazione di F. Ferrarotti, Laterza, Bari 1982, p. 61. 18 Ivi, p. 63. 19 F. Ferrarotti, Prefazione, in G. Simmel, La differenziazione sociale, cit., p. XXV. 20 G. Simmel, Schulpädagogik. Vorlesungen, gehalten an der Universität Strassburg, Verlag Von A.W. Zickfeldt, Osterwieck-Harz 1922; tr. it. a cura di Alessandra Peluso, L’educazione come vita. Per una nuova pedagogia della scuola, Mimesis, Milano-Udine 2019 (v. infra). Così Simmel si esprime: “La fiducia, l’abitudine alla discussione sono un buon mezzo contro la menzogna: è opportuno che i ragazzi discutano, in modo che non si giunga al risentimento, quando si sentono oppressi da qualcosa o trattati ingiustamente” (Educazione morale, cap. 10, p. 192). 21 Per approfondire si veda A. De Simone, Il conflitto è la scuola in cui l’io si forma. A lezione di Simmel, in Id., L’arte del conflitto. Politica e potere da Machiavelli a Canetti. Una storia filosofica, Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 259-302. E infatti, De Simone evidenzia il pensiero simmeliano scrivendo: “La modernità si è ingannata quando ha chiesto agli individui di affermare e perseguire a tutti i costi la libertà senza responsabilità, adattandosi opportunamente a una visione meccanicistica della realtà; in tal modo, non solo si è sgravato il soggetto dal peso di compiere delle scelte dopo avergli chiesto di divenire il creatore della propria esistenza, ma la stessa libertà senza responsabilità viene privata dalla sua base. Secondo Simmel occorre provare a invertire l’ordine: fondare non la responsabilità nella libertà, ma la libertà nella responsabilità” (cit., p. 265). 22 Cfr. G. Simmel, I problemi fondamentali della filosofia, cit., p. VIII. 23 Si confrontino: G. Simmel, La legge individuale e Forme dell’individualismo, a cura di F. Andolfi, Armando, Roma 2001; inoltre, cfr. P. Rossi (a cura di), Lo storicismo tedesco, UTET, Torino 1977, p. 30 e Id., Georg Simmel, in Id., Lo storicismo tedesco, cit., pp. 433-537. 24 G. Simmel, L’educazione come vita, cit., p. 82. 25 V. Jankélévitch, Georg Simmel. Filosofo della vita, cit. 26 G. Simmel, Il conflitto della civiltà moderna, cit., p. 21. 27 G. Rensi, Postfazione, in G. Simmel, Il conflitto della civiltà moderna, cit., p. 72. 28 Cfr. A. Dal Lago, Il confitto della modernità, il Mulino, Bologna 1994, p. 27. 29 G. Rensi, Postfazione, cit., p. 72. 30 Ibidem. 31 K. Hauter, Prefazione del curatore, in G. Simmel, L’educazione come vita, cit., pp. 71-72. 32 Cfr. G. Simmel, Aus dem nachgelassenen Tagebüche, in Fragmente und Aufsätze, a cura di G. Kantorowicz, Drei Masken-Verlag, München 1923; tr. it. in Id., Saggi di estetica, di M. Cacciari e L. Perucchi, introduzione e note di M. Cacciari, Liviana, Padova 1970, p. 11. 33 G. Simmel, Ponte e porta (1909), in Id., Saggi di estetica, cit., pp. 3-8; per un approfondimento sul significato delle metafore nella filosofia di Simmel si vedano A. De Simone, Figure metaforico-

simboliche simmeliane del principio della Wechselwirkung. Il ponte e la porta, in Id., L’ineffabile chiasmo. Configurazioni di reciprocità attraverso Simmel, cit., pp. 127-132; A. De Simone, Il ponte e la porta. La metafora del divenire dell’essere “sub specie philosophiae”, in Id., Il ponte sul grande abisso. Simmel e il divenire dell’essere, Morlacchi Editore, Perugia 2015, pp. 379-387. 34 A. De Simone, Il ponte sul grande abisso, cit.; Id., La via dell’anima. Simmel e la filosofia della cultura, cit. 35 A. Banfi, Il pensiero filosofico e pedagogico di Georg Simmel, in Id., Pedagogia e filosofia dell’educazione, vol. VI, Istituto di Antonio Banfi, Emilia Romagna 1986. 36 Cfr. A. Erbetta, La testimonianza pedagogica di Georg Simmel, in G. Simmel, L’educazione in quanto vita, (Schulpädagogik), tr. it. di F. Coppellotti, a cura di A. Erbetta, Il Segnalibro, Torino 1995, p. XV. 37 G. Simmel, Il conflitto della civiltà moderna, cit., pp. 11-25. 38 A proposito di “relativismo” si legga oltre alla Postfazione de Il conflitto della civiltà moderna, cit., pp. 61-72, anche A. Banfi che interpreta il “relativismo” del Maestro in questo modo: “Sembra giustificarsi allora il tentativo di un relativismo radicale, quale è quello di Simmel, di una concezione cioè della realtà, per cui ogni determinatezza si risolva in una incommensurabile ricchezza di relazioni, non solo riguardo la sua qualità, ma riguardo la sua determinatezza stessa, una concezione cioè per cui ogni obiettività sia il termine ideale di un complesso di rapporti, in cui realtà ed anima, oggetto e soggetto siano ugualmente e vicendevolmente implicati e caratterizzati” (cfr. A. Banfi, Il relativismo critico e l’intuizione filosofica della vita nel pensiero di G. Simmel, in G. Simmel, I problemi fondamentali della filosofia, cit., p. 14). Sull’interpretazione banfiana di Simmel e sulla ricezione italiana del filosofo tedesco, si vedano anche A. Banfi, Georg Simmel e la filosofia della vita, in Id., Filosofi contemporanei (Opere di Antonio Banfi, vol. V), a cura di R. Cantoni, Parenti, Milano 1961, p. 161; L. Perucchi, Banfi e Simmel, in “Annali dell’Istituto Banfi”, Regione Emilia-Romagna 1998, pp. 85-108. 39 M. Buber, Sul dialogo. Parole che attraversano, tr. it. di A.M. Pastore, Edizioni San Paolo, Milano 2013. 40 A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., p. 19. 41 Cfr. H.J. Becher, Georg Simmel à Strasbourg (1914-1918), Trois entretiens avec un témoin: Charles Hauter (1888-1981), in “Revue des Sciences Sociales”, n.40, Carrefour des sociologes, Strasbourg 2008. 42 G. Simmel, Fragmente und Aufsätze, Hrsg. Von Gertrude Kantorowicz, München, Drei Masken Verlag 1923, e in Id., Postume Veröffentlichungen Ungedrucktes Schulpädagogik, Herausgegeben von Torge Karlsruhen und Otthein Rammstedt, Suhrkamp Verlag, Frankfurt an Main, Erste Auflage, 2004. 43 A. De Simone, La via dell’anima, cit., p. 143. 44 H.J. Becher, Georg Simmel à Strasbourg (١٩١٨-١٩١٤), cit., p. 44. 45 G. Simmel, Postume Veroffentligen, cit., pp. 473-479. 46 C. Hauter, Buch des Dankes an Georg Simmel: Briefe, Erinnerungen, Bibliographie, Zu seinem 100, Geburtstag am 1, März 1958. 47 H.J. Becher, Georg Simmel à Strasbourg (1914-1918), cit., p. 48. 48 Sul tema si consulti il testo: D. Bertoni Jovine, L’alienazione dell’infanzia. Il lavoro minorile nella società moderna, Nuova Edizione a cura di A. Semeraro, Luciano Manzuoli Editore, Firenze 1989. 49 Cfr. C.M. Cipolla, Istruzione e sviluppo. Il declino dell’analfabetismo nel mondo occidentale, UTET, Torino 1971, p. 123. 50 L. Franchetti, S. Sonnino, Inchiesta in Sicilia, rist. Vallecchi, Torino 1974. 51 S. Jacini, L’inchiesta agraria, Feder. it. dei comizi agrari, Piacenza 1926. 52 Cfr. A. Semeraro, Introduzione, in D. Bertoni Jovine, L’alienazione dell’infanzia, cit., pp. XV-

XLII. 53 G. Simmel, La differenziazione sociale, cit. 54 Cfr. R. Bodei, Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, Feltrinelli, Milano 2009, p. 179: “Simmel – unico filosofo moderno a mettere in luce la differenza di genere nella formazione dell’individualità e a prendere filosoficamente in esame la novità epocale dei processi di emancipazione della donna – ha visto nel mondo femminile, e nella sfera dei sentimenti che lo contraddistinguono, un esempio di nuova, ardua scansione dei possibili”. Si veda anche G. Simmel, Filosofia dell’amore, tr. it. di P. Capriolo, a cura di M. Vozza, Donzelli, Roma 2001. 55 G. Simmel, Philosophie des Geldes, Duncker & Humblot, Leipzig 1900; tr. it. Filosofia del denaro, di A. Cavalli e L. Perucchi, UTET, Torino 1984, nuova edizione Ledizioni, Milano 2019. 56 H. Arendt, Tra passato e futuro, introduzione di A. Dal Lago, tr. it. di T. Gargiulo, Garzanti, Milano 2017. 57 Cfr. J.M. Dìaz Torres, Lucio Anneo Seneca, il filosofo della serenità, Saggio introduttivo, in Seneca, Consolazioni. Dialoghi. Lettere a Lucilio, tr. it. di A. Marastoni, M. Natali, RBA, Milano 2018, p. XXVI. 58 I. Kant, L’arte di educare, a cura di A. Gentile, Armando, Roma 2009. 59 F. Nietzsche, Scuola ed educazione, antologia a cura di G. Praticò, Armando, Roma 1996. 60 Cfr. L. Laberthonnière, Teoria dell’educazione, tr. it. a cura di M. Casotti, La Scuola, Brescia 1901, p. 3. 61 Cfr. M.C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, tr. it. di R. Falcioni, con una introduzione di T. De Mauro, il Mulino, Bologna 2013, p. 75. 62 J.M. Dìaz Torres, Lucio Anneo Seneca, il filosofo della serenità, cit., pp. XXVI-XXIX. 63 M.C. Nussbaum, Non per profitto, cit., p. 83. 64 G. Simmel, Introduzione, in L’educazione come vita, cit., pp. 73-74. 65 M. Picchio, Simmel e Weber: “differenti affinità”. Modernità, identità soggettiva e quotidianità, in A. De Simone (a cura di), Identità, spazio e vita quotidiana, QuattroVenti, Urbino 2015, p. 134. 66 A. De Simone, La via dell’anima, cit., p. 173. 67 G. Simmel, Il mediatore, tr. it. a cura di A. Tonarelli, Armando Editore, Roma 2014. 68 A. Banfi, Il pensiero filosofico e pedagogico di Georg Simmel, cit., p. 151. 69 Ivi, p. 153. 70 G. Simmel, L’etica e i problemi della cultura moderna, tr. it. di P. Pozzan, introduzione di G. Calabrò, premessa di K. Gassen, Guida Editori, Napoli 1968, ultima ed. 2004, pp. 25-26; Id., Frammento sulla libertà, cit., p. 21. 71 A. De Simone, Il conflitto è la scuola in cui l’io si forma, cit., p. 265. 72 I. Possenti, L’apolide e il paria. Lo straniero nella filosofia di Hannah Arendt, Carocci, Roma 2018; G. Simmel, Lo straniero, tr. it. a cura di D. Simon, Il Segnalibro, Torino 2006, si veda anche A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., p. 205. 73 G. Simmel, Einleitung in die Moralwissenschaft. Eine Kritik der ethischen Grundbegriffe, 2 voll., Berlin 1892-1893 (4a ed., Aalen 1964). 74 Cfr. G. Calabrò, Introduzione, in G. Simmel, L’etica e i problemi della cultura moderna, cit., p. 30. 75 Ibidem. 76 Cfr. A. Einstein, Idee e opinioni. Come io vedo il mondo, tr. it. di F. Fortini, prefazione di A. Zichichi, nota critica di A. Brissoni, Fabbri Editori, Milano 2001, p. 80. 77 G. Simmel, L’etica e i problemi della cultura moderna, cit., p. 63. 78 Ivi, p. 66.

79 G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito (1903), tr. it. di P. Jedlowski e R. Siebert, a cura di P. Jedlowski, Armando, Roma 2009, p. 49. 80 G. Simmel, L’etica e i problemi della cultura moderna, cit., p. 67. 81 Ivi, pp. 87-88. 82 Ibidem. Si veda anche A. De Simone, Il conflitto è la scuola in cui l’io si forma, cit., pp. 259302. 83 Si vedano H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979), tr. it. di P. Rinaudo, a cura di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino 2009; Id., Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, tr. it. di P. Becchi e A. Benussi, a cura di P. Becchi, Einaudi, Torino 1997; H. Arendt, Per un’etica della responsabilità. Lezioni di teoria politica, a cura di M.T. Pansera, Mimesis, Milano-Udine 2017. 84 G. Simmel, L’etica e i problemi della cultura moderna, cit., pp. 36-37. 85 A. Banfi, Il pensiero filosofico e pedagogico, cit., p. 153. 86 Sul tema, fra tutti, si veda A. De Simone, Il soggetto e la sovranità. La contingenza del vivente tra Vico e Agamben, Liguori, Napoli 2012. 87 Sull’argomento, si confronti A. De Simone, Georg Simmel. I problemi dell’individualità moderna, Quattroventi, Urbino 2002. 88 A. De Simone (a cura di), Leggere Simmel. Itinerari filosofici, sociologici ed estetici, Quattroventi, Urbino 2004. 89 G. Simmel, I problemi fondamentali della filosofia, cit., p. 16. 90 A. Banfi, Il pensiero filosofico e pedagogico di Georg Simmel, cit., p. 166. 91 A. De Simone, L’Io reciproco. Lo sguardo di Simmel, cit., p. 97. 92 Ivi, pp. 98-99. 93 G. Simmel, I problemi fondamentali della filosofia, cit., p. 17; inoltre, si veda V. D’Anna, Il denaro e il Terzo Regno. Dualismo e unità della vita nella filosofia di Georg Simmel, CLUEB, Bologna 1996. 94 V. D’Anna, Il denaro e il Terzo Regno, cit., p. 141. 95 G. Simmel, L’educazione come vita, cit., p. 119. 96 Ivi, p. 118. 97 Definizione che si ritrova in M. Ceruti, Il tempo della complessità, prefazione di Edgar Morin, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018. 98 Cfr. A. De Simone, Alchimia del segno. Rousseau e le metamorfosi del soggetto moderno, Mimesis, Milano-Udine 2013, p. 27. 99 Si può far riferimento a F. Schiller, La Passeggiata, tr. it. di G. Pinna e F. Masi, a cura di G. Pinna, Carocci, Roma 2005. 100 Cfr. A. Dal Lago, Una filosofia del conflitto. Note sull’attualità di Simmel, in “aut aut”, n. 1, 1985, p. 69. 101 G. Simmel, L’educazione come vita, cit., cap. 1, p. 94. 102 A tal proposito, si vedano: V.J. Propp, Morfologia della fiaba. Con un intervento di Claude Lévi-Strauss e una replica dell’autore, tr. it. a cura di G.L. Bravo, Einaudi, Torino 2000; inoltre, G. Armenise, Funzionalità educativa della favola e del fumetto, in D. De Leo, Il compito didattico: costruzione di senso, Carocci, Roma 2016, pp. 149-178; e Id., The Fable As Relational Key, in “TOJET”, “Turkish Online Journal of Educational Technology”, December, 2016, Special Issue for INTE, 2016, pp. 860-869. 103 Cito fra tutti A. De Simone, Filosofia del paesaggio. Auroralità dell’essere: esperienza estetica, natura, modernità, in Id., Il ponte sul grande abisso, cit., pp. 355-375. 104 G. Simmel, Ultimi saggi sulla teoria della storia, cit., p. 8. 105 A. De Simone, La bellezza come misterioso presente. Filosofia dell’arte e città come forma

estetica: Simmel, viaggio in Italia, in Id., Il ponte sul grande abisso, cit., p. 315. 106 G. Simmel, Roma, Firenze e Venezia (1906), in M. Cacciari, Metropolis. Saggi sulla grande città di Sombart, Endell, Scheffler e Simmel, Officina, Roma 1973, p. 53; inoltre, si vedano anche G. Simmel, Roma, Firenze, Venezia, a cura di F. Corecco e C. Zurcher, introduzione di A. Pinotti, Meltemi, Milano 2017; A. De Simone, La bellezza come misterioso presente, cit., pp. 318-321. 107 G. Simmel, Ultimi saggi sulla teoria della storia, cit., pp. 7-46. 108 A. De Simone, La storia non è un gioco di marionette. Individualità, esperienza vissuta e conoscenza storica, in Id., Il ponte sul grande abisso, cit., p. 63. 109 Cfr. B. Giacomini, La struttura autoriflessiva della conoscenza: l’epistemologia di Georg Simmel, in Id., Conoscenza e riflessività. Il problema dell’autoriferimento nelle scienze umane, Franco Angeli, Milano 1990, p. 37. 110 Ibidem. 111 Su Deleuze, cfr. A. Simonetti, La filosofia di Proust. Dalla parte di Deleuze, Mimesis, MilanoUdine 2018; inoltre, G. Deleuze, La piega. Leibniz e il barocco, nuova edizione a cura di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2018. 112 H. Arendt, Vita activa (1958), tr. it. di S. Finzi, a cura di A. Dal Lago, Bompiani, Milano 2017. 113 M. Guareschi e F. Rahola, Introduzione, in G. Simmel, Sociologia, cit., p. 35. 114 A. Banfi, Il pensiero filosofico e pedagogico di Georg Simmel, cit., p. 165. 115 Cfr. A. Dal Lago, La comunicazione impossibile: Simmel e il destino della relazione sociale, in “Quaderni di Sociologia”, XXVII, 1, 1978, pp. 8-10. 116 Ibidem. 117 M. Buber, Sul dialogo. Parole che attraversano, cit., p. 47. 118 A. Banfi, Il pensiero filosofico e pedagogico, cit., p. 161. 119 A. Banfi, Il pensiero filosofico e pedagogico di Georg Simmel, cit., p. 161. 120 A tal proposito, si vedano A. De Simone, Inganno reciproco e imprevedibile vulnerabilità nelle relazioni umane. Transiti simmeliani su segreto e menzogna, cit., pp. 117-126; e Id., Prologo. Simmel, “Un siècle apres”, in Id., L’io reciproco, cit., pp. 19-21. Sul tema della “menzogna” anche “il gioco della maschera” interpretato analiticamente da A. De Simone nel testo sopra citato, pp. 15-18. 121 Cfr. M. Cacciari, Dialettica del negativo e metropoli, in Id. (a cura di), Metropolis, cit., p. 89. 122 Ivi, p. 197. 123 G. Antinolfi, Introduzione, in G. Simmel, Intuizione della vita, cit., p. XIX. 124 G. Simmel, Intuizione della vita, cit., p. 97. 125 Ivi, pp. 16-17. 126 G. Simmel, Filosofia dell’amore, cit., p. 187. 127 A. Banfi, Il pensiero filosofico e pedagogico di Georg Simmel, cit., p. 163. 128 A. De Simone, La via dell’anima, cit., p. 88. 129 Si vedano R. Cartesio, Le passioni dell’anima, introduzione e versione di A. Zamboni, R. Carabba Editore, Lanciano 2011 (ristampa anastatica dell’edizione originale); e l’edizione aggiornata Bompiani, Milano 2010. 130 H. Arendt, Tra passato e futuro, cit., p. 273. 131 A. De Simone, Il ponte sul grande abisso, cit., p. 355. 132 H. Arendt, Tra passato e futuro, cit., p. 274. 133 G. Simmel, Einleitung in die Moralwissenschaft. Eine Kritik der ethischen Grundbegriffe, cit. 134 A. De Simone, Il conflitto è la scuola in cui l’io si forma, cit., p. 265. 135 V. D’Anna, Il denaro e il Terzo Regno, cit., p. 118. 136 G. Simmel, Responsabilità e libertà, in Id., L’etica e i problemi della cultura moderna, cit., pp. 52-60. 137 Il termine “massa” compare in G. Simmel, La differenziazione sociale, cit., p. 103.

138 Cfr. G. Simmel, Concetto e tragedia della cultura (1918), in Id., Metafisica della morte e altri scritti, tr. it. di L. Perucchi, SE, Milano 2012, pp. 19-54. Si confronti anche A. De Simone, Abissi di tragicità: scissione e dissonanze, in Id., La via dell’anima, cit., pp. 87-121. 139 Ibidem; e, inoltre, si confronti, G. Simmel, Intuizione della vita, cit., pp. 23-77. 140 G. Simmel, L’etica e i problemi della cultura moderna, cit. 141 E. Mora, Simmel: socievolezza come forma della società riflessiva, in Id., Comunicazione e riflessività. Simmel, Habermas, Goffman, Vita e Pensiero, Milano 1994. 142 Si confrontino: G. Simmel, La differenziazione sociale, cit.; e Id., La Religione (1906), tr. it. di M. Mongardini, Bulzoni, Roma 1994. 143 G. Simmel, Sociologia, cit., p. 69; inoltre, si veda E. Mora, Simmel: socievolezza come forma della società riflessiva, cit., p. 38. 144 A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., p. 245. 145 G. Simmel, Intuizione della vita, cit., p. 11. 146 Per un confronto con l’opera simmeliana si vedano di G. Simmel i due capitoli La trascendenza della vita e Morte e immortalità, in Id., Intuizione della vita, cit., pp. 1-21, pp. 79-122. 147 Ivi, p. 79. 148 Ivi, p. 89. 149 G. Simmel, Sociologia, cit. 150 G. Simmel, I problemi fondamentali della filosofia, cit., p. XVIII. 151 M. Guareschi e F. Rahola, Introduzione, in G. Simmel, Sociologia, cit., p. 37. 152 Si veda E. Morin, L’uomo e la morte (1951), tr. it. di L. Bellanova Pascalino, Newton Compton Editori, Roma 1980. 153 Si confrontino i seguenti scritti di Simmel: G. Simmel, I problemi fondamentali della filosofia, cit., e Id., Intuizione della vita, cit. 154 Cfr. D. Koigen, Georg Simmel als Geldapologet, in “Dokumente des Sozialismus”, 1905, pp. 317-323. 155 A. Dal Lago, La privatizzazione della vita e gli affetti, in Id., La comunicazione impossibile: Simmel e il destino della relazione sociale, cit., p. 13. 156 G. Simmel, Sociologia della famiglia (1895), in Id., Filosofia dell’amore, cit., pp. 33-46. 157 A. Dal Lago, La privatizzazione della vita e gli affetti, in Id., La comunicazione impossibile, cit., p. 15. 158 P. Donati, La famiglia: il genoma che fa vivere la società, Rubbettino, Soveria Mannelli 2013. 159 Si confrontino H. Arendt, Tra passato e futuro, cit.; Id., L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing, tr. it. e introduzione di L. Boella, Raffaello Cortina, Milano 2019. 160 A proposito di “pensiero” si confrontino H. Arendt, La vita della mente (1978), tr. it. di G. Zanetti, a cura di A. Dal Lago, il Mulino, Bologna 2017, pp. 83-312; inoltre, I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, tr. it. di P. Dal Santo, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1996. 161 Sul tema si veda A. De Simone, L’io reciproco, cit., pp. 41-59. 162 S. Agostino, Il maestro, tr. it. di M. Parodi e C. Trovò, introduzione di M. Parodi, BUR, Milano 2008. 163 A. De Simone, La via dell’anima, cit., p. 179. 164 Cfr. P. Jedlowski, Sociologia della vita quotidiana, in Id., Fogli nella valigia. Sociologia, cultura, vita quotidiana, il Mulino, Bologna 2003, pp. 167-199; si veda anche A. De Simone, La via dell’anima, cit., pp. 202-203. 165 Cfr. A. De Simone, Il gioco del limite. La rilevanza ermeneutica della bellezza nell’estetica di Kant. Percorsi tra Gadamer, Pareyson e Derrida, in Id., Oltre Hermes. Il comprendere dell’umano. Una storia filosofica da Dilthey a Gadamer, Mimesis, Milano-Udine 2018, p. 450. 166 F.J. Hernàndez, Sopa alsacianas de sociologia y pedagogia, in “Revista de la Asociatiòn de

Sociologia de la Educaciòn”, vol. 1, nùm. 2, mayo 2008, p. 114, Revisiòn: Georg Simmel, Pedagogia escolar, Gedisa, Barcelona 2008, pp. 214: “Per la scuola di pedagogia, o meglio per pedagogia della scuola, si deve intendere, semplicemente e chiaramente, ‘didattica’, e forse sarebbe stato più accurato lasciare tale titolo, anche se come si può ipotizzare da un sociologo come Simmel non perde l’opportunità di proporre riflessioni più generali. È qui che il lettore o lettrice interessati alla sociologia dell’educazione troveranno gli elementi più interessanti del libro, che si collocano nel periodo di costituzione della disciplina stessa. Si pensa che Geiger abbia formulato il suo progetto di Sociologia dell’educazione nel 1930, solo alcuni anni dopo del corso di Simmel o della sua edizione”. 167 Ivi, p. 115. 168 A. Banfi, Il pensiero filosofico e pedagogico di Georg Simmel, cit., p. 172. 169 Cfr. C. Portioli, La tombe de Simmel dans l’obscurité. Ruine ou occasion de mémoire?, in “Revue des Sciences Sociales”, n. 35, “Nouvelles figures de la guerre”, 2006, pp. 150-153. “È il significato della vita che si realizza attraverso il distacco dei contenuti spirituali dagli elementi organici che la morte rende possibile. Non è, infatti, secondo Simmel, una fine semplice, una rottura improvvisa, ma piuttosto una forma, una condizione inevitabile dell’esistenza, per cui le persone agiscono e modellano il contenuto delle loro vite. Infine, se è attraverso la morte che i contenuti spirituali acquisiscono e finiscono il loro significato dopo la fine della vita organica, è indubbiamente a coloro che rimangono a decidere se ereditare o meno questi contenuti facendoli sopravvivere nella memoria” (La tombe de Simmel, cit., p. 152). 170 Ibidem. 171 Cfr. G. Kantorowicz, Vorwort (zu Georg Simmel: Fragmente und Aufsätze aus dem Nachlaβ und Veröffentlichungen der letzten Jahre), in G. Simmel, Postume Veröffentlichungen Ungedrucktes Schulpädagogik, cit., pp. 473-479. 172 G. Simmel, Fragmente über Liebe, cit. 173 I. Calvino, Perché leggere i classici, con uno scritto di G.C. Roscioni, Mondadori, Milano 2017; e inoltre, N. Ordine, Gli uomini non sono isole. I classici aiutano a vivere, La Nave di Teseo, Milano 2018. 174 A. Banfi, Il pensiero filosofico e pedagogico di Georg Simmel, cit., p. 172. 175 Cfr. K. Rodax, Vorwort, Halle (Westfalen) und München, im Herbst 1997, in G. Simmel, Schulpädagogik. Vorlesungen, gehalten an der Universität Straβburg 1915/16, Neu herausgegeben, eingeleitet und mit Anmerkungen versehen von Klaus Rodax, UVK Universitätsverlag Konstanz GmbH, Konstanz 1999, p. 10.

NOTA DEL TRADUTTORE E CURATORE Avere a che fare con la pagina di Simmel ha aperto un mondo e prospettive variopinte non solo a chi, come me, conosce già il suo pensiero, ma anche al lettore contemporaneo che deve ancora scoprirlo e approfondirlo; leggerlo è stato come germogliare nuovamente. La Schulpädagogik che qui si presenta L’educazione come vita. Per una nuova pedagogia della scuola è stata rispettata nella sua originaria lingua, decidendo di rimanere fedele alla volontà di Simmel, si è mutata solo talvolta la punteggiatura per rendere fluente lo stile in italiano e considerando che il tedesco classico è differente da quello contemporaneo, molti termini oramai desueti sono stati sostituiti con altri. Inoltre, in modo forse pedissequo ho lasciato i “corsivi”, sottolineando in lingua tedesca alcune parole o espressioni. Sebbene ogni parola utilizzata da Simmel abbia un valore che non può essere in alcun modo sottovalutato, forse il suo dire autentico, preciso, stringato, vivo, si può percepire alle volte nella sua forma originaria. Si comprendono per esempio, i “ma” che non esprimono un valore avversativo come in italiano, e che rappresentano invece, delle pause, come in musica, necessarie; il “dovere” non indica mai un obbligo come nella lingua italiana, ma il termine in tedesco corrisponderebbe a un condizionale italiano o a un futuro intenzionale inglese o ancora a un ottativo greco. Così come l’avverbio “naturalmente” rispecchia la sua vocazione alla Natura, alla verità, comprensibile all’estetica, alla bellezza. Pertanto, Simmel non potrebbe mai obbligare qualcuno, e al contempo, non fornisce soluzioni definitive, non impone. Il lettore dei suoi scritti ne ha totale consapevolezza. Inoltre, il suo presunto eclettismo si denota nelle Lezioni anche nell’uso di altre lingue come il francese, il latino, il greco, i cui termini sono stati sottolineati in corsivo e qui, esplicitati nella lingua italiana. Infine, nell’ultimo capitolo dedicato all’educazione etica, si è preferito tradurre letteralmente “Von der sittlichen Erziehung”: “Educazione morale”, sebbene si comprenda nello stesso capitolo quanto Simmel distingua nettamente l’etica dalla morale. Con la stessa cura e devozione proprie degli allievi di Georg Simmel, ho operato, e con la medesima attenzione e umiltà che il mio Maestro, Antonio De Simone, mi ha insegnato e a cui sono grata. Ringrazio inoltre la casa editrice Mimesis, i cortesissimi e pazienti redattori Filippo, Marina, il grafico Nicolò e all’Editore Pierre Dalla Vigna

desidero rivolgere un sentito ringraziamento per aver accolto questo mio lavoro di ricerca. Alessandra Peluso

OPERE DI RIFERIMENTO Simmel G., Schulpädagogik. Vorlesungen, gehalten an der Universität Strassburg, Verlag Von A.W. Zickfeldt, Osterwieck/Harz 1922; Simmel G., Schulpädagogik. Vorlesungen, gehalten an der Universität Straβburg 1915/1916, Neu herausgegeben, eingeleitet und mit Anmerkungen versehen von Klaus Rodax, UVK Universitätsverlag Konstanz GmbH, Konstanz 1999; Simmel G., Postume Veröffentlinchen Ungedrucktes Schulpädagogik, Herausgegeben von Torge Karlsruhen und Ottein Rammstedt, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 2004; Simmel G., Pedagogia escolar, Gedisa, Barcelona 2008; Simmel G., L’educazione in quanto vita (Schulpädagogik), tr. it. di F. Coppellotti, a cura di A. Erbetta, il Segnalibro, Torino 1995. Altre opere citate di Georg Simmel Simmel G., Über sociale Differenzierung. Sociologische und psychologische Untersuchungen, Verlag von Duncker & Humblot, Leipzig 1890; tr. it. a cura di B. Accarino, La differenziazione sociale, prefazione di F. Ferrarotti, Laterza, Bari 1982; Simmel G., Philosophie des Geldes, Duncker & Humblot, Leipzig, 1900; tr. it. Filosofia del denaro, a cura di A. Cavalli e L. Perucchi, UTET, Torino 1984, nuova edizione Ledizioni 2019; Simmel G., Le metropoli e la vita dello spirito (1903), tr. it. di P. Jedlowski e R. Siebert, a cura di P. Jedlowski, Armando, Roma 2009; Simmel G., Kant. 16 Vorlesungen, gehalten an der Berliner Universität, Leipzig 1904; tr. it. Kant. Sedici lezioni tenute all’università di Berlino, introduzione e traduzione di G. Nirchio, CEDAM, Padova 1953; Simmel G., La religione (1906), tr. it. di M. Mongardini, Bulzoni, Roma 1994; Simmel G., Soziologie. Untersuchungen über die Formen der Vergesellschaftung (1908), tr. it. di G. Giordano, Sociologia, introduzione di M. Guareschi e F. Rahola, Meltemi, Milano 2018; Simmel G., Hauptprobleme der Philosophie (1910), tr. it. I problemi fondamentali della filosofia, a cura di F. Andolfi, Laterza, Bari 1996; Simmel G., Ethik und Probleme der modernem Kultur (1913), tr. it. di P. Pozzan, introduzione di G. Calabrò, premessa di K. Gassen, L’etica e i problemi della cultura moderna, Guida Editori, Napoli 1968, ultima ed. 2004; Simmel G., Ultimi saggi sulla teoria della storia. Ein ganz neues buch (1916-1918), tr. it. di G. Chivilò, introduzione e cura di F. Mora, Mimesis, Milano-Udine 2018; Simmel G., Der Konflikt der modernen Kultur (1918), tr. it. a cura di G. Rensi, Il conflitto della civiltà moderna, SE, Milano 1999; Simmel G., Concetto e tragedia della cultura (1918), in Id., Metafisica della morte e altri scritti, tr. it. a cura di L. Perucchi, SE, Milano 2012; Simmel G., Lebensanschauung. Vier metaphysische Kapitel, Duncker & Humblot, MünchenLeipzig, 1918; tr. it. a cura di G. Antinolfi, Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997; Simmel G., Fragment über die Liebe, in “Logos”, 1921/22, pp. 1- 54; tr. it. a cura di M. Martinelli, Frammento sulla libertà, Armando Editore, Roma 2009; Simmel G., Lo masculino y lo femenino. Para una psicologia de los sexos, “Rivista de Occidente”, 1, n. 5, 1923; Simmel G., Saggi di estetica, tr. it. di M. Cacciari e L. Perucchi, introduzione e note di M. Cacciari, Liviana, Padova 1970;

Simmel G., Forme e giochi di società. I problemi fondamentali della sociologia, tr. it. G. Tommasi, introduzione di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1983; Simmel G., Filosofia dell’amore, tr. it. di P. Capriolo, a cura di M. Vozza, Donzelli, Roma 2001; Simmel G., La legge individuale, a cura di F. Andolfi, Armando, Roma 2001; Simmel G., Forme dell’individualismo, a cura di F. Andolfi, Armando, Roma 2001; Simmel G., Lo straniero, tr. it. a cura di D. Simon, Il Segnalibro, Torino 2006; Simmel G., Diario postumo, tr. it. a cura di M. Cacciari, Aragno, Torino 2011; Simmel G., Il mediatore, tr. it. a cura di A. Tonarelli, Armando, Roma 2014; Simmel G., Roma, Firenze, Venezia, a cura di F. Corecco e C. Zurcher, introduzione di A. Pinotti, Meltemi, Milano 2017; Simmel G., Lo spazio dell’interazione, a cura di F. Bianchi, Armando, Roma 2019.

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GEORG SIMMEL

L’EDUCAZIONE COME VITA Per una nuova pedagogia della scuola

PREFAZIONE DEL CURATORE (Vorrede des Herausgebers) Le lezioni di Pedagogia che diamo alla stampa sono state tenute da Simmel nel semestre invernale 1915-1916. Poiché le aule dell’università erano state adibite a lazzaretto, vennero tenute nell’Istituto botanico. A causa degli eventi bellici erano presenti a Strasburgo soltanto pochi studenti. Per questo motivo la piccola sala del suddetto istituto fu sufficiente per permettere agli studenti presenti di seguirle senza difficoltà. Ma proprio grazie a questa ristretta cerchia, dette a queste ore un carattere speciale e intimo. In tempi ordinari l’auditorio alle lezioni di Simmel sarebbe stato troppo piccolo; ma nonostante ciò, egli espresse i suoi pensieri con lo stesso amore e devozione. Simmel era talmente preso dai suoi pensieri che si generavano nello stesso momento e sembravano emergere dall’immediatezza della vita. Questa peculiarità delle lezioni di Simmel era particolarmente impressionante in cerchie più ristrette. Le lezioni stampate non potranno far rivivere ciò che gli studenti hanno imparato nel rapporto vivo con il Maestro. Per coloro che seguirono le lezioni nell’inverno 1915-1916 sembreranno nella forma come un saluto da molto lontano. Non sembra opportuno al curatore raccomandarle ad altri. Ciò che Simmel pensò e disse, non abbisogna di un’“Introduzione”. Il gruppo di Simmel, che continua a tenere insieme con la forza della sua anima persino dopo la morte, riconoscerà anche da questo libro la voce di colui che in vita fu un’indimenticabile guida. Da sottolineare il fatto che, secondo il volere del Maestro, originariamente il manoscritto delle lezioni non era destinato alla stampa. La morte, purtroppo, ha impedito all’autore di completarlo in una delle sue classiche pubblicazioni, che sono molto caratteristiche per Simmel. Ma proprio questo stato di non perfezionamento sarà più prezioso per il lettore che avrà l’opportunità di vedere un libro di Simmel nel suo realizzarsi. Per quanto concerne i princìpi, in base ai quali teneva le sue lezioni, egli si è espresso nel modo seguente: “Le lezioni devono avere influsso esclusivamente sul carattere/sentimento principale con il quale la giovane generazione di docenti dovrebbe approcciarsi al proprio impegno”. Al posto delle generiche raccomandazioni con le quali si cercava di influenzare le

tendenze fondamentali, l’autore si sforzava di illustrare la formazione di concetti concreti. Simmel voleva prescindere da un’“integrità tecnica”. Al curatore, Simmel ha assegnato il compito “di rivedere il tutto per eventuali errori tecnici”, poiché egli desiderava che le lezioni venissero pubblicate dopo la sua morte. Il modesto lavoro del curatore consiste, dunque, nel compimento di questa disposizione. Simmel non gli ha lasciato molto da fare. Strasburgo, dicembre 1921 Karl Hauter

INTRODUZIONE (Einleitung) Alla pedagogia spesso è negato il rango di scienza. In realtà, è un’arte che il singolo individuo esercita più o meno bene in rapporto alle sue doti. Se questo fosse esatto, ci sarebbe una scienza dell’arte. Le azioni morali non sono una scienza, eppure ne esiste una scienza. Neppure gli eventi della psiche sono scienza; tuttavia, esiste una psicologia. In breve, l’oggetto della scienza non è esso stesso scienza, ne è un’eccezione la gnoseologia. Queste lezioni non si pongono come scopo la pura analisi teorica dell’attività praticopedagogica, da esse non devono nascere studiosi della pedagogia come da un ciclo di lezioni di storia nascono studiosi di storia, bensì pedagoghi. Allora – ci muoviamo sul terreno della scienza, e di nuovo sorge la domanda: se l’azione pedagogica, la cui preparazione mettiamo qui in discussione, non è proprio scienza, ma qualcosa d’altro (secondo me arte), – come può svolgersi dunque, il nostro compito sul terreno della scienza? Si tratta di una semplice riflessione. Anche se il risultato di qualunque arte scaturisce da un dono individuale indipendente dal patrimonio scientifico, non c’è arte che non si completi con un sapere. E non solo in senso tecnico, che consisterebbe nell’esercizio delle nozioni di base, ma pure di un sapere della materia, dell’estensione e dei limiti dei compiti, di tutto l’insieme dei princìpi e massime che si ponga tra le ultime formulazioni, determinate dal talento e dal genio, e il lato tecnico-manuale che renda quest’ultimo accessibile al primo e glielo congiunga. Ogni azione pratica necessita del sapere e in ciò si riflette oggettivamente l’individualità soggettiva dell’uomo dalla cui radice crescono i due rami della teoria e della prassi. Talvolta l’agire pratico è superficiale e strettamente definito; altre volte è estremamente sistematico come nel caso del giurista che deve eseguire un procedimento efficace e che, dunque, necessita di una scienza completa. In questa analogia riconosciamo la posizione della pedagogia in quanto scienza. Deve esserci chiaro che non la coltiviamo qui, cosa che normalmente è l’orgoglio della scienza, solo per amore del sapere, come avviene per l’egittologia o la paleontologia: essa è per noi in funzione di una prassi e ne costituisce il fondamento. Ma, definire in modo concettualmente sistematico la teleologia pedagogica complessiva sarebbe un’inutile perdita di tempo. Qualsiasi uomo

colto sa almeno a grandi linee che cosa si intende con il termine “pedagogia”. L’oggetto di queste lezioni sarà completarne il profilo, evitando, però, una definizione di concetti formali. Ci si dovrebbe inoltre, occupare dei fini ultimi della pedagogia, cosa che già avviene in modo eccessivo nella letteratura pedagogica. Sulla pedagogia non esiste una vera e propria disputa – o meglio, se ve ne è una, può essere decisa in modo dogmatico. Tutte le questioni di principio: se la pedagogia sia una scienza autonoma o una particolare sintesi di altre scienze; se sia fondata sulla psicologia o sull’etica; se sia un capitolo della politica, della psicologia, o un impegno puramente individuale – ebbene, tutto questo non deve essere discusso per l’ennesima volta. Anche da questo punto di vista dobbiamo muoverci su un terreno mediano; dobbiamo interrogarci su quei criteri e regole che si pongono tra il principio fondamentale – qualunque esso sia – e tutte le singole iniziative o i metodi pratici puramente tecnici. Il limite della generalizzazione, del raggiungimento dei livelli più profondi è per noi posto dove la norma generale nel suo sviluppo in altezza o in profondità perde senso per la pedagogia pratica. Certamente, tale significato si inoltra molto in questo sviluppo, e io non eviterò di dare uno sguardo alle norme fondamentali dei molteplici aspetti della vita e del sapere. Ma sempre soltanto se, nel campo medio e pratico, si pongono in un collegamento sensibile e fondamentale per la pedagogia. Con ciò si presenta un’altra riserva1. Ultimamente sono state introdotte nella letteratura pedagogica ricerche in cui i risultati, seppur importanti per la pedagogia, nel loro senso e andamento sperimentale appartengono a tutt’altro genere di interesse scientifico e vi debbono rimanere. Le serie di nozioni che in sé e per sé si susseguono all’infinito vengono delimitate e selezionate in molteplici settori, in relazione alle intenzioni teoriche o pratiche per le quali sono indagate. Se ci si interroga, per esempio, sul significato della spedizione di un esercito all’interno della storia politica, è del tutto indifferente ed estraneo alle ricerche sapere le dimensioni dei battaglioni che marciano, nozione che probabilmente dal punto di vista tecnico-militare è fondamentale. Se, però, sento che la scarsità d’acqua nella zona in questione ha reso necessaria una suddivisione in piccoli battaglioni, non mi interessa sapere quali circostanze geologiche hanno causato questa carenza. E se ancora mi interrogo su questa aridità, non mi importa conoscere gli elementi chimici dell’acqua – e così, di seguito. Parimenti, non ci interessa qui conoscere le premesse fisiologiche alla stanchezza nata dal lavoro, gli esperimenti

psicologici intorno a essa, sapere quante volte devono essere ripetute sillabe prive di senso per poterle imprimere nella memoria, le ricerche demografiche sugli effetti dell’alcol, in base alle quali bisogna proteggere i bambini o metterli in guardia, le considerazioni se l’intelligenza sia una capacità analitica o sintetica. Mio interesse è la prassi e il suo approfondimento intellettuale, e non, eccetto in alcuni casi, le nozioni scientifiche che sebbene rendano casualmente comprensibili gli effetti della prassi, non la favoriscono immediatamente, né contribuiscono a darle il fondamento da cui scaturiscono la sua spiritualizzazione e risolutezza. Le questioni devono essere approfondite, per quanto è possibile, solo nella direzione che qui le è propria, cioè in quella pedagogica, e non, invece, in direzioni così scientifiche che le allontanano dalla pedagogia. Il nostro programma deve insomma prefiggersi di distanziarsi dell’ovvietà dei fini ultimi generali e dei particolari tecnici della lezione che restano riservati all’insegnamento in seminario e alla tradizionale attività pratica. Naturalmente devo trattare i singoli problemi pratici dell’educazione e della lezione. Ma è soprattutto mia ferma ragione raggiungere con questo studio una posizione pedagogica dello spirito che consenta all’individuo di decidere di porsi i problemi del suo lavoro quotidiano. Se io allora dico qualcosa che non è un’immediata indicazione pratica, ma solo contemplazione e fondazione filosofica, non perdo comunque di vista la prassi, perché questo deve aiutare a raggiungere quella disposizione pedagogica che dà alla pratica del singolo compito il suo giusto tono e la giusta intenzione che, tuttavia, non si può raggiungere con uno studio rigidamente limitato a questo singolo compito, bensì solo penetrando nelle stratificazioni più estese e costitutive. 1 Il carattere difensivo e cauto di questa introduzione è necessario affinché non siate delusi da quanto vi aspettate. Al termine della lezione, e solo allora, saprete cosa ho da offrirvi realmente. Dovete, però, essere consci subito di quello che non mi propongo di offrirvi.

