Sulle tracce del manticora. La zoologia dei confini del mondo in Grecia e a Roma 8880205315, 9788880205319

Ricostruire la storia del manticora, leggendario animale fantastico dell'antichità classica, dà il pretesto per ten

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Sulle tracce del manticora. La zoologia dei confini del mondo in Grecia e a Roma
 8880205315, 9788880205319

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LETTERATURA CLASSICA

Collana fondata da Giusto Monaco e diretta da Giusto Picone 26

Pietro Li Causi

Sulle tracce del manticora La zoologia dei confini del mondo in Grecia e a Roma

PALUMBO

a Gaspare, Coletta, Chiara, Irene

© Copyright by G. B. Palumbo Editore & C. Editore S.p.A. - 2003 Proprietà letteraria dell’Editore Stampato in Italia

ISBN 88-8020-531-4

INDICE

PREFAZIONE INTRODUZIONE

9 11

CAPITOLO 1

Prologo sul manticora

17

0. Un acquisto all’Emporio celeste

17

1. Cacciare un manticora

23

1.1 Il cacciatore si ferma e si guarda intorno (ovvero: come parlare del manticora?)

23

1.2 Studiare un animale “fantastico”: una discussione sull’approccio “criptozoologico”

24

1.3 Chiarirsi le idee: il manticora è un τεvρας ?

30

1.4 L’animale “fantastico” come rappresentazione

33

1.4.1 Il manticora come rappresentazione culturale e i limiti dell’antropologia del mondo antico

36

1.4.2 Una ritrattazione apparente: sull’anacronismo e l’utilità delle “rappresentazioni”

38

1.5 Che tipo di rappresentazioni sono le rappresentazioni relative ad un animale “fantastico”?

43

1.5.1 Alcune considerazioni su una battuta di caccia al drago

43

1.5.2 Modulare un modello: Sperber e le rappresentazioni semi-proposizionali

47

2. Raccontare il manticora (ovvero: il nocciolo duro dei tratti)

55

2.1 Storia e storie di Ctesia

55

2.2 Mantichora in fabula: cronistoria delle apparizioni del mostro indiano

62

2.3 L’omologazione dei tratti

66

3. Il manticora a pezzi. L’analisi dei singoli tratti e alcuni animali analoghi

68

3.1 Il manticora si nutre di carne (umana)

69

3.2 Altri “mostri” carnivori: il manticora, il tritone e il toro dell’Etiopia

70

3.2.1 Il manticora ha gli occhi “glauchi”

73

3.2.2 Il manticora ha gli occhi glauchi simili a quelli dell’uomo

77

3.3 Il manticora, il cinabro, il sangue

80

3.4 Eliano 4, 21: corpo di leone, pelo di cane

83

3.5 Veloce come un cervo, dall coda di scorpione

86

5

3.6 Il verso del manticora

88

3.7 Ricomporre i pezzi: un’ulteriore versione del manticora

93

CAPITOLO 2

Ipotesi sul manticora. Aristotele e gli animali “paradossali”

95

0. Investigazioni fantasiose

95

0.1 C’è un manticora a palazzo? (ricostruzione ipotetica di una giornata alla corte del Gran Re) 0.2 C’è un manticora a palazzo!

1. Spazi, luoghi, animali

95 100 103

1.1 «Non si può che usare un obiettivo sfocato o un fucile senza mirino…» 103 1.2 Il sapere di Erodoto, ovvero una delle tante “zoologie” prima della “zoologia” 1.3.1 L’India, le formiche e i cammelli 1.3.2 L’animale come spazio in Aristotele: dal sapere meraviglioso alla sistemazione del sapere, dalla singolarità alla generalizzazione

112

1.4 Usare le Storie: il coccodrillo, Erodoto e Aristotele

117

2. Il mondo ipotetico

104 106

131

2.1 Discorso vero e discorso falso 2.2.1 Ritorno al futuro: mostri inglesi e mostri greci 2.2.2 Credere agli unicorni: le ipotesi di esistenza degli animali “favolosi” e le risegmentazioni del mondo 2.3.1 L’inventario ipotetico del mondo 2.3.2 Ritorno al manticora

131 132

2.4 Il manticora e il viso dell’uomo

153

2.5 Se il manticora fosse un ibrido…

160

3. La scomparsa del mostro: ovvero il paradosso dei paradossografi

136 146 148

168

CAPITOLO 3

Passaggio in Etiopia: il manticora nell’inventario di Roma

171

0. Il manticora, i carri armati e gli armadilli: la fine di un futuro possibile

171

1. Ritorno al passato: comprendere i mostri

175

2. La migrazione in Etiopia: alcune considerazioni su Nat. Hist. 8, 72-74 2.1 La rete dell’Etiopia: il contesto paradigmatico e il contesto sintagmatico 2.2 Scambi di luogo: la storia di Plinio lettore

183

2.3 Dall’asse di divisione al ritorno della “localizzazione”

192

2.4 Criteri di classificazione folk nell’inventario della Naturalis Historia

194

3. Credere al manticora 3.1 Motivazioni sociali: il circo e il foro dei mostri come spazi paradossografici

6

177 177

202 202

Indice

3.2 Plinio lettore di Aristotele: l’inventario come ideologia 209 3.3.1 Le causae genitales: come nascono gli ibridi mostruosi dell’Africa? 214 3.3.2 Il collasso epistemologico: da Cicerone ai mirabilia 218

4. Tratti assenti e tratti in eccesso: alcune osservazioni sulle marche di descrizione del manticora

224

4.1 Tratti in absentia: le inimicizie del manticora e la caccia a dorso di elefante

224

4.2 Un tratto in eccesso: il manticora ha voce umana

232

5. Ritorno in India: il manticora di Solino

238

CAPITOLO 4

Fine delle trasmissioni: Eliano, Pausania, Filostrato, Eusebio e gli ultimi passi di un animale ipotetico

245

0. Scherzi del destino. I canguri e il manticora: nuove considerazioni su Ctesia (… come per una conclusione anticipata)

245

1. Eliano: il manticora che si morde la coda 1.1 Il manticora è ancora vivo (e di Ctesia non v’è traccia) 1.2 Il ritorno di Ctesia: la seconda sezione della versione di Eliano del manticora 1.3 Il ritratto del manticora e il mantello di Aristotele: digressione su una possibile eredità peripatetica in Eliano 1.4 Ai confini dell’etologia: l’uomo e il manticora 1.4.1 L’uomo e la pernice: Eliano e il dibattito sull’intelligenza degli animali 1.4.2 Il manticora non è buono per pensare gli uomini! 1.5 Divagazioni mostruose: il modello (distorto) di Empedocle e gli argomenti statistici

2. Dal manticora alla tigre: la razionalizzazione di Pausania 2.1 Caccia alla tigre? 2.2 Caccia alla tigre! 2.3 Integrazione e correzione: il manticora, il tritone e gli “avvistamenti” di Pausania

3. Filostrato: Apollonio di Tiana e la scomparsa del manticora 3.1 L’inizio dell’interruzione (o della asparizione del manticora) 3.2 Oltre le orme di Alessandro: la costruzione dell’autorità di Apollonio, la finzione dell’India e i livelli di realtà

4. Fine delle trasmissioni: il manticora perde il suo fascino

251 251 254 257 261 261 265 268 275 275 278 283 290 290 291 297

CAPITOLO 5

La coda del mostro (come una conclusione)

301

0. Preludio (un inizio prima della fine)

301

1. Sapere enciclopedico e sapere simbolico: come iscrivere il manticora nel libro della natura

305

Indice

7

2. Il manticora non è molto buono per pensare

307

3. I motivi del “contagio” e la sua fine

308

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

311

INDICE DEI PASSI CITATI

333

INDICE DEGLI AUTORI MODERNI CITATI

347

INDICE DELLE COSE NOTEVOLI

353

APPENDICE

359

8

Indice

PREFAZIONE

«… no era un atroz bastardo de tigre y potro, sino a la vez esas dos criaturas vehementes y también un toro, una rosa, una tempestad». (J. L. Borges, Las ruinas circulares)

L’idea di studiare gli animali che noi consideriamo meravigliosi nasce dall’incontro casuale, fra gli scaffali della Libreria Pellegrino di Marsala, con il Manuale di zoologia fantastica di Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero. Nel leggere delle anfesibene, dei basilischi, delle corocotte, delle leucrocote e degli altri mostri evocati dalla spaventosa memoria letteraria dello scrittore argentino, si insinuava in me il desiderio di leggere e quasi vedere quei mostri portentosi, se non con gli occhi di chi li aveva descritti per la prima volta, con lo sguardo e la disposizione di chi, in Grecia e a Roma, ne sentiva parlare dai racconti dei viaggiatori, dagli storici e dai geografi. Nel fare questo, benché le descrizioni dei mostri spaventosi che popolavano i confini del mondo conosciuto dagli antichi sembrassero evidentemente prive di corrispettivi materiali nel nostro mondo, benché apparissero come meri significanti che non avevano alcuna referenza extralinguistica, mi sono reso conto che avevo davanti qualcosa di ambiguo e opaco, ma ad un tempo fortemente “reale” e – potremmo dire – corposo e plastico: la maniera degli antichi di pensare il mondo, i loro schemi di rappresentazione della realtà, i loro sistemi di comunicazione. In altre parole, i loro “costrutti culturali”. Ho intuito subito quindi che raccontare la storia (o meglio riraccontare le diverse storie) del manticora non significava raccontare una frottola o darle credito, ma tentare di capire in base a quali modelli di pensiero e in base a quali meccanismi di trasmissione del 9

sapere potesse essere possibile credere al manticora e a tutte le notizie paradossali che circolavano sugli esseri dei confini del mondo allora conosciuto. Si trattava pertanto di ricostruire i contesti nei quali le rappresentazioni relative alle belve favolose si producevano e finivano per diffondersi. Nel raccontare e nel ricostruire gli “ambienti” di questa storia mi sono state di prezioso aiuto le conversazioni con Gianni Guastella, Giusto Picone ed Elisa Romano. Senza i loro suggerimenti probabilmente non sarei mai riuscito a portare avanti la mia ricerca. Un ringraziamento particolare va a Roberto Pomelli, che ha letto assieme a me molti dei passi discussi nel corso del presente saggio e che è sempre stato, in questi anni, un ottimo compagno di letture e di riflessioni ed un amico sincero. Ringrazio inoltre Maria Michela Sassi, Patrizia Pinotti, Laura Gibbs, Andrea Carbone, Andrea Cozzo, Valeria Andò, Marco Picone, Vincenzo Guarrasi, Maurizio Bettini, Lucia Beltrami, Giuseppe Mastromarco, Viktor Caston, Salvatore Nicosia, Francesco Caparrotta, Valentina Mangiaforte, Sabrina Grimaudo, Isabella Tondo, Vincenzo Rotolo, Giancarlo Mazzoli, Sergio Giacalone per avere occasionalmente discusso insieme a me intorno a problemi inerenti alla mia ricerca e per avermi dato preziosi suggerimenti ed indicazioni. Vorrei inoltre qui ricordare la cordialità e la disponibilità di Adriana Romaldo e Cristina Clausi del centro A. M. A. di Siena. Un tenero ringraziamento va poi a mia moglie, Chiara Insinga, per avere letto attentamente il primo capitolo di questo libro e per avermi suggerito il titolo da dare al lavoro. Voglio infine ricordare il premuroso affetto di Domenico Romano, che mi è stato sempre vicino con i suoi incoraggiamenti, i suoi racconti e i suoi ricordi.

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Pietro Li Causi

INTRODUZIONE

«È incredibile quanti errori psicologici, intellettuali, filosofici possa fare una persona che sta per andare in India». (G. Manganelli, Esperimento con l’India)

La storia che sto per raccontare non è, per usare un’espressione di Jacques Le Goff, la storia «di quelle che noi ora chiamiamo meraviglie»;1 anzi, per essere più precisi, forse non si tratta neanche di una “storia” nel senso più tradizionale del termine. Si tratta piuttosto di una raccolta di narrazioni (o meglio: di descrizioni) relative ad un essere che qualcuno potrebbe facilmente classificare come uno dei tanti esseri meravigliosi dei Greci e dei Romani: il martichoras. Come si vedrà nel corso della trattazione, il manticora era – secondo le descrizioni che di esso ci sono pervenute – un animale antropofago con il viso di uomo, il corpo di leone, la coda di scorpione 1. Cfr. Le Goff 19993, pp. 5-6. Per una storicizzazione del concetto di “meraviglioso” cfr. Daston e Park 2000, pp. 16 sgg. (spec. p. 18 «Queste [ndA: quelle che noi chiamiamo “meraviglie”] corrispondono a un’ampia categoria che comprende tutto ciò che si chiama immaginario o fantastico e che è definita soprattutto per esclusione come ciò che non rientra nelle attuali concezioni di razionalità, credibilità e buon gusto: i prodotti dell’immaginazione, le invenzioni del folclore e delle fiabe, le bestie favolose delle leggende, le stramberie da fiera, la stampa popolare, e più recentemente l’inquietante in tutte le sue forme. Poiché questo modo di vedere le meraviglie fu una creazione dei pensatori illuministi, non sorprende che, come nota lo stesso Le Goff [Le Goff 19993, pp. 5 sgg.], gli scrittori medievali “non possedevano una categoria psicologica, letteraria o intellettuale” corrispondente all’attuale merveilleux. Storie della meraviglia basate su questa definizione anacronistica risultano evocative per i lettori d’oggi, ma mancano di coerenza storica e precisione»).

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e i denti disposti in tre file orizzontali per ogni mascella. I suoi tratti erano dunque eccessivi e – per così dire – “perturbanti”; anzi, erano perfino troppo perturbanti, tanto da superare, ai nostri occhi, i limiti della credibilità e della razionalità. Bisogna comunque dire che i nostri occhi (e la nostra maniera di vedere le cose) non sono affatto gli occhi degli antichi. Benché infatti avessero le categorie del memorabile, del mirabile, del thaumastòn e dell’axion mnemes, i Greci e i Romani non potevano certo considerare i dati relativi al manticora (o altri dati analoghi) nella stessa maniera in cui – ad esempio – gli illuministi consideravano l’insieme di stranezze che avevano classificato come merveilleux;2 tanto più che, proprio a proposito delle rappresentazioni del manticora – come si vedrà più avanti – non è mai presente alcuna spia linguistica che rimandi esplicitamente all’area semantica del thaumastòn o del mirabile. Il sospetto di essere davanti ad un dato curioso nasce semmai dalle modalità di esposizione volta per volta usate dai diversi autori, i quali tutt’al più si limitano unicamente a segnalare l’esoticità della bestia. Il manticora era dunque, innanzitutto, un “animale dell’altro mondo”; per la precisione, un animale di quei confini del mondo conosciuto, che potevano essere ora l’India, ora l’Etiopia; regioni, queste, che, per la loro incolmabile distanza dal centro civilizzato della terra, non potevano che alimentare leggende su popolazioni fantastiche, dagli attributi e dalle abitudini incredibili, e su stranezze biologiche di ogni sorta. In quanto animale dell’altro mondo, poi, il manticora era anche un essere “invisibile” che – come si vedrà più avanti – poteva essere descritto soltanto mediante lo sguardo vicario dell’ostensione analogica. Per mostrare il manticora agli occhi dei Greci e dei Romani bisognava infatti ricorrere ai tratti noti di esseri comuni e familiari. Da ciò ne viene fuori, di conseguenza, che il manticora non era un animale comune e familiare. Il suo universo di realtà era principalmente un universo di comunicazione: l’esistenza di questa belva era una notizia, una “diceria” messa in giro da Ctesia, una favola, un racconto leggendario o, finanche, una menzogna. Nessuno – ovviamente – aveva mai catturato un manticora in carne ed ossa e pertanto, benché i suoi tratti fossero tendenzialmente omologati, non esisteva un solo manticora; esistevano semmai – per così dire – tanti esemplari di manticora quante erano le versioni che lo descrivevano. Il racconto che sto per fare, dunque, non può che essere la raccolta e l’analisi di tutti i racconti (le narrazioni) che riguardano la ferocissima belva indiana (o, a seconda della versione di cui tenere conto, etiopica). Nel fare questo ho scelto un arco di tempo lungo otto seco2. A questo proposito cfr. Daston e Park 2000, pp. 283 sgg.

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Pietro Li Causi

li, dalla comparsa della prima rappresentazione pubblica dell’animale (con gli Indikà di Ctesia, nel IV sec. a.C.) fino alla sua sparizione, nel IV sec. d.C., con Eusebio di Cesarea che, nel Contro Ierocle, negava l’esistenza di questo e di altri mostri dell’India dei quali aveva parlato Filostrato nella Vita di Apollonio di Tiana. Prendere in esame le varie rappresentazioni relative al manticora, però, significherà non soltanto analizzare i racconti, ma anche descrivere i contesti e – per così dire – gli “ambienti” culturali ed intellettuali nei quali questi racconti sono nati e sono potuti essere “trasmessi”. La descrizione del manticora che farò nel corso del mio lavoro non sarà dunque soltanto la narrazione compiaciuta di un dato per noi curioso, ma si prefigge innanzitutto di essere un contributo per lo studio degli animali paradoxa nella storia naturale degli antichi e, soprattutto, per la comprensione dei modelli epistemologici e degli ordini di natura che hanno fatto da sfondo ad essa. In questo senso sarà interessante notare come la “storia” del manticora sia stata, almeno prima del Medio Evo, tendenzialmente statica. L’ordine di natura che giustificava questo essere (presentato quasi sempre, per l’appunto, come un ente di natura) rimase tendenzialmente invariato da Ctesia fino a Solino. Soltanto con il cristianesimo di Eusebio di Cesarea, secondo il quale ogni notizia trasmessa dai pagani doveva essere considerata di per sé come non credibile, il panorama intellettuale mutò di molto. Per il resto, all’interno di un universo di realtà in cui la Natura operava in maniera progressivamente sempre più inaspettata mano a mano che ci si avvicinava ai margini del mondo, il manticora poteva essere considerato un essere credibile ed ammissibile. Nel corso della lunga durata degli otto secoli, comunque, nell’ambito di questo stesso universo di realtà, le sensibilità degli autori e le interpretazioni della rappresentazione relativa al manticora dovettero mutare di gran lunga le une rispetto alle altre. È di queste variazioni che il mio lavoro intende occuparsi, e dei contesti nei quali esse si innestano. Nel fare questo ho scelto di seguire un cammino sinuoso (e a volte desultorio) che solo in parte segue un criterio cronologico di ordinamento del materiale. Tanto per cominciare nel primo paragrafo del primo capitolo (Prologo sul manticora), cerco di fare il punto sulle “maniere di leggere” gli animali “fantastici”. Piuttosto che collocare a tutti i costi questi esseri nella sfera dei realia, effettuando così pericolose identificazioni criptozoologiche con specie ancora esistenti (o estinte da tempo), propongo di prendere in esame i singoli racconti relativi al manticora e di considerarli in termini “rappresentazionali”. Nel fare questo tengo presente il modello epidemiologico proposto da Dan Sperber (1999, pp. 81 sgg.); un modello, questo, che ha il merito, a mio avviso, di considerare le Introduzione

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variazioni nella trasmissione di una rappresentazione culturale non nei termini della copia e della “collettivizzazione”,3 bensì nei termini dell’adattamento nell’ambito di mutati contesti psicologici ed “ecologici”. Soltanto, nel seguire Sperber, intendo stemperare il razionalismo universalista da cui muove l’antropologo francese, sulla base della linea seguita da Byron Good (1999, pp. 6 sgg.), secondo il quale, data una rappresentazione culturale, non si deve parlare a priori di “credenza” (con tutte le sfumature negative che sono state attribuite al termine dalla tradizione antropologica occidentale), ma bisogna piuttosto cercare di capire se e come si può parlare di un sistema di “conoscenze”. Nella seconda sezione del primo capitolo mi concentro sui tratti comuni presenti nei vari interpretanti del “racconto”, tratti che vengono in un certo senso a costituire una sorta di tipo cognitivo omologato della belva. A seguire, passo quindi in rassegna le analogie del manticora con altri esseri (immaginari e non) dai tratti tendenzialmente similari. Il quadro che ne viene fuori è quello di una rete di somiglianze che possono essere considerate significative e pertinenti non solo dal punto di vista dell’ostensione analogica, ma anche nel senso dell’inferenza fisiognomica. Cerco infatti di dimostrare come le analogie e le metafore servissero non solo ad “indicare” un’entità sconosciuta e a renderla così conoscibile, ma anche a fissare una rete di corrispondenze semiotiche secondo le quali, in presenza di una ben determinata similitudine usata come marca di descrizione, era possibile inferire un determinato ethos dell’animale. In particolare, nel corso del terzo paragrafo del primo capitolo, cerco di dimostrare come tutti i tratti del tipo cognitivo del manticora potessero essere connotati negativamente da tutti gli interpretanti e come avessero principalmente la funzione di sottolineare la ferocia e la perversità della belva. Nel secondo capitolo (Ipotesi sul manticora: Aristotele e gli animali “paradossali”), che si apre con un vero e proprio “apologo” sulla conoscibilità del manticora (un racconto fittizio che intende essere soltanto esemplare), cerco di analizzare la prima delle versioni pervenutaci in ordine di tempo, ossia quella aristotelica (Aristot. Hist. Anim. 2, 1, 501 a 24 sgg.), inserendola nel contesto complessivo 3. Sperber (1999, spec. p. 105) pone fortemente l’accento sul fatto che, nella trasmissione di una rappresentazione da un ricevente ad un altro, è pressoché impossibile che si verifichi una “copia” perfetta del messaggio trasmesso. Da ciò ne consegue evidentemente che le “credenze”, o le rappresentazioni culturali in genere, non possono essere condivise “collettivamente” tutte alla stessa maniera dai diversi membri di un gruppo, dal momento che ognuno di essi avrà una diversa rappresentazione mentale della rappresentazione trasmessa. In questo senso si deve semmai parlare di una “somiglianza di contenuto” fra le diverse rappresentazioni mentali dei diversi interpretanti.

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Pietro Li Causi

dell’opera dello Stagirita (e in special modo della Historia Animalium). In particolare, attraverso l’analisi delle modalità di citazione degli storici (in particolare di Erodoto e Ctesia) in Aristotele e della maniera di trattare gli esseri che rientravano in quello che chiamo l’«inventario ipotetico del mondo», tento di dimostrare come l’ipotetica esistenza del manticora, molto più di quanto non potesse accadere per gli altri esseri aporetici menzionati nella Historia Animalium, fosse “antropologicamente” problematica per lo Stagirita e come, ad un tempo stesso, venisse usata dall’autore come “operatore di autorità” ai fini di una sapiente strategia di autolegittimazione del proprio “discorso scientifico” a scapito della credibilità di Ctesia. Il capitolo si chiude con una breve appendice sull’assenza del manticora nell’opera di Antigono di Caristo. In questo ultimo paragrafo si cerca di fare vedere come il silenzio circa un essere come il manticora, nell’opera del paradossografo, possa essere, in un certo qual modo, la prova dell’esito positivo della strategia di autolegittimazione messa in atto dallo Stagirita, fonte principale di Antigono. All’analisi della versione pliniana del manticora dedico il terzo capitolo, dal titolo Passaggio in Etiopia: il manticora nell’inventario di Roma. In questa sezione cerco di spiegare le motivazioni in base alle quali l’animale è diventato, nel testo della Naturalis Historia (e, in seguito, in Solino) un vero e proprio “dato di fatto”. Nel far questo, a seguito di un discorso sui principi di classificazione folk che operano implicitamente in tutti i libri zoologici scritti dall’enciclopedista romano, tento di mettere in evidenza tre principali cause dell’atteggiamento pliniano nei confronti del manticora (e di esseri analoghi). Una prima motivazione sarebbe stata meramente sociale: il crescente interesse per i mirabilia a Roma avrebbe in un certo senso fatto da effetto sponda alla generosa disponibilità alla credenza da parte di Plinio (e al suo particolare gusto per il “favoloso”). In questo senso la stessa scrittura della Naturalis Historia sarebbe stata, per certi versi, l’immagine letteraria dell’effettiva esposizione, all’interno dell’Urbs, dei vari freaks of nature dei quali ci ha parlato anche Plutarco (de curiositate, 520 C 1 sgg.). Un secondo motivo che poteva aver spinto Plinio a “credere” al manticora doveva essere legato a cause prevalentemente ideologiche: le recenti conquiste avevano marcato con il segno di Roma territori pressoché inesplorati in precedenza. In questo senso dominare, e presentare come certo, un sapere sull’Etiopia (o sull’India), che pure era ancora fondato su basi poco sicure, significava in un certo senso “dominare” simbolicamente l’Etiopia stessa (o l’India). In ultima istanza, dopo l’analisi di alcune teorie sulle causae genitales dei mostri (presentate da Plinio stesso in alcuni passi della sua Naturalis Historia), riallacciandomi alle conclusioni alle quali è giunta Elisa Romano in un suo recente intervento (Romano 1998, pp. Introduzione

15

137 sgg.), propongo di ricondurre l’atteggiamento pliniano nei confronti del manticora al “collasso epistemologico” che avrebbe interessato la cultura romana nei secoli I a.C. e I d.C. Nell’ultima parte del capitolo tratto brevemente la variazione più vistosa nella versione pliniana: l’imitazione della voce umana. Per concludere inserisco un’appendice in cui prendo in esame il passo di Solino in cui viene descritto l’animale in questione. Comincio il quarto capitolo (dal titolo Fine delle trasmissioni: Eliano, Pausania, Filostrato, Eusebio e gli ultimi passi di un animale ipotetico) con una digressione sul “diritto di proprietà” della notizia relativa al manticora mantenuto nei secoli da Ctesia e tento di spiegarlo con la mancata produzione (o il mancato reperimento) di prove materiali o di indizi relativi all’esistenza della belva. Dopo l’analisi della versione di Eliano passo quindi ad illustrare i passi dei tre autori (Pausania, Filostrato ed Eusebio di Cesarea) nei quali l’animale in questione viene razionalizzato o addirittura negato. In quest’ultima sezione del capitolo (che comprende i paragrafi 2, 3 e 4) cerco di fare vedere come la negazione del manticora si innesti, in ognuno degli autori, in progetti culturali completamente differenti gli uni dagli altri.

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Pietro Li Causi

CAPITOLO 1

Prologo sul manticora

«Pensava a delfini dal dorso spinoso che balzavano oltre gli alberi delle navi nelle acque del Ponto Eusino, a enormi testuggini marine, a elefanti che percorrevano le pianure africane guidati dalla luce delle stelle e agli asini unicorni delle Indie. La loro stupidità, la loro ferocia. A volte si domandava oziosamente quale fosse l’aspetto reale di queste creature, ma i sogni gli offrivano soltanto forme mutevoli e contraffazioni». (L. Norfolk, Un rinoceronte per il papa)

0.

Un acquisto all’Emporio celeste

Nella classificazione degli animali presente nell’Emporio celeste di conoscimenti benevoli (una presunta enciclopedia cinese di cui Borges sarebbe venuto a conoscenza mediante un presunto Franz Kuhn)1 viene immesso in elenco, assieme ad altri raggruppamenti bizzarri di animali, un taxon altrettanto bizzarro: quello degli animali che da lontano sembrano mosche. Come già aveva avuto modo di notare un divertito Michel Foucault, quello che sconcertava nell’enciclopedia cinese di Borges era l’artificio dell’enumerazione e l’incongruenza eterotopica di una tassonomia anomala e paradossale in cui ogni singola classe può comprendere indifferentemente l’altra, distruggendo così ogni rapporto 1. Cfr. J. L. Borges, L’idioma analitico di John Wilkins, in Porzio 19949, p. 1004.

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stabile fra contenuto e contenente.2 Ma se solo per un attimo si cessa di leggere il fantomatico Emporio celeste come una tassonomia e lo si vede, seguendo le istruzioni che il suo stesso titolo ci impartisce, come – per l’appunto – un emporio, come un bazar in cui molte e svariate “conoscenze” vengono offerte alla rinfusa, ci si potrebbe accorgere di come in fondo l’enumerazione caotica di animali appartenenti all’imperatore, addomesticati, favolosi, inclusi nella presente classificazione e così via dicendo,3 sia una semplice attribuzione di qualità accidentali che gli animali in carne ed ossa possono effettivamente presentare al di là delle proprie differenze specifiche. In altri termini, gli animali vivi (quelli che in genere non vengono sezionati nel letto dell’anatomista), possono effettivamente rompere vasi; possono, una volta morti, essere imbalsamati o addirittura possono prestarsi come inconsapevoli modelli per quegli artisti che decidano di disegnarli con un pennello finissimo di peli di cammello.4 In più, come ogni osservatore attento sa bene, potrebbe anche capitare che qualsiasi animale, se guardato da lontano, possa essere scambiato per una mosca. Ebbene, proprio a tale proposito vorrei dire che non so come un Linneo o un qualsiasi altro tassonomista dell’era – poniamo il caso – vittoriana avrebbe classificato il manticora, ma so per certo che, se proprio noi volessimo inserirlo in uno dei raggruppamenti dell’Emporio celeste, potremmo sicuramente scegliere quello che ho menzionato nell’incipit di questo paragrafo. A volere prendere sul serio la fantomatica enciclopedia cinese, infatti, a prescindere dalla bizzarria della classificazione borgesiana, è senza dubbio un conoscimento benevolo quello che ci spinge a ricordare che, a voler guardare da troppo lontano, tutti gli animali (anche i più terrificanti) possono sembrare inezie, robe minuscole (e ridicole) che rischiano di non essere tenute nella dovuta considerazione. È il caso, questo – lo ribadisco –, dell’animale protagonista della storia che si sta per raccontare: un animale così incerto e così evanescente (e così poco nostro) che per noi rischia persino di non esistere.5 Di che animale si tratta? Per rispondere a questa domanda riporto subito una porzione del riassunto che un patriarca del IX se2. Cfr. Foucault 1967, pp. 5 sgg. 3. Le classi enumerate sono, nel testo di Borges (cfr. n. 1), rispettivamente la a), la c), la f) e la h). 4. Faccio riferimento alle classi m), b) e k) del testo di Borges (cfr. n. 1, p. 17). 5. È la posizione, questa, di molti commentatori che, più o meno apertamente, scelgono di prendere per buona l’interpretazione di Pausania (9, 21, 4) e identificano il manticora con la tigre (cfr. ad es. Steier 1936, c. 948; Louis 1964, ad. Aristot. Hist. Anim. 2, 1, 501 a 24 sgg.; Martucci 1997, pp. 46 sg.; Bodson 1998, p. 178). Sull’identificazione di Pausania cfr. cap. 4, pp. 275 sgg.

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colo d.C., Fozio, ha fatto di un testo ambiguo e affascinante che è andato perduto nella voragine dei secoli: gli Indikà di Ctesia, il primo autore ad attestare l’esistenza del mostro in India:6 «και ; περι ; του' µαρτιχοvρα του' εjν αυj τ οι'ς ο[ντος θηρι vου, ωJς το;

προvσ ωπον εjοικω;ς αjνθρωvπω/: µεvγ εθος µε;ν εjσ τιν ω{σ περ λεvων, και ; χροvαν εjρυθρο;ς ωJς κινναvβαρι : τριvσ τιχοι δε; οjδοvντες, ω\ τ α δε; ω{σ περ αjνθρωvπου, και ; οjφθαλµου;ς γλαυκου;ς οJµοι vους αjνθρωvπω/. τη;ν δε; κεvρκον ε[χει οι {ανπερ σκορπι vος οJ ηjπειρωv τ ης, εjν η |/ και ; το; κεvντρον ε[χει, µει vζω υJπαvρχον πη vχεος. ε[χει δε; και ; εjκ πλαγι vου τη 'ς κεvρκου ε[νθα και ; ε[νθα κεvντρα: ε[χει δε; και ; εjν α[κ ρω/ ω{σ περ σκορπι vος κεvντρον. και ; τουv τ ω/ µε;ν εjα;ν προσεvλθη / τις, κεντει ' τω'/ κεvντρω/, και ; παvντως οJ κεντηθει ;ς αjποθνη vσ κει : εjα;ν δεv τις ποvρρωθεν µαvχηται προ;ς αυj τ οvν, και ; ε[µπροσθεν ι Jσ τα;ς τη ;ν ουjρα;ν ω{σ περ αjπο; τοvξου βαvλλει τοι 'ς κεvντροις, και ; ο[πισθεν εjπ∆ευjθει vας αjποτει vνων. βαvλλει δε; ο{σ ον πλεvθρον ει jς µη'κ ος: και ; παvντα, οι |ς α]ν βαvλλη /, παvντως αjποκτει vνει, πλη ;ν εjλεvφαντος. τα; δε; κεvντρα αυj τ ου' ε[σ τι το; µε;ν µη'κ ος ο{σ ον ποδιαι 'α, το; δε; πλαvτος ο{σ ον σχοι 'νος λεπτοv τατος. µαρτιχοvρας δε; ÔΕλληνιστι ; αjνθρωποφαvγ ον, ο{ τι πλει'σ τα εjσ θι vει αjναιρω'ν αjνθρωvπους: εjσ θι vει δε; και ; τα; α[λλα ζω'/α. µαvχεται δε; και ; τοι'ς ο[νυξι και ; τοι'ς κεvντροις: τα; κεvντρα παvλιν φησι vν, εjπειδα;ν ε j κτοξευθη / ' , α j ναφυ v εσθαι. ε [ στι δε ; πολλα ; ε j ν τη ' / ∆ Ινδικη ' / . αjποκτει vνουσι δε; αυj τ α; τοι'ς εjλεvφασιν εjποχουvµενοι α[νθρωποι καjκ ει 'θεν βαvλλοντες». (Phot. Bibl. 45b 31-46 a 12 Henry).7

«Ctesia parla anche del manticora, una bestia che si trova presso gli Indiani e che ha il volto simile a quello degli uomini. Questa bestia è grande quanto un leone e ha il colore della pelle di un rosso simile a quello del cinabro; ha i denti disposti su tre file, le orecchie di un uomo e gli occhi glauchi simili a quelli di un uomo. La sua coda assomiglia a quella di uno scorpione di terra, misura più di un cubito ed è munita di un pungiglione. Nella coda, lateralmente, sono disposti, qua e là, altri pungiglioni, oltre a quello che, come nella coda dello scorpione, si trova sulla punta. È con questo pungiglione che il manticora colpisce chi gli si avvicina e chiunque venga da esso ferito trova una morte sicura. Se invece qualcuno lotta con il manticora a distanza, esso, sollevando la coda, si mette a saettare i suoi dardi, come da un arco, contro l’avversario che gli sta di fronte, oppure, voltandosi, cerca di colpirlo da dietro tendendo la sua coda in linea retta. Il manticora riesce a scagliare i suoi dardi fino a cento piedi di distanza e qualsiasi essere vivente venga da essi colpito (ad eccezione dell’elefante) trova una morte certa. I suoi pungiglioni misurano 6. Per un’introduzione a Fozio cfr. Wilson 1992, pp. 3 sgg. Per la ricostruzione della biografia di Ctesia (V-IV sec. a.C.), medico e storico di Cnido, autore di Persikà e Indikà (scritti verosimilmente durante la prigionia in Persia), cfr. Auberger e Malamoud 1991, pp. 1 sgg. (oltre che, ovviamente, FrGrHist 688 T. 1 sgg.). 7. Cfr. FrGrHist 688 F. 45, 15.

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un piede e sono spessi quanto un giunco sottilissimo. Il termine “µαρτιχοvρας” significa in greco “antropofago”, proprio per il fatto che questa bestia si nutre per lo più di uomini, oltre che di altri animali. Riesce a combattere anche con le unghie (oltre che con i pungiglioni). I suoi pungiglioni – così dice Ctesia – dopo che sono stati lanciati crescono di nuovo (molti infatti è possibile trovarne in India). In India ci sono molti esemplari di manticora: gli uomini li cacciano a dorso di elefante scagliando da lì le loro frecce».

Borges, assieme a Margarita Guerrero, aveva inserito il sanguinario animale nel “giardino zoologico delle mitologie”, un giardino che contrapponeva al “giardino zoologico della realtà” e che, secondo la prospettiva proposta nel Manuale di zoologia fantastica, si rilevava sorprendentemente povero di presenze: la popolazione del giardino degli esseri “favolosi” «dovrebb’essere più numerosa di quella del primo – così argomentavano i due scrittori argentini nella prefazione al Manuale –, dato che i mostri nascono per combinazione d’elementi d’esseri reali, e che le possibilità dell’arte combinatoria sono quasi infinite».8 La zoologia dei sogni, insomma, era ben più povera di quella di Dio (questa la conclusione alla quale i due autori approdavano). Ma siamo così sicuri del fatto che i mostri nascano tutti a seguito dell’attività combinatoria esercitata dagli uomini? A questa domanda si deve rispondere necessariamente con quella che potrebbe essere una anticipazione rispetto a quanto verrà scritto. Laddove infatti Borges pensa la nascita dei mostri e delle creature paradossali dell’antichità come il frutto di un’attività di bricolage, come un incrocio artificiale (e innaturale) di parti diverse di esseri non omofili, si deve piuttosto parlare dell’abitudine di “mostrare” gli esseri ignoti attraverso il ricorso a quella che potremmo chiamare l’analogia ostensiva degli antichi. Il manticora, infatti, in quanto essere sconosciuto (e dunque invisibile) per i Greci non ha alla lettera (o almeno – come si vedrà più avanti – non sempre) il viso di un uomo, il corpo di un leone e la coda di uno scorpione; ha semmai il viso simile a quello di un uomo, il corpo simile a quello di un leone e la coda simile a quella di uno scorpione. Per descrivere un essere mai visto era necessario istituire una serie di raffronti e di similitudini, una serie di processi analogici che avrebbero potuto guidare il lettore (o l’ascoltatore) alla costruzione mentale di un oggetto altrimenti invisibile e non conoscibile. In questo senso a sostituire la mancanza della percezione diretta dell’animale vivo interveniva il meccanismo del linguaggio 8. Cfr. Borges e Guerrero 19982, p. 4. Per la voce relativa al manticora cfr. Id., p. 94 .

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che permetteva la visualizzazione (l’ostensione) dell’essere ignoto.9 In questo senso bisogna dire che, per quanto suggestivo, l’approccio di Borges e della Guerrero, se preso sul serio, rischia di essere anacronistico. A ben vedere, infatti, nel momento stesso in cui compilano le voci del loro volume, i due scrittori uccidono per sempre quegli esseri che mostrano agli occhi curiosi del lettore: i manticora, i catoblepa e le anfesibene vengono relegati nel limbo etereo ed inconsistente del serraglio degli animali immaginari ai quali non si può riconoscere alcuna vita reale;10 gli animali che, per l’appunto, non si muovono, non vagano e non si accoppiano, non si agitano follemente e che – si potrebbe aggiungere – non hanno alcun “luogo” se non quello del linguaggio e della comunicazione. Insomma, a non voler prendere il Manuale come il frutto di un divertissement letterario (cosa che del resto era), bisogna dire che Borges e la Guerrero guardano forse da molto lontano. Da troppo lontano: tanto da rischiare di trasformare i “mostri” (che magari gli antichi avevano effettivamente temuto) in mosche inoffensive di inchiostro fissate per sempre sullo spazio asettico del foglio bianco. In altri termini, i due autori, non solo nell’elencare le meraviglie del giardino dei sogni hanno trasmesso – così mi pare di vedere – una pratica della letteratura novecentesca (la combinatoria) alle “letterature classiche e orientali”,11 ma hanno anche omesso – volutamente – di chiedersi come gli autori di quelle “letterature” avessero percepito i propri mostri. È ovvio che porsi tali questioni non poteva e non doveva essere il loro compito (del resto se lo avessero fatto, noi tutti – Foucault compreso – ci saremmo “divertiti” di meno), eppure senza dubbio la dotta compilazione del Manuale potrebbe anche essere la spia di una opinione comune diffusa tutt’oggi; un’opinione secondo la quale, quando non siano da scartare come oggetti non aderenti ai principi di realtà, degli animali paradossali si dovrebbe parlare necessariamente in base ad una prospettiva estetizzante.12 È facile infatti, 9. Per le analogie ostensive che hanno la funzione di descrivere il manticora cfr. pp. 68 sgg. 10. Per le “anfesibene” e i “catoblepa” nel Manuale di zoologia fantastica, cfr. rispettivamente Borges e Guerrero 19982, p. 8 e p. 40. Per le descrizioni nel mondo greco e latino di questi animali cfr. ad es. Aeschl. Ag. 1233; Nic. Th. 372; 384; Nonn. D. 5, 146; Ael. Nat. Anim. 8, 8; 9, 23; Plin. Nat. Hist. 8, 85 (per l’anfesibena o “anfisbena”); Ael. Nat. Anim. 7, 5; Plin. Nat. Hist. 8, 77; Ath. 5, 64 Kaibel (per il catoblepa). 11. Cfr. Borges e Guerrero 19982, p. 5. 12. Cfr. ad es. l’incipit dell’introduzione ad Animali mai esistiti di R. Barber e A. Riches (Barber e Riches 1999, p. 3): «Andare a caccia di bestie fantastiche rappresenta sempre un’occupazione divertente e spesso ricca di sorprese: la pre-

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davanti ad esseri “strani e bizzarri” come il manticora o come il catoblepa pensare immediatamente alla fervida fantasia degli antichi: nell’ottica di Borges, infatti, neanche i Greci e i Latini avrebbero creduto completamente ai loro mostri e li avrebbero anzi “costruiti” quasi per gioco.13 Ma poteva essere davvero così? Ebbene, parafrasando un’osservazione di Wittengstein sul Ramo d’oro di Frazer, si potrebbe dire che «è davvero strano che animali come il manticora finiscano per essere presentati come sciocchezze», dal momento che «non sarà mai plausibile che gli antichi ne abbiano parlato per mera sciocchezza»;14 tanto più se si vede che i luoghi deputati per le discussioni relative a questi esseri erano, prevalentemente, i trattati di historia:15 il manticora infatti (così come gli unicorni, i catoblepa e le anfesibene)16 non viene affatto presentato come un animale del passato mitico (è il caso, questo, dei centauri),17 né come un animale immaginario e, per questo, impossibile (è il caso, ad esempio, dell’ircocervo in Aristotele),18 ma è semmai (almeno nella strategia del testo di Ctesia, il primo a parlare di questa belva) un animale del “presente etnografico”. Niente di più lontano dunque dal “giardino dei sogni” di Borges. da inseguita attraverso la poesia e la narrativa fino alla sua tana mitologica o araldica spesso ci ha fatto sorridere per la sua stravaganza». 13. James Romm fa notare come gli esseri “strani” presenti nei trattati dell’antichità possano essere letti anche in una prospettiva in qualche modo “estetizzante”. Bisogna infatti pensare che il genere della “geografia” per gli antichi era molto più di una semplice descrizione oggettiva dei luoghi. In questo senso la menzione di esseri memorabili era senza dubbio funzionale alla narrazione o comunque all’intrattenimento del pubblico (cfr. Romm 1992, pp. 5 sgg. e 60 sgg.: è comunque ovvio che per Romm non si trattava unicamente di un’ottica estetizzante). Per la geografia come genere di intrattenimento, in particolare dal I sec. a.C. al I d.C., cfr. anche Romano 1994, pp. 26 sg., oltre che Prontera 1984, pp. 189 sgg. 14. La frase di Wittengstein che sto parafrasando è la seguente: «è davvero strano che tutte queste usanze finiscano per essere presentate come sciocchezze. Ma non sarà mai plausibile che gli uomini facciano tutto questo per mera sciocchezza» (cit. in Romano 1998, p. 137). 15. Sulla scienza antica come “storia” cfr. French 1994, pp. ix-xxii; 1-5 (il quale però arriva a concludere che la “scienza” antica non esisteva affatto) e Pomata 1996, pp. 174 sgg. 16. Cfr. n. 10, p. 21. 17. Per la rappresentazione mitica dei centauri cfr. ad es. Il. 11, 832; Od. 21, 295; Hes. Sc. 184; Pind. P. 2, 44 o anche Verg. Aen. 6, 286; Georg. 2, 456; Sen. Herc. f. 778. L’esistenza dei centauri viene negata nel I sec. a.C. da Lucr. 4, 732 sgg.; 5, 878 sgg. e, nel I sec. d.C., da Diod. 4, 8, 4. Oltre alla posizione di Lucrezio e di Diodoro Siculo, però, a partire dal I sec. d.C., comincia a diffondersi la credenza relativa all’effettiva esistenza di questo animale: cfr., ad es., Plin. Nat. Hist. 7, 35 ed Ael. Nat. Anim. 17, 9: in questi passi il centauro ha cessato di essere un animale del passato mitico e si è trasformato in un problema (o in un “dato”) di “storia naturale”. 18. Cfr. Aristot. Phys. 4, 1, 208 a 30 sgg.; APr. 1, 38, 49 a 24; 2, 7, 92 b 7; de interpretatione 1,16 a 16 sgg. Su questi passi cfr. Sillitti 1980, pp. 9 sgg.; Ebbesen 1997, pp. 533 sgg.