1. IL RAPPORTO ESSENZIALE TRA EDUCAZIONE E INSEGNAMENTO (Das grundsätzliche Verhältnis zwischen Erziehung und Unterricht) L’insegnamento segue metodi ben definiti: Herbart e la sua scuola hanno suddiviso il processo didattico in una serie di gradi formali (perché applicabile in ogni singolo argomento). Le varie modificazioni sono importanti solo per la storia della pedagogia. Oggettivamente la migliore classificazione è la preparazione, la presentazione, l’unione (del singolo elemento con il suo corrispondente), sintesi sistematica, applicazione (Barth)1. Tutto questo è attraversato da un’ulteriore questione metodica. Si è voluto articolare il processo della lezione in due princìpi opposti, quale il parziale e il graduale, che tuttavia non possiamo mai tener separati in modo netto. Il primo suddivide la materia in quanto tale, e inserisce progressivamente in ogni periodo scolastico un’ulteriore parte. Il secondo procedimento presenta sin dall’inizio il tutto e utilizza gli anni seguenti l’approfondimento, l’ampliamento, la specializzazione. Tale questione dei princìpi – sebbene sia essenzialmente per la scuola elementare – definisce anche le due possibilità in cui potrebbe svolgersi altrettanto ogni altra lezione in reciproca esclusione e simultaneità. Storia e matematica possono essere insegnate solo strutturalmente (nella costruzione della materia); le lingue e le scienze della natura possono rappresentare l’essenziale, il fondamentale, il quadro complessivo dell’argomento e approfondirne poi, gradualmente, i particolari. In entrambe le forme l’allievo apprende, oltre al contenuto specifico oggettivo, lo sviluppo spirituale (Entwicklung im Geistigen). A partire da Herbart sono stati istituiti dei gradi formali che ogni insegnamento dovrebbe attraversare. La disputa su quanti debbano essere, su come debbano essere organizzati e collegati, mi sembra piuttosto irrilevante. – Perché tutto ciò si limita a formulare l’esperienza di pedagoghi pratici e intuitivi, quindi è molto utile che il loro procedimento didattico possa divenire in questo modo patrimonio comune anche dei meno dotati di cui ovviamente lo svantaggio di qualsiasi rigida schematizzazione per la vivacità

della lezione è la deduzione. Tre momenti mi sembrano di fondamentale importanza: 1. L’esperienza della fattibilità dell’oggetto. L’“intuizione” ne è solo un tipo. Lo scolaro (Schüler) deve essere avvicinato: ecco qualcosa che, per qualcuno, assunto dall’esterno, forse persino del tutto incompleto, si caratterizza come definito e appartenente al mondo. 2. Comprensione dell’argomento. Questa può essere conseguita in una certa misura completando la prima ed esterna opinione. I regolamenti si sostengono reciprocamente; se non vi sono più lacune, tra di loro, giungono a formare un tutto che gode di una comprensibilità immediata (organi di un animale, dettagli di un racconto, corsi di montagne e di fiumi in un Paese). L’ulteriore comprensione viene raggiunta allineando l’oggetto in un insieme più elevato o sottoponendolo a leggi. Perché solo la legge (generale o individuale) collega i dettagli all’intera totalità. 3. Applicazione: rielaborazione autonoma in ulteriori contesti, ripetizioni, uso per la soluzione dei compiti, assimilazione alla personalità complessiva nel e per il suo sviluppo eticointellettuale. In un’altra prospettiva il cosiddetto metodo di concentrazione propone una linea che attraversa i problemi metodici. Il principio della “concentrazione”, insegnato dai seguaci di Herbart, sostiene che in ogni grado del ciclo scolastico vi sia un motivo o una sequenza di pensieri conduttori e tutto il resto dovrebbe riferirsi a esso. Questa tesi ha molto dalla sua. Se per esempio la storia greca è l’oggetto di un lavoro di storia, non deve essere posta in relazione solo con la lezione o la lettura della lingua greca (il professore di storia deve sapere cosa al contempo fa il filologo), ma si può nello stesso tempo scegliere uno scrittore francese che tratti la materia greca, e studiare nella lezione di tedesco Ifigenia, gli dei greci, Laocoonte, ecc. (Barth). Tuttavia è possibile ottenere la concentrazione anche in modo meno materiale, per esempio lasciando che un insegnante intervenga in più materie, o accentuando e sottolineando negli ultimi anni di liceo il tema dello sviluppo storico nei campi più vari. (Scegliere in base a questo i temi, persino in matematica: storia della scienza). Regener non approva il “metodo della concentrazione”, per il quale un oggetto si pone come centro e unisce tutti gli oggetti già esistenti nel complesso di apprendimento in qualche modo collegabili a esso. Questo porterebbe infatti, alla frantumazione, alla distrazione, alla estraneazione, al semplice associativismo. “È certamente auspicabile che le sequenze immaginative non scorrano disunite e parallele,

ma che piuttosto siano unite da linee trasversali. Quando è possibile un tale collegamento? Nella ripetizione (Bei der Wiederholung). In questo caso possono e dovrebbero essere collegati all’oggetto di una materia aspetti che derivano da altri settori, e si dovrebbero concentrare intorno a un punto centrale (Mittelpunkt) le più varie masse di conoscenze. Ripetendo un tema come, per esempio, lo stagno, è possibile divagare e rifarsi ad altri argomenti, come il nuoto, il peso specifico, la diffrazione della luce, l’idrogeno, l’aria atmosferica, ecc. Non può più nascere confusione perché tutti gli elementi sono ormai noti, e si introduce dinamicità nelle masse di conoscenze”2. Ecco porsi nuovamente in un’altra dimensione la domanda metodica alla quale si vuole rispondere con il cosiddetto metodo genetico (genetische Methode). Il metodo genetico procede come se i contenuti educativi, ancora lontani, fossero raggiungibili attraverso un percorso graduale, il cui punto di partenza si troverebbe nel complesso delle conoscenze attuali, o comunque immediate. Perciò, non può essere qualsiasi grado, per quanto esteso, del procedimento didattico un mezzo pedagogico in sé indifferente. Il metodo è infatti più che altro una disposizione (Anordnung) della materia didattica che ha in sé lo stesso valore. Il procedimento non acquista importanza grazie alla meta, ma è prezioso nella sua unità. (Grammatica-lettura; esperimento-legge; guerre romane-dominio del mondo). È possibile affermare che il metodo genetico nel suo schematismo più generale si contrappone ad altri due modi di procedere: 1. Alla deduzione, che in un primo tempo presenta un contenuto didattico come dogmatico o problematico, per poi perseguirne il divenire e affermarne la validità; 2. All’accostamento e alla successione di singoli contenuti didattici. Ciò che è rimasto, se eliminiamo queste due possibilità metodologiche, è il metodo genetico. In pedagogia abbiamo tre dimensioni per costruire lo schema generale: 1. Si è considerato come il filo conduttore della lezione nel suo complesso il principio che lo sviluppo dell’individuo riflette quello della specie. Si sarebbe allora dovuto condurre sistematicamente lo scolaro attraverso le tappe che il processo mentale umano ha dovuto percorrere per raggiungere il grado attuale che lo studente dovrebbe assumere come verità valida. Così un pedagogo voleva condurre gli scolari dal paganesimo al cristianesimo attraverso il giudaismo, e un altro si prefiggeva di presentare agli alunni la botanica nella successione storica dello sviluppo di questa disciplina. Questo, per quanto possa ricevere un ulteriore perfezionamento, è abbastanza

illusorio. Perché a) la scienza e la religione formano sin dall’inizio un quadro molto intricato ed estraneo alla natura, per il quale è impossibile stabilire se lo sviluppo storico dei loro contenuti, che segue per lo più regole e impulsi oggettivi, si muova in parallelo allo sviluppo naturale della psiche infantile; b) noi conosciamo le tappe di questa evoluzione in modo incompleto, e quanto sappiamo a riguardo costituisce una massa talmente enorme e casuale che dovrebbe aver luogo una selezione basata comunque su giudizi di valore derivanti da nostri punti di vista attuali e oggettivi. Con questa si riconoscerebbe come decisiva una legge diversa da quelle ontocentriche; c) non è comprensibile perché si dovrebbe condurre il bambino attraverso tutti gli errori che, seppur parte del processo di maturazione, gli sarebbero in un primo tempo presentati come verità, sullo stesso piano di quelle successive. (A questo proposito ritengo tuttavia opportuno dire alla fine del liceo qualche nozione sul processo stesso della ricerca storica e sulla storia della storia). 2. Il metodo genetico dal punto di vista storico e sistematico. Il percorso didattico non conduce a questo punto alla realizzazione della conoscenza dell’oggetto, ma allo sviluppo dell’oggetto stesso. Nel caso della storia è ovvio; tuttavia, è necessario anche qui sottolineare che ogni stadio presentato non è solo da valutare in quanto premessa a uno successivo, ma anche in virtù del suo significato particolare. Se infatti tutto è storico, quando viene riconosciuto un valore oggettivo, deve essere approvato ovunque e universalmente. Qui sta solo la difficoltà che gli elementi di continuità delle possibili relazioni didattiche per l’alunno si muovano in direzioni molteplici e assumano rapporti casuali e diversi. Il metodo genetico implica da un punto di vista sistematico che i contenuti didattici vengano presentati in una sequenza sistematica e oggettiva, ossia dal semplice al composto (il semplice è spesso l’ultimo), dalla materia al principio, dalle condizioni alle conseguenze. Benché venga chiaramente premesso che questo corrisponda anche al processo di apprendimento psichico, il punto fermo è comunque che l’aspetto oggettivo dovrebbe essere insito nel suo ordine immanente; e così, come per quest’ultimo è indifferente la sua nascita psichico-storica, indifferente in sé e per sé è pure il processo di apprendimento da parte dello scolaro; questi infatti dovrebbe essere solo lo specchio dell’ordine logico-oggettivo. Finché è valida quella premessa dell’armonia non si può replicare nulla al metodo. Ma anche se essa non dovesse valere in tutto e per tutto, non si può negare

assolutamente che venga presentata allo scolaro la struttura in un complesso conoscitivo ordinato secondo norme ideali. L’alunno può vedere dapprima se esiste qualcosa del genere, se esistono tali strutture ideali con le loro norme, può solo alzare lo sguardo verso di esse senza percorrerle grado per grado; da questa esperienza potrà imparare ad adattare il suo modo di pensare naturale al rigore di questi nessi oggettivi. Si può raggiungere questo solo con un lungo e misurato controllo, affinché la linearità e la sequenza oggettiva non assumano uno spostamento soggettivo. 3. La genesi, che il procedimento pedagogico segue, può giacere nello sviluppo effettivo dello spirito del fanciullo. È vero che ogni lezione, che non sia un insegnamento meccanico, consiste nello sviluppo dell’intelletto, nel continuo passaggio organico da stadi incompleti a più completi. Ma vi è spesso una grande diversità sia nella tendenza come nei casi singoli, sia che si cerchi di guidare lo sviluppo, considerandolo soltanto come un’evoluzione che segue una linea pre-tracciata in modo oggettivo e sistematico; oppure osservando come il bambino si sviluppi a partire dal suo intimo per regolare su quest’evoluzione la struttura della materia didattica. Sembra che questo sviluppo psichico immanente porti un definitivo cambiamento dell’interesse (Interessiertheit): dall’intuitivo ricco di valori affettivi a quello puro, alle più semplici astrazioni oggettive, e infine, nell’adolescente, all’universale più vasto che torna ad assumere valori affettivi. Anche la considerazione della pubertà, il bisogno di riconoscere prima l’esteriore, poi l’interiore, e infine se stessi. In questa prospettiva si muove l’esperimento di Otto Pannwitz di insegnare ai bambini solo quanto chiedono, ciò che vogliono sapere. Ma è il caso di domandarsi se lo sviluppo effettivo (tatsächliche) del fanciullo, al quale si vuole dare il nutrimento adatto (così corporeo!), abbia un indice esattamente parallelo in ciò che nasce nella sua coscienza sotto forma di domanda. Se l’educazione spirituale deve portare ordine, senso, comprensibilità nel caos del mondo che travolge il giovane intelletto, è necessaria la formulazione secondo la legge e il caso singolo, la regola e l’esempio, il generale e il particolare. Ma non si pensi di poter dare una risposta definitiva e univoca all’interrogativo, se questa formulazione debba avvenire in modo induttivo o deduttivo. Presto (come nel caso delle lingue) si presenteranno degli esempi singoli per poi sintetizzarli in regole; quanto prima si partirà da queste ultime per provarle con esempi; più facilmente si darà allo scolaro solo

una parte della correlazione per lasciargli scoprire l’altra; o piuttosto si cercherà di trarre già da un singolo caso la legge generale. È opportuno che l’insegnante conosca questi metodi, non per utilizzarne uno in modo dogmatico-meccanico, ma per assimilarli come nutrimento da cui possa svilupparsi la sua produttività omogenea e organica; egli la deve trasformare nel suo processo lavorativo individuale, autonomo e vivo. Tutti i princìpi metodologici: induttivo, deduttivo, dogmatico, euristico, livelli formali o cerchi concentrici sono astrazioni schematiche, con le quali un insegnante vivace e creativo (schöpferischer) non fa nulla. Egli dispone infatti del proprio metodo (egli è un metodo), che potrà essere in seguito scomposto nei singoli elementi concettualmente separati, ma che però non potrà mai venire costruito in relazione a essi. Ma egli, per poter ottenere il meglio dal proprio metodo, deve conoscere tutti quelli esistenti oggettivamente. La pedagogia è viva (Pädagogik ist ein Lebendiges): ha per oggetto il vivente, non può essere sottoposta alla forma sistematica. È decisamente meglio che un cattivo metodo e un cattivo sistema didattico siano esercitati da un pedagogo valido, piuttosto che un cattivo pedagogo si serva di eccellenti princìpi oggettivi e contenuti didattici. L’insegnante ne terrà sempre conto, per non abbandonarsi troppo al disappunto e all’opposizione nei confronti delle regole che ritiene inadeguate. Gli schemi metodici oggettivi sono talvolta un ripiego del talento personale. La sistematica delle scienze che costituiscono l’oggetto della lezione non deve trarre in inganno. Questa sistematica, dove viene ricercata, ha un suo valore intrinseco, e con essa si costruisce un regno dello spirito oggettivo; comunque, all’interno della pedagogia, ogni sapere è un mezzo che mira alla formazione dell’uomo e ha bisogno, quindi, di un ordine del tutto diverso da quello in cui è fine a se stesso. All’interno di questa finalità della pedagogia che sono i soggetti umani si aprono indicazioni di carattere soggettivo e oggettivo, il cui chiarimento (insieme alla problematica che ne scaturisce) è indispensabile per un’analisi più profonda dei compiti del pedagogo. I metodi di insegnamento sono circoscritti alle problematiche generali dell’attività scolastica. L’insegnante ha in primo luogo due compiti del tutto eterogenei: deve comunicare allo scolaro una determinata somma di sapere oggettivo senza tener conto del valore umano-soggettivo dello studente, della sua personalità e dello sviluppo di questa; in tal caso, lo scolaro è il portatore del sapere e il suo apprendimento è lo scopo finale del suo agire. Dall’altro, il

docente deve educare lo scolaro, ne deve sviluppare al grado massimo e con ogni mezzo scolastico disponibile tutte le potenzialità intellettuali, morali e culturali, e porle nella direzione più valida; ora, l’apprendimento è solo una di queste risorse. Infine, vi è ancora un terzo scopo, che in un certo senso si pone al di sopra e tra i primi due, e che si può definire come “abilità” o “capacità”. Sono quegli insegnamenti che non portano a un sapere teoretico, ma producono la capacità di un agire valido da esercitare in modo pratico. Non si mira qui né a un sapere né a un essere, ma a un essere formato per il potere attraverso il sapere. Richiesta è anche l’educazione del soggetto; ma non si tratta più di una caratteristica della persona, di uno sviluppo del suo essere, ma di un rendimento oggettivo, definito in quanto tale e separato dalla personalità complessiva come qualcosa di indipendente e fondato su se stesso come il contenuto di un sapere, là dove ciò nell’educazione sarebbe impensabile (Undenkbares); la qualità della vita personale che dovrebbe essere il risultato dello sviluppo educativo, non deve essere pensata al di là di questa vita, come avviene nel caso delle capacità atletiche, linguistiche o artigianali. Tutto quanto si definisce con il termine abilità (Anwendung), per esempio la capacità di servirsi di una lingua straniera, si differenzia molto dalle conoscenze grammaticali e del lessico. Neppure in questo caso si tratta di un semplice sapere, per il cui apprendimento, come avviene nel corso di pure lezioni teoriche, il soggetto è passivo come un contenitore da riempire, ma si tratta di un addestramento delle capacità attive dello scolaro; al termine di tale insegnamento il suo essere non è definito (Bestimmtes), ma è in grado di eseguire qualcosa di definito. Tra queste intenzioni pedagogiche vi sono ora i molteplici rapporti, ponderazioni, complicazioni e conflitti. A fondamento di tutto è l’enunciato di Vauvenargues intorno all’educazione: Ce n’est pas une âme, ce n’est pas un corps, qu’on dresse: c’est un homme (non è un’anima, non è un corpo: è un uomo). Nei Greci classici l’insegnamento si riferisce essenzialmente a prove di abilità (Fertigkeiten): ginnastica e musica. Solo nel periodo ellenistico il momento pedagogico-educativo si arricchisce di una più vasta conoscenza (Kenntnissen): lingua nazionale (grammatica), letteratura, filosofia. – L’insegnamento medievale è essenzialmente la preparazione alle funzioni sacerdotali, l’esercitazione umanistica nel latino classico, una prova di destrezza; a partire dal XVII secolo vi si aggiungono altre materie scientifiche come matematica e storia. L’educazione delle fanciulle

consisteva ovunque in esercizi di bravura, e solo da circa 100 anni si è ampliata volgendosi alle conoscenze (Barth). Il principio educativo moderno introduce un terzo grado, che in verità si avvicina più allo scopo di far maturare le abilità dello scolaro, piuttosto che ad approfondirne le conoscenze: le nozioni sono ora solo il mezzo per plasmare l’essere (Sein) dell’allievo, che è fine a se stesso, ma che si esprime in virtù della propria abilità. Utilizzando il sapere come strumento, avviene, dunque, un decisivo approfondimento dell’ideale di destrezza (Fertigkeitsideals). Nel corso di tutto il Medioevo e, a parte alcune eccezioni, sino a Pestalozzi, l’insegnamento corrispondeva a un semplice sapere che certamente prospettava come scopo (Zweck) ulteriore una certa abilità. Per i ceti dotti più alti si trattava in verità solo del dominio della lingua letteraria: divenire la “scimmia di Cicerone” era il vero scopo della Bildung. Lo scolaro era considerato un contenitore (Gefäß), nel quale si versavano le nozioni, che presentava sempre la stessa qualità ed era, quindi, indifferente; al massimo poteva essere differenziato secondo la sua capacità ricettiva. Non si può negare che oggigiorno il nostro sistema scolastico non si è distanziato ancora sufficientemente da un tale oggettivismo del fine (Objektivismus des Zieles). Non ne parlo per fare della sterile critica, lo scopo di queste lezioni non è trattare de lege ferenda (a norma di legge), ma accettare la scuola come essa è e chiedersi, appunto, come può il singolo individuo, con la premessa di questa condizione per lui immutabile, essere un buon insegnante (Lehrer)? È inoltre necessario conoscere questo dato di fatto nella sua natura (Charakter) – la questione, se sia buono o cattivo, non riguarda un livello da noi affrontato, e lo stesso insegnante è bravo, quando non lo pone troppo spesso di fronte a questa domanda, ma lo riconosce in un certo senso fatale come base e si chiede continuamente soltanto se egli sia buono o cattivo. Il nostro esame – e promozione – non mira all’uomo educato, ma a quello informato [consapevole] (unterrichteten), pretende semplicemente una somma del sapere unita nelle migliori delle ipotesi a quella capacità di applicazione, che va da sé per la persona normale. Al tempo dell’Umanesimo era comprensibile la sola valutazione del sapere materiale in quanto dominava la pura idea classica dell’immediata connessione (Zusammenhang) del sapere con le qualità morali (virtù = sapere; Socrate) sia pure in una forma grottescamente unilaterale. Nella prima metà del XVI secolo, Vives dichiara che la meta del processo di apprendimento è raggiunta quando il giovane non solo diviene

più saggio, ma pure migliore; quasi negli stessi anni, Trotzendorf insegna come la buona qualità di un discorso latino o greco testimoni il valore morale del suo autore, e come invece una relazione oscura e confusa ne rispecchi la malignità. Ma una tale concezione metafisica non aveva già più validità né giustificazione, quando ancora nella mia giovinezza alcuni professori erano della ferma opinione che uno scolaro che usasse “panis” al femminile o che avesse problemi con la consecutio temporum dovesse necessariamente finire al patibolo – l’ultima eco dell’insegnamento socratico. In ogni caso in questo umorismo era vivo un entusiasmo ancor più personale per la materia, di quanto sia ora nella pretesa fredda e puramente obbiettiva di trasmettere un semplice sapere, la cui aridità e indifferenza di fronte ai veri valori della vita non si preoccupa nemmeno in conclusione delle qualità morali dell’alunno. Avendo dunque considerato questa eventuale preoccupazione come una follia, si è dimenticato l’interesse per una formazione completa della persona nella sua totalità e si è fatto di un sapere completamente staccato dall’uomo, sospeso nel vuoto, il criterio per giudicare l’obiettivo della sua formazione scolastica. Voglio seguire lo sviluppo della pedagogia partendo ancora una volta dallo stesso punto, ma in relazione al principio metodico: la pedagogia precedente ancora sino alle più vecchie forme dell’Umanesimo considerava lo scolaro come un oggetto passivo, nel quale bisognava imprimere una quantità di conoscenze e tipi di comportamento: egli era come la tavoletta di cera sulla quale si incidono dei segni. Per questo in tutto il Medioevo la memoria è vista come la qualità più importante dell’alunno. Quando gli umanisti gli prescrivevano come regola: multa rogare, rogata tenere, retenta docere (Barth), intendevano il docere come un semplice trasferimento [travaso] di dati, che si distingue dal tenere solo per un cambiamento di direzione, ma non come abbandono di principio della passività; avveniva come se i segni fossero copiati dalla tavoletta di cera. Soltanto Comenius (contemporaneo di Leibniz) inizia a considerare l’alunno come un essere attivo, guidandolo alla comprensione e all’applicazione di quanto studiato. È la stessa svolta decisiva avvenuta nella storia dell’assistenza ai bisognosi. Anche dove quest’ultima acquista un carattere importante, il povero è inizialmente il suo oggetto, sia nel caso in cui l’elemosina serve soprattutto alla salvezza dell’anima del benefattore, sia quando l’assistenza vuole preservare la società solo dalle conseguenze della miseria che possono essere

preoccupanti. Soltanto nei tempi più recenti il povero diviene un soggetto attivo (parziale) dell’assistenza, quando cioè gli si concede il diritto al soccorso. (Di conseguenza: crimine e pena; questa non è solo qualcosa di oggettivo che viene inflitto al colpevole, che resta sempre passivo). Il passivismo nella psicologia è in stretta relazione con l’intellettualismo; laddove si tratta di un apprendimento solo per sapere e laddove l’applicazione risulta immediatamente dal sapere, l’oggetto dell’apprendimento può apparire facilmente come una materia da trasferire nello studente, come in un contenitore. Il motivo dell’attività dello scolaro avrebbe riguardato l’idea che apprendere e registrare le nozioni è un’attività. Per quanto ne sappia, ciò non è mai avvenuto con coscienza. Ma la corrente generale della cultura che culmina nella filosofia dell’azione kantiana e fichtiana ha certamente subìto questa svolta. Riconoscendo che non vi è solo un soggetto che insegna, ma pure un soggetto che apprende, e che ogni pedagogia può risvegliare e indirizzare solo l’attività dello scolaro (Tätigkeit des Schülers) – si sono tratte le seguenti conclusioni: 1. Riconoscimento dell’individualità dell’alunno come fattore determinante; perché sino al momento in cui si trattava solo di imprimere una materia oggettiva e uguale per tutti, non sussistevano per la lezione le differenze individuali degli allievi; non appena, però, l’elemento decisivo spegne l’attività, diviene centrale anche il valore del soggetto attivo. 2. Rinuncia dell’insegnante all’assolutezza dell’autorità. Egli può pretenderla solo in virtù del processo di insegnamento, nella misura in cui è l’unico efficace. Non appena diventa cruciale l’individualità dello scolaro e naturalmente anche quella del maestro, l’incondizionatezza (Unbedingtheit) dell’autorità deve cadere. La tendenza della pedagogia moderna è la rinascita dell’attività dello scolaro, che solo ricrea, non come in passato. Il tema di latino era un’impossibile prova di mediazione. Il componimento è tanto più accessibile, quanto più è rivolto all’individualità dello scolaro. Oggi non si pretende che tutta la classe sappia scrivere un tema, ma si propone agli alunni una mezza dozzina di titoli. Questo giustificherebbe delle pretese molto più alte. Ma anche qui bisogna considerare che l’alunno deve misurare la propria attività autonoma per oggetti, che non sono propriamente destinati a lui. Non si vuole con ciò trascurare l’individualità, ma cercare un modo per educare anch’essa. Tale svolta ha comunque come effetto che la pazienza (Geduld) diviene una delle caratteristiche sempre più necessarie dell’insegnante. La

comprensione e l’apprendimento sono un processo organico, – che possiede un tempo maturo, – che cambia individualmente. Finché l’insegnamento è stato considerato un processo di riempimento meccanico degli alunni, la pazienza non era indispensabile perché il tempo necessario allo svolgersi di tale processo è esattamente calcolabile, se ne può attendere l’effetto in un momento preciso e così si crea il presupposto e la giustificazione all’impazienza (Ungeduld). È stato criticato che si giudichi l’allievo solo in base ai risultati scolastici. Tale critica è corretta quando dai profitti non riescono a emergere in alcun modo le capacità dell’alunno. Se però ci si limita ai profitti non saprei più come si dovrebbe trarre una conclusione da questi effetti sulla causa. Il concetto (Begriff) di realizzazione deve essere preservato specialmente in due direzioni per evitare il restringimento: innanzitutto, il rendimento (Leistung) non è dimostrabile in modo fisso e oggettivo. La vivacità, l’intensità, l’interesse, la prontezza di spirito con i quali l’alunno presenta quanto è oggettivamente anche rendimento ed è la stessa “questione”. Se però si considera quanto può essere fissato, si commette perlopiù l’errore di classificare i valori e le doti secondo una scala impersonale e immutabile. Lo stesso risultato nel caso di due scolari può rivelare due diverse misure di attitudine, come avviene di solito, da attribuire alla diversità di qualità morali, come la diligenza, lo sforzo, l’attenzione, ecc. Proprio nel corso delle tipiche prove scolastiche si può raggiungere uno stesso buon risultato grazie a un’intelligenza o a una predisposizione specifica. E occorre ancora distinguere nell’ultimo caso se si tratti di un coinvolgimento di tutta la persona e del suo interesse vitale nella materia, o di una semplice fredda capacità che non è collegata centralmente con la personalità. Questa è il principio decisivo più importante che nei singoli casi è al tempo stesso di carattere pratico: lo scopo della scuola è l’educazione della persona oppure il raggiungimento di un obiettivo. Ecco la riflessione a cui pensare. La miseria dell’insegnamento consiste nel fatto di avere come oggetto immagini slegate dalla vita, portate in superficie e irrigidite. È questa l’immagine speculare del risultato obbiettivo che viene preteso dall’alunno (che naturalmente bisogna anche chiedere). Invece della lingua viva (lebendigen Sprache) impariamo i singoli vocaboli, le loro singole forme grammaticali e sintattiche, intrecci a posteriori; anziché del vero sviluppo storico si considerano le date ai singoli numeri di anni, al posto della vita

religiosa i dogmi. Anziché essere condotti sul cammino della vita, veniamo posti davanti a una raccolta di pietre miliari e obbligati a studiarne a memoria le iscrizioni. Non sperimentiamo la viva unità, ma ne dobbiamo ricostruire una secondaria “sintetica” ricavandola dai suoi prodotti frammentari, freddi e isolati. Non si può ora negare che tale unità esista idealmente, in quanto unione oggettivamente logica di questi contenuti che da un lato ha un proprio significato prezioso, e dall’altro è riflesso e simbolo o pura forma ideale della sua unità di vita. La relazione che la pedagogia deve produrre tra la materia di insegnamento e la formazione umana (Menschenbildung) è la stessa che regna fra lo spirito oggettivo e la vita. La dualità insegnamento-educazione è l’unità all’interno della scuola: la lezione ha come oggetto il contenuto dell’insegnamento e dell’apprendimento, mentre l’educazione ha come oggetto il processo. Il lavoro dello scolaro non è significativo per il mondo come quello dell’adulto; da un punto di vista obbiettivo è, infatti, indifferente che vi siano contenuti due o venti errori, e il suo significato è puramente soggettivo in relazione alle capacità e ai doveri dell’alunno. Mentre il lavoro dell’adulto è valutato sul risultato e il procedimento che ha permesso di ottenerlo è indifferente, per l’allievo è importante il lavoro come tale, egli deve lavorare senza commettere errori per poter acquisire esercizio, conoscenze e abilità. Non può pensare che la cosa valga solo per lui, al contrario, deve credere che la perfezione della sua attività sia oggettivamente importante e necessaria. Questo è il contesto in cui si muove il lavoro degli studenti. Una realtà che ha valore solo soggettivo viene nondimeno considerata come un compito pienamente obbiettivo. Ma tale oggettivazione, che lascia apparire l’impegno scolastico dipendente dal risultato in sé e per sé, diviene pericolosa per il docente e lo scolaro. Induce entrambi a trascurare la pura teleologia soggettiva del lavoro e a interessarsi solo del risultato (Lösung) che, sciolto dai suoi fini pedagogici, è esatto e sufficiente. Lo studente deve lavorare solo come se questo fosse il caso, mentre per il docente la qualità del lavoro deve essere soltanto il mezzo per giudicare la riuscita o il fallimento del processo pedagogico. L’estremo difetto si ha quando l’insegnante vede in uno sbaglio di grammatica latina una macchia nell’ordine cosmico: certamente si è giustificato formalmente il puro procedimento meccanico di studiare e recitare a memoria come metodo dinamico autentico o perlomeno legittimo in

quanto rafforzamento della memoria (Gedächtnisstärkung) con la qual cosa si è indicato il minimo del valore funzionale dell’apprendimento. “Vengono inoltre formulate le più strane teorie sulla memoria e non la si apprezza mai abbastanza. A volte appare come una dispensa [magazzino di provviste], amara quando non usata nel modo giusto. Talvolta è una raccolta di materiali in base a cui si impara a pensare, altre volte è uno strumento che non può essere esercitato abbastanza, e la metafisica deve cooperare con l’esperienza per tutelare questo sapere discutibile e banale. Richiamando le parole di Goethe (Qualcosa comprender non si potrà. Continuate a vivere: passerà) si è difesa la prassi che ricorre nella lezione di religione, di far studiare a memoria anche ciò che non si comprende, perché la vita e il destino in seguito daranno la facoltà di capire”. – Falso! Solo quando ciò che è studiato viene in qualche modo (irgendwie) compreso (verstanden ist), la vita può approfondire e correggere questa comprensione (Verständnis). Quello che non viene compreso non avrà nessun ulteriore sviluppo, rimane intrappolato –. Tuttavia, vi è l’interesse dell’alunno stesso nell’insegnamento che è di due tipi: 1. Sul contenuto e sull’oggetto. Egli vuole conoscere il soggetto, non per il desiderio generico di ampliare le proprie conoscenze, ma per l’oggetto in sé, nel quale calarsi e confondersi, col quale vuole soddisfare la sua coscienza. 2. Per la conservazione della propria energia, potenzialità, capacità di superare le difficoltà, per il controllo intellettuale (dem geistigen Beherrschen), per l’espansione e lo sviluppo del proprio io. La pedagogia è in genere scienza e tecnica dualistica. Per tale motivo, i suoi requisiti hanno sempre un contenuto oggettivo e soggettivo; essa è destinata continuamente a fusioni, compromessi, e al doppio degli interessi. Ma, in conclusione, procediamo nel modo più coerente sempre con due gambe. Questa decisione di principio (che nella pratica per altro non deve portare affatto a un radicale aut-aut) è in stretta relazione con un’altra che si realizza a un livello più profondo, e di cui talvolta è la conseguenza. L’alternativa tra uguaglianza generale e particolarità individuale porta come obiettivi educativi molteplici combinazioni. Si può presupporre che i bambini quanto più sono tali, non si differenzino gli uni dagli altri, e che l’educazione debba elaborare l’individuale, oppure si può prendere come punto di partenza l’individualità del talento e puntare all’uniformità dello status. Il mezzo più immediato per tendere a essa è l’accentuazione del contenuto didattico

oggettivo. Trasmettere i semplici contenuti didattici è un principio democratico, perché può essere effettuato in modo estremamente facile con tutti. La medesima cosa avviene con l’alleggerimento degli esami, perché lo sviluppo economico permette di studiare a tanti e le richieste si sono di conseguenza ridotte. Solo l’afflusso di così tante persone non adatte agli studi superiori ha provocato le grida contro il sovraccarico di lavoro. Tuttavia gli allievi qualificati non sono mai sovraccarichi. Cambiamento attraverso la guerra? Tentativo più elevato: sfruttare l’omogeneità e stabilità dell’obiettivo per garantire alla personalità di formarsi, affermarsi e manifestarsi. È l’occasione per chiarire la differenza tra individualità e soggettività. Se però ora, si è rinunciato a limitare l’intenzione al contenuto didattico singolo, isolato, e ci si è posti una meta più generale (dove il generale non è l’astratto, ma ciò che è completo e approfondito), questa assume ancora una volta un significato più stretto e uno più ampio, come si è già dimostrato in precedenza. Al di là della singola materia vi sono infatti: 1. La generalità della funzione intellettuale, la capacità spirituale e la formazione, lo sviluppo dell’energia, dalla quale la stessa singola materia di apprendimento era stata acquisita. Non ci si deve più limitare a dominarla, ma impossessarsi, sviluppare la capacità di assimilare più facilmente un sapere sempre crescente, a migliorare lo spirito nel suo insieme, come potenzialità, come vita. 2. Ma questo riguarda pure lo scopo ulteriore: formare la persona nella sua totalità, educarla, anche in tutti gli ambiti non intellettuali. L’insegnamento, trascendendo sia il proprio significato intellettuale più specifico sia quello più generale, può essere un mezzo essenziale; questo fine potrebbe, però, essere ottenuto anche attraverso i molteplici comportamenti dell’insegnante, il significato del contenuto didattico e l’organizzazione del sistema scolastico: l’educazione è sempre educazione di tutto l’uomo. Ma come mezzo educativo non serve solo la lezione, bensì pure l’educazione, cioè la formazione delle facoltà psichiche, dell’imparare a priori e della partecipazione attiva alla lezione: il principio moderno della profilassi. Ottenere il controllo più efficace delle manifestazioni, agendo sulle loro cause poste sempre più in profondità – è quanto nella pedagogia viene definito come il procedimento psicologico. Fine ultimo della pedagogia è portare a una determinata qualificazione il ragazzo in quanto soggetto individuale. Non si deve ora risolvere la questione, se lo scopo di tale attività

plasmatrice sia il compimento della natura attuale della personalità o una preparazione alla sua vita futura nel mondo. In ogni caso, lo scolaro in qualunque momento sino alla fine del periodo scolastico dovrebbe essere considerato in quanto tale. Per questo occorrono, come ratio essendi e cognoscendi, alcuni benefici (Leistungen) dello studente, prove oggettivamente valutabili del sapere e della conoscenza (Wissens und Könnens). Queste sono classificate come il fine ultimo della pedagogia. Esse, indipendenti dalla personalità – anche se la personalità rimane un insostituibile vettore, che la stessa venga considerata non per sé, ma in quanto realizzatrice di tale obiettivo – sono talmente scivolate nella dimensione dell’oggettivo, che si pone come cammino verso di essa solo il più breve e diretto oggettivamente, e il soggetto attivo viene considerato in modo corrispondente come il logico correlato sempre uguale e universale. Se, insomma, lo scolaro operoso viene valutato solo dal punto di vista di questa oggettività, l’attenzione alla sua personalità, la funzione della sua prestazione equivale al livello zero. La consueta educazione scolastica, però, non agisce su una psiche media dello scolaro sempre costante, ma, per così dire, su nessun tipo di psiche; dal momento che non vengono considerate le sue differenze, sparisce di conseguenza come fattore costante dal calcolo pratico. La correlazione tra l’oggettivo e l’universale identico è primitiva e insufficiente, se ci si attiene all’oggettività dell’obiettivo educativo. Invece di volerla raggiungere in una linearità che coinvolge il soggetto a un livello superficiale, si indaghino le forze soggettive, che provocano questo effetto oggettivo, e le condizioni per le quali si produce. Solo quando si capisce il processo in questo strato produttivo più profondo, lo si può dominare con una sicurezza tanto più grande, quanto più precoce è il momento in cui lo si influenza. Ma nella misura in cui la vita psichica viene plasmata quale fattore psichico che fornisce prestazioni oggettive, questo fattore viene anche inevitabilmente individualizzato (individualisiert). Se individui completamente diversi dovrebbero raggiungere lo stesso risultato oggettivo, [anche] gli effetti su di essi dovrebbero essere differenti. Quando si parla di lezione personalizzata si pensa in genere all’individualizzazione dei contenuti e degli obiettivi didattici. Ma poiché questa può giungere solo sino a un certo limite (in parte perché gli alunni si affacciano poi sullo stesso mondo che presenta esigenze costanti, in parte a causa della lezione scolastica collettiva), e poiché si è dimostrato che con un

grado possibile di individualizzazione non si ottiene un rapporto adeguato fra prestazione e soggetto, la differenziazione perlomeno, oltre a ciò, deve aver luogo in un’altra dimensione, cioè nel trattamento del soggetto. Finché sussiste e deve continuare a esistere di per sé la pretesa della stessa meta didattica oggettiva, l’insegnante dovrebbe cercare di spiegare quali difficoltà nel trattamento del singolo scolaro gli abbia impedito di raggiungerla. Anche qui si devono trascurare in gran parte le cause generali (allgemeinen): pigrizia, cattiva volontà, disattenzione, ecc.; ma anche quando ne appare una, bisogna indagare la struttura più profonda della persona che spesso è la causa di tali caratteristiche considerate secondarie. Il maestro dovrebbe cercare di comprendere se allo scolaro manca l’intuizione interiore (an innerer Anschauung), la facoltà empatica, la memoria, la capacità combinatoria e l’abilità espositiva. E invece di pretendere un risultato da chi non sa raggiungerlo (cosa che in parecchi casi più rari può essere ugualmente importante), cerchi di formare il sostrato intellettuale con consigli su esercizi formali, agendo sull’animo dell’allievo, rendendo attraente la funzione mancata – in modo che possa essere raggiunto il risultato (Grundlage): la corrente deve essere regolata alla fonte (an seiner Quelle), se si vuole che scorra con forza e in una determinata direzione. Al sovraccarico si può ovviare in due modi: diminuendo il materiale didattico o potenziando le forze dell’alunno, oppure migliorando i metodi. Se considerassimo di più il comportamento del bambino nel suo lavoro (das Verhalten des Kindes bei seiner Arbeit) quale oggetto dello sforzo pedagogico, se la lezione mirasse di più a formare come pure forze psichiche l’attenzione, l’interesse per le materie, la buona volontà nell’apprendimento, la memoria, la prontezza di spirito, se insomma migliorassimo il fattore soggettivo, allora potremmo aspettarci di ottenere più profitto oggettivo che in precedenza. Dal punto di vista della materia didattica oggettiva la questione pedagogica è duplice: 1. Che cosa deve essere imparato; 2. Come deve essere appreso. L’ultimo punto diviene solo nei tempi più recenti oggetto di riflessione3, in rapporto al soggettivismo della modernità, al passaggio dal contenuto oggettivo al fattore psichico soggettivo mediante il quale e nel quale si realizza, all’approfondimento della serie teleologica. Il primo aspetto è stato considerato con il principio della Bildung formale. Si pone il contenuto didattico in contrasto con la forma psichica che lo

memorizza, plasma e sviluppa. Nel momento in cui non si esige più solo il contenuto, ma piuttosto si vuole potenziare e formare l’energia psichica che lo tiene in mente [registra], si ottengono le basi per un ulteriore illimitato patrimonio intellettuale. Avviene come se nelle attività fisiche si cercasse di ottenere non un’unica prestazione lavorativa, ma un rafforzamento muscolare che consenta in futuro di raggiungere ogni tipo di rendimento. Questo esercizio ha involontariamente (Unwillkürlich) luogo in ogni atto dell’apprendimento. “Ogni esercizio specifico delle funzioni parziali diviene in seguito in un certo qual modo l’esercizio della funzione generale corrispondente. Chi si esercita in osservazioni visive o uditive potenzia allo stesso tempo il suo spirito di osservazione complessivo. La formazione della volontà in un campo prettamente fisico permette di esercitare in un certo senso anche la volontà interiore”. Questo proponimento può svilupparsi dal punto di vista sistematico in due direzioni: si possono scegliere alcuni oggetti didattici o sostenere l’importanza della loro pratica, perché accanto al loro contenuto (che in sé può essere più o meno valido) essi esercitano proprio quell’effetto funzionale e formale; oppure si possono intraprendere esercizi puramente formali, ma si deve anticipare che questa alternativa finora è stata applicata e consigliata molto raramente. Si è notato che, facendo esercizi di memoria puramente sistematici e formali con alunni delle prime classi, si giunge a duplicare o triplicare le loro capacità mnemoniche rispetto ai risultati che la scuola otterrebbe (scuola elementare). Si è perciò dedotto che la scuola elementare dovrebbe ritornare a esercizi mentali puramente formali. Meumann sostiene che sarebbe invece meglio pretendere che la “lezione utilizzasse la materia didattica data più in funzione di esercizi formali, ma che non sarebbe opportuno l’inserimento sistematico di puri esercizi formali”. Con ciò è formulato e sottinteso il principio che enuncia l’atteggiamento con cui dovrebbe essere impartita ogni lezione scolastica, e nella sua prospettiva saranno poste tutte le nostre discussioni dalle parti più diverse, in termini espliciti o taciti. Nessuna materia deve essere insegnata ai fini del puro sapere, o perché qualcosa che già si trova in un libro venga inciso in una coscienza nella stessa forma irrigidita. Non deve essere studiato nulla che al di là del suo contenuto sostanziale non offra un contributo alla vita (Leben) dello scolaro – sia esso un potenziamento dell’energia, che sostiene funzionalmente questo studio, o attraverso il senso ulteriore operante che

questo contenuto acquisisce per l’approfondimento e la chiarezza, l’ampiezza e la moralità dello scolaro. L’uomo attivo intellettualmente, il cui presente è al tempo stesso futuro, del quale è responsabile, colui che si impegna “sforzandosi”, svolge ogni compito come se stesse lavorando a qualcosa di più. In rapporto alla sua vivacità intellettuale trae da ogni compito, come prodotto ulteriore, un rafforzamento, un esercizio, un’abilità per la sua personalità complessiva, portando così a un grado superiore la totalità del suo futuro, che permane in lui vivo e in continuo sviluppo, ed eleva verso un grado superiore tutta la δύναμις imprevedibile nell’azione successiva. Il giovane Goethe scrive che tutto quanto affronta come un singolo compito viene da lui “considerato come un esercizio”. Ogni lavoro che mira a un contenuto è in tali persone al tempo stesso educazione; in questo senso, ogni lezione deve essere un’educazione e deve “educare” i giovani a proseguire da soli il processo educativo. Il detto: non scholae sed vitae discimus (non impariamo per la scuola, ma per la vita) è giusto in un senso ancor più profondo di quello che veniva inteso. Intende la “vita” in senso esteriore, futilità delle nozioni apprese in funzione delle attività. Ma deve essere valido per la vita del soggetto e la valorizzazione delle sue qualità interiori, delle quali l’abilità e la sufficienza esteriori non sono che una conseguenza. “Non insegnare nulla che non abbia un significato per la vita futura” (Regener). Questo diviene problematico quando andrebbe a coinvolgere il contenuto (Inhalt). Alcune cose hanno un ruolo all’interno della lezione, solo perché devono essere semplicemente conosciute e ricordate. E fra queste vi è chiaramente una ristretta scelta di cose che per il loro valore possono avere un significato per il futuro nella vita. È un abuso far studiare i nomi dei giudici ebrei, le classificazioni poco differenziate delle alghe, le città cilene, i titoli di tutti i drammi di Grabbe. Qui, solo un’accurata teleologia deve decidere: che cosa suppone nei suoi membri il livello di cultura della classe in questione? Ma è diverso quando il valore funzionale dell’apprendimento, quando la forza, la determinazione e la finezza dello spirito creano da un punto di vista formale la prospettiva pedagogica. Allora possono essere imparate molte cose, il cui contenuto va poi dimenticato, così come si lascia da parte l’attrezzo ginnico non appena viene raggiunta la forza muscolare desiderata. Se la meta dell’educatore è giungere a non essere più indispensabile, questo vale anche per i contenuti didattici (almeno per alcuni). Non si deve più aver bisogno del latino e della matematica per pensare in

modo acuto; anche quando essi avessero realmente questo successo, la funzione deve staccarsi dal contenuto. Da questo si differenziano quei contenuti che dovrebbero essere ricordati come oggetto della lezione in senso più stretto. La fusione di entrambi i generi dovrebbe essere il compito più alto della lezione. Vi è, inoltre, un terzo punto: da oggetti singoli, successivamente irrilevanti in sé e per sé, rimangono risultati generali e di principio, che non sono educativi in modo puramente funzionale, come avviene per la matematica. Indifferenza delle singole tesi; ma il sapere, il mondo matematico è un patrimonio insostituibile in ogni tempo. (La magia della matematica). Similmente avviene per il greco. Il fatto che gli ideali culturali si siano una volta realizzati con questa ricchezza e questa forza, che allora il mondo intellettuale (non solo frammenti casuali) sia cresciuto, che un piccolo popolo abbia formato il proprio materiale linguistico con tanta finezza e capacità espressiva, tutto questo è un’esperienza spirituale imperdibile. La fiaba (das Märchen) non ha un significato pedagogico, nel senso di preparare il bambino al mondo dell’adulto. Dispone piuttosto della struttura immanente dello spirito infantile, porta il bambino a un certo completamento, totalità, forma ideale del suo modo di pensare, si definisce e giustifica in funzione del bambino in quanto tale e non in quanto futuro adulto. Per questo viene rifiutata dai pedagoghi che vogliono educare i fanciulli solo come candidati al mondo degli adulti. Meumann rifiuta le fiabe perché sarebbero “innanzitutto un patrimonio non elaborato, relativamente estraneo al bambino di intrecci immaginativi, che il fanciullo non è in grado di valorizzare nella vita”. Come se ci fosse solo una vita esteriore (äuβeres)! Come se il bambino non fosse in grado di sfruttare nel modo più intensivo la fiaba per la sua vita interiore!4. È un’impresa difficile condurre gradualmente (allmählich) il bambino dal suo mondo artificiale a quello reale. Il mondo “reale” è naturalmente quello definitivo per l’adulto, il mondo nel quale ci sono già abbastanza “artifizi”. Un buon procedimento può essere il collegamento tra la vita e le esperienze dell’alunno prima e durante il periodo scolastico. Partire dalla vita è una condizione fondamentale, se l’allievo dovrà essere formato per la vita futura. L’insegnante non perda alcuna occasione per indagare le esperienze dello scolaro, per dare loro un senso, un nesso, una valorizzazione interiore ed esteriore. Deve verificare lo spirito filosofico per il quale da ogni punto