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Cacciare un manticora

1.1 Il cacciatore si ferma e si guarda intorno (ovvero: come parlare del manticora?) La caccia agli animali “favolosi” riserva sorprese inaspettate. Quando si parla di un animale “favoloso”, in effetti, si ha sempre la sensazione di parlare di qualcosa di misterioso e perturbante nella sua non conoscibilità; leggendo le pagine della Biblioteca di Fozio che lo riguardano, ad esempio, si rimane stupiti dall’impossibilità, da parte di chi scrive, di parlare veramente del manticora: un essere come questo infatti non può essere descritto se non per similitudini o per discorsi indiretti: è Ctesia a parlarne e non l’evidenza della natura. Allo stesso modo non si può parlare di questa bestia mirabolante senza parlare di altro: di cinabro, di uomini, di scorpioni, di giunchi, di elefanti, di arcieri. È come se il manticora, a suo modo, fosse una piccola enciclopedia caotica, un “contesto” di conoscenze che lo riguardano proprio perché riguardano altre cose, altri esseri e perfino altri usi (la caccia a dorso di elefante) e altre pratiche (il tiro con l’arco). E dunque, se questa belva costituiva un problema per gli antichi, come possiamo noi parlare del manticora? Vedere questo essere semplicemente come un “composto” immaginario di parti – lo si è già in qualche modo anticipato – significherebbe annullare l’effetto di realtà che lo rendeva inquietante (e che verosimilmente lo rendeva “interessante” e “memorabile” per gli antichi): in quest’ottica le parti non sarebbero che metafore prese alla lettera o, altrimenti, il frutto di un processo in base al quale le intersezioni dei volumi che compongono l’animale (la coda dello scorpione “innestata” nel tronco di un leone, etc.) si sono sostituite alle analogie costruite dalla lingua (la coda come lo scorpione, il tronco come il leone). Diversamente, si potrebbe inserire il manticora in un catalogo di esseri “favolosi” suoi pari (suoi pari?), ordinandoli magari per voci disposte in ordine alfabetico. Dell’essere in questione verrebbero descritte le caratteristiche ed alcuni passi che lo riguardano, facendo così un lavoro non diverso da quello di Borges e della Guerrero. In questa prospettiva (peraltro molto in voga)19 il “mostro” 19. Subito dopo il Manuale di Borges e della Guerrero, pubblicato per la prima volta nel 1957 (cfr. n. 8, p. 20), c’è stata una vera e propria proliferazione di dizionari alfabetici relativi agli animali fantastici. Oltre al già citato Barber e Riches 1999, vale la pena ricordare tutta una serie di enciclopedie mitiche e di bestiari pubblicati on line sul World Wide Web (vedi ad es. http://www.pantheon.org/mythica.html; http://www.geocities.com/RainForest/Vines/2072/beasts.html oppure http://members.tripod.com/~WRG/beast.html). Nella maggior parte dei casi la pubblicazio-

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verrebbe però ridotto ad un mero oggetto nominale e i passi ai quali si rimanderebbe verrebbero spogliati delle loro specificità. Gli autori che parlano del manticora, ad esempio, (Aristotele, Plinio, Eliano, Ctesia, Filostrato, lo stesso Pausania) verrebbero posti sullo stesso piano e i loro testi verrebbero visti, se non come copia, ognuno come variazione di stile rispetto all’altro. Il manticora però (soprattutto per i viaggiatori greci che si recavano in India… o in Etiopia) non doveva essere semplicemente una questione di stile. 1.2 Studiare un animale “fantastico”: una discussione sull’approccio “criptozoologico”20 Prima di iniziare, è forse opportuno svelare quali siano gli scopi della “caccia al mostro” che intendo imbastire nelle pagine seguenti. Proprio per questo voglio dire esplicitamente che il mio fine non è tanto quello di fare una trattazione completa ed esaustiva delle varie interpretazioni e delle attitudes (degli atteggiamenti) che si sono succedute nei vari secoli nei confronti degli esseri “favolosi” dell’antichità (ma anche dei bestiari del Medioevo),21 quanto quello di studiare, a partire dalle ne di questi bestiari elettronici è finalizzata o all’organizzazione di giochi di ruolo (è il caso del terzo fra i link citati sopra) o al soddisfacimento della semplice curiosità del navigatore (è il caso dei primi due link citati). Si segnala comunque anche l’esistenza, in rete, del testo elettronico del Bestiario di Aberdeen del XIII sec. d.C., all’indirizzo http://www.clues.abdn.Ac.uk:8080/besttest/alt/comment/besttoc.html (oltre che il testo latino comprensivo della traduzione in inglese, è possibile visualizzare su questo sito alcune miniature, il commento relativo ai singoli paragrafi e i microfilm del manoscritto in formato di interscambio Jpeg). 20. Una precisazione: ogni volta che parlerò di animali “fantastici” o “favolosi” (mettendo fra virgolette l’aggettivo) mi riferirò ad esseri che per noi e solo per noi sono (anacronisticamente) tali. 21. Per un quadro generale di questo tipo cfr. Bologna 1980, p. 566, il quale mostra come, con il passare dei secoli, quelli che erano visti come “prodigi” (o monstra) nell’età arcaica perdano a mano a mano la loro dimensione divinatoria per diventare, in mutati ambiti culturali, ora “esseri difettosi” ora addirittura “oggetti assenti”. Nei bestiari medievali la manticora (nel Medio Evo il genere della bestia diventa tendenzialmente femminile) si trasforma nel simbolo del male e, come le sirene, attira con la sua voce melodiosa gli uomini al fine di divorarli. Cfr. ad es. Bestiario Moralizzato, XXIV (in Morini 1996, p. 505): «Una fera, manticora kiamata, / pare d’omo et de bestïa concepta, / però ka a ciascheduno è semegliata, / e carne humana desia e afecta. / Àne una boce bella e consonata, / nella quale, ki l’ode, se delecta; / a lo Nemico pare semeliata, / ke varïando, nell’alma decepta. / Semiglia ad omo, per demonstramento, / ké, volendo la gente a sé trare, / fasse parere angelo de luce; / a bestia, ké in reo delectamento / fa ki li crede tanto delectare, / k’a la dannatïone lo conduce»; Gossuin, Imago Mundi XIII, 2454 sgg. (cit. in Auberger e Malamoud 1991, p. XVI): «En Ynde une autres beste a / qu’en apele mautichora,/ vis d’oume, et III peres de denz/ li sont, et III en la bouche dedenz, / euz de chievre, cors de lion, / et la coue de scorpion, / voiz de serpent, et par son chant / atret et devore la gent, / et est plus inele d’aler / que n’est uns oisiax de voler». Una notizia relativa al manticora è presente anche nel Tre-

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diverse descrizioni del manticora (usato qui – in qualche modo – come reagente emblematico), le rappresentazioni relative ad esseri aporetici e problematici in mutati contesti del mondo greco e latino. In tal senso, piuttosto che raccontare le maniere in cui questi esseri sono stati fino ad adesso studiati (o ignorati), è forse più opportuno indicare alcune tendenze di lettura possibili. A tal fine è forse necessario ripetere ancora una volta che i mostri e gli animali “fantastici” non sono “sciocchezze” e che di conseguenza non è consigliabile considerare intellettualisticamente le credenze che circolavano su di essi (credenze che ai nostri occhi appaiono palesemente irrazionali) come errori scaturiti da visioni del mondo basate su schemi inadeguati di argomentazione o su scarse evidenze.22 Per il resto è una tendenza comune quella di attribuire anacronisticamente, ai “discorsi zoologici” degli antichi, finalità che non potevano certamente avere. In questo senso credo che siano esemplari le posizioni espresse da Manquat 1932 (pp. 117 sgg.) e da Louis 1967 (pp. 242 sgg.) a proposito della presenza di dati “fantastici” nelle opere biologiche di Aristotele. Se il primo infatti accusa lo Stagirita di una certa indulgenza nei confronti dell’elemento favoloso (un atteggiamento, questo, che – dal suo punto di vista – non dovrebbe essere presente in un “vero” zoologo), il secondo, in un suo articolo dal titolo Les animaux fabuleux chez Aristote, ridimensiona nettamente (e – a mio avviso – un po’ troppo frettolosamente) la presenza e l’importanza di tale elemento all’interno dell’opera biologica aristotelica.23 sor di Brunetto Latini (in Carmody 1948, p. 168): «Manticores est une beste en celui païs meismes, ki a face d’ome et coulour de sanc, oils jaunes, cors de lyon, coue d’escorpion et court si fort que nule beste ne peut eschaper devant lui. Mais sor toutes viandes aime char d’ome. Et si dent s’assamblent en tel maniere, que ore maint li uns desous et ore li autres». Più in generale, per le apparizioni e i riusi del manticora nel mondo post-classico, cfr. l’articolo dal titolo More about manticores (il cui autore risulta anonimo) che è possibile scaricare sul sito http://muskoka.vianet.on.ca/pages/grizelda/fur/MFC.html. 22. Tale approccio razionalista, secondo il quale nell’interpretare le credenze di popoli Altri, è possibile adottare il “criterio di irrazionalità”, può essere ricondotto a Lucien Lévy-Bruhl, le cui tesi vengono criticate da Sperber 1981, pp. 3 sgg. (tesi le quali, peraltro, sono state riviste dallo stesso autore alla fine della sua vita nei Carnets: cfr. a questo proposito Lévy-Bruhl 1952). 23. Louis 1967, p. 243 ad es. sembra perfino troppo sicuro del fatto che il J ερ ; των ' µυθολογουµεν v ων ζωω v/ ν (un’opera di Aristotele che non ci è giuntrattato υπ ta e che presumibilmente è da collocare poco prima della Historia Animalium) fosse stato scritto per dimostrare la falsità di certi racconti. A parte il titolo trasparente (almeno apparentemente) del trattato, però, io non mi sento di escludere a priori J ερ ; των ' µυθολογουµεν v ων ζωω v/ ν si limitasse semplicemente ad elencare una che lo υπ serie di animali paradoxa seguendo gli stessi modelli di esposizione semi-critica usati, ad esempio, nella Historia. Senza contare poi il fatto che, anche nel caso in cui Aristotele avesse veramente dimostrato l’infondatezza di determinati racconti, bisognerebbe spiegare per quale motivo alcuni di questi racconti sarebbero stati riportati in seguito nella Historia Animalium (mi riferisco ad es. al dato relativo all’esistenza del manticora e agli altri dati citati dallo stesso Louis 1967, pp. 244 sgg.).

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In altri termini, se la lettura di Manquat appiattisce Aristotele (e gli antichi in genere) in una estranea e vetusta antichità, allontanandolo dalle “origini” della scienza contemporanea, nell’atteggiamento espresso da Louis si può notare una certa ansia, la paura di leggere in Aristotele cose che non possono trovare risonanze con il nostro modo di pensare e vedere il mondo: insomma, è come se Aristotele non avesse dovuto credere alla lettera, ad esempio, ai resoconti di Ctesia sugli animali “fantastici”, per il semplice fatto che noi non ci crediamo. È la paura, questa, di non potere istituire analogie fra il nostro mondo, il nostro modo di vedere le cose, ed Aristotele. In altri termini, la posizione di Louis rischia di essere affetta da una sorta di “miraggio delle origini”.24 In questo senso il fine del mio studio non è quello di “ridimensionare” o ridicolizzare il “fantastico”, ma di comprenderlo e di dare ad esso il giusto posto in quella che potremmo chiamare l’enciclopedia degli antichi: leggere il sapere dei Greci e dei Romani con gli occhi della nostra scienza e del nostro sapere rischia di essere fuorviante ai fini della comprensione dei dati che mi propongo di prendere in esame.25 E dunque, nei confronti del manticora (così come, ad esempio, nei confronti del tritone o del toro carnivoro dell’Etiopia),26 si dovreb24. Cfr. Cambiano 1988, pp. 3 sgg. In particolare a p. 36: «Occorrerà, forse, decidersi una buona volta ad ammettere che una ricognizione storica del passato ha successo quando è riuscita almeno a mostrare che ciò di cui si parla è più complesso di quanto almeno prima si pensasse e pertanto richiede nuove categorie e strumenti concettuali più articolati e sottili e la ricerca di nuovi documenti (quando è possibile)». Più avanti a p. 37 leggiamo: «naturalmente si potrebbe speculare sulle motivazioni psicologiche, sociologiche o religiose del ritorno alle origini, riferendosi via via a bisogni di stabilità o di dominio sul passato, a vagheggiamenti contadini della terra madre o a ricerche del sacro. Alcune metafore, tratte dal grembo della famiglia, hanno l’effetto retorico di generare un senso di appartenenza all’origine, a una famiglia legittima, e insieme un senso di proprietà nei suoi confronti». È interessante notare come il «miraggio delle origini» di Louis (1967, pp. 242 sgg.) sia in qualche modo dovuto ad una lettura in qualche modo “teleologica” dell’antichità, in base alla quale viene postulata, negli antichi, l’esistenza dei valori di chi scrive (cfr. Finley 1981, p. 12). In base ad un approccio simile, secondo Romano (1999, p. 21), «…tutto ciò che non serve a spiegare quello che è venuto dopo va sacrificato, ma va anche emarginato tutto ciò che da un lato non è compatibile con una continuità lineare, dall’altro non è riducibile a un principio unitario». 25. Riguardo alla enciclopedia zoologica degli antichi, illuminanti sono, a mio avviso, le considerazioni di Bettini 1998, p. 220, il quale avverte come il sapere sugli animali, non appena si esce dalle rigide maglie della scienza, possa essere qualcosa di più di un insieme di formule e di classificazioni: «ciascun animale […] e il mondo animale, nel suo complesso, – osserva Bettini – non corrisponde soltanto ad un insieme di nomi e a un dizionario di definizioni verbali, ma trascina con sé un contesto di carattere pragmatico e culturale: che è di volta in volta necessario conoscere per poterne correttamente interpretare il significato». 26. Per il tritone e il toro carnivoro dell’Etiopia cfr. pp. 70 sgg. (ma vd. anche rispettivamente pp. 283 sgg. e n. 167, p. 71).

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be usare quanto meno un’ottica diversa rispetto a quella usata nei confronti, ad esempio, del mostro di Loch Ness o dello Yeti. Per quanto riguarda i nostri mostri sono due gli atteggiamenti in voga: se da un lato gli scettici tendono a ridicolizzare e smontare gli avvistamenti avvenuti, dall’altro esiste una disciplina assai singolare, la criptozoologia, il cui fine è quello di studiare gli animali “nascosti” sulla base delle notizie incerte ricavate dalle leggende, dal folklore, dalle relazioni di viaggio e infine dagli avvistamenti più disparati.27 Il compito dei criptozoologi è non solo quello di dimostrare l’esistenza degli esseri incerti (come il mostro di Loch Ness), ma anche quello di descriverli e di classificarli secondo gli strumenti e le formule della biologia e della zoologia contemporanea. Ebbene, i manticora (ma forse anche gli Yeti e il mostro di Loch Ness) non sono una sciocchezza, ma non per questo ritengo sia corretto, oltre che praticabile, studiarli in una prospettiva criptozoologica. Questo, a mio avviso, sarebbe il più semplice, ma anche il più banale degli approcci possibili. Applicare infatti gli strumenti della zoologia contemporanea ad esseri che hanno “popolato” i trattati di opere scritte e compilate in base a sistemi di credenze del tutto diversi dai nostri, rischia di creare soltanto un rassicurante effetto di comicità. Le “prove” che ci sono rimaste sull’esistenza del manticora sono in fondo di gran lunga inferiori rispetto, ad esempio, al numero di avvistamenti di mostri marini effettuati dal 1755 al 1976.28 Da un lato, dunque, si potrebbe tranquillamente pensare che la nostra “credulità” nei confronti dei mostri marini possa essere in qualche modo più giustificata rispetto a quella degli antichi, dall’altro, a volere valorizzare quelle poche prove in nostro possesso, si potrebbe finire col pubblicare articoli seriosi, su riviste come Nature o come Annals and Magazine of Natural History (o ad esempio in “Cryptozoology”, l’organo ufficiale della “International Society of Cryptozoology”), nei quali si potrebbe proporre una tassonomia convincente di un anthropofagus indicus sagittarius (eventuale nome scientifico del manticora). In entrambi i casi, però, si sarebbe ben lungi dal comprendere alcunché sugli antichi e sui sistemi di credenze (e di conoscenze) in base ai quali i manticora comparivano, se non in India, almeno nei testi dei logografi, dei geografi e degli autori di historiai in generale. Un altro rischio intimamente connesso a letture criptozoologiche di questo tipo potrebbe d’altra parte essere anche quello di cer27. Per una definizione della criptozoologia, data da un criptozoologo, cfr. Mackal 1980, p. xi. Più in generale cfr. Mc Carthy 1993, p. 1. 28. Un data-base di avvistamenti di mostri marini, che copre il periodo che va dal 1755 all 1976, è stato redatto dal padre della criptozoologia, Bernard Heuvelmans. A questo proposito cfr. Westrum 1979, p. 306.

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care a tutti costi una spiegazione “razionalizzante” per gli esseri “evanescenti” dell’antichità: la ricerca di animali “fantastici” si trasforma in un esercizio di individuazione di specie ancora esistenti o comunque note. Ecco dunque che il manticora diventa una tigre, l’acli diventa il cervus megaceros, il catoblepa diventa uno gnu striato, e così via.29 Esemplare è, in questo senso, il caso del leontofono, piccolo animale dalle virtù strabilianti di cui parla, fra gli altri, Plinio nella Naturalis Historia:30 «Leontophonos accipimus vocari parvum nec aliubi nascens quam ubi leo gignitur, quo gustato tanta illa vis ut ceteris quadripedum imperitans ilico expiret. Ergo corpus eius exustum adspergunt aliis carnibus polentae modo insidiantes ferae necantque etiam cinere: tam contraria est pestis. Haut inmerito igitur odit leo visumque frangit et citra morsum exanimat; ille contra urinam spargit, prudens hanc quoque leoni exitialem». (Plin. Nat. Hist. 8, 136)

«Abbiamo appreso che viene chiamato leontofono un piccolo animale che nasce soltanto nelle regioni nelle quali si trova il leone. Ebbene, il potere di questo animale è così grande che, se il leone se lo mangia – quel leone che pure è a capo di tutti gli altri animali a quattro zampe –, muore immediatamente. Perciò i cacciatori, per attentare alla vita di questa belva, bruciano il corpo del leontofono e, spalmandolo su altre carni come si fa con la farinata d’orzo, riescono ad uccidere il leone anche con le ceneri di questo piccolo essere: tanto è nociva questa peste per il re degli animali! Non senza ragione pertanto il leone lo odia e, non appena lo vede, lo abbatte e lo uccide senza morderlo; il leontofono, da parte sua, gli urina addosso, ben sapendo che anche la sua urina è esiziale per il leone».

A proposito di questo singolare essere Vittorio Martucci, zoologo italiano con frequentazioni letterarie e criptozoologiche (cfr. Martucci 1997, pp. 45 sg.), esprime la seguente ipotesi: «l’identificazione è oltremodo problematica, sicché l’animale è ritenuto dai più completamente fantastico. Come pura ipotesi, suggeriamo qualche insettivoro della famiglia dei Soricidi, che sono rifuggiti come cibo da tutti i carnivori, perché resi disgustosi dalla presenza di ghiandole del muschio. Questo particolare potrebbe aver ispirato la credenza della nocività dell’urina. I Soricidi, inoltre, possono iniettare attraverso i denti, seppure in piccole dosi, sostanze velenose». 29. Cfr. Plin. Nat. Hist. 8, 39 sg.; 8, 77 (oltre che 8, 75 e 107 per il manticora). Queste identificazioni sono registrate da Martucci 1997, pp. 43 sgg. Per l’identificazione fra tigre e manticora nell’antichità cfr. pp. 275 sgg. (a questo proposito è interessante segnalare che in Polemio Silvio, nom. anim. chron. I, 543, 6, il nome del manticora è riportato accanto a quello della tigre). 30. Per il leontofono cfr. anche Aristot. Mir. 845 a 28; Ael. Nat. Anim. 4, 18; Aristoph. Hist. Anim. epitome 2, 162.

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Ebbene, Martucci dimostra di conoscere bene i nostri animali, ma il suo (e nostro) “sapere” non può far altro che anestetizzare il sapere degli antichi. Se si rilegge il testo di Plinio sopra riportato, ci si rende conto che il leontofono, come tutti gli altri esseri che popolano la Naturalis Historia, non è certo un problema di identificazione o di classificazione. Plinio non si pone affatto il problema di ridurre il leontofono ad una specie già esistente e “classificata” da un ben precisato sapere tassonomico: per l’enciclopedista romano non solo il leontofono è semplicemente un leontofono, ma per di più è un animale vivo.31 Senza contare poi il fatto che parlare di un leontofono per Plinio significa anche parlare degli usi umani connessi all’animale: le nostre classificazioni non ci direbbero mai, ad esempio, che i cacciatori di leoni corpus eius aspergunt aliis carnibus o che il leone “odia” il leontofono. L’individuazione di Martucci, in altri termini, mette da parte, anestetizzandolo, tutto un sistema di opiniones e di “istruzioni per l’uso” connesso all’animale e riduce quello che per Plinio era un essere vivo ad un mero problema classificatorio.32 Ma torniamo al manticora. A proposito di questo animale, sempre Martucci (1997, pp. 46 sgg.) osserva che «molti elementi ampliati e deformati, fanno pensare alla tigre». Più avanti inoltre aggiunge: «il particolare della puntura di scorpione si ispira fantasiosamente al leone (allora frequente in India e in Medio Oriente), che possiede una spina cornea all’apice della coda». Ora, bisogna dire che l’ipotesi dell’identità del manticora e della tigre è già presente nell’antichità e viene avanzata in un passo di Pausania: «θηριvον δε; το; εjν τω'/ Κτησιvου λοvγ ω/ τω'/ εjς ∆Ινδου;ς – µαρτιχοvρα υJπο; τω'ν ∆Ινδω'ν, υJπο; δε; ÔΕλληvνων φησι;ν αjνδροφαvγ ον λελεvχθαι – ει\ναι πειvθοµαι το;ν τιvγ ριν». (Paus. 9, 21, 4)

«Sono propenso a credere che la bestia che descrive Ctesia nei suoi Indikà – dice che viene chiamata µαρτιχοvρα dagli Indiani, e che invece i Greci la chiamano αjνδροφαvγ ον – sia in realtà una tigre».

L’esistenza di questa ipotesi già nel II sec. d.C., tuttavia, non autorizza certo a non parlare più del manticora (e a parlare invece, 31. Cfr. a questo proposito Vegetti 1982, p. 117: «Plinio non è interessato se non in modo del tutto marginale all’anatomo-fisiologia del corpo animale; egli non accetta lo stile peculiare della razionalità aristotelica, la quale esige la rescissione dei vincoli di simpatia e di curiosità fra l’uomo e l’animale vivo, l’allontanamento del corpo dell’animale nella condizione neutra di oggetto di teoria […]. Quel che gli interessa davvero […] sono le notizie sugli animali vivi, sulla loro ferocia, sulla loro intelligenza, soprattutto per quanto di meraviglioso vi è in tutto questo». 32. Cfr. Bettini 1998, p. 229 già cit. a n. 25, p. 26.

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sempre, di tigri).33 Bisogna infatti riconoscere che la natura delle due riduzioni (quella di Martucci e quella di Pausania) è in realtà fondata su due ordini di idee completamente differenti. Il fatto che Pausania “identifichi” il manticora con la tigre, come si vedrà più avanti, non significa che abbia operato una “riduzione” criptozoologica basata sul solo nome dell’animale o su una definizione da dizionario, né tanto meno si dovrebbe pensare che la sua operazione sia il frutto di una prospettiva “illuminata” e totalmente diversa rispetto a quella dei suoi contemporanei. Dicendo che il manticora sia in realtà una tigre, come si vedrà più avanti, Pausania non fa che sostituire un complesso di credenze (o conoscenze) ad un altro. In altri termini, dire che il manticora è una tigre non significa (o non significa soltanto) fare un gioco classificatorio, ma significa attribuire alla belva tutto il sistema di opiniones e di “istruzioni per l’uso” che gli antichi attribuivano alla tigre.34 1.3 Chiarirsi le idee: il manticora è un τεvρας ? Dalla lettura del paragrafo precedente si intuisce come in fondo sia possibile distinguere due diversi tipi di approccio “criptozoologico”: il primo, che potremmo chiamare “approccio criptozoologico puro”, tenderebbe a credere alla lettera agli antichi (o ai “selvaggi”) e cercherebbe di dimostrare la veridicità delle notizie trasmesse applicando per lo più gli strumenti della zoologia contemporanea;35 il secondo, che potrebbe dirsi “riduzionista”, tenderebbe a cercare nelle specie note il referente effettivo per i “nomi” usati dalla tradizione. Si vede inoltre come in entrambi i casi si produrrebbe tendenzialmente un vero e proprio effetto di decontestualizzazione, in base al quale gli animali aporetici dell’antichità finirebbero per essere forzatamente inseriti in ambiti di discorso (la zoologia contemporanea) che non sono di loro pertinenza. In altri termini, entrambi i tipi di approccio criptozoologico finirebbero per trascurare il sistema di opiniones e le “istruzioni per l’uso” relativi agli esseri problematici non preoccupandosi affatto di stabilirne l’effettiva posizione nell’ambito del sapere zoologico degli antichi. In questo senso bisogna dire che il manticora non è semplicemente un “animale nascosto” (come gli Yeti o il mostro di Loch Ness), del qua33. Singolare è ad esempio il fatto che non esista una voce relativa al “manticora” nella Pauly-Wissowa e che per trovare informazioni relative a questo essere si debba consultare la voce “Tiger” (cfr. Steier 1936, cc. 946-952). 34. A questo proposito vd. cap. 4, pp. 275 sgg. 35. La tentazione di andare a caccia degli animali “meravigliosi” degli antichi è sempre dietro l’angolo. Negli anni ’20, ad esempio, Heinz Heck, direttore del giardino zoologico di Hellabrünn, organizzò una spedizione finalizzata alla cattura degli uri (cfr. Martucci 1997, p. 70).

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le bisogna svelare la “verità” o la “falsità”; è semmai qualcosa da collocare correttamente nel suo contesto pragmatico e culturale. E tuttavia, prima di concentrarci su questa operazione, è forse opportuno chiedersi per l’ultima volta: «cosa è dunque il manticora?», o meglio: «cosa non è?». A rileggere il testo del patriarca Fozio, come si è visto, la prima impressione che si ha dell’animale descritto è quella di un enigma, di un essere costruito a partire dalla callida iunctura delle similitudini e delle analogie, dall’accostamento – si potrebbe dire – di un «significante eccedente» (i descrittori analogici che rendono visualizzabile l’animale) e di un «significato oscuro» (l’animale in sé che risulta invisibile ai nostri occhi, se non addirittura inesistente):36 gli elementi che descrivono il manticora sono infatti svariati e di varia natura (giunchi, leoni, cervi, arcieri, etc.), eppure è impossibile associare, all’insieme di tali elementi, un’immagine: noi (così come gli antichi) non conosciamo il “vero” manticora; al massimo ce lo possiamo figurare seguendo le istruzioni dei testi del passato o dei bestiari medievali. Ebbene, nonostante la sua natura mirabolante, come si vedrà dalla lettura dei singoli passi nei quali il mostro indiano viene menzionato, mai il manticora viene presentato come un prodigio o come un “mostro” che indica un ordine deviato del cosmo o delle leggi della natura.37 Per parlare di esso non si fa mai ricorso infatti a termini che rimandano alla sfera del prodigioso (ad es. il greco τεvρας o il latino monstrum).38 In Plinio tutt’al più si include la belva in un elenco 36. Le espressioni fra virgolette sono di Bologna 1980, p. 556. 37. A questo proposito cfr. Bologna 1980, pp. 558 sgg. 38. Questa l’accezione più comune dei termini monstrum e τεvρας. Termini che solo apparentemente (o comunque molto alla lontana) potrebbero avere a che fare con il manticora. Per τεvρας in Aristotele cfr. Diego Lanza, in Lanza e Vegetti (1971, pp. 815 sgg.), il quale dimostra come con lo Stagirita il termine cominci a perdere la sua accezione magico-divinatoria per entrare a far parte del lessico “specialistico” dell’embriologia, venendo così ad occultare la precedente funziov ας è sempre più un’anomalia rispetto ad una tenne della parola: in Aristotele il τερ denza statisticamente valida, una «deroga più o meno parziale» (Lanza e Vegetti 1971, p. 815) rispetto alla legge di natura. Da una premessa analoga parte Lenfant 1999, pp. 202-203, il quale però, pur sottolineando l’importanza dell’approccio razionalistico aristotelico, non ritiene che la pertinentizzazione magico-religiosa del termine sia ipotizzabile per la società greca del V secolo a.C. Il discorso cambia con Eliano, nel II sec. d.C., in cui il termine non sembra indicare l’anomalia embriologica, ma diventa quasi un sinonimo del termine ψευδ' ος (cfr. in partic. Nat. Anim. 1, 57; 9, 23). Singolare è poi l’uso che Eliano fa del derivato τερατειvα in Nat. Anim. 16, 18 in cui l’espressione συµπλεvκειν εjς τερατειvαν è usata per indicare l’attività dei pittori che intrecciano assieme le forme più disparate e impensabili al solo fine di stupire chi osserva le loro opere. Sempre nel II sec. d.C., nella Vita di Apollonio di Filostrato il termine e i suoi derivati vengono riferiti ora alla sfera semantica del miracolo (1, 39; 4, 3; 5, 9; 7, 14), ora all’accezione di “dire mostruosità” (3, 32; 4, 4; 5, 13; 6, 11), ora al senso magico-divinatorio tradizionale (5, 13 e 6, 10). In Pausania invece il termine τεvρας si riferisce unicamente al suo significato tradizionale (cfr. 1, 24, 1; 5, 23, 6; 9, 31, 6; 10, 26, 3). In ambito

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di altri esseri dell’Etiopia degni di memoria che vengono designati come monstris similia;39 per il resto comunque, benché si abbia notizia di un manticora condotto alla presenza del re dei Persiani,40 non risulta affatto che esemplari di manticora fossero presentati agli exegetai perché li interpretassero o che la loro esistenza nei territori ultimi del mondo significasse qualcosa di ominoso.41 Se dunque di una pratica (o di un contesto culturale) si deve parlare, questa senza dubbio non era la mantica o la religione degli v ας antichi. Diversamente, nell’accezione non religiosa dei termini τερ o monstrum,42 il manticora non era mai presentato né come una anomalia, né come una menzogna.43 Esso era in effetti un animale sull’esistenza del quale era difficile pronunciarsi (e quindi non un animale completamente inesistente, come l’ircocervo) e che comunque era “degno di memoria”. Semplicemente, in assenza di suoi avvistamenti da parte di uomini greci, esso finiva per essere, per certi versi, un oggetto del linguaggio, un ente “simile ai mostri” il cui contesto era unicamente l’universo della comunicazione. Questo però non significa necessariamente che esso fosse un mero “significante libero”, un oggetto cioè che potesse essere risemantizzato a piacimento dagli “storici” (o dagli interpreti) di turno; come si vedrà nel corso di questo studio, infatti, il manticora era dotato di un fascio di tratti esromano, per quanto riguarda il termine monstrum nei libri zoologici di Plinio (VIII, IX, X, XI), si passa dall’accezione divinatoria (Nat. Hist. 8, 55), ad un’idea di “menzogna” (cfr. Nat. Hist. 9, 91) e infine ad un uso generico (simile al nostro) in cui “mostro” significa semplicemente essere dall’aspetto terrificante (cfr. Nat. Hist. 8, 72; ma cfr. anche 9, 2). 39. Cfr. Plin. Nat. Hist. 8, 72-75. Per la discussione di questo passo si rimanda al cap. 3 (spec. pp. 177 sgg.). 40. Cfr. Ael. Nat. Anim. 4, 21. Per la discussione di questo passo si rimanda al cap. 4 (spec. pp. 251 sgg.). 41. Giulio Ossequente in 155, 14 parla della nascita di un porcus humanis manibus et pedibus. Un parto del genere era il tipico parto prodigioso che richiedeva un atto sacrale (come, ad es., la lustratio) che purificasse la città. Ebbene, non risulta che per i mostri delle eschatiai fossero mai usati gli stessi accorgimenti messi in atto per i monstra che saltuariamente venivano alla luce nelle città italiche; se infatti la nascita di ibridi di uomo e di animale, di androgini (Giul. Oss. 157, 22) o, ad es., di bambini con quattro braccia e quattro gambe (Giul. Oss. 158, 25) era percepita come qualcosa di singolare, i mostri delle eschatiai erano invece la norma vigente in quei luoghi; se pertanto il maiale con le mani di uomo di cui parla Giulio Ossequente era un prodigium, il manticora non era percepito affatto come un singolare ibrido mostruoso di uomo, leone e scorpione, bensì, per così dire, come una specie a sé. Per l’interpretazione degli animali mostruosi (e non) nella mantica greca cfr. Scarpi 1998, pp. 107 sgg. v ας cfr., oltre che n. 38, p. 31, pp. 182 sg. 42. Per monstrum e τερ 43. Come si vedrà bene (cfr. pp. 290 sgg.) sarà Filostrato (Ap. 3, 45) a presentare il manticora come una cosa non vera. Nel fare questo però non viene affatv ας (né tanto meno lo usa Eusebio di Cesarea che, per la sua to usato il termine τερ versione del manticora, riprende in Hier. 22 le parole di Filostrato: cfr. pp. 297 sgg.).

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senzialmente invariabili ed “omologati” (le caratteristiche che mancavano, ad esempio, all’ircocervo)44 che veniva trasmesso di volta in volta con variazioni minime da un autore all’altro. In più, bisogna dire che queste stesse variazioni non erano semplicemente un problema di “semantica”;45 vale a dire che se da un testo all’altro i tratti del manticora si presentavano leggermente mutati, ciò non avveniva a seguito di un mero esercizio di stile da parte dell’autore di turno. Bisogna infatti ricordare che tendenzialmente per gli antichi ad un enunciato linguistico corrispondeva sempre (o quasi sempre) un oggetto reale, sia pure enigmatico.46 E lo stesso Aristotele, che pure sembra avere chiara la distinzione fra le parole e le cose (come si evince dai suoi interventi a più riprese sul problema dell’ircocervo), nel parlare del manticora non ci pone di fronte a qualcosa che significa, bensì davanti ad un dato di – potremmo dire – esistenza ipotetica. Come vedremo nel secondo capitolo, infatti, lo Stagirita, benché dimostri di non credere completamente alle notizie riferite da Ctesia di Cnido, non presenta il mostro indiano come una mera entità linguistica o enunciativa: non sa se il manticora esista veramente, ma capisce che chi ha trasmesso la notizia ad esso relativa ha dato a questo essere un luogo fisico (l’India) e un corpo (singolarissimo). Tutte cose, queste, che l’ircocervo non aveva.47 1.4 L’animale “fantastico” come rappresentazione Si è visto come per il manticora (e per gli altri esseri “problematici” che popolano il sapere “etno-zoografico” degli antichi) la categoria 44. Per l’esempio dell’ircocervo nella filosofia e nella logica antica cfr. Sillitti 1980, pp. 9 sgg., oltre che Ebbesen 1997, pp. 533 sgg. (già citati alla n. 18, p. 22). 45. A proposito dei terata Corrado Bologna (1980, p. 556) ha sottolineato fortemente il legame che esisteva nell’antichità fra mostruosità da un lato ed enigma e metafora dall’altro; nel fare questo si è avvalso di un passo famoso della Poetica (1458 a 26) in cui Aristotele dice che l’enigma consiste nel «mettere insieme cose impossibili» (αjδυvνατα συναvψαι). L’interpretazione di Bologna vede dunque il problema della mostruosità biologica prevalentemente in base ad una prospettiva semantica (l’associazione di un significante “eccedente” e “perverso” ad un significato “improprio” ed “oscuro”), che rischia di essere fuorviante per chi volesse ricostruire i costrutti culturali relativi alla formazione del sapere zoologico del mondo antico. Per altro verso si deve segnalare l’articolo di Tamba-Mecz e Veyne (1979, pp. 77 sgg.), in cui gli autori, proprio in riferimento alla metafora in Aristotele, sottolineano come si tratti in ogni caso non di un passaggio di una parola all’altra di senso vicino o contiguo, bensì di una attribuzione di un nome (o di un insieme di nomi) alla realtà. Sempre sulla metafora in Aristotele, rimando inoltre a Lucchetta 1990, pp. 11 sgg. (spec. pp. 39 sgg.), che sottolinea il suo uso euristico nell’ambito delle opere biologiche. 46. Per un quadro generale e sintetico sul rapporto tra le parole e le cose nell’antichità, rimando a Romeyer Dherbey 1983, pp. 121 sgg. 47. Si ricordi che in Phys. 4, 1, 208 a 27 sgg. si dice che l’ircocervo, così come la Sfinge, non ha un topos (il passo è stato riportato più avanti: cfr. n. 148, p. 159).

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di τεvρας o di monstrum, intesa nel senso tradizionale, rischi di essere fuorviante: il manticora, il basilisco, i mostri di Taprobane e in genere tutti gli esseri dei margini usualmente non indicano alcunché.48 Si può semmai parlare di una vaga similarità morfologica con i prodigi divini (cfr. ad es. Plin. Nat. Hist. 8, 72-75), o tutt’al più si può dire che essi sono simili alle menzogne e alle fabulae dei poeti o alle invenzioni dei pittori. Sebbene si tratti di animali meramente ipotetici, la cui esistenza – come si vedrà – viene enunciata per lo più in base a descrizioni non autottiche, mi sembra di poter dire che il manticora e i mostri delle eschatiai in genere siano da vedere semplicemente come “animali” (stupefacenti per quanto si vuole, ma pur sempre animali). Credo, in questo senso, che da sola l’ottica della “risemantizzazione” sia insufficiente a spiegare il manticora e le altre belve analoghe: non sempre gli animali mostruosi, soprattutto se vivono ai margini del mondo, sono “significanti liberi”; o almeno, non sono mai soltanto “significanti liberi”. Nell’accettare una simile prospettiva semiologica c’è il rischio di vedere le culture unicamente come “testi” manipolati ad arte dagli insiders al solo fine di stupire noi lettori: ogni notizia relativa agli animali sarebbe così una sorta di messaggio cifrato di cui gli stessi uomini dell’antichità avrebbero ignorato il senso,49 laddove invece si dovrebbe ammettere che se i fatti di significato sono onnipresenti in una cultura, «essi non sono mai soli: si intrecciano, per esempio, con fatti ecologici e fatti psicologici d’altra natura» (Sperber 1982, p. 20), con fatti – in altri termini – di contesto. In questo senso dire che un determinato animale “enigmatico” è un significante libero rischia di deviare la nostra attenzione dalla cultura (o dall’individuo) che ha usato tale “significante” e dalle motivazioni che hanno spinto tale cultura (o tale individuo) ad usarlo. In altri termini, se è vero che spesso le notizie relative agli animali “fantastici” sembrano inserirsi, nell’ambito delle storie naturali e del sapere paradossografico degli antichi, in un contesto di continua risemantizzazione del “significante”, in base alla quale un animale “problematico” diventa lo spunto per una sorta di esercizio di variatio nella descrizione dei suoi tratti, non per questo non ci si deve chiedere come e perché sia possibile tale risemantizzazione. Cercare 48. Per il basilisco cfr. Plin. Nat. Hist. 8, 78; Ael. Nat. Anim. 2, 5; 2, 7; 3, 31; 5, 50; 8, 28; 16, 19; Opp. Hal. 1, 129; Gal. de simplicium medicamentorum temperamentis ac facultatibus, XII, p. 250 Kühn; Plut. Praecepta gerendae rei publicae, 806 E 10; Hld. Aith. 3, 8, 2; Eus. Comm. in Psalm. 23, 1156; Ps. Pall. Ind. 1, 4. Per i mostri di Taprobane cfr. Ael. Nat. Anim. 16, 18. 49. Per una critica al concetto di simbolo come segno mi rifaccio qui a Sperber 1981, pp. 24 sgg.