dell’essere superficiale parte una linea retta collegata alle profondità fondamentali. Dal punto di vista del contenuto questo non ha bisogno di essere filosofico, perché l’approfondimento e l’attribuzione di un senso non devono giungere fino al livello specificamente filosofico. Deve essere mantenuta solo la direzione (Richtung) verso questo. Un’ottima prova potrebbe essere la Passeggiata di Schiller, o anche La campana; le poesie filosofiche di Schiller dovrebbero essere curate con la massima ampiezza nelle ultime classi. L’idea introdotta nella scuola dal classicismo, secondo cui la scuola è “un mondo distinto” dalla vita quotidiana degli alunni, che sia una dimensione più alta, rispetto alla quale i contenuti della vita abituale sarebbero più bassi, materiali, possibilmente da cancellare, confonde in modo assai rozzo la materia con la funzione. Funzionalmente, in quanto intellettualizzazione e spiritualizzazione, approfondimento e analisi scientifica, la scuola deve essere un mondo distinto da quello della vita casuale, banale e soggettiva; questo può però avvenire totalmente solo quando accetta quegli stessi contenuti, quando spiritualizza e porta a connessioni più alte ciò che la vita adempie in forma più grezza e più isolata. Perciò è corretto che debba venire intrapreso un cammino che passa anche attraverso altre materie (Materien), e che un mondo di ideali oggettivi e storici venga contrapposto (gegenübergestellt) alla semplice realtà. Pensare per principio che la scuola sia anche per i contenuti trattati l’altro lato della vita è un puro materialismo intellettuale, un restare vincolati all’argomento senza trattarlo. L’insegnante deve considerare quali conoscenze non acquisite a scuola può presupporre nell’alunno. La lezione deve continuamente penetrare in questo materiale fluttuante, molto vario individualmente, non può ottenere la comprensione dei contenuti della lezione solo grazie alla scuola; in realtà, offre solo una sintesi e l’allievo deve già sapere che cosa i singoli elementi significhino. Per questo sussistono delle enormi difficoltà per i bambini provenienti da diversi strati sociali e un forte motivo di contrarietà nei riguardi di questo tipo di insegnamento. Esistono, in particolare, ricerche sull’immaginazione del bambino che fa il suo ingresso nella scuola. I risultati (Ergebnissen) sono piuttosto scarsi. Vi sono differenze tra bambini provenienti dalla città e dalla campagna. Questi ultimi godono del vantaggio di conoscere più esattamente le cose. È comprensibile perché nella città si è circondati da fenomeni estremamente

complicati, di difficile comprensione immediata, mentre in campagna si ha contatto con gli elementi. Gli oggetti in città sono inoltre in movimento (bewegt), e dunque impossibili da osservare a lungo ed esattamente come in campagna. Le difficoltà che la casa pone alla scuola dipendono spesso proprio dal fatto che viene compreso con più forza e calcolato il valore dell’apprendimento scolastico che va al di là del sapere materiale. Quasi sempre la famiglia esige solo il successo scolastico esteriore: il superamento degli esami e la promozione e proprio questi aspetti dipendono solo dall’appropriazione oggettiva della materia di apprendimento. “Solo in minima parte è riconosciuto il valore di quanto debba essere imparato; in verità, esso viene principalmente messo in dubbio o addirittura negato, e non ottiene la sua sanzione in virtù del proprio contenuto, bensì attraverso le norme burocratiche, gli esami, le pagelle e i privilegi connessi. Ora però nei nostri circoli culturali il principiante della conoscenza pedagogica non è così alto che si possa temere di porsi in contrasto con la scuola e di mostrare all’alunno che egli purtroppo deve soffrire su cose che in fondo non giungono a nulla e non premiano lo sforzo impiegato. È certo comprensibile che di un lavoro, che altrimenti sarebbe senza senso, si considera quello che si è in grado di fare, che le fatiche, che non fruttano nessun guadagno interiore, vengono valutate secondo le forze impiegate, che si sostiene e giustifica ogni tentativo, che si propone di raggiungere ogni meta esteriore, anche nel modo meno ineccepibile: il valore funzionale e sovraoggettivo dello studio, in quanto va studiato o non appartiene proprio alla prova d’esame, oppure vi rientrano in modo indiretto e non rilevabile. Ma anche quando si tratta dell’ultimo caso, il significato autentico dell’apprendimento va oltre ciò che si è appreso alla laurea, e ciò nonostante la famiglia non si cura di considerare che la scuola potrebbe avere un significato che vada al di là del semplice attestato (diploma/laurea). Le teorie moderne sulla lezione affermano proprio questo valore formale, soprattutto delle lingue e della matematica per l’educazione delle funzioni intellettuali. In riferimento alla matematica questo è alquanto problematico. Essa peraltro ha come oggetto le forme qualitative universali, valide per tutto l’esserci (Dasein). Ma questo suo significato oggettivo interiore non porta ancora la sfera psicologica (Psychologische) a rendere l’intelletto abile formalmente di fronte a tutti i possibili contenuti. Per quanto ne sappia non è

mai avvenuto che persone particolarmente dotate per la matematica mostrassero in altre sfere intellettuali acume e logica straordinari: il talento matematico, come quello musicale, si pone tra i più isolati (isolierten) e a sé stanti. Che il mondo matematico sussista per sé e che nonostante la sua utilizzabilità per il calcolo del mondo concreto si ponga al di là di esso nella sua identità assoluta, ebbene, questo si rispecchia nella mancanza di collegamento dell’attività matematica con tutte le altre competenze. La forma matematica è un’astrazione che si concretizza e con la quale si otterrebbe un’infinitezza in essa latente, perché non nasce come i concetti astratti, ma da un’intuizione sui generis. Inoltre, la “Bildung formale” pone inconsapevolmente in relazione quanto vi è di formale nelle cose (Sachen) e nello spirito. È ancora da stabilire se la forma dello spirito (l’assolutamente intimo funzionale, ciò che dà forma) si affermi o meno attraverso l’oggettivamente (sachlich) formale (lingue, matematica e logica). Per questo si ritiene che il latino debba essere formalmente istruttivo, perché le parole sono più chiare, e non si sono ancora così sviluppate in senso astratto, come per esempio nelle lingue sopravvissute più a lungo. Anche perché vi sarebbe contenuta più logica che nelle lingue moderne: “si veneris ibo” sarebbe molto più logico di “se vieni, me ne vado”; e anche perché la sua espressione è molto più breve e precisa. Dubito fortemente che queste qualità possano essere di aiuto a noi che pensiamo e parliamo in tedesco, proprio perché sono legate alla sfera del latino. Ritengo molto più giusto pretendere maggiormente nello stile e nell’espressione di una lingua di cui si fa reale uso. Non posso assolutamente credere che nei secoli del Medioevo e dei tempi più recenti, in cui ogni dotto parlava il latino come se fosse la sua prima lingua, il pensiero e l’espressione delle persone fosse più logico, trasparente e preciso di quanto lo sia oggi. Fichte afferma lodando le lingue antiche: “Le lingue moderne fanno sì che avvenga uno scambio di frasi fraintese con altre equivalenti, ma risuonanti in maniera diversa”. È una vergogna che si rimproveri questo alle lingue moderne, se si considera l’insensata produzione retorica di frasi ciceroniane che si pretende dagli scolari. Penso, perciò, che una Bildung formale, nel senso che il singolo sapere ha come conseguenza la rielaborazione di altri settori psichici, non sia da ottenere attraverso oggetti didattici oggettivamente formali, ma attraverso

oggetti che portano in sé un massimo di rappresentazioni, valori e aspirazioni concreti e rendono viva la mente. Tra questi vi sono l’osservazione di opere d’arte, la conoscenza della costituzione sociale attuale, i problemi più universali biologici e psicologici. In tal modo, ogni corda toccata ne lascia risuonare tante e molte altre, ogni riflessione si estende alle altre sfere della vita soggettiva e oggettiva, e raggiunge al di là del suo contenuto specifico delle disposizioni mentali più vaste per la comprensione e l’analisi. A dire il vero gli argomenti storici, in quanto tali, sono i meno adatti (così come la lingua considerata da un punto di vista storico), giacché trattano un tema individualizzato nello spazio enel tempo, e perciò non possono avere un ulteriore sviluppo psicologico come quelli pregni della vita immediata e delle sue inarrestabili oscillazioni. La Bildung formale, cioè la formazione che riguarda il livello psichico universale, che rappresenta la singolarità appresa immediatamente, non si qualifica attraverso oggetti puramente formali (poiché il termine “formale” assume nei due casi un significato diverso), ma per mezzo di qualcosa di concreto, che ha in sé vivo e operante il concreto più ampio possibile. Il concetto che ne viene astratto si distanzia notevolmente dal concreto, si pone su un piano indipendente e non rappresenta una preparazione continua per la ricezione dei successivi concreti. Facciamo ancora le seguenti osservazioni sui processi pedagogici che vanno o conducono al di là della pura trascrizione del contenuto oggettivo isolato. È importantissimo che l’insegnante sappia generare nella classe uno stato d’animo (Stimmung) che sia adeguato all’oggetto di volta in volta trattato. La prima condizione è che lui stesso la senta, altrimenti qualsiasi tentativo sarebbe vano. Ci si potrebbe anche educare a questa, in modo che si imponga con leggerezza, si faccia sentire nell’ora di lezione automaticamente, senza esserlo per nulla. Il docente ha un duplice compito, che forse non ha analogie nelle altre professioni: unire la disposizione d’animo pedagogica identica per tutte le materie con quella particolare relativa alla singola disciplina. L’effetto dell’insegnante sulla classe (corpo astrale) dipende strettamente dal suo interesse per la materia e dagli scolari, dal suo stancarsi e dalla buona o cattiva volontà degli alunni nei suoi confronti. La lealtà e l’efficacia delle nostre esposizioni dipendono in modo incredibile dal sentire che chi ci sta davanti è pronto e disposto ad ascoltarci o che l’uditorio sia maldisposto e indisponente. Il docente non teme di

privilegiare, all’interno del programma didattico, quei lavori particolari che coinvolgono sensibilmente il suo particolare interesse (scienze, storia, lettura). Deve essere naturalmente evitato il pericolo di sfociare nello specialismo, di divenire parziale, di imporre agli alunni il proprio cavallo di battaglia. Dovrebbe perciò essere estremamente cauto e non perdere mai di vista lo scopo didattico generale. Solo a questa condizione è indubbiamente positivo che presenti temi per i quali nutre un particolare entusiasmo; riuscirà così a infondere negli alunni un interesse e un calore considerevoli. “Lo svolgimento della lezione di ogni insegnante ha un certo coefficiente personale ed è naturale che ogni docente sia portato a credere che lo scolaro abbia il suo stesso genere di inclinazioni. È fondamentale che il pedagogo non consideri solo la diversità del talento dei suoi allievi, ma pure il suo tipo di intelligenza, e che ne osservi l’effetto sul carattere delle lezioni” (Meumann). “Mancanza di lacune” della lezione significa che l’alunno attraverso quanto ha sinora appreso è così preparato a ogni passo successivo, che può avvenire con totale comprensione, capacità, tranquillità, e seguendo uno sviluppo organico. Allo stesso tempo, ogni livello ottenuto deve realmente condurre a un passo ulteriore, senza diventare un vicolo cieco abbandonato, o qualcosa di non concluso che si apre sul vuoto. Questa continuità è di tipo dinamico e soggettivo, la sua norma viene tracciata dallo sviluppo intellettuale dell’alunno, compito pedagogico è scegliere e formare la materia didattica in modo che essa stessa mostri in quanto contenuto oggettivo una continuità che indichi una direzione di continuità soggettiva – cosa non sempre garantita. Così come l’estraneità e la casualità con cui si accostano sovente le parti della medesima materia sono nocive, d’altra parte è opportuno guardarsi dallo stabilire a ogni costo, fra i concetti e i contesti immaginativi proposti all’allievo, relazioni strettissime e rigide. Perché queste sintesi non dovrebbero solo, se fossero davvero salde e intimamente solidali, venire ristrutturate in ogni grado di apprendimento superiore, ma alla fine del periodo scolastico dovrebbe essere possibile mutare e allargare i collegamenti e le conciliazioni delle materie per poter assicurare all’ulteriore materia vitale che avanza l’accesso. La forza appercettiva della singola idea viene paralizzata se questa è già collegata con un’altra in modo rigidamente monogamico. Le connessioni concettuali non devono per questo essere deboli

o incerte; è invece necessario che non creino un cerchio chiuso e autosufficiente, cui resta estranea ogni novità. La concentrazione e unitarietà delle conoscenze e la facilità della loro riproduzione viene pagata eccessivamente cara quando i nessi sono impenetrabili. Il compito consiste nel far sì che gli elementi della materia didattica si uniscano nella psiche del fanciullo in un modo che, seppur mutevole, rifletta, sia sempre un simbolo (Symbol) dei nessi reali – non bisogna però soltanto mantenere questi collegamenti nel loro potenziale sviluppo, ma anche renderli duttili e ricchi di spazio per futuri membri intermedi, in modo che vi si inserisca il nuovo senza dovere o spezzare i contesti sussistenti o sacrificarne la loro particolarità e legittimità. “Si esegue più facilmente un lavoro, quando lo si svolge come se facesse parte di un compito più grande, invece di considerarlo nella sua singolarità. Influenzati dall’immaginazione di un lavoro maggiore liberiamo senza rifletterci più forze di quante ne richiederebbe un’attività più limitata” (Meumann). Questo può essere valorizzato in generale da un punto di vista pedagogico. Lo scolaro deve essere più cosciente della connessione dei gradi didattici nell’unico scopo della sua Bildung. L’attuale atomizzazione specialistica è inconcepibile. Si ponga innanzi allo scolaro la totalità della grande impresa; questo gli faciliterà lo sforzo parziale senza opprimerlo, perché essa possiede qualcosa di stimolante e di edificante, e non significa certo immediata pressione del lavoro. Questo avviene nella zona limite in cui la prestazione funzionale dello studio per il rafforzamento dell’energia intellettuale trapassa in quella della vita complessiva. Lo strato intellettuale viene avvolto o sorretto da quello della vita complessiva del ragazzo; e il genere della lezione deve immergersi in essa, per ottenere al tempo stesso un notevole effetto e salde basi. Les grandes pensées viennent du coeur (Vauvenargues). I grandi pensieri giungono dal cuore. Ma dovrebbero (sollen) anche andare nel cuore. Si cerchi sempre di rielaborare persino il valore interiore delle grandi idee e conoscenze teoretiche. “Il cielo stellato sopra di me”, la legge naturale, il contesto della storia, il regno della matematica. L’insegnante cerchi al più presto di acquisire un quadro di tutta la personalità dell’alunno, al di là dei singoli risultati. Impari il prima possibile i cognomi degli alunni. L’appello col “tu... tu... il prossimo...” è inopportuno. È più incisivo pronunciare i cognomi, perché richiama a un grado più

profondo la personalità. Non si deve attenere a quest’ultima e al suo valore in modo rigido, ma essere sempre pronto a creare un quadro complessivo costituito non solo dai profitti dell’alunno, ma anche dal suo modo di presentarsi, dalle sue esposizioni, dal tono, dalla mimica e da qualcosa d’altro che non è nemmeno la loro semplice somma. Per questo eviti assolutamente di giudicare l’“uomo in generale” in base al singolo risultato. È già alquanto sgradevole che la qualità del lavoro, anche di quello valutato come positivo, sia complessivamente stabilita in base al numero di errori: il compito è buono se non vi sono errori. Ma l’errore (der Fehler) è un’unità isolata dal risultato generale e dal suo carattere. Però, quando ogni singola informazione che proviene dallo scolaro dà il suo contributo (diverso dal singolo giudizio oggettivo) a questo quadro complessivo, l’insegnante: 1. Potrà giudicare correttamente il singolo risultato; 2. Alla fine del periodo scolastico non dovrà mettere insieme faticosamente e meccanicamente il voto. Affinché possa nascere un tale quadro è urgentemente necessario che sia sempre modificabile, correggibile e in potenziale mutamento, poiché riguarda una persona viva e lo sviluppo non può essere rigido e concluso – il che non impedisce una sua utilizzazione pratica. Perché tali immagini labili giustificano il nostro corretto comportamento teorico e pratico nei confronti delle persone. “Comprensibilmente la scuola lavora puntando soprattutto ai risultati che si vedono e si controllano più facilmente. In prima linea ambisce al raggiungimento delle mete prescritte dalla lezione. Si sforza di ottenere quelle caratteristiche dalle quali dipende in gran misura il successo della lezione. Cura la diligenza, il senso dell’ordine, l’attenzione, particolarità che possono essere osservate piuttosto facilmente nella vita scolastica e seguite nel loro sviluppo. Alcuni altri lati del carattere vengono curati nella scuola solo scarsamente. Per esempio, non si fa molto per sviluppare il valore accorto e perseverante, essenzialmente diverso dal coraggio della circostanza che si pretende nell’attività ginnica. Anche le tendenze sociali altruistiche vengono considerate nella scuola solo in modo insufficiente; parrebbe che il carattere cristiano abbia poco valore per l’educazione morale nella scuola pubblica, che amore e bontà vi siano frenati più che pretesi. Purtroppo le caratteristiche più nobili, pure dell’animo umano non possono essere stabilite con prove di

esame e verifiche; se fosse diversamente, i risultati delle scuole e degli insegnanti avrebbero tutt’altra valutazione”. Il docente non dovrebbe guardare sempre lo scolaro da un punto di vista teleologico-pedagogico, ma, oltre al resto negli intervalli, osservarlo così, semplicemente per riconoscere in modo significativo il suo essere e la sua realtà psicologica. Se l’alunno viene considerato in virtù del progetto pedagogico che lo coinvolge, e solo per essere premiato o punito, rimane sfalsata l’immagine obiettiva dello scolaro che deve o perlomeno dovrebbe essere un fondamento dell’educazione e della lezione. Questo appartiene all’errore generale del nostro comportamento pratico-intellettuale: valutare e giudicare sempre allo stesso modo invece di dedicarsi in un primo momento semplicemente all’osservazione. Probabilmente la pedanteria – oltre all’intellettualismo – fa parte delle cause di questa tendenza. Se il pedagogo, invece di essere anche ininterrottamente un attento psicologo, è solo un pedagogo, allora cade in uno dei due estremi: o presenta la materia didattica senza curarsi troppo dei suoi allievi, o diviene un poliziotto, che non è particolarmente interessato allo scolaro, ma a quanto di buono o cattivo si deve stabilire in lui. Che sia lo scolaro in quanto soggetto e non il materiale didattico oggettivo (cosa che avviene invece con i severi e immutabili insegnamenti, e con la loro considerazione volta esclusivamente ai risultati) il punto focale dell’interesse del docente è l’unica possibilità per l’insegnante di non arenarsi e pietrificarsi (zu versanden und zu versteinern) completamente. Presentare per 40 anni una materia identica o solo in minima parte variata, non può che rovinare una persona. L’unica soluzione è dunque spostare il fulcro degli interessi nella soggettività viva degli studenti con le loro individualità sempre nuove. Quando di fronte al semplice insegnamento meccanico di una materia, in particolare del latino, fu riconosciuta come meta dell’educazione la formazione di tutto l’essere umano – come in Locke, Rousseau, Basedow –, questo dissidio assunse un carattere estremo, secondo il quale solo una minima parte del periodo formativo doveva essere dedicata al puro studio. L’insegnamento, afferma Basedow, “è la parte più limitata dell’educazione: alla parte più importante dell’educazione deve essere dedicato più tempo, ma alla lezione formativa devono essere dedicati meno tempo e cura di quanto è di moda”5. Solo attraverso questa opposizione tra educazione e insegnamento

la prima rimane esclusa dal secondo; si cerca di eliminarla abbassandone il valore, però non si può rendere chiaro il dominio assoluto dell’intenzione educativa a cui si vuole giungere. Quand’anche il bambino riceva “lezioni”, rimane comunque un corpo estraneo nell’“educazione complessiva a lui sostanzialmente estranea”, e il dualismo non viene eliminato. Neppure questo oggi avviene del tutto. Ma la soluzione è che la forma e i tipi di esercizio della “lezione” siano definiti completamente dallo “scopo educativo”. Si consideri che la lezione non è un semplice trapianto di contenuti conoscitivi, ma una funzione (Funktion) che porta in sé il contenuto. Questo contenuto non può consistere in una forma rigida e chiusa in sé, bensì deve dissolversi nell’attività (Tätigkeit) dell’insegnante. Ma l’attività stessa, in quanto funzionale, è totalmente plasmabile e da inserire nel processo finale dell’educazione complessiva. La materia deve essere scelta in modo che possa realizzare questo progetto, ogni singola ora deve essere organizzata in modo da promuovere con l’argomento trattato le preziose qualità dell’alunno: capacità di concentrazione, interesse oggettivo, coscienziosità, giudizio, capacità di discernimento dei valori, presenza di spirito, facoltà combinatoria, sincerità. Diviene così superflua anche ogni particolare “lezione morale” (Moralunterricht). Non è in contraddizione con tutto ciò che l’alunno venga posto di fronte a solide opere intellettuali, che egli deve rispettare, cogliere e comprendere in quanto tali. Al contrario, questo riconoscimento e acquisizione di oggettività, che dobbiamo accettare nella loro determinatezza e nei quali nessun intervento o interesse finalizzato da parte nostra può cambiare nulla, è parte costitutiva dei valori funzionali pedagogici ed è incluso nella loro teleologia. Probabilmente accade nella lezione morale lo stesso che nella filosofia: ogni ora (jede Stunde) deve essere presentata con uno spirito filosofico! La filosofia come materia è ancora più difficile. Se usiamo il concetto di Bildung per esprimere il fine della scuola, possiamo sostenere che le serie di obiettivi finora indicati contribuiscono a determinare il senso di questo concetto. Tutti i contenuti didattici hanno il doppio significato. Dovrebbero essere conosciuti assolutamente come contenuti e in quanto tali possono servire a un altro scopo (le lingue straniere alla pratica, la storia alla comprensione politica del presente); è una realtà in sé e per sé che può essere determinante per la loro ricezione, ma comunque la conoscenza del contenuto oggettivo

resta l’ultima tappa relativa del corso della lezione. Essi sono poi funzionali al rafforzamento, raffinamento e all’elasticità dello spirito alla sua elevazione morale-estetica, all’orientamento dell’intelletto verso i valori spirituali. La Bildung [formazione] è la sintesi di questi due fini. La Formazione non è né il semplice possesso (Haben) dei contenuti del sapere, né il semplice essere (Sein) come una struttura della mente senza contenuto. Al “contrario”, formato è piuttosto chi dispone di una conoscenza oggettiva fusa con il suo sviluppo soggettivo e la sua esistenza, e la cui energia intellettuale è ricca di un insieme il più possibile ampio e sempre crescente di contenuti validi in sé. Ogni materia didattica trascende da se stessa, è la parte di un tutto, anzi di molti nel cui contesto soltanto può essere realmente intesa. È circondata da livelli di conoscenze sempre più ampie che finalmente, sono solo le linee generali degli ambiti più vasti. Questo andare al di là, tale sguardo che abbraccia tutto l’orizzonte del sapere deve essere raggiunto perché ci sia una formazione. È stato giustamente detto: è colto chi sa dove trovare ciò che non sa. A questo ampliamento logico-ideale corrisponde ovviamente la forza e la vitalità della nostra totalità intellettuale. Questa ha ancora un significato pratico più tangibile: “Considero fallita a priori ogni organizzazione che non permette all’allievo più maturo di dedicarsi, accanto ai suoi compiti scolastici, a occupazioni scientifiche o artistiche da lui scelte. Sì, vorrei affermare, che è proprio il metro della forza formativa di una scuola, se i ragazzi delle ultime classi si mettono per una loro libera esigenza a eseguire un lavoro non preteso dalla scuola” (Kerschensteiner). Cioè la scuola stessa deve incitare e permettere che gli interessi e le attività degli alunni si spingano al di là della scuola stessa. Con tutto ciò è ora definito con più precisione il senso che la frase di Vauvenargues “ce n‘est pas une âme, ce n’est pas un corps, qu’on dresse, c’est un homme” (non è un’anima, non è un corpo: è un uomo) può assumere per noi. Cerchiamo ora di indagarne il senso seguendo un’altra direzione profonda. È inevitabile per l’uomo scomporre la complessità e l’unità della sua vita che consiste in un continuo fluttuare e scorrere in singole parti, settori e risultati delimitati per sé unitari. Non appena i contenuti vitali diventano oggettivi, come intuizioni e concetti, prestazione e fede, assumono una salda forma cristallina che li particolarizza l’uno di fronte all’altro – o meglio, questo definirsi e fissarsi significa il loro divenire oggettivo. Questo

delimitare, porre per sé, questo concentrarsi attorno a un centro oggettivo, che è certo l’essenza dello spirito, ha tuttavia spesso anche un effetto fatale sull’essere immediato che si sviluppa in modo vitale e vi segna alcune delimitazioni che isolano i suoi singoli lati e interessi, le sue particolarità e sezioni, separandole all’interno della totalità e da essa, benché continuino ad appartenere al suo flusso continuo. In opposizione a questo irrigidimento atomizzante e particolarizzante dei momenti di vita, bisogna ricordare in ogni agire e in ogni sapere, in ogni determinazione e prova di sé, per quanto particolare nel loro contenuto che è presente l’intera persona (steckt der ganze Mensch). E la sua essenza sta proprio nel rappresentare l’unità in un’infinita molteplicità di accostamenti e successioni che in ogni istante continua a essere se stessa, ossia l’intero sé. Questo non deve mai essere dimenticato nel processo educativo e nel corso delle lezioni. E la giustificazione più profonda della richiesta, secondo cui da ogni contenuto didattico scaturisce una corrente feconda per tutta l’ampiezza vitale, non determina solo il terminus ad quem (il momento d’inizio), bensì anche il terminus a quo (la fine) deve essere la premessa dell’atteggiamento nei confronti dell’alunno. Dovrebbe essere chiaro all’insegnante (anche se non sempre con concetti definiti, almeno con una chiarezza pratica), in ogni cosa che esige dall’alunno e in ogni giudizio, che non ha davanti a sé qualcuno che presta un lavoro a tempo, che deve risolvere un compito di latino o un calcolo, che è il soggetto di diligenza o pigrizia; queste sono invece le singole funzioni, parti, espressioni di una totalità di vita contenuta in ogni momento, e che le rende diverse dall’immagine che emerge da un’osservazione isolata. Non si deve temere di coinvolgere nelle singole prestazioni tutte le capacità psichiche, il cuore e la fantasia, la volontà di vittoria e il senso estetico. Fino a ora la pedagogia ha in linea di principio considerato come presupposto la totalità dell’uomo secondo un solo aspetto: nella pena. Il dolore che vi si prova – soprattutto con pene fisiche o che provocano vergogna – coinvolge tutto l’uomo e nello stesso modo, sia che si tratti di un lavoro non eseguito, di una bugia, di un errore di grammatica o di calcolo (giustificata mancanza di differenze). In ogni altro aspetto bisogna però considerare che qualunque prova rivela tutto l’essere umano e non ne lascia apparire di meno se è svolta in modo un poco disattento, casuale o affrettato. Non è che sia peggiore o migliore solo oggettivamente, in entrambi i casi lascia trasparire l’inclinazione e l’intensità, il carattere intellettuale e morale della personalità.

Il fatto che in molte circostanze non siamo in grado di riconoscere questi aspetti, non ci deve impedire di cercarli. Non si tratta più come una volta di vedere negli errori grammaticali difetti morali, perché qui è presupposta un’unione sostanziale (inhaltliche) tra la materia didattica e la morale, che invece non esiste (la persona che capisce il latino è migliore), mentre io intendo le qualità funzionali di tutto l’uomo per le quali è indifferente la particolarità della materia, benché si manifestino in essa. La pedagogia è a priori un’impresa condotta dallo spirito dell’individualismo perché deve portare ogni singolo all’altezza delle sue possibilità di formazione. Ma con questo non si intende che bisognerebbe considerare solo ciò che permette all’individuo di distinguersi dagli altri, anzi, la produzione di un’uniformità, un’educazione dell’individuo all’oggettivo e a una dimensione sovraindividuale può essere senz’altro il successo cui ambire nell’individuo. L’individualizzazione fallisce, però, soprattutto per la sua impossibilità tecnica e ne deriva anche un ulteriore svantaggio secondario: l’insegnante non può né conoscere in particolare la struttura intellettuale di ogni alunno e neppure, se anche la conoscesse, potrebbe basarsi su di essa; la sua lezione infatti, deve essere tenuta in rapporto allo standard generale della classe. In questo vi è il pericolo che l’insegnante, per essere sicuro di non sbagliarsi, presupponga il livello più basso. Non è un giusto principio presentare la materia in modo che anche il più stupido possa capire. Perché se i più validi si annoiano, restano disattenti, e si credono superiori alla lezione, si provoca un danno almeno altrettanto grave di quando i più stupidi non riescono proprio a seguire. A questo si collega un secondo momento fondamentale per la pedagogia. Se l’uomo è in ogni istante tutto l’uomo – al tempo stesso questo non significa che egli in ogni istante si trovi “alla sua altezza”, perché questo mutare è “tutta la vita”, al di fuori della quale non ne esiste nessuna – allora anche ogni istante deve essere considerato fine a se stesso. Ciò che Kant dice su tutto l’uomo in rapporto agli altri uomini: “non si può mai guardarlo solo come un mezzo, ma sempre al tempo stesso come un fine”, vale anche per il rapporto dei singoli momenti di vita tra di loro. Di fronte alla nostra prassi considerata inevitabilmente in blocco la definizione “ogni momento” deve essere intesa cum grano. Il successo di tutta l’intuizione sta nel non ritenere la gioventù e il suo trattamento solo come momento di passaggio e mezzo verso l’età adulta. Il bambino (als Kind) non è solo un candidato al mondo

adulto e non deve venire considerato solo in relazione alla sua esistenza futura. Ha piuttosto in quanto bambino le sue particolari bellezze e caratteristiche, i suoi doveri e diritti, e questo deve essere riconosciuto dalla pedagogia. Quando non considera la giovinezza come fine a se stessa dispone di una falsa teleologia. Ora e nel prossimo istante il bambino deve essere completo, e proprio qui può godere della sua completezza, e non di quella dell’adulto anticipato. Se si ha sempre innanzi agli occhi l’adulto, si trascura e affronta in modo errato non solo il presente in quanto tale, ma persino l’intero processo organico, nel quale nessuno stadio deve valere esclusivamente in quanto mezzo per il futuro, che – proprio solo a questa condizione – ne permette la crescita retta e vigorosa. Il riscontro di questo errore teleologico, per quanto logicamente contrapposto, di fatto con esso spesso coesistente, consiste nel considerare il bambino come il piccolo adulto, come se la sua condizione intellettuale si distinguesse solo quantitativamente da quella dell’adulto. Nascono così le opinioni idiote sull’imperfezione dell’essere del fanciullo, mentre il bambino è a suo modo completo come l’adulto. (Così come l’animale è perfetto tanto quanto l’uomo). Arroganza soggettiva dell’adulto. “Nell’intuizione avviene sempre più il riconoscimento di ciò che ci è noto nelle cose, anziché apprendere il nuovo; nell’osservazione ci lasciamo condurre più dalle analogie con osservazioni precedenti, invece di afferrare con la volontà il caratteristico e il tipico delle cose. L’immaginario dei piccoli mostra questo fenomeno in modo spaventoso” (Meumann). Non trovo che questo sia spaventoso, ma assolutamente funzionale e utile al bambino. Così non viene solo limitato il contenuto della coscienza del bambino a quanto effettivamente può controllare, ma finché questo contenuto è così lacunoso, casuale e privo di princìpi come nel fanciullo, un certo nesso dei contenuti può essere ottenuto soltanto tramite la continua creazione di analogie e di metafore (false o giuste che siano). “Quasi tutti i bambini hanno la tendenza, quando si trovano di fronte a fenomeni sconosciuti (che essi devono riconoscere o nominare), ad aiutarsi con immagini e denominazioni alternative o con surrogati. Le analogie sono spesso ampiamente sfruttate (chiamavano il saliscendi della finestra maniglia, manico, gancio, manovella, chiavistello della finestra da girare). Impiegano senz’altro l’analogo e il noto per indicare ciò che è a loro sconosciuto. Di

fronte alle novità e all’ignoto il bambino non rimane imbarazzato, sa cavarsela in modo disinvolto (allzuleicht) e con ciò che gli è noto ed evita così l’assimilazione della novità. Perciò, si considera pericoloso riferirsi alle cose note, si sostiene che il nuovo non è colto nella sua particolarità e che vi è l’abitudine delle false analogie” (Meumann). Tutto questo è spesso il giusto (das Richtige) [la cosa giusta] per il bambino. Gli esperimenti psicologici sull’infanzia portano spesso Meumann a mettere in evidenza l’imperfezione dell’immaginazione infantile. “I tempi di riproduzione del bambino (nel corso di tentativi di associazione), sono molto più ampi di quelli dell’adulto (in tali tentativi si desidera spesso lasciar perdere completamente, poiché si crede che le riproduzioni non seguano un corso normale); in tutte le forme di riproduzione senza eccezione lo spirito del bambino è molto più lento di quello dell’adulto” (Meumann). “È a priori sbagliato cercare di stabilire quantitativamente la diversità dell’intelletto infantile. Il bambino non rientra ancora nella meccanica psichica in cui si muovono tali ricerche, ha il ritmo della vita immediatamente autonoma, e il genere forzato dei processi imposti da questi esperimenti gli è innaturale, e dunque lento e imperfetto”. Il bambino ha appunto la sua perfezione. Se la si ponesse nella scala dei valori al di sopra di quella meccanica, si commetterebbe lo stesso errore di Meumann. Si tratta (in linea di principio) infatti, di due tipi principalmente diversi di spiritualità. È giusto che il bambino debba imparare il modo meccanico, perché anche nei livelli più alti la vita necessita di meccanismi; si tratta, però, di considerarli sempre nel loro ruolo di mezzi e di tenerli avvolti dalla vita senza costringerla alla rivolta. La pedagogia deve perseguire la perfezione del fanciullo al grado che gli compete nella situazione; essa ha le sue qualità. Solo dal punto di vista tecnico è necessario dividere lo sviluppo del bambino in periodi e ognuno di essi è da considerare come un’unità (come sotto un certo aspetto anche una classe deve essere considerata come unità); la pedagogia non può seguire la continuità assoluta della vita (die Pädagogik kann der absoluten Kontinuität des Lebens nicht folgen). Tuttavia, può in parte rimediare a queste imperfezioni mantenendo tali momenti come modi di sentire continui. 1 P. Barth (1858-1922) è stato professore di Filosofia e Pedagogia all’Università di Lipsia, in Germania, con il suo ampio saggio Gli elementi di educazione e insegnamento. Simmel qui fa riferimento alle fasi formali della scuola Herbart-Ziller, sostenendo la stessa metodologia: preparazione,

presentazione, associazione, sommario, applicazione; a tal proposito, si può confrontare l’annotazione di K. Rodax sulla Schulpädagogik, 1999, qui citata. 2 F. Regener, Grundzüge einer allgemeinen Methodenlehre des Unterrichts, 1893. 3 T. Ziegler, Geschichte der Pädagogik, mit besonderer Rücksicht auf das höhere Unterrichtswesen, C.H. Beck, München 1904. 4 Literatur über Kinderlüngen: Referat von Poppelman in der Zeitschrift für experimentelle Pädagogik, vol. V, 1907. 5 Johann Bernhard Basedow (1724-1790), noto pedagogista tedesco.

2. L’ATTENZIONE E L’APPRENDIMENTO (Von der Aufmerksamkeit und dem Lernen) Il successo di ogni lezione, in realtà già una possibilità, dipende dall’attenzione dello scolaro. In quanto se la lezione non raggiunge un certo livello, vi è solo un monologo del docente. Non entro nel merito di cosa sia l’attenzione in un esame psicologico. è completamente indifferente alla pratica pedagogica. Piuttosto può essere facilmente assunto che il fenomeno fondamentale sia noto a tutti, ne sottolineerò solo ciò che dovrebbe essere un comportamento educativo. Lo considero unicamente nella misura in cui chiarisce la pratica pedagogica. Ogni tipo di attenzione è un’attesa, uno stato di tensione verso il momento successivo che non segue quello presente come un’unità conclusa, ma passa continuamente in esso o può passare. A ciò che noi già possediamo come concluso e presente non corrispondono lo sforzo, la tensione, lo sguardo volto alla comprensione tipici dell’attenzione. Essa ha una direzione (Richtung), cioè qualcosa che va al di là del momento attuale. L’attesa, in genere, si rivolge dall’istante presente a quello successivo, chiaramente definito e determinato. Ma l’attenzione è attesa nella forma di una continuità, la condizione di un’attesa fluttuante e non puntualizzata. Forse tutto quello che si definisce interesse per un oggetto è – chiaramente sotto molte forme e ritmi – attesa di un momento successivo di tale oggetto, in base a quello trascorso. Tale aspettativa non deve sempre sfociare nella sorpresa. Si tratta di un certo stato di tensione fra la parte attualmente nota dell’oggetto e quella a venire – che si può sempre ripetere con oggetti già totalmente conosciuti come forma del loro essere immaginati. Così, in quanto continuo collegamento interiore di uno spazio temporale, l’attesa diviene l’immagine psicologica invertita dell’unità (Einheit) di un oggetto costituito da più parti, passa da uno dei suoi momenti all’altro e crea – o lo è già – l’attenzione per tutta la durata del presente del soggetto. Tuttavia, è un’osservazione corrente, ma senz’altro unilaterale che il cambio degli oggetti in qualcosa di inatteso risvegli l’attenzione (un’attenzione acuta, breve, che si affievolisce facilmente), perché apprendendo del nuovo voglio sapere di più di quanto mostra il primo momento; si riesce a ottenere

l’attenzione anche con un oggetto unitario e da perseguire a lungo, se si è in grado di collegarne i momenti con l’attesa. Se si frantuma l’oggetto in pezzi discontinui, l’attenzione cala alla fine di ogni istante e bisogna richiamarla. Se vi è continuità si sfrutta lo slancio verso il momento in modo tale che ciò che viene presentato susciti l’aspettativa per quanto deve essere ancora manifestato. Questo coincide con il compito di portare le singole parti dell’argomento a un tutt’uno: l’appartenenza di un segmento tematico a un altro successivo, futuro, possibile – il completamento intuito come necessario dell’uno attraverso l’altro –, poiché la corrente di pensieri che lo attraversa e la cui continuità non concede nessun punto di pausa creano uno stato di attesa; affinché l’attenzione sia viva è quindi necessario che la lezione che riguarda un argomento non ricada in singole parti concluse in sé che non implicano l’attesa di un seguito, ma crei un’unità in cui il precedente tende al successivo e ciò che è conosciuto alluda idealmente a ciò che si deve ancora scoprire. La distrazione soggettiva dell’allievo è il correlato necessario della dispersione e atomizzazione dei contenuti didattici. La connessione unitaria tra di essi che suscita l’attenzione, che media il passaggio dell’interesse dall’uno all’altro, è l’oggetto della monotonia, della costante uguaglianza dei contenuti presentati. Atomizzazione e monotonia sono i nemici comuni dell’attesa e quindi, dell’attenzione. Se l’alunno si annoia (langweilt), è chiaramente distratto; egli si annoia quando l’unità del corso e dell’ora è meccanica e trascura il collegamento vivo, cioè lo stato di attesa, che permette il collegamento psichico dall’uno all’altro. Questo stato impedisce la stanchezza, la mancanza di concentrazione, l’intontimento e il precipitare nella soggettività. Livello dei più stupidi. La scuola non può essere vista esclusivamente come una istituzione diretta di volta in volta ai più stupidi. L’anomalia della lezione (die Tara des Unterrichts). Solo una percentuale di quanto è presentato viene acquisita e di questa, solo una parte è feconda. In una mattinata scolastica di cinque ore l’alunno è disattento almeno per la metà del tempo. Si tratta di una necessità organica che non si può evitare con nessuna impostazione didattica. Se al docente riesce di richiamare l’attenzione dell’alunno suscitando l’attesa, non sono più necessari i consueti mezzi per ottenere la disciplina. L’addestramento dell’attenzione secondo l’intensità e la durata mi pare essere il compito pedagogico per eccellenza, è la morale formale e funzionale

dell’intelletto; mentre, la lealtà nei propri confronti rappresenta la sua morale materiale. L’interesse materiale dell’oggetto, anche quando dovrebbe essere, come detto, “attesa” (Erwartung) nel suo essere più profondo, non sarà sempre abbastanza. Questa è per lo più puntuale e implica un’elevata acutizzazione della coscienza che presto è destinata ad affievolirsi. Si usino, perciò, solo molto raramente gli “aneddoti interessanti”; si è notato che, dopo averne narrato uno, l’attenzione per il seguito è decisamente calata, perché l’emozione continua e risuona in sé, invece di diventare fertile per il momento successivo. È molto più opportuna la continuità di una relazione, in cui non vi sono culmini notevoli, ma un’ascesa e una tensione di ogni momento verso il successivo. Nel corso di ogni racconto storico “può essere evocata una notevole tensione con delle pause al punto giusto e allusioni a quanto potrebbe in seguito avvenire. È così che ciò che è realmente accaduto trova il terreno preparato” (Willmann). Naturalmente l’insegnante deve rendere la materia interessante, in modo che il bambino sia di “per sé” attento (non a partire da se stesso). Ma deve pure insegnare al bambino a poter essere attento all’oggetto non interessante, cioè a essere attento di suo. Inoltre, anche in questo caso, un “argomento” dovrà attirare l’attenzione: il dovere, il rispetto per il docente, l’utilità della sostanza dello studio ecc. L’uomo non deve essere attento per nulla; l’attenzione fine a se stessa, da prestare solo in funzione di un imperativo del tutto inconsistente, non dovrebbe essere appresa perché non sarà mai richiesta nel corso della vita. L’attenzione non deve essere prodotta dallo sforzo dell’alunno in quanto significherebbe vivere di rendita. Deve essere ogni istante prodotta dall’oggetto e dalla sua trattazione, in modo che possa nascere spontanea e che l’alunno non si accorga di essere “attento”. Al di là di questa massima generale, lo scolaro deve anche apprendere a controllare la propria attenzione, a saperla concentrare arbitrariamente anche su un oggetto noioso, se lo richiede un fine più alto. Tale pretesa di attenzione connessa intenzionalmente con un oggetto non interessante è ben diversa dall’indifferenza che non valuta, in linea di principio, se lo scolaro sia più o meno interessato all’oggetto. Così, il principiante deve abituarsi a fare il proprio dovere per amore del dovere e, tuttavia, deve preoccuparsi di fare per amore ciò che è conforme al dovere; laddove operano la passione per l’oggetto e quella per l’educatore che devono essere in proporzione armonica.