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“significati impropri” ogni qual volta si è di fronte ad una notizia “apparentemente irrazionale” devia il nostro sguardo dalla comprensione dei modelli culturali, epistemologici e psicologici che hanno permesso a tali notizie di proliferare e di venire diffuse in determinati gruppi di persone. Per questo studiare il manticora non dovrà significare semplicemente decodificarne il significato o riconoscerne semplicemente l’incomprensibilità e l’inadeguatezza rispetto al nostro sapere zoologico; significherà semmai utilizzarlo come punto di partenza per una maggiore comprensione del contesto culturale in cui esso nasce e si diffonde. In altri termini, nell’impossibilità di “cacciare” alla lettera un manticora, sarà forse meglio trasformarlo in “esca” per studiare, per così dire, l’habitat mentale e culturale nel quale alligna e a partire dal quale il dato ad esso relativo si propaga.50 A tal fine credo che possa rivelarsi quanto mai proficuo parlare del manticora, e degli animali “fantastici” in generale, in termini “rappresentazionali”. Poiché infatti qualsivoglia prospettiva criptozoologica non sembra praticabile (dal momento che, per ovvie ragioni, non potremo mai esaminare un manticora in carne ed ossa), bisogna rassegnarsi a pensare le notizie che gli antichi ci riferiscono in proposito come “rappresentazioni culturali”. In quest’ottica mi rifaccio espressamente a Dan Sperber, il quale distingue tre tipi di rappresentazioni: 1) le rappresentazioni mentali; 2) le rappresentazioni pubbliche; 3) le rappresentazioni culturali.51 Posto che «una rappresentazione stabilisce una relazione fra almeno tre termini: ciò che rappresenta, ciò che è rappresentato e il fruitore della rappresentazione»,52 si dirà, molto schematicamente, che la rappresentazione mentale esiste unicamente nella mente di colui che ne fruisce, il quale si trova contemporaneamente ad esserne anche l’unico produttore. Secondo Sperber, una rappresentazione mentale di un individuo facente parte di un determinato gruppo può essere colta attraverso il rilevamento di alcuni comportamenti sintomatici che fanno comprendere che il dato individuo è abitato dalla tale rappresentazione. Le rappresentazioni pubbliche sono veri e propri testi (orali, scritti, etc.) mediante i quali un individuo decide di comunicare la propria rappresentazione mentale. Ovviamente, se nel caso della rappresentazione mentale il fruitore è uno solo, la rappresentazione pubblica può avere diversi fruitori. L’effetto di tale fenomeno è ten50. Molto devo, per questo approccio allo studio delle rappresentazioni dei Greci e dei Latini, alla lettura di Guastella 1999, pp. 73-104. 51. Cfr. Sperber 1982, pp. 19 sgg. e Sperber 1999, pp. 37 sgg. 52. Sperber 1999, p. 37.

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denzialmente la creazione di una nuova rappresentazione mentale nel fruitore. A tale proposito Sperber precisa però che la creazione di una nuova rappresentazione mentale non corrisponde quasi mai ad una copia della rappresentazione che ha dato origine alla rappresentazione pubblica; si deve semmai parlare di versioni diverse di una medesima rappresentazione. Ora, considerando un gruppo sociale o comunque un insieme di individui, si dirà che essi sono abitati da una serie di rappresentazioni mentali e pubbliche delle quali alcune hanno vita breve, altre sono registrate «nella memoria a lungo termine e costituiscono la “conoscenza” dell’individuo».53 Quando una determinata rappresentazione mentale viene ripetutamente comunicata e finisce per “contagiare” l’intero gruppo, così che ogni individuo fruisce di una propria versione di essa, si dirà che si ha a che fare con una rappresentazione culturale: «quando parliamo di rappresentazioni culturali abbiamo in mente – o dovremmo avere in mente – tali rappresentazioni largamente distribuite e di lunga durata. Le rappresentazioni culturali così intese sono un sottoinsieme dai confini sfumati dell’insieme delle rappresentazioni pubbliche e mentali che abitano un certo gruppo sociale».54 Ebbene, quello che propongo di fare è di analizzare le descrizioni relative agli animali “fantastici” dell’antichità (in particolare quelle relative al manticora) come “rappresentazioni culturali” in senso lato. Un approccio del genere ha ovviamente i suoi limiti, ma anche i suoi pregi. Cercherò di esporli entrambi nei paragrafi seguenti. 1.4.1 Il manticora come rappresentazione culturale e i limiti dell’antropologia del mondo antico La “trasmissione” del manticora è sicuramente un fenomeno di lunga durata; la notizia relativa al sanguinario essere indiano infatti viene ripresa di secolo in secolo (con maggiore o minore dose di scetticismo) nelle pagine di Aristotele, di Plinio il Vecchio, di Pausania, di Eliano, di Filostrato, di Solino e infine di Eusebio di Cesarea.55 In questo senso la rappresentazione relativa al manticora è senza dubbio una rappresentazione che in qualche modo riguarda la cultura greca e latina per un lunghissimo arco di tempo (per un periodo che va dal IV sec. a.C. al IV sec. d.C.). 53. Sperber 1999, p. 38. 54. Sperber 1999, p. 38. 55. Cfr. rispettivamente Aristot. Hist. Anim. 2, 1, 501 a 24 sgg. (pp. 148 sgg.); Plin. Nat. Hist. 8, 75 e 107 (pp. 171 sgg.); Paus. 9, 21, 4 (pp. 275 sgg.); Ael. Nat. Anim. 4, 21 (pp. 251 sgg.); Philostr. Ap. 3, 45 (pp. 290 sgg.); Eus. Hier. 22 (pp. 297 sgg.); Sol. 52, 37 (pp. 238 sgg.).

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Bisogna però riconoscere che è oltre modo difficile dire con precisione quanto le rappresentazioni relative al manticora e in genere agli animali “fantastici” potessero essere largamente diffuse e condivise nel mondo greco e nel mondo latino.56 È un problema, questo, legato alla ben più complicata questione della possibilità di effettuare analisi antropologiche stricto sensu per il mondo antico.57 È bene dire infatti che ogni lettura antropologica della produzione letteraria dell’antichità dovrebbe riconoscere i propri limiti. Se è vero che «il compito dell’antropologo è quello di spiegare le rappresentazioni culturali, di descrivere cioè i fattori che determinano la selezione di certe rappresentazioni e il fatto che un gruppo sociale le condivida» e che dall’altro lato «il compito dell’etnografo, non unico, ma principale, è quello di rendere intellegibile l’esperienza di esseri umani così come si determina dal loro appartenere a un gruppo sociale»,58 si deve riconoscere che una antropologia del mondo antico è sempre e comunque un’antropologia monca di una etnografia fedele.59 I nostri informatori, ovvero quei pochi testi di cui disponiamo, non sempre rispondono alle nostre domande, né le nostre domande sono frutto di una vera ricerca sul campo. La ricostruzione della vita quotidiana di un uomo romano al tempo di Plinio il Vecchio, solo per fare un esempio, se escludiamo le epigrafi e le iscrizioni, è per lo più una ricostruzione intellettuale filtrata da testi che facevano comunque parte della cosiddetta cultura alta. Ogni esperienza umana può essere ricostruita (e talvolta inventata) soltanto attraverso una paziente opera di detecting sui testi, e non certo dal contatto diretto con gli individui. Per di più, se c’è perfino chi dubita che gli etnografi possano veramente realizzare il loro intento di descrivere e interpretare le culture ancora esistenti,60 a 56. È comunque talvolta possibile inferire la vasta diffusione di determinate rappresentazioni. Nel caso delle formiche scavatrici dell’oro (anch’esse, come il manticora, animali favolosi attestati ora in India ora in Etiopia), ad es., è possibile ipotizzare addirittura un uso proverbiale del motivo. Cfr. ad es. Luc. Gall. 16; Philostr. Ap. 6, 1; Eubulo fr. 20 Hunter (cfr. Harp. Lex. s.v. χρυσωχοειν' , pp. 307309 Dindorf). Su questi passi P. Li Causi e R. Pomelli, L’India, l’oro, le formiche: storia di una rappresentazione culturale da Erodoto a Dione di Prusa (di prossima pubblicazione su «Hormos»). Per il manticora non ci sono versioni pubbliche a partire dalle quali sia possibile attestare con certezza un uso analogo. 57. A questo proposito rimando a Guastella 1999, pp. 73 sgg., oltre che a Calame 1990, pp. 111 sgg. 58. Entrambe le citazioni sono tratte da Sperber 1982, p. 51. 59. Su questo problema cfr. Calame 1990, pp. 114 sgg. 60. A questo proposito cfr. Guastella 1999, p. 84: «L’etnografo vero si sposta nello spazio e viene in contatto con una realtà culturale totale. […] Noi possiamo solo viaggiare in metafora; viaggiamo nel tempo, e la realtà culturale con cui veniamo a contatto è fatta di frammenti. I dati a nostra disposizione sono pochissimi, quasi sempre è necessario integrarli per congettura e, soprattutto, noi non possiamo interrogare persone vive».

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maggior ragione ritengo che sia quasi impensabile riuscire ad inferire, da un qualsivoglia comportamento sintomatico, di cui non disponiamo, una rappresentazione mentale di un membro del gruppo presso il quale si presume siano state contagiate idee relative agli animali delle eschatiai. Un antropologo marziano senza che noi gli spieghiamo cosa sono i “germi” potrebbe facilmente dedurre che noi “crediamo ai germi” (qualunque cosa essi siano) osservando il nostro scrupolo nel seguire determinate norme igieniche; noi, invece, non potremmo mai sapere quali erano le precauzioni che un uomo greco prendeva, in occasione di un viaggio in India, per non farsi sbranare da un manticora. Certo, si può facilmente immaginare che, per evitare che in Africa i leoni li divorassero, i cacciatori bruciassero di notte, nei serragli, i poveri leontofoni (qualunque cosa essi fossero), ma non riusciremmo mai a comprendere veramente la paura che si poteva provare per un manticora o il sollievo che poteva dare ad un cacciatore greco che si trovasse in Africa il fatto di avere con sé un leontofono (sempre che, ovviamente, il leontofono esistesse davvero e che la storia trasmessa da Plinio non fosse una semplice diceria).61 In altre parole, non possiamo che intuire, attraverso il filtro opaco dei testi, le esperienze di vita degli uomini: chi fa antropologia del mondo antico soltanto metaforicamente può effettuare ricerche sul campo. Lo stesso campo, purtroppo, spesso assomiglia alle rovine dei templi che ci sono rimasti: i testi sono monchi e spesso inquinati dal cemento delle nostre piccole speculazioni edilizie: gli antichi spesso sono per noi un pretesto per proiettare in essi i nostri sistemi di pensiero, per avallare, ad esempio, la nostra medicina, la nostra etica, la nostra scienza, insomma, i nostri spazi vitali. In altre parole spesso lo spazio dell’antichità diventa lo spazio dei nostri antenati che fa da fondamento alla nostra vita e gli antichi, il nostro “altro” storico, si perdono in una confusa identità con il noi.62 1.4.2 Una ritrattazione apparente: sull’anacronismo e l’utilità delle “rappresentazioni” È giusto precisare che non credo fino in fondo alla dizione di “rappresentazione culturale”: gli antichi in effetti non usavano tale categoria. Ho tuttavia le mie buone ragioni per dire che essa risolva molti più problemi di quanti non ne ponga. 61. Cfr. Plin. Nat. Hist. 8, 136. Su questo passo cfr. p. 28. 62. Questo atteggiamento, mediante il quale gli antichi diventano una sorta di «estensione di un noi reticente», viene sapientemente descritto da Guastella 1999, pp. 92 sgg.

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Non so dire con certezza se gli antichi ragionassero in termini rappresentazionali.63 Voglio solo dire che potrebbe essere utile, come ipotesi di lavoro, pensarlo e che potrebbe farci comprendere qualcosa. In altri termini, è difficile dire se tutti i Greci o tutti i Romani avessero una propria rappresentazione mentale del manticora o se ci fossero stati in Grecia e a Roma comportamenti sintomatici che rimandavano ad una vera e propria “credenza” relativa alla belva. È anche possibile che le conoscenze relative al manticora fossero conoscenze “alte” e che parlare di questo essere (o di esseri analoghi) al tempo, per esempio, di Aristotele potesse equivalere a parlare oggi, in termini specialistici e nell’ambito di una cerchia ristretta, del secondo principio della termodinamica.64 Queste, credo, sono questioni alle quali nessun antichista potrebbe rispondere con certezza e che sicuramente si rivelano un limite non indifferente per la ricerca. Non è possibile sapere quanto e come fossero condivise, al di fuori dei testi che le risemantizzavano, le rappresentazioni relative ai mostri delle eschatiai;65 tuttavia, proprio perché sono concepite e comprese nel contesto di un sapere “zoologico” e di una concezione “etnografica” – e dunque di “costrutti culturali” – che appaiono largamente condivisi,66 le rappresentazioni pubbliche del manticora in nostro possesso possono essere lette come rappresentazioni culturali lato sensu.67 Ciò ovviamente non equivale a dire che la rappresentazione del manticora sia una rappresentazione collettiva. Come si vedrà più avanti, infatti, ogni volta che un autore rappresenta il manticora 63. In particolare sulle modalità di ragionamento discorsive e dialogiche dei Greci si veda il recentissimo Cozzo 2002 (spec. pp. 25 sgg. e 85 sgg.), che dimostra come in Grecia pensare e parlare siano sempre un’esperienza sociale e non una modalità solipsistica e “proposizionale” in senso forte. 64. Nel parlare della “teratologia antica” troppo spesso si sono usati termini come “geografia dell’inesistente” (Bianchi 1981, p. 236) o affini. Termini del genere rischiano di condurre ad errori prospettici assai gravi: ci si dimentica infatti che esseri come il manticora e i monocoli sono inesistenti per noi soltanto e non certo per chi li considerava a tutti gli effetti come oggetti “scientifici” (o dati “storici”). 65. Cfr. n. 56, p. 37. 66. Sul sapere zoologico “diffuso” degli antichi cfr. Bettini 1998, pp. 229 sgg. e Lanata 2000, pp. 7 sgg. 67. Cfr. Sperber 1982, p. 46, in cui si dice che una rappresentazione culturale «consiste in una molteplicità di versioni mentali e pubbliche, legate fra loro sia dalla genesi sia dalla similarità del contenuto. L’insieme delle rappresentazioni di questo tipo, che circolano in una comunità umana, ne costituisce la cultura. Per estensione qualsiasi fenomeno determinato in parte da tali rappresentazioni specificamente culturali può dirsi culturale a sua volta […]. In particolar modo in questo senso tutte le rappresentazioni mentali, perfino quelle comunicate una sola volta, perfino quelle mai comunicate, sono, per quanto poco culturali, concepite e comprese nel contesto di un sapere condiviso; costituiscono, sotto certi aspetti, versioni periferiche, trasformazioni idiosincrasiche di rappresentazioni comuni».

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non effettua una copia di una rappresentazione archetipica o canonica, ma fornisce la propria versione adattandola ai propri campi di evocazione e al proprio contesto culturale (quelli che io qui chiamo il “progetto”).68 Ciò che si deve con ogni forza evitare, in casi di rappresentazioni di lunga durata come quella che ho intenzione di studiare, è proprio la generalizzazione o la “collettivizzazione” delle rappresentazioni e delle credenze69 (sempre che – ovviamente – si possa parlare di credenze):70 come si vedrà più avanti ogni autore antico dà la propria versione dell’animale, o meglio: ogni autore comunica la propria versione pubblica della propria rappresentazione mentale di una rappresentazione culturale in senso lato. Ne consegue evidentemente che le rappresentazioni del manticora di cui disponiamo, e di molti altri dati aporetici e controintuitivi della tradizione etnozoologica antica, sono, per certi versi, metarappresentazionali; si tratta cioè di rappresentazioni di rappresentazioni che sono – per dirla con Sperber – messe fra virgolette e commentate.71 È proprio questo il motivo per cui, dal momento che l’oggetto del mio studio è – per così dire – una sorta di ente di secondo grado, non ritengo opportuno prendere in considerazione una sola versione del dato. A mio avviso infatti è necessario esaminare ognuna delle diverse rappresentazioni nella sua particolare singolarità di progetto e, soprattutto, in relazione con le altre versioni a noi giunte. Come accade per lo studio dei miti, infatti, anche per le rappresentazioni relative agli animali nel mondo antico si potrebbe certo arrivare, attraverso una sintesi selettiva dei tratti di ognuna di esse,72 alla ricostruzione di una versione canonica, ad esempio, del manticora o di qualsivoglia altro animale – invisibile o no – di cui gli antichi abbiano avuto notizia; bisogna però dire che ogni versione canonica, ogni struttura «è un oggetto astratto, che non esiste nella società studiata; può servire a fini espositivi, ma, così com’è, non fornisce, né richiede, una spiegazione».73 68. Per il concetto di “campo di evocazione” cfr. Sperber 1981, pp. 116 sgg. 69. Il rischio di farsi prendere da quella che Romano 1999, p. 20 chiama la “tentazione uniformante”, che porta a pensare l’antichità come un blocco monolitico, è sempre presente ogni qual volta si deve parlare di “cultura antica”: «l’uso di categorie unificanti e di grandi generalizzazioni presuppone la concezione di un mondo antico unitario: un vero e proprio mito che segna la storia degli studi di antichistica fin dal loro costituirsi, e che è a sua volta strettamente connesso al mito dell’antichità come origine» (Romano 1999, p. 20). 70. Cfr. a questo proposito Good 1999, pp. 31 sgg. 71. Per il concetto di “rappresentazione meta-rappresentazionale” e per l’immagine della messa fra virgolette cfr. Sperber 1982, pp. 71 sgg. 72. Contro approcci di questo tipo si schiera Sperber 1999, pp. 31 sgg. 73. Sperber 1999, p. 31.

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Ora, nonostante i tratti dell’animale siano – come si vedrà più avanti – tendenzialmente “omologati”, nel mondo antico non è mai esistita una versione canonica del manticora, ma sono esistite diverse versioni pubbliche. Tali versioni, per l’appunto, richiedono di essere analizzate non solo nella loro singolarità, ma anche nel loro essere in qualche modo legate da una sorta di catena “epidemiologica” (una catena che potrebbe anche essere vista come una “raggiera”).74 Esattamente come Sperber 1999 (p. 32) propone di fare con il mito, studiare il manticora significa studiare l’insieme di tutte le sue versioni, non solo segnalando le relazioni “trasformazionali” di somiglianza e di differenza fra l’una e l’altra versione, ma cercando anche di contestualizzarle e di inserirle nel loro ambito culturale. Nonostante una serie di permanenze e di fenomeni di lunga durata, non si può pensare infatti che da Ctesia ad Eliano (o ad Eusebio di Cesarea) sussista una uniformità culturale (o comunque di intenti) tale da poterci permettere tranquillamente di studiare le sole strutture dei racconti. È semmai verosimile che ad ogni differenza “strutturale” o “interpretativa”75 corrisponda un mutato progetto culturale nei confronti di una “rappresentazione” di cui può di volta in volta mutare la modalità o il commento.76 La natura “metarappresentazionale” dei racconti e delle descrizioni relative ad animali invisibili, infatti, fa sì che il contenuto della rappresentazione, messo fra virgolette e inserito all’interno di una rappresentazione di secondo grado, muti a seconda che un autore (visto che solo con autori si può avere a che fare e non con veri e propri insiders) ritenga che la rappresentazione «esiste in India il manticora» sia, ad esempio, ora una conoscenza, ora una credenza, ora una figura, ora, ad esempio, un signum del demonio.77 Ma ognuno dei commenti, ognuna delle rappresentazioni mentali che abitano i singoli autori che interpretano la rappresentazione 74. A tale proposito rimando al par. 0 del cap. 4 (pp. 245 sgg.). 75. Sul concetto di “interpretazione” cfr. Sperber 1982, pp. 19 sgg. 76. Sulla nozione di “commento” nell’ambito di una teoria generale del simbolismo si veda Sperber 1981, pp. 97 sgg. La nozione sperberiana di “commento” ha in qualche modo un funzionamento analogo a quelle che Latour 1998, pp. 28 sgg. ha chiamato “modalità”. Più specificamente, per quanto riguarda la trasformazione degli enunciati in “fatti” nell’ambito di una controversia, si veda la differenza individuata da Latour 1998, pp. 28 sg., fra “modalità positive” (le asserzioni che rendono un enunciato saldo) e “modalità negative” (le asserzioni che spiegano nei dettagli perché un enunciato è saldo oppure debole) che mettono “fra parentesi” altri enunciati commentandoli. 77. Questo diventa il manticora a partire dal Bestiario Moralizzato (XXIV in Morini 1996, p. 505). A tale proposito Morini 1996, pp. 489 sgg. sottolinea come il manticora sia un animale estraneo al catalogo classico presentato dai bestiari precedenti e come l’uso di animali “insoliti” rispetto alla tradizione sia funzionale ad un uso etico più che mistico e allegorico delle descrizioni (cfr. n. 21, p. 24).

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di origine (Ctesia? Una diceria persiana? Una “credenza” indiana?) non è che il frutto di una catena causale che non può non essere modellizata se si vuole capire fino in fondo la specificità delle culture (o dei singoli progetti culturali) che la comprendono. Per fare questo, secondo il modello “epidemiologico” proposto da Sperber (1999 spec. pp. 30 sgg.; pp. 53 sgg.; pp. 81 sgg.), bisogna tenere conto non solo delle versioni pubbliche, ma anche di quelle mentali di determinate rappresentazioni, senza le quali, sostiene Sperber (1999, p. 32), non esisterebbero le catene causali. Bisogna in altri termini ricostruire, oltre che l’ambiente intellettuale e culturale, il contesto psicologico che ha portato ogni singolo interpretante di una rappresentazione a fornire la propria versione o il proprio commento della stessa. Tale operazione, ovviamente, non è affatto semplice. Si è visto sopra come di fatto sia impossibile ricostruire le rappresentazioni mentali dei singoli individui che fanno parte delle culture oggetto di questo studio, e tuttavia, come ricorda Sperber (1999, p. 32), «completare le osservazioni con ipotesi su entità non osservate – o anche non osservabili – è una pratica normale della scienza». Nel caso delle rappresentazioni relative al manticora, le versioni pubbliche delle quali disponiamo possono essere considerate come comportamenti sintomatici di determinati atteggiamenti mentali di un autore che, se pur da una posizione privilegiata, partecipa di una determinata cultura. In questo senso, come nel caso del mito, lo studio di una rappresentazione relativa ad un oggetto invisibile (quali possono essere gli animali dell’antichità che chiamiamo comunemente “fantastici”) presuppone, secondo il modello sperberiano,78 lo studio dei seguenti tre tipi di oggetti: 1) narrazioni: ossia rappresentazioni pubbliche che possono essere osservate e registrate, ma che possono essere interpretate solamente prendendo in considerazione: 2) storie: ossia rappresentazioni mentali di eventi che possono essere espresse come, o costruite a partire da narrazioni; 3) catene causali: storie-narrazioni-storie-narrazioni.79

Se si vuole illustrare tale schema, si potrebbe dire che 1) le narrazioni con le quali si avrà a che fare sono le singole versioni pubbliche del manticora che ci sono pervenute; 2) le storie sono i singoli commenti che vengono fatti da ogni singolo interpretante alle singole versioni dell’animale con le quali gli stessi sono venuti a contatto e che essi stessi hanno trasformato a loro volta in narrazioni (o ver78. Lo schema riportato nel corpo principale del testo è tratto da Sperber 1999, p. 32. 79. Cfr. Sperber 1999, p. 32 da cui è trascritta la tripartizione in storie, narrazioni e catene.

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sioni); 3) la catena causale sarà invece l’insieme degli oggetti (le versioni del manticora) che devono essere studiati. Studiare tale insieme, come si è già più volte detto, implica la spiegazione delle trasmissioni e le trasformazioni di una rappresentazione a partire dall’analisi del contesto ecologico e psicologico (e dunque “progettuale”) di base. Solo per fare un esempio, non è indifferente notare che all’origine della descrizione di Ctesia potrebbe esserci o una trasmissione orale di una credenza persiana o anche una interpretazione mentale, da parte del medico greco, di un modello pubblico figurativo (ad esempio il Lamassu o l’uomo-toro, due noti motivi iconografici della tradizione mesopotamica) che a sua volta potrebbe interpretare una credenza religiosa.80 Diverso invece è senz’altro il caso degli interpreti posteriori, che sembrano utilizzare, come narrazione di partenza quel determinato stato ambientale costituito dall’insieme dei testi scritti e traditi che formano il sapere etno-zoografico degli antichi e, nel caso particolare del manticora, principalmente dal testo degli Indikà di Ctesia. 1.5 Che tipo di rappresentazioni sono le rappresentazioni relative ad un animale “fantastico”? 1.5.1 Alcune considerazioni su una battuta di caccia al drago Nei paragrafi precedenti ho proposto di studiare gli animali “fantastici” del mondo antico (così come gli oggetti della paradossografia in genere) in termini rappresentazionali. Questo però ancora non basta. Bisogna infatti chiedersi, prima di procedere ad un’analisi veramente ragionata dei passi, che tipo di rappresentazioni sono le rappresentazioni culturali relative ad un animale “fantastico” o ipotetico. La domanda non è di poco momento. Eppure prima di rispondere (prima di partire per il nostro viaggio ai confini del mondo) è forse opportuno farsi un ultimo esame di coscienza e chiedersi: «chi di noi sarebbe disposto a fare una spedizione in India alla ricerca del “vero” manticora sulla base dei testi antichi?» (sempre che, ovviamente, fra i lettori non ci sia un fervente criptozoologo). In fondo il manticora viene sempre letto dagli studiosi come una bizzarria degli antichi, o (molto peggio) come una “balla” di Ctesia. Questa posizione in fondo ha un senso, dacché il sanguinario mostro indiano, per noi, non è affatto un animale domestico 80. A tale proposito si veda Lenfant 1995, pp. 319 sgg., il quale individua in alcuni motivi rispettivamente della teratologia mesopotamica, dell’iconografia achemenide e dell’epica indiana le fonti per alcune creazioni di Ctesia (fonti che tuttavia, ad avviso dell’autore, sarebbero state rielaborate in maniera del tutto originale). Più in particolare per il Lamassu vd. anche pp. 59 sg. del presente studio (oltre che fig. 6).

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(come il cane), né un animale comunque familiare (come la gazzella), né risulta, da ultimo, che esso sia stato mai oggetto di un qualsivoglia documentario televisivo. In altri termini, nessuno di noi ha mai avvistato un manticora (almeno come ce lo descriveva Ctesia), e per di più, se solo si spargesse la notizia di un avvistamento, le prime reazioni sarebbero senza dubbio di incredulità e di scetticismo (sempre a non essere criptozoologi).81 Reazioni del genere sarebbero ovviamente comuni (perché basate, per l’appunto, sul senso comune) e in fondo non differiscono di molto dalla reazione dello stesso Dan Sperber nei confronti di un suo informatore Dorze di nome Filaté. In una domenica d’agosto del 1969, Filaté, in preda all’eccitazione, aveva pregato Sperber di uccidere un drago che si aggirava nei pressi del villaggio, un drago che descriveva in questa maniera: «– Il suo cuore è d’oro. Ha un corno sulla nuca. Tutto il suo corpo è dorato. Non vive lontano da qui, a due giorni di cammino al massimo. Se lo uccidi sarai un grand’uomo».

Ebbene, la prima reazione dell’etnografo, anziché partire alla caccia del mostro assieme all’anziano Dorze, fu piuttosto quella di chiedersi come fosse possibile analizzare le «apparently irrational beliefs» che abitano la mente dei membri di culture diverse dalla nostra: «Sentivo affetto e rispetto per Filaté. Era molto vecchio, certo, ma non senile ed era troppo povero per bere. Il suo stato di eccitamento quel giorno era l’effetto, e non la causa, di quanto aveva da dirmi. Come spiegare tuttavia che un uomo sano di mente creda a storie di un drago che sarebbero successe non “nel tempo che fu” ma ora e nelle vicinanze? Come conciliare il mio rispetto per Filaté e la mia convinzione che una credenza simile è assurda? Questo è naturalmente solo un esempio in più per un problema generale discusso da molto tempo: come analizzare credenze apparentemente irrazionali?».82

Da questa domanda, nata sul campo, è venuto alla luce il secondo capitolo de Il sapere degli antropologi,83 un testo che – devo confessarlo – mi ha spinto ad occuparmi di quelle che un tempo ri81. In un certo senso un avvistamento del mostro indiano si è verificato non molto tempo fa. Negli anni ’30 infatti, stando a quanto ci riferisce il traduttore di un Bestiario inglese del XIII secolo (White 19695, n. 1 p. 52), un viaggiatore inglese sarebbe stato aggredito dagli abitanti di un piccolo villaggio andaluso perché scambiato per un manticora! 82. Sperber 1982, pp. 53 sg. L’espressione «credenze apparentemente irrazionali» è una traduzione di «apparently irrational beliefs». Bisogna però segnalare in nota che, a mio avviso, l’autore gioca implicitamente sull’ambiguità del termine “apparently” che può anche significare “palesemente”. 83. Sperber 1982, pp. 53-86.

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tenevo le “credenze irrazionali” degli antichi relative agli animali comunemente considerati “fantastici” e che tuttora ritengo di grande aiuto per la comprensione del problema. Eppure, devo dire che, ogni qual volta mi trovo a rileggere la storia dell’etnografo Sperber (o forse è meglio dire: dello Sperber-personaggio e protagonista del proprio diario di campo)84 e della sua conversazione con Filaté non posso che provare una punta di rammarico per quest’ultimo. Penso al sentimento di disillusione e di tradimento che il vecchio dorze deve aver provato nei confronti del forenji (“forestiero” in lingua dorze) che rimandava la caccia al drago.85 Sì, perché sono convinto che Filaté credeva veramente al suo drago e sperava veramente che qualcuno lo uccidesse.86 Chi meglio del forestiero bianco avrebbe potuto compiere un’impresa che a lungo i posteri avrebbero ricordato nei loro canti? La possibilità di un tale sentimento nel vecchio dorze dovrebbe metterci sull’attenti: è infatti possibile che quelle che noi consideriamo bizzarrie o false credenze siano prese sul serio dagli antichi (anche da uno solo di essi). Per ritornare al manticora, ad esempio, si vedrà come, ad esclusione di Plinio e Solino, gli autori dell’antichità commentino con vari gradi di cautela la notizia trasmessa da Ctesia,87 e tuttavia non è 84. A partire dal diary di Malinowski (B. Malinowski, A diary in the strict sense of the term, Harcourt, New York 1967) e soprattutto con il movimento di Writing Culture si è cominciata ad affermare in antropologia l’idea del rapporto antropologo-informatore in termini di fiction. Per una discussione su queste tendenze, affermatesi soprattutto negli anni ’80 e ’90, cfr. Canevacci 1994, pp. 7 sgg. e Fabio Dei, Realismo etnografico e realismo letterario (in corso di pubblicazione). 85. Credo tuttavia che lo stesso Sperber abbia provato questa sorta di rammarico: «Nel corso degli anni, ho ripensato spesso a questo episodio, e ciò che mi disturba ancor oggi non è più la mia risposta a Filaté, ma il silenzio imbarazzato del giorno dopo. Vedersi invitati ad uccidere un drago non è un’esperienza comune; evoca anche ricordi, paure e sogni condivisi. Che vergogna potevo allora provare lasciandomi prendere nel gioco? Ecco come mi spiego il mio comportamento; ero ancora un etnografo inesperto, ma alle prime parole di Filaté ho capito tutto ciò che il “caso” aveva di esemplare: un vecchio saggio che credeva sul serio ai draghi, l’abisso fra le culture illustrato in una vignetta! Ebbene, un momento dopo, avendo superato senza nemmeno rendermi conto l’abisso inattraversabile, ero diventato un uccisore recalcitrante di draghi. A quel punto, la sola differenza notevole fra il modo di pensare di Filaté e il mio era che, lui, ci trovava piacere e sapeva come farlo durare. Quando sono “ritornato me stesso”, studioso che prende note erudite, ho ricreato il preteso abisso» (Sperber 1982, p. 85). 86. Di questa idea sembra essere anche Good 1999, p. 31: «Alla fine egli [Sperber] conclude che la credenza del vecchio Filate [sic] era solo “semiproposizionale” e “non fattuale”: non era un tipo di credenza intesa a rappresentare il mondo per quello che è, e non era abbastanza chiara da essere formulata sotto forma di proposizioni falsificabili. La soluzione di Sperber è che, dopotutto, il vecchio Filaté non credeva realmente al drago; la sua era una fantasticheria per intrattenere se stesso e, in definitiva, l’antropologo». Per il concetto di “credenza semiproposizionale” e “credenza fattuale” cfr. Sperber 1982, pp. 71 sgg. 87. Cfr. FrGrHist 688 T. 1-19.

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da escludere a priori che il medico di Cnido sia stato il primo a credere fino in fondo alle cose di cui parlava.88 In altri termini c’è sempre la possibilità che quella che noi consideriamo una “falsa credenza” possa essere (anche per uno solo degli insiders della cultura oggetto di studio) una vera e propria “conoscenza”.89 Questo ovviamente non significa che anche noi dobbiamo essere disposti a credere (questo è grosso modo l’atteggiamento della criptozoologia), ma che quanto meno dovremmo comunque recuperare le notizie che noi consideriamo bizzarre e che rischiano di essere occultate dall’indagine antichistica.90 In questo senso l’approccio rappresentazionale ci può essere di grande aiuto, dal momento che ci permette di “mettere fra virgolette” notizie altrimenti da scartare come “rimasugli”91 e studiarne il funzionamento all’interno delle culture o dei testi nei quali esse vengono trasmesse e prodotte. Quello che ci serve infatti non è tanto una “teoria della credulità” degli antichi o una “semiologia dei mostri”, quanto un modello che sappia coniugare i fattori psicologici con quelli “ambientali” e culturali di contesto. Non si tratta infatti di parlare della superiorità dei nostri modelli rispetto a quelli degli antichi o, al contrario, di vedere gli antichi come i “fondatori” del nostro modo di pensare. Si tratta semmai di cercare di descrivere, in primo luogo, i meccanismi di funzionamento di un ambito di sapere ben preciso che potremmo chiamare, usando un’espressione meramente interpretativa, la “zoologia dell’antichità”. In seconda istanza si tratta di vedere (attraverso un oggetto “esca” che può benissimo essere il 88. Curioso è in questo senso l’atteggiamento del patriarca Fozio che, mentre condanna le “scempiaggini” di alcuni paradossografi (in particolare del neoplatonico Damascio), non fa alcun commento per le meraviglie narrate da Ctesia e si limita asetticamente a concludere la sua recensione degli Indikà con queste parole (cfr. FrGrHist 688 F. 45, 51): «ταυ'τα γραφv ων και; µυθολογων' Κτησιvας λεvγ ει

ταjληθεvστατα γραvφειν, εjπαvγ ων ωJς τα; µε;ν αυjτο;ς ιjδω;ν γραvφειν τα; δε; παρ∆αυjτω'ν µαθω;ν τω'ν ιjδοvντων, πολλα; δε; τουvτων και; α[λλα θαυµασιωvτερα παραλιπει'ν δια; το; µη; δοvξαι τοι'ς µη; τεθεαµεvνοις α[πιστα συγγραvφειν. [εjν οι|ς και; ταυ'τα]» («Ctesia ha

scritto queste storie meravigliose e dice di avere detto la pura verità; afferma inoltre di avere raccontato cose in parte viste direttamente, in parte apprese da testimoni oculari. Molte altre cose – ancor più mirabolanti di queste – dice di averle messe da parte, per non dare a vedere, a chi non poteva verificare con i propri occhi, di avere scritto cose incredibili. E qui termina l’opera»). A proposito dei giudizi di Fozio sui paradossografi cfr. Wilson 1992, pp. 34 sg. La dichiarazione di reticenza di Ctesia nei confronti di altri dati mirabolanti omessi negli Indikà potrebbe comunque essere letta come un “effetto di realtà” costruito ad arte dall’autore. 89. Cfr. a questo proposito Good 1999, p. 43 il quale sostiene che «l’assunzione della credenza a categoria centrale dell’analisi delle culture sia stato un evento fatale per l’antropologia» in quanto ha portato a porre su un piedistallo le conoscenze degli osservatori rispetto a quelle degli osservati. 90. Cfr. a questo proposito Romano 1997, pp. 35 sgg. e Guastella 1999, p. 87. 91. Mi rifaccio qui all’espressione usata da Kluckhohn 1979, p. 14 per definire l’antropologia, chiamata, per l’appunto, “scienza dei rimasugli”.

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manticora) come i dati paradossali o “apparentemente irrazionali” vengano di volta in volta processati all’interno di questo ambito. 1.5.2 Modulare un modello: Sperber e le rappresentazioni semi-proposizionali Come ho già accennato, non credo che basti dire che la descrizione del manticora presente in Fozio o, ad esempio, in Aristotele sia una “rappresentazione”. Bisogna infatti fare alcune ulteriori precisazioni. A questo proposito Sperber (1982, pp. 71 sgg.) distingue le rappresentazioni proposizionali dalle rappresentazioni semi-proposizionali. Queste ultime, a detta dell’antropologo francese, sarebbero rappresentazioni che combinano diversi concetti con termini di cui non viene completamente analizzato il contenuto. L’esempio che Sperber riporta è quello del tizio che si trova a leggere, sulle pagine di un quotidiano, la seguente frase: «La stagflazione è diventata il primo problema delle economie occidentali»

Il lettore crede che questa proposizione sia “vera”, anche se non comprende fino in fondo il significato della parola “stagflazione”. Si dirà dunque che una determinata rappresentazione («la stagflazione etc.») abiterà nella mente del dato lettore del quotidiano e che però tale rappresentazione concettuale sarà incompleta, dal momento che non potrà assolvere del tutto la sua funzione, che, per definizione, è quella di «identificare una proposizione e una sola».92 A seconda delle spiegazioni che il lettore darà della parola “stagflazione”, infatti, il significato della rappresentazione cambierà indicando di volta in volta tante proposizioni quanti saranno i significati ipotizzati per il termine. Ora, nel caso della stagflazione, è possibile arrivare a trovare una “buona interpretazione” della rappresentazione semi-proposizionale, la quale, finalmente, potrà di fatto diventare una rappresentazione proposizionale a tutti gli effetti: una volta che il lettore, magari dopo aver consultato un buon manuale di economia, scoprirà che il problema delle economie occidentali sta nella “presenza simultanea di fenomeni di stagnazione e inflazione”, il gioco è fatto. C’è però un’altra possibilità: «può succedere – avverte Sperber (1982, p. 74 sg.) – […] che chi parla abbia detto qualcosa che lui stesso non capiva benissimo e di cui, lui stesso, non aveva che una rappresentazione semi-proposizionale. In questo caso, sarà proprio la rappresentazione semi-proposizionale da me costruita, e non una delle sue interpretazioni proposizionali, a corrispondere a ciò che il soggetto narrante voleva esprimere». 92. Sperber 1982, p. 74.