Se l’attenzione viene educata a lungo tramite l’interesse per l’oggetto, se ne diviene padroni anche per gli oggetti non interessanti. L’interesse per un contenuto oggettivo è in sé un momento educativo, appartiene ai valori funzionali che devono essere connessi in modo solidale con l’apprendimento della materia. L’interesse per il contenuto è inoltre, uno dei più forti legami tra allievo e maestro, uno dei ponti più saldi, attraverso il quale passano l’amore e la fiducia dell’alunno per l’insegnante. L’allievo dovrebbe abituarsi all’attenzione per parecchi oggetti non interessanti spesso ripetuti. È una meta difficile da raggiungere, e si può ottenere solo dove esiste un secondo strato di interesse potenziale sotto i contenuti didattici immediati da recepire e indipendente in linea di principio da essi. L’appello al semplice sentimento del dovere non ottiene molto. Anche l’alunno disponibile a recepire questo appello spesso non comprenderà perché esattamente sia un dovere dedicarsi a contenuti noiosi. Resta solo l’autorità dell’insegnante che, però, diviene qui problematica, se non dà alcuna motivazione alla necessità dell’interesse richiesto. Solo nelle ultime classi è possibile che l’alunno capisca da solo che, per raggiungere i propri obiettivi e la sua “formazione”, è indispensabile anche quanto apparentemente è privo di interesse. Non appena l’alunno comprende che deve apprendere la singola questione non per amore della stessa, ma nella prospettiva di un contesto generale della Bildung che comprende anche il singolo elemento, allora, anche in questo caso vi è posto per un’attenzione indiretta, quando non è possibile ottenerne una diretta. Perciò, è un obiettivo primario (Hauptaufgabe) la produzione di tale formazione dei concetti. Anche per questo dobbiamo evitare ogni isolamento dei contenuti. L’unità che tutto abbraccia non porta solo l’attesa e l’attenzione, ma coglie nell’interesse complessivo (teorico e pratico) anche quanto non è interessante. E dunque, da un lato dovrebbe essere suscitata l’attesa, dall’altro mantenuta in modo che non vi sia nessun “tempo rubato”; soprattutto in modo che sia l’oggetto e non lo stato emotivo soggettivo come tale a riempire la coscienza. La “tensione” (Spannung) da romanzo, cercata da parecchi docenti, è inopportuna, perché l’eccitamento soggettivo domina il contenuto e presto i contenuti “romanzeschi”, dai quali era nata la tensione, vengono scordati. Lo si può evitare comunicando, quando è possibile, all’alunno di cosa si tratta, dove conduce la strada, se si presenta o si intraprende qualcosa di nuovo. Tutto si ordina e acquista pregnanza in modo diverso, quando nella

coscienza trova una sorta di cornice o una direzione prefissata. L’alunno è tranquillo e diminuisce le oscillazioni della sua tensione, se sa che cosa l’insegnante si prefigge. Si pretenderanno da lui tante cose nuove, che non sarà più necessario sprecare forze, con la sorpresa formale, che potrebbero venire usate per la ricezione dei contenuti. Deve essere creata una passione per la novità quanto è necessaria perché il mondo ci offra sempre qualcosa di nuovo e di sorprendente per la vivacità, l’interesse e la coscienza. Efficace tecnica per suscitare l’attesa: presentare un tutto sistematico, dapprima solo secondo le norme di disposizione, di progresso e secondo un principio base, e poi completarlo gradualmente con elementi concreti. L’alunno ha un quadro schematico di quanto segue (botanica, zoologia, chimica); le epoche storiche, rappresentate in un primo tempo a grandi linee, gradualmente specificate, [sono poi] approfondite nei particolari; una legge fisica (conservazione dell’energia e l’entropia) viene dimostrata su un materiale induttivo che cresce a poco a poco. L’attesa e l’attenzione che ne scaturisce trovano un’utilizzazione essenziale nell’atto dell’osservazione (Beobachten) al quale bisogna portare il fanciullo. In essa si compie direttamente e da sé il rimando di ogni momento al successivo; l’inarrestabile collegamento dello sguardo ai contenuti di un periodo di tempo, senza che per un certo periodo vi sia sviamento o interruzione, non ha bisogno in generale di essere provocato da una decisione particolare, ma si forma a priori tramite l’intreccio tipico tra soggetto e oggetto, che costituisce l’essenza dell’osservazione. Qualunque osservazione è una ricerca (Suchen), la tensione verso qualcosa che non si possiede ancora, un estendersi verso ciò di cui, se da un lato non lo si ha ancora, dall’altro non se ne è del tutto privi. È l’attesa di qualcosa di più vicino sulla base di un qualcosa di determinato in modo molto generale, che deve esserci affinché si possa continuare a cercare un’anticipazione che ci trattiene finché non l’abbiamo realizzata. Ma l’attenzione rivolta al contenuto delle ore di lezione deve anche – e forse principalmente – essere una scuola dell’attenzione stessa, del percepire consapevole e funzionale in generale. Questo significa “educazione a guardare” (di meno all’udito, perché ci sfugge di meno quanto sentiamo rispetto a quanto vediamo, visto che la prima situazione è solo temporale, ci offre insomma solo poche cose per volta), e più esattamente al guardare esteso (percezione delle cose da definire di volta in volta con un concetto) e quello intensivo (percezione di tutte le

singole qualità di un oggetto alla volta). Solo non possiamo dimenticare che non dovremmo registrare con la stessa meccanica tutto il recepibile, ma a seconda dei giudizi di valore e della loro scala, operando delle scelte (cosicché a volte noi percepiamo qualcosa solo per essere istintivamente coscienti che non abbiamo bisogno di percepirlo). Il fatto che noi osserviamo secondo gradi (Graden) di esattezza e che sappiamo tralasciare diviene il correlato necessario all’esigenza generale della percezione (Il lupo non distingue l’agnello dalla capra, vede solo delle prede.Bergson). “Ciò che porta all’osservazione non consiste solo nel comunicare all’alunno i contenuti che deve osservare, ma anche nel condurlo a scoprirli da solo. La pedagogia scientifica ha da un secolo sottolineato l’importanza della scoperta autonoma per lo sviluppo delle intuizioni, ma la prassi della lezione scolastica resta ancora lontana dal significato di questo principio” (Meumann). Altrimenti l’insegnante non dovrebbe trascurare (nachlässingen) alcuni mezzi esteriori per mantenere l’attenzione. Un mezzo fondamentale per il controllo della classe è lo sguardo dell’insegnante. Giustamente si sottolinea che il docente non dovrebbe mai (nie) voltare le spalle alla classe, bisogna evitarlo anche nel caso degli esperimenti, se si accetta il caso in cui si può supporre che siano così interessanti da catturare l’attenzione della classe. Per questo l’insegnante deve sapere necessariamente a memoria qualunque nozione mnemonica, in modo che non debba guardare sul libro, il che evoca comunque lo “sbirciare” (ablesen: [leggere]) degli alunni. L’intonazione curata della voce è per l’insegnante, come per il predicatore, molto importante; innanzitutto, perché solo una voce ben modulata è all’altezza delle straordinarie esigenze del lavoro dell’insegnante e poi, perché la forza e l’armonia della voce hanno la massima importanza per dominare la classe, come lo sguardo. Il discorso monotono ipnotizza (Monotones Sprechen hypnotisiert). Le ripetizioni sono un grosso pericolo per l’attenzione perché l’alunno più preparato, che non ne ha bisogno, si annoia, e sfugge a quelli pigri intellettualmente che possono essere attenti per un nuovo (neuer) oggetto (Gegenstand) o un cambiamento stimolante. Tuttavia, non è possibile farcela senza il principio meccanico della ripetizione. Nemmeno la vita può farne a meno. Ma si cerchi il più possibile di vivificare il meccanismo mostrando il nucleo della materia in cambiamenti sempre nuovi, in collegamenti diversi,

alludendo continuamente a certi contenuti didattici ed evocandoli in situazioni e momenti di interesse completamente diversi della classe. Così nasce negli alunni la convinzione che il contenuto logico oggettivo delle cose sia qualcosa di valido senza tempo, qualcosa di sostanziale, in volo verso la vita spirituale. Interrompendo con ripetizioni e applicazioni l’ordine originario di quanto si era appreso, si ottiene l’effetto favorevole di eliminare sempre di più o le cose irrilevanti o quelle facili e sicuramente presenti che si acquisiscono per prime (per esempio le regole grammaticali, i numeri dell’anno ecc.). Le rettifiche devono avvenire in modo tale che l’importante e il difficile si ripetano il più spesso possibile. Le ripetizioni (Wiederholungen) vanno fatte a intervalli di tempo brevi, prima che troppe cose siano già dimenticate. Ciò serve in particolare a collegare (Verknüpfung) ciò che è stato detto prima con gli argomenti successivi. Il ripasso generale può essere alleggerito eliminando dettagli eccessivi. Mentre si procede, il riferirsi a ciò che si è appreso prima deve avvenire con prudenza. L’allievo deve avere la continua, effettiva impressione di procedere, non di doversi voltare indietro ogni istante, non deve avere la sensazione di rimanere sempre nel medesimo argomento. Entrambe le tendenze dovrebbero essere accuratamente equilibrate: da un lato, il nuovo come sviluppo del vecchio sempre a esso legato, tutto il progresso come una serie continua, dall’altro il nuovo realmente come nuovo, svolte decisive, lo sconosciuto deve essere conquistato sul suo terreno. “Quando si attraversa una materia le conoscenze acquisite dovrebbero essere sistematizzate e disposte secondo un ordine. Non si ordini però in base a categorie logiche, ma a punti di vista oggettivi. Gli esercizi intuitivi e linguistici procedevano prima sovente secondo categorie logiche. Si classificavano le cose secondo i nomi, le proprietà, le attività, la grandezza, ecc. Se il bambino deve conoscere un oggetto, è necessario che ne osservi tutte le caratteristiche. Lì l’unità veniva costituita dalle categorie logiche, qui dall’oggetto. Se i singoli oggetti di una materia sono considerati da un punto di vista universale si possono poi unire quelli affini in determinate unità” (Regener). Il collegamento dei contesti, che come unificazione sostiene l’attenzione, ha importanza anche per la formalità del progetto didattico; bisognerebbe far sì che le ore di una disciplina che normalmente sono poche, non siano troppo distanziate, perché questo favorisce la distrazione e l’oblio. Occorre

rinunciare del tutto alla simmetria della distribuzione sui giorni della settimana. Sono più efficaci due ore il lunedì e il martedì, piuttosto che il lunedì e il giovedì. Al principio dell’omogeneità si oppone quello del mutamento, talmente valido che dobbiamo sottolineare solo la sua limitazione: “È un vecchio errore credere che il cambiamento nel lavoro sia un sollievo, né nel passaggio a un altro lavoro intellettuale né a uno manuale. In entrambi i casi, aumenta la stanchezza. Ma questo non viene subito alla luce perché il passaggio a un nuovo lavoro crea uno stato di eccitamento, che migliora per un breve periodo la qualità del lavoro; avanza però, presto la stanchezza e i suoi effetti sul lavoro possono essere compensati solo temporaneamente” (Meumann). Accanto alla questione del cambiamento qualitativo dei contenuti all’interno della lezione si pone quella del mutamento formale-temporale, delle pause. Sempre in rapporto al riposo dello studente la lunghezza e la frequenza delle pause di lavoro hanno un certo limite. Se l’alunno ha il tempo di immergersi in un altro genere di interessi e pensieri deve perdere la concentrazione per un certo tipo di lavoro, che deve essere ogni volta riconquistata, per doverla poi di nuovo raggiungere, perdendo tempo ed energie. Se un impegno è durato per un certo tempo, la mente ha uno slancio in questa direzione che va sfruttato per il proseguimento del lavoro e non sciupato inutilmente nella pausa. Durante la concentrazione su una certa materia e nel lavoro in genere, non si tratta di permettere all’alunno di riposarsi in modo da essere “fresco come all’inizio”, quasi non ci fosse stato un lavoro precedente; deve, invece, interrompersi solo per realizzare un massimo di condizioni favorevoli per il proseguimento del lavoro unendo le forze (zusammen) acquisite alla disposizione e allo slancio conquistati con l’impegno precedente. Infine, la questione della pausa, cioè del tempo dedicato agli intervalli nei confronti della lezione complessiva, si restringe a quella del tempo della singola unità della lezione. Vi è una grande difficoltà nella scelta del tempo in cui 1. il docente deve spiegare; 2. deve verificare le risposte o altre prestazioni degli allievi. Il primo punto comprende una problematica non risolvibile in linea di principio: la vivacità dell’interesse richiede l’accelerazione del ritmo, mentre la sicurezza della comprensione e dell’assimilazione ne consiglia il

rallentamento. Si potrà trovare un punto che forse, in un caso, soddisfi al meglio entrambe le esigenze, ma non può essere indicato in linea di principio. Si sfocerà sempre nel compromesso, giungendo spesso a una suddivisione o alternanza delle due tendenze. (Nel caso delle risposte: lasciare tempo alla riflessione, non bloccare con la fretta ed educare la prontezza d’animo con risposte veloci). Si noti che l’interesse suscitato nell’approfondimento attuale di un oggetto si spinge al di là di esso e si può calcolare che la vivacità suscitata possa continuare in certa misura nell’oggetto successivo che forse troverebbe in sé e per sé poca partecipazione. L’interesse per argomenti più estesi si riferisce, per essere esatti, in genere, solo a singoli punti dai quali poi si passa oltre, andando al di là di quelli in sé non interessanti. È estremamente importante saper dirigere questo processo. Al di là vi è l’interesse del tutto generale per ambiti complessivi, come la matematica. A volte il ritmo, da un punto di vista qualitativo, può essere regolato in modo tale che si tralascino alcuni gradi, cosicché l’alunno viene posto innanzi a un livello che non sa in genere affrontare. Gli si mostri guardando alle vicine costellazioni che c’è qualcosa che non può ancora fare e qualcosa che non è assolutamente in grado di risolvere. Ci si oppone così alla sovratensione [tensione eccessiva] (Überspannung) dell’intelletto, in cui il giovane crede spesso di poter comprendere tutto. Si sottolineino, non troppo spesso, ma comunque con fermezza, i limiti del nostro sapere e del comprendere. “Rispettare serenamente l’imperscrutabile”, non per scoraggiare l’alunno nella sua incapacità di raggiungere l’irraggiungibile, ma per spingerlo a ottenere quanto gli è possibile conquistare. Esiste un certo grado superiore ed è molto suggestivo dire qualcosa ai ragazzi su ciò che temporaneamente va al di là della loro comprensione. La soglia sarà certo nella pubertà, dove insorgono esigenze e inquietudini che non si possono placare con contenuti definiti e chiari. È, dunque, alquanto funzionale dare agli studenti qualcosa da mangiare, che non sanno ancora digerire, ma che per lo meno possono masticare, intuendone così il contenuto nutritivo. Vi deve essere qualcosa di presago, oscuro e promettente. Questo li stimola, li spinge al di là del livello raggiunto e, al tempo stesso, li rende modesti. Una volta i pedagoghi (come Pestalozzi) ritenevano giusto trasmettere ai

bambini un lessico il più vasto possibile, il cui significato sarebbe stato compreso più tardi come parole disponibili. Oggi alcuni sostengono che non si debba insegnare al bambino nessuna parola di cui non ne comprenda subito il senso. Anche questo viene criticato: “Ogni uomo assorbe nel corso della sua formazione una massa di parole che per un certo periodo non sa comprendere adeguatamente. Questi vocaboli sconosciuti sono per la mente uno stimolo a cercarne il significato” (Meumann). In effetti si tratta di una preparazione legittima ai misteri del mondo e ai compiti che ne conseguono. Per quanto si debba controllare ed esser certi che l’alunno comprenda quanto gli viene esposto, non si tema troppo che un concetto o una frase gli siano ancora oscuri, non appena si è convinti che il contesto a poco a poco crescente del tutto o un chiarimento successivo consentiranno il comprendere (verstehe); qui si trova una delle utilità fondamentali della relazione (Zusammenhangs) oggettivo e psicologico, dell’articolazione interna dei contenuti didattici. Si dispensa spesso dal dover chiarire espressamente e ampliamente ogni singolo concetto. Più la spiegazione è improvvisa e aforistica, tanto più tempo deve essere impiegato per ogni realtà singola – oltre alla considerazione di quanto aumentino nell’alunno (attraverso il nesso fra le parti, che consente di chiarirne una, osservando l’altra) l’autosufficienza, l’interesse e la gioia nelle sue scoperte autonome, e nel vedere le conoscenze nascere dal proprio intimo. Il pericolo non consiste nel fatto che qualcosa non venga capito, ma che l’alunno creda di capirlo, cioè lo capisca nel modo sbagliato. In questo caso si mantenga la massima chiarezza; ma non si evitino soprattutto concetti più elevati e non si creda che si debba iniziare sempre con quanto è primariamente sensibile e singolare. Si anticipi inoltre, questo e quel concetto più profondo, se si è certi di completarlo in seguito, in particolare poiché i bambini iniziano a lavorare abbastanza presto con concetti generali e le differenziazioni individuali sono l’oggetto di un approfondimento successivo. “I gradi di sviluppo dell’intuizione non sono propriamente determinati dal lato percettivo dell’osservazione, ma dall’arricchimento progressivo delle categorie dell’appercezione o delle rappresentazioni intenzionali (Absichtsvorstellungen) che guidano l’intuizione (Leiten). Quello che il bambino vede è determinato da ciò che egli vuole vedere, dall’atteggiamento di osservare qualcosa di determinato” (Meumann). “La vecchia frase: lo sviluppo del bambino va dall’intuizione al concetto è imprecisa in questa

concezione generale, lo sviluppo passa in modo maggiore dal concetto all’intuizione, mentre i concetti che dominano il processo di appercezione definiscono ciò che è intuito e da essi viene avviato il progresso graduale dell’intuizione”. Negli esperimenti di riproduzione (esclamare una parola e rispondere con la prima che viene in mente) accade che i bambini associno concretamente rappresentazioni individuali, mentre gli adulti collegano un concetto astratto alla parola pronunciata (Meumann). Quando questo avviene anche con i bambini, “quelli più intelligenti della stessa età lavorano con il concetto immediatamente superiore, i meno intelligenti con il concetto più generale”. L’impiego di generi concettuali astratti più elevati sembra in un primo tempo al fanciullo essere l’accesso al mondo delle astrazioni, ma i generi più specifici gli sono più a lungo inaccessibili. Fino a ora si è trattato del problema della trasmissione (Zuführung) della materia [d’insegnamento]: come debba essere comunicata in rapporto alla quantità, qualità e struttura, affinché sia raggiunto un massimo di comprensione, interesse e attenzione. Poiché bisogna ammettere che l’attenzione si realizza in rapporto alla comprensione e all’interesse (che sia causato direttamente dal contenuto, da mezzi di sostegno o dalle forme del metodo didattico), si può raggruppare tutto questo complesso della tecnica psicologica sotto il concetto funzionale: lo stimolo all’attenzione. Ma, accanto a questo compito generale del docente, ve n’è un altro che nelle considerazioni precedenti è già occasionalmente venuto alla luce: il contenuto didattico acquisito attraverso l’attenzione deve anche essere mantenuto (behalten). E, per quanto l’attenzione sia utile, non può essere sufficiente da sola: l’argomento deve essere appreso (gelernt). Non è assolutamente necessario che tutto quanto sia stato trasmesso e studiato rimanga nella memoria. Una gran parte ha già raggiunto il suo scopo formativo, quando ha attraversato la coscienza grazie alla comprensione e all’interesse, deve solo avere un effetto funzionale, una ginnastica intellettuale che modifica lo stato della mente più che ampliarlo. Questo vale soprattutto per quelle idee che dovrebbero agire non solo sull’intelletto, ma anche sull’animo e sulla morale. L’elevazione tratta dalla morte di Socrate benintesa, dalla bellezza del mondo omerico, da quello ideale della matematica, permangono in quanto innalzamenti del nostro essere umano, anche se ne abbiamo scordato da tempo i particolari. Tuttavia, non devono aver attraversato la nostra anima

come un’ebbrezza, ma averla abitata per un certo tempo. Per questo è necessaria una misura dell’apprendere – accanto a quei contenuti che, come parti costitutive dell’educazione, devono essere semplicemente conosciuti e per questo studiati. Per quanto riguarda la pura lezione possiamo considerare l’attenzione e l’apprendimento come autentici oggetti della tecnica didattica psicologica. L’insegnante dovrebbe guidare allo studio. Non si dovrebbe lasciare che i bambini studino a casa in modo stupido e inadeguato il loro compito (vedi Meumann, Economia e tecnica dello studio)1. Poiché sono molti i tipi individuali di studio estremamente validi, il docente deve condurre gli scolari con esperimenti, senza risparmiare la fatica di controllare e sostenere ciascuno. Gli esperimenti mnemonici, se si basano su elementi didattici privi di contesto, hanno scarso significato per la scuola, perché la scuola ha quasi sempre a che fare con processi didattici più vasti, di cui ognuno ha senso, è un’unità che non si forma con l’associazione di parti indipendenti. La frase che pronunciamo non è, per quanto riguarda il suo contenuto interno, formata dalle singole parole, come una parola non è composta dalle singole lettere e ogni lettera dalle singole vibrazioni acustiche. Questo isolamento degli elementi è il risultato di una scomposizione successiva. Ma se elementi singoli devono restare nella memoria in totale indipendenza l’uno dall’altro, nasce una loro sequenza che ha un significato esteriore casuale e che verrà memorizzata in seguito solo in base a esso e nella medesima successione, divenendo così dannosa perché impedisce il libero uso degli elementi: li cristallizza in una successione prefissata e impone delle associazioni che, non avendo nulla a che fare con le eventuali utilizzazioni degli elementi, li irrigidiscono. Se si imparano le eccezioni latine panis, piscis, crinis, finis ecc. solo in questa sequenza, la riproduzione delle singole parole al momento opportuno non sarà decisamente così sicura come quando si studiano i vocaboli in più successioni, rendendoli così liberi e svincolati. Da un punto di vista puramente formale si è verificato in primo luogo che, per lo studio a memoria, la cosa più opportuna è ripetere a voce bassa, mentre l’ideale per ricordarsi l’ortografia è scrivere e allo stesso tempo ripetere piano. Sulla misura da fissare alla memoria come compito unitario ci sono diverse teorie a cui mi riferisco non approfonditamente, ma citandone in breve i risultati.

Se si deve studiare un argomento più vasto (per esempio una poesia lunga), occorre leggerlo tutto o dividerlo in parti che saranno studiate singolarmente? Il vantaggio della prima tecnica è che “tutte le associazioni si formano come dovranno poi essere esposte. Se studio una poesia memorizzandone le singole strofe alla fine di ogni strofa torno al suo inizio, formando così delle associazioni inutili fra primo e ultimo verso della medesima strofa; al contrario, invece, non collego la fine dell’una all’inizio della successiva, procedimento essenziale nella ripetizione a memoria. In questo metodo non siamo neppure sostenuti dal senso (Sinn)” (Meumann). La via di mezzo è il metodo più opportuno: il tutto viene studiato come tutto, tranne che per certe parti più difficili che non sono acquisite e sono studiate per il momento indipendentemente, ma che comunque appartengono alla coscienza del tutto. “Non è più vantaggioso fare studiare quanto il più possibile i piccoli in una volta, ma suddividere il tutto tanto quanto corrisponde alle energie e all’esercizio del bambino”. Nel caso di oggetti disomogenei è corretto riunirli in gruppi più piccoli. I bambini possono essere guidati a provare quale sia la grandezza dei gruppi più adatta a ognuno di loro. Una materia per essere acquisita ha bisogno di meno ripassi, se questi sono disposti per esempio nel giro di tre giorni, invece che ripetuti tre volte nello stesso giorno. Il ripasso non deve avvenire né quando il contenuto è già dimenticato del tutto, né quando è ancora nitido nella memoria; nel primo caso ci sarebbe troppo lavoro, nel secondo troppo poco. Si cerchi allora di non costringere la memorizzazione in una sola volta e di distribuire le ripetizioni il più possibile in modo conforme nel corso del semestre. Studiare con un ritmo veloce (raschem) è il procedimento più opportuno quando la materia è uniforme e la mente la domina pienamente. La teoria delle serie di Herbart: bel simbolismo. L’esperienza insegna che la memorizzazione di un argomento, quando consiste solo nel registrarlo, deve sempre avvenire nella stessa successione degli elementi. Il primo periodo della memoria produce molte associazioni che vanno solo in avanti, che vengono spezzate da nuove successioni e rese così efficaci. Del resto, qui, non si tratta solo di associazioni, ma del senso unitario, che viene colto nella sua completezza e la cui espressione immutabile è la successione determinata. La questione è diversa quando si tratta di registrare singole parole; qui la sicura sintesi con altre rende difficile

un impiego libero, panis piscis. Un tale senso a volte non è insito nella materia vera e propria, ma viene prodotto nella successione dapprima scelta, per esempio attraverso un ritmo che la presenta, un’elevazione o un abbassamento formali, una melodia, un’attesa continua, ecc. Si cerchi un andamento da attribuire alla materia da studiare; non è necessario che sia solo esteriormente acustico, può anche riferirsi all’accentuazione del valore del contenuto. Sono però da abolire del tutto gli artifizi puramente mnemotecnici. Si può valutare l’importanza dell’attribuzione di un senso – anche arbitrario – dagli esperimenti di Ebbinghaus, che dimostrano come per lo studio di un contenuto avente un senso si impieghi un decimo del lavoro necessario all’apprendimento di quasi la stessa quantità di sillabe prive, però, di un significato. Per mantenere a lungo ciò che si è appreso non si può sostituire la frequenza dei ripassi con una maggiore concentrazione nello studio. Il motivo può essere che quanto ho imparato in uno stato desueto di estrema attenzione è in grado di riprodursi solo nel medesimo status complessivo dell’intelletto. Quanto imparo invece in uno stato intellettuale medio tramite ripassi frequenti, mi è sempre accessibile in questa situazione mentale, che è quella tipica. Molti esperimenti hanno dimostrato che gli adulti imparano con più facilità, ma dispongono di una memoria inferiore a quella dei bambini della scuola elementare (Meumann). Ma anche qui ci deve essere un limite: la forza della memoria cresce con l’età degli alunni, ma con la pubertà subisce una sorta di arresto. La memoria cresce al massimo per le parole con un valore affettivo e cala nel caso dei numeri. Questo sviluppo tardo del mondo degli affetti “non è di scarsa importanza per l’ora di religione”. “La crescita più lenta e limitata della memoria numerica dimostra che il numero in sé è un corpo estraneo all’organismo della nostra vita immaginativa, probabilmente perché, in quanto concetto formale, non ha alcun rapporto con le caratteristiche dell’oggetto stesso. Per questo la memorizzazione di un numero o di una data è un peso dal quale il nostro animo dovrebbe essere il più possibile liberato”. Un tempo si credeva che l’esercitazione della memoria avesse solo un effetto specifico, cioè per lo stesso genere della materia da ricordare. Le ricerche di Meumann hanno rivelato che lo studio di sillabe senza senso rinforza, anche se non nello stesso modo, la memoria per le materie più varie.

È questa la decisa confutazione di Locke (filosofo empirista) che ritiene la memoria ineducabile (come il piombo, che non diviene più capace di trattenere con più forza altre parole se in esso se ne incidono alcune). Per concludere: anche nel caso dell’immediato lavoro mnemonico che l’alunno deve svolgere nell’ora di lezione, la situazione è molto sfavorevole se non si trova a suo agio a scuola. L’esistenza di sentimenti spiacevoli compromette la memoria (Das Bestehen von Unlustgefühlen beeinträchtigt das Gedächtins). Rifiutiamo, infatti, istintivamente di riprodurre idee associate a stati d’animo complessivamente sgradevoli. 1 E. Meumann, Über Ökonomie und Technik des Lernens, “Die Deutsche Schule”, 1903.

3. LA COERENZA (Von der Konsequenz) Tutti i pedagoghi convengono che la coerenza (Konsequenz) è una condizione irrinunciabile dell’educazione. A questo per lo più si unisce il consiglio di chiedere e vietare solo quanto è necessario, per poter (könne) restare coerenti. La coerenza ha qui un senso più ampio e uno più ristretto, due immagini differenti dell’identico principio: 1. Incondizionata fedeltà ed esecuzione di quanto è stato una volta ordinato; 2. Rigore intrinseco, unità priva di contraddizioni delle varie disposizioni. La coerenza viene richiesta dalla forma dell’educazione e dai suoi contenuti. Il primo punto non è così semplice e meccanicamente lineare come è sempre presentato. Vi emerge la problematica propria di ogni vita umana e non meno certo, della pedagogia. Sappiamo che siamo posti sotto o di fronte a idee di tipo pratico, teorico, in qualche modo normativo, che hanno il carattere di relativa o assoluta atemporalità; esigono la propria realizzazione oppure l’osservazione dalla vita, dalla quale esse stesse sono state desunte. Ma questa vita ha in sé un ritmo che la contraddice. Non si tratta solo del fatto che le sue tendenze e i suoi impulsi, in un certo momento, si ribellano a quelle norme e vi si sottraggono, ma il dinamismo e le oscillazioni non possono per così dire far nulla in linea di principio con la persistenza e la stabilità delle idee. Non può neanche riconoscere il valore e la validità, non negarle in linea di principio, – ma si sottrae alla loro rigidità, produce, scorrendo dall’una all’altra, i più acuti conflitti, sempre in procinto nella sua vibrante vita temporale di lasciare quell’Idea, alla quale si era appena sottomessa. Questa divergenza non proporrebbe alla teoria dei valori alcun enigma rilevante, se si considerasse la vita con il dinamismo a lei proprio semplicemente come una realtà naturale, di fronte alla quale l’Idea rappresenterebbe l’esigenza assoluta, poiché sarebbe l’unica realtà giusta e valida. Ma le cose non stanno così. La vita, pur considerandola nella sua semplice realtà come l’antipodo di essa, ha una logica particolare (certamente tutta diversa dalla logica del conoscere) e un diritto delle sue inquietudini, delle continue deviazioni, delle sue contro-idealità. Attraversa continuamente

la linea delle idee senza essere costretta dal loro potere ideale alla persistenza, che le pare imposta da questo contatto. Se dunque la vita seguisse con tutta la purezza quest’intima inclinazione a lei più propria sarebbe totalmente “coerente”. Lascio in sospeso se tale inclinazione la porterebbe a seguire ogni umore, ogni impulso sorto chissà come. Un certo autocontrollo, una certa trasformazione dell’immediato a favore della totalità della vita dovrebbe far parte della stessa, della pura immanenza che segue assolutamente la propria linea e i propri impulsi. Dipenderebbe solo dal fatto che nessun singolo contenuto di vita, oltre al fatto di essere vissuto, si apre con un’esigenza ideale a un potere costante che stacca la vita dalla direzione della sua sorgente che scorre fresca in ogni istante. Questo non è ciò che noi definiamo solitamente coerenza, ma, al contrario, è il dominio di tale tendenza attraverso un’idea che viene recepita una volta dalla vita, e che poi continua a dirigere quest’ultima per diritto proprio, indipendentemente dal fatto che, se la vita fosse lasciata a se stessa, se ne distaccherebbe. Le idee ci vogliono in continuazione spingere ad allontanarci dalla traiettoria descritta dalla vita seguendone la tangente. In continuazione la vita cerca di spingerci da questa linearità nella sua curva, di divenire “incoerente” (inkonsequent) – e in questa tendenza vi è una forma di coerenza, che è quella della vita che continuamente si trasforma e si rigenera, che sta di fronte all’una-per-tutte dell’idea e si oppone alla vita. Alcuni conflitti in cui l’idea della fedeltà ci irretisce sono di questo tipo: la fedeltà è nell’etica, la coerenza è nella logica. Appartiene a quella parte oscura dell’etica, in cui si presume che la volontà disponga di un potere sul sentimento. È indifferente che noi lo comprendiamo o no secondo i nostri presupposti psicologici – non possiamo negare il fatto che sia eticamente richiesto il mantenimento intimo, non solo pratico, di una relazione sperimentata un tempo, nonostante la caduta dei momenti che una volta l’hanno fondata, e che questa esigenza sia in molti casi soddisfatta. Ora però, nelle tentazioni che portano al tradimento, non si tratta sempre di una volubilità specifica, di un deragliamento di tipo eudemonistico; i motivi che ci portano a rompere una relazione non giacciono sempre sullo stesso terreno, all’interno del quale un nuovo motivo tende a sostituire il precedente. Questi motivi spesso derivano piuttosto da una dimensione del tutto diversa, dai movimenti fondamentali della vita che si sviluppa secondo la propria legge, le cui singole pulsazioni continuano verso l’esterno perché necessarie a

questa o a quella relazione umana. Questo sviluppo generale del soggetto ha delle esigenze assolute come l’idea oggettiva della fedeltà e, quando un loro contrasto ci pone di fronte a un conflitto tragico, dobbiamo riconoscere la legittimità di entrambe le parti. L’insegnante, il pedagogo, incontrerà queste difficoltà della coerenza, anche se generalmente in forme più blande. Se si tratta di un’azione unica prescritta dell’alunno, il caso è semplice. Quanto viene impartito deve essere eseguito, c’è per così dire solo un momento dello sviluppo dell’alunno in questione che non permette più il cambiamento delle circostanze esteriori e interiori e conduce a un cambiamento forse necessario di quanto viene ordinato. Qui, dove il caso è subito chiuso, non è necessaria la vera coerenza, ma una fermezza contro l’opposizione, la trascuratezza, i tentativi di aggiramento. Si verifica una situazione più difficile solo di fronte alla preghiera dell’alunno. Ogni disposizione dell’insegnante dovrebbe avere in linea di principio il carattere di una necessità sensata e oggettiva, al quale la volontà soggettiva dello scolaro deve sottostare, e lo scolaro deve divenire cosciente che la disposizione ha più valore (wertvoller) della sua volontà soggettiva; non bisogna che consideri le disposizioni come una volontà soggettiva dell’insegnante, che comunque non sarebbe senz’altro più valida della sua, e di fronte alla quale sarebbe lecita la richiesta di una dispensa, perché si troverebbe nella medesima categoria. Vi sono, inoltre, degli aspetti nella vita personale dell’alunno che hanno qualcosa di oggettivo, e godono di un diritto oggettivo di fronte alle disposizioni o ai compiti scolastici. Una tale pretesa sarà naturalmente sempre sotto forma di preghiera poiché l’insegnante detiene il potere. Ma mi pare giusto che l’insegnante la consideri (mai rifiutare un limite, cosa che amareggia sempre), in modo che ponderi oggettivamente i motivi che sostengono le richieste dell’allievo contro il valore momentaneo delle sue disposizioni e che lo scolaro comprenda l’oggettività dell’approvazione o del rifiuto. Egli non deve mai avere l’impressione che l’assolvimento da un compito sia una grazia (Gnade) ricevuta dal professore. Perché allora non ci sarebbe più un limite alle concessioni, designato dalla natura delle cose, e l’alunno si sentirebbe autorizzato a mendicarle. Il caso più difficile si ha quando si riconosce la schietta volontà dell’alunno, che non può addurre per sé motivi oggettivi esterni, come un fatto altrettanto oggettivo che non si può trascurare a limine, cosa che invece deve accadere. Molti genitori moderni non costringono i loro

figli a mangiare un cibo che li disgusta, anche se in generale non tollerano, neppure a questo proposito, un essere lunatico e schizzinoso. Per il giovane ha un effetto amaro scoprire che la sua volontà non ha alcun valore, che è totalmente indifferente che qualcosa gli sia gradevole al massimo grado o ripugnante. Non c’è dubbio che spesso sia necessario procedere in modo che il bambino svolga ciò che gli è assegnato, senza tenere in particolare considerazione la sua soggettività. Nel suo mondo artificiale deve essere preparato a quel senso di dura resistenza che sperimenterà poi nella vita reale. Tuttavia non ritengo corretto assumere questo come principio assoluto. Dove ha già avuto effetto, dove l’esperienza del bambino consiste nella coscienza dell’irrinunciabilità dell’obbedienza, si potrà tener conto della volontà dell’allievo, anche solo perché si tratta della sua volontà – non solo in riferimento a ciò che non era stato vietato, ma pure molto raramente eliminando l’ordine. Il fanciullo deve riuscire a pensare che esista un rispetto anche per la sua volontà, ma lo deve anche capire (verstehen), per questo tale presa di coscienza è possibile solo in età più tarda. Occorre inoltre, che avvenga in una forma che escluda che si tratti di una debolezza del docente, di un lasciarsi pregare. Ma neppure quest’ultimo concetto esclude ogni problema. Nasce qui un dualismo che è fondato in genere sulla posizione del pedagogo e del docente. Da un lato egli è il mediatore e l’esecutore di norme e di necessità oggettive e ultrapersonali; in esse possono venir coinvolti tutti i motivi personali possibili, ma sempre sottostanti all’istanza oggettiva ultima che il docente rappresenta o di cui è l’organo. D’altro canto egli dovrebbe essere pure l’esempio e porsi quindi nella sfera dell’esistenza soggettiva, che si deve plasmare nell’alunno a sua immagine. In tal caso, il chiedere il permesso non è così escluso come nella prima categoria. Anche l’essere umano dovrebbe essere invitato a farlo, non dovrebbe essere lì semplicemente per una questione di principio (in realtà gli animali sono molto più degli umani – Mommsen e Catone) e, se l’insegnante è soprattutto un modello, deve esserlo anche in questa direzione. Tutto questo riguarda il caso, anche se non solo (nur) questo, in cui un’unica disposizione esige l’immediata esecuzione, concludendo così l’atto pedagogico ed eliminando la questione della vera coerenza. Questo avviene quando sono in gioco una disposizione o un effetto che si devono estendere più a lungo nel tempo. In tal caso, si ripete in modo limitato la pretesa di normativa atemporale dell’idea, e la difficoltà che l’immutabile sua

persistenza trova di fronte al dinamismo ma soprattutto al continuo sviluppo della vita. Così alcuni genitori esigono che i loro figli non abbiano alcun segreto per loro e che dicano tutto. Lascio aperta la questione sull’utilità di questa norma: il bambino non dice affatto (doch nicht) ciò che non vuole, ed è difficile risvegliare la convinzione che faccia dunque qualcosa di sbagliato; in questo modo viene in lui smussato il senso per il valore reale della verità. E, se anche è giusto esigere in una certa età l’apertura incondizionata, arriva però (e secondo me abbastanza presto) il momento in cui bisogna concedere al bambino un regno di pensieri a parte, il diritto di tenersi qualcosa per sé. Non solo perché egli, in rapporto al suo divenire personalità, acquista il diritto di essere padrone di sé, ma perché il suo sviluppo esige incondizionatamente che egli risolva qualcosa da solo. I processi di maturazione, di equilibrio, di chiarimento vengono bloccati e confusi dal manifestarsi di singoli stadi. Alcuni momenti di tali processi vengono stabiliti esprimendoli e dunque oggettivandoli, mentre essi sarebbero destinati a trascorrere fugacemente, a venire superati e dimenticati; quando li si formula, si affrontano come qualcosa cui si è legati, e il semplice irrigidimento nella forma della parola è pericoloso per il decorso naturale del processo – oltre al fatto che bisogna, nel fanciullo, concedere e mantenere il senso del pudore che gli impedisce spesso di esprimersi. Dunque, è qui necessaria un’arte del pedagogo per dominare le esigenze della vita – ma non imponendo le idee, in nome della loro coerenza. Avviene la stessa cosa con l’idea dell’assolutezza dell’autorità e dell’obbedienza, con il principio che ogni mancanza nel rendimento e nella disciplina dovrebbe essere punita, che bisogna per lo meno aspirare a una regolarità dei rendimenti, che l’individualismo e la compensazione devono essere esclusi ecc. Si tratta sempre del diritto dell’idea di fronte alla vita che esprime la propria legittimità all’interno della stessa in quanto coerenza, correlato temporale dell’atemporalità dell’idea – e del diritto della vita di fronte all’idea. Nessuno dubiterà che l’educazione e la scuola sostengano questo diritto, perché non permettono che la vita, nella sua casualità di fronte all’idea sia lasciata alle sue oscillazioni. Il diritto dell’idea trova il suo diritto e il suo simbolo eccellenti nel fatto che la lezione trasmette delle verità (Wahrheiten), il cui valore si basa sulla loro indifferenza atemporale di fronte all’assimilazione nella vita. Ma non bisogna scordare che invece la vita oppone e sente necessaria una resistenza e che la coerenza probabilmente riguarda solo l’idea, ma non la singola idea. Le trasformazioni

e gli sviluppi della vita sono l’indice del necessario cambio dei contenuti ideali. E con questo siamo giunti al secondo senso della coerenza, al quale alludevo. La coerenza non viene solo pretesa per svolgere le singole disposizioni (soprattutto per quanto riguarda la forma pedagogica), ma anche per collegarne il contenuto (Inhalte). Con questo non si intende il pensiero banale che il professore deve guardarsi dalle contraddizioni. Al di là di questo aspetto negativo o semplicemente logico, la coerenza rappresenta, nella sostanza, l’unità del contenuto pedagogico complessivo, la conformità (Einheitlichkeit) nell’ambito di una direzione costante che unisce i singoli elementi tra loro. Sia però chiaro che questo non sarà mai possibile con la semplice presentazione oggettiva degli argomenti, perché innanzitutto il nostro sapere è troppo incompleto anche nel campo pedagogico, le possibilità reali di comunicazione con l’alunno sono troppo limitate, perché un’oggettiva divulgazione del sapere ci dia quella coerenza ferma e sicura che si richiede dai contenuti delle lezioni. Deve essere trasmesso piuttosto un principio che non traspare necessariamente da questi contenuti, deve essere data un’intenzione che porti a una scelta e a un’applicazione pedagogicamente possibili, che è in sé coerente e, dunque, unitaria. È questo un punto di vista importantissimo per comprendere tutti i tipi di lezione. La scelta operata sul sapere disponibile non significa solo che si escludono le parti in qualche modo inopportune, mentre ciò che si mantiene è decisamente adatto alla comprensione, al livello culturale da raggiungere, all’interesse dell’allievo. Tale qualifica del singolo contenuto didattico non è sufficiente e neppure basta che ogni contenuto serva alla meta ultima, quand’anche venga posta, dell’educazione. Più che altro, si richiede un filo conduttore di singoli argomenti didattici, che racchiuda tutti i loro punti in una continuità e sia valido per l’oggettività di questi punti, non per il loro immediato scopo. Questo orientamento è necessario anche alla pura scienza nelle sue più vaste dimensioni. Scelta di quanto vogliamo inserire nella storia e sua disposizione in un ordine razionale. La pedagogia esige comunque, la posizione di una coerenza orientativa di seconda istanza o in una prospettiva più stretta. Anche se l’intenzione puramente pedagogica, o forse etica, è quella determinante, essa deve trasformarsi in un principio conduttore esprimibile anche con concetti oggettivi, per poter dare al contenuto oggettivo la sua intrinseca coerenza. Quello che si comunica nell’ora di religione, di storia o di

letteratura e il modo in cui lo si ordina, non è né immediatamente determinato dallo scopo pedagogico principale (che inoltre è troppo generale per questo e può tutt’al più decidere sul singolo elemento in quanto tale), né dallo stato di volta in volta effettivo della scienza (troppo ampio e incoerente), ma da un a priori particolare che conferisce un ordine coerente ai contenuti scelti per gli alunni. Non emerge qui, dato che si tratta di un’oggettività, il contrasto tra idea e vita, o per lo meno non si presenta come prima. Ora non deve essere trascurato nulla, né bisogna lasciare delle lacune. Il motivo decisivo è (Das entscheidende Motiv ist): ciò che noi chiamiamo coerenza o unità nei nessi di ogni materia non è semplicemente qualcosa di logico, un evitare formalmente le contraddizioni; essa [la coerenza] dipende ovviamente da idee positive, definite nei loro contenuti, che determinano la scelta, l’interpretazione, la successione dei singoli argomenti. Un contenuto è coerente quando non solo si ricollega al precedente, ma quando ha in sé una diretta relazione con l’idea dominante e forma con le altre idee una serie teleologica che la tiene come obiettivo. La volontà di cui si tratta anche qui non è solo importante in quanto etica, ma anche perché rimane del tutto – benché forse avvolta nella sfera della morale – all’interno della realtà teoretica, è la volontà di realizzare un’idea attraverso le conoscenze trasmesse all’allievo. Tutti questi significati diversi della coerenza, le fissazioni dei singoli contenuti di vita al di sopra della vita che non si lascia irrigidire, minacciata dal continuo conflitto con essa, senza però perdervi il proprio diritto, non devono avere un effetto sull’alunno solo a seconda dei loro contenuti occasionali, ma la coerenza deve più o meno imporsi come tale nella coscienza. Deve sentire che la vita volge a un elemento stabile al di là del suo ritmo e che appartiene al dinamismo della vita accogliere in sé questa forma immobile. Vi sono comunque casi di inevitabile contraddizione di questa coerenza, nei quali appare che l’idea è nata dalla vita con tutte le sue oscillazioni e aporie. Sono i casi in cui il docente scopre che si è sbagliato, e dunque si trova innanzi al bivio se può continuare nella direzione teorica o pratica sbagliata, o apparire incoerente di fronte all’alunno. Problema pedagogico di prima importanza. È fuori di dubbio che la forma della coerenza debba alla fine piegarsi alla verità. Ma sulla logica radicale di questa decisione non è ancora detta l’ultima parola. Innanzitutto, esigerà spesso continui passaggi; se per esempio ci si è convinti che l’atteggiamento severo nei confronti di un alunno sia stato sbagliato, che si sarebbe dovuto

agire con maggiore prudenza e indulgenza, non si dovrà passare da un giorno all’altro a tale atteggiamento oggettivo corretto, ma il cambiamento dovrà essere graduale. Allo stesso modo, se si considera opportuno nell’ora di religione adottare il metodo liberale invece di quello dogmatico, o se invece di ambire a un effetto immediatamente moralistico sulla volontà del fanciullo si tende a plasmarne i sentimenti – o viceversa. Se si dedica a tali passaggi un tempo sufficiente e si persegue abilmente una certa continuità, l’alunno non dovrebbe notare nulla di tale deviazione dalla coerenza, poiché non si tratta qui di conoscenze con la loro incondizionata richiesta di verità, ma di effetti pratici che in un senso teorico stanno al di là del vero e del falso, non è necessaria la presa di coscienza dell’alunno e il pedagogo può tenersi l’errore per sé. È molto più complesso quando l’insegnante deve ammettere il proprio errore. In tal caso, l’alunno deve comprendere che l’idea (della cui coerente applicazione si tratta in prima e in ultima linea) è quella della verità; che dunque, rinunciando all’errore, si è coerenti; che ogni singolo contenuto della verità, di fronte al suo principio, è casuale, e che si sarebbe incoerenti (inkonsequent) se si sacrificasse l’assoluto per salvare il casuale. Il peggio che possa capitare al docente è che l’alunno noti il suo tentativo di aver ragione contro un sapere migliore e voglia essere “coerente”. Questo non implica solo la distruzione dell’autorità, ma annulla pure il valore dell’insegnante come esempio morale. Invece, si eleva il rispetto per esso quando costui ammette di essersi sbagliato. Questo non ha solo come effetto che si consideri il maestro una persona libera da pregiudizi e giusta, ma permette allo scolaro di notare che l’idea oggettiva e la verità stanno al di sopra del docente e dello stesso allievo, come il primo incondizionatamente, che il docente non sta davanti all’alunno esigendo obbedienza e fiducia per se stesso e per il suo diritto, ma in quanto esecutore e intermediario di qualcosa di più alto. Nel valore dell’idea la meraviglia consiste nel fatto che l’autorità del docente non rimane sacrificata ma guadagna la costellazione (die Konstellation) – che il sacerdote impersona al grado massimo. La problematica della coerenza come effetto omogeneo e privo di contraddizioni non riguarda solo il docente, ma pure l’organismo scolastico nel suo complesso. Dal punto di vista pedagogico è una follia che l’alunno debba nel corso di una mattinata essere seguito da quattro o cinque insegnanti diversi, come se costui fosse uno stivale prodotto nella fabbrica da operai che

fanno una piccola parte, l’una diversa dall’altra. Non vi è nessun paragone che simboleggi più chiaramente tale intellettualizzazione e questo inserire una quantità di sapere come unico fine didattico. Finché sussiste questo procedimento le peggiori conseguenze possono essere evitate solo tramite la completa comprensione dei docenti fra di loro. Deve regnare armonia tra gli insegnanti: essi devono discutere continuamente le questioni possibili – non solo quelle esteriormente tecniche – in modo che ne nasca uno spirito complessivo e che il singolo scolaro non si trovi innanzi a un sistema formato da parti inconciliabili, si sfugga, inoltre, alla parcellizzazione delle materie che, di fronte al carattere continuo della vita psichica dell’alunno, è la diretta negazione della forma della comunicazione a essa adeguata. In riferimento al problema morale, al “comportamento” degli alunni, la coerenza, come assolutezza dell’idea, pare esigere che il docente non tolleri alcuna mancanza, e ne rimproveri ogni manifestazione. Ecco però emergere il conflitto con il diritto proprio della vita. Perché in realtà la punizione di ogni inezia, anche se questa è indubbiamente un’ingiustizia, è un prendere in considerazione e un accentuare che la ricordi, mentre altrimenti la corrente la trascinerebbe via; la cosa di scarsa importanza assume conseguenze interne ed esterne che non le competono e rendono l’alunno inutilmente testardo e irritato. L’insegnante deve assolutamente attenersi al principio: il pretore non può tener conto di cose di così poco valore (Minima non curat praetor). Furto di uno spillo (Diebstahl einer Stecknadel). Non deve con ciò essere scontato che lo scolaro agisca sempre in modo giusto. Alla vita appartiene anche l’errore, che andrebbe sottolineato in quanto tale, ma non inserito immediatamente con la punizione e la predica nel mondo ideale e nella sua importanza. La vita nella sua complessità deve essere guidata e formata in modo che possa comprendere una certa quantità di errori, senza venire con questo sviata dalla sua orbita. Con la coerenza puramente concettuale, che conosce solo il bene e il male, senza distinguerne le quantità (stoicismo), la pedagogia non può avere inizio. L’insegnante può procedere in due modi: può riprendere le piccole colpe, obiettivamente, e lasciare la reazione puramente morale al bambino. Se il bambino nel complesso è equilibrato, la situazione in tal caso assume nel modo più veloce il giusto significato, e provoca il giusto effetto. Il docente può anche agire come se non avesse notato nulla. Questo semplice “fare come se nulla fosse” (als ob man es nicht bemerkte), quando l’allievo vuole irritare il docente o deriderlo, è innocuo, se

si tratta di una situazione unica e passeggera. Altrimenti, il ragazzo può sentirsi stimolato a ripetere e ad aumentare i suoi attacchi, finché il docente deve prenderne atto e reagire. In tal caso, l’alunno ha per così dire vinto. È molto meglio affrontarlo con una sovranità che lasci capire allo scolaro che non può colpire il suo maestro. Se si dispone dello spirito e dell’ironia necessari, si può rivoltare la situazione in modo che il dardo ritorni verso il suo tiratore, che diviene la parte offesa. Neppure per questo procedimento c’è una regola certa, è il tatto (der Takt) [discrezione, accortezza] che decide fra le possibili reazioni. L’individualismo è, infine, qualcosa che si oppone alla concettualità della coerenza puramente oggettiva, razionale. La molteplicità flessibile della vita non può venire senz’altro collegata all’unità sovraindividuale dei princìpi atemporali. Aspetti principali delle differenze individuali da osservare nei bambini: velocità e profondità nella comprensione, velocità e costanza nell’apprendimento, agitazione e apatia, stanchezza veloce e continua e capacità di riprendersi, concentrazione e distrazione, inclinazione per il nuovo o per i vecchi binari, sensibilità alle lodi o ai rimproveri, carattere del lavoro impulsivo o tenace, tendenza a generalizzare o a individualizzare, grado di finezza nella percezione delle sfumature (Nuancen).

4. LE DOMANDE (Vom Fragen) Nella vita quotidiana la domanda non compare ed è per questo che a scuola la si esige come tecnica molto speciale. Le condizioni del domandare in genere consistono nell’ignoranza della risposta da parte di chi pone la domanda e dalla sua volontà di venirne a conoscenza; chi risponde (sappia o no il contenuto) è solo il mezzo (Mittel) per dare l’indicazione a chi la richiede. Che però qualcuno chieda qualcosa che sa e anche colui che risponde sa che l’interrogante ne è a conoscenza, ebbene, questa è una struttura tutta particolare. Si deve allora giustamente dire: la domanda in quanto tale non chiede quando è avvenuta la battaglia di Mühlberg, ma se l’alunno sa quando è avvenuta. Per essere chiari, allora, non bisognerebbe chiedere: “Quando è avvenuta la battaglia di Mühlberg?”, ma: “sai quando è avvenuta la battaglia di Mühlberg?”. (Questo non coincide con la domanda pratica: “Conosci la novità?” – perché qui la domanda è la forma retorica o la preparazione di una comunicazione positiva che si vuol fare). Vogliamo mostrare la tecnica dell’interrogazione soprattutto negli errori in cui ricade facilmente. Non bisogna porre domande alle quali si risponde con un semplice sì o no. Questa risposta non dà nessuna garanzia che la domanda sia stata davvero capita e che il contenuto sia realmente noto. Inoltre, porta a un semplice indovinare, poiché ogni risposta ha il 50% delle possibilità di essere giusta. Questo tipo di domanda non va posta anche perché la risposta deve essere formalmente corretta, non dovrebbe sviare, né costituire un caos di frammenti, e nemmeno avere un carattere di secondaria importanza. L’alunno deve anche apprendere la forma dell’espressione. Si cerchi allora di rendere quanto si racconta esperienza diretta del bambino, di rappresentarlo con disegni, per esempio la marcia dell’esercito prussiano su Königgrätz. In tutti gli anni scolastici, come in tutte le materie, si offrono possibilità di narrare ai bambini cose interessanti, e soprattutto di stimolarli a ripetere quanto hanno ascoltato o a inventare da soli vivaci racconti. Le risposte frammentarie dei fanciulli al gioco di botta-risposta (Klipp-KlappSpiel) devono scomparire sempre più dalla lezione, per lasciare il posto a un’espressione continua e coerente degli alunni. I bambini devono essere

educati a raccontare. La risposta deve mirare al nucleo (Kern) della domanda, non insistere su aspetti secondari, coi quali spesso l’allievo nasconde di non conoscere la cosa principale. Non si interrompa troppo lo scolaro, lo si lasci parlare il più possibile, anche perché gli errori emergono spesso proseguendo il proprio discorso e l’alunno può correggerli da solo. Ammasso di domande in una domanda. La domanda scolastica (Schulfrage) dovrebbe essere posta in modo che ne scaturisca una risposta precisa, e non una che riguardi dieci contenuti diversi. Soprattutto la domanda non deve puntare a risposte che si muovono in direzioni diverse: quali furono le azioni principali di Maurizio di Sassonia? Come si possono giudicare da un punto di vista morale? Cosa ha insegnato Gesù sul perdono dei peccati, e che effetto ha questo sugli uomini? Simili domande non possono che provocare confusione nell’alunno, che ora non ha il tempo per una risposta appropriata. Sono inoltre da evitare le domande da cui nascono infinite possibili risposte (che cosa non sapevano gli antichi Romani?), come tutte quelle domande che sono ambigue. La domanda dovrebbe essere posta in modo che, se la risposta risiede già nella mente dell’alunno, si indirizzi direttamente a essa. Se però avviene che l’alunno replichi in un modo che non era stato esattamente richiesto dal docente, e che tuttavia è appropriato, l’insegnante deve giudicarlo positivamente. Non può pretendere che lo scolaro intuisca la sua intenzione che mira a una risposta determinata tra le possibili. Sono da abolire tutte le domande che traggono in inganno l’allievo. L’insegnante non è una spia, deve condurre il suo scolaro alle risposte corrette, non a quelle sbagliate. Come durante gli esami deve indagare ciò che egli sa, non ciò che non sa. Essenzialmente la domanda esiste in funzione dell’alunno, solo in un momento secondario diviene un mezzo del professore, per scoprire la diligenza e le capacità dell’alunno; per trovare risposte a tali questioni [l’insegnante] deve ricorrere ad altri metodi oltre chiaramente all’interrogazione di quanto si è dato da studiare. Del tutto anti-pedagogiche sono le domande in cui il docente dice la prima metà di una frase, e ne aspetta, dallo scolaro, il completamento come replica a una domanda posta con l’inizio. “Nelle nozze di Cana Gesù trasformò...? In un triangolo equilatero ci sono...? Il Rodano nasce dal...?”. Un tale processo frantuma l’unità del pensiero che le parole di una frase creano e tengono compatta, separa parti normalmente connesse su piani differenti, impedisce la

formazione di associazioni solide, toglie l’indipendenza della scoperta e coltiva una semi-responsabilità (halbe Verantwortlichkeit), che è sempre molto pericolosa. Eccetto la domanda diretta d’esame, nessuna domanda deve richiamare una risposta puramente automatica, che è già pronta e deve solo essere tirata fuori, come il borsellino dalla tasca, senza impiego di energie e un vero processo interiore. Ogni domanda, invece, dovrebbe provocare nell’alunno un’attività mentale, la risposta deve scaturire da uno stimolo funzionale e il suo contenuto non va preteso come se si trattasse di qualcosa di già compiuto, qualcosa di passivo, che non ha più nulla a che fare con la spontaneità e il lavoro intellettuale. La domanda dovrebbe essere vera per essere una richiesta (Aufforderung). Perciò, bisogna tralasciare tutte quelle che offrono all’alunno una risposta nascosta o la suggeriscono. È questo uno dei peggiori casi di alienazione, come se l’aspetto essenziale fosse ottenere una risposta, senza dar conto a quali condizioni. Se si vuole trasmettere qualcosa all’alunno, lo si faccia direttamente, non sotto forma di domanda – che in tal caso gli confonderebbe solo le idee. Se lo si interroga, bisogna che venga messa in moto l’indipendenza dell’allievo. “La lezione costituita da domande deve sfidare l’attività intellettuale dell’alunno. Bisogna, perciò, disapprovare ogni lezione che presenta all’alunno domande per le quali risposte ha poco o niente da riflettere – per esempio, i suggerimenti nascosti che mettono già in bocca all’alunno le risposte. Le cosiddette domande suggestive dovrebbero essere rigorosamente proibite ai docenti come ai giudici”. Per la stessa ragione una domanda, se viene posta spesso su uno stesso argomento, non deve diventare stereotipa. L’effetto secondario psicologico-etico della domanda è che lo scolaro in quel momento si deve concentrare. Doppio significato del “richiamo”: richiamarlo all’altezza della situazione. Se prima l’alunno sonnecchiava e, distratto, ha lasciato sparpagliare i suoi pensieri, questo raccoglimento non può aver luogo. Pertanto, le domande alla lunga agiscono come ammonizione a non lasciarsi troppo andare. L’aumento dell’effetto delle domande dal punto di vista della concentrazione è il compito estemporaneo che naturalmente, non si considera affatto come criterio di valutazione. Valutare meccanicamente il valore dell’alunno contandone gli errori è uno dei peggiori sistemi del pedagogo pigro. (Sulle prove estemporanee: Matthias, Pedagogia pratica1). È comunque positivo che l’alunno sia talvolta costretto a

concentrarsi al massimo in un determinato momento e a tenere elevata la propria attenzione non solo per il minuto che richiede una domanda, ma anche per un’ora intera. Un metodo estremamente corretto consiste nel lasciar riprodurre liberamente all’alunno quanto di un argomento è stato presentato e trattato. Una frase viene dimostrata con disegni, un esperimento condotto con apparecchiature, viene spiegato un animale già presentato, estrapolate delle leggi e caratteristiche da brani letterari affrontati. Lo scolaro deve ricostruire senza avere innanzi agli occhi l’oggetto, impara così il passaggio dall’osservazione al concetto e, solo in questo modo, può liberamente comprenderlo e memorizzarlo. Educazione all’intuizione interiore (Erziehung zur inneren Anschauung). Quando in una risposta è contenuto del giusto e dello sbagliato, cosa che avviene spesso, e perciò certamente il tutto come tale è falso, non bisogna respingere il tutto, ma estrapolarne le parti corrette e mostrare all’alunno che, perseguendoli con coerenza e nella loro direzione, gli elementi esatti ancora mancanti si aggiungeranno del tutto spontaneamente. Dove è possibile occorre rassicurare il ragazzo che egli ha cercato l’elemento corretto, ancora però latente nella sua risposta, e che l’errore non è che una deviazione dal suo percorso. Questo conferisce allo studente la fiducia infinitamente importante che il giusto risiede sempre in noi, che dobbiamo solo estrapolarlo – certamente, solo attraverso la propria attività – e che l’errore è un’incoerenza, una deviazione o un’infedeltà non solo nei confronti dell’argomento, ma anche verso noi stessi. Ogni infedeltà è solo infedeltà verso noi stessi. Tale mescolanza di giusto e sbagliato ha luogo in modo particolare quando lo scolaro risponde troppo in fretta. La valutazione del tempo in cui viene pretesa una risposta è importantissima, ma non definibile in termini generali, poiché dipende dalle infinite diversità delle individualità dei ragazzi e dalle difficoltà delle domande. “La domanda deve precedere la risposta. Devono nascere un’attenzione e una sensibilità uditiva. Prima che, però, uno stimolo passi dalla sfera dei sensi esterni alla corteccia cerebrale trascorre un certo tempo. Un’altra parte di tempo passa inoltre, finché una giusta immaginazione si colleghi alla sensazione. Per esempio: “Di che colore è questa ruota?”; nasce da qui l’immaginazione del colore giallo (o di un altro), dopodiché deve formarsi

l’immaginazione del lemma “giallo”. Anche per questo trascorre del tempo. Infine, devono essere messi in moto i muscoli della lingua necessari all’articolazione del fonema “giallo”. A questo punto si formula la risposta. Questa grandezza temporale non è una costante. Non solo con persone o età diverse, ma anche nello stesso individuo è differente in periodi difformi, a seconda dell’umore, delle caratteristiche fisiche, dello stato del corpo. Più favorevoli sono le condizioni somatiche, più veloce nasce la risposta. Emerge subito quanto sia importante, ma anche complicato, seguire le caratteristiche del bambino. E già in questa considerazione dobbiamo rifiutare nei suoi limiti l’esigenza di una rapida (rasche) sequenza di domanda-risposta, e considerando il carattere del bambino, occorre attenersi alla velocità delle sequenze di domanda-risposta. Nella lista delle individualità bisogna, perciò, notare per motivi pratici in che rapporto tale situazione stia con i singoli alunni. Con una simile osservazione possono essere evitati parecchi inconvenienti e si risparmiano al singolo molte parole di biasimo. In ogni caso si esigeranno sempre risposte veloci ceteris paribus come principio regolatore. Non solo in virtù di un risparmio di tempo per la classe, ma perché con questo la lezione diventa più vivace, più fresca, e la “concentrazione” viene esercitata meglio. Molto importante è il tono con cui si formula la domanda. Dovrebbe lasciare trasparire l’interesse dell’insegnante per l’argomento e non solo la sua intenzione di scoprire se lo scolaro lo conosca. Con questo trasmette l’interesse per l’oggetto all’alunno. “Rielaborare per iscritto le lezioni sotto forma di domande e risposte è irrinunciabile per il docente, poiché egli stesso deve raggiungere la capacità di rielaborare indipendentemente la materia. I libri manualistici (Die Präparationsbücher) sono aiuti che impediscono la formazione di ognuno. Nessuna lezione di questo tipo può essere davvero tenuta a scuola”, dando al docente uno schema morto alla cui suggestione egli può difficilmente sottrarsi, imprigionando la sua individualità nelle situazioni che via via si susseguono. Ma non solo il docente deve interrogare, bisogna anche coltivare le domande degli allievi, non solo permetterle, ma persino stimolarle a tutti i livelli. “È naturale che i bambini delle prime classi, le cui boccucce non stanno mai zitte, tacciano ora? La domanda dello scolaro, connessa alla lezione o persino in relazione alla vita del bambino ci permette una visione profonda

del suo mondo intellettuale, che noi pedagoghi conosciamo sempre troppo poco. Favorisce insomma, su un terreno empirico la nostra conoscenza della natura del bambino”2. La domanda del fanciullo che impara assumerà a livello superiore una forma ampia e felice quando l’alunno sarà abituato dall’inizio a chiedere, o, per meglio dire, quando si indirizza il ricco desiderio di chiedere su quali binari si possa creare qualcosa di utile. “È certamente necessario anche che l’insegnante non sia vincolato al suo piano didattico o a eventuali istituzioni, che possa dedicare un’oretta a una domanda appena al di fuori del programma abituale”3. Cerchiamo ora di superare l’ultimo ostacolo, il non proprio sorprendente timore (Fragescheu) della domanda che compare spesso nel nostro attuale impartire la lezione. Se i bambini sono spinti a occupare solo il ruolo di chi dà la risposta si disabituano fondamentalmente a poco a poco alla domanda, che è naturale! E se li stimoliamo a una tale azione ci guardano sbigottiti, come se volessero dirci: “Ma questo è affar tuo! Che cosa fai, altrimenti?”. Perciò è necessario oliare il meccanismo arrugginito della domanda, fare di tanto in tanto una pausa e poi proseguire: “Qualcuno ha un peso sul cuore?”. Se il silenzio dovesse continuare, allora: “Mi sarebbe piaciuto sapere questo e quello, avrei chiesto le cause, gli effetti e cose simili e come stanno esattamente le cose”. In questo modo, i bambini si abitueranno gradualmente a chiedere e saranno incoraggiati a esprimere con vivacità e spontaneamente i loro pensieri più interiori. Il pedagogo, però, si guardi scrupolosamente dal non criticare domande pensate seriamente, anche se stupide, e dal non abbandonarle alla maledizione della derisione. Non deve nemmeno permettere che i bambini reagiscano con clamorose risate alle dichiarazioni di un compagno, e [se accade] in tal caso, dovrebbe ricordare loro quanto frequentemente essi stessi abbiano fatto cose stupide. Se infatti l’insegnante permette spesso agli alunni di prendersi gioco di un compagno, si crea in una parte della classe, e proprio nella migliore – un’atmosfera di gelo e di estrema riservatezza, – e un silenzio persistente. E, invece, per il docente sarebbe un celeste piacere vedere i propri alunni dominare un argomento interessante tramite un discorso o un dibattito vivace. Chi ha osservato al di fuori delle quattro mura della classe con quale vivacità i bambini pronuncino qualcosa, come si interroghino a vicenda, come i gesti e le espressioni accompagnino lo scontro

delle parole, giungerà a considerare utile e possibile una più lunga e reciproca discussione fra i bambini nell’ambito della lezione. Si è affermato che finora la scuola ha trattato costoro essenzialmente come degli ascoltatori, mentre, nella realtà, essi sarebbero soprattutto spinti ad agire. Non sono loro congeniti lo stare seduti in silenzio e la ricezione passiva, ma il movimento e l’azione. Questo dovrebbe essere un principio generale che si esplica soltanto in modo particolarmente chiaro nelle domande degli scolari. 1 A. Matthias, Praktische Pädagogik für höhere Lehranstalten, C.H. Beck, München 1912. 2 Nota di Simmel: Quando si vieta la parola al bambino gli si vieta pure la possibilità di pensare. Si cerchi di limitare solo il blaterare, cioè il parlare senza riflessione, non lo si vieti in tutto e per tutto, ma si cerchi di trasformarlo in un discorso sensato. 3 Nota di Simmel: L’insegnante deve disporre e organizzare la sua materia in modo che resti lo spazio per il non prevedibile.

5. LA VALUTAZIONE (Von den Beurteilung) È difficile valutare un singolo risultato scolastico, soprattutto una più ampia prova come per esempio un tema; anzi, molto più difficile che valutare la qualità complessiva dell’alunno. Concorrono infatti, sempre tre parametri: l’assoluto, l’idea del profitto oggettivamente migliore che il compito possa trovare; il relativo, per l’età del ragazzo, la sua educazione, il livello della classe; l’individuale, infine, che si ricava dalla relazione del profitto con la predisposizione dell’alunno e con i suoi risultati precedenti. Inoltre, si deve considerare che né la prestazione migliore né quella peggiore è positiva o negativa in tutte le sue parti in modo uniforme, e il rendimento finale deve essere, per così dire, una certa media di questi differenti valori parziali; d’altro canto, però, il lavoro nella sua totalità fornisce un’impressione complessiva che non nasce da una singola parte e non deriva sempre dalla media, come la qualità estetica di una figura umana o di un’opera d’arte non deriva dai valori delle parti specifiche, ci si affidi tranquillamente a questa impressione generale. Importanza dell’“habitus” [forma] anche del lavoro individuale. Nel caso di lavori scolastici è opportuno naturalmente fare soprattutto attenzione agli errori (Fehler), perché questi dovrebbero essere eliminati. Si possono evidenziare la cosa buona e corretta per stimolare e spronare lo scolaro, ma nel corso del processo didattico [gli errori] devono essere considerati come naturali e non ci si deve soffermare troppo. Nel caso di verifiche (Prüfungsarbeiten), invece, conta quanto lo scolaro sa, solo in seconda ipotesi quanto non sa. Nel primo caso si cerca il lato negativo, nel secondo quello positivo. Ne deriva senz’altro che nel primo caso l’oggetto del voto sono più i singoli dati in quanto tali, mentre nel secondo è il tutto, perché (in generale, con qualche eccezione) il negativo si presenterà più come una somma di singoli errori, il positivo, invece, non come una somma di singoli punti validi, ma come un carattere del tutto, dell’insieme). Contro queste difficoltà non esiste una ricetta di principio. La si padroneggia quando si ha la visione più chiara possibile delle richieste contraddittorie e non se ne respinge nessuna in favore di un’altra. (Si formerà

una pratica prima di tutto che offre a ognuna quel massimo della soddisfazione che può raggiungere, alla condizione che anche le altre acquisiscano il loro massimo possibile). A causa di tali difficoltà e del valore problematico del voto per l’allievo si è voluto annullare il giudizio di valore del singolo lavoro. Soltanto però, “non si pensi ad abolire assolutamente qualsiasi voto. Si è appena parlato già sopra delle lodi e dei rimproveri come di un processo naturale. Se è proprio della natura umana preferire e respingere come un dato fondamentale etico e psicologico non ulteriormente deducibile, anche ogni partecipazione richiede una lode o un rimprovero. Ma la natura del giudizio sano e spontaneo è che questo avviene senza essere determinato dalla raffinatezza e da considerazioni che si pongono al di fuori di esso”. Lo studente non crederebbe che l’insegnante partecipi realmente al suo lavoro, se costui non lo lodasse o lo biasimasse. L’apprendimento dello scolaro come il suo risultato è qualcosa di vivo, un processo fluttuante (che ha le sue costanti in modo del tutto diverso di quanto accade nel mondo meccanico e ideale). Perciò, anche la lode e il biasimo devono essere qualcosa di vivo, la reazione di un’anima sentita viva; se entrambi devono avere veramente un effetto nel processo di formazione dell’alunno non possono giacere come membra morte, tratte da un organismo completamente estraneo, come accade quando sono costituiti da numeri o premi predefiniti. È perciò da abolire la correzione in base a numeri: 1, 2, 3, 4 – la meccanizzazione più sgraziata di qualcosa che c’entra qui solo come esponente e simbolo di una formazione continuamente in ascesa, come valore all’interno della vita psichica e dei suoi intrecci. [Essa] lascia trasparire il trattamento sintomatico più grossolano, la forma più grezza del tipo di atteggiamento: le istituzioni scolastiche non sono organizzate prima di tutto (in erster Linie) affinché l’alunno impari e venga educato, ma affinché l’insegnante sappia ciò che ha imparato. Il metodo di valutazione basato su pochi voti definiti sposta inevitabilmente l’intera organizzazione della lezione nella prospettiva della standardizzazione e schematizzazione massime possibili. “Questa è la forma di valutazione. Si pone per ogni materia un voto definito e si moltiplica la cifra per il numero di ore settimanali. Vengono sommate le ore e ordinate in base alla grandezza. La più piccola somma raggiunge il primo posto principale. Immediatamente la valutazione diventa una classificazione”. Un’ulteriore difficoltà consiste nel fatto che il giudizio non solo deve

essere giusto, ma dovrebbe anche essere considerato tale dall’alunno. Quando il docente ha l’impressione che ciò non avvenga, deve sforzarsi di convincere l’allievo. Ne sarà certamente ripagato. Alla giustizia sono di ostacolo, oltre a quelli evidenti, altri momenti spesso trascurati: l’insegnante deve chiedersi se il compito sia stato ordinato in modo giusto. Nel caso di allievi più giovani è accaduto spesso che non sapessero cosa dovessero esattamente fare. All’inizio del semestre, quando l’insegnante ha a che fare con una nuova generazione, abbassi le sue esigenze e non scordi che i ragazzi non sono ancora al livello della classe, ma di quella precedente. È invece del tutto sbagliata quella indulgenza generale che fuoriesce dalla misura della pretesa universale verso argomenti che non si considerano “così importanti”. Se la materia è inserita nel piano didattico è significativo, altrimenti non ha comunque nessuna rilevanza. Se si lasciano andare le redini, se si trascurano le inefficienze più che altrove, possono sorgere parecchie cattive conseguenze. Da un lato lo studente accoglie questa indulgenza come una “grazia” soggettiva del docente – una delle peggiori categorie, che deve essere assolutamente abolita; dall’altro, questo procedimento assume l’aspetto di una tacita congiura tra l’alunno e l’insegnante alle spalle del piano didattico. Il concetto di “materia secondaria”, come se questa non fosse così importante da doverne soddisfare le esigenze come quelle “principali” – è completamente erroneo. Se per l’obiettivo della formazione non è necessario dedicarle così tanto tempo come alle altre, oppure, se la lezione scolastica non comprende una grande quantità di nozioni relative a questa materia, come invece avviene per le altre, allora il rapporto tra materia secondaria e principale è già stato tenuto in considerazione nel numero minore di ore e di pretese scientifiche. Ma il valore di quanto rimane da pretendere è assolutamente uguale nei confronti di ogni altra. Altrimenti non si dovrebbe più esigere nulla dal tempo degli alunni, gli argomenti sono tutti ugualmente importanti! In nessuna materia la valutazione deve essere più clemente che in altre. Il lavoro della scuola dovrebbe insegnare all’alunno “che bisogna fare ogni cosa al mondo il meglio possibile (so gut als möglich) – e che non bisogna accontentarsi del giusto, buono e vero a metà”. Ma la questione sulla severità o indulgenza della valutazione si sottrae di fatto alla discussione di principio. Riferendoci al significato del singolo profitto i termini indulgenza o severità non sono in genere l’espressione

adatta, perché, al di là di essi, la valutazione deve essere obbiettivamente giusta in base a un parametro prefissato. Nei fattori che la determinano devono chiaramente rientrare tutte le circostanze che hanno contribuito a produrre il risultato. La predisposizione individuale, le caratteristiche della formazione, le condizioni nelle quali il lavoro era stato svolto. Quello che si intende con il concetto di “indulgenza” è per lo più solo la considerazione di questi fattori, mentre il professore “severo” guarda soltanto al risultato e non si preoccupa di come sia stato raggiunto. Se essi vengono invece considerati, cosa che dovrebbe accadere, il giudizio deve essere giusto, e nient’altro che giusto – come il giudice non deve essere dominato dall’indulgenza (la mitezza è arbitraria quanto la crudeltà). Anche quanto viene qui così dichiarato non è che la giusta considerazione di tutte le circostanze oggettive dell’azione. Tale procedimento è necessario perché i parametri di valutazione non diventino per l’alunno confusi e incerti, vedendo che tutto quanto è da considerare nel lavoro si acquieterà senza pretendere un’indulgenza infondata. I ragazzi hanno un fortissimo senso della giustizia che non può essere sviluppato meglio che attraverso un allenamento. La base della questione necessita di più di una discussione di principio. Perché non appena il giudizio non riguarda un qualche profitto atomistico, una singola risposta o lavoro, non è una decisione semplice: a che cosa si riferisce esattamente la valutazione? Alla media dei risultati? E se lo è? Si fonda – cosa che diventa importante per la questione della promozione – sul corso di tutto il semestre o sul risultato appena raggiunto? Nella pratica questi problemi sono affrontati in genere in base a un istinto non ben definito. Dovrebbe essere qui spiegato. Decisione estremamente importante in molte aree, se infatti, un insieme di fenomeni dovrebbe essere valutato in quanto tale secondo una media dei suoi singoli valori oppure secondo il più alto valore in esso apparso. Dove sono coinvolti gli esseri umani nella loro totalità (di conseguenza nelle opere d’arte, in cui questa trova la realizzazione) la media non è assolutamente un metodo da adottare. Una classe in cui una metà di ragazzi è decisamente positiva e l’altra nettamente negativa non può essere definita come “mediamente sufficiente”, perché questa sarebbe una vuota astrazione che non riguarda gli elementi reali. È insensato giudicare come mediamente sufficiente un alunno dotato che esegue alcuni lavori molto buoni e alcuni pessimi. Si tratta di un essere originale che non si può definire con un unico concetto di valore. È bene evitare voti del tipo: “Nel

complesso” – perché essendo formati da valori positivi e negativi – l’unica cosa richiesta e vantaggiosa sarebbe conoscerne i singoli pregi e le carenze, non una media, in cui l’aspetto decisivo si dissolve. Proprio quando si tratta di un giudizio complessivo su un definito arco di risultati bisognerà dire che il profitto migliore dello scolaro mostra quanto egli sia in grado di fare. Chiaramente l’uomo non è una macchina che può produrre la sua massima prestazione lavorativa sempre in una qualità costante. Quando si tratta puramente dell’uomo come creatore dell’opera oggettiva, il discorso è tutto particolare: Goethe, visto assolutamente come poeta, vale tanto quanto le sue opere migliori; Goethe, in quanto uomo, deve rassegnarsi a che ogni istante della sua vita, con il suo valore o disvalore particolare, sia inserito nell’immagine di rilievo che risulta dalla sua vita complessiva. Anche qui sarebbe un’immagine del tutto falsa parlare di un’addizione di significato, di importanza dei singoli momenti vitali e della sua media. Non si dovrebbe scomporre la vita dai momenti nella sua forma di successione, poiché non si tratta di singoli momenti, ma di una continuità (nebeneinander), non si possono accostare i vari istanti, come avverrebbe per qualunque altro processo. L’alunno nella sua complessità non può allora essere qualificato in base al risultato più alto, e d’altro canto sarebbe sbagliata anche una media, ma l’oscillazione dei suoi profitti rivela un quadro di valori particolari della vita. Il calcolo è reso, inoltre, difficile dall’influenza del motivo morale: il suo risultato (objektiven) migliore avrebbe dimostrato di che cosa è capace, mentre quelli inferiori dipenderebbero dalla mancanza di diligenza e di buona volontà. Benché questo talvolta sia vero, la situazione non è in genere così semplice. Non sempre l’uomo è in grado di fare quanto ha prodotto nei momenti più favorevoli, lo sviluppo vivo, in sé unitariamente coerente e necessario, passa attraverso infiniti punti che, valutati con parametri oggettivi, sono estremamente disuguali e discontinui. L’immagine unitaria, dalla quale nasce la valutazione definitiva, non può essere formata dai singoli giudizi isolati (la cui successione sarebbe indifferente), ma da una sensibilità per la vita nel suo sviluppo e nel suo valore che li attraversa e li permea. Oltre ai progressi di cui parleremo dopo – una certa uniformità su tutta la linea (auf der ganzen Linie) è proprio all’interno del dato corso del tempo, un momento il cui valore va al di là della qualità della singola prestazione. Un professionista della pedagogia dice giustamente: “Se un ragazzo ha ricevuto ‘sufficiente’ in tutti gli scritti e nell’orale si è applicato

con profitto, allora gli si dia tranquillamente ‘buono’”. Che ci si possa mantenere a un certo livello sufficiente, anche se non eccezionale, è un valore della vita intellettuale, ma anche etica, che non si può ricavare dall’elemento isolato. È un caso estremamente diverso se la stessa deriva da due estremi contrapposti. La questione del giudizio complessivo diviene fondamentale al momento della promozione. Non si può sempre tralasciare la somma dei singoli risultati quando non rivelano una decisa tendenza negativa o positiva, e l’allievo ha avuto nel periodo in questione un andamento costante. Questo procedimento è tanto più inevitabile quando sei insegnanti devono decidere la promozione non solo disponendo di risultati diversi dello stesso alunno, ma pure avendo anche immagini contrastanti del suo sviluppo. Tuttavia, in ogni caso è un espediente che deve sempre sottostare al principio: il ragazzo deve essere promosso se le sue forze sono all’altezza delle pretese della classe successiva. La promozione non dovrebbe essere un premio per i profitti delle classi precedenti, non deve rivolgersi a qualcosa di passato – quanto è trascorso è solo la ratio cognoscendi per l’adeguatezza della promozione, non la sua ratio essendi, che consiste solo nel fatto che l’alunno debba trovarsi al posto giusto. È chiaro che nella pratica questo non crea normalmente una grande differenza che, in alcuni casi, può nascere; quando, per esempio, un alunno è inconcludente e pigro, perché a causa delle sue doti si annoia in classe, e si può intuire che gli si dovrebbero assegnare compiti più difficili. Questo principio allude già al fatto che per il giudizio complessivo riguardante la promozione occorre attenersi all’ultimo livello raggiunto, non alla qualità dei risultati precedenti. Non si promuove l’alunno “che era”, ma quello “che è” – e naturalmente può avvenire che si riconosca meglio l’essere presente grazie a tutto il suo passato piuttosto che da un momento forse momentaneo e casuale. Se si pensa che un risultato insufficiente sia stato realmente superato, i voti scarsi non devono essere “rimediati” con quelli attuali positivi, ma semplicemente annullati. In questo caso, il punto più alto raggiunto, essendo anche l’ultimo, è il decisivo.

6. LE PUNIZIONI (Von der Strafen) Principio generale: bisogna combattere il negativo sul piano dei valori non direttamente, ma sottolineando e costruendo i valori positivi. Questo ha diverse opportunità. Innanzitutto, la gestione della punizione. La punizione pedagogica ha due tendenze, forse comuni. Se una singola azione, dal punto di vista del suo contenuto, è ingiusta ed esige un provvedimento, la punizione deve rendere chiaro all’alunno che una simile cosa non deve succedere. Un’azione è ingiusta, e il fatto che non debba avvenire non è il risultato (Folge) del suo essere scorretta, ma entrambe formano ora la stessa cosa. In un certo modo ancora indipendente dalla morale in quanto tale (Edipo), da essa o più profondamente di essa il ragazzo deve ricevere il sentimento che alcune cose non devono semplicemente avvenire, che sono tabù. L’accento non cade qui, come per l’azione morale, sulla volontà, che si rivolge all’agire o all’ammissione dell’azione. L’azione stessa, cioè l’evento a lei oggettivamente identico, è illecita. Questo tipo di divieto, la cui trasgressione prevede una pena più opportuna che nel caso di una violazione di altre norme, toccherà per i più giovani contenuti la cui proibizione in seguito può essere fondata anche razionalmente e in altri contesti. Anche l’ultimo grado di sviluppo umano prevede divieti normativi (forse più che comandi) che o non si possono giustificare razionalmente o che, in caso contrario, non traggono da questo ragionamento (dieser Begründung) la dignità e l’assolutezza del loro essere vietati. Al carattere di certe azioni sconvenienti, che non possono-assolutamente-accadere, corrisponde la reazione della pena acuta rivolta esattamente solo a questa azione. Il soggetto attivo è qui posto in secondo piano, mentre in prima linea si trova lo svolgimento dell’azione. Il successo della pena può realizzarsi realmente nello stadio superiore, nella coscienza: “non puoi farlo di nuovo”. Bisogna evidenziare che si tratta di qualcosa che non può accadere e che non viene vietata solo dall’insegnante. Se si pensa all’effetto educativo e formativo su tutta la persona, alla penetrazione di questo effetto nel funzionale, nella vita (Leben) vera dello scolaro, allora la punizione rende perplessi per la sua acutezza e unicità.

Abbiamo spesso richiamato, per giustificare il principio della punizione, il fatto che il ragazzo, quando si sente colpevole, richieda da solo di essere castigato, sollevandosi così dal senso di colpa attraverso una punizione ritenuta giusta. Non posso negare che sia qui formulato un motivo non disprezzabile, benché in un altro senso rispetto a quello abituale. Se non ricordo male, il momento della giustizia (das Gerechtigkeitsmoment) nella punizione non è affatto così vivo e forte nel bambino. (Esso, inoltre, si ricollega per la coscienza pratica nel bambino meno alla relazione generale colpa-castigo, e piuttosto alla misura in cui l’uno corrisponde all’altro, e che è del tutto empirica, oscillante e casuale). Il ragazzo chiede la punizione non per amore della giustizia – piuttosto, se la riconosce come lecita, la accetta senza un’opposizione interiore – bensì perché il senso di colpa ha un effetto opprimente e paralizzante, dal quale spesso ci libera l’esperienza estrema e acuta della punizione. E questo è un momento, benché eudemonistico, tutt’altro che biasimabile; la condizione del sentimento dell’esserci, libero, sereno, vitalmente fluttuante è dal punto di vista pedagogico, come in genere, auspicabile. È solo preoccupante che il ragazzo in questo modo si rassegni al proprio torto: colpa e pena si sono bilanciati a un livello superiore, tutto è ora in ordine, ma non è data nessuna garanzia che la pena penetri in profondità e continui ad agire nella totalità dell’intimo. È quanto avviene con la confessione e il rimorso: l’oppressione morale viene rimossa, la scena di vita ha trovato una conclusione armoniosa, meno e più si sono per così dire equilibrati, e dopo questa perequazione la vita può andare avanti col suo risultato-zero come se in genere non fosse accaduto nulla. La punizione ha infatti, un carattere intenso e momentaneo e fa apparire tale anche il torto contro cui si rivolge. Se esso è più superficiale, per così dire casuale, come molti peccati infantili, non necessita di una vera pena; spesso si agirà bene non accentuando e conferendogli importanza dapprima con la punizione o anche solo con un rimprovero. Quando però il torto scaturisce da uno strato dell’essere negativo o ancora bisognoso di essere formato, il problema della punizione ci pone davanti a più alternative. Ci sono alcuni comportamenti alquanto sgradevoli e persino cattivi di fanciulli e giovani, che scaturiscono da una regione profonda della natura e che, tuttavia, hanno il carattere di malattie infantili; crudeltà, avidità, spirito di contraddizione, pigrizia. Sono periodi che lo sviluppo di questa natura percorre e vengono attraversati e superati per la stessa legge dello sviluppo infantile. Può essere vero che il

carattere è innato all’uomo e non lo si può influenzare né cambiare. L’errore più grande è considerare questo carattere come qualcosa di qualitativamente stabile, sostanzialmente permanente, invece di qualcosa di vivo, in evoluzione, che può svilupparsi attraverso i contrasti più straordinari sul piano dei contenuti senza perciò smentire i suoi caratteri innati e immutabili. La legge del carattere non è una legge dell’essere (il che non ha un senso autentico e potrebbe valere solo per l’astrazione che avviene a posteriori secondo concetti di valore: buono, cattivo, ottimo, mediocre, ecc.), ma una legge del divenire. Definisce un percorso naturale, le cui tappe contro i concetti di valore sono casuali, sicché una cattiva epoca attuale non dimostra nel benché minimo modo che la prossima sarà altrettanto e non forse del tutto valida. (Ciò accade nel mondo dell’esteriorità: le elegie romane di Goethe sulla prima bruttezza dell’amata). È un grande compito del pedagogo scoprire quanto fenomeni come l’ostinatezza, la pigrizia, la stupida testardaggine siano fasi dello sviluppo che si superano da sole secondo una pura legge immanente e che si trattano nel modo migliore con circospezione e indulgenza (e dove richiedono rimproveri più forti, scotimenti, richiami energici di altre tendenze psichiche, che è meglio tralasciare nel primo caso, perché in quei momenti, ai quali sono solo temporaneamente indirizzati, non hanno successo). Il ragazzo è estremamente suggestionabile. Per lo più col modo della domanda si può già suggerirgli la risposta. Ma prima che questo condizionamento raggiunga una misura normale e costante si verifica di solito nel suo opposto: l’ostinazione, l’introversione, lo spirito di contraddizione del fanciullo negli anni dello sviluppo spinto sino all’ostilità nei confronti dei genitori e degli insegnanti. È difficile evitare questo totalmente, perché vi concorre il puro intimo processo del pendolo verso l’estremo opposto. È molto difficile riuscire ad avere con le punizioni un effettivo miglioramento intervenendo sulla ragione ultima dell’essere. Un’unica punizione acuta non raggiunge l’effetto, mentre una di lunga durata in parte ottunde, in parte amareggia. L’atteggiamento migliore da parte dell’insegnante risulta ancora essere il suo divenire generalmente più serio e riservato ma non per questo deve diventare positivamente ostile e incutere timore. Normalmente è molto doloroso per lo scolaro sentire, anche se non viene espressamente detto, che si è giocato l’atteggiamento tranquillo e disponibile dell’insegnante, quando il trattamento e il rapporto si limitano a

ciò che è rigorosamente oggettivo, mentre prima avevano carattere personale. Il pedagogo deve dunque essere sin dall’inizio amichevole e benevolo, anche per riuscire a gestire questi strumenti correttivi. Con la lode abbiamo una situazione del tutto analoga: il riconoscimento, l’incoraggiamento, la benevolenza dovrebbero manifestarsi più nel mondo visibile che nelle parole: nel tono del discorso, nell’espressione del viso, nel gesto. (L’insegnante deve ascoltare cosa lo studente propone, più con interesse amichevole che con l’atteggiamento costante del critico e del giudice). Questa forma non definibile in termini logici di cordialità ha il vantaggio di poter essere duratura (mentre non possiamo continuamente lodare gli scolari e rassicurarli del nostro amore), di avere molteplici livelli e, inoltre, di non permettere allo scolaro, se la relazione cambia, di rifarsi a precedenti parole (Worte) con le quali l’insegnante si è impegnato. In generale si otterrà di più rafforzando e cercando le tendenze positive o perlomeno innocue dello scolaro, il quale combatte nell’immediato contro i suoi aspetti negativi. Di fronte a certe manifestazioni deplorevoli si agirà meglio ignorandole, perché spesso, in tal modo, vien meno l’interesse; quando per esempio domina la tendenza a irritare l’insegnante, se sembra non accorgersene o la ignora oppure ironizza leggermente come se fosse una quantité négligeable (una quantità trascurabile), la tendenza muore. Tutto ciò è più difficile quando ci si trova di fronte a classi numerose nelle quali bisogna esigere una maggiore disciplina esteriore che nelle piccole classi o durante le lezioni private, in cui si possono spesso allentare un po’ le redini perché è facile tenderle di nuovo. Se di fronte a classi numerose si è lasciata andare la disciplina anche per un breve istante, non la si riottiene facilmente. La necessità primaria di un ordine esteriore richiede anche mezzi esteriori. È necessario sempre raggiungere questo stato esteriore il più rapidamente possibile, anche con castighi, per poter poi agire in modo più profondo, più individuale e più positivo. Nel modo e nella misura la punizione non deve mai distruggere la fiducia in se stesso dello scolaro. Essa [la pena] può dirgli questo o quello, forse essenziale e di ampio respiro, che non va bene con lui (bei ihm nicht Ordnung ist); ma non deve portarlo a credere di essere totalmente corrotto, perché così si intaccherebbero anche i germi minacciati o devastati, dai quali potrebbe sbocciare un nuovo sviluppo rinnovato (neue reformierte Entwicklung). Non si deve distruggere la fiducia di avere in sé ancora del buono che possa

annullare il negativo. Deprimere anche una sola volta rozzamente il bambino, non solo è ingiusto, ma potrebbe avere un effetto dannoso su tutto il suo futuro. Anche nel caso di un rimprovero giustificato bisogna badare che l’effetto non si estenda al di là della sfera che deve toccare, causando così un sentimento diffuso di inferiorità. Eventualmente bisogna agire con chiarezza in vista di questa limitazione, della pena. “La cura della vita interiore e volitiva dei bambini è estremamente importante per tutti i loro risultati intellettuali (intellektuellen). Ogni rimprovero sbagliato, ogni incoraggiamento trascurato, ogni sfiducia ingiustificata, ciascun tipo di trattamento ironico e irridente, qualsivoglia incomprensione della loro individualità e del loro tipo di predisposizione, ogni svalutazione rispetto ad altri, può, anche per una singola parola pronunciata dal docente, causare un blocco o una depressione da cui scaturisce il danno più duraturo (anche intellettuale) interiore”. Perciò, il tipo migliore di pena (e anche il modo migliore di renderla superflua) è quello che risveglia nel bambino l’intuito (Einsicht) di avere agito in modo sbagliato. Portare il ragazzo a questa consapevolezza significa, infatti, che ci si appella a qualcosa di giusto e sano che è in lui. Volendolo convincere del suo errore e, dunque, della legittimità della punizione, gli si dimostra di avere fiducia in lui e si risveglia la fiducia in sé. Dire bruscamente in faccia al bambino: “tu menti!” ha un effetto distruttivo che suscita comprensibilmente ostinazione e testardaggine come ultimo istinto di autoconservazione. Piuttosto si indaghi e si parli in modo che lo scolaro capisca che l’insegnante sa che egli ha mentito. Questo atteggiamento è per lo più sufficiente senza dire una parola deleteria; anzi, se è possibile, è opportuno anche non costringere l’allievo a confessare poiché questo porta ugualmente a una depressione complessiva del sentimento di sé. (A differenza dell’Inghilterra e dell’America, nelle nostre scuole si mente molto). Allo stesso modo è opportuno risvegliare questa coscienza, non solo perché rivela una maggiore garanzia per il futuro (perché la coscienza è sempre qualcosa di più generale, che trascende il particolare caso), ma anche perché questo appello al giudizio dello scolaro eleva la sua fiducia in sé e la fiducia è quanto di giusto e corretto risiede in lui. Questo procedimento in molti casi è pure l’unico appropriato perché effettivamente il fanciullo considera spesso in modo invertito le proprie azioni. Infine, si potrebbe procedere così: “Il pedagogo dà momentaneamente ragione al fanciullo; si

mette con lui sul suo stesso piano, conquista il suo cuore ammettendo: ‘Non sei stato così cattivo’ e, poi, lo porta a giudicare l’azione in modo giusto (gerechte)”. Se non si costruisce per la punizione questa base più profonda e positiva, se la si fa agire di per sé solo in quanto punizione, il suo successo è dubbio e comunque molto limitato, non solo dal punto di vista morale, ma anche – dove è il caso – da quello intellettuale: “Ogni punizione è in grado solo di condurre l’alunno a recuperare quanto aveva trascurato o a non scordare i suoi obblighi, ma non è capace di risvegliare in lui l’amore per lo studio. – Questo però è sempre una condizione di debolezza e lo scolaro dimentica quanto ha imparato più facilmente per paura di quanto ha appreso per amore e per piacere” (Regener). Inoltre, la consapevolezza del proprio torto e della giustizia della punizione ha lo straordinario vantaggio che lo scolaro vede così tutto l’evento sottoposto a una legge (Gesetz). Insegnargli la giustizia della punizione non significa altro che portarlo a conoscenza della legge normativa, la legge che sta al di sopra di lui come al di sopra dell’insegnante. Questo è estremamente importante in quanto la punizione nata solo dalla volontà (Absicht) del docente di causare un dolore all’allievo ha qualcosa di rivoltante, anche quando viene recepita come giusta. Tale effetto viene mitigato se nasce la coscienza di una legge posta al di sopra anche dell’insegnante, il quale si limita a osservarla. Si elimina, così, l’impressione distruttiva che la punizione sia una sorta di vendetta del docente che conduce al peggioramento della persona, che porta facilmente a quella scossa dell’amore di sé che dovrebbe essere comunque evitata. “Per gli scolari non è facile capire che il docente fa qualcosa per loro, ma credono di fare un lavoro faticoso e lo devono fare sotto un obbligo inesorabile che li minaccia continuamente con punizioni sensibili. Se il lavoro scolastico che agli occhi degli scolari è senz’altro un lavoro per il maestro (perché in effetti lo esige e pretende) fosse svolto volentieri per lui, sarebbe allora un mezzo efficace per rafforzare le loro tendenze altruistichesociali (altruistisch-sozialer). Sfortunatamente ha in genere l’effetto opposto. Un lavoro svolto controvoglia per un sovrano prepotente che minaccia continuamente con punizioni e di fatto punisce, talvolta per errori che lo scolaro crede di non poter evitare (e che uno senza talento può solo a volte evitare), suscita facilmente odio, amarezza, e timore degli uomini invece della carità e del bene.