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Mi sembra di capire che questo è, secondo Sperber, proprio il caso di Filaté. Quando l’anziano Dorze chiede al forenji di uccidere il drago – questo mi sembra che voglia dire lo studioso francese – è “abitato” da una rappresentazione semi-proposizionale, da qualcosa di cui lui stesso non riesce a capire fino in fondo il significato. Ebbene, non è da escludere che una situazione simile, in fondo, possa essere stata anche quella di Ctesia: si può ipotizzare ad esempio che il medico greco fosse abitato da una rappresentazione semiproposizionale relativa ad un non ben precisato essere chiamato “manticora” e che la trasmettesse ai suoi lettori i quali di volta in volta avrebbero scelto di comportarsi ora come Aristotele, ora come Pausania, ora come Plinio, ora, ad esempio, come Dan Sperber di fronte al drago di Filaté: qualcuno avrebbe detto che la rappresentazione semi-proposizionale di Ctesia era una “balla”, altri (come Pausania) avrebbero sostenuto che erano stati gli Indiani, per primi, a dire sciocchezze, altri ancora potrebbero invece asserire addirittura che quella di Ctesia era una “rappresentazione semi-proposizionale”! Del resto non è affatto da escludere che il fine di Ctesia, nel raccontare ai suoi compatrioti notizie che, come dice Luciano, “né egli stesso vide né udì da altri che avessero detto la verità”, sia stato di gran lunga differente da quello che Sperber attribuisce al suo amico dorze:93 «A quel punto, la sola differenza notevole fra il modo di pensare di Filaté e il mio era che, lui, ci trovava piacere e sapeva come farlo durare».94

In un certo senso Ctesia, così come Filaté, sarebbe stato mosso da una sorta di fine ludico e, se così si può dire, “estetico” che lo portava a godere della semi-proposizionalità delle notizie “degne di memoria” da lui tramandate.95 Ebbene, a detta di Sperber gli esseri umani usano la semi-proposizionalità come mezzo per “mantenere in memoria” informazioni che superano le loro capacità concettuali, il che servirebbe «non solo a raggiungere la proposizionalità per tappe, ma anche ad ispirare il pensiero creativo»;96 93. Cfr. Luc. Vera Hist. 1, 3. Luciano, nel parodiare la tradizione storiografica greca (e Ctesia), non fa altro che trasformare in “figura” (vale a dire in materiale di costruzione letteraria) una serie di rappresentazioni culturali di largo uso e di larga diffusione: le notizie paradossografiche. La trasformazione in figura di queste rappresentazioni avviene tramite la menzione delle stesse (o di rappresentazioni similari ed analoghe) unitamente all’eliminazione delle marche di verità usuali (la opsis e la akoè). Cfr. ad es. Vera Hist. 1, 4 : «γραvφω τοιvνυν περι; ω|ν µηvτε ει\δον µηvτε ε[παθον µηvτε παρ∆αλ [ λων επ j υθοµ v ην» («Io scrivo di cose che non ho mai visto, delle quali non ho fatto esperienza diretta e che nessuno mi ha mai raccontato»). Per una spiegazione antropologica del passaggio da “credenza” in “figura” cfr. Sperber 1981, pp. 100 sgg. 94. Sperber 1982, p. 85. 95. Anche Auberger 1995, pp. 47 sgg. sembra convinto di questa interpretazione. 96. Cfr. a tale proposito Sperber 1982, p. 76.

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ma a questo punto bisogna chiedersi: era dunque per una mera questione di “pensiero creativo” che Ctesia (o un indiano in preda ad una allucinazione)97 aveva partorito l’idea del manticora? Chi ci dice, in fondo, che pensando all’orrendo mostro indiano Ctesia non sentisse il proprio sangue gelarsi nelle vene? Chi ci dice, insomma, che Ctesia non provasse un sincero terrore nei confronti del manticora? Io stesso – lo ammetto – se smetto soltanto per un attimo di pensare ai testi che ho schedato come ad un coacervo di caratteri inerti di inchiostro che giacciono su una pagina in attesa di essere tradotti ed interpretati, se solo per un momento, spogliandomi delle mie pesanti vesti di “filologo”,98 mi trasformo nel lettore di un racconto di finzione e mi ammanto di una leggera suspension of disbelief, non posso che immaginare il sangue che gronda dalla bocca della belva, le cataste dei corpi umani dilaniati e gli occhi luccicanti di un azzurro che perturba e affascina. In altri termini, se solo per un istante penso al manticora come ad un essere reale non posso non provare davvero paura. Questo è in fondo quello che ha fatto Flaubert, il quale – secondo Borges – avrebbe “migliorato” la descrizione pliniana della belva.99 Lo scrittore francese, infatti, nel parlare dell’animale, non usa, a differenza dell’enciclopedista romano, i toni neutri e rassicuranti del sommario, ma imbastisce una vera e propria scena:100 ne La tentazione di Sant’Antonio per un attimo vediamo il manticora realmente “vivo” e minaccioso. La sua prosopopea si rivolge direttamente a noi lettori, facendoci sentire, per un attimo, l’odore greve del suo pelame e l’orrore del suo fiato che spira la pestilenza della morte. In fondo, per tutto il tempo in cui gli occhi si soffermano su quelle righe del romanzo che parlano del mostro indiano, il lettore ha l’impressione che le gocce di sangue che piovono schioccando sul fogliame siano le proprie.101 97. Sul ruolo della allucinazione nelle “zoomorphic imageries” cfr. Mundkur 19942, pp. 162-174. 98. Vorrei dare una accezione quanto mai larga al termine “filologia”. Cfr. ad esempio l’accezione che Guastella 1999, pp. 73 sgg. riprende a partire da Wilamowitz (cfr. in particolare Guastella 1999, p. 82; n. 15 p. 82). 99. Cfr. n. 8, p. 20. 100. Nell’usare i termini “sommario” e “scena” mi riferisco espressamente alla distinzione effettuata da Genette 1976, pp. 135 sg.; 144 sgg.; 158 sgg. 101. «Le martichoras. Gigantesque lion rouge, à figure humaine avec trois rangées de dents. Les moires de mon pelage écarlate se mêlent au miroitement des grands sables. Je souffles par mes narines l’épouvante des solitudes. Je crache la peste. Je mange les armées, quand elles s’aventurent dans le desert. Mes ongles sont tordus en vrilles, mes dents sont taillées en scie; et ma queue, qui se contourne, est hérissée de dards que je lance à droit, à gauche, en avant, en arrière. – Tiens! Tiens! Le Martichoras jette les épines de sa queue, qui s’irradient comme des flèches dans toutes les directions. Des gouttes de sang pleuvent, en claquant sur le feuillage» (G. Flaubert, La Tentation de Saint Antoine, in Thibaudet e Dumesnil 1951, p. 160).

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Ebbene, le rappresentazioni semi-proposizionali, oltre che eccitare gli anziani Dorze in fondo possono essere anche usate per incutere terrore. È forse questo che intende dire Sperber quando parla del “pensiero creativo”? Non so rispondere a questa domanda se non con illazioni. Per il resto, ritornando alle “apparently irrational beliefs”, credo che sia interessante discutere alcune di quelle che lo studioso francese ritiene le conseguenze della distinzione fra “proposizionalità” e “semi-proposizionalità”: «Nel quadro di una psicologia conoscitiva, non si va avanti affatto dicendo che il sistema di rappresentazioni interne degli esseri umani (a differenza forse del sistema di altre specie) fornisce il proprio metalinguaggio, permette cioè di rappresentare le proprie rappresentazioni. Se a questo si aggiunge che le rappresentazioni concettuali possono essere proposizionali o semiproposizionali, ne risultano importanti conseguenze. Per esporre alcune di queste conseguenze, conviene distinguere due classi di “credenze”: le “credenze fattuali” e le “credenze rappresentazionali”».102

A detta di Sperber, le “credenze fattuali” sarebbero semplicemente “cose che si sanno”, mentre le “credenze rappresentazionali” sono rappresentazioni mentali di rappresentazioni. Ora, considerato che «per essere razionale, una credenza fattuale dev’essere logicamente compatibile con tutte le credenze che le sono correlate per contenuto», ne deriverà che «non è mai razionale accettare una rappresentazione semi-proposizionale come credenza fattuale, poiché certe sue implicazioni restano sconosciute e dunque la sua compatibilità logica con credenze affini non può essere stabilita».103 A questo proposito però Sperber chiama in causa una sorta di “principio di autorità” che renderebbe “razionale” il fatto di credere a livello rappresentativo ad una rappresentazione semi-proposizionale. Se una fonte autorevole (i genitori, la scuola, un filosofo o, ad esempio, un auctor) emana una data rappresentazione semi-proposizionale R, ne deriverà che più interpretazioni offrirà R, più sarà facile credere a livello fattuale che la buona interpretazione di R sia vera. Il fatto che sia razionale che un individuo si fidi di una data fonte implicherebbe di conseguenza che, all’interno di un dato gruppo sociale, certe credenze siano solo “apparentemente” irrazionali e che esse non sempre siano necessariamente “proposizioni accettate come vere”: 102. Sperber 1982, p. 76. Per la distinzione fra “credenze fattuali” e “credenze rappresentazionali” l’autore rimanda espressamente a R. de Souza, How to give a piece of your mind: Or the logic of belief and assent, in «Review of Metaphysics», 25, 1971, pp. 52-79 e D. C. Dennet, Brainstorms: Philosophical essays on mind and psychology, Harvester Press, Hassocks 1978, cap. 6. 103. Sperber 1982, p. 77.

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«Non c’è nessuna ragione, né teorica, né empirica, di pensare che le credenze studiate dagli antropologi e dagli storici siano credenze fattuali. Nessuna ragione teorica: al contrario, è proprio il fatto stesso di supporre che queste credenze siano fattuali a renderle apparentemente irrazionali; se si suppone invece che si tratti di credenze rappresentazionali dal contenuto semi-proposizionale, si può fare a meno del relativismo».104

La conseguenza principale della distinzione sperberiana sarebbe dunque un deprezzamento drastico del “relativismo” degli antropologi, in base al quale “individui di culture diverse vivrebbero in universi diversi”. Il motivo per cui vengono usualmente prodotte e fruite rappresentazioni apparentemente irrazionali non sarebbe, dunque, l’esistenza di modalità cognitive che cambiano con il cambiare delle culture, ma l’universale fenomeno della semiproposizionalità. Questo dovrebbe spiegare perché e come si diffondono le descrizioni, ad esempio, del manticora e, allo stesso modo, renderebbe edotti sul perché e sul come sia possibile “credere” agli UFO, alla teoria del plusvalore o alla stagflazione. Ma siamo così sicuri che Filaté, il lettore di quotidiani e Ctesia (o anche il lettore del romanzo di Flaubert) siano stati abitati tutti alla stessa maniera da un tipo determinato di “credenza” che chiamiamo rappresentazionale? Credo che, a questo punto sia necessario fare alcune precisazioni. Innanzitutto ritengo che sia giusto fare emergere un sospetto che può rivelarsi più utile di quanto non sembri: siamo sicuri che i concetti di “credenza rappresentazionale” e di “proposizione semi-proposizionale” non siano una maniera un po’ più educata per mascherare una visione fortemente etnocentrica dell’alterità? In fondo io immagino un ipotetico lettore che, influenzato dalla lettura de Il sapere degli antropologi di Dan Sperber, pronuncia allibito le seguenti parole sulla mia ricerca sugli animali “favolosi” delle eschatiai: «queste sono rappresentazioni semi-proposizionali pazzesche! – direbbe a proposito di quegli esseri – come fai a perdere il tuo tempo con queste credenze rappresentazionali?», usando le formule “rappresentazioni semi-proposizionali” e “credenze rappresentazionali” come sinonimi colti di “balle”. Certo, io potrei sempre rispondere che queste credenze rappresentazionali ci aiutano a capire meglio il “pensiero creativo” dell’uomo; ma in fondo, forse, finirei per non aver detto molto sui Greci e sui Romani. O, molto più semplicemente, non avrei detto molto su Ctesia, Aristotele, Plinio e sulla loro maniera di vedere (e rappresentare) il mondo. In altri termini, anche se parlare di “credenze rappresentazionali” ha una dignità teorica maggiore rispetto al parlare di “balle” o di 104. Sperber 1982, p. 80.

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τεvρατα (nell’accezione di Eliano),105 credo, in fondo, che il mio contributo allo studio del sapere zoologico degli antichi rischi di essere quanto meno inesistente. Il fatto è che non basta comprendere quali sono le dinamiche psicologiche che ci portano a comprendere come una data rappresentazione o un determinato sapere vengono trasmessi e conservati nella memoria degli individui. Bisogna anche uscire al di fuori delle rappresentazioni e capire qual è il “mondo” (o più semplicemente “il sistema di credenze e di abitudini”) nel quale queste rappresentazioni sono prodotte. In altri termini, bisogna dare contenuti ad un modello epidemiologico che, se troppo rigidamente legato a tesi antirelativistiche, rischia – a mio avviso – di rivelarsi un modello astratto. L’esperienza in fondo insegna che razionalità e relativismo non sono poi così nettamente divisi. A questo proposito Good (1999, p. 35) ricorda che «in un crescendo, filosofi e scienziati sociali si sono associati per capire come le attività del linguaggio e le pratiche sociali contribuiscano attivamente alla costruzione del sapere scientifico».106 Le pratiche sociali e il linguaggio, come minimo, fanno sì che le rappresentazioni semi-proposizionali di Filaté, di Ctesia o dei Nuer non siano poi così universalmente simili. Credo che, almeno dal punto di vista della costruzione delle ipotesi di lavoro, riconoscerlo renda meno astratta una epidemiologia delle idee e delle rappresentazioni. In fondo, lo stesso Sperber, per studiare l’atteggiamento mentale di Filaté, non può che uscire al di fuori di esso e delineare, sullo sfondo, il mondo dei Dorze: «Ecco come mi spiego il suo comportamento: un venditore ambulante, come ne vengono a Dorzé nei giorni di mercato, gli avrà parlato del drago. Da dove ricavava il viandante questa storia? Ci credeva lui stesso? Poco importa. Filaté ne era conquistato. Dai tempi della sua giovinezza, aveva anche lui viaggiato, combattuto, cacciato, nelle terre basse, animali sorprendenti. Era troppo vecchio ora. Ma avrebbe annunciato la notizia. I giovani avrebbero fatto i loro preparativi e sarebbero partiti, loro. Quando sarebbero ritornati con il trofeo, come lo avrebbero ringraziato! Avrebbero invocato il suo nome nei loro canti di vittoria».107

I pensieri del vecchio Dorze, riportati in stile indiretto libero,108 sono una vera e propria interpretazione della rappresentazione e de105. Per l’accezione di τεvρας nel senso di “castroneria” in Eliano cfr. n. 38, p. 31. 106. Sulla scienza come costruzione sociale cfr. Latour 1998, pp. 3 sgg.; Dolby 1979, pp. 9 sgg. 107. Sperber 1982, p. 83. 108. Sull’uso dello stile indiretto libero in etnografia cfr. Sperber 1982, pp. 31 sgg.

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scrivono il processo attraverso cui l’idea del drago si impossessa a poco a poco del “personaggio” Filaté. Eppure riuscirebbe forse difficile capire per quale motivo questa idea riesca a contagiare il personaggio senza dare uno sguardo alle istituzioni che permettono tale contagio. C’è, sullo sfondo della narrazione, un mercato, un luogo che, oltre che essere spazio deputato allo scambio degli oggetti e dei beni, è anche uno spazio di scambio dei racconti e delle rappresentazioni. C’è l’istituzione della caccia e una serie, forse anche rituale, di preparativi che i giovani del villaggio seguono prima di partire. Ma, soprattutto, c’è l’abitudine di intonare canti di vittoria in onore di chi ha catturato gli animali più sorprendenti e forse – così si intuisce – anche in onore di chi è stato di aiuto alla cattura degli stessi. Come non pensare che questi luoghi, queste abitudini sociali non siano stati a loro modo determinanti per il contagio? E soprattutto, – mi chiedo – se Filaté fosse vissuto in una comunità di pastori o di agricoltori nella quale non viene praticata la caccia o nella quale il successo delle imprese venatorie non viene pertinentizzato da pratiche simboliche come quelle dei canti in onore dei giovani che hanno ucciso animali sorprendenti, si sarebbe veramente eccitato all’idea che qualcuno potesse andare a combattere un drago? Ciò che dovrebbe distinguere una teoria delle rappresentazioni semi-proposizionali da una teoria della “credulità” (o delle “balle”) sta nello sforzo di guardare al di fuori delle rappresentazioni, per scoprire il mondo e il sistema di conoscenze e di istituzioni che si cela dietro di esse. In questo senso sottolineare eccessivamente i mali del relativismo potrebbe avere come contropartita il fatto di dimenticarsi degli esseri umani vivi e della loro cultura. Il che, ovviamente e molto banalmente, non dovrebbe affatto avvenire in un modello epidemiologico che non pretenda di essere astratto. A questo proposito, ritengo che sia utile, sulla scia di Byron Good (Good 1999, pp. 11 sgg.), fare qualche ulteriore riflessione sul concetto di “credenza” e sugli effetti che tale categoria analitica può avere non solo nel caso dell’antropologia medica (alla quale in particolare si riferisce Good), ma anche nel caso del sapere etnozoologico in generale. Sono infatti dell’avviso che il caso dell’etnozoologia possa essere del tutto analogo rispetto al campo di studi all’interno del quale si muove Good.109 Come avviene per la malattia e per la guarigione, anche nel caso delle classificazioni e delle rappresentazioni relative agli animali (“fantastici” o “comuni”) è qualcosa di “controintuitivo” pensare che esse appartengano ad un dominio culturale. Come avviene per il sapere medico, è certo difficile pensare che la nostra maniera di vedere gli animali, le nostre descrizioni e 109. Sull’etnozoologia del mondo antico cfr. Bodson 1981, pp. 239 sgg.

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la nostra biologia non siano lo specchio fedele di un ordine naturale reale. In altri termini, è difficile non essere vittima della convinzione radicata «che le nostre categorie biologiche siano profondamente naturali e “descrittive” piuttosto che culturali e “classificative”».110 In altri termini, come dimostrano certe tendenze criptozoologiche nella lettura degli animali “misteriosi” dell’antichità, si rivela spesso quanto mai problematico denaturalizzare il nostro sapere zoologico, oltre che quello dei Greci e dei Latini. È proprio per questo che ogni cosa che non rientra facilmente nei nostri ambiti di discorso sulla natura rischia di sembrare una “balla”, una “castroneria” o una “falsa credenza” o una “rappresentazione non corretta del mondo”, quando invece bisognerebbe comprendere che alcune rappresentazioni, alcune proposizioni e, in definitiva alcune narrazioni, come quelle relative agli animali “fantastici”, rischiano di essere controfattuali e controintuitive soltanto per noi che, seppur dotati degli stessi meccanismi cognitivi degli antichi, per una serie diversa di ragioni usufruiamo di diverse frontiere di realtà rispetto ad essi.111 In questo caso, però, una forte contrapposizione fra le “credenze” degli antichi e le nostre conoscenze rischierebbe quanto meno di essere sterile: «la contrapposizione fra “credenza” e “conoscenza” e l’uso della “credenza” per denotare le asserzioni controfattuali – nota Good 1999, p. 32 – ha una lunga storia in antropologia, come del resto in filosofia. Proprio il contrario di quanto ci aspetteremmo per entrambe le discipline: riguardo all’antropologia, perché il nostro obiettivo primario è stato quello di rendere comprensibili le altre società». In questo senso, data una rappresentazione culturale, in molti casi non si può parlare a priori di “credenza rappresentazionale” o di “credenza fattuale”, ma bisogna quanto meno alzare il livello delle domande da fare ai nostri testi muti e cercare di capire se piuttosto non si tratti di vere e proprie “conoscenze” (siano esse di prima o di seconda mano), consapevoli del fatto che, il concetto di credenza che Good (1999, pp. 36 sgg.) propone di ridimensionare, rischia di porre su un piedistallo la posizione e la conoscenza degli osservatori. Faccio un esempio banale: non potremo mai sapere se Ctesia abbia visto davvero un manticora in carne e ossa (qualunque cosa esso fosse) e se dunque scrivesse la narrazione ad esso relativa “abitato” da una credenza fattuale o da una credenza rappresentazionale; tuttavia possiamo descrivere la maniera in cui tale rappresentazione sia stata a mano a mano trasmessa, ri-rappresentata e commentata. In particolare sarà possibile vedere, nel corso dei prossimi 110. Good 1999, p. 6. 111. Sul concetto di frontiera di realtà cfr. Sassi 1993, pp. 465 sgg.

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capitoli, come alcuni interpretanti che accompagnavano la rappresentazione in questione potessero anche trattarla come “dato storico”, e quindi come “conoscenza” (anche se di seconda mano).

2.

Raccontare il manticora (ovvero: il nocciolo duro dei tratti)

Finora, se escludiamo il riassunto di Fozio preso in visione nel prologo (cfr. pp. 19 sg.), si è parlato del manticora soltanto in astratto; ma adesso è forse giunto il momento di cominciare ad esplorare i testi (e i contesti) nei quali alligna la belva sanguinaria. Nei prossimi paragrafi, dopo alcune considerazioni sparse su Ctesia, farò una sintetica rassegna delle descrizioni che ci sono pervenute per fare vedere come in fondo i tratti della belva siano, nonostante le variazioni, tendenzialmente omologati. Cercherò poi, nel paragrafo 3, di mostrare come le analogie ostensive usate per descrivere il manticora contribuiscano a costruire non solo un modello 3-D dell’animale, ma servano anche a connotare, quasi fisiognomicamente, la sua etologia.112 Per quanto riguarda i passi degli autori selezionati, essi verranno unicamente descritti, segnalando di volta in volta alcune variazioni. Soltanto nei capitoli successivi cercherò di spiegare come queste variazioni siano legate a differenti “ambienti” cognitivi e culturali.113 2.1 Storia e storie di Ctesia Il primo autore greco a parlare del manticora è stato, come si è già accennato, Ctesia di Cnido, che ha descritto la belva mettendola nel novero delle tante e varie stranezze biologiche che popolavano la regione indiana. Bisogna però subito dire che l’immagine che le testimonianze e i frammenti degli interpreti antichi ci hanno lasciato di questo storico non risulta essere affatto lusinghiera.114 Strabone è dell’opinione che è molto meglio credere ai poeti Omero ed Esiodo piuttosto che a Ctesia (assimilato negativamente ad Erodoto e ad Ellanico), mentre Antigono dice chiaramente che Ctesia ha l’abitudine di dire menzogne («πολλα; ψευvδεσθαι»).115 112. Il modello 3-D è costituito dall’insieme delle “istruzioni” e dei tratti che rendono possibile la costruzione di un tipo cognitivo di un essere vivente (ma anche di un oggetto). A questo proposito cfr. Eco 1997, pp. 106 sgg. e Atran 1996, pp. 29 sgg. Nel corso di questo studio, sulla base di Atran 1996, pp. 17 sgg., chiamerò “morfotipo comportamentale” l’unione del modello 3-D con la descrizione dei tratti etologici dei vari animali in questione. 113. A questo proposito rimando espressamente alla lettura dei capp. 2, 3 e 4. 114. Cfr. FrGrHist 688 T. 1-18 (spec. T. 11). 115. Strab. 11, 6, 3; Antig. 15 (cfr. FrGrHist 688 F. 36). Per i frammenti di Ellanico cfr. FrGrHist 323 a; 608 a; 645 a; 687 a.

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Non meno inclemente nei confronti del medico di Cnido è Plutarco, a detta del quale Ctesia avrebbe riempito i suoi libri di favole difficilmente credibili («µυvθων αjπιθαvνων») e avrebbe avuto l’abitudine di discostarsi troppo dal vero nei suoi resoconti al fine di ottenere effetti spettacolari e favolosi nella narrazione («προ;ς το; µυθω'δης και; 116 δραµατικον ; εκ j τρεποµ v ενος τη ς ' αλ j ηθει α v ς»). Lo stesso scetticismo nei confronti dell’autore sembra trasparire in Luciano, che nella Storia Vera parodizza il suo mythologein, e nell’indografo Arriano.117 Per finire, oltre ad Hist. Anim. 2, 1, 501 a 24 sgg. (passo del quale si parlerà più avanti)118 a testimoniare lo scetticismo che abitualmente si attribuisce ad Aristotele nei confronti del “mitografo” bisogna segnalare un altro locus dello stesso autore in cui viene apertamente sconfessata una teoria di Ctesia a proposito dello sperma degli elefanti: «Κτησιvας γα;ρ οJ Κνιvδιος α} περι; του' σπεvρµατος τω'ν εjλεφαvντων

ει[ρηκε, φανεροvς εjστιν εjψευσµεvνος. φησι; γα;ρ ου{τω σκληρυvνεσθαι ξηραινοvµενον ω{στε γιvνεσθαι ηjλεvκτρω ο{µοιον. Του'το δ∆ ουj γιvνεται». (Gen. Anim. 2, 2, 736 a 2-5)

«Quanto a quello che Ctesia ha detto a proposito dello sperma degli elefanti, è chiaro che si tratta di una falsità evidente: egli infatti riferisce che disseccandosi il seme diventa così duro da risultare alla fine simile all’ambra. Questo però non avviene».119

In questo caso la notizia data da Ctesia viene apertamente smascherata dallo Stagirita.120 Vi erano comunque dei casi nei quali non era così facile capire se ciò che diceva il medico di Cnido era vero o falso. Si veda ad esempio il seguente passo: «εjν δε; τη'/ ∆Ινδικη'/, ωJς φησι; Κτησιvας ουjκ ω]ν αjξιοvπιστος, ου[τ∆α[γ ριος ου[τε η{µερος υ|ς, τα; δ∆α[ναιµα και; τα; φολιδωτα; παvντα µεγαvλα». (Hist. Anim. 8, 28, 606 a 8-10)

«In India – questo è quello che ci riferisce Ctesia (del quale non ci si può fidare a cuor leggero) – non ci sono né maiali selvatici né 116. Cfr. Plut. Artax. 6, 9, 1014 B11-C3 (cfr. FrGrHist 688 F. 29 a). 117. Cfr. Luc. Vera Hist. 1, 3; Arr. Anab. 5, 4, 2 (cfr. FrGrHist 688 F. 45 a). 118. Per un’analisi di questo passo cfr. pp. 95 sgg. (spec. pp. 148 sgg.). 119. Cfr. anche Hist. Anim. 3, 22, 523 a 26 sg. e FrGrHist 688 F. 48 a. La notizia relativa allo sperma degli elefanti ai nostri occhi è fantasiosa (come del resto lo era – sembra – per Aristotele), ma certo non è di gran lunga più fantasiosa di moltissime ipotesi scientifiche aristoteliche. Si pensi ad esempio a Hist. Anim. 2, 3, 501 b 20 sgg. sulla teoria della dentazione maschile oppure alla teoria della lattazione maschile in 1, 12, 493 a 14-15. 120. Sarebbe interessante capire come Aristotele abbia “smascherato” Ctesia. Ha veramente effettuato esperimenti sullo sperma degli elefanti o si è fidato di fonti più autorevoli di Ctesia (fonti che comunque non ha citato espressamente)?

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maiali domestici, mentre gli animali non sanguigni e quelli muniti di squame cornee sono tutti di grandi dimensioni».

Come si vede Aristotele lascia intendere di non nutrire molta fiducia nei confronti della sua fonte. Bisogna però dire che, diversamente da quanto accade in Gen. Anim. 2, 2, 736 a 2-5, l’asserzione che si attribuisce al medico di Cnido non viene confutata apertamente. L’atteggiamento di Aristotele è infatti simile, in questo caso, a quello che vedremo più avanti in Eliano, il quale, proprio a proposito della notizia relativa al manticora (cfr. Nat. Anim. 4, 21), dirà «τω/' συγγραφει' τω'/ Κνιδιvω/ προσεχεvτω» («ci si affidi allo scrittore di Cnido»). Aristotele lascia dunque intendere che, dal momento che non è possibile verificare la presenza in India di maiali o di animali “non sanguigni” dalle dimensioni gigantesche, nonostante la sua proverbiale inattendibilità, “ci si deve affidare a Ctesia”.121 Il quadro che viene fuori è dunque quello di un locutore (Ctesia) il cui discorso sembra tendenzialmente menzognero ma che – in assenza di una autorità alternativa – facilmente potrebbe essere scambiato per discorso vero. Alla base di questa ambiguità, del resto, ci potrebbe essere la stessa situazione esistenziale dell’autore di Cnido. Bisogna ricordare infatti che Ctesia, nel momento in cui scriveva gli Indikà, non era un uomo libero, bensì un ostaggio del re dei Persiani. Risulta che la sua prigionia alla corte achemenide sia stata una prigionia dorata, ma pur sempre di prigionia si trattava:122 dobbiamo quindi verosimilmente immaginare che Ctesia fosse impedito nei suoi movimenti e che, diversamente da Erodoto che aveva avuto la possibilità di indagare in loco sull’esistenza dei serpenti alati egiziani (2, 75-76), non potesse recarsi sul posto per verificare le notizie che gli venivano riferite. La presenza alla corte del Gran Re, comunque, doveva essere in qualche modo un vantaggio, perché – come osserva Auberger123 – anche se Ctesia non poteva recarsi nella provincia indiana, per certi versi era l’India che si recava da lui. È verosimile infatti che Ctesia potesse assistere alle visite degli ambasciatori che si presentavano al cospetto del re persiano e che di conseguenza avesse svariate occasioni per venire a conoscenza di una serie di racconti e di “credenze” degli Indiani (o più verosimilmente dei Persiani sugli Indiani). Mancava tuttavia la possibilità di effettuare verifiche autottiche. 121. Riguardo al problema della “fede” che gli antichi prestavano ai loro mirabilia cfr. Sassi 1993, pp. 465 sgg. 122. Per la biografia di Ctesia cfr. n. 6, p. 19. 123. Cfr. Auberger 1995, pp. 41 sgg.

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Questo ovviamente non significa che Ctesia sia da vedere come uno “scienziato” le cui ricerche vengono impedite dalla scomoda situazione in cui si trova: l’impossibilità di verificare i suoi racconti non implica necessariamente la volontà di un riscontro empirico. In realtà, si deve semplicemente ammettere che «Ctésias est un Grec, avec toutes les composantes intellectuelles d’un Grec cultivé; c’est un homme qui veut écrire et qui veut plaire à un public grec, et l’Histoire de l’Inde s’en ressent: elle est plus fictive, que réaliste» (Auberger 1995, p. 41). Gli Indikà sono un’opera di storia “sincronica” che descrive il situs, le abitudini e i costumi degli Indiani e le (molte) stranezze che è possibile trovare nel loro territorio. In questo senso, per quanto riguarda i fini e le forme non c’è nulla di diverso rispetto a quelle Storie di Erodoto che Ctesia dimostra di volere imitare124 e che, come sembra, si permette perfino di confutare e criticare.125 In questo senso l’opera si può inserire facilmente in quell’ambito di discorso che potremmo chiamare il “sapere etnografico” degli antichi. Ma è proprio per questa natura di “opera etnografica” che gli Indikà non possono non rubricare le meraviglie esotiche di cui Ctesia viene a mano a mano a conoscenza (e che talvolta, forse, inventa di sana pianta). In questo senso, dunque, l’opera del medico di Cnido non è semplicemente una riflessione sull’“Altro”. Ma neppure, come talvolta si ha la tentazione di fare, si può dire che si tratta di un semplice divertissement letterario (sempre che, ovviamente, gli antichi avessero una nozione esplicita di “divertissement letterario”). In questo senso è quanto mai difficile capire cosa veramente avesse voluto intendere Ctesia quando ha parlato del manticora (tanto più che il suo testo non ci è pervenuto). E non è neanche certo che abbia detto di averlo visto veramente, come si può evincere invece dalle testimonianze di Eliano e di Fozio.126 Si può comunque immaginare che, per certi versi, i luoghi della prigionia del medico di Cnido fossero effettivamente pieni di esseri simili al mostro antropofago da lui descritto. Se si resiste, infatti, alla tentazione di rappresentare mentalmente il manticora con il volto di un uomo occidentale del XXI secolo, rasato e con i capelli corti, non dovrebbe essere difficile comprendere come la descrizione di Ctesia possa in realtà essere stata influenzata da uno dei tanti rilievi in cotto smaltati che ornavano le mura del palazzo di Susa, residenza invernale degli Achemenidi.127 Una eco dell’impressione che questi motivi figurativi hanno lasciato nel 124. Cfr. Auberger 1995, pp. 45 sgg. 125. FrGrHist 688 T. 8: Phot. Bibl. 35 b 41-43 Henry: «αjλλα; και; ψευvστην αυjτον ; απ j ελεγ v χων εν j πολλοις ' , και; λογοποιον ; απ j οκαλων ' » («ma diceva [scil. Ctesia parlando di Erodoto] che in molti punti non aveva detto il vero e lo chiamava logopoios»). 126. Cfr. Ael. Nat. Anim. 4, 21; FrGrHist 688 F. 45, 15. 127. Cfr. Porada 1962, pp. 169 sgg.

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medico greco si può anche trovare nel riassunto dei Persiká fatto da Diodoro Siculo; precisamente nel punto in cui si parla delle decorazioni delle mura del palazzo di Semiramide descritte da Ctesia: «ε{τερον δ∆ εjντο;ς τουvτου κυκλοτερη' κατεσκευvασε, καθ∆ ο}ν εjν ωjµαι'ς

ε[τι ται'ς πλιvντοις διετετυvπωτο θηριvα παντοδαπαv, τη/' τω'ν χρωµαvτων φιλοτεχνιvα/ τη;ν αjληvθειαν αjποµιµουvµενα». (Diod. 2, 8, 4: cfr. FrGrHist 688 F. 1b)

«Fece costruire anche un altro muro di cinta all’interno, circolare, costruito di mattoni crudi. Su di essi fece raffigurare animali di ogni sorta che, per l’abilità con la quale erano stati colorati, sembravano in tutto e per tutto essere veri».

Più avanti poi si legge: «εjνη'σ αν δ∆ ε[ν τε τοι 'ς πυvργοις και ; τειvχεσι ζω/'α παντοδαπαv, φιλοτεvχνως τοι 'ς τε χρωvµασι και ; τοι'ς τω'ν τυvπων αjποµιµηvµασι κατεσκευασµεvνα». (Diod. 2, 8, 6: cfr. FrGrHist 688 F. 1b)

«E c’erano sulle torri e sui muri animali di tutti i tipi, molto ben raffigurati in quanto a colori e in quanto al realismo dei profili».

Ctesia – stando a quanto ci è possibile inferire da Diodoro – non poteva non aver visto veramente questi animali policromi “φιλοτεvχνως κατεσκευασµεvνα” dei quali ci riferisce; ed è facile immaginare che fra questi ci fosse anche il Lamassu, demone benevolo con il corpo di toro (e talvolta di leone) e con il volto di un uomo persiano barbuto.128 Possiamo dunque immaginare come l’“invenzione” del manticora da parte di Ctesia possa essere stata ispirata da quello che fin dal periodo elamitico (IX-VIII sec. a.C.) era un motivo figurativo assai comune nell’arte mesopotamica.129 Bisogna comunque dire che il manticora è insieme molto di più e molto di meno di un Lamassu. Condivide con l’uomo-toro mesopotamico il tratto dell’androcefalia, ma non è sicuramente un genio benefico che protegge le entrate dei palazzi né tanto meno è munito di ali.130 128. Cfr. Porada 1962, fig. 45, p. 71 (ma vedi anche fig. 6 in appendice). 129. Ad avere il sospetto che il manticora non sia altro che un Lamassu sono stati in molti, fra questi ad es. White 19695, n. 1 p. 52. 130. Cfr. Porada 1962, pp. 177 sgg; Filoramo 1994, p. 153: «La definizione di angeli per questi geni protettori trova valido appoggio in molti rilievi neoassiri, nei quali sono rappresentate figure alate, con testa umana o aquilina, recanti un secchiello contenente acqua lustrale […], da spargere con una pigna, o con un ramoscello vegetale o simili». Un manticora alato viene raffigurato in una incisione settecentesca riportata in E. Lehner e J. Lehner, A fantastic bestiary, beasts and monsters in myth and folklore, Tudor Pub. Co., New York, 1969 (questo volume è una ristampa anastatica. Il libro è stato pubblicato nel 1895). Per questa immagine del manticora cfr. fig. 5.

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Il manticora, come si può evincere dalle descrizioni lette nel paragrafo precedente, è rappresentato infatti come un animale “vivo” e per giunta feroce e sanguinario; esso è l’essere antropofago per antonomasia. Ci sono dunque (o almeno così è facile credere) tutti gli elementi per poter dire che Ctesia, muovendo da una “credenza” persiana, ne abbia completamente modificato il contenuto per creare una nuova, inquietante specie di animale. Si potrebbe dunque ipotizzare che Ctesia avesse scritto volutamente una fiction sull’India e avesse costruito ad arte la suspension of disbelief dei lettori, a partire da una serie di notizie “manipolate”, ora dichiarando di aver visto con i propri occhi e di avere udito con le proprie orecchie, ora tacendo a proposito di meraviglie difficilmente credibili: in questo senso la costruzione del manticora sarebbe un esempio classico di passaggio – per dirla con Sperber – da “credenza” a “figura”.131 Questa però – bisogna dirlo – non è l’unica storia di Ctesia possibile. Secondo un’altra storia, che ci viene raccontata da Pausania (9, 21, 4), Ctesia potrebbe davvero aver creduto, in un certo qual modo, alle dicerie indiane (o alle informazioni?) che giravano a corte ed essersi sinceramente convinto dell’esistenza del manticora, trasmettendo così ai posteri la rappresentazione relativa ad un animale mai visto. In questo senso si potrebbe supporre che Ctesia credesse, ad esempio, che le raffigurazioni del Lamassu fossero effettivamente raffigurazioni del manticora. A seguire queste ipotesi, però, non si arriva a molto e in fondo la verità (se di verità si può parlare) potrebbe stare nel mezzo. Ad ogni modo, il problema non è quello di riconoscere a Ctesia una “veridicità” integrale o parziale o, infine, nulla, quanto quello di fare alcune ipotesi sulla natura del suo testo. Se infatti consideriamo gli Indikà come un’opera etnografica in senso lato, dobbiamo essere consapevoli del fatto che le opere “etnografiche” (non solo dell’antichità) sono pur sempre un’esposizione dell’Altro che, per l’appunto, secondo una strategia interna al genere, deve essere presentato come Altro. Nel fare questo, ovviamente, i tratti di alterità non possono che essere o esagerati o comunque sottolineati in maniera iperbolica. Il problema di Ctesia pertanto non doveva essere quello di verificare le notizie di cui era in possesso, bensì quello di costruire una “finzione” dell’Altro quanto più persuasiva possibile, laddove per 131. Per il passaggio da “credenza” a “figura” cfr. n. 93, p. 48. Una serie di esempi tipici di passaggio da “credenza” a “figura” si possono trovare, ad esempio, nelle Metamorfosi di Ovidio, in cui i “miti” della religione greca tradizionale vengono riusati come materiale di costruzione letteraria (a questo proposito cfr. ad es. Li Causi 2000, pp. 37 sgg. per la versione ovidiana del mito del fiume Acheloo). Sull’uso delle divinità antiche come “figure retoriche” nei poemi epici del periodo classico cfr. poi Feeney 1991, pp. 3 sgg. (spec. pp. 44 sgg.).

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“finzione” si intende non necessariamente un artificio retorico volto alla creazione deliberata di notizie mendaci, bensì l’organizzazione in forma convincente delle esperienze vissute “sul campo”. Si tratta, in altri termini, secondo gli schemi dell’antropologia interpretativa, della costruzione di una finzione degli etnografi.132 In questo senso si può dire che tutto il testo di Ctesia è il frutto di una fiction che deve persuadere il lettore (che – è bene non dimenticarlo – è un membro della cultura di provenienza del locutore; una cultura, peraltro, fortemente etnocentrica) e conquistare la sua credibilità: semplicemente bisogna cercare di capire se le iperboli e il mythologein di Ctesia non siano proprio un effetto di realtà più che una “finzione letteraria” nel senso deleterio del termine.133 Si deve infatti pensare che, a parlare di un paese così lontano (così “fuori luogo”) come l’India, Ctesia avrebbe corso seriamente il rischio di non venire creduto se avesse raccontato cose comuni. L’India era lontana, lontanissima per i Greci che credevano di vivere al centro del mondo e dunque in essa non potevano che esserci popolazioni insolite, oggetti mirabolanti e animali atopoi. È da questa esigenza che nasce il meccanismo della finzione etnografica: al ritorno da un viaggio in una terra lontana, per dimostrare di averla veramente vista (e vissuta), se ne raccontano le meraviglie e non certo le cose più comuni; in quest’ottica è perfettamente normale che in India viva il manticora.134 132. Per una discussione sulle figure retoriche del racconto di viaggio e sul resoconto come finzione del linguaggio cfr. ad es. Affergan 1991, pp. 110 sgg., oltre che Jacob 1980, pp. 131 sgg. (cfr. spec. pp. 134 sg.). 133. Il problema di come leggere l’opera di Ctesia è affrontato da Auberger 1995, pp. 40 sgg., il quale propone una terza via fra la lettura “condescendante”, secondo la quale Ctesia non può essere mai preso sul serio, e la lettura “etnologica”, secondo la quale bisogna cercare, invece, di prendere sempre sul serio le notizie che si trovano negli Indikà. Auberger 1995 (cfr. spec. p. 43) analizza le condizioni reali della vita di Ctesia alla corte degli Achemenidi e propone di tenere conto di tre aspetti per l’interpretazione della sua opera: 1) la “mitizzazione” dei dati; 2) il gioco di creazione letteraria; 3) la riflessione sull’Altro. Per questo ultimo punto lo studioso propone di leggere fra le righe un modello alternativo dell’oriente che si contrappone a quello di Erodoto. Se prima l’oriente era il luogo del dispotismo, adesso l’India diventava il mondo dell’utopia e della libertà (cfr. spec. p. 59). 134. In India gli animali comuni e familiari, se presenti, avevano caratteristiche del tutto favolose ed iperboliche. Cfr., solo per fare qualche es., Hdt. 3, 106, 13; Aristot. Hist. Anim. 8, 28, 606 a 8-10; Ael. Nat. Anim. 3, 3; 4, 32; 15, 21; 16, 5; 16, 37; 16, 39. A proposito della “normalità” del fantastico nell’India di Ctesia cfr. Zambrini 1982, p. 126: «è innegabile che il dato fantastico riveste in Ctesia una importanza primaria proprio come elemento qualificante nei confronti dell’India». Più avanti Zambrini (1982, p. 128) distingue fra fantastico e “miracoloso” attribuendo questa seconda etichetta agli Indikà del medico di Cnido: «la distinzione[…] si giustifica proprio con l’assiduo racconto da parte di Ctesia di fatti biologici, climatici, geografici e sociali, che colpiscono per le loro caratteristiche di inusitata e circoscritta rarità e “mostruosità”, senza che la dimensione del θαυµαστονv corrisponda ad una visione geografica e storica, entro la quale sistemare una popolazione e la sua storia tramite l’utilizzazione di precise categorie etnografiche… ».