Sicuramente l’obbligo al lavoro scolastico ha un insostituibile valore per l’educazione del carattere. Il fanciullo deve imparare a svolgere compiti pesanti. “Bisognerebbe solo che capisse che si tratta di un dovere, non di una costrizione. È, tuttavia, da deplorare assai che nascano col senso del dovere, con la diligenza, con il dominio di sé al tempo stesso odio e amarezza”. Non si può negare che questo avvenga spesso nella scuola; gli insegnanti sono le persone più odiate dai fanciulli. “Si eviti di assicurare frequentemente ai giovani che si pensa bene di loro e li si ama; gli scolari specialmente in un’età media recepiscono poco simili sentimentalismi” (Matthias). Ecco ricomparire una delle tipiche antinomie pedagogiche. La punizione deve colpire tutta la personalità, non solo la leggerezza con cui viene svolto un tema, la brutalità con cui si è fatto del male a un compagno, l’indocilità con la quale ci si oppone all’ordine scolastico. A ciò corrisponde, in genere, il carattere indifferenziato del castigo. La colpa appare specifica e periferica, la punizione è qualcosa di generale, viene avvertita dalla persona generale e totale, cosa che è estremamente evidente quando si viene colpiti allo stesso modo per le trasgressioni più diverse. Questo non è insensato perché non la leggerezza o la brutalità peccano, ma l’uomo, ed è giusto che il peccato nella periferia trovi la propria punizione al centro. Ma riconoscendo questo bisogna essere tanto più prudenti e dosarla in modo che le forze di questo centro in primo luogo non vengano soffocate dalla punizione ma ravvivate e che, in secondo luogo, vadano nella direzione specifica in cui è necessaria la correzione. Quest’ultima intenzione giustifica il principio: uno deve essere punito con quanto ha peccato – benché derivi originariamente dalla crudeltà della legge del taglione. Non sempre è possibile stabilire in termini esternimeccanici il rapporto tra il dolore della punizione sovraspecifico e l’obiettivo di un miglioramento, il fatto che molto spesso non venga raggiunto dalla pedagogia è la causa dell’amarezza e ostilità che così spesso ne nasce nello scolaro; una volta che la punizione è sterile, è peggio che sterile. (Più l’educazione influenza le singole aree e le esigenze della scuola, oggettive ed etiche, avvertite dallo scolaro con tutta la sua vita interiore nella loro autentica connessione, più la punizione per un torto sarà assegnata in una materia specifica, e ritroverà la sua strada in questa prospettiva. La specializzazione, che distingue la singola attività dalla vita centrale e totale delle persone, impedisce anche all’effetto della pena di imboccare il suo cammino psicologicamente giusto).

In alcuni casi sarà opportuno (per indirizzarlo) ricorrere ad aiuti esterni, si potrà stabilire una diretta relazione tra contenuto della punizione e contenuto della colpa e conferire, così, una certa naturalezza al castigo. Per esempio, lo scolaro che disturba il suo compagno viene isolato e il romanzo che legge di nascosto durante la lezione viene sequestrato. Bisogna pensarci in particolare per i lavori punitivi che vengono spesso follemente assegnati solo perché l’insegnante crede di dovere punire e non ha a disposizione nessun altro mezzo così comodo. È problematico al massimo assegnare compiti punitivi (Strafarbeiten) per arroganza, menzogne, cosciente immoralità, come usarli per quelle trasgressioni dove si tratta di scuotere, evocare le energie, spingere verso la parte giusta (richtigen) uscendo dal cammino sbagliato. Se il lavoro punitivo non ha nessun rapporto con il contenuto della trasgressione, se è privo di una localizzazione, nasce subito la preoccupazione che esso tolga allo scolaro il gusto per il lavoro in quanto tale. È difatti una contraddizione che nella scuola che deve presentare all’alunno il lavoro come una soddisfazione, un momento naturale, una forza che favorisce il sentimento della vita, si ricorra al lavoro come a una punizione, come qualcosa che sta nel lato passivo della vita, e produce perciò, ostilità nei suoi confronti e un senso di disgusto per la scuola stessa. Il lavoro punitivo dovrebbe, quindi, essere utilizzato dove non ha solo una funzione di pura punizione, ma rimane psicologicamente localizzato nella sua causa particolare e, dunque, solo come punizione per compiti trascurati. Il lavoro non deve essere recepito generalmente come un castigo, altrimenti anche il lavoro normale lo diventa. Questa conseguenza prima di tutto non avrà luogo se la punizione (Strafe) è imposta solo per un dovere, e perciò viene riferita psicologicamente a questo lavoro particolare, di tale momento. Per la verità i compiti punitivi dovrebbero essere utilizzati quando si è sicuri di avere di fronte a sé un incorreggibile pigrone. Possiamo ragionare così: a costui il lavoro non arrecherà mai una gioia, né sarà mai una necessità interiore, non dobbiamo perciò avere il grande timore di togliergli il piacere per il lavoro, imponendolo come castigo. Almeno i lavori punitivi insegnano al fannullone che la sua pigrizia gli procura sempre più lavoro. È opportuno sottolineare ciò come una legge di vita generale. In ogni caso bisogna guardarsi dal considerare la pigrizia come una mancanza morale, spesso infatti, ha cause patologiche e più volte dipende

anche dal fatto che il contenuto e la forma della lezione sono in dissonanza insuperabile con l’individualità dello scolaro. L’animale e il bambino che giocano spontaneamente dimostrano che c’è un ritmo organico di attività e quiete, recepito chiaramente come una vita uniforme e priva di contrasti interiori. Essa viene dispersa dalla differenziazione, se si pretende l’attività dall’esterno e la si collega a oggetti esteriori che ne determinano le condizioni. Così si pone di fronte al mondo dell’attività e in contrapposizione a esso nella quiete una vita attiva di fronte alla passiva che contiene sonno, ozio, piacere e che è una sorta di totalità in contrasto con l’altra in linea di principio. Alle volte conduciamo questa vita, altre volte l’altra, ma scordiamo spesso che entrambe costituiscono un’unica vita. Indubbiamente quel ritmo naturale è plasmabile, può essere formato in misura e tipi che non vengono sentiti meno uniformi e sono naturali come gli originari. In particolare, questo deve avvenire quando la vita dell’Io che segue il proprio impulso si sviluppa in una vita cosmica, cioè quando avviene un’immigrazione dell’Io nel mondo, che non è esteriore, ma che significa la pura vita dell’Io, che comprende in sé il mondo e i suoi fatti e le sue richieste, come ne è a sua volta afferrata. Così il ritmo raggiunto a questo livello fra attività e quiete viene sentito di nuovo come una vita. Il compito molto difficile della pedagogia è quello di prepararla poiché le ore scolastiche regolari sono una deformazione del ritmo. Disattenzione e pigrizia dello scolaro sono scene di lotta delle due ritmicità. I lavori punitivi non vanno bene nemmeno per le ore curricolari – la scuola non deve rientrare nella categoria di luogo di punizione e lo scolaro non deve pensare: “questo è il posto in cui devo stare per una trasgressione”. Non si può suscitare questa associazione. Tutt’al più stabilire una corrispondenza con il marinare la scuola. Abbiamo così preso coscienza dei procedimenti generali della lezione educativa in modo tale che chiunque abbia acquisito questi princìpi ha conquistato un’autonomia del comportamento in tutti i casi in cui ci si deve appellare a essi. Ora tracciamo la linea della riflessione attraverso la ragione della lezione, ma in un’altra dimensione. Collego le prossime considerazioni a singoli oggetti individuali particolarmente importanti della lezione: alle lingue, alla storia, al tema.

7. LA LINGUA E LE LINGUE (Von der Sprache und den Sprachen) È importantissimo che l’insegnante curi la lingua tedesca non solo nelle ore di tedesco, nelle sfumature e nella ricchezza delle flessioni (in den Nuancen und dem Reichtum der Flexionen) che cominciano a morire nella nostra fretta americanizzante, nell’applicazione alla semplice prassi – che punta sempre al massimo della brevità – e nel lessico dei giornali. Le proposte di lingue universali sono la continuazione dello sviluppo iniziato perché in esse le parole definiscono solo il nucleo logico più indispensabile dei concetti, e uno dei loro sostenitori definisce, perciò, l’arte come spreco di energie. Con ciò si annulla la bellezza propria della lingua che diventa “mezzo” nel senso più basso del termine, cosa che da un punto di vista pedagogico dovrebbe essere assolutamente evitata. Quello che Kant afferma dell’uomo, che non può mai essere trattato solo come un mezzo, ma deve al tempo stesso essere considerato come scopo, vale per tutti gli oggetti dell’attività pedagogica. Ciascuno deve essere saputo o conosciuto come tale e, al tempo stesso, ciascuno è un mediatore in uno strato più profondo o in quello profondissimo della formazione di tutto l’uomo – è al tempo stesso mezzo e fine. La lingua è un mezzo su infiniti piani teleologici della vita, dal più superficiale al più fondamentale, ma al tempo stesso è sempre scopo, la sua bellezza sensibile, la sua grazia e meraviglia, la sua chiarezza e la sua mistica, la sua forza e profondità sono valori che bastano a se stessi perché si tratta di un’arte, e l’arte è “ovunque alla meta”; essa, in quanto arte, non serve. Tra le sue conseguenze per l’educazione non si può tralasciare l’importanza che la sua cura ha per il contenuto di quanto viene detto. Un certo atteggiamento, una forma estetica, il valore proprio della lingua hanno anche conseguenze per il contenuto: non si abusa così facilmente di una tale lingua per cose che sarebbe meglio restassero non dette, essa è un freno per l’affetto primitivo o che sgorga senza alcuna riflessione. (Questa efficacia si estende fino alla sfera acustica. La voce – Organ – dell’uomo colto ha qualcosa di equilibrato, di levigato, di musicale, diversamente dalla voce roca e grezza dal punto di vista sonoro di molti proletari, anche senza comprendere una sola parola, si riconosce dal suono se si sta ascoltando un

uomo colto o uno privo di cultura, e io sono convinto che questo sia l’effetto del genere di lessico e delle costruzioni sintattiche che usa. Per una ragione sconosciuta e probabilmente molto complicata il contenuto di quanto viene detto influenza il proprio suono acustico a seconda della sua spiritualità, della sua forma, della sua sufficienza logica e sentimentale). Se la lingua è qualcosa che viene formata per la sua bellezza e perfezione, si pone un argine alla meschina tendenza a risparmiare tempo, si favorisce il modo espressivo personale e denso di sfumature che rappresenta sempre una certa difesa contro “il comune” (das Gemeine). Più possibilità di inflessioni ci sono grazie a quelle semplici parole che non ci sono quasi mai nella lingua proletaria (benché, tuttavia, ciononostante, pertanto, certamente, eppure, ecc.) tanto meglio la lingua può seguire il continuo reale scorrere del pensiero, altrimenti le parole (come accade nella lingua dei bambini e delle persone prive di cultura) ci stanno davanti mutilate, disorganiche, il che si riflette poi sul ritmo del pensiero. È preoccupante la rinuncia al congiuntivo, al futuro, ai gradi del passato, dei participi. Invece che “Desideravo che venisse!”, si sente: “Desideravo, viene!”. Se insomma il parlare è, in conclusione, anche un’arte, la sua formazione d’altra parte è minacciata nelle nostre scuole nel modo più violento da quello che è stato giustamente chiamato “lo stile scritto”, che è ancora peggio di qualcosa soltanto scritto. Tramite l’influenza del latino, l’intellettualismo astratto della nostra Bildung, per mezzo della violenza di una lingua letteraria divenuta schematica, il parlare e lo scrivere imparati a scuola si sono ormai quasi del tutto allontanati dalla dinamica e dalla veracità interiore, dalla pienezza e dall’individualità con le quali la vita reale dovrebbe e potrebbe esprimersi nella lingua del singolo. Stereotipi e ripetizioni esteriori, formule coniate e strutture innaturali, dominano in modo spaventoso la lingua orale e ancor più quella scritta delle nostre scuole superiori, e ora è dovere urgente di ogni singolo insegnante contrastare questa corruzione storica per cui la lingua non è più naturale e non è un’arte, ma è semplicemente innaturale. Se vi è qualcosa in cui l’arte può divenire natura, questa è la lingua. Un tempo il compito di latino era il più orribile impasto di frasi. Quello di tedesco anche oggi non è ancora migliorato, è l’alta scuola della falsità e del retoricume. È ridicolo che si faccia un affare di stato quando un allievo dice una bugia per sfuggire a una punizione, finché si continua fondamentalmente a coltivare la profonda

disonestà nella lingua (e nel pensiero) dei temi dei nostri scolari di seconda e di terza liceo. Eppure l’educazione e la Bildung sono qui perché l’uomo non parli seguendo il suo istinto, ma perché la forma oggettiva e la legge dominino il suo linguaggio. Questo è vero solo a metà. L’uomo dovrebbe esprimersi oralmente e per iscritto, come gli risulta naturale, e la scuola deve preoccuparsi che egli cresca facendo proprie le forme e le leggi oggettive; bisogna però, che le acquisisca realmente e non che prenda in prestito da qualche parte formule che rimangono per lui sempre esteriori, entrano nel suo quaderno dei temi ignorando la vita e vengono così assimilate al massimo dall’esterno per abitudine. Una volta terminata la scuola, o le butta subito tra le cose vecchie, oppure, il che è peggio, le conserva. Ma qui non si deve parlare ancora del tema in quanto tale, ma solo della lingua all’interno e all’esterno di esso. Ci si riferisca alla lingua utilizzata dallo scolaro, ai suoi modi di dire, alla costruzione sintattica, alla pronuncia, e la si sviluppi nella lingua più universale, più alta che può essere scritta. Questa non deve aggredire il fanciullo come un tiranno straniero. Le espressioni di casa, della pausa, della strada possono essere spiegate in modo narrativo, aneddotico, oggettivo e si può illustrare il loro collegamento con l’alto tedesco puro, non devono esserci due mondi separati, perché il nuovo linguaggio deve diventare carne e sangue dello scolaro e lo diviene solo se egli sente il legame con la sua carne e il suo sangue vivi. Soprattutto non si devono mai biasimare le parole o il linguaggio dialettali e casalinghi, non si deve indurre il fanciullo a pensare che tutta la sua vita intellettuale prima e fuori della scuola sia “falsa”. Deve capire che anche questo, al suo posto, è giusto, che non si tratta di un peccato, ma di qualcosa che si sviluppa in modo del tutto naturale nell’alto tedesco e in ciò che è universalmente valido1. Non si può essere troppo pedanti neppure con l’ortografia. Naturalmente lo scrivere è un mezzo di comprensione universale, il singolo deve scrivere in modo che venga compreso da tutti e il lettore non dovrebbe essere irritato o disturbato con irregolarità o cambiamenti dalla comprensione lineare del senso. Se l’ortografia viene presentata al fanciullo come fine a se stessa e come un santuario che deve essere conservato come il libro religioso della Legge, la cui profanazione è un peccato mortale, la giusta scala di valori gli viene del tutto sottratta e crescono alienazione e pedanteria. Il fanciullo ovviamente deve apprenderla e farla diventare sua natura e non può voler agire arbitrariamente con essa.

Tuttavia, non bisogna porla per amore del ciclo nel centro e nel sancta sanctorum [santo dei santi, ovvero nel momento più sacro] della lezione, è opportuno tenerla ferma, ma se una volta avviene la violazione, bisogna considerarla un peccato perdonabile. Il bambino proverà irritazione di fronte a tutti i concetti di valore, se gli si presenterà l’ortografia così importante come il contenuto di ciò che è scritto. Questo punto, sia simbolicamente sia pedagogicamente, è importante per tutta la formazione della concezione del mondo, se si dedica anche un po’ più tempo all’ortografia perché non si infliggono le pene dell’inferno per una s o doppia s (ss) sbagliata, ma si spiega la scrittura nel maggior numero possibile dei casi da un punto di vista storico, cioè a partire dalla vita – tutto ciò non è una disgrazia così grave come quella confusione di valori e alienazione. A cosa serve all’uomo raggiungere tutte le correttezze prescritte dal Ministero dell’Istruzione e avere danni nella propria anima? Occorre essere indulgenti di fronte a errori che dipendono dal parlare (bene e vantaggio, vecchiaia e genitori, che non è nemmeno ufficialmente ambiguo). La regola non dovrebbe essere applicata come una legge punitiva, ma come naturale. Ovviamente questa è la prima condizione affinché anche il tedesco scolastico sia vivo, lo si può sentire quando si può esprimere la propria vita reale e non un rigido schema autosufficiente. La costruzione dei periodi artificiale e corretta, in cui lo scolaro delle ultime classi deve esprimersi oralmente e per iscritto, è adatta all’architettura astratta dell’intelletto, ma non è un contenitore che deve raccogliere in sé la vita dell’animo, le caratteristiche, l’inquietudine psichica dell’uomo. Il modo in cui la lingua viene trattata nei licei è spesso solo una preparazione per la stesura di libri dotti. Ma è spaventoso notare come i giovani si esprimano da un lato in modo goffo, dall’altro in modo ampolloso, quando devono scrivere una semplice lettera – e quando essa è valida, si muove in forme del tutto diverse da quelle apprese a scuola. Non sarà mai raccomandata abbastanza l’energia sensibile, la chiarezza, la vivacità immediata dell’espressione (nel raccontare, nel tradurre, nel tema), sia in abstracto (nell’astratto) sia nell’applicazione e negli esempi. In genere, la lingua meridionale tedesca, e soprattutto quella svizzera, è superiore al tedesco del nord. Perché la lingua sia qualcosa di vivo, rifletta ed esprima moti tipici della psiche, è necessario soprattutto frenare il più possibile il procedimento analitico della scuola nei suoi confronti e mantenere l’unità delle singole forme linguistiche.

Giustamente il fanciullo sente la parola come un’unità; innanzitutto, egli non comprende che la parola “consiste” di lettere che quasi tutte hanno un nome del tutto diverso dal loro suono nella parola, non capisce in primo luogo che ba-m-bi-no (ka-i-en-de) non significa bambino (kaiende), dovrebbe essere chiamato “bambino”, e soprattutto non comprende lo scopo di un tale smembramento in tutt’altro che non ha nessun rapporto con la parola viva “bimbo”. E allo stesso modo, ogni frase gli appare come un’unità, il cui senso e la cui vita gli svaniscono innanzi agli occhi, non appena viene smembrata in parole separate con cui deve essere poi “ricomposta”. Non neghiamo la necessità dell’analisi. Il docente non deve mai scordare quanto sia difficile per il fanciullo quello che per lui è evidente. “Deve nominare ogni parola, che legge o pronuncia, con uno di questi nomi (sostantivo, verbo, avverbio ecc.), e con nessun altro. Non ci sono nemmeno confini fluidi. E neanche questo lo impara con la propria lingua, ma grazie a esempi stampati. E il massimo che gli possa capitare è coniugare in tedesco il verbo ‘amare’ latino”. Qui, il docente deve assolutamente cercare di non rimuovere dalla coscienza il tutto organico delle frasi e delle parole pronunciate, di non far nascere un dualismo fra la lingua vissuta direttamente e la grammatica scolastica, che rende l’una sterile per l’altra. Innanzitutto, deve mirare alla coscienza reale di tutta la frase che non è presente di per sé. Ciò prepara già all’analisi degli elementi. Bisogna evitare ogni studio puramente esteriore, per esempio dei quattro casi, senza che siano illustrati il senso particolare e la funzione dei singoli, o che ognuno sia mostrato nella sua vitalità. Il mezzo migliore di insegnare al fanciullo il parlare corretto, che è al tempo stesso vivo, è la buona lezione del docente. “Un buon racconto racchiude in sé importanti caratteristiche della migliore pedagogia: ‘Parla, io guardo!’, vale in particolare per l’insegnante; chi sa raccontare bene, non ha solo in pugno la società, ma anche i bambini”. “Herbart valuta altamente anche la nostra arte quando dice: ‘La prima condizione temporanea per il successo di una scuola è che vi siano insegnanti che posseggano in alto grado l’arte del raccontare’. Perciò, disporre dell’arte narrativa diviene uno dei primi e fondamentali compiti per il lavoro del docente; l’attività artistica più completa è nella formazione linguistica della materia”. Meno libri, più parole vive! (Weniger Buch, mehr lebendiges Wort!) La

vita e il discorso hanno uno stile diverso dal libro e noi non dobbiamo educare scrittori, ma persone vive, che parlino. E anche se volessimo formare scrittori, dovremmo sottolineare la particolarità dei due stili che debbono essere a loro modo vivi. Sono indispensabili esercizi che portano a parlare liberamente: relazioni, ricapitolazioni, racconti. Dove la tematica e l’andamento sono prestabiliti esattamente come nel riferire su una lettura o su un evento storico, è opportuno favorire la massima libertà possibile dell’espressione che sola mostra quanto si sia padroni della materia e che agevola questa padronanza. In altro caso, se il contenuto è stato scelto liberamente e il suo sviluppo è del tutto individuale (narrazione di esperienze, riflessioni personali, ecc.) ci si deve attenere a una forma più severa, affinché lo scolaro apprenda a oggettivare quanto è personale come qualcosa di valido in modo sovrapersonale. In questo contesto è compresa anche l’importanza della lingua come fenomeno uditivo. Gli scolari devono imparare in primo luogo ad ascoltare e quanto viene loro detto non deve seguire la monotonia delle righe stampate, ma la voce è chiamata in aiuto, affinché sia loro chiaro e immediato il senso del parlato. Il docente dovrebbe curare la propria voce, renderla duttile e flessibile. La monotonia non solo provoca la perdita di questo importante espediente per la comprensione, ma addormenta lo scolaro, mentre un alzarsi e abbassarsi della voce a seconda delle sfumature del contenuto e del senso, lo stimola. Allo stesso modo bisogna che siano il più possibile gli scolari a dire quanto è letto e scritto senza lasciare spazio alla monotonia. Non deve essere mai permessa una lettura meccanica. Una sensata elevazione e un abbassamento della voce, le pause, l’accentuazione devono dimostrare che lo scolaro ha compreso il senso. Inoltre, questo è pure il modo per giungere a una comprensione più profonda del senso. Il pathos declamatorio ancora spesso in uso, il “recitare a memoria” (Deklabulzen), è esattamente così schematico ed estraneo al senso proprio della poesia, quanto il monotono recitare meccanico. Le inflessioni della voce involontarie e inconsce con cui lo scolaro segue il significato del contenuto reagiscono sulla sua coscienza di tale contenuto, egli così si auto-istruisce. Nella materia meramente logica e oggettiva penetrano così vita, interiorità, empatia per il particolare moto dell’animo che corrisponde a ogni frase. E questo non è importante solo per le frasi compiute che devono venire comprese. Bisogna obbligare i ragazzi a

leggere a voce alta, da soli o in classe, le frasi che scrivono da soli o nei temi. Ciò che “suona bene” è anche un buono stile. Una continua educazione a collegare pensiero e linguaggio li deve portare ad ascoltare interiormente i loro scritti. Tutto ciò risparmia anche allo stile scritto durezze, accumuli, incoerenze. Tuttavia avviene anche l’effetto contrario, il continuo scambio reciproco tra il perfezionamento della comprensione interiore e l’espressione, quello scambio che solo è vera vita. L’interesse per l’oggetto ha un effetto eminentemente formativo sul piano linguistico. È un impulso naturale del bambino parlare delle cose che lo stimolano, placare la propria vivacità con parole, non appena vengono meno i motivi inibitori positivi. Nella stessa prospettiva vanno interpretati il pianto e il riso facile del bambino. Il discorso scaturisce spontaneo dall’intimo dello scolaro quando parla di ciò che lo interessa e la vita forma e riempie la parola. L’interesse per l’argomento, quando può tradursi il più immediatamente possibile in parole, è la miglior salvaguardia contro la vuota frase. È opportuno non correggere i fanciulli quando parlano delle cose per interesse. Una singola cosa giusta o un singolo errore oggettivo o linguistico non contano di fronte all’enorme importanza del fatto che lo scolaro traduca in parole un’esperienza e spezzi in qualsiasi punto il vuoto, l’esteriore, il tradizionale, intimamente inaccessibile della lingua, che è il grande rischio della scuola. Uno dei compiti più importanti, recenti, della pedagogia è l’“educazione all’asserzione”. Le ricerche condotte sino ad ora in merito riguardavano sostanzialmente la precisione nel descrivere una visione ottica passata. Gli esperimenti (si mostrava ai ragazzi per breve tempo un’immagine e gliela si faceva in seguito descrivere) rivelavano in generale che il bambino vede quello che secondo la disposizione della sua coscienza vuole vedere. L’immagine vista dipende, dunque, dalle categorie usate per la percezione. Più concetti abituali l’uomo ha in sé, tanto più ne riesce a percepire sul piano puramente sensibile, quante più cose lo interessano, quante più ne cerca, tanto più ne trova. La storia dell’arte figurativa lo mostra sotto ogni aspetto: contrasto di colori o rigidità. Ci sono indubbiamente fenomeni a sufficienza e aspetti degli stessi che sono percepiti non in virtù di queste premesse, ma grazie alla pura immediatezza dell’impressione sensoriale; questo avverrà in un primo grado, in genere solo dove l’impressione è relativamente forte e dove devia nettamente da quelle che vanno bene per le categorie abituali.

Questo è, comunque, del tutto relativo: quanto più fine è la sensibilità, tanto meno forte deve essere l’impressione. L’educazione alla percezione il più possibile completa (non solo a quella sensibile) potrà aver luogo su due linee completamente differenti: aumentando le categorie percettive, arricchendo le tendenze indagatrici nello spirito e indipendentemente da queste, raffinando l’immediata suscettibilità. Questo dovrebbe essere uno sforzo generale in tutte le ore, in riferimento agli oggetti psichici come a quelli esteriori. La moltiplicazione delle categorie avviene da sola nel corso della Bildung, della formazione, e non è attuabile all’occasione (ad hoc). Invece, la sensibilità per la quale non sono ancora disponibili le categorie a trovare riscontro del meno sensibile sul meno trascurato, può aumentare la sicurezza se il docente fa notare le cose sfuggite e, spingendo lo scolaro continuamente a cercare, non lascia passare la sensazione nell’impressione generale. Bisogna curare perciò, in particolare proprio la percezione del nuovo, forse non ancora capito, non ancora classificabile, affinché le categorie sussistenti non divengano rigide, dispotiche ed esclusive, e non solo lascino il posto per le nuove, ma divengano esse stesse a partire dal proprio centro, plasmabili, estendibili e flessibili. Se da un lato le categorie della ricezione sono il mezzo fondamentale per poter recepire e registrare, rappresentano dall’altro un pericolo e un blocco per la ricezione stessa, portano a tralasciare tutto ciò che non si addice loro, ci fanno sentire soddisfatti solo quando sono riempite e saziate. E soprattutto, seducono non per adattarsi a ciò che è giusto in loro, finché non lo diventa. Con la percezione dei singoli elementi dei fenomeni però, non abbiamo ancora un’autentica immediata fedeltà delle percezioni, l’accuratezza (Genauigkeit), che consiste nel rendere conto reciprocamente a sé e agli altri delle impressioni e degli oggetti. Per questo e per l’importanza praticosociale della percezione, è necessaria ancora un’educazione all’espressione. È dato troppo poco peso alla formulazione di quanto l’allievo ha appreso, e se questo invece accade è solo in direzione della sua realizzazione immanente, linguistico-concettuale, non a sufficienza dal punto di vista di ciò che lo caratterizza e risulta vero (sachlichen) sul piano oggettivo. Questo appartiene a uno dei peccati del duello col latino. Nello sforzo di esprimersi in modo appropriato e fedele si produce reciprocamente invece un aumento dell’acutezza e della fedeltà dell’osservazione stessa. Anche la lezione nelle lingue straniere potrà nascere dall’atteggiamento

che qui viene indicato. Dobbiamo aggiungere un paio di osservazioni. Nella lezione di lingua non si deve dimenticare che la singola parola è un’astrazione come la singola lettera, anche se in misura differente. L’effettiva unità linguistica è la frase, l’asserzione di un essere, di un divenire, di un evento. È necessario quindi, cercare sia al primo approccio che nella trattazione e nell’interrogazione di inserire ogni vocabolo il più rapidamente possibile nella struttura di una frase. Una volta il procedimento per l’insegnamento delle lingue (classiche) era deduttivo: si presentavano vocaboli e regole e si affrontava così la comprensione degli autori. Ora il metodo è induttivo: si ricavano le regole sintattiche e le parole dalle frasi assegnate, e così, sebbene l’insegnante agisca e l’alunno si limiti a seguirlo, quest’ultimo diventa molto più attivo. Vi è pure un dogmatismo più limitato, una posizione più giusta dell’astrazione di fronte al vivente. (In contrasto apparente con questo principio le parole vengono oggi studiate non più con il metodo alfabetico, ma con quello fonetico). Allo stesso modo bisogna considerare la frase come un’unità di pensiero che viene sezionata in parole solo in un secondo tempo. Il principio dovrebbe essere (das Prinzip soll sein): partire sempre dall’unità organica. Da essa si può procedere verso il concetto più astratto che non è vivo nello stesso senso, o sinteticamente verso l’alto, o analiticamente verso il basso. Così come la lezione deve, di fronte ai suoi soggetti, cercare sempre più di considerare lo scolaro come un’unità e una totalità, una vita in tutte le sue prestazioni che non possono venirne separate come aspetti particolari, così anche lo scolaro deve conservare il più possibile l’unità dei suoi oggetti; quando li deve scindere (per esempio se deve differenziare il singolo profitto) non dovrebbe perdere la coscienza di quell’unità e di quel radicamento o che ha un legame che non può mai essere spezzato con il singolo membro. Una tale frantumazione è proprio il rischio delle lingue straniere; bisogna considerare le perplessità legate allo studio delle lingue come mezzo educativo: le molte eccezioni. Il fanciullo deve attenersi innanzitutto, a qualcosa di certo, generale e senza eccezioni. Chi gli insegnerebbe subito insieme al dovere della verità i casi eccezionali in cui l’uomo può mentire? Insieme alla pietà, i casi di conflitto che ci costringono a esserle infedeli? Tale dualismo non nasce di fronte alla lingua madre, perché sin dall’inizio essa cresce come qualcosa di organico, come uno sviluppo unitario nell’individuo al di là della scomposizione in regole ed eccezioni.

Quest’ultima è una categoria aggiuntasi in un momento successivo, in cui noi smembriamo la lingua già maturata e nella cui forma inseriamo una lingua apportataci dall’esterno che si pretende come qualcosa di compiuto (e non come la lingua madre che per ognuno è qualcosa in divenire), un principio e un espediente meccanico al posto dell’organicità della lingua madre. Si deve quindi, spiegare che l’eccezione è tale solo esteriormente, ma nella realtà è conforme alla legge come lo è ciò che è regolare. Bisogna chiarire a questo punto la differenza fra legge e regola. Inoltre, non si può ottenere la “naturalezza” della lingua madre dall’atteggiamento nei confronti delle lingue straniere, e se anche fosse, queste “due nature” sarebbero un dubbio guadagno. Ma i motivi sono spesso ancora di natura più specifica. Per esempio, il professore di francese deve dare per scontato che può apparire agli scolari artificioso, lezioso. Ciò è implicito quando si parlano lingue straniere, in particolare il francese, per il fatto che i popoli romanici rappresentano per noi un essere che ci è estraneo. Il principio che la vita autonoma si sviluppi negli oggetti da plasmare è particolarmente difficile da mantenere nelle lingue straniere; più ancora che nei confronti della natura, dove la visione e la fedeltà alla sua regolarità possiedono sempre un profondo legame con il nostro nucleo vitale, non entrano mai in conflitto con il loro sviluppo, e, quando sembra che ciò avvenga, abbiamo a che fare con il compito più interessante e significativo. (La vita storica ci è più vicina e più estranea dell’esserci naturale). Tanto più importante è quindi estendere questo compito con la massima cura allo studio delle lingue straniere. Per esempio, nelle traduzioni non si deve pretendere che lo scolaro traduca letteralmente parola per parola come aveva tradotto in precedenza l’insegnante. A che serve questa riproduzione meccanica, visto che la cosa più importante è che lo scolaro stesso produca, che egli stesso impari a tradurre? Se ripete parola per parola, non parla a partire dal testo, ma dal tedesco che ha studiato a memoria; non aveva allora bisogno del testo. Se lo scolaro traduce letteralmente parola per parola seguendo la precedente traduzione, è dimostrato che questa non era quella giusta, o che non era stata maneggiata nel modo giusto. Lo scolaro delle ultime classi deve persino imparare che la traduzione giusta è o una meta posta all’infinito o uno scopo in linea di principio illusorio, deve credere alla ricchezza della lingua tedesca, che non trova il suo limite in una traduzione. Per le traduzioni vi è una unica (eine eindeutige) chiara norma: non possono contenere errori. All’interno di

ciò che è giusto e corretto vi sono innumerevoli possibilità. In tal caso, non è più vero che esiste solo una verità, l’ambiguità del concetto della traduzione “alla lettera”. Anche nella traduzione è opportuno ricordare che la frase è un’unità e che non è costituita da singole parole, che sussistono di per sé. Perciò, sarà opportuno fare attenzione più del solito alla posizione (Wortstellung) della parola dell’originale. Quest’ultima conferisce un ritmo e distribuisce i valori, organizza argomenti principali e secondari come l’autore ha voluto secondo una forma che noi dobbiamo cercare di riprodurre il più possibile servendoci di questo mezzo formale (Matthias). Dalla stessa opposizione contro il meccanicismo, nasce l’osservazione: non c’è alcun motivo per cui non si dovrebbero consigliare ai giovani buone traduzioni di scrittori greci. Con un certo sforzo si può scoprire senz’altro se le hanno utilizzate solo per facilitarsi il compito o per meglio approfondire lo studio dell’autore. Un loro utilizzo intelligente non impedisce, infatti, di acquisire la capacità di comprendere anche immediatamente gli scritti. In conclusione, conta soltanto che gli autori presi in considerazione siano valutati in modo corretto e in profondità, poco importa il cammino che lo ha permesso. La facilitazione ci porta però ad affrontare un compito più grande – che non si limita a equilibrare gli eventuali svantaggi della traduzione già fatta – sempre che questa venga continuamente controllata dall’insegnante. Lo scolaro non ricorrerà facilmente a un’altra traduzione, quando il maestro gliene consiglia una libera buona. Anche in questo caso si applica il principio che l’insegnante prende il pericolo che non può escludere nel suo servizio. 1 Eccellente per la tecnica: Hildebrand, Sull’insegnamento di lingua tedesca.

8. IL TEMA (LA PROVA DEL TEDESCO) (Vom deutschen Aufsatz) Quando parliamo del tema (prova della lingua tedesca) non dobbiamo mai dimenticare che è l’unica vera occasione nella quale lo scolaro può mostrare creatività (Produktivität); questo può essere anche possibile in matematica, ma si verificherà solo in modo specifico. Ecco perché è possibile e necessaria la massima libertà – perché in primo luogo dovrebbe esserci – per poter essere formata. È opportuno evitare temi con tracce rigorosamente determinate. Bisogna che i temi di tipo generale riflessivo consentano sempre diverse prese di posizione individuale. È bene lasciare allo scolaro la possibilità di uno svolgimento libero e originale per il quale deve assumersi la completa responsabilità e che deve difendere con le proprie forze. Da un punto di vista etico questo è molto educativo, e la guida a ciò deve spingersi solo fino al punto in cui – in relazione alle età – può intervenire la libertà dello scolaro. Egli imparerà che le affermazioni non possono essere fatte a vanvera, ma che bisogna garantire per esse; ma d’altra parte, quanto può essere sostenuto, può anche essere confermato. È fondamentale che lo scolaro esprima i propri pensieri e sensazioni. Compito della scuola è formarlo in modo tale che essi siano accettabili e razionali, e guidare la fonte, l’unità personale soggettiva nella giusta direzione, prima che si oggettivi nelle singole prestazioni. In un primo tempo, il docente deve dunque prendere lo scolaro per mano. Prima di potersi cercare un sentiero, occorre imparare a camminare. Ma, quando si è imparato, bisogna cercarsi anche la strada. D’altro canto, la scuola deve dare una norma e formare il pensiero dichiaratamente proprio, se non corrisponde alla vera personalità o se è oggettivamente fallace. Invece è sempre ancora uno dei nostri temi l’adozione di contenuti preformati ed estranei allo scolaro e l’utilizzo di sciocche frasi retoriche o di pure trasposizioni meccaniche – si tratta della conseguenza del principio per cui l’importante è la prestazione compiuta e non l’uomo da educare. Mentre, l’insegnante che dà i temi dovrebbe soprattutto pensare che dal fanciullo dovremmo ottenere quella

morte della retorica che la scuola è impotente a realizzare. Nessun adulto è così oggettivo come il bambino. Certo questo dipende dalla formazione ancora incompiuta dell’Io. Nel duro conflitto tra l’Io e il mondo, la retorica appare come una scappatoia dalla battaglia da combattere. Nelle età successive la dedizione di tutto l’Io a un compito o interesse è sempre un’eccezione. È necessario quindi mantenere soprattutto la chiarezza delle espressioni che è il mezzo migliore contro la retorica, perché non pone la parola nella sua autosufficienza e autonomia, ma la inserisce in tutto il processo vitale. La nostra lingua è piena di immagini che sono usate al posto della realtà sottintesa, come se ne fossero l’immediata designazione. Per ovvi motivi lo scolaro è incline a servirsi di esse, ma bisogna spezzare proprio la loro magia, perché lo spirito possa comunicare con le cose reali. Come è necessario che lo scolaro senta interiormente le parole scritte, solo in quanto parole, affinché ne possa riconoscere il valore stilistico, così deve anche interiormente vederne il loro significato, perché non venga sostituito da una vuota metafora staccata dalla realtà e assurta a una falsa vita propria. Se fossimo più abituati a questo sarebbe diventato impossibile fra l’altro l’uso assurdo [di espressioni quali] (a cavalluccio, uva passa) (Huckepack, Rosinen), così il falso pathos delle devastazioni del tempo, del mare dell’eternità (del coraggio da leone) (Löwenmut) sono diventati ridicoli molto prima. Tali frasi già timbrate appaiono come corpi estranei nelle manifestazioni di una propria vita intellettuale. Chiaramente è un errore credere che basti abbandonare lo scolaro a se stesso perché le sue espressioni sgorghino realmente dal suo autentico sé; perché questo possa accadere, l’aria è troppo piena di tali fantasmi, fin dall’inizio tante frasi sono già penetrate nella vita autonoma delle persone per poter sperare uno sviluppo proprio armonico verso se stessi senza intromissioni. I cosiddetti “poeti della natura” sono coloro che vivono solo delle frasi più diffuse. Pannwitz critica le singole correzioni del docente nel tema che distruggono quel resto di unità che il tema, per quanto tormentato, ha comunque ancora, in quanto opera di un uomo. Tuttavia, il prodotto di un uomo non è sempre un’opera unitaria, giacché ha proprio per il rapporto del fanciullo con l’esigenza intellettuale oggettiva molte rotture e contraddizioni non solo da un punto di vista obbiettivo, ma pure soggettivo. Il docente, se è

la persona giusta, unifica proprio per mezzo delle sue correzioni, aiuta lo scolaro a oggettivare in modo unitario il suo soggetto. La dissoluzione di ciò che è proprio nella regione della frase che vive di se stessa è favorita all’esterno dalla letteratura quotidiana. La lettura di romanzi o di giornali in modo del tutto indipendente dal contenuto specifico ha un valore assolutamente (schlechthin) negativo per i giovani. Il romanzo, di cui i giovani non percepiscono la forma artistica – comunque sia per lo più dubbia –, provoca un’eccitazione vuota e improduttiva, che viene o prolungata in modo ingannevole, reale, oppure ne resta perplessa sulla soglia senza stabilire un rapporto sicuro. Il giornale, però, è la scuola della superficialità, perché in un tempo brevissimo la coscienza è riempita da idee molto eterogenee che sono inoltre, il più possibile sensazionali e rendono difficile, proprio a causa di questi stimoli, una ponderazione oggettiva e una critica. Provoca inoltre, una completa confusione e falsificazione delle valutazioni perché la cosa più indifferente e la più importante stanno l’una accanto all’altra nella stessa forma esterna senza un accenno a differenze d’importanza (Sciopero in Australia – Scoperto un nuovo pianeta – Scoperto un giacimento di rame in Svezia – Omicidio per rapina a Berlino – Riforma elettorale in Prussia – Venduto un Rembrandt in America). È pura follia che i giornali abbiano ogni giorno lo stesso volume, che si basino cioè sull’a priori che la redazione giunge quotidianamente a conoscenza della stessa somma di cose che son degne di essere comunicate. Ne segue che lo spazio è riempito dalle finte cose importanti. Il giornale non è innocuo per le persone mature ed è una vera rovina per i ragazzi. Prediche morali contro i romanzi e i giornali sono inutili. L’ironia è ancora la cosa migliore. [Occorre] spiegare al giovane che i giornali non solo non sono all’altezza, ma deve imparare a essere orgoglioso davanti a essi. Ma la lotta contro la retorica non deve diventare una lotta contro il pathos, bisogna scindere il suo nocciolo vero dall’espressione infelice e retorica. Non bisogna sopprimere il pathos [sentimento, passione], anche se è talvolta esagerato. Quando si nota del vero pathos, è meglio tollerare una frase vuota e spiegare allo scolaro che essa comunque non esprime i suoi sentimenti. Per il giovane idealista questo è naturale, solo l’età matura gli insegna a dominare in forme serene e semplici il calore e lo slancio del suo sentire e del suo volere. Dopo queste considerazioni sull’atteggiamento fondamentale che deve

guidare il tema dobbiamo dire una parola speciale sul suo contenuto. A poco a poco si nota come siano rigidi e aridi i temi ispirati alla letteratura classica. Lo scolaro deve essere educato a dominare intellettualmente la vita che egli vive. Utilità e prevalente difficoltà dei confronti storici (Augusto con Alessandro, la seconda guerra punica con quella del Peloponneso, Lutero con Hus, la Rivoluzione inglese con la francese, l’Unificazione italiana con quella tedesca). Alienazione e dominio della realtà individuale1. Più utile è il confronto tra opere d’arte, poesie ecc., perché appaiono più comprensibili e semplici, e la distinzione fra il paragonabile e il non-confrontabile è più facile e più sicura. Temi tratti dall’esperienza dello scolaro. Libertà della scelta. Sono molto più difficili per il docente. Guida all’osservazione della realtà. L’orrore per le frasi vuote in questo caso nasce più forte nello scolaro; mentre, i temi correnti educano proprio alla retorica, in particolare, quelli sempre frequenti che non sono dominabili. Ancora nella seconda metà del XIX secolo venivano assegnati temi come il seguente: “Qual è il contenuto della storia, e attraverso quali azioni del genere umano si è sino ad ora compiuto ogni progresso culturale e umano?”; “Sul supremo principio etico”. “Il rinnovamento della storia attraverso il Cristianesimo”. Temi filosofici non dovrebbero essere affatto assegnati, inducono solo a frasi vuote e a confusioni, risvegliano nello scolaro illusioni sulle sue capacità. La stessa correzione di un tema simile è un compito impossibile per l’insegnante. La filosofia può essere ricettiva (rezeptiv) inserita nella scuola, visto che nemmeno nei primi semestri universitari di filosofia vengono svolti lavori produttivi come accade già, anche se in piccola misura, nelle altre scienze. Non c’è quasi nessun ragazzo di 17 anni che non provi un minimo interesse per la filosofia, sebbene non possa stabilire nessun rapporto con la filosofia come disciplina. È inevitabile che il processo di crescita intellettuale di questi anni, con il suo tendere funzionale struggente verso ciò che è ampio, immenso, incerto, si rifletta nell’interesse per rappresentazioni sostanziali del senso e del modo del tutto del mondo e della vita. Lo scolaro, per il quale ciò non avviene, assolutamente, non dovrebbe iscriversi al liceo. Benché ritenga quindi, inopportuna la presentazione dei sistemi filosofici, l’insegnante deve cercare sempre l’occasione di perseguire in profondità e nell’universale le singole conoscenze e i singoli problemi, deve percorrere il cammino filosofico, senza tuttavia mirare a una meta dogmatica, deve mostrare le direzioni nelle quali, lontano dalla superficie, può essere gettato lo scandaglio

filosofico. Non è per questo necessario pronunciare la parola filosofia. La propedeutica filosofica è in questo caso la meno adatta fra tutte le materie. Nel pronunciare frasi generali – cosa che già per questo di tanto in tanto è necessario fare – è utile e stimolante spingere gli alunni a formulare delle istanze opposte e dei dubbi, il che è possibile di fronte a ogni frase universale. Infine aggiungo qui, benché non vi sia una necessità diretta e interna – oltre a quella secondo la quale ogni tema deve essere come una piccola opera d’arte –, alcune osservazioni sulla educazione estetica nella scuola. Una delle principali carenze del nostro corpo insegnante risiede nella sfera estetica. Nelle famiglie che mandano i loro figli al ginnasio, sono oggi vivi interessi estetici molteplici, una certa attenzione per l’arte, per il gusto nell’arredamento, nel vestiario, nella condotta di vita. Non si deve valutare eccessivamente questo aspetto perché se lo scolaro scopre il proprio insegnante carente in questi lati, pensa di essergli superiore e di essere “più colto”. Se nota che all’insegnante manca il comportamento pratico del mondo e raffinato dei suoi genitori, non si può pretendere da lui che scordi questi ultimi di fronte ad altri valori, forse più elevati, dell’insegnante. In questa età i valori non hanno ancora un ordine sicuro. Sono indifferenti davanti al puramente esteriore (come un abito), (ma le sparano grosse e dicono giudizi non estetici su un’opera d’arte). È effettivamente una difficoltà profonda della nostra realtà scolastica che gli insegnanti provengano talvolta da strati culturali inferiori a quelli dei loro scolari, e che non abbiano avuto una educazione buona come la loro. A parte questa è comunque necessaria la formazione estetica del docente, per poter guidare positivamente gli alunni e per poter insegnare loro una visione estetica delle cose. Chi sa guardare esteticamente gode di infiniti piaceri, che portano la vita a un livello superiore e non viene esposto alle sue grossolanità (per esempio licenziosità sessuali), alle quali soggiace chi non ha una cultura estetica. Mi parrebbe giusto analizzare occasionalmente le qualità estetiche della figura umana. In occasione del discorso sulle opere d’arte e nella lezione di scienze naturali. È infame che lo scolaro impari il numero degli stami, ma non sappia nulla del proprio corpo. (Ipocrisia tradizionale della morale scolastica: è del tutto indifferente che si sia belli e brutti – è una vera bestemmia di Dio e della natura. Solo se questi valori vengono riconosciuti, invece che rimossi, può essere dato loro il giusto posto e la giusta misura nel contesto complessivo

delle nostre valutazioni, altrimenti si vendicano con pretese trasgressive anarchiche). Bisognerebbe eliminare la vecchia frase moralistica secondo la quale sarebbe del tutto indifferente come un uomo appare. Bellezza e bruttezza sono due fattori vitali assolutamente importanti, negarlo non è che un’ipocrisia. E proprio considerando questo come una effettività innegabile, si può spiegare ai ragazzi che la bellezza non è una maschera graziosa, che la bellezza più vera è riposta in un’armonia molto più profonda della figura complessiva e del suo rapporto con quanto essa esprime; inoltre, si può spiegare loro che l’uomo potrebbe fare qualcosa per questa bellezza, e che lo dovrebbe fare tanto più per il proprio interesse quanto meno la natura ha fatto per lui. Oltre a ciò, la bellezza è un compito, non solo un dono. Se a priori si predica l’indifferenza dell’aspetto esteriore – cui lo scolaro grande comunque non crede, perché la ritiene invece una delle convenzionali bugie scolastiche – ci si lascia sfuggire questo impulso didattico. Inoltre, con questo insegnamento, se avesse successo, si distoglierebbe i ragazzi dall’osservazione del mondo esteriore anche indipendentemente dalla loro bellezza o bruttezza, osservazione alla quale essi dovrebbero venire condotti. Il punto di vista estetico deve essere preponderante nella spiegazione di opere poetiche (anche se nelle terze classi avrà un altro significato che nelle prime): “solo attraverso la porta aurorale del ‘Bello’ giungi nel mondo della conoscenza”. Quando si spiegano le opere poetiche bisogna essere brevi sugli aspetti che non toccano l’opera in sé: i dati storici sulla materia, l’osservanza o la non osservanza delle regole artistiche, anche la posizione e l’effetto dell’opera nella storia della letteratura dovrebbero essere affrontati una volta conclusa la spiegazione del testo. Perché l’opera d’arte deve innanzitutto agire in quanto tale e spiegarsi o essere spiegata il più possibile in modo immanente; lo scolaro ne deve trarre piacere (genieβen), altrimenti non capisce il motivo per il quale ci si occupa di essa. La formazione estetica dell’allievo non necessita di una particolare lezione di storia ed estetica delle arti figurative e no. In quasi tutte le materie si presenta l’occasione di formare il senso estetico. Si dovrebbe formare in ogni materia un nucleo intorno al quale, senza sfiorare le sue caratteristiche particolari, si raggruppano in genere tutti i valori pedagogici: quelli morali, quelli religiosi, gli interessi culturali generali, l’aspetto linguistico e quello estetico. Ogni materia dovrebbe essere considerata – ogni volta con colori diversi – come un microcosmo di tutta la pedagogia. Come in ogni ora

dovrebbero essere coltivate le qualità etiche dell’oggettività, l’attenzione, la sincerità, così come le altre qualità di valore. Infine, il docente dovrebbe essere in grado di guidare all’osservazione delle opere d’arte e allo scopo, sono buone occasioni l’ora di storia e quella di religione, anche le visite ai musei, che in inverno potrebbero sostituire le gite all’aperto. L’educazione estetica visiva è un punto malamente trascurato della nostra educazione. È inaudito che i giovani a scuola imparino della grecità solo quello che si può leggere, ma non l’infinitamente più immediato e più convincente di cosa si può vedere. 1 Lo scolaro rimane inoltre troppo legato a quanto gli viene trasmesso, la sua attività personale ha di fronte all’immensità degli eventi e alla loro minima conoscenza un carattere insufficiente e lacunoso.

8. IL TEMA (LA PROVA DEL TEDESCO) (Vom deutschen Aufsatz) Quando parliamo del tema (prova della lingua tedesca) non dobbiamo mai dimenticare che è l’unica vera occasione nella quale lo scolaro può mostrare creatività (Produktivität); questo può essere anche possibile in matematica, ma si verificherà solo in modo specifico. Ecco perché è possibile e necessaria la massima libertà – perché in primo luogo dovrebbe esserci – per poter essere formata. È opportuno evitare temi con tracce rigorosamente determinate. Bisogna che i temi di tipo generale riflessivo consentano sempre diverse prese di posizione individuale. È bene lasciare allo scolaro la possibilità di uno svolgimento libero e originale per il quale deve assumersi la completa responsabilità e che deve difendere con le proprie forze. Da un punto di vista etico questo è molto educativo, e la guida a ciò deve spingersi solo fino al punto in cui – in relazione alle età – può intervenire la libertà dello scolaro. Egli imparerà che le affermazioni non possono essere fatte a vanvera, ma che bisogna garantire per esse; ma d’altra parte, quanto può essere sostenuto, può anche essere confermato. È fondamentale che lo scolaro esprima i propri pensieri e sensazioni. Compito della scuola è formarlo in modo tale che essi siano accettabili e razionali, e guidare la fonte, l’unità personale soggettiva nella giusta direzione, prima che si oggettivi nelle singole prestazioni. In un primo tempo, il docente deve dunque prendere lo scolaro per mano. Prima di potersi cercare un sentiero, occorre imparare a camminare. Ma, quando si è imparato, bisogna cercarsi anche la strada. D’altro canto, la scuola deve dare una norma e formare il pensiero dichiaratamente proprio, se non corrisponde alla vera personalità o se è oggettivamente fallace. Invece è sempre ancora uno dei nostri temi l’adozione di contenuti preformati ed estranei allo scolaro e l’utilizzo di sciocche frasi retoriche o di pure trasposizioni meccaniche – si tratta della conseguenza del principio per cui l’importante è la prestazione compiuta e non l’uomo da educare. Mentre, l’insegnante che dà i temi dovrebbe soprattutto pensare che dal fanciullo dovremmo ottenere quella

morte della retorica che la scuola è impotente a realizzare. Nessun adulto è così oggettivo come il bambino. Certo questo dipende dalla formazione ancora incompiuta dell’Io. Nel duro conflitto tra l’Io e il mondo, la retorica appare come una scappatoia dalla battaglia da combattere. Nelle età successive la dedizione di tutto l’Io a un compito o interesse è sempre un’eccezione. È necessario quindi mantenere soprattutto la chiarezza delle espressioni che è il mezzo migliore contro la retorica, perché non pone la parola nella sua autosufficienza e autonomia, ma la inserisce in tutto il processo vitale. La nostra lingua è piena di immagini che sono usate al posto della realtà sottintesa, come se ne fossero l’immediata designazione. Per ovvi motivi lo scolaro è incline a servirsi di esse, ma bisogna spezzare proprio la loro magia, perché lo spirito possa comunicare con le cose reali. Come è necessario che lo scolaro senta interiormente le parole scritte, solo in quanto parole, affinché ne possa riconoscere il valore stilistico, così deve anche interiormente vederne il loro significato, perché non venga sostituito da una vuota metafora staccata dalla realtà e assurta a una falsa vita propria. Se fossimo più abituati a questo sarebbe diventato impossibile fra l’altro l’uso assurdo [di espressioni quali] (a cavalluccio, uva passa) (Huckepack, Rosinen), così il falso pathos delle devastazioni del tempo, del mare dell’eternità (del coraggio da leone) (Löwenmut) sono diventati ridicoli molto prima. Tali frasi già timbrate appaiono come corpi estranei nelle manifestazioni di una propria vita intellettuale. Chiaramente è un errore credere che basti abbandonare lo scolaro a se stesso perché le sue espressioni sgorghino realmente dal suo autentico sé; perché questo possa accadere, l’aria è troppo piena di tali fantasmi, fin dall’inizio tante frasi sono già penetrate nella vita autonoma delle persone per poter sperare uno sviluppo proprio armonico verso se stessi senza intromissioni. I cosiddetti “poeti della natura” sono coloro che vivono solo delle frasi più diffuse. Pannwitz critica le singole correzioni del docente nel tema che distruggono quel resto di unità che il tema, per quanto tormentato, ha comunque ancora, in quanto opera di un uomo. Tuttavia, il prodotto di un uomo non è sempre un’opera unitaria, giacché ha proprio per il rapporto del fanciullo con l’esigenza intellettuale oggettiva molte rotture e contraddizioni non solo da un punto di vista obbiettivo, ma pure soggettivo. Il docente, se è

la persona giusta, unifica proprio per mezzo delle sue correzioni, aiuta lo scolaro a oggettivare in modo unitario il suo soggetto. La dissoluzione di ciò che è proprio nella regione della frase che vive di se stessa è favorita all’esterno dalla letteratura quotidiana. La lettura di romanzi o di giornali in modo del tutto indipendente dal contenuto specifico ha un valore assolutamente (schlechthin) negativo per i giovani. Il romanzo, di cui i giovani non percepiscono la forma artistica – comunque sia per lo più dubbia –, provoca un’eccitazione vuota e improduttiva, che viene o prolungata in modo ingannevole, reale, oppure ne resta perplessa sulla soglia senza stabilire un rapporto sicuro. Il giornale, però, è la scuola della superficialità, perché in un tempo brevissimo la coscienza è riempita da idee molto eterogenee che sono inoltre, il più possibile sensazionali e rendono difficile, proprio a causa di questi stimoli, una ponderazione oggettiva e una critica. Provoca inoltre, una completa confusione e falsificazione delle valutazioni perché la cosa più indifferente e la più importante stanno l’una accanto all’altra nella stessa forma esterna senza un accenno a differenze d’importanza (Sciopero in Australia – Scoperto un nuovo pianeta – Scoperto un giacimento di rame in Svezia – Omicidio per rapina a Berlino – Riforma elettorale in Prussia – Venduto un Rembrandt in America). È pura follia che i giornali abbiano ogni giorno lo stesso volume, che si basino cioè sull’a priori che la redazione giunge quotidianamente a conoscenza della stessa somma di cose che son degne di essere comunicate. Ne segue che lo spazio è riempito dalle finte cose importanti. Il giornale non è innocuo per le persone mature ed è una vera rovina per i ragazzi. Prediche morali contro i romanzi e i giornali sono inutili. L’ironia è ancora la cosa migliore. [Occorre] spiegare al giovane che i giornali non solo non sono all’altezza, ma deve imparare a essere orgoglioso davanti a essi. Ma la lotta contro la retorica non deve diventare una lotta contro il pathos, bisogna scindere il suo nocciolo vero dall’espressione infelice e retorica. Non bisogna sopprimere il pathos [sentimento, passione], anche se è talvolta esagerato. Quando si nota del vero pathos, è meglio tollerare una frase vuota e spiegare allo scolaro che essa comunque non esprime i suoi sentimenti. Per il giovane idealista questo è naturale, solo l’età matura gli insegna a dominare in forme serene e semplici il calore e lo slancio del suo sentire e del suo volere. Dopo queste considerazioni sull’atteggiamento fondamentale che deve

guidare il tema dobbiamo dire una parola speciale sul suo contenuto. A poco a poco si nota come siano rigidi e aridi i temi ispirati alla letteratura classica. Lo scolaro deve essere educato a dominare intellettualmente la vita che egli vive. Utilità e prevalente difficoltà dei confronti storici (Augusto con Alessandro, la seconda guerra punica con quella del Peloponneso, Lutero con Hus, la Rivoluzione inglese con la francese, l’Unificazione italiana con quella tedesca). Alienazione e dominio della realtà individuale1. Più utile è il confronto tra opere d’arte, poesie ecc., perché appaiono più comprensibili e semplici, e la distinzione fra il paragonabile e il non-confrontabile è più facile e più sicura. Temi tratti dall’esperienza dello scolaro. Libertà della scelta. Sono molto più difficili per il docente. Guida all’osservazione della realtà. L’orrore per le frasi vuote in questo caso nasce più forte nello scolaro; mentre, i temi correnti educano proprio alla retorica, in particolare, quelli sempre frequenti che non sono dominabili. Ancora nella seconda metà del XIX secolo venivano assegnati temi come il seguente: “Qual è il contenuto della storia, e attraverso quali azioni del genere umano si è sino ad ora compiuto ogni progresso culturale e umano?”; “Sul supremo principio etico”. “Il rinnovamento della storia attraverso il Cristianesimo”. Temi filosofici non dovrebbero essere affatto assegnati, inducono solo a frasi vuote e a confusioni, risvegliano nello scolaro illusioni sulle sue capacità. La stessa correzione di un tema simile è un compito impossibile per l’insegnante. La filosofia può essere ricettiva (rezeptiv) inserita nella scuola, visto che nemmeno nei primi semestri universitari di filosofia vengono svolti lavori produttivi come accade già, anche se in piccola misura, nelle altre scienze. Non c’è quasi nessun ragazzo di 17 anni che non provi un minimo interesse per la filosofia, sebbene non possa stabilire nessun rapporto con la filosofia come disciplina. È inevitabile che il processo di crescita intellettuale di questi anni, con il suo tendere funzionale struggente verso ciò che è ampio, immenso, incerto, si rifletta nell’interesse per rappresentazioni sostanziali del senso e del modo del tutto del mondo e della vita. Lo scolaro, per il quale ciò non avviene, assolutamente, non dovrebbe iscriversi al liceo. Benché ritenga quindi, inopportuna la presentazione dei sistemi filosofici, l’insegnante deve cercare sempre l’occasione di perseguire in profondità e nell’universale le singole conoscenze e i singoli problemi, deve percorrere il cammino filosofico, senza tuttavia mirare a una meta dogmatica, deve mostrare le direzioni nelle quali, lontano dalla superficie, può essere gettato lo scandaglio

filosofico. Non è per questo necessario pronunciare la parola filosofia. La propedeutica filosofica è in questo caso la meno adatta fra tutte le materie. Nel pronunciare frasi generali – cosa che già per questo di tanto in tanto è necessario fare – è utile e stimolante spingere gli alunni a formulare delle istanze opposte e dei dubbi, il che è possibile di fronte a ogni frase universale. Infine aggiungo qui, benché non vi sia una necessità diretta e interna – oltre a quella secondo la quale ogni tema deve essere come una piccola opera d’arte –, alcune osservazioni sulla educazione estetica nella scuola. Una delle principali carenze del nostro corpo insegnante risiede nella sfera estetica. Nelle famiglie che mandano i loro figli al ginnasio, sono oggi vivi interessi estetici molteplici, una certa attenzione per l’arte, per il gusto nell’arredamento, nel vestiario, nella condotta di vita. Non si deve valutare eccessivamente questo aspetto perché se lo scolaro scopre il proprio insegnante carente in questi lati, pensa di essergli superiore e di essere “più colto”. Se nota che all’insegnante manca il comportamento pratico del mondo e raffinato dei suoi genitori, non si può pretendere da lui che scordi questi ultimi di fronte ad altri valori, forse più elevati, dell’insegnante. In questa età i valori non hanno ancora un ordine sicuro. Sono indifferenti davanti al puramente esteriore (come un abito), (ma le sparano grosse e dicono giudizi non estetici su un’opera d’arte). È effettivamente una difficoltà profonda della nostra realtà scolastica che gli insegnanti provengano talvolta da strati culturali inferiori a quelli dei loro scolari, e che non abbiano avuto una educazione buona come la loro. A parte questa è comunque necessaria la formazione estetica del docente, per poter guidare positivamente gli alunni e per poter insegnare loro una visione estetica delle cose. Chi sa guardare esteticamente gode di infiniti piaceri, che portano la vita a un livello superiore e non viene esposto alle sue grossolanità (per esempio licenziosità sessuali), alle quali soggiace chi non ha una cultura estetica. Mi parrebbe giusto analizzare occasionalmente le qualità estetiche della figura umana. In occasione del discorso sulle opere d’arte e nella lezione di scienze naturali. È infame che lo scolaro impari il numero degli stami, ma non sappia nulla del proprio corpo. (Ipocrisia tradizionale della morale scolastica: è del tutto indifferente che si sia belli e brutti – è una vera bestemmia di Dio e della natura. Solo se questi valori vengono riconosciuti, invece che rimossi, può essere dato loro il giusto posto e la giusta misura nel contesto complessivo

delle nostre valutazioni, altrimenti si vendicano con pretese trasgressive anarchiche). Bisognerebbe eliminare la vecchia frase moralistica secondo la quale sarebbe del tutto indifferente come un uomo appare. Bellezza e bruttezza sono due fattori vitali assolutamente importanti, negarlo non è che un’ipocrisia. E proprio considerando questo come una effettività innegabile, si può spiegare ai ragazzi che la bellezza non è una maschera graziosa, che la bellezza più vera è riposta in un’armonia molto più profonda della figura complessiva e del suo rapporto con quanto essa esprime; inoltre, si può spiegare loro che l’uomo potrebbe fare qualcosa per questa bellezza, e che lo dovrebbe fare tanto più per il proprio interesse quanto meno la natura ha fatto per lui. Oltre a ciò, la bellezza è un compito, non solo un dono. Se a priori si predica l’indifferenza dell’aspetto esteriore – cui lo scolaro grande comunque non crede, perché la ritiene invece una delle convenzionali bugie scolastiche – ci si lascia sfuggire questo impulso didattico. Inoltre, con questo insegnamento, se avesse successo, si distoglierebbe i ragazzi dall’osservazione del mondo esteriore anche indipendentemente dalla loro bellezza o bruttezza, osservazione alla quale essi dovrebbero venire condotti. Il punto di vista estetico deve essere preponderante nella spiegazione di opere poetiche (anche se nelle terze classi avrà un altro significato che nelle prime): “solo attraverso la porta aurorale del ‘Bello’ giungi nel mondo della conoscenza”. Quando si spiegano le opere poetiche bisogna essere brevi sugli aspetti che non toccano l’opera in sé: i dati storici sulla materia, l’osservanza o la non osservanza delle regole artistiche, anche la posizione e l’effetto dell’opera nella storia della letteratura dovrebbero essere affrontati una volta conclusa la spiegazione del testo. Perché l’opera d’arte deve innanzitutto agire in quanto tale e spiegarsi o essere spiegata il più possibile in modo immanente; lo scolaro ne deve trarre piacere (genieβen), altrimenti non capisce il motivo per il quale ci si occupa di essa. La formazione estetica dell’allievo non necessita di una particolare lezione di storia ed estetica delle arti figurative e no. In quasi tutte le materie si presenta l’occasione di formare il senso estetico. Si dovrebbe formare in ogni materia un nucleo intorno al quale, senza sfiorare le sue caratteristiche particolari, si raggruppano in genere tutti i valori pedagogici: quelli morali, quelli religiosi, gli interessi culturali generali, l’aspetto linguistico e quello estetico. Ogni materia dovrebbe essere considerata – ogni volta con colori diversi – come un microcosmo di tutta la pedagogia. Come in ogni ora

dovrebbero essere coltivate le qualità etiche dell’oggettività, l’attenzione, la sincerità, così come le altre qualità di valore. Infine, il docente dovrebbe essere in grado di guidare all’osservazione delle opere d’arte e allo scopo, sono buone occasioni l’ora di storia e quella di religione, anche le visite ai musei, che in inverno potrebbero sostituire le gite all’aperto. L’educazione estetica visiva è un punto malamente trascurato della nostra educazione. È inaudito che i giovani a scuola imparino della grecità solo quello che si può leggere, ma non l’infinitamente più immediato e più convincente di cosa si può vedere. 1 Lo scolaro rimane inoltre troppo legato a quanto gli viene trasmesso, la sua attività personale ha di fronte all’immensità degli eventi e alla loro minima conoscenza un carattere insufficiente e lacunoso.

9. LEZIONE DI STORIA (Vom Geschichtsunterricht) I requisiti speciali posti dalla forma del materiale storico per l’insegnamento si lasciano evidenziare in modo molto semplice dall’insegnamento stesso. Queste difficoltà, rispetto alle altre discipline, sono principalmente di due tipi. La prima consiste nell’ordinamento cronologico del materiale storico, al quale è legato il procedimento della lezione che priva l’insegnante della libertà, presente ovunque in notevole misura, di ordinarla secondo princìpi pedagogici. Nel caso di tutte le scienze oggettive con il loro materiale atemporale si può in linea di principio procedere partendo da presupposti del tutto diversi con scelte molto differenziate. Esse hanno un ordine logico, sistematico, psicologico ma solo dove questo è realmente rigoroso, come nella matematica, è un ordine di tipo pedagogico, che si compie cioè del tutto di per sé secondo la gravità dell’ostacolo. Quando i punti di partenza oggettivi presentano grandi difficoltà scientifiche, come gli assiomi geometrici o la questione degli atomi in chimica, li si possono in un primo tempo semplicemente tacere senza alcun pericolo per la comprensione di quanto segue. Inoltre, il coordinamento dei contenuti oggettivi nelle scienze di ciò che è atemporale permette che si estrapolino punti o argomenti del tutto isolati per i quali, senza che vi sia un nesso successivo, si può ottenere comprensione e interesse. Comunque, si rivelano già persino ai livelli più alti di queste scienze delle difficoltà, se per esempio tra gli elementi della lezione, adatti alla capacità di comprensione e all’avanzamento dello scolaro se ne pongono altri che non lo sono e che, tuttavia, sono indispensabili per la loro comprensione e il loro collegamento. Fin dalle prime lezioni è un impedimento per l’insegnamento della storia. In questo caso i fenomeni non stanno così semplicemente l’uno accanto all’altro, come avviene in geografia, non è quindi, possibile sceglierli e ordinarli a piacere. Qui, invece, è tracciato un cammino nel quale l’abbandono di alcuni passaggi è possibile solo in misura molto limitata e che perde il proprio carattere essenziale di sviluppo continuo se si escludono tanti elementi che per la scuola non sono ammissibili.

La descrizione di singole personalità o di eventi aneddotici di un’epoca qualsiasi per il loro contenuto interessante o utile non è ancora storia. Essa non può venire privata di una certa continuità, tutto il suo senso è collegato al fatto che solo attraverso il secondo evento si può giungere al terzo; (come io ho studiato la storia romana: una serie di guerre discontinue che si sarebbero potute disporre a piacere in modo diverso – una caricatura!), le condizioni degli eventi più importanti senza le quali questi restano incompresi sono a volte difficilissime e complicate, a volte troppo problematiche in termini etici, per essere presentate agli studenti ai quali si può e dovrebbe fare un tout comprendre c’est tout pardonner (capire tutto è perdonare tutto). Tra la storia scientifico-oggettiva e quella utilizzabile da un punto di vista pedagogico sussiste un legame puramente casuale. Il maestro dovrebbe collegare i punti più validi o indispensabili della storia con serie che hanno innumerevoli volte con l’evento reale un rapporto del tutto diverso dalla presentazione degli stessi punti principali e avrà bisogno per le parti differenti della storia delle concentrazioni, delle trasposizioni e delle distanze più varie. È indubbio che questo non possa essere risparmiato nemmeno alla storia scientifica, in parte per la semplice impossibilità di creare sequenze causali prive di lacune, in parte perché essa stessa sceglie e raggruppa secondo punti di vista significativi. L’aspetto pedagogico, però, non rientra nella loro formazione della materia, l’insegnante deve avvalersi di una nuova formazione che lo porta certamente spesso in un conflitto tra la coscienza scientifica e quella pedagogica. La situazione risulta alleggerita – anche se tecnicamente difficile – perché sussiste la possibilità di trattare lo stesso argomento (daβ derselbe Stoff) più volte seguendo l’ordine delle classi, avvicinandosi così sempre più all’immagine scientifica. Si tiene conto dell’evoluzione della gioventù non solo con l’ordine ascendente degli argomenti, ma, in particolare, perché la stessa materia viene trattata a diversi livelli [nelle diverse] età e quindi, con reazioni differenti. Non vi è nulla che dia all’uomo la coscienza e la misura del proprio sviluppo come la constatazione di fronte a un fattore certamente costante di un mutamento del proprio atteggiamento. Perché siamo sempre troppo inclini, quando ci è comunque possibile, a trasferire i mutamenti soggettivi sull’oggetto. (Se già la conoscenza scientifica non è una copia della realtà, ma una scelta, un modello, una disposizione in base a categorie significative e intenzionali, tanto meno lo è l’immagine delle cose determinata da fini

pedagogici! [Ma proprio in questo si vede come tali modificazioni della forma della realtà (in molti gradi), non sono falsificazioni]. Certamente, bisogna comunicare al bambino solo verità; ma che cosa sia la verità viene definito soltanto dal rapporto dell’oggetto con la totalità vitale di chi lo rappresenta. (Voti ottimisti). Nella pedagogia questa diventa una questione enormemente complicata e interessante). Per poter però presentare ai giovani la storia come qualcosa di interessante, degno di considerazione, è necessario concentrare i valori in singoli passaggi, che devono essere accentuati come realizzazioni di valori atemporali; il quadro complessivo diviene più discontinuo, luci e ombre vengono distribuiti in modo non uniforme, l’osservazione deve partire da punti di concentrazione dell’interesse, che al di là del loro significato storico che mira agli effetti temporali, affascinano per il carattere essenzialmente atemporale: forti personalità, azioni morali o immorali, opere letterarie e artistiche, condizioni che per la loro somiglianza o diversità con le nostre suscitano interesse, entusiasmi religiosi, prima manifestazione di contenuti di vita ancora importanti per noi. (Culto degli eroi). Si consideri sempre che il ragazzo è un essere del tutto non storico, assorbito dal presente e che è possibile gettare un ponte tra lui e la realtà storica solo facendogli vedere che gli stessi valori e interessi, che lo avvincono nel presente, sono dati anche al di fuori di esso. Il valore atemporale unisce presente e passato e deve essere sicuro affinché il bambino acquisti interesse per i loro collegamenti, il loro situarsi nel tempo, le condizioni. Si cerchi, se qualcosa va bene, di rinunciare all’aneddotico: si eviti quanto sia collegato solo esteriormente (in particolare in forma aneddotica) con l’argomento autentico come per esempio le biografie dettagliate degli scrittori. Ma non si perda mai d’occhio che alla fin fine si tratta dell’unità della vita in sviluppo; innanzitutto, occorre, finché si fa riferimento ai singoli paragrafi, alle singole storie, che ogni singolo sia trattato come un tutto contestuale, e questi tutti devono poi essere a poco a poco uniti finché nasca quell’immagine così difficile da comprendere per i giovani, di una vita temporale complessiva dell’umanità. Perciò, è necessario evitare le domande sui singoli atomi [parti] (Atomen) di una storia, sia che mirino a completarla o a chiarirla, sia che si tratti di una verifica cosicché la domanda del docente che contiene tutta la frase si interroga solo su un chi? – come? – che cosa? – dove? – verso dove? (in particolare le domande qua e là su periodi molto

diversi). Il bambino dovrebbe imparare una storia articolata come unità (Einheit), non avere l’impressione che sia formata da frammenti. Se la storia è troppo lunga per essere recepita come totalità, il docente la deve presentare in un primo tempo con un racconto breve, volto a illustrarne solo il nucleo, ne anticipi casomai il lato principale, e quando si è formata questa epitome, la ampli gradualmente, ma in modo che lo scolaro sia cosciente della connessione organica di ogni singolarità con il processo centrale, e che nulla rimanga fuori atomizzato. La separazione mediante domande su componenti isolate favorisce al massimo questa meccanizzazione e questa frantumazione. Corrispondente è l’unità della vita naturale. Di estrema importanza è che la lezione di scienze naturali sia tenuta il più possibile all’aperto, affinché l’alunno veda le piante e gli animali non in un isolamento artificiale e astratto, ma nella loro vita vera, cioè nel loro interagire con gli altri esseri, nel terreno, nell’aria, nella luce. Solo così il bambino vede realmente la pianta o l’animale, nell’altro caso, anche se li ha in mano, ne ha solo un’astrazione. La lezione di biologia è di estrema importanza. La rappresentazione del tempo storico è estremamente difficile da insegnare, si faccia dunque attenzione che non resti una formula. I bambini sino a sei, otto anni non hanno alcuna idea delle relazioni di tempo complicate: “Se noi diciamo al bambino che un evento è accaduto ieri, l’altro ieri, settimane o anni fa, a lui resta comunque un concetto oscuro del passato e lo stesso avviene con i dati temporali nel futuro”. Ciò è pedagogicamente importante perché nella storia biblica o nei libri di storia scolastici compaiono spesso contesti temporali del tutto incomprensibili per i ragazzi (Meumann). “Per suscitare il sentimento della lontananza nel tempo non si chieda come si chiama il principale porto dell’Attica, chi è il dio del vino, ma come si chiamava – era. Hieβ – war.Quella frase scolastica eterna ammassa su un unico punto i fatti più separati e diversi, ma il preterito1 aiuta a porli separati gli uni dagli altri nella lontananza”. (Hildebrand). Dall’altro, la continuità degli eventi temporali dovrebbe essere nuovamente scissa in epoche, il che presenta, oltre a quella oggettiva, una particolare difficoltà pedagogica. Lo studio della storia esige per motivi di tecnica didattica una suddivisione particolarmente netta in capitoli. La lezione si pone sotto la categoria formativa del “compito”, sia nel grande come nel piccolo. Nasce, perciò, a priori l’esigenza di dividere la materia in un modo che giustifichi e

renda sensata, anche oggettivamente, la sua suddivisione in compiti quotidiani, settimanali o mensili. Nella matematica, in cui ogni frase ha un proprio senso (anche se solo dimostrabile dalla precedente) è facile, come accade anche nelle lingue, in cui i vocaboli e le regole sono coordinati gli uni accanto agli altri e permettono così ordini di tipo molto diverso, dove lo scopo esteriore dell’ordine può decidere sovranamente su di esso. Se però l’oggetto è continuo in un altro senso, ovunque dove è per esso costitutivo compiere un tempo o piuttosto il tempo, questo risulta molto più difficile, la suddivisione, proprio in quanto tale, deve essere più violenta, che nel caso di un contenuto didattico indifferente alla continuità del tempo. Articoliamo così la storia della Riforma: 1. Preparazione attraverso gli scritti di Lutero sino alla dieta di Worms del 1521; 2. Diffusione esteriore delle sue idee, collegata con altri movimenti sociali (guerre dei contadini) sino alla dieta di Spira del 1526; 3. Dopo la sua conclusione, organizzazione delle Chiese regionali in Sassonia, in altri Stati e città sino alla pace religiosa di Norimberga del 1532, che rinvia la decisione a un “Concilio libero universale”; 4. 1532-1546 pausa della lotta e ulteriore estensione del Protestantesimo; 5. Attacchi vittoriosi del partito cattolico sino alla pace religiosa di Augusta del 1555; 6. Concilio di Trento, con il quale si separa il partito cattolico. Questo schema è consigliato perché esprime le tappe di uno sviluppo intimamente comprensibile perché ogni movimento si compie inizialmente in silenzio (I), esplode poi senza ordine e produce un movimento di opposizione (II), in seguito entrambi si organizzano (III), la loro lotta può bloccarsi per motivi esterni (IV), finché approda a una conclusione e a una pace esteriore (V), cui segue un consolidamento interno dei partiti (VI). La complicazione e la continuità degli eventi storici rappresenta una grande difficoltà per l’a priori specialmente pedagogico. Questo induce qui, inevitabilmente, a frantumazioni, a schematizzazioni e a tagli irreali. La cosa migliore è, poiché la suddivisione è ora necessaria, porre l’accento nel centro del singolo gruppo e non, invece, sull’acutezza dei limiti che li separano reciprocamente. Questo esige un certo salto di centro in centro, che è sempre ancora la cosa migliore perché non disturba troppo il sentimento per la continuità di ciò che sta in mezzo. Se questi sono i tipi di difficoltà che si presentano pedagogicamente per la forma della storia in quanto tale, la seconda categoria di difficoltà è posta nella comprensione del contenuto.

Se si pensa a cosa uno scolaro, anche nelle classi superiori, possiede di nozioni ed esperienza, ci si può spaventare a immaginarsi che cosa egli possa pensare nell’ascoltare discorsi sulla costituzione delle strutture politiche antiche e medievali, sulla religiosità antico-giudaica, sull’arte politica romana, anzi moderna ecc. Sono puri concetti di valore che si sostengono in parte reciprocamente e conferiscono l’illusione di essere compresi. L’aspetto più difficile e senza speranza è la comprensione di singole personalità storiche. Cosa può dire un grande storico a uno studente? (C’è qualcosa di irrazionale, ma anche per gli adulti). Anche nella lezione di storia si dovrebbe memorizzare quando, riallacciandosi alle condizioni attuali, si raggiunge un minimo di comprensione su come stiano effettivamente le cose e si crei un certo contesto. La lezione di geografia deve partire dall’edificio scolastico, dalla strada, dalla città – deve prendere come punto di partenza il clima particolare, la vegetazione, le condizioni di luce, le configurazioni del suolo, in breve ciò che è visibile-spaziale (Sichtbar-Räumliche), per poter giungere tramite la modificazione di ciò che è noto a una certa intuizione di quanto è estraneo. Il senso di questa lezione dovrebbe essere che lo scolaro si orienti sulla terra come quello della lezione di scienza dello spirito è che si orienti [anche] nel mondo spirituale. La lezione di geografia non dovrebbe rinunciare mai al rapporto con la patria dello scolaro, cioè con l’ambiente che è sempre o spesso visibile. Quando si trattano i paesi stranieri la patria dovrebbe venir sempre ricordata almeno per un confronto (Vergleichung) di strade, di caratteristiche del paesaggio, di prodotti culturali, ecc. Non per uno sciovinismo o per un patriottismo campanilistico, ma perché è per scopi educativi, anche se vanno ben oltre il loro paese natale, e per la tecnica didattica risulta il mezzo più appropriato. Naturalmente questa comprensione da raggiungere con le analogie dell’attualità ha un limite, e ci si deve guardare dal cancellare con questa “attualizzazione” l’estraneo, il caratteristico, l’incomparabile degli eventi e dei personaggi storici. Oltre alla coscienza di quanto ha compreso, lo scolaro deve essere conscio che vi sono cose che non comprende (è l’analogia empirica dell’imperscrutabile “da venerare in silenzio”). Il mezzo per provocare l’intuizione storica che non si può razionalizzare né ottenere con la forza è che il docente disponga di essa, che sia immerso nella vita della forma

storica stessa e che parli a partire da essa. Un insegnante che conosca solo le date su cui interrogare non potrà mai renderle comprensibili e percepibili dall’interno. “Il docente di storia non deve aver letto per intero un’unica cronaca reale; dovrebbe avere letto cronache di tutti i tempi su cui insegna. Gli basta conoscere solo manuali e opere dotte. Lo scolaro pretende autentica realtà e il docente dispone solo di leve straordinariamente lunghe per giungere a questa realtà. Queste leve (Hebel) non entrano nelle classi e nessun ragazzo può disporne – nemmeno l’insegnante. Inoltre, di questa realtà, il docente ha concetti, giudizi di valore, visioni parziali, generalizzazioni, vedute laterali” (Pannwitz). Nella lezione di storia è urgentemente necessario presentare i monumenti storici e architettonici, unico modo per dare un’immagine visibile dell’epoca. Da come viene ora organizzata la lezione di storia gli scolari devono credere che tutti i popoli antichi non avessero gli occhi, ma che sapessero solo parlare e usare le mani. Il docente dovrebbe cogliere ogni occasione per fare riferimento ai grandi contesti storico-ideali in cui non sono solo (come nelle scienze dello spirito) gli oggetti delle scienze presentati, ma queste stesse scienze. La conoscenza della natura non fa ancora l’uomo colto; egli deve anche sapere quale significato questa conoscenza ha avuto all’interno dello sviluppo intellettuale e culturale dell’umanità. Lo stesso nel caso della storia. Nonostante tutte le sue difficoltà la storia è uno dei mezzi più irrinunciabili della Bildung. Le materie storiche, cioè quelle il cui contenuto è la volontà e il sentimento dell’umanità non possono per questo essere sostituite da nient’altro perché solo con esse si forma la cultura dei valori. Le materie puramente linguistiche non lo consentono, in quanto la lingua, che viene trasmessa solo tramite le sue parole e regole (non tramite la sua teoria interiore che riflette lo sviluppo della psiche), corrisponde a un fatto naturale, libero da valori. Ma come la comprensione della storia deve svilupparsi dalla vita presente, dovrebbe evitare un’immediata analogia priva di diversità, così anche la sua importanza etico-pedagogica deve essere tenuta lontana da una trasposizione di norme eccessivamente immediata (Goethe). Come ora questa vita ci sta dinanzi compiuta, valutata secondo misure umane, non la porremo tuttavia semplicemente come “esempio” o “modello” per noi. Caratterizzare così i grandi uomini come Socrate o Gesù, S. Francesco o Spinoza, Fichte o Goethe, mi pare un malinteso che involve un vis-a-vis tra

noi e loro e un’imitazione meccanica. (Cito a memoria). Essi devono diventare piuttosto elementi della vita propria, assimilati alla sua tendenza e al suo ritmo in un processo organico, all’interno del quale essi sono tutt’altro che forme secondo le quali dovremmo plasmare la nostra esistenza2. Non dovremmo diventare “come loro”, ma servendoci di loro dobbiamo diventare più noi stessi, in un modo più alto, puro e maturo. Per il fatto che noi sentiamo i valori come una realtà della nostra vita, essi diventano reali uscendo davvero fuori dalla storia e reagiscono perché li facciamo essere vitali in forma storica. Lo straordinario valore della storia sta nel convincerci che i valori non sono spettri, ma realtà – e non solo i valori morali. Essi raggiungono però la loro piena e significativa formazione soltanto attraverso il contrasto, l’integrazione, la cooperazione con la matematica. Il significato educativo della matematica: 1. Sapere che esiste un regno ideale. È uno dei massimi arricchimenti ed elevazioni dello spirito sapere che non c’è solo la realtà, che questa non è oggetto della verità; sapere che vi sono forme pure da riconoscere, che non solo per la loro purezza non possiamo incontrare nella realtà, ma che stanno al di là di essa per la loro essenza ideale; che nella natura non ci sia nessuna linea retta e nessun angolo retto è per così dire solo una differenza graduale, che è il simbolo del distacco dell’essenza. Tutto questo regno di verità, al quale si può giungere solo con un salto dal sensibile, e non in continuità con esso, è una delle conquiste più straordinarie. Apre lo sguardo su tutto ciò che non è, ma ha valore. Dobbiamo, perciò, mantenere e inculcare prima di tutto la purezza della regione (Bezirks) geometrica e aritmetica, la sua separazione di principio e totale da ogni realtà empirica, il suo assoluto essere-per-sé, e il più presto possibile debbono essere spezzati tutti i collegamenti ausiliari che vengono gettati dal mondo empirico. Naturalmente, la matematica utilizzata nella fisica, nella statistica, nella tecnica, in tutti gli interessi economici, non può venire trascurata. Ma dovremmo acquisire la reale formazione e un arricchimento intellettuale attraverso la matematica, bisogna essere nel modo più radicale coscienti del suo senso puro. 2. Il carattere funzionale dei contenuti mondani non può mai essere dimostrato altrimenti in modo così efficace. Il fatto che non ci sia nessuna mutazione della figura geometrica che non implichi un’ulteriore trasformazione, che sussista un’azione reciproca incondizionata di tutte le variazioni delle singole parti, ebbene, questo deve essere inculcato profondamente come il simbolo più meraviglioso della

connessione dinamica, universale e dell’unità del mondo. 3. Alla stessa meta conduce l’irreversibilità dei procedimenti di dimostrazione, la prova dell’esempio, la possibilità di raggiungere lo stesso risultato partendo da punti diversi. 1 Il preterito è un tempo della lingua tedesca che in italiano indica un’azione durata o ripetuta nel passato e corrisponde al tempo imperfetto. Probabilmente, non è casuale la corrispondenza che anche in italiano l’imperfetto sia utilizzato per raccontare; si appresta a descrivere narrazioni, fiabe, o storie dando la percezione di azioni vive, seppur distanti nel tempo (imperfetto narrativo). 2 Lo scolaro non dovrebbe vedere sempre tutto in rapporto a se stesso, né sfruttare subito ogni cosa come modello per sé; deve riconoscere in modo disinteressato i valori, la loro trasformazione in valori propri. Si tratta di un processo organico, che non va ottenuto immediatamente con la forza.

10. EDUCAZIONE MORALE (Von der sittlichen Erziehung) Dopo che sinora tutta la rappresentazione delle forme e dei contenuti della lezione è stata guidata dal motivo che in essa e per mezzo di essa tutto l’uomo deve essere educato, che ogni singolarità del sapere, proprio per il fatto che è conosciuta, guida ed eleva l’uomo nella totalità delle sue funzioni, questo momento deve essere perciò considerato in modo particolare. Non ritengo appropriata una particolare “lezione di morale” perché concepisce inevitabilmente in modo troppo rozzo il sottile processo organico della formazione etica superiore del bambino. Gli interventi diretti, mirati e le indicazioni sono qui per lo più inefficaci, soprattutto se concentrati in un’“ora” particolare. In questo modo certe imperfezioni etiche si fissano ulteriormente, il processo di sviluppo che le dovrebbe superare tutto da solo o spesso con influenze di contenuti di tipo completamente diverso, ne viene rallentato o addirittura deviato. Inoltre, proprio la lezione di morale si fonda per lo più su uno degli isolamenti, delle decomposizioni dell’unità della vita: la formazione complessiva dell’uomo, anche se io la chiamo qui etica, è qualcosa di molto di più di una realtà specificamente “morale”. Anche la morale non dovrebbe, come il sapere e il potere, condurre un’esistenza particolare nell’uomo: al di sopra di questa morale è posto un ideale della vita totale che implica anche forza e significato intellettuale, orgoglio e gioia della vita. Questa deve sempre rimanere la meta, anche se all’interno delle possibilità scolastiche l’elemento morale è dominante. Solo a partire da questo presupposto parlo qui dell’educazione etica dell’alunno e del comportamento che il docente in ogni ora, nel modo di esercitare ognuna delle sue funzioni, deve porre come scopo di questa formazione. La vecchia pedagogia, dalla quale parecchi suoi rudimenti sono entrati nel nostro passato più recente, nasceva da due a priori opposti e tuttavia complementari: 1. Lo scolaro è un essere del tutto condannato da un principio cattivo; 2. Egli è in verità un angelo, e perciò non si può tollerare nemmeno la più piccola imperfezione che va eliminata con il ferro e con il fuoco. Il principio moderno dello sviluppo ha dissolto queste due concezioni nutrite dal pessimismo cristiano del peccato e da un esagerato idealismo. Ora lo

scolaro non è un essere corrotto, ma solo un essere non sviluppato, nel quale bene e male, per così dire, sono l’uno accanto all’altro senza princìpi. Più correttamente: i suoi germi sono ancora indifferenziati. Perciò non si può porgli subito la richiesta assoluta, la cui violazione deve essere perseguita in modo terribile, ma solo quella di un graduale sviluppo che dovrebbe essere promosso e atteso con pazienza e con indulgenza. Nemmeno si deve esigere subito obbedienza incondizionata; a dire il vero, la scuola ne ha bisogno, ma causa così la disobbedienza nascosta. La vecchia idea che il miglior insegnamento morale sia l’esempio dell’insegnante è indubbiamente giusta e persino in un senso ulteriore e più profondo del consueto. L’insegnante incoraggia il comportamento dello scolaro a volte nel modo migliore, ponendosi per così dire sul suo stesso piano – da qui può tendere nel miglior modo la mano. Il docente in genere deve avere vicino gli occhi sempre entrambi gli atteggiamenti possibili: stare di fronte all’alunno come rappresentante di uno strato superiore, autoritario, o stare con lui su uno stesso livello, che nella sua totalità riconosce sopra di sé un ideale supremo, un compito supremo. Nella maggioranza dei casi le due possibilità si confondono e compenetrano, e l’una abbraccia sempre anche l’altra. Bisogna determinare precisamente se l’accento cade sull’uno o sull’altro atteggiamento. Presento solo alcuni casi singolari per l’esempio vivo (lebendige) dell’insegnante, che può fare riferimento nella nostra attività scolastica solo a piccoli settori della sfera etica. Insegnare allo scolaro il rispetto, al quale si oppongono spesso l’incontrollata forza vitale e la presunzione dei giovani, il loro tendere all’illimitato, è il mezzo migliore, se il docente non solo predica questo rispetto, ma si dimostra pieno di esso – senza formularlo sempre astrattamente. È opportuno che l’insegnante sia cortese verso gli allievi, mantenga la buona forma e saranno anch’essi così verso di lui. I giovani devono piegarsi alla forma sociale superiore, non hanno nessun mezzo contro di essa. Tuttavia dovrebbe essere anche realmente la buona forma (cioè piena di contenuto) non la farsa. Ci si deve guardare sempre dall’essere cortesi in senso ironico, la cortesia deve essere sempre seria (ernst). Bismarck disse una volta che uno dovrebbe, anche quando è sopraffatto dall’ira, essere cortese. L’insegnante deve ricordarlo. Soprattutto, dovrebbe possedere egli stesso la cortesia che educa i giovani. “Non si dovrebbe mai pronunciare la parola stupidità di

fronte a uno scolaro; perché la stupidità dello scolaro non è un oggetto di rimprovero per chi ne è affetto”. La “stupidità” è qui un insulto che non dovrebbe mai comparire. Perché bisogna che lo scolaro impari che non si deve insultare – non solo perché le imprecazioni non dimostrano nulla. A questo scopo, i tedeschi, ora, dovrebbero essere educati in vista del ripugnante esempio dei nostri nemici. Nel giovane emergeranno spesso dubbi sulla verità delle nostre conoscenze, in particolare in religione, storia, sui giudizi di valore. Bisogna ammettere il non-sapere. Se l’insegnante non può risolvere i dubbi, comunque deve lasciare esprimere, non dovrebbe permettere che degenerino in scetticismo schematico (di cui deve dimostrare l’improduttività), evitare il dogmatismo, che non convince lo scolaro (una certa misura di dogmatismo è opportuna perché lo scolaro è ancora troppo insicuro per potersela cavare senza sostegni dogmatici) e fare capire all’allievo che lui, con questi dubbi, è al centro del lavoro intellettuale dell’umanità. Si può raggiungere spesso una stabilità interiore, che non può essere data dall’argomento, su questa strada etico-sociologica. Il dubbio non è più così sradicante, se si hanno buoni compagni – e l’insegnante fa riferimento alla sua stessa esperienza. I seguaci di Herbart mirano alla formazione morale del fanciullo con argomenti morali, “atteggiamenti concreti”, esempi di comportamento degni di essere imitati ecc. Dobbiamo obiettare a questo che l’esempio presentato in modo prettamente teorico ha qualcosa di immaginifico, che sta di fronte e che il bambino non assimila così facilmente al suo comportamento pratico. Anche gli slanci e gli entusiasmi che vi si collegano rimangono facilmente per così dire legati all’immagine oggettiva della persona o dell’evento, valgono realmente solo per questo senza riflettersi nel soggetto con un successo pratico. Esiste il pericolo di un’elevazione concentrata solo sull’oggetto, rigorosamente circoscritta, con cui il ragazzo crede di avere già eseguito quanto gli era stato richiesto, ma che rimane solo lirico-soggettivo. (Proprio come si crede di tacitare sufficientemente il peccato dell’azione negativa con il rimorso, o come la musica provoca spesso un movimento interiore dell’anima sterile). Inoltre, il ragazzo può isolare solo molto difficilmente dal singolo contenuto storico l’evento veramente etico del valore che potrebbe far uso come universalmente valido, come d’altra parte davanti all’opera d’arte non è in grado di acquisire alla sua coscienza il valore estetico che sta al di là del suo contenuto. Se gli si vuole però insegnare questo significato universale