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Detto questo, è forse possibile capire perché Ctesia, nonostante i sospetti di molti autori greci nei confronti dei suoi Indikà, verrà usato per molto tempo (almeno fino alle prime spedizioni di Alessandro, fino a quando cioè la sua voce non verrà sostituita – almeno relativamente a certe informazioni – da quella di autori come Nearco e Megastene)135 come una autorità sull’India. Le sue narrazioni, come si è visto, non convincevano fino in fondo, eppure riguardo a certi dati rimanevano sempre le uniche di cui potere disporre. Come a dire: “τω'/ συγγραφει' τω'/ Κνιδιvω/ προσεχεvτω” (“ci si affidi allo scrittore di Cnido”).136 Proprio l’unicità dell’esperienza di Ctesia diventava se non l’argomento più forte, almeno uno di quelli più persuasivi (o, quanto meno, uno di quelli che alla fine facevano tentennare lo scetticismo di chi si trovava costretto ad usarlo come fonte): il medico di Cnido era stato in un luogo che era precluso allo sguardo autottico della maggior parte dei Greci (e dei Romani); in un certo qual modo aveva usufruito di “frontiere di realtà” più estese rispetto a tutti gli altri uomini dell’Occidente e dunque per molte cose bisognava fare ricorso alla sua autorità.137 Come vedremo, il manticora (anche dopo le spedizioni di Alessandro e le conquiste dei Romani) era una di queste cose. 2.2 Mantichora in fabula: cronistoria delle apparizioni del mostro indiano Il manticora dunque “apparteneva” a Ctesia; il medico di Cnido, che ne aveva parlato per la prima volta, deteneva infatti una sorta di copyright sull’animale. Ctesia, anche se non si era recato in India, aveva visto con i propri occhi l’India che si recava alla corte degli Achemenidi138 e verosimilmente, in qualità di medico personale del Gran 135. Nearco fu ammiraglio della flotta di Alessandro e compì l’esplorazione della costa che va dalle foci dell’Indo a quelle dell’Eufrate descrivendo la navigazione in un periplo pervenutoci grazie ai riassunti di Strabone e Arriano (testimonianze e frammenti in FrGrHist 133). Megastene visitò l’India nord occidentale come ambasciatore di Seleuco I presso il re Chandragupta Maurya verosimilmente fra il 302 e il 291; non ci sono giunti i suoi Indikà, probabilmente in quattro libri, divenuti però una delle fonti principali di quasi tutti gli autori successivi che hanno trattato dell’India, Strabone e Arriano in testa (edizione dei frammenti a cura di Schwanbeck 19662; ma cfr. anche FrGrHist 715). Su Megastene in generale cfr. Zambrini 1982, pp. 71 sgg. e Id. 1985, pp. 781 sgg. 136. Cfr. Ael. Nat. Anim. 4, 21 (su questo passo pp. 251 sgg.). 137. Sulla permanenza delle notizie relative a mostri ed esseri anomali delle eschatiai anche nella geografia cosiddetta “euclidea” cfr. Jacob 1995, pp. 72 sgg. A proposito dell’influenza di Ctesia sulla letteratura posteriore cfr. Zambrini 1982, pp. 126 sgg. 138. Cfr. Auberger 1995, p. 41.

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Re, poteva avere assistito alle ambascerie degli Indiani sottoposti ai Persiani e inoltre – è facile immaginarlo – poteva anche avere accarezzato con la propria mano le pelli degli animali più strani e mirabolanti che venivano portati in dono da quella fucina di mostri che era l’eschatie indiana.139 È proprio per questo che tutti i Greci che non potevano verificare con i propri occhi e le proprie orecchie le notizie degli Indikà spesso dovevano necessariamente (anche se a volte a malincuore) affidarsi a Ctesia.140 Il primo a farlo, fra gli autori che ci sono giunti, è stato Aristotele (in Hist. Anim. 2, 1, 501 a 24 sgg.), il quale, seppure in maniera dubbiosa, aveva inserito il manticora all’interno del raggruppamento che illustrava le differenze fra gli animali (e fra gli animali e l’uomo) relative ai denti.141 Lo Stagirita elencava le diverse tipologie di denti esistenti nel mondo animale e istituiva una serie di raffronti e di correlazioni universali che pretendevano di fissare una serie di tendenze statisticamente valide. Una di queste, espressa in forma negativa, era quella secondo la quale non esistono animali con due file di denti. Se non esistevano animali con due file di denti, esisteva però – anche se a detta del solo Ctesia (che lo Stagirita considerava tutt’altro che attendibile) – un essere munito di zanne disposte in triplice fila per ogni mascella. Si trattava, per l’appunto, del manticora; un essere che Aristotele descriveva sintetizzando, verosimilmente, il testo del medico di Cnido: il manticora era un animale che viveva in India e aveva il corpo, le zampe e il pelo del leone, la faccia e le orecchie umanoidi, gli occhi glauchi, il manto del colore del cinabro, la coda simile a quella dello scorpione di terra, munita per giunta di aculei che potevano essere scagliati come frecce; in più questo animale correva come un cervo e il suo verso ricordava il suono insieme della salpinx e della syrinx. Ultimo raccapricciante particolare: il manticora si nutriva di carne umana.142 139. Per lungo tempo i mostri e gli esseri paradossali sono stati confinati nelle eschatiai. Solo nel Rinascimento le meraviglie cominciano a spostarsi (e a proliferare) anche verso il centro dell’Europa, tanto che Girolamo Cardano, nel De rerum varietate (1, 7), arrivò a riferire dell’avvistamento di un basilisco in Italia (cfr. a questo proposito Daston e Park 2000, pp. 150 sgg.: «Senza dubbio, da quando gli europei avevano iniziato davvero a sperimentare e non soltanto a immaginare il mondo come sfera anziché come cerchio, le categorie dei margini e del centro avevano perso consistenza»). 140. Cfr. n. 137, p. 62 a proposito dell’influenza di Ctesia sulla letteratura posteriore (ma vedi anche pp. 55 sgg.). 141. Cfr. Hist. Anim. 2, 1, 501 a 8 sgg. Per la funzione degli assi di divisione nella costruzione dei raggruppamenti aristotelici cfr. Pellegrin 1982, pp. 30 sgg. 142. Per un’analisi del passo aristotelico cfr. pp. 95 sgg. (spec. pp. 148 sgg.).

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Dopo Aristotele, a fare menzione del manticora, fra gli autori dei quali ci è giunta notizia, dovette essere anche Giuba II di Mauretania, presumibilmente in una sua monografia sulla Libia.143 Secondo Giuba – da quanto è possibile ricostruire a partire da Plinio il Vecchio (Nat. Hist. 8, 107) – il manticora, esattamente come la iena e la corocotta (animali che Plinio inventariava assieme al mostro antropocefalo e antropofago in 8, 107), era capace di imitare la voce degli uomini. Verosimilmente inoltre (sempre che Plinio non abbia interpretato erroneamente la sua fonte) Giuba, diversamente da Aristotele e dallo stesso Ctesia, potrebbe anche avere collocato il manticora in Etiopia anziché in India.144 Subito dopo Giuba, nel I sec. d.C., fu Plinio a parlare ancora una volta di questa bestia favolosa. L’enciclopedista romano inseriva l’animale in un elenco di esseri mirabolanti che popolavano i margini estremi del mondo. Il manticora di Ctesia (il cui nome viene espressamente menzionato in Nat. Hist. 8, 75 a garanzia della veridicità della notizia), assieme all’eale, ai pegasi e ad altri esseri simili ai mostri, veniva collocato in Etiopia (cfr. 8, 72-75) e la sua descrizione era pressoché simile a quella fatta da Aristotele (anche se i dubbi dello Stagirita non sembrano avere sfiorato l’enciclopedista romano). Le uniche varianti erano quelle relative alla dislocazione geografica e all’attribuzione del tratto dell’imitazione della voce umana. Novità, queste, che dopo Plinio nel mondo greco e romano non hanno lasciato alcuna traccia. Dopo la Naturalis Historia infatti il manticora ritornò ad essere un animale indiano e privo di parola. Lo stesso Solino, che nel IV sec. d.C. epitomò in chiave corografica l’opera pliniana, descrisse il manticora con espressioni e parole che per un verso erano il calco esatto di quelle pliniane, ma che per un altro verso ristabilivano la versione tradizionale.145 Ad attestare la presenza del manticora in India c’era anche Pausania, il quale però precisava che l’animale che Ctesia aveva descritto nei suoi Indikà non era altro che la tigre (cfr. 9, 21, 4). Il medico di Cnido infatti – secondo la razionalizzazione dell’autore della Periegesi – avrebbe sbagliato a fidarsi delle notizie delle quali era venuto a conoscenza per il semplice fatto che esse erano inficiate da una serie di errori percettivi causati dall’eccessivo timore nei confronti di un animale (la tigre) che effettivamente (come il presunto manticora) era dotato di una velocità incredibile e si nutriva di carne umana, ma che certo non poteva scagliare dardi dalla coda né poteva avere una triplice fila di denti per ogni mascella. Ctesia dun143. Per i frammenti di Giuba cfr. FrGrHist 275. Su Giuba cfr. Romano 1994, p. 16. 144. Cfr. pp. 183 sgg. 145. Cfr. Sol. 52, 37. Su questo passo vedi pp. 241 sgg.

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que si sarebbe fidato incautamente delle “false credenze” che circolavano presso gli Indiani.146 Ma se con Pausania il manticora cominciava a sparire dal novero degli esseri “reali”, nello stesso periodo in cui veniva composta la Periegesi, Eliano delineava un quadro leggermente diverso della situazione. La versione dello scrittore di Preneste, come si vedrà nel capitolo 4, è la più lunga e la più minuziosa fra tutte quelle che ci sono pervenute, tanto da superare, per dovizia di particolari, perfino quella del patriarca Fozio (cfr. Nat. Anim. 4, 21).147 Eliano descriveva il manticora come un animale effettivamente esistente, salvo poi segnalare – alla fine del paragrafo che lo riguardava – il fatto che fra gli uomini greci a vederlo con i propri occhi, fino a quel momento, era stato solamente Ctesia.148 Per il resto Eliano aggiungeva una serie di notizie supplementari che non si trovano in altri autori. Diceva che il pelo e i denti del manticora erano simili al pelo e ai denti del cane, che il manticora riusciva ad assalire gli uomini anche fino a tre per volta, che scagliava i suoi dardi in avanti e indietro come facevano i Saci, che non riusciva ad avere la meglio sul leone. In più, oltre a questi particolari, Eliano raccontava, per quanto riguarda le modalità di cattura del manticora, una versione leggermente diversa da quella registrata da Fozio. Se infatti lo scrittore bizantino parlava delle battute di caccia a dorso di elefante, Eliano raccontava della cattura dei soli cuccioli di manticora ai quali veniva schiacciata la coda con una pietra per renderli inoffensivi. Fu comunque all’inizio del III sec. d.C., con Filostrato, che il manticora divenne – per così dire – veramente inoffensivo. Nella Vita di Apollonio di Tiana si racconta infatti di un dialogo svoltosi in 146. Sarebbe interessante, a questo punto, capire cosa Pausania sapesse di Ctesia e se avesse letto veramente i suoi Indikà. Non è infatti inverosimile pensare che l’autore della Periegesi potesse aver parlato del manticora soltanto per sentito dire (avvalendosi dunque di una versione orale) oppure – soluzione usualmente cara al Quellenforscher – che si avvalesse di una fonte scritta intermedia. Sembra infatti che Pausania non tenga conto della notizia riportata da Eliano (Nat. Anim. 4, 21) secondo la quale Ctesia aveva effettivamente visto con i suoi occhi un esemplare di manticora portato in dono al re di Persia. E tuttavia non siamo neanche certi che Eliano avesse usato direttamente Ctesia (sulle fonti di Eliano bisogna ancora affidarsi agli studi di Wellmann su «Hermes»; in partic. cfr. Wellmann 1891, pp. 321 sgg.; Id. 1891 a, pp. 481 sgg.; Id. 1892, pp. 389 sgg.; Id. 1895, pp. 161 sgg.; Id. 1896, pp. 221 sgg.). Stando così le cose, ovviamente, non si può dire con certezza se nel testo degli Indikà il medico di Cnido avesse realmente asserito di aver visto un esemplare di manticora alla corte del Gran Re. L’unica cosa che si può dire, a partire dalle ultime parole della recensione di Fozio, è che, fra le altre possibilità, Ctesia potrebbe anche avere fatto professione di autopsia. Nell’impossibilità di risolvere la questione però non resta che limitarsi a segnalare qui in nota l’incongruenza fra Eliano e Pausania. Per un’analisi più approfondita del passo di Pausania cfr. pp. 275 sgg. 147. Per un’analisi più approfondita di Nat. Anim. 4, 21 cfr. pp. 251 sgg. 148. Sull’incongruenza di questa notizia con la versione di Pausania cfr. sopra n. 146.

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India fra il santone greco e Iarca (il capo dei Bramani) del quale era stato testimone Damis (il presunto autore del manoscritto che viene rielaborato da Filostrato). Da questa conversazione veniva fuori che, diversamente da altri oggetti mirabolanti (come ad esempio la fenice), il manticora non esisteva e che era dunque compito di Apollonio svelare la vera India agli uomini occidentali.149 L’uccisione definitiva del mostro indiano avvenne comunque con Eusebio di Cesarea che, nel suo Contro Ierocle, liquida con una battuta sarcastica (Hier. 22: «ω] του' σοφου' και ; παραδοvξου πυvσ µατος»: «oh, questione meravigliosa e degna davvero di un uomo sapiente!») le discussioni e le curiosità paradossografiche di quell’Apollonio di Tiana che Ierocle aveva innalzato alla dignità di un vero e proprio concorrente pagano di Cristo.150 Il colloquio svoltosi fra il santone greco e i Bramani (all’esistenza dei quali Eusebio dimostra peraltro di non credere)151 non poteva che essere vuoto e ridicolo: parlare del manticora o di altri oggetti analoghi equivaleva adesso a perdere tempo in ciance. 2.3 L’omologazione dei tratti Come risulterà ancora più chiaro da una lettura diretta dei passi (per la quale rimando ai capitoli successivi), le vicende della rappresentazione relativa al manticora seguono un corso altalenante e, per certi versi, bipartito. Dopo l’apparizione nel testo di Ctesia, è Aristotele il primo a parlare dell’esistenza del mostro in maniera meramente ipotetica. Per il resto, fra il I sec. a.C. e il I sec. d.C. (con Plinio il Vecchio e ancor prima quasi certamente con Giuba) si deve registrare una maggiore disponibilità a credere alle notizie relative alla belva soprattutto in ambito romano. L’atteggiamento di accettazione della credenza (se si esclude Eliano, italico che scrive in greco, che, nel II sec. d.C., si attesta, in merito, su posizioni analoghe rispetto a quelle di Aristotele), rimane presumibilmente immutato nella letteratura latina fino al IV sec. d.C. Da quanto infatti è possibile vedere con Solino, per lungo tempo saranno considerate in sommo grado autorevoli le notizie trasmesse da Giuba e da Plinio il Vecchio. Per il resto, fra gli scrittori di lingua greca, a partire dal II sec. d.C., la disponibilità a credere all’animale subirà un forte calo. 149. Cfr. Philostr. Ap. 3, 45. Per un’analisi più approfondita di questo passo cfr. pp. 290 sgg. 150. Sulla figura di Eusebio di Cesarea e sulla sua attività di apologeta cfr. Forrat 1986, pp. 9 sgg.; Barnes 1981, pp. 164 sgg. Per il passo relativo al manticora in Eusebio (Hier. 22) cfr. pp. 297 sgg. 151. Cfr. Eus. Hier. 17.

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Tuttavia, nonostante la notevole diversità dei “commenti” attribuiti dagli autori alla rappresentazione del manticora messa fra virgolette,152 per quanto riguarda la ricorrenza delle marche di descrizione si può dire, se escludiamo le eccezioni presenti in Plinio (relative alla collocazione geografica e al tratto in aggiunta dell’imitazione della voce umana), che è possibile individuare in ognuna delle versioni un nocciolo duro di tratti quasi sempre presenti:153 per quanto riguarda il luogo di origine, il manticora vive ai confini estremi del mondo (ora l’India, ora l’Etiopia), è un animale carnivoro che si nutre in preferenza di carne umana, ha il capo simile a quello degli uomini, gli occhi “glauchi” e i denti disposti su una triplice fila su ogni mascella. Il suo corpo è simile a quello del leone e la coda è simile a quella di uno scorpione. È veloce come il cervo e il suo verso ricorda insieme il suono della salpinx e della syrinx. Il suo manto è vermiglio (ora come il cinabro, ora come il sangue) ed è simile a quello di animali carnivori come il leone o il cane. Per quanto riguarda il comportamento interspecifico, il manticora ha un animale antagonista che è l’elefante (ma in Eliano c’è anche il leone). In più scaglia dardi dalla coda in avanti, indietro e lateralmente. Questi dardi, una volta lanciati, si riproducono. Di questo nocciolo duro esiste tuttavia una versione ridotta. Nelle versioni di Pausania e di Filostrato (e di Eusebio di Cesarea), infatti, vengono taciuti alcuni tratti caratteristici (ad esempio: la somiglianza con il volto umano, il colore degli occhi, la natura del verso, la coda simile a quella dello scorpione). Silenzi, questi, che si possono spiegare facilmente. Il fine di queste versioni, infatti, non era quello di descrivere (e quindi di ostendere e mostrare) un animale “nuovo”, quanto quello di confutare una versione tradizionale. Bisogna dunque supporre che se alcuni tratti venivano passati sotto silenzio, ciò avveniva perché essi erano perfettamente conosciuti dal pubblico al quale le versioni venivano presentate. In questo senso anche in Pausania e Filostrato (e in Eusebio), si può dire che il “morfotipo comportamentale” della belva è tenden152. Cfr. Sperber 1981, p. 105: «Mettere fra virgolette il sapere simbolico presenta anche il vantaggio di opporlo nettamente al sapere semantico da una parte e al resto del sapere enciclopedico dall’altra» e più avanti p. 110: «Preciso ora la mia ipotesi: il dispositivo concettuale non lavora mai inutilmente; quando una rappresentazione concettuale non riesce a stabilire l’appartenenza del suo oggetto, diventa a sua volta oggetto di una seconda interpretazione. Quest’ultima non dipende più dal dispositivo concettuale, che si è dimostrato inadeguato, ma dal dispositivo simbolico, che a questo punto lo sostituisce». 153. La qual cosa non capita sempre. È il caso dell’alce il cui morfotipo comportamentale muta praticamente di autore in autore. Cfr. Caes. B. Gall. 6, 27, 1-5; Plin. Nat. Hist. 8, 39; Paus. 5, 12, 1; 9, 21, 3. Per la nozione di “morfotipo comportamentale” cfr. più avanti n. 154, p. 68 (ma vd. anche cap. 3, pp. 194 sgg.).

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zialmente omologato e – si può supporre – ben conosciuto dal pubblico di riferimento.154

3.

Il manticora a pezzi. L’analisi dei singoli tratti e alcuni animali analoghi

Nel paragrafo precedente sono stati individuati (tenendo presenti le variazioni più significative) i tratti tendenzialmente ricorrenti del manticora. Nel fare questo, ciò che è venuto fuori è stato non solo un’immagine “multimediale” (e tridimensionale) della bestia: si è anche stabilito infatti, a partire dalle istruzioni dei testi antichi, il “tipo cognitivo” del manticora, ovvero si è stabilita una sorta di regola, un procedimento per costruire la sua immagine e per permettere di “identificare” la bestia.155 Il sapere sul manticora avrebbe certo potuto anche essere più ricco: i testi antichi avrebbero potuto anche fornire, ad esempio, informazioni sulle modalità del suo accoppiamento, sulla durata della gestazione del feto o, ad esempio, sulle modalità della masticazione. In altri termini, moltissime erano in fondo le notizie che gli antichi non avevano ancora sul manticora, e tuttavia, in virtù del nocciolo duro dei tratti ricorrenti, riuscivano in qualche modo «non solo a riconoscerlo ma anche» – ad eccezione di Pausania – «ad accordarsi nel dargli un nome».156 «Nel dargli il nome, inoltre, si rendevano conto tutti» – ad eccezione di Pausania – «che ciascuno di loro reagiva al nome applicandolo agli stessi animali ai quali lo applicavano altri».157 Il nome dunque si associava (aderiva quasi) al tipo cognitivo che lo individuava e, nel caso di un eventuale avvistamento, avrebbe permesso di riconoscere la belva in questione. Ebbene, nel presente paragrafo quello che cercherò di fare sarà in un certo senso arricchire (artificialmente) il sapere degli antichi sul manticora scomponendo proprio quei tratti che contribuiscono all’omologazione del suo tipo cognitivo. 154. Un morfotipo comportamentale è uno schema figurativo tridimensionale che permette di riconoscere differenti esemplari appartenenti ad un medesimo speciema generico come individui dello stesso tipo. Le “regole” per il riconoscimento, in questo senso, sono fondate non soltanto su un pacchetto di tratti morfologici, ma anche su altre variabili percettive ricorrenti quali l’odore, i tratti motori e le caratteristiche etologiche. A questo proposito cfr. Atran 1996, pp. 5 sgg. e 25 sgg. 155. Per il concetto di “tipo cognitivo” cfr. Eco 1997, pp. 110 sgg. 156. Il testo fra virgolette è tratto da Eco 1997, p. 111 (Eco qui parla della costruzione ipotetica del tipo cognitivo del cavallo presso gli aztechi). 157. Il testo fra virgolette è una parafrasi sempre di Eco 1997, p. 111.

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Prenderò pertanto in esame, isolandole singolarmente, alcune marche di descrizione ricorrenti cercando di metterne in luce la portata simbolica. Nel fare questo terrò conto di due “contesti” importanti. Uno sarà quello che potremmo chiamare della “consapevolezza fisiognomica” degli antichi, un sapere diffuso nell’antichità almeno a livello intuitivo,158 l’altro sarà quello della pratica comune dell’ostensione analogica dell’ignoto. A partire da queste due modalità del sapere costruirò le mie analogie e le mie inferenze fisiognomiche, al fine di fare alcune ipotesi circa le possibili modalità di percezione della belva presso i singoli membri delle culture di riferimento (quella greca e quella latina). 3.1 Il manticora si nutre di carne (umana) Nonostante il suo viso ricordi il viso degli uomini, il manticora si nutre di carne umana. Ctesia stesso, del resto – stando a quanto è possibile supporre a partire da Fozio e da Eliano –, ricordava che il termine persiano “martichora” significava, in greco, “antropofago”.159 Quello che ne veniva fuori, a seguire le istruzioni dei testi, era dunque una sorta di paradosso culturale: per pensare il manticora, per visualizzarlo, era necessario pensare all’uomo, o quanto meno alla sua parte del corpo più importante e nobile (il prosopon);160 al tempo stesso, però, bisognava immaginarsi quel viso come qualcosa di sfigurato: un viso che al di sotto del naso si trasformava in un rictus atroce, un viso con una bocca munita di una triplice fila di denti. La bocca di un essere simile ad un uomo intenta a divorare le membra dilaniate di uomini le cui urla di dolore si univano, nello strazio, al mugghiare indistinto di orride dissonanze di flauti e trombe: questo era il manticora. E dunque, nonostante assomigliasse all’uomo, questo mostro dell’India era il “non-umano” per eccellenza; o quanto meno, se di uomini si deve parlare, si deve dire che, a ricordare per analogia, la dieta sanguinaria della belva, si dovevano chiamare in causa i generi di vita di tutte quelle popolazioni che, nella tradizione etnografica degli antichi, si collocavano ad un livello di vita semiferino (e dunque “altro” 158. cfr. Raina 19942, p. 9. La Raina ricorda che, anche se di fisiognomica in senso proprio si può parlare solo molto tardi, «[…] una “consapevolezza fisiognomica” è forse sempre esistita in Grecia, almeno a livello intuitivo». Sulla fisiognomica in Grecia cfr. anche Sassi 1993a, pp. 431 sgg. 159. Si noti che soltanto Eliano (Nat. Anim. 4, 21) e Fozio (Phot. Bibl. 45 b 31-46 a 12 Henry) ci forniscono l’etimologia del nome. Un’etimologia, fra l’altro, a quanto pare ben fondata (in persiano “martiya”= uomo e in avestico “xvar”= divorare; cfr. Wilson 1992, n. 2 p. 137; Chantraine 19992, p. 668). 160. Sulla concezione in base alla quale il prosopon era la parte più nobile del corpo dell’uomo rimando più avanti a pp. 153 sgg.

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per eccellenza): i Ciclopi omerici, i Padei, gli Sciti antropofagi,161 vale a dire tutti quei popoli posti ai margini del mondo che ancora non si erano allontanati dagli stadi più primitivi della civiltà e che pertanto non solo si cibavano di carni non cotte, ma che, in un modo o nell’altro, mangiavano anche le membra dei propri simili.162 A questi esseri – diciamo così – “di confine” fra l’umano e il bestiale si poteva pensare (anche se nessuno dei testi pervenuti ce lo dice) per “pensare il manticora”. 3.2 Altri “mostri” carnivori: il manticora, il tritone e il toro dell’Etiopia I Ciclopi, i Padei e gli Sciti avevano un bios (un genere di vita) che agli occhi di un greco o di un romano, risultava senza dubbio perturbante e grottesco (in altri termini: “altro”); tuttavia, essi erano pur sempre uomini. Avevano infatti tradizioni e nomoi (per quanto mirabili) e vivevano in gruppo. Il manticora invece – da quanto si evince dai testi – era un animale solitario.163 Di più, era – così si diceva – uno degli animali più pericolosi fra quelli che un uomo potesse mai incontrare. Se dunque per i primi si era ancora (anche se di pochissimo) al di qua della soglia che divideva l’umano dal ferino, per il mostro indiano quella soglia risultava abbondantemente varcata. Per questo, forse, piuttosto che pensare ai popoli semiferini, si deve cercare di spostare altrove il mirino delle nostre analogie (o meglio delle mie: di quelle che io sto costruendo, a partire dal manticora, al fine di comprendere meglio il valore simbolico dei suoi tratti). C’erano infatti, nel giardino delle meraviglie zoologiche degli antichi, almeno altri due esseri ferocissimi che si trovavano a condividere molti tratti con l’animale oggetto di questo studio e che forse è opportuno osservare più da vicino. Uno era il tritone di Pausania (del quale si parlerà più estesamente nel cap. 4), un essere anch’esso di confine che, strappato agli spazi della mitologia, si raccontava che avesse recato nocumento 161. Per i Padei cfr. Hdt. 3, 99, 1 sgg. (cfr. anche, sugli Antropofagi, Plin. Nat. Hist. 4, 88; 6, 53; 7, 9). Sulle popolazioni fantastiche in genere cfr. Nippel 1990, pp. 169 sgg. Sull’antropofagia e sull’omofagia cfr. Plat. Epin. 975 a 1 sgg.; Aristot. EN 1145 a 29 sgg.; 1148 b 20 sgg.: l’antropofagia e l’omofagia rappresentavano, per le teorie antropologiche dell’antichità, lo stato animalesco dell’uomo primitivo, stato dal quale le popolazioni delle eschatiai si pensava non fossero ancora uscite (cfr. Nippel 1990, p. 174). 162. Sul “genere di vita” come asse di tematizzazione etnografica in Erodoto cfr. Hartog 1992, pp. 185 sgg. Più in generale sulle categorie del discorso etnografico e sul determinismo climatico-ambientale cfr. Oniga 1995, pp. 23 sgg. e Id. 1998, pp. 93 sgg., (sul “razzismo” culturale dei Greci e sulla ideologizzazione del sapere antropologico cfr. anche Sassi 2000, pp. 137 sgg. e Id. 1988, pp. 3 sgg.). 163. Per la pertinentizzazione della differenza fra animali di gruppo e animali solitari cfr. Aristot. Hist. Anim. 1, 1, 487 b 33 sgg.

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perfino agli uomini che vivevano al “centro del mondo”.164 Se infatti il manticora imperversava nelle zone ultime dell’oriente, in India, il mostro del mare (quel mare che i Greci percepivano come il luogo di confine per eccellenza),165 aveva afflitto invece, in un tempo passato, i pastori che pascolavano i loro armenti vicino alle spiagge della Beozia. Ebbene, se il manticora era un quadrupede con il viso di uomo (e per giunta si cibava di carni umane), il tritone era un pesce (dalla cintola in giù), con il viso di uomo e le zanne di una bestia feroce (tratti, questi, che condivideva con il manticora), che si nutriva di carne cruda: un essere che, come il mostro indiano, era munito di occhi glauchi e il cui morfotipo era costruito a partire dalle analogie con animali per niente assimilabili fra loro.166 Ad avere gli occhi “glauchi” (e ad essere pericoloso) come il manticora c’era poi un altro animale paradoxon che veniva collocato anch’esso in una zona di confine del mondo: si tratta del toro carnivoro che, nella versione di Diodoro Siculo (Diod. 3, 35, 7 sgg.), si diceva vivesse in Etiopia.167 Questo essere, come il manticora, aveva una dentatura parados164. Per il tritone in Pausania cfr. pp. 283 sgg. Nella rappresentazione dell’altro (del barbaro e dell’essere paradoxon in generale) la lontananza temporale e diacronica funzionava in maniera analoga alla lontananza spaziale e sincronica. In questo senso ai popoli che vivevano lontani dal centro venivano attribuiti generi di vita simili a quelli che avevano avuto nel passato i popoli del centro del mondo (i Greci, i Romani). Allo stesso modo i mostri che vivevano ai margini dell’oikoumene erano considerati analoghi agli esseri del passato mitico dei Greci (cfr. a questo proposito Oniga 1995, pp. 23 sgg.). 165. Cfr. a questo proposito Buxton 1997, pp. 111 sgg. 166. Cfr. sopra n. 164. v / ν οJ 167. Riporto di seguito Diod. 3, 35, 7-9: «πανv των δε; των' ειρj ηµενv ων ζωω

σαρκοφαγv ος ταυρ ' ος αγ j ριωvτατος v εσ j τι και; παντελως ' δυσκαταµαχ v ητος. τω'/ µεν ; γαρ ; ογ[ χω/ του'το µειζ' ον v εσ j τι των ' ηµ J ερ v ων ταυρ v ων, οξ j υvτητι δε; ποδων ' ουj λειποµ v ενον ιπ { που, τω/' στοµ v ατι δε; διηστηκος ; αχ [ ρι των ' ω[των. το; δε; χρωµ ' α πυρρον ; εχ [ ει καθ∆υπ J ερβολην v , και; τα; µεν ; οµ [ µατα γλαυκοvτερα λεο v ντος και; τας ; νυκ v τας ασ j τραπ v τοντα, τα; δε; κερ v ατα φυ v σ εως ι j δ ιοτρο v π ου κοινωνου ' ν τα : το; ν µε ; ν γ α ; ρ α [ λ λον χρο v ν ον αυ j τα; κινει ' παραπλησιω v ς τοις ' ωσ j ι,v κατα; δε; τας ; µαχ v ας ισ { τησιν αρ j αροvτως. την ; δε; της' τριχος; επ j αγωγην ; εχ [ ει τοις ' αλ [ λοις ζωο / v ις εν j αντια v ν. εσ [ τι δε; το; θηριο v ν αλ j κη' / τε και; δυναµ v ει διαφ v ορον, ως J αν ] επ j ιτιθεµ v ενον τοις ' αλ j κιµωταvτοις των ' ζω / ω / v ν και; την ; τροφην ; εχ [ ον εκ j της' των ' χειρωθεν v των σαρκοφαγια v ς. διαφθειρ v ει δε; και; τας ; ποιµ v νας των ' εγj χωριω v ν, και; καταπληκτικω'ς αjγ ωνιvζεται προ;ς ο{λα συστηvµατα τω'ν ποιµεvνων και; κυνω'ν αγj ελ v ας. λεγ v εται δε; και; το; δερ v µα α[τρωτον εχ [ ειν: πολλων ' γουν ' επ j ιβεβληµεν v ων λαβειν ' υJποχει vριον µηδεvνα κατισχυκεvναι. το; δ∆ει jς ο[ρυγµα πεσο;ν η ] δι ∆α[λλης αjπαv τ ης χειρωθεν ; υπ J ο; του' θυµου' γιν v εται περιπνιγες v , και; της ' ελ j ευθερια v ς ουδ j αµως ' αλ j λαvττεται την ; εν j τω/' τιθασευεv σθαι φιλανθρωπια v ν. διοπ v ερ εικ j οvτως οιJ Τρωγλοδυvται του'το το; θηριvον κραvτιστον κριvνουσιν, ωJς α]ν τη'ς φυvσεως αυjτω'/ δεδωρηµεvνης αjλκη;ν µε;ν λεvοντος, ι{ππου δε; ταvχος, ρJωvµ ην δε; ταυvρου, τη'ς δε; παvντων κρατι vστης σιδηvρου φυσ v εως ουχ j ηJττωµ v ενον» («L’animale più feroce, fra tutti quelli dei quali abbiamo

parlato, è il toro carnivoro; un animale, questo, che è assolutamente difficile da debellare. Per quanto riguarda il corpo, infatti, esso è più grande dei tori domestici e, per la velocità delle sue zampe, non inferiore al cavallo. La sua bocca inoltre è fornita di un rictus che arriva fino alle orecchie. È di un colore rosso accesissimo e ha gli occhi che risplendono nella notte più glauchi di quelli del leone. Le sue corna

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sale e un rictus deviante rispetto alla norma (la sua bocca infatti, a quanv ατι δε; διηστηκος ; to ci dice Diodoro, arrivava fino alle orecchie: «τω/' στοµ αχ [ ρι των ' ω[των»); ma soprattutto condivideva con la bestia indiana l’iperbolicità dei tratti: era velocissimo (come un cavallo) e forte come il leone (quel leone che dà il corpo al manticora) ed era più resistente del ferro. In più, questa bestia, oltre a dare l’impressione di essere, come il manticora, un patchwork di esseri non omofili, era un toro – un essere noto a tutti i Greci e ai loro dei che ricevevano l’odore delle sue carni in offerta –, eppure si cibava non di erba, ma della carne cruda degli animali che uccideva. Non è inverosimile pensare, a partire dalla descrizione di Diodoro, che anche gli uomini che vivevano nelle lontane regioni dell’Etiopia potessero facilmente essere uccisi e divorati da questo flagello. L’Etiopia, del resto, (esattamente come l’India) era un “mondo alla rovescia”, in cui le leggi della natura sembravano funzionare in maniera differente.168 In Etiopia gli uomini erano neri e gli animali sembravano aveubbidiscono ad una natura del tutto singolare: per il resto del tempo infatti le muove in maniera simile alle orecchie, ma quando deve combattere le tiene ben diritte. Il suo pelo inoltre ha una direzione diversa rispetto a quella di tutti gli altri animali. Questa bestia si distingue per la sua forza e per il suo vigore, dal momento che assale anche gli animali più forti e ha il suo nutrimento nelle carni degli animali uccisi. Uccide anche il bestiame degli abitanti del luogo, e combatte con una ferocia tremenda contro interi gruppi di pastori e branchi di cani. Si dice anche che la sua pelle sia invulnerabile. Molti avrebbero tentato di catturarlo e di farlo prigioniero, ma nessuno – si racconta – sarebbe mai riuscito ad avere la meglio su di lui. Questa bestia però, una volta che sia caduta in un fossato, o che sia stata presa a seguito di un altro inganno, si soffoca da sola per la rabbia ed in nessun modo scambia la libertà con l’amore forzato per gli uomini causato dall’addomesticamento. Per questo motivo a ragione i Trogloditi pensano che questa bestia sia la più forte di tutte, dal momento che la natura le ha donato il vigore del leone, la velocità del cavallo e la forza del toro. Questa bestia d’altra parte non è inferiore alla natura del ferro (che è la più forte di tutte»). Per altre versioni del medesimo animale cfr. Plin. Nat. Hist. 8, 72 (che parla di indicos boves unicornes tricornesque che si troverebbero in Etiopia); 8, 74; Ael. Nat. Anim. 17, 45. Solino fa “migrare” il toro carnivoro in India (cfr. ad es. Sol. 52, 36) dopo che Pausania aveva ridotto il morfotipo dell’asino indiano unicorno a quello del toro etiopico (cfr. 9, 21, 2: su questo passo cfr. pp. 287 sgg.). Di un toro frigio, con caratteristiche analoghe al toro dell’Etiopia menzionato da Diodoro, si parla in Aristot. Hist. Anim. 3, 9, 517 a 28 sgg. In questo passo si spiega che questo animale muove le corna perché, come le orecchie, le ha attaccate alla pelle e non all’osso. 168. Sul clima indiano cfr. Hdt. 3, 104, 2-3; Diod. 2, 35, 3 sgg.; Strab. 15, 1, 20; Curt. 8, 9, 12-13; 9, 1, 11; Sen. Nat. Quaest. 5, 18, 2; Lucan. 4, 62-7; Plin. Nat. Hist. 7, 21 sgg.; 9, 4-5; Sol. 52, 1 sgg. Per la spiegazione delle “anomalie” biologiche dell’Etiopia in Plinio cfr. Nat. Hist. 6, 187 sgg. (vd. Ballabriga 1986, pp. 156 sgg.). Più in generale, per le rappresentazioni dell’Etiopia cfr. anche Strab. 17, 1, 3 (generi di vita); 15, 1, 24 (il clima); 2, 5, 33 (l’Etiopia come landa deserta); 15, 1, 25 (l’Etiopia come l’India); Diod. 3, 2, 1 (sul clima); 3, 3, 1 sgg. (sui generi di vita); 3, 35, 1 sgg. (sugli animali memorabili); Plin. Nat. Hist. 32, 143 (sulla scarsa conoscenza della fauna etiopica); 8, 32; 8, 35; 8, 69; 8, 72 sgg.; 8, 107; 8, 131; 8, 199; 8, 216 (animali memorabili dell’Etiopia); 10, 1; 10, 3; 10, 74 (uccelli); 12, 17; 12, 101; 13, 43 (piante); Pomp. Mela 3, 85 sgg.; Sol. 30, 14.

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re comportamenti del tutto inaspettati e insoliti. Non era dunque impossibile pensare che, mentre nelle zone centrali del mondo i tori venivano sacrificati agli dei ed erano usati come strumenti agricoli, nelle eschatiai, invece, gli uomini potessero essere uccisi da essi. Insomma, anche per il toro dell’Etiopia poteva avere valore lo stesso consiglio che si immagina si potesse dare a chi si recasse dalle parti dell’India: «bada! se sei lì guardati da questo animale!». A dimostrarlo, del resto, oltre che la descrizione della dieta sanguinaria e delle caratteristiche etologiche, c’erano anche le caratteristiche fisiche immediatamente visibili: gli occhi glauchi che scintillano nella notte e il colore rossastro del manto che indica il movimento selvaggio e scomposto. Il caso vuole che questi fossero gli stessi colori che venivano attribuiti al manticora. 3.2.1 Il manticora ha gli occhi “glauchi” Il termine glaucus viene comunemente tradotto con “azzurro”. Ma siamo sicuri che il manticora avesse gli occhi semplicemente azzurri (o cerulei, o grigi che fossero)? Come è noto, è impresa quanto mai ardua tradurre i termini di colore del mondo antico. Si ha sempre l’impressione che i tratti pertinenti per l’identificazione di un colore fossero di gran lunga differenti rispetto ai nostri. L’uomo, del resto, vede i colori che culturalmente ha imparato a distinguere.169 In particolar modo, laddove per noi il colore è una qualità astratta, che può essere esemplificata da colori puri e immateriali, gli antichi con molta probabilità si riferivano ad oggetti che era possibile trovare in natura. Il colore degli antichi indica quasi sempre il “materiale”, e dunque il vermiglio sarà il cinabro e gli occhi di un uomo potranno essere “occhi di capra” o “occhi di civetta”.170 Oggi invece «qualunque persona anche di minima cultura scientifica, invitata a riflettere sulla sua conoscenza dei colori, non penserà certo a ocre, petali, penne (o alle tecniche 169. A questo proposito cfr. Cardona 1985, pp. 151 sgg.; ma vd. anche lo studio ormai classico di Berlin e Kay 1969 sui termini di colore (cfr. anche Kay, Berlin, Maffi, Merrifield 1978, pp. 21 sgg.). Per una recente revisione critica di Berlin e Kay 1969 (che come è noto sostengono una progressiva complicazione diacronica nel numero e nella entità dei termini di colore adottati dalle varie culture) cfr. Saunders 2000, pp. 81 sgg.; spec. p. 93: «But if, as I suggest, colour is not a natural thing (made of reflectances, retinal pigments, opponent processes), but exists through noticings and reportings as an ensemble of social relations, then do obtain it needs socio-historical and cultural specificities». 170. Sulla percezione dei colori presso i Greci cfr. Sassi 2003, pp. 9 sgg. La Sassi dopo aver esposto gli approcci che si sono succeduti sull’argomento, propone lo studio delle tecnologie di produzione dei materiali che indicano i colori al fine di comprendere meglio il simbolismo degli stessi. Ad una conclusione analoga arriva, per il mondo latino, Romano 2003, pp. 41 sgg.

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usate per “manipolare” un dato materiale), ma ad una esperienza di laboratorio, a un prisma che scompone la luce del sole (“bianca”) nei sette colori puri dell’iride, o magari al disco colorato di Newton, che ruotando restituisce la luce bianca».171 Il nostro colore è dunque un colore astratto ed “industriale”172 e la percezione che abbiamo di esso è ormai slegata da qualsiasi superficie materiale o dalla disomogenea natura degli esseri viventi. In altri termini, la nostra maniera di “vedere” ha causato la perdita di gran parte dei valori simbolici legati ai colori. Il colore degli antichi, invece, rimanda sempre a qualcos’altro. In questo senso dire che il manticora (o qualsiasi altro animale) abbia determinati colori, significa dire che esso in qualche modo richiama simbolicamente altri oggetti (ed altre pratiche) o altri animali che condividono con esso alcuni tratti analoghi; in altri termini: altri significati. È proprio per questi motivi, dunque, che non è forse inopportuno chiedersi cosa possano significare gli occhi glauchi del manticora. Innanzitutto è facile ricordare come ad avere gli occhi glauchi “per antonomasia” nella tradizione omerica sia Atena;173 ovvero la dea della mêtis e dell’intelligenza umane. La mêtis di questa dea, tuttavia – come hanno rilevato Detienne e Vernant (19993, pp. 132 sgg.) –,174 non si esplica unicamente nell’ambito delle tecniche della vita quotidiana o, ad esempio, nella costruzione di manufatti ingegnosi, ma anche – fra le altre cose – nell’arte della guerra. Secondo i racconti mitici, infatti, Atena, venuta alla luce lanciando un tremendo grido di battaglia,175 risulta essere capace, prima di ucciderli, di immobilizzare i suoi avversari terrorizzandoli con la sua voce di bronzo, ma anche con il suo sguardo fisso e “glauco”.176 Caratteri171. Cardona 1985, p. 149. 172. Cfr. Cardona 1985, p. 151. La distinzione fra colori naturali e colori artificiali si trova già nel De lapidibus di Teofrasto (spec. 55 sgg.) e ritorna in Plinio il Vecchio (Nat. Hist. 35, 30) e in Vitruvio (7, 9, 1 sgg.). A questo proposito cfr. Romano 1996, pp. 116 sgg. 173. Cfr. ad es. Il. 1, 206; 2, 166; 2, 172; 4, 439; Od. 1, 44; 1, 80 etc. 174. Cfr. spec. Detienne e Vernant 19993, p. 138: «la mêtis di Atena, accanto al sapere di Efesto, fa uso dei valori del bronzo in quanto metallo prodotto e animato dal fuoco del fabbro, ma l’applicazione che essa ne fa si colloca al livello della guerra attiva, nello schieramento efficace delle armi portate o brandite dagli uomini di guerra». 175. Per la nascita di Atena cfr. Pind. Ol. 7, 35-38, oppure si veda Hon., Inno ad Atena, 1, 1-5. 176. A proposito dell’occhio di Atena e del fascino della civetta cfr. Democrito 68 A 157 DK; Giovanni Lido De mens. 4, 54; Aristot. Hist. Anim. 9, 2, 609 a 13 sgg. Per questi passi cfr. Detienne e Vernant 19993, n. 33 pp. 136 sg., i quali, citando Dione di Prusa (12, 1 sgg.), parlano del potere fascinante dell’occhio fisso della civetta (pp. 137 sgg.), laddove invece, nel passo del neosofista, si parla

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stiche, queste, che in un certo qual modo condivide proprio con l’animale che ad essa viene tradizionalmente associato come amphipolos, ovvero la glaux (la civetta).177 Non a caso, infatti, secondo l’enciclopedia zoologica degli antichi, la civetta è considerata un essere saggio e astuto (proprio come Atena), ma dalle virtù decisamente “stregonesche” e ambigue; tanto stregonesche e ambigue che – ci racconta Eliano (Nat. Anim. 1, 29) – gli stessi uccellatori che la catturano vengono da essa ammaliati.178 La malìa si manifesta, secondo la notizia recata nel De natura animalium, con una affezione morbosa da parte degli uomini che, una volta catturato l’animale, finiscono per sceglierlo come portafortuna (περιvαπτα) e, di conseguenza, non riescono più a staccarsi da esso. Ebbene, per ottenere tali effetti, la civetta usa di notte il suo canto ammaliante e suadente, di giorno la diversa maniera di atteggiare il prosopon, e quindi anche lo sguardo. Uno sguardo, quello della glaux, ambiguo e metamorfico, ma anche magnetico e terrorizzante, così come magnetici e terrorizzanti sono gli occhi del guerriero che fissa la sua vittima prima di abbatterla.179 È facile immaginare da cosa possa essere generata la sensazione di terrore che emana dai grandi occhi della civetta (ma, a questo punto – si potrebbe dire – dagli occhi di tutti gli animali “glaucopidi”, e dunque anche dal manticora). Esiste infatti una credenza diffusa secondo la quale tutti gli esseri con gli occhi “glauchi” sono capaci di vedere nella notte. Molto interessante in questo senso è la tepiuttosto del potere fascinante del canto (ma cfr. anche 72, 15). Per la civetta in Aristotele cfr. Hist. Anim. 1, 1, 488 a 26; 9, 1, 609 a 8; 8, 3, 592 b 8. 177. Cfr. ad es. Anthologia Greca 7, 425, 8 178. Oltre che il già menzionato D. Chr. 12, 1 sgg., cfr. Ael. Nat. Anim. 1, 29: «αιJµυvλον ζω'/ων και; εjοικο;ς ται'ς φαρµακιvσιν ηJ γλαυ'ξ. και; πρωvτους µε;ν αιJρει'

του;ς οjρνιτοθηvρας ηJ/ρηµεvνη. περιαvγ ουσι γου'ν αυjτη;ν ωJς παιδικα; η] και; νη; ∆ιvα, περιvαπτα εjπι; τω'ν ω[µων. και; νυvκτωρ µε;ν αυjτοι'ς αjγ ρυπνει' και; τη'/ φωνη'/ οιJονειv τινι εjπαοιδη'/ γοητειvας υJπεσπαρµεvνης αιJµυvλου τε και; θελκτικη'ς του'ς ο[ρνιθας ε{λκει και; καθιvζει πλησιvον εJαυτη'ς. η[δη δε; και; εjν ηJµεvρα/ θηvρατρα ε{τερα τοι'ς ο[ρνισι προσειvει µωκωµεvνη και; α[λλοτε α[λλην ιjδεvαν προσωvπου στρεvφουσα, υJφ∆ ω|ν κηλου'νται και; παραµεvνουσιν εjνεοι; παvντες ο[ρνιθες, ηJ/ρηµεvνοι δεvει και; µαvλα γε ιjσχυρω'/ εjξ ω|ν εjκειvνη µορφαvζει» («la civetta è un animale incantatore e simile per certi versi alle

streghe. Una volta catturata, infatti, i primi ad essere ridotti in suo potere sono gli stessi uccellatori. Infatti se la vanno portando sulle spalle come se fosse la propria beniamina o – per Zeus! – il proprio portafortuna. Di notte poi essa veglia su di loro e con voce da maga, diffondendo un sottile, invitante richiamo agli altri uccelli, fa sì che le si posino accanto. Anche di giorno tende loro le sue insidie quasi beffeggiandoli e mutando di continuo la propria espressione. Gli uccelli, ammutoliti, rimangono immobilizzati, presi come sono dal terrore: un terrore smisurato e potente causato dalle trasformazioni cui essa ricorre»). La proverbialità di questo motivo è evidente anche in Luc. Harmonides 1. Per la menzione della civetta in altri passi di Eliano cfr. anche Nat. Anim. 3, 9 e 5, 2. 179. Per questa associazione rimando ancora una volta a Detienne e Vernant 19993, pp. 132 sgg.

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stimonianza dataci da Plinio (Nat. Hist. 11, 143), che ricorda la nictalopia dell’imperatore Tiberio, il quale, ogni volta che si svegliava nel bel mezzo della notte, riusciva a vedere ogni cosa come se ci fosse ancora la luce del giorno.180 Lo stesso Plinio, poi, riferisce una notizia stupefacente, attribuibile ad Isigono di Nicea, secondo la quale «in Albania nascono uomini con le pupille di colore glauco, i cui capelli diventano subito bianchi fin da quando sono piccoli e che vedono meglio durante la notte che durante il giorno» (Nat. Hist. 7, 12).181 Avere l’occhio “glauco”, dunque, significa riuscire a dominare la notte in cui tutto è senza forma; significa muoversi agevolmente in essa e vedere le cose che gli altri non riescono a vedere. Ma, soprattutto, l’occhio “glauco” è anche l’occhio che terrorizza per il suo perturbante splendore naturale; l’occhio che squarcia, con un abbagliante scintillio, la fitta e opaca coltre del buio per sorprendere e terrorizzare le vittime immobili e confuse.182 Non a caso l’occhio “glauco” è l’occhio di Atena guerriera, della civetta, ma anche dei felini e dei serpenti.183 Ma anche del toro carnivoro dell’Etiopia, del tritone e del manticora. 180. Cfr. Plin. Nat. Hist. 11, 142 sg. L’aggettivo usato qui per indicare gli occhi di Tiberio è caesius, che, come si comprende dal riferimento successivo agli occhi glauci di Augusto, è sinonimico rispetto a glaucus. Bisogna ad ogni modo ricordare che laddove i Greci usano l’aggettivo γλαυκοvς i latini preferiscono distinguere un uso più generico di glaucus e un uso specialistico (relativamente agli occhi) di caesius. Si veda ad esempio Gell. 2, 26, 19 che osserva chiaramente come «nostris veteribus “caesia” dicta est quae a Graecis γλαυκω'− πις» («i nostri antenati chiamavano “caesia” quella che i Greci chiamano “glaucopide”». Più in generale cfr. Walde Hoffmann, s.v., p. 133 e Th. L. Lat., v. 3, cc. 109 sgg). 181. Plin. Nat. Hist. 7, 12: «Idem [sc. Isigonus] in Albania gigni quosdam glauca oculorum acie, a pueritia statim canos, qui noctu plus quam interdiu cernant». Per Isigono di Nicea cfr. FHG IV fr. 1 e Giannini 1964, pp. 124 sgg. Isi[ ιστα. Per quanto riguarda il periogono di Nicea è autore di un’opera dal titolo απ do in cui operò, la datazione oscilla tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C. Il suo libro di Paradoxa era presumibilmente diviso per temi (etnografico, zoologico, idrografico). 182. Diod. 3, 35, 7 sgg., come si è già visto (cfr. n. 167, p. 71), associa alla glaukotes del toro etiopico la facoltà di brillare (astraptein) nella notte. Più tardi Isidoro di Siviglia, parlando della natura degli occhi “glauchi”, dirà in Orig. 12, 1, 50: «“glaucus” est veluti pictos oculos habens et quodam splendore perfusus» («“glauco” è qualcuno che ha gli occhi come se fossero dipinti e – per così dire – luccicanti»). v οντες 183. Cfr. ad es. Schol. Ad Pind. Ol. 8, 37 che interpreta γλαυκοι; δε; δρακ (serpenti “glauchi”) come appunto φοβεροvφθαλµοι (dagli occhi spaventosi). A proposito della clarissima acies dei serpenti cfr. anche Macr. Sat. 1, 20, 3; Ps. Asper Gramm. Suppl. 239, 3 Hagen. Ad avere gli occhi “glauchi” e rilucenti nella notte, inoltre, come si può vedere da Diod. 3, 35, 7 sgg. e da Ael. Nat. Anim. 17, 45, sono i leoni (a questo proposito cfr. anche Catull. Carm. 45, 7 e Donato, Comm. ad Ter. Hec. 440).

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3.2.2 Il manticora ha gli occhi glauchi simili a quelli dell’uomo Il manticora, dunque, è un essere dai grandi occhi cerulei “di civetta” (o “di felino”) che brillano infuocati nella notte. Tali occhi, però, sono anche occhi simili a quelli dell’uomo. La qual cosa ci autorizza a fare una serie di inferenze che possono essere tratte dal campo della fisiognomica. Secondo tale sapere, ampiamente diffuso in Grecia a partire dal IV sec. a.C. e sistematizzato in ambito peripatetico, esiste infatti un rapporto biunivoco fra le diverse parti del corpo umano e i tratti psicologici dei singoli individui.184 Già Aristotele, nella Historia Animalium (e dunque presumibilmente molto prima che si arrivasse alla sistemazione “scientifica” del trattatello sulla Physiognomonia),185 notava che a diversi tipi oftalmici corrispondono diversi ethe. In particolare lo Stagirita indicava il tipo oftalmico migliore nell’“occhio di capra”, il quale presentava «un ottimo carattere» ed era quello che supportava una vista maggiormente acuta.186 Dal passo di Aristotele, ad ogni modo, si desume una differenza assai significativa tra l’essere umano e tutti gli altri zoia. Se infatti gli animali presentano tipi oftalmici specificamente uniformi (e quindi la capra non potrà che avere l’occhio aigopòn, cioè “di capra”, e così via), l’uomo è l’unico essere vivente ad avere gli occhi di svariati colori (e dunque in un certo senso anche “di svariati animali”). Se dunque la psicologia di un soggetto può essere interrelata con la colorazione e la tipologia oftalmica, ne deriverà che ogni animale avrà certo un suo carattere specifico sempre prevedibile. Da ciò però viene fuori anche che, per capire il carattere di ogni singolo essere umano, sarà necessario fare anche alcune inferenze di tipo fisiognomico. In altre parole, se le volpi sono 184. Sulla diffusione del sapere fisiognomico cfr. Raina 19942, p. 18 e il recente Rocca-Serra 1997, p. 138. Sulla fondazione “scientifica” della fisiognomica in ambito peripatetico cfr. Sassi 1993a, pp. 438 sgg. La Sassi, a proposito delle indagini zoologiche di Aristotele, sottolinea l’attenzione dello Stagirita nei confronti dei “caratteri” degli animali e osserva come ad esempio Hist. Anim. 1, 10, 492 a 8 sgg., per le evidenti analogie che presenta con Physiogn. 811 b 15 sgg., sembra quasi una sezione di fisiognomica animale. 185. Per il dibattito sulla paternità del trattatello pseudo-aristotelico cfr. Raina 19942, pp. 19 sgg. 186. Cfr. Hist. Anim. 1, 10, 491 b 34-492 a 7: «∆Οφθαλµου' δε; το; µεν; λευκον;

ο{µοιον ωJς εjπι; το; πολυ; πα'σιν, το; δε; καλουvµενον µεvλαν διαφεvρει: τοι'ς µε;ν γα;ρ εjστι µεvλαν, τοι'ς δε; σφοvδρα γλαυκοvν, τοι'ς δε; χαροποvν, εjνιvοις δε; αιjγ ωποvν: του'το η[θους βελτιvστου σηµει'ον και; προ;ς οjξυvτητα ο[ψεως κραvτιστον. Μοvνον δ∆ η] µαvλιστα τω'ν ζωω /' ν αν [ θρωπος πολυχ v ρους τα; οµ [ µαταv εσ j τιν: των ' δ∆αλ [ λων εν } ειδ \ ος: ιπ { ποι δε; γιν v ονται γλαυκοι; εν [ ιοι» («Il bianco dell’occhio è uguale per lo più in tutti gli esseri, il cosid-

detto “nero” invece si differenzia: in alcuni esseri è nero, in altri è azzurro intenso, in altri ancora splendente, e qualche volta è dello stesso colore degli occhi delle capre. Quest’ultimo tipo di occhio in particolare indica un ottimo carattere ed è il migliore in quanto ad acutezza della vista. Fra tutti gli esseri viventi solo l’uomo può avere l’occhio di svariati colori; negli altri invece l’occhio può avere un solo aspetto – anche se ci sono alcuni cavalli che hanno gli occhi glauchi»).

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tutte furbe e i leoni sono tutti coraggiosi, non così è per gli uomini, i quali notoriamente presentano caratteristiche fisiologiche (e dunque “psicologiche”) sempre diverse da soggetto a soggetto. Quello che in Aristotele era appena abbozzato è comunque già diventato, almeno per quanto riguarda le tipologie oftalmiche, un vero e proprio sistema complesso di deduzione psicologica nella Naturalis Historia di Plinio (quel Plinio che pure ostenta disprezzo per un certo tipo di fisiognomica):187 «Oculus unicolor nulli; cum candore omnibus medius colos differens. Neque ulla ex parte maiora animi indicia cunctis animalibus, sed homini maxime, id est moderationis, clementiae, misericordiae, odii, amoris, tristitiae, laetitiae. Contuitu quoque multiformes, truces, torvi, flagrantes, graves, transversi, limi, summissi, blandi. Profecto in oculis animus habitat. Ardent, intenduntur, umectant, conivent». (Nat. Hist. 11, 145)

«Nessuno ha l’occhio di un solo colore: infatti se la parte bianca degli occhi è uguale in tutti gli esseri, la pupilla invece presenta una serie di differenze. In tutti gli animali (e soprattutto nell’uomo) il carattere non può essere desunto meglio da nessuna altra parte del corpo che da questa. Dalle pupille infatti si capisce se un essere vivente è moderato, clemente, misericordioso, incline all’odio, all’amore, alla tristezza, alla letizia. La maniera di guardare inoltre può essere multiforme: gli occhi possono essere truci, torvi, fiammeggianti, gravi, di traverso, storti, sottomessi, carezzevoli: senza dubbio infatti l’anima ha sede negli occhi. Essi ardono, si aguzzano, si bagnano, si chiudono».

La possibilità di inferire la psicologia di ogni essere vivente (cunctis animalibus), che nel passo aristotelico era soltanto implicita, adesso – forse anche in seguito alla diffusione dei libri di Trogo188 – è divenuta chiara ed evidente.189 Gli occhi, dunque, sempre 187. Cfr. Plin. Nat. Hist. 11, 273 (ma anche 274-276). Qui Plinio critica la fisiognomica come arte di previsione del futuro (per computare ad es. la durata della vita di un uomo a partire dai suoi tratti fisiologici); ma dal momento in cui cita Pompeo Trogo che usa la fisiognomica come mezzo per costruire inferenze psicologiche la critica si attenua. Per i passi aristotelici che si desume che l’autore romano abbia usato come “fonte” cfr. Hist. Anim. 1, 15, 493 b 32; 1, 9, 491 b 11-15; 1, 10, 491 b 24 sgg.; 1, 11, 492 b 1 sgg. A proposito dei passi pliniani sopra citati cfr. Beagon 1992, pp. 92 sgg., la quale individua una tradizione antifisiognomica romana a partire dal De fato di Cicerone (spec. 7 sgg.) per continuare con il pensiero stoico (ad es. Sen. Ep. 106, 5 sgg.). 188. Da quanto si può desumere da Nat. Hist. 11, 273-276 è verosimile che Plinio conoscesse la fisiognomica peripatetica più attraverso l’epitome di Pompeo Trogo che attraverso una lettura diretta della tradizione. 189. L’estrema varietà oftalmica nell’essere umano è segnalata da Plinio anche in Nat. Hist. 11, 141.

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più sono percepiti come “lo specchio dell’anima” e se gli animali hanno “anime fisse”, l’uomo – in un certo senso – cambia e muta la sua anima con il mutare dei propri occhi. Ma – per l’appunto – cosa significa avere l’occhio “glauco” per un essere umano? Ebbene, l’occhio “glauco”, nell’ambito del sapere diffuso degli antichi, è il peggiore di tutti i tipi oftalmici, tanto che, già nel trattato ippocratico sulle Arie, Acque e Luoghi (14), la glaukotes era considerata addirittura una vera e propria patologia.190 Nella Fisiognomica, poi, viene detto a chiare lettere che le persone che hanno gli occhi glaukoi e leukoi sono vili (deiloi) e che è invece sintomo di eupsychia (fermezza d’animo) avere un occhio charopòs, ma non glaukòs.191 L’occhio “glauco”, per di più, ancora nel II sec. d.C., è proverbialmente considerato l’occhio “brutto” per eccellenza; Luciano infatti, in uno dei suoi εJταιρικοι; διαvλογοι (2, 1) fa dire ad una cortigiana, a proposito dell’aspetto orripilante di una donna:192 «και; συ; δ∆ου\ν προvτερον ιjδου' αυjτη;ν και; το; προvσωπον και; του;ς

οjφθαλµου;ς ιjδεv: µηv σε αjνιαvτω, ειj παvνυ γλαυκου;ς ε[χει αυjτου;ς µηδε; ο{τι διαvστροφοιv ειjσι και; εjς αjλληvλους οJρω'σι».

«E tu, per prima cosa, guardale il viso e gli occhi! Che non ti faccia vomitare se è vero che li ha glauchi e strabici che si guardano l’uno con l’altro».

Ma è in ambito latino, con il trattato De Physiognomonia, che nel IV sec. a.C. la classificazione dei tipi oftalmici diventa una sorta di caleidoscopio multiforme: i tipi oftalmici individuati dalla tradizione fisiognomica precedente sembrano infatti moltiplicarsi, rendendo così sempre più complicata la base costituita dalla ripartizione peripatetica originale; vi è infatti una vera e propria proliferazione di tratti fisiologici, i quali, a loro volta, vengono ovviamente interrelati, con una minuzia per certi versi maniacale, con sempre più numerosi tipi psicologici.193 Ecco dunque che le tipologie della glaucitas si moltiplicano, quasi, all’infinito: gli occhi glauci e stantes indicano una persona astuta e cavillosa (Physiogn. 22), gli occhi parvi, trementes e glauci sono il segno di slealtà e spudoratezza (23). Altri caratteri che vengono catalogati nella categoria della glaucitas 190. A tale proposito cfr. Ley (de) 1981, pp. 194 sgg. 191. Cfr. Physiogn. 812 b 4 sg. Sulla difficoltà di traduzione del termine charopòs cfr. Raina 2003, pp. 25 sgg. 192. Si ricordi anche che dei due cavalli che guidano il carro dell’anima del Fedro platonico, quello cattivo e che tende verso il basso è, fra le altre cose, γλαυκοvµµατος (253 e 3). 193. Per il De Physiognomonia, un trattato del IV sec. d.C. erroneamente attribuito ad Apuleio, cfr. Raina 19942, p. 47.

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sono poi quelli degli uomini bramosi di guadagno, degli uomini duri, dei pusillanimi e addirittura dei dementi (cfr. Physiogn. 25). Ottimi sono considerati gli occhi glauci, umidi, calmi, grandi e lucidi (Physiogn. 24), ma, nonostante la bontà del tipo oftalmico, un uomo con tali occhi non può che essere eccessivamente focoso. E per di più se la luminosità diventa eccessiva (ed è unita alla glaucitas e alla sanguinolenza del globo oculare) vuol dire che ci si trova davanti ad un uomo temerario e folle (cfr. Physiogn. 35: «oculi autem corusci si quidem glauci sint et sanguinolenti, temeritatem indicant et prope insaniam»: «gli occhi scintillanti, infatti, se sono glauchi e sanguinolenti indicano mancanza di prudenza e quasi follia»). Non è un caso, del resto, che per i Romani gli occhi “glauchi” siano per eccellenza gli occhi di quegli uomini iracundi e temerari che sono i barbari del nord: i Germani, i Cimbri e i Teutoni, infatti – secondo le rappresentazioni canoniche create dal sapere “etnografico” dei Romani –, sono veloci nella corsa (un tratto questo che condividono con molte bestie feroci, fra le quali il manticora), sono bellicosi e per di più il clima rigido delle loro regioni ha disposto il loro corpo ad ogni tipo di fatica; ciononostante la loro iracundia fa sì che sia estremamente facile sconfiggerli in battaglia.194 Si capisce dunque come l’occhio “glauco” e umanoide del manticora potesse essere percepito (anche se – ovviamente – non è detto che lo fosse) non solo come un occhio perturbante e inquietante (di felino e di civetta), ma come la spia di un tipo particolare di ferocia. Una ferocia che poteva essere ora folle, ora vile, ora spudorata, e, nonostante la straordinaria somiglianza con l’occhio umano, pur sempre bestiale, se è vero che – secondo il contesto fisiognomico che è stato appena delineato – gli occhi “glauchi” dell’uomo sono i più bestiali e ferini di tutti gli occhi umani. 3.3 Il manticora, il cinabro, il sangue «ε[κ τε γα;ρ τω'ν κινηvσεων φυσιογνωµονου'σι, και; εjκ τω'ν σχηµαvτων,

και; εjκ τω'ν χρωµαvτων, και; εjκ τω'ν ηjθω'ν τω'ν εjπι; του' προσωvπου εjµφαινοµεvνων, και; εjκ τω'ν τριχωµαvτων, και; εjκ τη'ς λειοvτητος, και; εjκ τη'ς φωνη'ς, και; εjκ τη'ς σαρκοvς, και; εjκ τω'ν µερω'ν, και; εjκ του' τυvπου ο{λου του' σωvµατος». (Ps. Aristot. Physiogn. 806 a 28 sgg.)

194. Per la proverbiale iracundia dei Germani si veda ad es. Sen. De ira 1, 11, 1-4. Si veda anche Tacito, Germ. 4, 1: «truces et caerulei oculi, rutilae comae, magna corpora et tantum ad impetum valida» («gli occhi truci e di colore azzurro, le chiome di colore rossastro e i corpi di grandi dimensioni sono buoni soltanto per la furia e l’assalto»). Sul sapere etnografico dei Romani in genere cfr. Oniga 1995, pp. 3 sgg. e Id. 1998, pp. 93 sgg.

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«Si fa fisiognomica a partire dai movimenti, dalla postura, dal colore, dalla maniera di atteggiare il volto, dai capelli, dalla levigatezza della pelle, dalla voce, dalla conformazione della carne, dalle singole parti del corpo e, insomma, dall’immagine complessiva dello stesso».

Uno dei tanti elementi che sono considerati fondamentali per inferire le tipologie psicologiche è dunque il colore. In particolare, secondo la tradizione fisiognomica, il colore “rosso” del fuoco viene generalmente collegato al tipo del “µανικοvς” delineato in Ps. Aristot. Physiogn. 812 a 22 sgg.: «οι|ς δε; το; χρω'µα φλογοειδεvς, µανικοιv, ο{τι τα; κατα; το; σω'µα σφοvδρα

εjκθερµανθεvντα φλογοειδη' χροια;ν ι[σχει: οιJ δε; α[κρως θερµανθεvνθες µανικοι; α]ν ει[ ησαν».

«Gli occhi che hanno il colore della fiamma sono tipici dei folli, dal momento che ciò che nel corpo è eccessivamente riscaldato assume il colore della fiamma: quelli riscaldati al massimo grado sono folli».

Dal contesto si intuisce come il “colore della fiamma”, in questo passo, sia da vedere come una gradazione più forte dell’εjρυθροvς, colore che, a sua volta, sembra essere parimenti collegato con il calore interno del corpo e dunque con l’elemento del fuoco. Poco prima infatti, in Physiogn. 812 a 21 sg., si dice che: «οι|ς το; χρω'µα εjρυθροvν, οjξει'ς, ο{τι παvντα τα; κατα; το; σω'µα υJπο; κινηvσεως εjκ θερµαινοvµενα εjρυθραιvνεται». «gli occhi di colore rossastro sono invece vivaci, perché tutte le parti del corpo che vengono riscaldate dal movimento si arrossano».

Il “rosso” del manticora, però (diversamente da come accade, ad esempio, con il toro etiopico di cui parla Diodoro)195 non è il rosso del fuoco che riscalda il corpo dal suo interno; il materiale di riferimento è semmai, in tutte le descrizioni fatte dagli autori greci, il cinabro.196 La focosità e la ferocia iperbolica sembrano più che altro essere caratteristiche del toro carnivoro dell’Etiopia. Il mostro indiano, in questo senso, è un mostro ancora più ambiguo e sfuggente (anche se forse più sanguinario) come del resto sembra essere, per i Romani, la natura del cinabro, spesso scambiato erroneamente – dice Plinio il Vecchio (Nat. Hist. 33, 115-117) – con il minio: 195. In Diod. 3, 35, 7 il colore del corpo del toro etiopico è πυρροvς, comunemente tradotto con “rosso”, ma da intendere probabilmente (sulla base di Plat. Tim. 68 c 3) come il frutto della mescolanza fra “giallo” e “bruno”. 196. Sul cinabro come materiale raro e costoso cfr. Romano 1996, pp. 116 sg. e p. 123.

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«Milton vocant Graeci miniumque cinnabarim. Unde natus error inscitia nominum. Sic enim appellant illi saniem draconis elisi elephantorum morientium pondere permixto utriusque animalis sanguine, ut diximus, neque est alius colos, qui in pictura proprie sanguinem reddat. Illa cinnabaris antidotis medicamentisque utilissima est. At, Hercules, medici, quia cinnabarim vocant, utuntur hoc minio, quod venenum esse paulo mox docebimus. Cinnabari veteres quae etiam nunc vocant monochromata pingebant. Pinxerunt et Ephesio minio, quod derelictum est, quia curatio magni operis erat. Praeterea utrumque nimis acre existimabatur. Ideo transiere ad rubricam et sinopidem de quibus suis locis dicam. Cinnabaris adulteratur sanguine caprina aut sorvis tritis. Pretium sincerae nummi L». «I Greci chiamano l’ocra milto, mentre il minio lo chiamano cinabro. Da qui si è prodotta questa ignoranza nell’uso dei nomi. Così infatti gli Indiani chiamano la marcia di un serpente schiacciato dal peso degli elefanti che stanno per morire, quando il sangue di entrambi gli animali si mescola, come si è già detto. Non c’è altro colore che in pittura renda il sangue con maggiore fedeltà. Quel cinabro è utilissimo negli antidoti e nei medicamenti; ma, per Ercole, siccome lo chiamano cinabro, i medici usano il nostro minio, che – come faremo vedere tra poco – è un veleno. Con il cinabro gli antichi facevano le pitture che ancora adesso vengono chiamate “monochromata”. Hanno dipinto anche con il minio di Efeso, che è stato messo da parte perché la manutenzione delle pitture richiedeva molta fatica. Inoltre entrambi i colori erano considerati troppo vivaci. Per questo si è passati alla rubrica e alla sinopia, delle quali parlerò a suo luogo. Il cinabro viene falsificato con sangue di capra o con sorbe tritate. Il prezzo del cinabro è di 50 sesterzi».

Come si vede bene il passo meriterebbe di essere studiato a fondo. Per il momento, però, non posso che limitarmi ad osservare alcuni punti che ritengo pertinenti per la comprensione dell’animale oggetto del mio studio. Posto che la menzione del colore nel mondo antico implichi l’associazione con un oggetto di natura (o con una pratica), Plinio il Vecchio, nel segnalare la “confusione” con il minio non fa che – diciamo così – sostituire il materiale di riferimento. A lasciare spiazzato un lettore contemporaneo (che ha nozioni di chimica che Plinio non poteva avere) è però il fatto che anziché dire che il materiale in questione era il solfuro di mercurio, Plinio riferisce che il cinnabaris non è altro che «saniem draconis elisi elephantorum morientium pondere permixto utriusque animalis sanguine», e aggiunge ut diximus, riferendosi esplicitamente ad un argomento già trattato in precedenza. Da Nat. Hist. 8, 34 si era appreso infatti dei combattimenti fra elefanti e serpenti: 82

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«Elephantis frigidissimum esse sanguinem; ob id aestu torrente praecipue draconibus expeti. Quam ob rem in amnes mersos insidiari bibentibus intortosque inligata manu in aurem morsum defigere, quoniam is tantum locus defendi non possit manu. Dracones esse tantos, ut totum sanguinem capiant, itaque elephantos ab iis ebibi siccatosque concidere et dracones inebriatos opprimi conmorique». «Gli elefanti hanno il sangue oltre modo freddo; per questo motivo soprattutto quando il calore estivo diventa intollerabile vengono assaliti dai serpenti. Per questo i serpenti, stando immersi nei fiumi, insidiano gli elefanti mentre bevono e attorcigliandosi loro attorno fanno un nodo nella proboscide e tentano di morderli negli orecchi, perché soltanto in quel punto del corpo l’elefante non riesce a difendersi con la proboscide. I serpenti sono tanto grandi da riuscire a succhiare tutto il sangue degli avversari e così gli elefanti vengono da loro dissanguati e come disseccati cadono. I serpenti, d’altro canto, ebbri del sangue bevuto vengono schiacciati dagli elefanti e muoiono insieme a loro».

Il cinabro dunque, secondo la denominazione indiana riferita da Plinio in 35, 115, è anche il frutto della lotta senza quartiere fra due belve delle eschatiai: è il liquido purulento che fuoriesce dai serpenti schiacciati dai corpi degli elefanti moribondi ai quali è stata succhiata ogni linfa vitale; è un miscuglio di sangue “ibrido” di due mostri delle eschatiai. Non è un caso dunque che il cinabro renda benissimo, in pictura, proprio il colore del sangue. Si capisce bene a questo punto perché per l’enciclopedista romano il manticora sia “colore sanguineo”: dal momento che non si capisce bene cosa intendano i Greci (e quindi verosimilmente anche Ctesia) per cinnabaris, allora è meglio precisare: il manticora non è ruber (o φλογοειδηvς o εjρυθροvς) come il sangue caldo che scorre nelle vene di chi è vivo e focoso, ma vermiglio come lo è il sangue confuso e “freddo” della morte, come il sangue versato. In questo senso la precisazione di Plinio, nella descrizione del manto della bestia, aggiunge una fosca nota in più. 3.4 Eliano 4, 21: corpo di leone, pelo di cane Il manticora ha il corpo del leone; eppure il leone, assieme all’elefante, viene visto da Eliano come un suo animale antagonista: si dice in Nat. Anim. 4, 21 che il manticora non riuscirebbe mai ad avere la meglio su un leone. Vale a dire che, in altri termini, la bestia indiana, pur condividendo con il ben più noto felino alcuni tratti (artigli, corpo, occhi glauchi), evidentemente non può, secondo Eliano, uguagliarlo in “nobiltà”: il leone ha occhi, bocca e testa di granCapitolo 1. Prologo sul manticora

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dezza ben equilibrata, e il suo corpo è così ben saldo da potere riassumere in sé tutte le qualità “maschili” idealizzate dal sapere antropologico dei Greci.197 Lo stesso Eliano dimostra di aderire a questa visione : il leone è forte e potente ed ha artigli poderosi,198 e per di più dimostra di sapere rispettare gli uomini. In Africa addirittura il leone comprende la lingua degli Etiopi e frequenta abitualmente le loro case, fino al punto che le donne, quando sono stanche di averlo tra i piedi, lo richiamano alla sua “nobiltà” e lo invitano a non trascurare la caccia.199 I leoni, insomma, sono feroci, ma sanno ascoltare e sanno rispettare gli uomini che prestano loro soccorso200 e dimostrano per di più di provare un forte affetto per i genitori anziani oltre che per i propri cuccioli.201 Sono inoltre animali coraggiosi, infaticabili, forti, intelligenti, leali e perfino giocherelloni.202 Certo, divorano gli uomini di tanto in tanto, esattamente come fa il manticora, ma questo accade soltanto quando hanno molta fame: «λιµωvττων µε;ν ου\ν λεvων εjντυχει'ν χαλεποvς εjστι, κορεσθει;ς δε; πραοvτατος: φασι; δε; και; φιλοπαιvστην ει\ναι τηνικαvδη αυjτοvν». (Ael. Nat. Anim. 4, 34)

«È molto pericoloso imbattersi in un leone affamato. Il leone sazio è invece un animale molto pacifico. Dicono anzi che in questa circostanza questo animale ama giocare e scherzare con l’uomo».

Anche il leone è dunque un animale αjνθρωποφαvγ ον, eppure Eliano non si permette mai di usare questo aggettivo. L’antropofagia del leone, dunque, al contrario di quanto accade per il manticora non viene pertinentizzata: il leone infatti divora gli uomini soltanto per necessità. Il manticora invece «gode particolarmente a rimpinzarsi di carne umana» (4, 21: «κρεω'ν αjνθρωπει vων εjµπιπλαvµενον τοvδε το; ζω/'ον υJπερηvδεται»).203 È questa dunque la differenza principale fra le due belve: l’antropofagia del manticora è una sorta di piacere 197. Cfr. a questo proposito Sassi 1988, p. 56. Per i loci in cui si parla del tipo psicologico del leone cfr. Ps. Aristot. Physiogn. 809 b 14-35; 806 b 9 sg.; 810 b 5; 811 a 15; 20 sg., 33; 811 b 35. Una traccia di questa idealizzazione dell’animale sembra essere presente anche in Aristot. Hist. Anim. 1, 1, 488 b 17. 198. Cfr. Nat. Anim. 1, 31. 199. Cfr. Nat. Anim. 3, 1. Il passo è assai interessante e senza dubbio merita di essere approfondito il forte legame che sembra unire gli uomini dell’Etiopia ai leoni. 200. Cfr. Nat. Anim. 7, 48. 201. Cfr. Nat. Anim. 9, 1 e 30. 202. Cfr. Nat. Anim. 5, 39. 203. Si noti che una espressione simile è anche in Plinio Nat. Hist. 8, 75 (“humani corporis vel praecipue adpetentem”) e Solino 52, 37 (“humanas carnes avidissime adfectat”). A questo proposito cfr. pp. 69 sgg.

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perverso, laddove invece per il leone si tratta di una necessità estrema. Eliano, peraltro, a differenza di tutti gli altri “testimoni” sembra volere particolarmente insistere sulle analogie presenti fra il manticora e il cane: solo gli artigli sono del leone, per il resto, il mostro indiano è peloso come un cane ed ha i denti «των' κυνειω v ν µειζ v ους». Con questo paragone Eliano non fa altro che tradurre l’ignoto sulla base del noto: i denti del manticora sono più grandi di quelli del cane, ma in qualche modo, se si esclude che sono disposti su una triplice fila, sono simili ad essi. Il mostro indiano non è dunque un “leone perfetto”, dal momento che condivide alcuni tratti con un essere (il cane) che, in quello che era il sapere fisiognomico del tempo, era certamente considerato meno nobile. Eliano, certo, non dà affatto del cane un’immagine negativa: nel suo inventario di animali, infatti, i cani sono esseri che si astengono dal cibarsi della carne dei loro simili,204 sono nemici degli adulteri,205 sanno ben distinguere i Greci dai barbari,206 soccorrono gli ubriachi,207 ma sono, soprattutto, servitori fedelissimi dell’uomo.208 Ed è forse proprio questa la più grande differenza fra un leone e un cane:209 il cane ha tutte le virtù del buon servo,210 mentre il leone è un animale βασιλευςv e quando entra nelle case degli uomini etiopici entra quasi da padrone: «και; εjα;ν µε;ν παρη/' αjνηvρ, αjνειvργει το;ν λεvοντα και; αjναστεvλλει

διωvκων αjνα; κραvτος: εjα;ν δε; οJ µε;ν αjπη'/ µοvνη δε; ηJ γυνη; καταλειφθη;/, λοvγ οις αυj τ ο;ν εjντρεπτικοι 'ς ι [σ χει του' προvσ ω και ; ρJυθµι vζει, σωφρονιvζουσα εJαυτου' κρατει'ν και; µη; φλεγµαιvνειν υJπο; του' λιµου» ' . (Ael. Nat. Anim. 3, 1)

«Se l’uomo è presente, respinge il leone e lo scaccia con forza inseguendolo; se invece è assente e in casa è rimasta la moglie da sola, essa lo tiene a distanza avvalendosi di discorsi che possano farlo vergognare di ciò che fa e lo mette in riga, esortandolo a controllarsi e a non accalorarsi per la fame». 204. Cfr. Nat. Anim. 4, 40. 205. Cfr. Nat. Anim. 7, 25. 206. Cfr. Nat. Anim. 11, 5. 207. Cfr. Nat. Anim. 11, 20. 208. Cfr. a questo proposito Nat. Anim. 6, 25; 62; 7, 12; 13; 38; 40; 8, 2; 11, 3; 13. 209. Il leone viene spesso rappresentato come simile ai migliori dei cani e viceversa. Cfr. ad esempio Ps. Aristot. Physiogn. 810 b 5 sgg.; 811 a 21 sgg.; Anon. Lat. Physiogn. 51. Ael. Nat. Anim. 4, 34 dice inoltre che i cuccioli di leone appena nati sono ciechi come i cuccioli dei cani. 210. Non bisogna dimenticare che la parola “cane” in Omero viene usata come insulto: cfr. ad es. Il . 20, 449; 22, 345. A questo proposito cfr. C. Franco, Senza ritegno. Cani e donne nell’immaginario della Grecia antica, pubblicato di recente per i tipi de Il Mulino.

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Nella particolare “classificazione” che viene fuori da questi passi il leone è poco meno che il padrone di casa “maschio”. La donna infatti non può cacciarlo, come fa l’αjνηvρ, nel modo più violento possibile. E poi una donna non può che parlare con un “re” in maniera adeguata: deve persuaderlo λοvγ οις, con l’uso di parole. In questo senso privare il manticora del corpo del leone, significa, per certi versi, sminuire una sua presunta “nobiltà”. Con questo, ovviamente, non significa che il manticora sia semplicemente un servo (le analogie in fondo non diventano quasi mai identità), così come del resto il manticora non ha semplicemente gli occhi azzurri. 3.5 Veloce come un cervo, dalla coda di scorpione L’analogia può anche funzionare come sistema di misurazione.211 È ovvio che in una cultura in cui non esistono unità astratte per misurare – ad esempio – la velocità, non si può che ricorrere ad immagini concrete. Come si è già detto, non ci è dato sapere se Ctesia avesse mai visto veramente un manticora; a maggior ragione non è neanche certo che ne abbia mai visto uno correre. Eppure, se così fosse stato, di certo non avrebbe potuto “cronometrare” il tempo impiegato dal mostro indiano per percorrere un tratto di spazio stabilito. In altri termini, non sarebbe stato possibile sapere a quanti chilometri orari corresse, in media, un esemplare di manticora. Come avveniva anche per altri animali, era però possibile rendere “iconicamente” la velocità della belva ricorrendo a quella “unità di misura concreta” che era la similitudine con altri esseri esistenti in natura.212 Per le leggi dell’analogia, dunque, il manticora è veloce come un cervo. Bisogna però dire che questa non era l’unica maniera per rendere nota “iconicamente” la velocità della bestia. Ctesia, infatti, nel descrivere le caratteristiche del mostro indiano, avrebbe potuto menzionare, come secondo termine di paragone, la tigre, animale che Plinio dice tremendae velocitatis (cfr. Nat. Hist. 8, 66), o, ad 211. Cfr. a questo proposito Lloyd 1971, pp. 185 sgg. 212. La similitudine di “misurazione” della velocità viene espressa in forma negativa da Arriano, Ind. 15, 1: la tigre «τη;ν δε; ωjκ υvτητα και; αjλκη;ν οι{ ην ουjδενι; αλ [ λω/ εικ j ασ v αι» («per velocità e forza è simile a nessun altro animale»). Eliano inoltre in 4, 52, a proposito degli asini indiani unicorni dice che «ειjσι; δε; και; ω[κιστοι οι{δε ουj µοvνον τω'ν ο[νων, αjλλα; και; ι{ππων και; εjλαvφων» («Sono molto più veloci non solo degli asini, ma anche dei cavalli e dei cervi»). Si veda anche Ael. Nat. Anim. 17, 9 in cui la velocità dell’onocentauro viene misurata in rapporto a quella di tutti gli altri quadrupedi. Si dice infatti che, nonostante le sue zampe anteriori siano simili alle braccia umane, l’onocentauro «τω'ν λοιπω'ν τετραποvδων ουjχ ηJττα'ται τον ; δροµ v ον» («non è affatto inferiore agli altri animali in fatto di velocità»). Per questo passo cfr. pp. 269 e sgg.