puramente etico, si corre il pericolo di fare del moralismo, se lo si lascia invece nell’indefinito, rimane o la separazione dalla propria pratica di vita, oppure il ragazzo tenta l’applicazione dell’esempio a contenuti vitali inadeguati. Tutto questo è chiaramente diverso nel caso dell’esempio visto e vissuto. In quanto esperienza intima, esso è intrecciato del tutto diversamente con la vita del fanciullo, penetra immediatamente trascinandolo nella sua anima ed è, perciò, molto più plasmabile e può essere adattato in modo ancora più naturale alle condizioni della vita individuale. Ciò che la scuola può raggiungere da un punto di vista etico è unilaterale e limitato. L’educazione morale della vita del sentimento è qui priva della sfera prettamente personale. E, in larga misura, l’educazione a rinunciare alla severità verso sé e soprattutto verso le seduzioni edonistiche può servire molto poco. Se però anche il mezzo intellettuale dell’esempio narrato fa quello che può sul piano delle direttive, vi è comunque qualcosa di assolutamente essenziale che sta al di fuori della sua sfera di azione: la formazione della volontà dal lato formale e dinamico. Strutture come la concentrazione, l’onestà intellettuale, la coerenza nella condotta di vita, la coscienza dei piccoli doveri quotidiani, la crescita della forza intellettuale in tutte le sue direzioni, possono essere ottenute solo con un’azione decisa e più immediata sul processo della mente, e non con la sua reazione a contenuti compiuti offerti. Esse sono qualità formali anche nel senso che esse in gran parte rendono l’individuo più capace anche di raggiungere scopi immorali (unsittlicher). Solo questo a priori ottimistico è indispensabile per la pedagogia: cerchiamo di potenziare l’intelligenza sia da un punto di vista dinamico, sia contenutistico, così come anche la forza fisica e l’abilità nell’ipotesi che le capacità che servono altrettanto bene alla realtà non etica come a quella etica dimostreranno essenzialmente la loro forza in direzione di quest’ultima. Per determinare questa tendenza può essere certo utile la trasmissione di un “motivo di riflessione”. Il ragazzo reagisce alle esperienze e alle intuizioni con un complesso di sentimenti piuttosto sordi. Di fronte a un incidente si nota come ci sia una miscela nelle reazioni quali curiosità, compassione, sadismo. Compito del pedagogo è fare emergere prudentemente gli elementi desiderati (erwünschten) e renderli predominanti. Dovrebbe, però, riferirsi alla situazione reale, non può utilizzare un principio etico stabilito e prefissato che

il ragazzo recepisce esterno; l’equilibrio psichico si crea dall’interno, facendo spiccare il suo elemento più valido. (La pedagogia dovrebbe sempre considerare che, lavorando per il futuro individuo adulto, crea potenzialità che non si sa quanto impieghino a diventare attive. Il problema non è la semplice perdita, ma che parecchie energie psichiche si rovesciano nel contrario del loro valore, del loro intimo significato interiore, se non raggiungono l’azione in tempi relativamente rapidi). Quando si tratta della formazione della volontà, essa è immediatamente influenzabile solo in modo molto imperfetto; l’insegnante riporterà alla luce, cosa che è possibile molto più direttamente, sentimenti (Gefühle) che in sé potrebbero divenire il punto di partenza per la pratica: eroici, compassionevoli, magnanimi ecc. Tuttavia, essendoci un’ulteriore formazione alla quale giungere, o impossibile per ora o non nelle sue mani, l’alunno può abituarsi facilmente a essere soddisfatto del sentimento immanente e a non assumere da esso nessuna spinta all’azione – godere di molte possibilità – sia di carattere puramente astratto [o pratico che riguarda cioè] i primi tentativi per agire, sensazioni che, tuttavia, si fermano davanti al passo decisivo. Tutto questo tipo di sviluppo è tanto più pericoloso quanto più il processo intimo di solito si avvicina all’azione senza però realizzarla. “Quanto è pericoloso sentire continuamente delle richieste morali in nome di Dio, senza trasformarle subito in azione [...]. Ci si abitua a forti consolazioni, si è ricchi di proponimenti, si è pii nei pensieri [...]. Guardiamoci dal tendere troppo spesso l’arco quando non vi è nulla da sparare. Guardiamoci dagli slanci violenti che non si scaricano in un salto potente. Ogni tensione etica, che si perde nella sabbia, è una rapina di forze morali [...]” (O. Pfister, Religionspädagogisches Neuland, Zürich 1909, S. 10. Una trattazione esauriente dello stesso tipo si trova in W. James, Psychologie, Deutsch von M. Dürr, Leipzig 1909, S. 145,146). Molto spesso si ha un procedimento inverso (quando è possibile in base al contenuto): stesse impressioni e intuizioni. Problemi estremamente complessi dal punto di vista pedagogico risiedono nel rapporto dell’agire, del comportamento esteriore che l’alunno deve assumere con la propria visione del senso, della struttura e del valore di questo agire. A tale rapporto corrisponde – sia pure non immediatamente – l’alternativa: o l’alunno svolge l’agire richiesto per costrizione della volontà, per suggestione, fiducia nell’autorità, per un’abitudine esteriore volta direttamente a questa azione e perché ammaestrato, forse anche per amore,

oppure la svolge per una convinzione propria, per una volontà libera, e perché viene guidato in questa direzione dal suo mondo interiore in virtù del senso e valore dell’agire. La pedagogia razionalistica vuole pretendere qualcosa dal ragazzo solo a condizione che comprenda e approvi, perché questa formazione è stabilita. È chiaramente la migliore garanzia per l’agire. Ma forse si ha anche un trattamento sintomatico che pretende in un primo momento l’agire da parte del ragazzo e sulla base di tale richiesta produce il discernimento e la decisione della volontà. Questo potrebbe corrispondere al nostro comportamento diverso e molteplice. Noi eseguiamo istintivamente tantissime cose utili e necessarie, perché veniamo spinti dagli eventi quasi in un ordine puramente effettivo nella totalità della vita; le necessità storicoculturali rendono molto di quanto noi semplicemente facciamo assolutamente utile, proprio come un processo fisiologico, la cui finalità per la vita non ci è per nulla nota – o lo diviene molto tardi. In particolare, riguardo ai livelli vitali inferiori, dovremmo prima fare le cose e solo a partire dalla loro effettualità, che è guidata nella giusta direzione dalla costellazione cosmicosociale, potremmo penetrare nel loro modo, nella loro struttura e nel loro scopo, lasciandole condurre da essi. All’interno del mondo artificiale che costruiamo intorno al bambino come simbolo di quello reale e preparazione a esso, questo può avvenire ripetutamente. Se il bambino dapprima viene obbligato a fare certe cose e a lasciarle, a impararle e a credervi, questo sarà poi una facilitazione essenziale per la successiva comprensione del senso di queste cose che deve poi portare alla loro libera esecuzione. Di fronte all’educazione meccanicistica per la quale conta soltanto che l’alunno faccia ciò che è richiesto, e che, per facilitare e garantire, vuole raggiungere al massimo l’abitudine, mantenendosi così sempre solo sul piano dell’agire, e quella razionalistica che vuole fondare l’agire solo sul comprendere, si pone la terza possibilità: provocare l’agire perché la comprensione si sviluppi su di esso. L’agire trasforma l’essere in modo tale che l’alunno diviene recettivo anche per il significato dell’agire. Anche la volontà deve essere educata e questo riesce spesso con l’esecuzione. Il pedagogo dovrebbe in genere sfruttare il fatto che non solo l’agire nasce dall’atteggiamento, ma che anche l’atteggiamento nasce dall’agire. Se il bambino viene guidato (ovviamente non con la costrizione, che suscita opposizione) a far del bene agli altri, presto li amerà; se lo si seduce (eudemonisticamente) a lavorare, diverrà diligente; se gli si insegna un comportamento esteriormente rispettoso (come

se fosse ovvio), apprenderà anche il rispetto interiore. Questo è il senso più profondo e più valido del “Principio dell’abitudine”, che sarebbe del tutto esteriore e inattendibile, se fosse solo associativo, se rimanesse sempre sullo stesso piano e producesse azione da azione. A questo tipo di forma pedagogica – dapprima viene realizzato ciò che è giusto e solo a partire da questo si costruisce il fondamento – appartiene anche la finzione (Fiktion), presentandolo come se fosse avvenuto: si spieghi agli alunni che vi è una sorta di rispetto per se stessi, ma non solo con lunghe prediche morali, bensì parlandone come di qualcosa di noto e di accessibile, facendolo comprendere come qualcosa di desiderabile. Spesso è un mezzo buono trattare di ciò che si desidera raggiungere come se fosse già presente (Es ist überhaupt oft ein gutes Mittel, das erst Erwünschte zu behandeln, als sei es schon da), l’acquisizione sarebbe una sua cristallizzazione. Questo è il migliore appello dell’onore. Sotto molti aspetti bisogna procedere come se fosse già presente il comportamento corretto dell’allievo, naturalmente anche se è noto che esso è ancora del tutto problematico. Trattandolo come un galantuomo, spesso diventerà tale (come vale peraltro anche l’inverso). Questo percorso regressivo è molto importante, esercita una coazione straordinariamente suggestiva. Scatena una forma molto auspicabile dell’ambizione: non voler essere peggiori di quanto si è considerati. Persino dal punto di vista intellettuale, se si presuppone che uno scolaro capisca qualcosa, egli si sforzerà di giustificare il presupposto. Dobbiamo così discutere il significato pedagogico dell’ambizione che proprio da un punto di vista etico si pensava di dover escludere dall’educazione: “Ogni opera, ogni azione, ha già in sé il suo premio o la sua condanna. Assicura come tale la gioia della riuscita, in tali momenti è così unita alla personalità che è praticamente impossibile isolare una realtà soggettiva da quella oggettiva. La valutazione che specula sull’ambizione non permette volutamente che emerga questo momento solenne di ogni creare. Costruisce tra soggetto e oggetto il ponte dell’egoismo, pone sin dall’inizio l’allievo in un contrasto artificiale con l’oggetto. Invece del vero interesse, se ne cura uno artificiale, l’ambizione. Il centro di gravità etico viene posto così fuori dell’opera. L’allievo vede in primo piano il giudizio altrui e lavora per esso. La valutazione lo pone come un concorrente nelle fila dei suoi

compagni. La sua ambizione guarda sempre in cagnesco questo o quel compagno che deve superare o orgogliosamente quello che ha superato”. Questi pericoli dell’ambizione sono innegabili. Essi non esistono comunque in tutte le forme dell’ambizione. Il “αἰέν ἀριστεύειν” (ha eccelso, è il migliore) non si riferisce solo al giudizio altrui. La passione di essere il primo e il vincitore si soddisfa pienamente con questo successo, non cerca né il riconoscimento di terzi, né un successo ulteriore, per il quale la vittoria sarebbe stata solo il mezzo. Tale ambizione sociologica non è certamente l’impulso più elevato di un giovane, ma nemmeno il più basso. Vi è poi ancora un’altra ambizione e non è di tipo sociologico. Essa punta al massimo della scala dei valori di prestazione oggettivi. L’ambizione sociologica viene soddisfatta se il suo rappresentante ha realizzato di più dei propri concorrenti, e non importa se il risultato è oggettivamente molto o poco (per tale motivo basta del resto che gli altri siano stupidi), e questo è l’aspetto preoccupante. Ma questa si affida a un ideale, reale o un poco, non importa se ci sono o meno concorrenti. Come impulso psicologico ciò rimane ancora ambizione e si differenzia interiormente dal puro interesse per l’oggetto, per il quale il grado (Grad) di ciò che è stato raggiunto in quanto tale si pone in seconda linea. L’interesse rimane soggettivo, il soggetto (come movente) vuole avere la coscienza del proprio rango, per la sua coscienza non conta la richiesta dell’oggetto in quanto tale o comunque non solo essa. Non si può negare che l’ambizione appartenga agli elementi egoistici, anche se punta allo sforzo puramente oggettivo, e anche se l’abbassamento degli altri in seguito alla propria prestazione è solo il risultato secondario di essa avvenuto per sé. Perché, in verità, nella scuola la prestazione non avviene fine a se stessa nel senso più puro, come il lavoro disinteressato del dotto – l’alunno vuole andare avanti, intende imparare e procedere. Questo andare avanti non è per lui un valore oggettivo – benché di fatto lo sia – ma egli cerca i valori oggettivi, poiché tale è il suo farsi strada. Se ciò non è nemmeno un egoismo anti-altruistico, è comunque qualcosa di estraneo all’altruismo. “Nelle nostre scuole cristiane ogni allievo deve preoccuparsi solo di se stesso. Non lo riguarda quello che i compagni raggiungono, anzi per lui è positivo, se essi ottengono poco. Questo sistema costituisce un esercizio nocivo dell’egoismo”. Bisognerebbe preoccuparsi perché il risultato positivo del singolo valga come miglioramento del valore e del livello delle prestazioni della classe intesa nella sua unità. In ogni caso bisognerebbe

cercare di coltivare l’altruismo in un altro modo, sfruttando il cameratismo degli scolari. “I nostri sistemi scolastici fanno capo nelle loro organizzazioni all’egoismo dello scolaro. Egli si deve invogliare intellettualmente e da un punto di vista pratico e la prospettiva dell’utilità personale di questi interessi intellettuali è il movente principale delle nostre organizzazioni scolastiche. Quali espedienti abbiamo trovato affinché lo scolaro impari a essere effettivamente attivo a vantaggio dei suoi compagni di classe da un punto di vista etico, intellettuale e anche pratico? – Nelle scuole elementari di Parigi vi sono le Mutualités scolaires, dei fondi in cui i bambini versano settimanalmente un paio di centimes per aiutare gli alunni più poveri in caso di malattia” (Kerschensteiner). Si tratta di una verifica di natura etica. Il docente favorisce gli scambi tra i bambini! Francobolli, libri, oggetti curiosi. In questo modo viene inculcato il valore oggettivo delle cose, a differenza della compera che lo estingue. [È opportuno] trasmettere continuamente l’intima mancanza di valore del denaro. Lo scambio alimenta la mescolanza tra giustizia e affermazione del proprio vantaggio, la cui formazione forte e onesta è della massima importanza. Inoltre, vincolo sociale importante: l’azione reciproca, prima di diventare intellettuale, si rivolge giustamente agli oggetti esterni. “Ci piace che nella vita scolastica la bontà e il cameratismo si affermino così spesso anche contro i divieti della scuola, per esempio quando i compagni si aiutano nei compiti a casa o suggeriscono in classe ecc. Il bambino impara così a sacrificarsi e a correre dei rischi per il prossimo. È però deplorevole che queste azioni altruistico-sociali sotto la pressione degli ordini scolastici divengano così spesso inganno e offrano l’occasione alla menzogna”. La scuola non può favorire il suggerire per il suo valore etico. In tal caso, non avrebbe più alcun pericolo e non sarebbe, perciò, etico. Ma sono i caratteri più validi che aiutano a proprio rischio gli studenti suggerendo e lasciando copiare; con il cuore di un bambino, che rifiuta tale aiuto, di solito non è ben ordinato. Vi sono perplessità contro l’aiuto reciproco fra gli scolari (Bedenken gegen die wechselseitige Hilfe der Schüler). I motivi che fanno apparire preoccupante l’aiuto reciproco fra gli scolari possono essere eliminati organizzando [il tutto] in modo appropriato. Se si combatte l’aiuto reciproco degli allievi perché rende difficile la valutazione delle loro capacità e delle

loro prestazioni, si sacrifica l’aspetto più valido e quello meno importante. È molto più necessario che i bambini imparino a farsi del bene reciprocamente e ad aiutarsi, piuttosto che sia facile al docente trovare il giusto voto per i suoi scolari in aritmetica o in latino. Certo, resta importante la compilazione delle pagelle e la decisione delle promozioni. Tuttavia, di fronte a un numero non eccessivamente grande di allievi, il docente potrà giudicare correttamente i profitti, quando la scuola lo permette, o addirittura incentivare in molti lavori in classe l’aiuto reciproco fra gli scolari. Perdita di autonomia (Verlust der Selbständigkeit). Il cameratismo altruistico così come l’uguaglianza a esso collegata nel trattamento di tutti gli scolari a opera dell’insegnante incontra ora certo grandi difficoltà per le differenze individuali delle doti e delle prestazioni, alla cui sfera appartenevano già tutti i compiti pedagogici determinati dal problema dell’ambizione. È un grande compito trattare lo scolaro che sia eccellente, tanto più grande in quanto proprio in questi scolari bisogna aprire il massimo di futuro. Quando il sentimento di sé è l’arroganza a causa di prestazioni che non la giustificano, è opportuno cercare di criticare oggettivamente il profitto senza però scoraggiare la persona nel suo complesso. La questione è difficile non appena l’autocoscienza rappresenta una differenza di fronte agli altri scolari, a causa di risultati effettivamente superiori. La presunzione, dove le doti particolari portano facilmente, deve essere eliminata non con un abbassamento al quale lo studente del resto non crede, nemmeno con una svalutazione, che falserebbe l’importanza effettiva del talento, né con l’umiliare, che susciterebbe inasprimento, insicurezza o rancore. La dote particolare dovrebbe essere invece in primo luogo riconosciuta, ma non come superiore diritto, invece come dovere più elevato. Ogni dovere (Pflicht) si eleva sulla base di una realtà o altrimenti cambia anche il dovere. Che uno sia migliore per natura significa semplicemente che con il proprio comportamento e con le proprie azioni deve diventare migliore e ogni reale già migliore deve essere considerato come la semplice possibi lità di divenire ancora migliore. Non sarà mai insegnato troppo presto che noblesse oblige (la nobiltà richiede) e che inversamente il dovere nobilita. È meglio privilegiare un po’ il talento dello scolaro piuttosto che annientarlo. Questo lo renderà più modesto che non il contrario. Vi è, inoltre, un’antinomia non risolvibile completamente fra il coordinamento sociologico

necessario degli scolari e la giustizia che esige una classificazione, spesso molto a grandi linee. Lo scolaro dotato in modo particolare non è solo nella fattispecie particolarmente favorito, ma oltre a ciò gode come di una sorta di superadditum1 dell’interesse personale e della buona disposizione del docente. Non si può pretendere che il docente nutra le stesse sensazioni per gli stupidi e per gli individui svegli e dotati di talento. Se cerca di nascondere che dedica un interesse il più amicale possibile anche ai primi, costoro lo sentiranno come una sorta di compassione che ha un effetto umiliante. Non si può nemmeno dire sempre che chi non ha doti, chi è rimasto indietro, chi è svogliato, offra più occasioni all’azione e all’interesse pedagogici di quanto le offra chi è pieno di talento. In quest’ultimo, vi sono così tanti punti di appiglio per un fecondo intervento pedagogico che nel primo non danno alcuna reazione. Un’eguaglianza del trattamento che presupponesse o mirasse a una stessa omogeneità delle valutazioni, non potrebbe essere messa in atto data la diversità degli oggetti, anzi, sarebbe qualcosa di falso. Nemmeno nella scuola è possibile evitare in linea di principio la massima: “A chi ha, viene dato”. Proprio essa, con la sua richiesta di prestazioni verificabili e controllabili, non può fare a meno della classificazione delle personalità e giacché questa funzione costituisce la sua essenza, è al tempo stesso una contraddizione, la richiesta di un livellamento, di un’eguale accentuazione dell’intera classe. A partire dall’inevitabilità di questa classificazione si è cercato di scongiurare la presunzione e il sentimento di sé non sociale degli scolari, spostando il punto di vista decisivo per la classificazione dei valori esclusivamente nell’ambito morale. Il docente dovrebbe distribuire riconoscimenti e premi solo sulla base di gradi di profitto dipendenti dalla volontà: diligenza, impegno, attenzione. Verrebbe così evitata l’alterigia del singolo. Perché è curioso che la superiorità che l’uomo deve realmente a se stesso, che deriva dalla libertà della sua volontà, lo renda impareggiabilmente meno orgoglioso di quella che riceve in dote dalla natura. La ragione è probabilmente che nel primo caso essa può venire forse (möglicherweise) raggiunta da tutti, ma non nel secondo caso. Inoltre, l’ideale della volontà è riposto nell’infinito, ma non quello del talento naturale, e la realtà resta spesso meno distante dall’ideale della volontà che dalle doti naturali. Il talento vede davanti a sé solo il proprio ideale, la volontà vede quello dell’umanità in generale. Vi è certo anche astuzia morale, presunzione della virtù, ma questo è un processo psicologico piuttosto complicato al quale i

giovani non sono predisposti perché più vicini alla realtà naturale. Inoltre, la presunzione di carattere morale, essendo essa stessa immorale, contiene una contraddizione in sé su cui il docente, quando l’incontra, potrebbe richiamare l’attenzione. Il giovane è molto sensibile di fronte all’autocontraddizione che gli viene dimostrata perché la logica, la norma di pensiero più primitiva, è particolarmente impressionante per il suo modo di pensare relativamente primitivo: solo il grado più basso della formazione intellettuale e il più alto non rifiutano l’auto-contraddizione. Per quanto il docente debba attenersi a questo fondamento della classificazione, non è tuttavia comunque possibile limitarsi a esso. Sarebbe del tutto innaturale e assolutamente dubbio in senso ideale se le differenze di intelligenza, forza, produttività, vivacità dello spirito e del sentimento non fossero riconosciute come differenze di valore degli scolari e non dovessero avere le loro conseguenze. Per di più, è difficile tracciare il confine tra quanto viene dato realmente dalla natura e quanto si raggiunge faticosamente con la volontà. E proprio la diligenza e la pigrizia sono spesso chiaramente condizionate fisiologicamente. Tuttavia, nonostante tutte le possibili attenuazioni e reazioni, l’antinomia continua a sussistere fra la preferenza dello scolaro dotato che accresce molto la sua autostima e l’uniformità nel trattare gli scolari, che è richiesta sia per ragioni dell’istituzione scolastica, sia per i singoli scolari. Del resto è la stessa antinomia che sussiste in teologia tra la corretta classificazione delle anime e la loro uguaglianza davanti a Dio. Naturalmente in relazione a tale differenziazione nasce una nuova socializzazione: anche per il maestro i suoi allievi migliori della classe formano un’élite compatta, costituiscono un’unità più di quelli assolutamente cattivi tra di loro. Questa nuova fusione su base aristocratica ha grandi vantaggi e non crea una separazione così radicale di fronte alla generalità come la costituiscono uno o due scolari emergenti. D’altro canto, gli svantaggi sono a portata di mano. Questi ultimi vengono a cadere quando “l’ultima classe del liceo è la nobiltà della scuola e deve avere un sentimento aristocratico, quindi un sensibile sentimento dell’onore”. Significato e trattamento della menzogna (der Lüge). Giacché l’insegnante molto spesso non è in grado di venir in chiaro, è opportuno dare il meno possibile occasioni, evitare il più possibile domande e non voler penetrare i segreti, laddove la risposta non è controllabile. Bisogna essere estremamente prudenti con le esortazioni all’autoaccusa. Se il ragazzo in tal caso mente, tutto il suo status morale ne viene abbattuto; la mancanza di

coraggio, di cui è consapevole, diminuisce per principio la fiducia in sé. Non si può pretendere da ogni uomo il coraggio. Bisogna essere molto prudenti con le accuse di menzogna, se sono infondate infatti alienano lo scolaro dal docente più di un’ingiustizia pratica. È perciò opportuno che l’insegnante agisca come se non notasse la menzogna, ma lasci capire nel suo comportamento di averla scoperta. Come in Russia il despotismo viene mitigato con la corruttibilità, così la menzogna è il mezzo che attenua e rende sopportabile l’ingiustizia e la tirannia del docente. I fenomeni di falsità sono favoriti e facilitati dalla grandezza del numero degli scolari. È questa una delle peggiori conseguenze delle classi troppo numerose. Un fenomeno del tutto diverso eticamente dalla falsità, ma che nella pratica molto spesso le si avvicina pericolosamente. “Una classe di 20, 30, 40 scolari ha una vita propria che nasconde la menzogna dinanzi all’insegnante”. Non ha nemmeno bisogno di rivelargliela, occorre rispettare la proprietà privata psichica dei ragazzi (cosa che anche i genitori dovrebbero fare). Ma è bene, se lo notano, che si conosca per principio la sua esistenza e la si rispetti. La fiducia e l’abitudine alla discussione sono un buon mezzo contro la menzogna: è opportuno che i ragazzi discutano, in modo che non si giunga al risentimento, quando si sentono oppressi da qualcosa o trattati ingiustamente. Se si regola e si forma il modo di esprimersi, c’è per essi maggiore possibilità di imparare il rispetto e l’autocontrollo, anziché apprendere passivamente tutto. All’interno di questo principio che mira a scoraggiare gli irrigidimenti, il ragazzo deve anche imparare l’autocontrollo e la sopportazione silenziosa, deve anche poter decidere da sé parecchie cose. Ma l’autocontrollo è totalmente diverso dal mandar giù in silenzio: è una vera reazione che solo il soggetto realizza nella propria interiorità. 1 Termine utilizzato da G. Simmel nella Philosophie des Geldes (1900), tr. it. Filosofia del denaro, a cura di L. Perucchi e A. Cavalli, UTET, Torino 1984, nuova ed. Ledizioni, Milano 2019.

APPENDICE SULL’EDUCAZIONE SESSUALE (Anhang über sexuelle Aufklärung) Il fatto che debba essere presentata ai bambini, che non vivono in un totale isolamento, non mi sembra da discutere, in quanto, se questo non avviene da parte degli adulti, avviene comunque, e in modo ancor più dannoso, con i coetanei. Essa deve in ogni caso essere trattata prima (früh) che inizino le pulsioni della pubertà, perché in questa fase lo scolaro non nutre un vero interesse soggettivo, acuto, per queste cose, le accoglie invece come i molti elementi che impara teoricamente, forse come qualcosa di meraviglioso che non comprende esattamente e con cui non sa che fare. Questo è proprio ciò che va bene, perché quest’argomento, nel tempo in cui gli impulsi del ragazzo lo accentuano con più forza, deve essere il più possibile qualcosa di già noto da lungo tempo, la cui conoscenza non provoca nulla di particolare. Il pericolo dell’educazione sessuale esiste solo quando coincide con gli impulsi spontanei del tempo della pubertà, come qualcosa di stupefacente, la cui acquisizione in questo momento nel quale tali esposizioni si caricano di sentimenti oscuri, inquieti, costituisce naturalmente una grande svolta. Se l’educazione inizia solo ora, si stacca nei confronti dello stato precedente come qualcosa di molto più significativo, con una sensibilità per il discernimento più forte che nella fanciullezza vera e propria e induce a un uso molto più intenso di tali rappresentazioni, nelle quali ora l’impulso intimo e la novità teoretica agiscono insieme. Quest’emozione complicata (komplizierte), che soprattutto genera o intensifica i peccati giovanili, viene però evitata quando questo periodo trova perlomeno la sfera immaginativa in quanto tale come una realtà da lungo tempo famigliare, un possesso quasi naturale. In questa sfera, nella sua trattazione teorica, non si può cercare in genere di ottenere di più del massimo della naturalezza e della disinvoltura nel suo rappresentare l’ingenuità che non consiste nell’esclusione di questo mostrare, ma invece proprio un’ingenuità che lo implica, che gli dà il suo colore. Ogni elemento sorprendente, misterioso, eccezionale deve essere tenuto il più lontano possibile dalla sua trattazione e dalla forma che assume nella coscienza del bambino. Ciò può avvenire prima di tutto se il bambino viene a conoscere questa sfera in un tempo in cui non la investe ancora con accenti

particolari, che provengono dai suoi impulsi oscuri e ha, quindi, tempo di inserirla nella sfera generale della coscienza, coordinandola con tutto il resto. La cosa migliore sarebbe che l’esposizione avvenisse nell’ora di storia naturale; quando il docente spiega la fecondazione delle piante, può anche senz’altro alludere a quella degli animali e può partire dalla riproduzione degli animali più infimi per operare così un passaggio il più possibile continuo e privo di sorprese. (Si deve sottolineare il meno possibile il maschile e il femminile dal punto di vista umano). Quando poi passa alla separazione del maschile e del femminile, che è nota a ogni bambino dal regno animale, può aggiungere senza mutare per nulla il tono: “Allo stesso modo è per l’uomo”. Nella letteratura troviamo peraltro proposte per affrontare la questione in modo un po’ più esatto. Comunque, è del tutto sbagliato pensare di affidare alla casa quell’educazione sessuale che si ritiene giusta. A casa, essa avviene correttamente solo in esempi eccezionali ed è, innegabilmente, più difficile, poiché là il bambino pensa immediatamente a suo padre e sua madre e questa accentuazione personale rende le rappresentazioni più intense sul piano emotivo e facilmente anche penose. Si tratta appunto di evitare questa accentuazione, e il modo migliore per farlo è operare la generalizzazione più grande possibile, capace di livellare tali rappresentazioni e ridurre il loro distacco dalle altre costellazioni immaginative. Tale generalizzazione è possibile in due sensi: in quello oggettivo, di cui ho parlato, che inserisce la generazione umana nella legalità della natura universale, nell’idea che noi siamo circondati in ogni istante da innumerevoli inizi di vita; e in quello sociologico, che esclude il più possibile da tali informazioni la realtà personale e intima. Ciò che viene comunicato a voce alta e apertamente a una classe di quaranta ragazzi, come una specie di calcolo, non viene certo recepito dal singolo come qualcosa di “particolare” e il fatto che egli lo condivida esattamente allo stesso modo con tutti, toglie alla cosa il fascino segreto, che è il suo pericolo. Lo scolaro deve sentire che questi aspetti sono per lo stesso insegnante fatti oggettivi – è nocivo il più leggero tono soggettivo, imbarazzato, esitante che si stacca dalla forma di comunicazione abituale –, e che egli non ha perciò alcun motivo per non comunicare a tutti in modo uniforme e comune ciò che è il correlato dell’oggettività. Se il ragazzo nota che l’insegnante tiene ancora qualcosa per sé, nasce subito la tentazione di andare più a fondo, di lambiccarsi il cervello, di completare

quanto è stato detto con conoscenze personali o informazioni e così viene rotto subito il carattere impersonale, generale, della costellazione ideale, che la rende innocua. A tale livello, questa sfera, non si distingue dal tipo di trattazione di tutti gli altri oggetti del sapere perché non ci si addentra in tutti i dettagli possibili ed è perciò consigliabile in maniera preparatoria sottolineare ovunque, anche quando si trattano altri oggetti nella storia naturale, che tanto il nostro sapere quanto la possibilità della comunicazione attuale sono in parte limitati. È perciò giusto, anche per motivi della formazione universale, che il docente in tutti gli argomenti proposti richiami l’attenzione degli scolari sul fatto che tutto quanto viene detto è solo una piccola parte di ciò che si sa o si desidererebbe sapere, che tutto ciò che essi imparano non è una totalità compiuta, che esaurisce l’oggetto. Lo scolaro, che ha un atteggiamento intellettuale più elevato nei confronti del mondo, sa sempre che tutto quanto egli sa è una parte di un mondo conoscibile enorme che lo circonda, che un cammino infinito, o perlomeno (per i primi gradi) molto vasto, si apre dopo la specializzazione come dopo l’ampliamento, di cui egli di volta in volta può conoscere solo un piccolo tratto. Se queste idee sono veramente patrimonio dello scolaro, anche quando verrà trattato l’argomento della sessualità, non nasceranno in lui pensieri dissimulatori, se il docente si esprime anche qui brevemente o non dice qualcosa, che forse lo scolaro sa già. Il problema pedagogico si pone in termini diversi durante e dopo la conclusione della maturazione sessuale, quando, insomma, non si tratta più in primo luogo di un’educazione teorica, ma di un comportamento pratico, interiore ed esteriore dello scolaro. A questo punto sentiamo dire dai pedagoghi che bisognerebbe presentare la castità come “un trionfo dello spirito sulla natura cieca”, si dovrebbe educare il giovane a “non avere tempo” per queste cose, in modo che le “sue passioni si rivolgano allo spirito, alla psiche e non al corpo”. Bellissimo! Ma si tratta solo di un raffinamento della politica dello struzzo che ha fatto tante disgrazie in quest’ambito. Mentre, infatti, il metodo precedente considerava tutto quanto è cattivo, difficile, come non esistente, e lo stato desiderato come quello normale e reale, il metodo attuale pone invero quest’ultimo come meta, ma procede come se fosse senz’altro raggiungibile, come se la sua eccellenza, il suo intimo valore, fossero già la forza reale che gli conferisce vita; esso vede l’abisso che l’altro negava, ma lo supera di un balzo, mentre tutto sta invece

nell’indicare ed edificare “ponti”1 su di esso e le strade che portano verso quelle mete. È facile dire che il giovane dovrebbe essere educato ad avere tempo e pensieri solo per la vita spirituale; non v’è bisogno di grandi discussioni sulla meta – mi si indichi, invece, come si debba fare per raggiungerla. Per prima cosa questa “natura” sulla quale lo spirito deve trionfare non è assolutamente “cieca”; essa piuttosto sa molto esattamente quello che vuole e punta con un occhio molto più sicuro di quello dello spirito, che, essendo più grande, soggiace a mille ponderazioni, oscillazioni, contro-istanze; in questa grandezza risiede il suo pericolo e anche in questo pericolo la sua grandezza. Tuttavia, non mi sembra per nulla giusto rendere spregevole la natura, la sua esclusione antagonistica dal mondo e dal valore dello spirito. Proprio l’inserimento della realtà sessuale in una sfera assolutamente priva di valore induce prima di tutto al lassismo e all’irresponsabilità, proprio come l’essere disprezzato (verachtete) a cui è soggetto il sesso femminile2 ha come effetto ovunque una mancanza di coscienza nella sua trattazione. Vi sono abbastanza fenomeni nella storia delle relazioni sessuali, in cui proprio il loro distacco da ogni valore e senso le ha fatte apparire ἀδιάφορον (indifferenti) facendone il teatro di una sfrenatezza anarchica. Non è alienandole e scacciandole dallo spirito, ma innalzandole allo spirito, che non solo si spezza il dualismo che rende insopportabile quel punto di vista, ma si mostra pure il cammino per dare loro la giusta posizione e nobilitarle. Avviene lo stesso nel rapporto fra le persone: se si tratta un uomo come un essere infimo ed emarginato, ben presto finirà per comportarsi realmente così, lo meriterà ex post (da fuori); se lo trattate cortesemente e come un vostro pari, anche lui, in genere, cercherà di adeguarsi e di rendersene degno. La richiesta spirituale non deve porsi di fronte alla sensualità come a un nemico, ma deve penetrare in essa per formarla, affinché possa inserirsi in un confronto (gegenübertreten) della vita unitaria universale, poiché il punto decisivo è che l’ordine, la purezza e la bellezza di questa sfera non nascono come un’esigenza estranea della “ragione”, dello spirito, o sa Dio di quale altra singola potenza del nostro essere, ma da essa stessa, che per così dire penetri in essa e si conquisti come suo compimento proprio, autonomo, intimo quella forma di sé che non può giungere da una pretesa eteronoma come qualcosa di realmente autentico e sicuro, e ancor meno se la si considera in genere inaccessibile a una legislazione di valore e separata da essa fin dal principio. La richiesta rivolta

alla sessualità di essere perfetta, per amore di se stessa, a partire da sé come sessualità, conduce ai comandamenti singoli del dominio di sé, del rispetto di sé, del decoro esteriore e interiore, che anche lo “spirito” le rivolge. Tutto ciò non solo non vieta, ma anzi presuppone, che l’autonomia di questa sfera sia abbracciata e attraversata dalla norma della totalità vitale. Possiamo concepire in termini diversi il rapporto tra la sensibilità e lo spirito: non bisogna mai disconoscere, però, che appartengono a una vita. Facili o difficili da trattare, posti fin dall’inizio in alto o in basso, la vita come realtà totale, unitaria, li implica [spirito e sensibilità] entrambi, deve accordarsi con entrambi, deve guidarli nel suo senso. La trattazione della sfera della sessualità deve senz’altro avere la tendenza a strapparle la fatale posizione eccezionale nello stesso senso in cui per i primi gradi dell’insegnamento si trattava soprattutto di evitare il suo distacco dal carattere delle altre informazioni didattiche. Se si intende la sessualità come una manifestazione della vita, che si intreccia a parità di diritto con tutte le altre nell’esistenza universale, essa è sottoposta agli ideali universali e alle norme della vita che puntano al suo innalzamento e alla sua armonia. E così tutto è acquisito. Con tutto ciò che si leva dall’essere di questa sfera come sua esigenza autoctona, suo immanente perfezionamento, solo la corrente della vita – individuale e sociale – scorre verso la meta che noi di volta in volta le fissiamo. Da questa posizione nei confronti della vita in genere discende anche il giusto concetto del dominio di sé e del rigore, che produce questa sfera come la sua richiesta essenziale per la gioventù. Per quanto molteplici e spesso stupefacenti siano le norme della vita sessuale, che incontriamo nel corso della storia, per principio essa è sempre stata sottoposta a un qualche ordine. Ma l’ordine è di fatto impossibile senza il dominio di sé. E ora si tratta di comprendere che questi princìpi, anche se primariamente si oppongono (gegenüberstehend) alla vita e la soggiogano, derivano da essa stessa, e che l’ordinamento impostole non è che una sua espressione organica. Se in mezzo vogliamo introdurre l’istanza dello spirito dal quale scaturirono ordinamento e legge, anch’esso è appunto una potenza della vita, non è un canale costruito dall’esterno nel quale la sua corrente viene imprigionata e guidata, bensì uno dei suoi letti fluviali che ha scavato per sé, la cui forma determina sì il suo corso, ma non è che il simbolo permanente della sua forza, della ritmica e direzione. Il fatto che la vita domini se stessa è un suo carattere proprio e il dominio di sé, specialmente in questo campo, viene posto nella luce giusta

solo quando si sente totalmente che il sé in essa non è solo oggetto, ma anche soggetto. Perciò, la sessualità non viene scacciata dalla vita come il suo nemico, cosa di cui si vendicherebbe con l’inevitabile risentimento del paria [straniero], ma ogni discorso su di essa la deve assumere nella vita, e solo così può nobilitarla per i suoi valori e le sue forme significative. Come per la sua trattazione al primo grado si dibatteva di farla partecipare senz’altro all’ingenuità della prima infanzia, impedendole di uscire da questo tono generale dell’infanzia con la spontaneità, la disinvoltura e la continuità del discorso, così anche nei periodi successivi non deve separarsi dagli altri elementi a cui la vita può consacrarsi. Lo spirito non deve trionfare sulla natura con la castità e l’ordine, e quindi il dualismo – se già esiste di fatto – non deve ancora legittimarsi e idealizzarsi, ma con tali tratti questo elemento della vita deve conquistare la consacrazione a cui, raggiunta o no, la vita universale è chiamata. Giacché, come ci dice l’esperienza, non viene acquisito un atteggiamento in qualche modo sufficiente nei confronti della sfera sessuale, quando la si respinge come qualcosa di malvagio, come continua ancora ad accadere nella pedagogia più liberale, sarà certamente più giusto farla sentire come qualcosa di sacro, ordinandola nella vita e nelle sue norme. So molto bene che le difficoltà pratiche della gioventù non saranno risolte, qualunque sia l’atteggiamento psichico che si finirà per assumere nei confronti di questo problema. Perché esse nascono essenzialmente dal fatto che, al di là dei conflitti psicologici, che anche l’atteggiamento cui si è alluso implica e che appartengono direttamente alla vita nella sua profondità e forza, sussistono delle discordanze fra i valori intimi, le necessità dell’individuo e gli ordinamenti storico-sociali. Quanto è bello e giusto dal punto di vista della vita personale si frantuma innumerevoli volte contro le forme che la società, qui in un modo e là in un altro, ha formato come sua necessità. Ancora una volta la vita deve distendersi per assorbire in sé tale contrasto, per sentire le leggi e i divieti, che in un primo momento ci appaiono come qualcosa di esteriore, estraneo, casuale, come una realtà, alla fine, interiore, come qualcosa che è compreso nel cerchio più ampio della vita e del suo significato, e che è unito al suo centro. Quanto meno uno dei nostri ultimi compiti è quello di saper comprendere, come intime necessità di quella vita stessa, i conflitti che nascono fra le norme della vita personale e quelle

sociali, nello stesso modo in cui quei puri conflitti psicologici fra natura e spirito o sensibilità e ragione o in qualunque altra autonomia laceriamo l’unità della vita, ci apparivano i battiti del polso di questa vita unitaria, come le stazioni necessarie per giungere ai suoi valori più alti. Abbiamo così detto che non possiamo risparmiare ai giovani quelle lotte e difficoltà, meno che mai con le solite prediche morali, che, dopo aver scisso l’uomo, si pongono assolutamente su un lato della scissione, dal quale non possono incrinare la forza dell’altro perché non la colgono alla radice, che, comune a entrambi, giace sotto la frattura. Possiamo solo tentare di fortificare la gioventù di fronte a queste realtà inevitabili convincendola che una tale lotta non è sospesa priva di nessi sopra alla vita, ma è parte della sua unità e tendenza e che tutte le forze della vita, invece dello “spirito” isolato, divengono utili alla lotta. La profonda differenza fra l’educazione sessuale nelle prime e nelle ultime classi emerge dal fatto che, mentre nel primo caso essa era assolutamente pubblica e universale, nell’altro possono essere di tanto in tanto molto utili conversazioni private con gli scolari. Se vi è infatti vita sessuale, è naturalmente individuale e proprio in questa sfera il giovane sente le proprie necessità e i propri problemi, forse perché hanno un carattere segreto, come qualcosa di assolutamente proprio – come Goethe dice quando parla della gioventù nella quale si pensa di essere “gli unici ad amare e che nessun uomo abbia mai amato così, né potrà mai amare”. Nel primo caso si tratta di un sapere oggettivo che deve essere senz’altro comunicato in termini universali, nel secondo del tentativo di agire sulla volontà, sul sentimento, sulla vita, che sono sempre individuali. Io credo che il dialogo con un insegnante, che dà al giovane l’impressione di una sicurezza morale e al tempo stesso di una libertà priva di pregiudizi, possa in questo caso essere molto efficace. Per ottenere la fiducia necessaria, il maestro non deve fare prediche morali dall’alto, perché altrimenti ritorna subito il dualismo di fronte al quale il giovane è disorientato e a partire dal quale, non può essere aiutato. Se si vuole aiutare qualcuno in difficoltà [che riguardi] in generale la morale, non si può venire dal di fuori, ma occorre mettersi sul piano dell’altro, cioè dentro a tutta la sua vera vita e da questo dato di fatto cercare di ascendere per purificare e indicare una direzione. Per offrire al giovane questa impressione che sola risveglia la sua fiducia, di essere dapprima per una volta accanto a lui e non di fronte a lui, il docente non deve temere di sottolineare che tali difficoltà non sono risparmiate a nessuno (niemandem), e in un

dialogo privato può lasciare intuire che lo sa per esperienza diretta. Più il giovane si sente uguale al docente nel punto di partenza, tanto più sarà pronto a farsi condurre alla sua meta3. 1 Il pensiero simmeliano riguardo le metafore relazionali come il “ponte” matureranno nell’opera: G. Simmel, Ponte e porta, tr. it. di M. Cacciari e L. Perucchi, in Id., Saggi di estetica, Liviana, Padova 1970; inoltre, si vedano A. De Simone, L’ineffabile chiasmo. Configurazioni di reciprocità attraverso Simmel, Liguori, Napoli 2007, pp. 127-132; Id., Il ponte sul grande abisso. Simmel e il divenire dell’essere, Morlacchi, Milano 2015, 3ª rist. 2 In questo ambito riguardante l’educazione sessuale rivolta agli adolescenti e alle differenze di genere, Simmel accenna alla psicologia femminile, che, invece, è trattata in modo dettagliato e analitico in Sulla psicologia femminile, in G. Simmel, Filosofia dell’amore, tr. it. di P. Capriolo, a cura di M. Vozza, Donzelli, Roma 2001. 3 È opportuno sottolineare – in conclusione ma senza conclusione – che Simmel, da filosofo, ha riposto attenzione sulla tematica della psicologia dei sessi; infatti, prima di parlare dell’“Educazione sessuale” nelle Vorlesungen (1915-1916), qui trattate, ha affrontato Il relativo e l’assoluto nel problema dei sessi (1911) che troviamo pubblicato in G. Simmel, Filosofia dell’amore, cit., pp. 91-121, e Il problema dei sessi (1913), in Id., L’etica e i problemi della cultura moderna, cit., pp. 88-90.

PROFILO BIOGRAFICO DEL CURATORE Alessandra Peluso, dopo gli studi classici, si forma filosoficamente nell’Università degli Studi di Lecce con una dissertazione su Georg Simmel: tecnica e critica della cultura. Si perfeziona in Bioetica, Diritti Umani e Politica. È dottore di ricerca in Scienze bioetico-giuridiche. Ha coadiuvato la realizzazione del Progetto sull’Enciclopedia di Bioetica e Scienza Giuridica (2009-2017). Collabora con l’Università del Salento (Bioetica, Filosofia politica, Storia della pedagogia) ed è cultrice di Storia della filosofia dell’Università di Urbino. Docente di Filosofia e Scienze Umane nei Licei. È autrice di saggi su Simmel, Camus, Arendt. Inoltre, ha pubblicato varie raccolte di poesie e il volume Happy different. Per una filosofia del benessere (2015).

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Frontespizio Profilo biografico del curatore Alessandra Peluso. Saggio introduttivo. Pedagogia e vita tra filosofia e cultura in Georg Simmel Nota del traduttore e curatore Opere di riferimento Riferimenti bibliografici Prefazione del curatore (Vorrede des Herausgebers) Introduzione (Einleitung) Il rapporto essenziale tra educazione e insegnamento (Das grundsätzliche Verhältnis zwischen Erziehung und Unterricht) L’attenzione e l’apprendimento (Von der Aufmerksamkeit und dem Lernen) La coerenza (Von der Konsequenz) Le domande (Vom Fragen) La valutazione (Von den Beurteilung) Le punizioni (Von der Strafen) La lingua e le lingue (Von der Sprache und den Sprachen) Il tema (La prova del tedesco) (Vom deutschen Aufsatz) Il tema (La prova del tedesco) (Vom deutschen Aufsatz) Lezione di storia (Vom Geschichtsunterricht) Educazione morale (Von der sittlichen Erziehung) Appendice sull’educazione sessuale (Anhang über sexuelle Aufklärung)

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