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esempio, il cavallo che Diodoro usa come “unità di misura” nel caso del toro carnivoro dell’Etiopia (cfr. 3, 35, 7).213 Sorge a questo punto il sospetto che l’attivazione di una tale analogia non possa essere affatto neutra. Il ricorso alla metafora o al paragone, nel mondo antico, non è un vezzo letterario; sappiamo bene che quando Omero dice che Achille è un leone, ritiene veramente che Achille abbia alcune qualità del leone (anche se ovviamente non è alla lettera un leone).214 E dunque si deve sospettare che se Ctesia dice che il manticora corre veloce come un cervo, e non come una tigre, verosimilmente potrebbe voler significare che il manticora del cervo condivide, oltre alla velocità, altre caratteristiche. Ebbene, il cervo, nel sapere della fisiognomica antica, è un animale che solitamente viene opposto al leone.215 È pavido e lussurioso, cosa che, del resto, si può capire facilmente per il fatto che, diversamente dal leone,216 ha il pelo morbido, il collo lungo e sottile, la voce acuta, il naso camuso e la faccia carnosa.217 Il cervo possiede insomma tutti i tratti che un “maschio greco” non dovrebbe possedere.218 Per di più il cervo, oltre ad essere timidus e pavidus, è anche maligno. Sappiamo infatti dal IX libro della Historia Animalium (9, 5, 611 a 25 sgg.) che i cervi che perdono le corna le nascondono in luoghi inaccessibili per gli uomini, al fine di privarli delle virtù medicinali possedute dal corno sinistro.219 Alla stessa maniera, gli esemplari femmina, dopo aver partorito, mangiano la placenta che avvolge i loro piccoli, perché, dal momento che sembra che essa abbia virtù medicinali («δοκει' δε; του'τ∆ει\ναι φαvρµακον»: 9, 5, 611 b 25 sg.), vogliono impedire agli esseri umani di impadronirsene. È pertanto verosimile che la “unità di misura concreta” usata da Ctesia e da quasi tutte le versioni posteriori voglia allusivamente indicare la malignitas dell’animale di cui si parla. Il manticora del resto usa la sua coda di scorpione, animale infido per eccellenza, in due sensi; esso scaglia infatti i suoi dardi (cfr. FrGrHist 688 F. 45, 15: Phot. Bibl. 45b

213. Per il cavallo come paradigma di velocità cfr. anche, ad es., Od. 23, 244 sg.; Hdt. 3, 102, 3; D. Chr. 35, 24; Ael. Nat. Anim. 1, 28; 2, 10. 214. Cfr. a questo proposito Tamba-Mecz e Veyne 1979, spec. pp. 82 sgg.; Lloyd 1971, pp. 192 sgg. 215. Cfr. ad es. Phisiogn. 806 b 9 sg.; 807 a 20 e 811 a 15 sgg. 216. Oltre ai passi già citati sopra n. 215, cfr. anche Hom. Il. 11, 113 sgg. 217. Oltre ai passi citati sopra n. 215 e n. 216, cfr. anche 811 b 3 e 811 b 7. Il cervo viene inoltre descritto come “timidum, velox, iracundum, incautum” in Anon. Lat. Physiogn. 121. Cfr. anche Hom. Il. 13, 102 sg. dove si paragonano i Teucri a cerve pronte a fuggire. 218. Si ricordi che in Omero l’appellativo “cuore di cervo” viene inteso in senso ingiurioso. Cfr. Il. 1, 225. 219. A proposito delle virtù delle corna del cervo cfr. Plin. Nat. Hist. 28, 163; 166; 167; 178; 194; 196; 200; 202; 204; 205; 211; 227; 233; 241; 246; 252.

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31-46 a 12 Henry; Ael. Nat. Anim. 4, 21) sia in avanti sia indietro e da grande distanza.220 Quest’ultimo particolare dovrebbe spingerci a pensare che il manticora, talvolta, fugge, esattamente come fa il cervo, ovvero fermandosi e guardando indietro (cfr. Plin. Nat. Hist. 8, 113). Eliano, addirittura, dice esplicitamente che esso può anche essere inseguito e che «se qualcuno si mette a inseguirlo, il manticora gli scaglierebbe contro gli aculei laterali come se fossero frecce» (4, 21: «εjα;ν δεv τις αυjτο;ν διωvκη/, οJ δε; αjφιvησι τα; κεvντρα πλαvγ ια ωJς βεvλη»). In questo senso la bestia indiana sembra essere una sorta di essere “bipolare” in cui la distinzione gerarchica fra davanti e dietro viene annullata.221 Riesce a combattere “da uomo”, nella “parte nobile”, ma è un essere infido è maligno perché riesce a scagliare i suoi dardi anche da grande distanza e anche quando viene inseguito. Il tutto, presumibilmente, fermandosi e guardando indietro. In questo senso il riferimento che fa Eliano agli arcieri Saci è assai esplicito. I Saci sono una popolazione di Sciti; e gli Sciti, come si sa bene, sono doppiamente barbari. Sono i barbari dei Greci e i barbari dei Persiani; barbari la cui maniera di combattere è assolutamente “vile”, poiché anziché affrontare i nemici comminus fingono di fuggire e poi scagliano le loro frecce girandosi indietro.222 Il manticora è dunque un “arciere” («και; ε[στι το; ζω'/ον εJκηβοvλον»: Ael. Nat. Anim. 4, 21), ma non come possono esserlo i cacciatori della Grecia: esso è infatti un animale che, come i Saci, uccide scappando.223 3.6 Il verso del manticora Nessun documentario ha mai registrato il suono della voce di un manticora. Nello schermo del televisore noi vediamo tutto, anche i suoni, i versi, i fruscii e lo schioccare dei rami delle foreste indiane 220. Per lo scorpione come animale infido cfr. ad es. Plat. Euth. 290 a 2. 221. Cfr. a questo proposito Lloyd 1993, p. 72 sgg.: Aristotele considera “destra”, “sopra” e “davanti” come archai. Essi sono cioè i punti di partenza o principi, non solo delle tre dimensioni, rispettivamente larghezza, lunghezza e profondità, ma anche, negli esseri viventi, dei tre tipi di cambiamento: moto locale, accrescimento e sensazione (Cael. 2, 2, 284 b 25 sgg.). Aggiunge inoltre nel De incessu animalium ( Inc. Anim. 5, 706 b 1 sgg.) che le archai sono più degne d’onore rispetto ai loro opposti. A tale proposito cfr. anche Part. Anim. 3, 3, 665 a 22 sgg. (a questo proposito cfr. pp. 153 sgg.). 222. Per i Saci cfr. ad es. Hdt. 1, 153, 4; 3, 93, 3; 7, 64, 2; Xen. Cyrop. 1, 1, 4 sgg.; 5, 2, 25 sgg.; etc. Si noti anche che Aristotele (Hist. Anim. 8, 29, 607 a 15 sgg.) riferisce la notizia secondo la quale esisterebbero proprio in Scizia scorpioni giganti il cui morso sarebbe in grado di uccidere sull’istante sia gli uomini che tutti gli altri animali; una caratteristica, questa, analoga a quella della coda del manticora. 223. Nel descrivere la fuga del cervo Plinio (Nat. Hist. 8, 113) dice chiaramente che questo animale ha l’abitudine di fermarsi e di respicere. Per l’addestramento dei cerbiatti all’arte della fuga da parte delle madri cfr. Plin. ibid.

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dove regnano le tigri. Viene dunque difficile pensare analogicamente ai versi degli animali: poiché vediamo gli animali vivi catturati dalle pellicole o dai supporti digitali, sappiamo benissimo che il ruggire della tigre è il ruggire della tigre e che il barrito dell’elefante è il barrito dell’elefante e non il suono di una tromba. L’animale vivo si materializza davanti ai nostri occhi in una sorta di enciclopedia audio-visiva e non lascia spazio alcuno alla nostra immaginazione. I documentari televisivi, ovviamente, a meno che non avesse ragione Pausania nell’identificare la bestia indiana con la tigre, non hanno mai filmato un manticora, né mai i nostri occhi sono stati stregati dallo sguardo glauco della bestia che girava nervosamente su se stessa dall’altra parte delle solide sbarre di ferro dei giardini zoologici. In questo senso il nostro sapere sull’animale è esattamente identico a quello dei lettori di Ctesia; il nostro manticora è, in definitiva, molto simile alle tigri di carta che hanno popolato i sogni di Borges. È certo forte la tentazione di pensare al suono della tromba e della zampogna come a un tratto “fantastico” e libresco, come se fosse un corrispettivo sonoro, inventato ad arte dalla penna di uno scrittore visionario, del bricolage delle parti che formano il corpo della belva. L’intersezione dei volumi degli animali più disparati, in un certo senso, avrebbe, ai nostri occhi di “consumatori” di documentari televisivi, il suo corrispettivo nella intersezione dei suoni: la salpinx e la syrinx insieme costituiscono un suono “ibrido”, così come ibrido sembra essere l’animale che lo produce. Si deve però immaginare, in una cultura che non può conoscere i documentari, che sia quanto mai normale descrivere animali “sconosciuti” o comunque esotici facendo ricorso a similitudini e analogie che siano in grado di sostituire l’akoé e la percezione diretta.224 L’analogia rappresenta l’invisibile così come il non udibile. Ecco dunque che, a meno che lo storico (o l’interprete in genere) che racconta non si esprima a gesti, salti, latrati e chiurli di animali, come faceva il Marco Polo di Italo Calvino con il Gran Kan,225 il verso di una data bestia non potrà che essere rappresentato come simile a quello di un altro animale noto o di strumenti musicali abitualmente usati. In altri termini, il manticora, animale sconosciuto ai Greci prima che Ctesia ne parlasse, non può ruggire (o sibilare) come un manticora, ma deve fare un suono che deve essere per forza ricondotto al noto: ecco quindi che esso sibila e crepita come potrebbe fare un concerto di zampogne e di trombe che emettono all’unisono la loro phoné. 224. A questo proposito cfr. Hartog 1992, pp. 222 sgg. 225. Cfr. Calvino 1972, p. 29.

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In questo senso si deve immaginare che il verso del mostro indiano non dovesse poi essere molto dissimile dal barrito dell’elefante, barrito che Aristotele dice somigliare al suono della tromba: «οJ δ∆εjλεvφας φωνει' α[νευ µε;ν του' µυκτη'ρος αυjτω'/ τω'/ στοvµατι

πνευµατω'δες ω{σπερ ο{ταν α[νθρωπος εjκπνεv η/ και; αιjαvζη/, µετα; δε; του' µυκτη'ρος ο{µοιον σαvλπιγγι τετραχυσµεvνη» / . (Aristot. Hist. Anim. 4, 9, 536 b 20 sgg.)

«L’elefante può produrre il suono della voce anche senza usare la proboscide. In questo caso dalla bocca viene fuori una specie di soffio come quando l’uomo espira e respira rumorosamente. Quando il suono invece viene emesso per mezzo della proboscide, il suo verso è simile al suono rauco di una tromba».

Anche l’elefante è un animale indiano, esattamente come il manticora. Molto di più: l’elefante è l’animale indiano antagonista del manticora: è l’unico essere che i dardi scagliati dalla coda della belva funesta non riescono ad abbattere. Ai nostri occhi tutto questo non può che sembrare ironico e perfino “divertente”: non si può non immaginare un manticora che, nella penombra di una foresta indiana, magari dipinta da Rousseau, scambia il barrito di un elefante per il richiamo amoroso di un suo simile. Il manticora decide di seguire il segnale e si inoltra con passo di cervo per i lussureggianti sentieri delle foglie e delle felci fitte, fino a quando non si trova davanti ad un essere gigantesco che non può né uccidere né amare. Il manticora scopre che il mostro è invulnerabile e che i missili della sua coda rimbalzano sulla pelle coriacea dell’animale per poi toccare terra e riprodursi. Nei suoi occhi umani si legge ora lo sgomento: nel respingere i dardi l’elefante barrisce con la sua stessa voce. L’elefante ha una voce di tromba. L’elefante, per certi versi, ha la voce di manticora. A venire associato al suono della tromba è però anche un essere divino: Atena, la dea della metis guerriera che – come si è già visto nelle pagine precedenti – urla con voce di bronzo per atterrire i suoi nemici:226 «ε[νθα στα;ς η[υ>σ∆, αjπαvτερθε δε; Παλλα;ς ∆Αθηvνη φθεvγ ξατ∆: αjτα;ρ Τρωvεσσιν εjν α[σπετον ω\ρσε κυδοιµοvν. ωJς δ∆ ο{τ∆ αjριζηvλη φωνηv, ο{τε τ∆ ι[αχε σαvλπιγξ α[στυ περιπλοµεvνων δηι?ων υ{πο θυµοραι>στεvων, ω}ς τοvτ∆αjριζηvλη φωνη; γεvνετ∆Αιjακιvδαο». (Hom. Il. 18, 217-221)

226. Per l’urlo di bronzo di Atena cfr. Detienne e Vernant 19993, pp. 134 sgg.

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«Ritto, di lì lanciò un urlo, mentre da lontano Pallade Atena gridava: causò fra i Troiani un indicibile scompiglio. Come giunge distinto il suono, quando la tromba produce il suo [clamore, quando la città viene assediata dai nemici senza pietà, così allora ben distinta fu emessa la voce dell’Eacide».

Nella musica antica la tromba non gioca alcun ruolo particolare,227 essa è infatti lo strumento di guerra per eccellenza: il suo suono non è articolato e melodioso ma fractus e terribilis.228 Il suono della tromba è un segnale di guerra229 che terrorizza i nemici e dà forza e animus al guerriero per affrontare lo scompiglio della pugna. Non è un caso forse che “Salpinx” sia uno dei tanti soprannomi della dea.230 Atena urla in battaglia e produce un clangore terribile simile a quello delle trombe di bronzo. Piace a questo punto pensare all’infida natura del manticora come a qualcosa di molto simile, per certi versi, al comportamento magico dell’eroe arcaico (che sembra riprodotto anche nel modus agendi della stessa Atena): l’occhio azzurro e le urla spaventose e fragorose della tromba bloccano e affascinano la preda che non potrà sfuggire alla triplice fila di denti che la divorerà.231 Ma se Atena è la divinità della prudenza e della saggezza, il manticora è soprattutto un essere feroce, seppur di una ferocia “vile” e ambigua. Il manticora ha voce di tromba, ma anche voce sibilante di syrinx. La sua voce è dunque qualcosa in più (o in meno) rispetto alla voce di Atena. Se la salpinx infatti atterrisce, non così è per la syrinx. Questo strumento – che i latini chiamavano fistula – come la tromba può 227. Cfr. Maux 1920, cc. 2009 sgg. 228. Cfr. Verg. Georg. 4, 72; Aen. 8, 526; Stat. Theb. 3, 650 sg.; Sil . It. 2, 19; Lucan. 1, 431 sg. 229. Per la salpinx o tuba come “segnale” di guerra cfr. anche Aeschl. Sept. 394 sg.; Tac. Hist. 2, 29, 3; Caes. B. Civ. 3, 46; Lucan. 7, 475-479; Claud. Rapt. Pros. 1, 65. Per la tromba come segnale in genere cfr. Aristoph. Ran. 1042; Thuc. 6, 32, 1; Xen. Anab. 4, 2, 1; 7, 3, 32. 230. Cfr. Paus. 2, 21, 3: «∆Αθηνα'ς δε; ιJδρυvσασθαι Σαvλπιγγος ιJεροvν φασιν Ηγε J v λ εων. Τυρσηνου ' δε ; του' τ ον < το; ν > Ô Ηγε v λ εων, το; ν δε ; Ηρακλε J v ο υς ει \ ν αι και ;

γυναικο;ς λεvγ ουσι τη'ς Λυδη'ς, Τυρσηνο;ν δε; σαvλπιγγα ευJρει'ν πρω'τον, Ηγε J vλεων δε; το;ν Τυρσηνου' διδαvξαι του;ς συ;ν Τηµεvνω/ ∆ωριεvας του' οjργαvνου το;ν ψοvφον και; δι∆ αυjτο; ∆Αθηνα'ν εjπονοµαvσαι Σαvλπιγγα» («Si racconta che il santuario di Atena

Salpinx sia stato fondato da Egeleo. Si dice inoltre che questo Egeleo fosse figlio di Tirseno, e che Tirseno, a sua volta, fosse figlio di Eracle e della donna lida. Questo Tirseno – a quanto raccontano – avrebbe inventato la tromba, e il figlio Egeleo avrebbe insegnato ai Dori di Temeno il suono di questo strumento: per questo Atena avrebbe tratto il soprannome di Salpinx»). Sappiamo inoltre dell’abitudine comune di offrire trombe in onore di Atena (cfr. Anthol. Gr. 6, 46, 3; 151, 1 sgg.; 159, 1 sgg.). 231. Sull’associazione fra l’occhio “glauco” e la voce di tromba cfr. Detienne e Vernant 19993, p. 137.

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essere usata come segnale. Sappiamo ad esempio della fistula contionaria di cui parla Cicerone in De orat. 3, 225 o della eburnea fistula suonata da un servo per formare le pronuntiationes di Gracco (cfr. Val. Max. 8, 10, 1).232 Ma soprattutto la fistula-syrinx è lo strumento pastorale per eccellenza, l’organon che suonano i pastori, ma soprattutto i sileni e i satiri.233 La fistula è dunque – così si può immaginare – lo strumento di chi vive ai margini dello spazio civico e della civiltà, di esseri ferini (i pastori e i sileni) che non possono non ritenersi in qualche modo analoghi al manticora, animale delle eschatiai con il viso di uomo.234 Ma c’è anche qualcosa di più. La fistula non era soltanto un oggetto che usavano gli esseri semiferini (o comunque gli uomini non pienamente civilizzati, come erano considerati i pastori). Essa era infatti anche uno strumento che esercitava una certa forza magica sui cervi che, a detta di Plinio (Nat. Hist. 8, 114), «mulcentur fistula pastorali et cantu».235 Se dunque il suono della tromba è finalizzato unicamente ad atterrire per mezzo del fragore che crea, la voce della syrinx può essere una voce suadente e incantevole nel senso etimologico del termine. Si potrebbe dunque supporre che sia questo il motivo per cui Plinio – forse anche sulla scorta di Giuba – abbia catalogato il manticora insieme alla corocotta e gli abbia attribuito la medesima capacità di imitare la voce umana.236 Come infatti la corocotta impara 232. Cfr. anche Quint. Inst.1, 10, 27. 233. Cfr. Cic. Att. 1, 16, 11; Verg. Ecl. 3, 25; 7, 24; Hor. Carm. 1, 17, 10; Prop. 4, 4, 6; Tibull. 2, 5, 30; Plut. Quaest. Conv. 713 B 1 sgg.; Il. 18, 525 sg. Per l’uso dello strumento da parte dei Satiri cfr. ad es. Diod. 3, 58, 2; 3. 234. I Satiri, peraltro, già a partire dalla Naturalis Historia di Plinio, cessano di essere animali del passato mitico e vengono rappresentati come “animali delle eschatiai” che vivono sulla cima del monte Atlante. Per gli avvistamenti dei Satiri cfr. Mayor 2000, p. 236 sgg. (spec. n. 8 p. 326). Si ricordi inoltre che il genere di vita della pastorizia viene marcato negativamente come indice di uno stadio arretrato della civilizzazione. A tale proposito cfr. Oniga 1995, pp. 34 sgg. 235. Aristot. Hist. Anim. 9, 5, 611 b 26 sgg.; Plut. Soll. Anim. 961 E 1 sgg. 236. Per l’attribuzione del tratto della voce umana al manticora cfr. più specificamente pp. 232 sgg. Per la corocotta in Eliano cfr. Nat. Anim. 7, 22: v ν δε; κοροκοvττα, ην } ηκ [ ουσα και; αυjτην v , εο [ ικα λεξ v ειν νυν ' . ες j τους ; δρυµου;ς «πανουργια

εJαυτο;ν εjγ κρυvψας ει\τα µεvντοι τω'ν υJλουργουvντων αjκουvει καλουvντων αjλληvλους εjξ οjνοvµατος και; µεvντοι ; λαλουvντων α[ττα. ει\τα µεvντοι µιµει'ται τα;ς φωναvς, και; φθεvγ γεται, ειj και; µυθω'δες το; ειjρηµεvνον, αjνθρωπιvνη/ γου'ν φωνη,'/ και; καλει' το; ο[νοµα ο{ ηκ [ ουσε. και; οJ κληθεις ; προσ v εισιν, οJ δε; αν j αχωρει' και; παλ v ιν καλει: ' οJ δε; και; µαλ ' λον κατα; τη;ν φωνη;ν ε[ρχεται. ο{ταν δε; αυjτο;ν τω'ν συµπονουvντων αjπαγαvγ η/ και; ε[ρηµον αjποφηvνη/, συλλαβω;ν αjπεvκτεινε και; ποιει'ται τροφη;ν το; εjντευ'θεν φωνη'/ δελεαvσας»

(«È bene adesso che io vi parli di ciò che ho sentito dire a proposito della malizia della corocotta. Essa si nasconde nei boschi e ascolta le voci dei taglialegna che si chiamano l’un l’altro per nome o che pronunciano parole a caso; dopo, a sua volta – anche se questa notizia può sembrare favolosa – si mette a chiamare il nome che ha sentito pronunciare. Chi è stato chiamato le si avvicina; la corocotta quin-

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i nomi delle sue vittime e le attrae chiamandole per isolarle e quindi divorarle, allo stesso modo il manticora alletta le sue prede con il suono melodioso della fistula. Una possibile analogia delle modalità di adescamento delle vittime avrebbe così potuto portare l’enciclopedista romano (o la sua fonte) ad attribuire ad un essere i tratti pertinenti dell’altro. Fatto sta che, al di là della variazione pliniana, il manticora, oltre che incantare i malcapitati, li rintrona e li intontisce con il suono fragoroso della salpinx. Ecco dunque che possiamo immaginare il verso del mostro come un suono caratterizzato da due attributi apparentemente in contrasto fra loro: la melodia suadente del flauto di Pan ed il fragore terrificante della tromba. 3.7 Ricomporre i pezzi: un’ulteriore versione del manticora Quello che viene fuori, dal confronto con gli animali analoghi e dall’analisi del “sapere fisiognomico” relativo ad alcuni tratti, è l’immagine di un essere feroce e sanguinario e tuttavia infido. Il manticora non ha la “nobiltà” e il coraggio del leone né, ovviamente, può essere fedele come un cane. Ipnotizza la preda con il suo sguardo e con la sua voce e nello stesso tempo la terrorizza con il suono della tromba. Ciononostante, se in pericolo, fugge guardandosi indietro come fanno i cervi e saettando a tradimento come i Saci. Questo potrebbe essere il profilo psicologico del manticora. La ricostruzione di questo modello psicologico appena delineato, però, – è bene ripeterlo – è meramente artificiale. Quella che ho costruito (ho finto), a partire dai testi antichi, in quest’ultimo paragrafo, infatti, non è altro che una versione (la mia) del manticora alla quale sono arrivato “allargando” ed “amplificando” il contesto dei saperi ad esso relativi. Questa versione, ovviamente, non è che un oggetto astratto del quale non si ha notizia alcuna né nel mondo greco né nel mondo romano (ove non risulta, ad esempio, che siano esistite riflessioni sulla psicologia del manticora) e tuttavia può servire ad esporre alcune ipotesi su alcune possibili percezioni della belva o, per dirla in termini sperberiani, su alcune possibili versioni mentali di essa (che avrebbero pure potuto “abitare” nella mente di uno solo dei Greci o dei Romani). di indietreggia e comincia di nuovo a chiamarlo. Il taglialegna si avvicina ancora di più a quella voce e proprio quando la bestia lo ha portato lontano dai compagni di lavoro e lo ha isolato, lo uccide e lo divora dopo averlo adescato con la voce»). In Nat. Hist. 8, 106 sgg. Plinio riprende la medesima notizia e nel paragrafo successivo (8, 107) raggruppa il manticora assieme alla corocotta sulla base della comune capacità di imitare la voce umana.

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Ebbene, dopo avere parlato del manticora in astratto, è forse opportuno adesso cominciare ad avere a che fare con i singoli “esemplari” delle sue versioni e prendere cioè in esame i testi (e i contesti) nei quali volta per volta la belva compare. Questo sarà quello che farò nei prossimi capitoli.

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CAPITOLO 2

Ipotesi sul manticora. Aristotele e gli animali “paradossali”

«Fu anche detto: / “Noi viviamo su un mostro”. / Ecco un motto che tutti / potremmo far nostro. / (La Bestia che bracchiamo / è il luogo dove ci troviamo)». (G. Caproni, Riflessione)

0.

Investigazioni fantasiose

0.1 C’è un manticora a palazzo? (ricostruzione ipotetica di una giornata alla corte del Gran Re) Si dice che Ctesia non abbia mai raccontato gli eventi che verranno narrati a partire da questa pagina. È verosimile che quel giorno sia stato il terrore a bloccare le sue dita e a intorpidire la sua mente agile. Altre volte, nelle notti nelle quali gli era parso impossibile che la terra fosse altro che giardini, architetture e forme di splendore, il medico greco aveva osato confondere il reale con il sognato. Più volte, osservando le enigmatiche processioni delle mura che segnavano il perimetro della sua aurea prigionia, il reale gli era anzi apparso come una delle infinite configurazioni dell’incubo. Era proprio in momenti come quelli che il desiderio di Cnido lo assaliva. Rivedeva le case e l’agorà e rivedeva gli uomini e i loro commerci: realtà che neanche il suo calamo, in quei momenti, avrebbe potuto ricreare. Dai margini del mondo, dai luoghi in cui gli uomini non sono più uomini e gli animali ricordano, nelle forme, il caos degli esseri mostruosi dei rilievi in cotto smaltato della porta di Ishtar, era giunto un messo. Diceva di essere indiano, l’ultimo sopravvissuto di un gruppo di sei uomini. Il compito dell’ambasceria era quello di por95

tare un saluto al Gran Re, al re di tutti i barbari che teneva Ctesia come il suo prediletto prigioniero. Si era perso lo scitale che avrebbe dovuto recitare, nella lingua dei pappagalli policromi, il “salve”; era finito nelle fauci mortifere di un animale che gli inferi avevano sputato sulla terra. Assieme al messaggio, gli altri cinque uomini erano stati divorati dalla bestia. Il manticora aveva attraversato i confini del mondo sconosciuto e, sulle tracce dei legati indiani, si era spinto quasi fino a corte. Da qualche parte là fuori c’era un essere in agguato, che non il pennello di un cinese aveva dipinto, non un’immagine policroma di un’enciclopedia aveva partorito. Ctesia aveva scritto, a suo modo, dei Cinocefali, degli Sciapodi, e forse anche degli uomini-toro, delle sfingi e dei tori alati, ma fino ad allora nessun persiano e nessun greco aveva mai visto un manticora. Forse qualcuno, il cui nome non era Iarca, aveva già detto all’ospite greco che il manticora era una belva che viveva in India, il cui muso aveva le sembianze di un volto umano e i cui denti erano disposti su una triplice fila per ogni mascella. Non è neanche escluso che il messo, sopravvissuto allo scempio, avesse fornito al Gran Re e al medico greco informazioni non dissimili da quelle che Fozio ci ha trasmesso.1 Il resoconto dell’Indiano doveva solo essere un po’ più confuso e, con ogni probabilità, le sue parole dovevano essere storpiate dall’affanno e dalla concitazione della fuga. Non si deve neanche escludere che di tanto in tanto l’attenzione degli ascoltatori potesse essere deviata dalle ferite profonde che gli artigli della belva, ormai sazia di strage, dovevano aver lasciato nel corpo dell’uomo indiano e dagli squarci nelle vesti di seta che lo ricoprivano. È possibile che non tutto abbiano colto Ctesia e il Gran Re; e tuttavia è da escludere che non si siano resi conto della pericolosità dell’animale. D’altronde le parole dell’indiano non potevano che essere superflue: il terrore dipinto sul suo volto era più eloquente di ogni altra cosa. Per quanto il resoconto del messo fosse stato confuso, dunque, Ctesia e il Gran Re dovevano avere compreso la gravità della situazione ed è certo che, se si fossero trovati di fronte all’essere chiamato “µαρτιχοvρας”, lo avrebbero senz’altro riconosciuto (e sarebbero ovviamente scappati a gambe levate). In altri termini, Ctesia e il Gran Re, attraverso la descrizione, pur confusa, dell’indiano, hanno acquisito quello che potremmo chiamare il tipo cognitivo dell’animale.2 Il manticora, a differenza dell’ircocervo di Aristotele, non è solo un nome ma è anche un fascio di tratti morfologici ed iconici.3 Il 1. Cfr. pp. 19 sg. 2. Cfr. Eco 1997, pp. 109 sgg. 3. Per l’ircocervo cfr. n. 18, p. 22.

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paragone con il leone inoltre rende l’idea delle caratteristiche motorie dell’animale e, in un certo senso, descrive “visivamente” il suo modo di correre. Inoltre non c’è dubbio che del manticora, nonostante il suo viso “umano”, fosse stato immediatamente colto il tratto della “animalità”. Il correre “come un leone” o “come un cervo”, infatti, nega implicitamente una possibile andatura eretta della belva. Siamo portati a dubitare che Ctesia avesse mai visto un manticora vivo, ma il “vedere” dell’indiano, in un certo senso, può benissimo essere una sorta di atto sostitutivo. Ctesia e il Gran Re non hanno una percezione immediata del manticora, eppure lo “vedono”. In una maniera confusa e vicaria lo vedono. Partono da una opsis che fornisce in qualche modo una regola, un procedimento per “costruire” la sua immagine.4 Il tipo cognitivo del manticora, stando al racconto di queste pagine, è dunque il frutto, per Ctesia e per il Gran Re, della tremenda esperienza del messo indiano e del fatto che, per motivi – diciamo – di “ordine pubblico”, l’indiano in questione abbia deciso di comunicarla e di renderla, appunto, “pubblica”. Per il resto, non si sa con certezza se in seguito Ctesia abbia effettivamente visto un esemplare di manticora a palazzo, come dice Eliano (4, 21); è però possibile dire che c’erano molte cose che il medico greco non sapeva su questo animale e che probabilmente non avrebbe mai saputo neanche se l’avesse visto veramente. Ctesia non sapeva, ad esempio, se il pelo del manticora fosse rivolto al contrario, o se gli occhi dell’animale lampeggiassero nella notte, come quelli dei felini (anche se – si presuppone – poteva immaginarlo). Non sapeva inoltre come e se il manticora si accoppiava o se invece ne esisteva un solo esemplare, destinato a rinascere dalle sue stesse ceneri al termine di ogni anno cosmico. Se poi avesse appreso – come pare che di fatto avvenne – che esistevano cuccioli di manticora, gli sarebbe stato impossibile determinare il periodo di gestazione del feto nel ventre degli esemplari femmina. Né avrebbe potuto escludere che il manticora fosse il frutto di precedenti metamorfosi di altri animali.5 A questo proposito, c’era addirittura chi, tra i servitori del Gran Re, aveva cominciato a sospettare che il manticora fosse già arrivato 4. Il lettore più accorto avrà notato che nel racconto fittizio che apre questo capitolo si celano, oltre che l’allusione a due racconti borgesiani, alcune citazioni tratte da Eco 1997, pp. 107 sgg. 5. Per le notizie relative alle metamorfosi animali nella Historia Animalium cfr. ad es. 6, 7, 563 b 14 sgg.; 9, 51, 632 b 14 sgg. Sulle metamorfosi uomo-animale nel mondo greco cfr. Lanata 2000, pp. 9 sgg. (la quale a sua volta rimanda a Forbes Irving 1990, passim).

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a corte. Lo straniero che avrebbe dovuto consegnare al re il messaggio di saluto, dopo avere ripreso le forze, avrebbe cominciato a camminare a quattro zampe. Sempre più veloce. Fin quando dalle sue mascelle si sarebbe intravisto lo scintillio di infiniti denti aguzzi disposti su tre file ed una strana protuberanza, simile all’aculeo di uno scorpione, avrebbe squarciato le linde vesti che il re gli avrebbe dato in dono. L’indiano, trasformatosi in manticora, avrebbe divorato tutti. Come potesse circolare una tale diceria lo possiamo spiegare in qualche modo a partire dal racconto di invenzione di Umberto Eco (1997, pp. 109 sgg.), che ricostruisce la scoperta del “cavallo” fatta dagli Aztechi prima della distruzione della loro civiltà. Ebbene, mano a mano che presso il popolo di Montezuma aumentavano gli avvistamenti di quello strano essere che aveva lunghi capelli sul collo, la gente cominciava ad interpretare sempre più tratti del tipo cognitivo dell’animale che tutti avevano cominciato a chiamare “kawayo”. Avevano insomma cominciato a costruire un “contenuto nucleare” che circoscriveva il tipo cognitivo dello strano mammifero introdotto dagli Spagnoli: «insomma, gli Aztechi hanno a poco a poco interpretato i tratti del loro tipo cognitivo, per omologarlo il più possibile. Se il loro (o i loro) [sic] tipi cognitivi potevano essere privati, queste interpretazioni erano pubbliche».6 Alla corte degli Achemenidi, invece, non fu possibile arrivare ad una tale omologazione: ogni contenuto nucleare era l’immagine di un tipo cognitivo privato. Cominciarono a circolare le notizie più strane sul manticora. Alcuni arrivarono perfino a sospettare che il racconto del messo fosse un messaggio cifrato il cui unico fine era quello di mettere in guardia il Gran Re: «stia attento, o Signore di tutti quelli che i Greci chiamano “barbari”: lei nutre un manticora in seno: è Ctesia l’uomo che un giorno la divorerà, trasformandola in una finzione etnografica e riducendola in un ridicolo carattere del ridicolo alfabeto dei ridicoli Greci!». Altri pensarono addirittura che il manticora fosse il re in persona. La paura spasmodica e la luttuosa eccitazione che aveva preso tutti a palazzo, aveva impedito, nei giorni successivi, che la serie degli interpretanti fosse controllabile.7 A questo punto non era più chiaro, per i Persiani, cosa fosse un manticora: si sarebbe potuto trattare di un uomo, come di una tigre, di un cervo, di un leone, di uno scorpione, di un Lamassu, di un Gulo Filfros o perfino di un ircocervo.8 6. Cfr. Eco 1997, p. 115. 7. Cfr. Eco 1997, pp. 114 sgg. 8. Per il Lamassu e l’ircocervo cfr. rispettivamente pp. 59 sg. e n. 18, p. 22. Il Gulo Filfros è invece un animale menzionato da Olao Magno (1490-1557), arcivescovo di Upsalla, nella sua Historia de gentibus septentrionalibus (su questo animale cfr. Maranini 1994, pp. 4 sgg. e Ead. 1995, pp. 2 sgg.).

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Se le cose fossero andate veramente così, qualora Ctesia avesse effettivamente visto un manticora, probabilmente non l’avrebbe neanche riconosciuto. Ctesia, in altri termini, non avrebbe condotto al successo una esperienza percettiva a venire né, di conseguenza, avrebbe potuto acquisire una conoscenza complessa dell’essere in questione, relativa cioè a questioni “non indispensabili al riconoscimento percettivo”9 quali quelle che sono state sopra indicate (periodo di gestazione, filiazione, procacciamento del cibo per i cuccioli, etc.). In altri termini, Ctesia non sarebbe mai riuscito ad aggiungere, al suo tipo cognitivo privato del manticora, quello che Eco 1997 (p. 119) chiama un “contenuto molare”.10 Se veramente le cose fossero andate così, è facile immaginare che a questo punto della storia il medico greco, preso dalla paura e dalla confusione cognitiva scatenata dall’anarchia degli interpretanti, non sapendo cos’altro fare, avrebbe deciso di scrivere nei suoi Indikà parole molto simili a quelle che ci ha riportato Fozio: «Presso gli Indiani si trova un animale chiamato manticora che ha il volto simile a quello degli uomini. Questa bestia è grande quanto un leone, ha il colore della pelle di un rosso simile a quello del cinabro e i denti disposti su tre file, le orecchie di un uomo e gli occhi glauchi simili a quelli di un uomo. La sua coda assomiglia a quella di uno scorpione di terra, misura più di un cubito ed è munita di un pungiglione. Nella coda, lateralmente, sono disposti, qua e là, altri pungiglioni, oltre a quello che, come nella coda dello scorpione, si trova sulla punta. È con questo pungiglione che il manticora colpisce chi gli si avvicina e chiunque venga da esso ferito trova una morte sicura. Se invece qualcuno lotta con il manticora a distanza, esso, sollevando la coda, si mette a saettare i suoi dardi, come da un arco, contro l’avversario che gli sta di fronte, oppure, voltandosi, cerca di colpirlo da dietro tendendo la sua coda in linea retta. Il manticora riesce a scagliare i suoi dardi fino a un pletro di distanza e qualsiasi essere vivente venga da essi colpito (ad eccezione dell’elefante) trova una morte certa. I suoi pungiglioni misurano un piede e sono spessi quanto un giunco sottilissimo. Il termine “µαρτιχορ v ας” significa in greco “antropofago”, proprio per il fatto che questa bestia si nutre per lo più di uomini, oltre che di altri animali. Riesce a combattere anche con le unghie (oltre che con i pungiglioni). I suoi pungiglioni – così dice Ctesia – dopo che sono stati lanciati crescono di nuovo (molti infatti è possibile trovarne in 9. Cfr. Eco 1997, pp. 119 sgg. 10. Riguardo al contenuto molare del cavallo, Eco 1997, p. 119 dà le seguenti spiegazioni: «Non lo identificherei con una conoscenza esprimibile esclusivamente in forma proposizionale, perché potrebbe comprendere immagini di cavalli di varie razze o di diverse età. Uno zoologo possiede di cavallo un CM, e un CM ne possiede esattamente un fantino, anche se le due aree di competenza non sono coestensive. […] Diciamo che la somma dei CM si identifica con l’Enciclopedia come idea regolativa e postulato semiotico». A tale proposito cfr. anche Eco 1984, par. 5, 2.

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India). In India ci sono molti esemplari di manticora: gli uomini li cacciano a dorso di elefante scagliando da lì le loro frecce».

C’è chi dice che bastò che lo scrittore greco pronunciasse queste parole perché il palazzo del Gran Re sparisse, come abolito e folgorato dall’ultima sillaba. Fu solo allora che Ctesia, dopo diciassette anni, poté fare ritorno in patria e raccontare le sue storie. Tale leggenda, ovviamente, non è che finzione letteraria, tuttavia è pur necessario dire che a questo punto della storia il racconto si interrompe e lascia in chi scrive, e forse, ancora di più, in chi legge una confusione ed uno sconforto di gran lunga maggiori rispetto alla confusione e allo sconforto che deve aver provato lo Ctesia-personaggio di cui si è parlato finora.11 Bisogna chiarirsi le idee, o almeno immaginare di chiarirsele, cercando di chiamare in campo altri personaggi, altre carte da gioco per costruire un “nuovo palazzo” a partire dai testi che ci sono pervenuti. 0.2 C’è un manticora a palazzo! Siamo in un certo senso più fortunati dello Ctesia-personaggio delle pagine precedenti. Se infatti l’insieme degli interpretanti del racconto sembra essere caduto vittima di una sorta di anarchia rappresentativa, nel caso dei testi relativi al manticora dei quali si è fatta menzione nel I capitolo (pp. 62 sgg.), si può dire di avere a disposizione un gruppo di versioni tendenzialmente omologhe. Ammesso che queste siano i resti del “palazzo” delle “conoscenze” che gli antichi avevano dell’animale, si può per certi versi convenire sul fatto che “c’era un manticora a palazzo”. Nonostante, infatti, gli interpretanti successivi al primo interpretante (Ctesia) commentino in maniera diversa la “veridicità” della notizia relativa al feroce animale indiano o lo collochino in caselle diverse (seppur equivalenti) del mondo, il “contenuto nucleare” (vale a dire l’insieme degli interpretanti)12 a nostra disposizione trasmette un tipo cognitivo perfettamente in grado di condurre al successo di un’esperienza percettiva a venire. In altri termini, volendo fare un esempio paradossale, se un turista occidentale dovesse imbattersi, in India, in un manticora, lo riconoscerebbe senza dubbio, né sospetterebbe che la sua guida sia un manticora-mannaro (sempre che – ovviamente – non abbia letto il paragrafo precedente). Il manticora infatti ha tre file di denti, il corpo di leone, la coda di scorpione che scaglia dardi. Insomma, non ci si può sbagliare: la regola cognitiva di costruzione dell’immagine trasmessaci da Ctesia e dagli altri autori 11. Si vuole precisare, in questa nota, che lo “Ctesia-personaggio” di cui si è parlato in queste pagine è ovviamente diverso dallo Ctesia storico ed è soltanto, per così dire, un fascio di invarianze semiotiche. 12. Cfr. Eco 1997, p. 117.

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dell’antichità classica è quasi perfettamente uniforme. In altri termini: è possibile “conoscere” un manticora. Non è dunque così scontato che gli antichi abbiano sempre considerato questo animale un essere “fantastico” o un incubo partorito dalla fervida immaginazione di un logografo. In fin dei conti, se immaginiamo l’esistenza di “tradizioni orali” indiane o persiane (che, a quanto mi risulta, sembrano non esserci state) relative al manticora, dobbiamo sospettare che le modalità di costruzione e di circolazione (o “contagio”) del tipo cognitivo della belva non dovessero essere poi così diverse da quelle descritte da Eco 1997 (pp. 109 sgg.) per il cavallo degli Aztechi. E se dunque non era impossibile che gli antichi vi credessero (o addirittura lo “conoscessero”), perché dire che il manticora è (sempre) un animale di fantasia? Nel 1932, Maurice Manquat, professore di zoologia presso la facoltà di scienze di Angers, poteva facilmente dire, a proposito degli “animali paradossali” menzionati nelle opere biologiche aristoteliche, che: «ce sont des êtres complèment imaginaires, de ceux qu’invente la fantaisie des nourrices pour effrayer les petits enfants qui ne sont pas sages». (Manquat 1932, p. 117)

Ma siamo sicuri che questa fosse anche l’opinione di Ctesia o di Aristotele? O meglio, siamo sicuri che un greco del IV sec. a.C. potesse immediatamente distinguere, nel corso di una lettura (o dell’ascolto) di una periegesi, di un trattato peripatetico o di un qualsivoglia racconto, un animale “reale” da un animale “immaginario” e “fantastico”, come avrebbe potuto fare, ad esempio, uno zoologo del XX secolo? E lo stesso Manquat, in fondo, come avrebbe reagito alla notizia di un pollo con i denti di topo o di un “supertopo” dalle dimensioni gigantesche, frutto dell’inserimento in un embrione dei geni umani che regolano la sintesi degli ormoni della crescita?13 Le chime13. Nel caso del pollo con i denti di topo mi riferisco ad un esperimento eseguito nel 1980 da E. J. Kollar e C. Fisher, i quali hanno dimostrato che l’epitelio di pollo è in grado, in determinate condizioni, di produrre dentina. La scoperta di Kollar e Fisher è senza dubbio da ritenere sorprendente, anche perché mette in crisi uno dei caratteri definitori della classe, in base al quale l’assenza di denti è da associare alla presenza di ali e di piume (cfr. Gould 19974, pp. 184 sg.). Per il topo delle dimensioni gigantesche cfr. Rifkin 1998, p. 42: «Nel 1983, Ralph Brinster, della facoltà di Veterinaria dell’Università della Pennsylvania, inserì in embrioni di topo i geni umani che regolano la sintesi degli ormoni della crescita. I topi che espressero i geni umani, si svilupparono con una rapidità più che doppia del normale e divennero più grossi di circa il doppio di qualsiasi altro topo. Questi “supertopi”, come furono chiamati dalla stampa, crebbero e trasmisero alla progenie i geni umani per gli ormoni della crescita. A tutt’oggi esiste una linea di topi che continua a esprimere i geni umani per gli ormoni della crescita, generazione dopo generazione. I geni umani sono stati quindi permanentemente incorporati nel corredo cromosomico di questi animali».

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re nate in laboratorio ad opera della biotecnologia contemporanea, in fondo, oltre a creare problemi etici non indifferenti, hanno messo in crisi il nostro concetto di specie, facendoci intravedere la possibilità dell’esistenza di esseri che uniscono in sé “nature” diverse, di “mostri” in cui sono fusi insieme tratti che prima venivano considerati non correlati (o non correlabili).14 Con questo non voglio dire affatto che il manticora sia esistito veramente, ma che, quanto meno, si dovrebbe avere un atteggiamento diverso, rispetto a quello di Manquat, nei confronti di quelle che potremmo chiamare le zone d’ombra nello spazio della razionalità degli antichi. D’altronde, già nel 1981, Christian Jacob, si chiedeva, a proposito dei mirabilia: «Mais peut-on laisser ainsi de côté cet aspect important de la mentalité grecque, et ne retenir que les éléments et les secteurs relevant de la raison et de la logique? Ne faut-il pas prendre en compte de pareilles “zones d’ombre” et en rechercher les principes organisateurs qui, peut-être, relèvent d’une logique différente?». (Jacob 1981, p. 121)

Bisogna dunque comprendere, volta per volta, la logica che sostiene le “apparizioni” del manticora (o di animali simili), senza tentare di applicare le categorie (peraltro traballanti)15 della zoologia contemporanea, cercando invece di capire i principi organizzatori delle rappresentazioni che abbiamo per le mani. Nel fare questo, fino ad adesso mi sono occupato di analogie e ho cercato di individuare un nucleo centrale forte in base al quale sia possibile parlare di una omologazione del tipo cognitivo che sta alla base di ciascuna delle rappresentazioni che saranno prese più volte in esame nel corso di questo lavoro. Adesso invece è giunto il momento di occuparsi delle differenze più che delle similitudini e delle analogie. A partire da questo capitolo prenderò in considerazione ogni singola rappresentazione pubblica di cui disponiamo cercando di capire quale progetto culturale o quale rappresentazione mentale si celi dietro ogni “variazione”.16 14. Rifkin 1998, p. 42: «Agli inizi del 1984 […] alcuni scienziati fusero tra loro cellule embrionali di capra e di pecora, trasferendo l’embrione che ne risultò in un animale che diede origine ad una chimera capra/pecora: questo è il primo esempio, nella storia dell’uomo, di fusione di due animali assolutamente non correlati». Per quanto riguarda il concetto di “specie” si noti come gli studi sulle tassonomie folk mettano in evidenza la non universalità della suddivisione in genere e specie. Cfr. in particolare Atran 1996, p. 6: «the species-genus distinction is largely irrelevant to the common-sense vision of the world. In the local world of most folk, species usually lack congeners so that species and genus are habitually coextensive». 15. A questo proposito cfr. Lloyd 1999, p. 76 sull’incertezza dei risultati della tassonomia moderna. 16. Voglio specificare che quando parlo di “variazione” non mi riferisco ad un allontanamento da un racconto di base o da una versione originaria, mi riferisco semmai alle variazioni che ogni versione “concreta” presenta rispetto alle

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In questo capitolo, in particolare, prenderò in esame la versione del manticora presente nella Historia Animalium di Aristotele, inserendola nel contesto complessivo dell’opera. A questo proposito cercherò di analizzare le modalità usate dallo Stagirita nel citare gli storici (e in particolare Erodoto) e, più specificamente, la maniera di trattare le fonti relative agli esseri paradoxa. Quindi cercherò di fare vedere come questo animale sia stato usato da Aristotele al fine di costruire una autolegittimazione del proprio “discorso scientifico” a scapito della credibilità di Ctesia.

1.

Spazi, luoghi, animali

1.1 «Non si può che usare un obiettivo sfocato o un fucile senza mirino…» Una rassegna delle rappresentazioni relative al manticora, purtroppo, non può che cominciare con un vuoto. Ctesia non ci è pervenuto che attraverso il riassunto di Fozio; del suo racconto, per dirla in termini sperberiani, non possediamo che la rappresentazione pubblica della rappresentazione mentale di ciò che il patriarca ha letto e ha trovato rilevante e degno di nota negli Indikà: del testo di Ctesia non ci rimane che uno sguardo alieno, un contenuto con una forma straniata. Se si vuole seguire un criterio meramente cronologico, dunque, l’analisi delle narrazioni17 a nostra disposizione, a meno di non volere creare strani paradossi temporali, deve necessariamente partire dalla Historia Animalium di Aristotele. In altri termini, fatti i conti con quanto ci è rimasto, il primo passo da compiere, nell’ambito di una epidemiologia della rappresentazione della bestia antropofaga, sarà quello di ricostruire l’atteggiamento dello Stagirita nei confronti del manticora, il che significa anche capire come Aristotele si sia relazionato a Ctesia e al sapere sugli animali “strani” così come veniva veicolato dai testi dei logografi e, ad esempio, dallo stesso Erodoto. In altri termini, se si vuole arrivare veramente a capire la versione aristotelica del manticora, si è costretti a fare il giro più lungo. Bisogna innanzitutto cercare di capire quali fossero le attitudes dello Stagirita nei confronti di un gruppo di animali che noi tendenzialmente consideriamo inesistenti e di tutti quegli esseri “lontani” o esotici che era difficile che un greco conoscesse. Ma ancora prima di fare questo bisogna capire quale fosse l’atteggiamento di Aristotele nei confronti delle “fonti”, nei confronti cioè di quegli storici che lo Stagirita aveva eletto a suoi informatori in fatto di “animali lontani”. altre. In altri termini, non mi riferisco alla “struttura di fondo”, bensì alla catena racconto-storia-racconto di cui parla Sperber 1999, pp. 30 sgg. 17. Uso il termine narrazione secondo il modello sperberiano esposto a p. 42.

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Per fare questo, però, ci si dovrà interrogare sui processi di riscrittura, sulle modalità in base alle quali le informazioni provenienti dal medico greco vengono inserite nella trama del discorso della Historia Animalium, sulla presenza (o assenza) di segni che marcano le citazioni o le parafrasi di passi, ad esempio, degli Indikà.18 Si deve però subito dire che ricostruire il rapporto fra Aristotele e l’“inventore greco” del manticora è in parte impossibile: in un certo senso, sarebbe quasi come scattare la fotografia di un paesaggio tenendo fuori fuoco l’obiettivo. Il testo di Ctesia non ci è giunto e mi sembra come minimo pericoloso partire dal testo di Fozio per disambiguare le strategie seguite dallo Stagirita nell’estrapolare dati ed informazioni dagli Indikà. Il patriarca bizantino, in fondo, non può che aver riassunto o isolato dal testo di Ctesia dati e notizie in una maniera che forse risultava essere rilevante unicamente per il periodo e l’ambito culturale in cui è vissuto, senza contare che, ovviamente, avrebbe potuto anche tenere conto degli anelli successivi della catena (dello stesso Aristotele, ad esempio, ma anche di Eliano).19 Ancora una volta, dunque, per arrivare a Ctesia, si dovrà fare un giro lungo (e usare un obiettivo fuori fuoco). Quello che tenterò di fare, in maniera del tutto ipotetica, sarà di assimilare il trattamento, nella Historia Animalium, dei dati erodotei a quelli di Ctesia. Erodoto e l’autore degli Indikà, in fondo, vengono trattati da Aristotele alla stessa stregua e, ogni volta che sono citati nominatim, vengono incasellati, se così si può dire, nella stessa griglia: sono entrambi due mythologoi.20 In questo senso ipotizzo che ricostruire il rapporto dello Stagirita con il sapere zoologico erodoteo possa equivalere a capire il trattamento nei confronti del “sapere” sugli animali dell’inventore del manticora. 1.2 Il sapere di Erodoto, ovvero una delle tante “zoologie” prima della “zoologia” Mario Vegetti (in Lanza e Vegetti 1971, p. 90) ha detto, a proposito della Historia Animalium di Aristotele, che essa ha segnato, nella sto18. L’idea di procedere in questa maniera per comprendere il rapporto fra Aristotele e le sue fonti “colte” (Ctesia ed Erodoto) mi è stata data dalla lettura di Jacob e Mangani 1985, p. 57. 19. Su Fozio in generale, oltre che il già citato Wilson 1992, pp. 3 sgg., cfr. anche il volume collettaneo a cura di Menestrina 2000, pp. 3 sgg. (con saggi di Nigel Wilson, Giovanni Menestrina, Claudio Bevegni e Luciano Canfora). 20. Nella Historia Animalium Erodoto e Ctesia vengono menzionati in termini poco lusinghieri in 3, 22, 523 a 26 e 8, 28, 606 a 8. I due storici vengono presentati come “raccontatori di menzogne” che solo talvolta dicono il vero. A proposito dei mythologoi e dei logopoioi nella Grecia antica cfr. Buxton 1997, p. 14. Riguardo al problema dell’intercambiabilità di mythos e logos e al loro uso polarmente antitetico sarebbero tanti gli studi da citare; mi limito qui a rimandare alle recenti riflessioni di Cozzo 2002, pp. 14 sgg.; 25 sgg.; 70 sgg.; 85 sgg.

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ria del pensiero scientifico, una data fondamentale: «quella della nascita di una scienza fino ad allora affatto inesistente in quanto tale, la zoologia». Ma in che senso Aristotele ha inventato la zoologia? Un’affermazione simile infatti, a mio parere, rischia di essere inficiata da un paradigma culturale, adoperato sovente dagli antichi, che non ha mai smesso di influenzarci: il mito del protos heuretés. Quando invece, più che di “invenzione della zoologia”, sarebbe opportuno parlare semplicemente di un’opera di sistemazione (in alcuni casi polemica) di un nugolo di saperi che precedentemente ad Aristotele non costituivano una disciplina a sé stante.21 Non esisteva del resto, né con Aristotele né prima, il termine “zoologia”. La zoologia era una sorta di mosaico, le cui tessere avevano le forme più disparate e che Aristotele, semmai, sembra avere messo insieme (e selezionato) per la prima volta.22 Del resto, il termine che Aristotele userà nel De partibus animalium per citare la sua opera di “raccolta del materiale” è già di per sé eloquente: «εjκ τιvνων µε;ν ου\ν µοριvων και; ποvσων συνεvστηκεν ε{καστον τω'ν ζωv/ων, εjν ται'ς ιJστοριvαις ται'ς περι; αυjτω'ν δεδηvλωται σαφεvστερον». (Part. Anim. 2, 1, 646 a 8-10).

«Di quali e di quante parti sia composto ciascuno degli animali, è stato mostrato in maniera oltre modo chiara nelle historiai relative ad essi».

Quella che fa Aristotele non è né una zoologia, né una zoografia: lo Stagirita si riferisce alla sua opera dandole, probabilmente a posteriori, un titolo che rimanda esplicitamente ad una attività di ricerca storica. Aristotele, dunque, ha scritto Storie; il che ovviamente dovrebbe spingerci ad investigare ulteriormente il legame della sua opera con le Storie scritte in precedenza da altri autori.23 Si tratta, in altri termini, di vedere l’attività dello Stagirita non soltanto come una investigazione dei saperi tecnici e delle arti banausiche, o come il frutto dell’esperienza 21. Cfr. a questo proposito Lloyd 1997, pp. 545 sgg. Sull’uso della polemica nella storiografia antica cfr. anche Marincola 1997, pp. 217 sgg. 22. Sulle “fonti” della Historia Animalium cfr. Lanza e Vegetti 1971, pp. 90 sgg. 23. Sul titolo della Historia Animalium cfr. Lanza e Vegetti 1971, p. 87: «I cataloghi più antichi delle opere di Aristotele, che si riferiscono a sicure fonti peri/ v ν, il che dimostra che l’impiepatetiche, menzionano l’opera sotto il titolo di περι; ζωω go del termine historia da parte di Aristotele non costituisce la citazione di un titolo, bensì una valutazione del ruolo che egli aveva in un secondo tempo assegnato al trattato. Se dunque il titolo originale è Sugli animali, ciò conferma i caratteri di autosufficienza teorica e di completezza scientifica che abbiamo riconosciuto nella Historia, e contribuisce alla sua interpretazione in quanto protozoologia aristotelica».

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e dell’osservazione diretta,24 ma anche come il prodotto di un rapporto creativo con la tradizione storiografica greca. In questo senso, non si tratta, a mio parere, di vedere quanto “la letteratura greca” potesse offrire ad Aristotele in termini di anatomofisiologia umana.25 Si tratta semmai di capire in che termini la Historia Animalium è inquadrabile all’interno di un genere (quello della historia) e di individuare quali sono le principali innovazioni apportate al suo interno. In questo senso non bisogna “deludersi” per il fatto che i passi erodotei utilizzati nella Historia si riferiscono quasi sempre ad animali esotici o “favolosi” (è questa, ad esempio, la reazione di Manquat 1932, pp. 37 sgg.); bisogna semmai capire quali siano le modalità di riuso seguite da Aristotele nel citare gli storiografi precedenti e definire meglio, attraverso di esse, quale fosse il progetto culturale messo in campo dallo Stagirita nei confronti degli animali paradoxa. Fatto questo, una volta definito meglio quello che potremmo chiamare il contesto “psicologico e ambientale” della Historia Animalium, sarà possibile analizzare in una maniera più complessa e consapevole le narrazioni relative agli animali “meravigliosi” e infine quella relativa al manticora. Nel fare questo si vedrà come la differenza principale che intercorre fra Aristotele e il sapere etnozoologico tradizionale consisterà proprio nell’eliminare i tratti della singolarità e della “meravigliosità” degli esseri paradoxa. 1.3.1 L’India, le formiche e i cammelli Come si è accennato nel paragrafo precedente, la “fondazione” aristotelica nei confronti del sapere zoologico consiste nella selezione e nella ristrutturazione di un sapere già presente, se pure a macchia di leopardo, nella tradizione storiografica greca. Ebbene, in questo paragrafo cercherò di vedere, attraverso la lettura di un noto passo erodoteo, in che modo potesse essere strutturato, prima di Aristotele, un “discorso sugli animali”. Il passo che ho scelto di leggere è quello che racconta le spedizioni organizzate dagli Indiani del Nord per procurarsi l’oro da versare come tributo al Re dei Persiani; quell’oro che veniva reso quasi imprendibile dalla minacciosa presenza di combattive formiche dalle dimensioni mirabolanti: «το;ν δε; χρυσο;ν του'τον το;ν πολλο;ν οιJ ∆Ινδοιv, αjπ∆ ου| το; ψη'γ µα τω'/ βασιλεvι> κοµιvζουσι το; ειjρηµεvνον, τροvπω/ τοιω'/δε κτω'νται». (Hdt. 3, 98, 1)

«Il molto oro che sfruttano per portare al re la polvere di cui abbiamo già parlato, gli Indiani se lo procurano in questa maniera». 24. Cfr. a questo proposito Lanza e Vegetti 1971, p. 91. 25. Cfr. Lanza e Vegetti 1971, p. 91.

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La digressione sull’India si apre con la promessa di una narrazione, ma, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, Erodoto non illustra immediatamente le modalità di procacciamento del metallo; si lancia invece in un vero e proprio excursus dentro l’excursus: «ε[στι τη'ς ∆Ινδικη'ς χωvρης το; προ;ς η{λιον αjνιvσχοντα ψαvµµος: τω'ν γα;ρ ηJµει'ς ι[δµεν, τω'ν και; πεvρι αjτρεκεvς τι λεvγ εται, πρω'τοι προ;ς ηjω' και; ηJλιvου αjνατολα;ς οιjκεvουσι αjνθρωvπων τω'ν εjν τη/' ∆Ασιv η/ ∆Ινδοιv: ∆Ινδω'ν γα;ρ το; προ;ς τη;ν ηjω' εjρηµιv η εjστι; δια; τη;ν ψαvµµον». (3, 98, 2 )

«La parte del territorio indiano rivolta verso il sorgere del sole è sabbiosa: infatti, fra tutti gli uomini che conosciamo e sui quali si può dire qualcosa di certo, gli Indiani sono i primi in Asia che abitino verso l’aurora e il sorgere del sole, poiché a oriente degli Indiani la terra è deserta per via della sabbia».

A partire da questo punto Erodoto comincia un catalogo dei generi di vita e delle caratteristiche degli Indiani che vivono presso il vento di Noto («προς; νοτv ου ανj εµ v ου»: 3, 101, 2): gli Ittiofagi che si nutrono di pesci crudi (3, 98, 3), i Padei che uccidono i malati della propria tribù e poi banchettano con le loro carni (3, 99, 1), gli “Etiopi” dell’India che si accoppiano pubblicamente ed hanno lo sperma di colore nero (3, 101, 1-2). Soltanto dopo avere completato questo catalogo dei bioi Erodoto comincia il mirabolante racconto che aveva introdotto in 3, 98, 1 e che aveva lasciato in sospeso: «αλ [ λοι δε; των ' ∆Ινδων ' Κασπατυρ v ω/ τε πολ v ι και; τη/' Πακτυικ > η/' χωρ v η/ εισ j ι;

προσ v ουροι, προς ; αρ [ κτου τε και ; βορεω v αν j εµ v ου κατοικηµεν v οι των ' 26 οι} Βακτριο v ισι παραπλησιv ην εχ [ ουσι δια v ιταν: ου|τοι αλ [ λων ∆Ινδων ' , επ j ι; τον ; χρυσον ; στελλοµ v ενοιv εισ j ι και; µαχιµωvτατοιv εισ j ι ∆Ινδων ' και; οι27 J j δη; ων \ τη/' ου|τοι: κατα; γαρ ; του'τοv εσ j τι ερ j ηµιv η δια; την ; ψαµ v µον. [2] εν ερ j ηµιv η/ ταυvτη/ και; τη/' ψαµ v µω/ γιν v ονται µυρ v µηκες µεγαθ v εα εχ [ οντες κυνων ' µεν ; ελ j ασ v σονα, αλ j ωπεκεω v ν δε; µεζ v ονα: εισ j ι; γαρ ; αυjτων ' και; παρα; βασιλειv > των ' Περσεω v ν εν j θευ'τεν θηρευθεν v τες. ου|τοι ων \ οιJ µυρ v µηκες ποιευµ v ενοι οικ [ ησιν υπ J ο; γην ' αν j αφορεο v υσι την ; ψαµ v µον, καταv περ οιJ εν j τοισ ' ι ”Ελλεσι µυρ v µηκες και; τον ; αυjτον ; τροπ v ον, εισ j ι; δε; και; το; ειδ\ ος οµ J οιοvτατοι: ηJ δε; ψαµ v µος ηJ αν j αφεροµεν v η εσ j τι; χρυσι'τις. [3] επ j ι; δη; ταυvτην την ; ψαµ v µον στελ v λονται ες j την ; ερ [ ηµον οιJ ∆Ινδοι,v ζευξαµ v ενος εκ { αστος καµηλ v ους τρεις ' , σειρηφορ v ον µεν ; εκ J ατερ v ωθεν ε[ρσενα παρεvλκειν, θηvλεαν δε; εjς µεvσον: εjπι; ταυvτην δη; αυjτο;ς αν j αβαιν v ει, επ j ιτηδευσ v ας, οκ { ως απ j ο; τεκ v νων ως J νεωταvτων απ j οσπασ v ας j ησ { σονες ες j ταχυτη'ταv εισ j ι, ζευξv η:/ αιJ γαρ v σφι καµ v ηλοι ιπ { πων ουκ χωρις; δε; αχ [ θεα δυνατωvτεραι πολλον ; φερ v ειν». (3, 102)

26. Accolgo qui la lezione dei codd. DRSV, scelta da Legrand 1958, ad l., ; prima di «τω'ν α[λλων ∆Ινδω'ν». che elimina il «και» 27. Accolgo ancora una volta la lezione di Legrand 1958, ad l.

Capitolo 2. Ipotesi sul manticora. Aristotele e gli animali “paradossali”

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«Altri Indiani invece confinano con la città di Caspatiro e con la Pattica; sono stanziati, rispetto agli altri Indiani, verso l’Orsa e il vento Borea, e hanno un modo di vivere simile a quello dei Battriani; questi sono anche i più combattivi tra gli Indiani e sono proprio quelli che organizzano le spedizioni al fine di procurarsi l’oro; in questa regione si trova infatti un deserto fatto di sabbia. [2] Ebbene, proprio in questa regione desertica e sabbiosa, si trovano formiche di grandezza inferiore a quella dei cani e maggiore rispetto a quella delle volpi; di queste ve ne sono anche presso il re di Persia, catturate proprio lì. Queste formiche, facendo la loro tana sotto terra, portano in superficie la sabbia, proprio come le formiche che si trovano presso i Greci (proprio alla stessa maniera!), e anche nell’aspetto sono molto simili ad esse; la sabbia che portano fuori è aurifera. [3] Proprio per procurarsi questa sabbia gli Indiani organizzano le loro spedizioni in quel deserto, aggiogando ciascuno tre cammelli: due maschi ai lati a tirare, attaccati ad una fune, e una femmina in mezzo. Il cammelliere monta sopra di essa curandosi di aggiogarla dopo averla allontanata dai figli quanto più piccoli possibile. I loro cammelli, infatti, quanto a velocità non sono inferiori ai cavalli e per di più sono molto più resistenti nel portare pesi».

Come si vede bene, Erodoto, prima di passare a descrivere il morfotipo comportamentale dello strano animale, pone come premessa del racconto una descrizione del contesto geoantropologico e climatico in cui esso vive.28 Il myrmex che scava l’oro è un animale intimamente legato al “luogo” in cui vive, a quella particolare “casella marginale del mondo” che è l’India.29 In questo senso non è forse un caso che Erodoto, prima di raccontare le peripezie dei cammellieri india28. Su questo passo cfr. P. Li Causi e R. Pomelli, L’India, l’oro, le formiche: storia di una rappresentazione culturale da Erodoto a Dione di Prusa (in corso di pubblicazione) ove si spiega come il logos delle formiche indiane diventa una sorta di contenitore di un sapere complessivo sull’India: al filo della struttura narrativa vengono infatti appese, a mo’ di medaglioni, una serie di notizie di tipo etnologico, zoologico e climatico. 29. Per i concetti di “spazio” e di “luogo” cfr. Farinelli 1993, pp. 43 sgg. (ringrazio Marco Picone per avermi messo a parte delle sue riflessioni a partire da questo testo e per avermelo indicato), ove per “luogo” si intende tutto ciò che è “antropologicamente connotato”, disomogeneo, discontinuo, “anisotropo” (ovvero – nell’accezione dell’autore – che si può osservare da differenti punti di vista), mentre per “spazio” si intende tutto ciò che è “geometricamente neutro”, omogeneo, continuo, uniforme, “isotropo” (che si può osservare a partire da un unico punto di vista: quello del geografo). A proposito della relazione fra topos e “meraviglioso” cfr. anche Jacob 1981, p. 135 e Id. 1980, pp. 135 sgg. Per quanto riguarda il legame del myrmex che scava l’oro con il “luogo” indiano cfr. ad es. anche Prop. 3, 13, 1-5; Plin. Nat. Hist. 11, 111 e Luc. Gall. 16, ove si è ormai attestata la denominazione folk di “formica indiana” (su questi passi cfr. P. Li Causi e R. Pomelli, art. cit. Per il concetto di “denominazione folk” cfr. Beccaria 20002, pp.17 sgg.).

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ni decida di spiegare al suo pubblico che questa zona della terra si trova ad essere la più vicina al sorgere del sole:30 «οιJ δε; δη; ∆Ινδοι; τροvπω/ τοιουvτω/ και; ζευvξει τοιαυvτη/ χρεωvµενοι

εjλαυvνουσι εjπι; το;ν χρυσο;ν λελογισµεvνως, ο{κως καυµαvτων τω'ν θερµοταvτων εjοvντων, ε[σονται εjν τη/' αJρπαγη'/: υJπο; γα;ρ του' καυvµατος οιJ µυvρµηκες αjφανεvες γιvνονται υJπο; γη'ν. [2] θερµοvτατος δ∆ εjστι; οJ η{λιος τουvτοισι τοι'σι αjνθρωvποισι το; εJωθινο;ν ουj καταv περ τοι'σι j λ∆ υπ J ερτειλ v ας µεχ v ρις ου| αγ j ορης ' διαλυσ v ιος: α[λλοισι µεσαµβριvης,31 αλ του'τον δε; τον ; χρον v ον καιε v ι πολλω'/ µαλ ' λον η] τη/' µεσαµβριv η/ την ; Ελλα J vδα, ου{τως ω{σ τ ∆ εjν υ{δατι λοvγ ος αυjτουvς εjσ τι βρεvχεσθαι τηνικαυ'τα. [3] µεσου'σα δε; ηJ ηJµεvρη σχεδο;ν παραπλησιvως καιvει του;ς α[λλους αjνθρωvπους και; του;ς ∆Ινδουvς. αjποκλιναµεvνης δε; τη'ς µεσαµβριv ης γιvνεταιv σφι οJ η{λιος, καταv περ τοι'σι α[λλοισι οJ εJωθινοvς: και; το; αjπο; τουvτου εjπιω;ν ε[τι µα'λλον ψυvχει, εjς ο} εjπι; δυσµη/'σι εjω;ν και; το; καvρτα ψυvχει». (Hdt. 3, 104)

«Gli Indiani quindi in questo modo e avvalendosi di questa maniera di aggiogare i cammelli si spingono alla ricerca dell’oro, così da farne rapina quando il caldo è più ardente e le formiche sono scomparse sotto terra per la calura. Proprio in questi momenti le formiche si nascondono sotto terra per via del caldo. [2] Presso gli Indiani d’altra parte il sole è più caldo non a mezzogiorno, ma dal momento in cui sorge all’orizzonte fino a quando nelle piazze non c’è più nessuno; in quest’arco della giornata brucia molto più che a mezzogiorno in Grecia, tanto che si racconta che essi allora se ne stanno a mollo in acqua. [3] A mezzogiorno invece brucia quasi come brucia per tutti gli altri uomini e per gli Indiani. Al declinare del mezzogiorno, il sole diventa per gli Indiani com’è per gli altri al mattino. A partire da questo momento, mano a mano che esso si allontana, rinfresca sempre di più, finché al tramonto fa davvero molto fresco».

La digressione sul clima viene attaccata, a mo’ di medaglione, al filo narrativo principale che racconta la lotta fra gli uomini e i myrmekes. La sottrazione dell’oro da parte degli Indiani che vivono vicino Caspatiro è infatti il frutto di un calcolo fatto con astuzia a partire dalla conoscenza delle peculiarità climatiche del territorio. L’India è così caratterizzata come un mondo alla rovescia non solo per i costumi e gli usi sociali (cfr. 3, 98-100), ma anche per le situazioni climatiche e – si intuisce – per le caratteristiche della fauna locale. In questo senso è possibile che la paratassi che lega le caratteristiche fisiche (la physis) dei myrmekes e le peculiarità del clima pos30. Sul clima indiano cfr. n. 168, p. 72. 31. Accolgo la lezione di Legrand 1958, ad. l. supportata peraltro dai codd. DRSV.

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sa anche nascondere una sotterranea spiegazione causale: le formiche degli Indiani sono così diverse dalle formiche dei Greci proprio a causa del clima (e della natura) che nelle eschatiai opera in una maniera inversa rispetto al centro del mondo:32 gli Indiani vivono προ;ς η{λιον, nell’estremo margine orientale del mondo, vale a dire in una di quelle εjσ χατιαι ; τη'ς οιjκ ηµεvνης che producono le cose più belle e mirabolanti che un Greco possa mai vedere (o di cui possa sentire parlare).33 In un certo senso, dunque, è come se la menzione dei luoghi e la catalogazione delle tribù operi una sorta di effetto di reale, o comunque funzioni come “prova” dell’esistenza (oltre che come strumento eziologico) di esseri che non si sono mai visti al centro del mondo e che quindi i Greci non possono conoscere se non per mezzo di ostensioni analogiche:34 la stranezza dei “luoghi”, degli uomini che vivono in India e le peculiarità del clima insieme spiegano e giustificano la presenza di esseri così strani come i ferocissimi e combattivi myrmekes. Fra zona climatica ed essere vivente ricorre dunque una sorta di rapporto biunivoco: se da un lato il luogo “illustra” l’animale, dall’altro gli animali (e gli uomini) funzionano come marcatori di differenza e di difformità culturale e di luogo. Non solo infatti i myrmekes sono esseri di uno spazio “altro” rispetto a quello del locutore, ma segnano una ulteriore differenza all’interno di questo stesso spazio: l’antagonismo delle popolazioni del Nord nei confronti di questi esseri paradossali, come si intuisce fra le righe, non è cosa di tutti gli uomini dell’India, bensì unicamente di quelli che 32. Non è un caso forse che Plinio il Vecchio sceglierà di cominciare a parlare delle stranezze dell’India proprio a partire dal clima: «Multos ibi quina cubita constat longitudine excedere, non expuere, non capitis aut dentium aut oculorum ullo dolore affici, raro aliarum corporis partium: tam moderato solis vapore durari» (Nat. Hist. 7, 22) («Si sa bene che in India molti uomini possono anche essere più alti di cinque cubiti. Essi inoltre non sputano, non soffrono mai il mal di testa e non hanno mai male ai denti o agli occhi. Solo raramente provano altri mali in altre parti del corpo; sono infatti temprati da una distribuzione tanto equilibrata dal calore del sole»). Il tema delle dimensioni e delle caratteristiche paradoxa viene giustapposto, nei paragrafi seguenti, proprio al moderatus solis vapor. Non è affatto da escludere, in questo senso (come Oniga 1995, pp. 37-50 ha dimostrato che spesso avveniva in molte digressioni sui loci presenti nei trattati di “storia” dell’antichità), che la paratassi dei due temi possa nascondere una spiegazione causale di tipo deterministico: gli uomini hanno una statura di cinque cubiti proprio perché vivono in un determinato contesto climatico. Cfr. n. 162, p. 70 per il determinismo climatico (ma vd. anche n. 168, p. 72). 33. Cfr. ad es. Hdt. 3, 106. 34. Come si è visto nel capitolo precedente, le analogie e le differenze sono a tutti gli effetti da considerare come atto sostitutivo della opsis. Alla stessa maniera il confronto con la dimensione del cane e della volpe funziona come strumento di misurazione e quindi di “possesso” di un oggetto non visibile. Sul legame fra misurazione e “possesso” cfr. Farinelli 1993, p. 26.

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“confinano con la città di Caspatiro” e che in un certo qual modo sono connotati come popoli che vivono ai margini dei margini della terra.35 La regione desertica ricoperta dalla sabbia è in effetti il termine ultimo del mondo abitato, l’ultima barriera fra l’umanità e l’animalità (cfr. 3, 102, 2). I myrmekes, dunque, per certi versi, rappresentano una sorta di confine spaziale e culturale:36 dove cominciano le formiche è finita ogni sorta di cultura e comincia lo spazio uniforme e indifferenziato del mondo non abitato e del deserto sabbioso; dove cominciano le formiche giganti, in un certo senso, finiscono tutti i luoghi.37 Eppure, nello stesso tempo, questi strani animali funzionano da strumento di “singolarizzazione” e di “localizzazione” di uno spazio uniforme (quello della eremie) altrimenti indistinto e, quasi, indescrivibile nella sua sabbiosa monotonia. La ferocissima formica indiana segna la fine di tutti i luoghi e nello stesso tempo trasforma in “luogo”, singolare ed etnicamente differenziato, uno spazio indistinto. In altri termini, l’animale, esattamente come l’uomo, diventa un mezzo di descrizione della terra: esso è – si potrebbe dire – parte integrante, fino in fondo, di un discorso geografico complesso. A questo proposito Jacob 1996, pp. 926 sg., ha parlato di un legame intimo fra lo spazio del discorso geografico e la mnemotecnica: «Il filo conduttore della descrizione si presta infatti a collegare i luoghi della memoria, ai quali è affidata la rammemorazione di un episodio storico o mitico, la menzione di una curiosità naturale, di una costumanza particolare, di una citazione letteraria. In quanto percorso attraverso una costellazione di luoghi, la geografia si presenta come un dispositivo di fissazione e trasmissione del sapere, e le informazioni immagazzinate in tal modo sono ispirate a una logica digressiva rispetto alla rigida definizione dell’itinerario. Questa predisposizione della 35. A proposito dell’antagonismo uomo-animale, sarebbe interessante sviluppare alcune intuizioni di Ortalli 1997, pp. 7 sgg., su come l’antagonismo uomolupo, nel mutato contesto ambientale del Medio Evo, abbia contribuito a cambiare le rappresentazioni culturali relative alla belva. In questo senso, sarebbe interessante vedere come il rapporto psicologico con lo spazio, nel mondo antico, abbia contribuito a fornire tratti perturbanti a molti animali delle eschatiai. 36. Sull’uso dell’animale come “confine” si possono trovare molti esempi nella letteratura “etnografica” greca, solo per farne alcuni cfr. Antigono di Caristo 1; 4; 9 (su questi passi Jacob 1981, p. 135: «le merveilleux résulte de l’association d’un phénomène avec un topos précis, ce rapport n’étant ni explicité ni expliqué. L’anecdote paradoxographique évoque souvent des différences minimes observables dans un lieu particulier et le distinguant de l’espace environnant: ainsi l’île de Sériphos n’a pas de grenouilles, celle de Lemnos n’a pas de perdrix, les cigales de Rhégium sont aphones, etc. […]. La localisation du thaûma pouvait d’ailleurs fournir le principe organisateur du recueil entier, chaque fait étonnant étant inséré dans un topos déterminé»). 37. Per la differenza fra il concetto di “spazio” e quella di “luogo” cfr. n. 29, p. 108.

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geografia a mobilitare i saperi suscettibili di ancorarsi ai luoghi sostituisce l’effetto di sovrapporre al viaggio nello spazio un viaggio nella storia e nella biblioteca. Testi e carta geografici diventano così strumento per verificare l’assimilazione da parte del lettore dei riferimenti culturali vigenti nella sua società: grandi racconti mitici e storici, componenti dell’orizzonte immaginario. Lungi dal rivelare la mancanza di rigore e scientificità delle geografie che ne adottano il principio, questo funzionamento mnemotecnico risulta, al contrario, costitutivo di un genere letterario che trova nel percorso spaziale uno strumento di riattivazione, esposizione e selezione dei saperi tradizionali, e un modo di istituire la continuità tra topiche discontinue ed eteroclite».

Il luogo, dunque, diventa, nella linearità dell’excursus, uno spazio del racconto, un “contenitore” di storie e informazioni (e di presenze biologiche “strane”) costruite a partire dall’uso dell’analogia e della differenza. Nello stesso tempo però il luogo e l’animale diventano uno segno mnemonico dell’altro; se infatti il luogo è per un verso un contenitore di storie, l’animale segna, per altro verso, con la singolarità e l’unicità dei suoi tratti, la singolarità e l’unicità del luogo che lo contiene. In questo senso verrebbe da dire, banalmente, che forse non è un caso che il manticora viva in India. Se infatti è vero che l’India contiene il manticora, è anche vero che il manticora, assieme a tutte le altre presenze biologiche paradossali trasmesse dalla tradizione, contribuisce alla identificazione dell’India come “luogo”. 1.3.2 L’animale come spazio in Aristotele: dal sapere meraviglioso alla sistemazione del sapere, dalla singolarità alla generalizzazione Gli animali paradoxa, come si è visto nel capitolo precedente (spec. pp. 68 sgg.), sono in qualche modo sempre in relazione con altri animali: il manticora viene “mostrato” per ostensione analogica con il ricorso ai tratti del cervo, dello scorpione e di altri esseri (fra i quali l’uomo); il tritone è uno squalo con la faccia umana e i capelli “di rana”; i myrmekes che scavano l’oro, infine, sono costruiti attraverso le immagini (e i tratti caratteristici) delle “piccole formiche dei Greci”, delle volpi, dei cani e dei cammelli.38 Insomma, gli animali “strani” e poco noti chiamano in causa sempre altri animali senza i quali non possono essere inseriti in un quadro eziologico o in un ambito pragmatico. Gli esseri noti a tutti i Greci, diversamente, o sono tendenzialmente identici a se stessi (fino al punto di essere paradigmatici)39 o vengono 38. Oltre che pp. 70 sgg., per il tritone, cfr. pp. 283 sgg. 39. È il caso questo del sapere fisiognomico in cui l’animale viene costruito come paradigma etico e psicologico dell’uomo (cfr. a questo proposito Sassi 1993a, pp. 438 sgg.).

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omessi, negli excursus sui “luoghi”, in quanto oggetti non degni di memoria (a meno, ovviamente, di non presentare caratteristiche paradossali e mirabolanti).40 Esemplare, in questo senso, è il caso del cammello in Erodoto: «το; µε;ν δη; ει\δος οJκοι'οvν τι ε[χει ηJ καvµηλος, εjπισταµεvνοισι τοι'σι Ελλησι { ουj συγγραvφω: το; δε; µη; εjπιστεvαται αυjτη'ς, του'το φραvσω. καvµηλος εjν τοι'σι οjπισθιvοισι σκεvλεσι ε[χει τεvσσαρας µηρου;ς και; γουvνατα τεvσσαρα, τα; τε αιjδοι'α δια; τω'ν οjπισθιvων σκελεvων προ;ς τη;ν ουjρη;ν τετραµµεvνα». (Hdt. 3, 103)

«Non descrivo l’aspetto del cammello, dal momento che i Greci lo conoscono; dirò invece ciò che i Greci non sanno: il cammello, nelle zampe posteriori, ha quattro ossa femorali e quattro ginocchia; il membro tra le zampe posteriori è rivolto verso la coda».

Lo storico greco tralascia volutamente la descrizione del morfotipo comportamentale del cammello per il semplice fatto che i Greci sembrano conoscere molto bene questo animale.41 Il sapere “zoologico” delle Historiae si connota quindi come una raccolta di singolarità inaudite degne di memoria e di meraviglia. In quest’ottica non vale la pena descrivere cose che i Greci già sanno; ci si limita semmai ad aggiungere piccoli tasselli al bagaglio enciclopedico a loro disposizione dal momento che il contenuto nucleare relativo al cammello sembra essere particolarmente omologato; ne conseguirà, implicitamente, che qualsiasi possibile esperienza percettiva da parte di un greco non potrà che essere portata a buon fine: un greco, se dovesse averlo davanti, dovrebbe riconoscere facilmente un cammello. In questo senso Erodoto può limitarsi ad accre40. È il caso, ad esempio, delle pecore indiane che vengono menzionate proprio perché diverse per molti tratti dalle pecore dei Greci (cfr. solo per fare un es. Ael. Nat. Anim. 3, 3; ma vd. anche Aristot. 8, 28, 606 a 8 sgg.: entrambi i passi si rifanno ad una notizia riportata da Ctesia FrGrHist 688 F. 45, 27) o del pappagallo in Arriano, animale del quale l’indografo non parla perché da molto ha cessato di essere atopos per i Greci ed i Romani (cfr. Ind. 15, 8-9). Per quanto riguarda la teoria secondo la quale in luoghi diversi gli esseri comuni e familiari presentano caratteristiche diverse cfr. ad es. Aristot. Hist. Anim. 8, 28, 605 b 22 sgg.; Paus. 9, 21, 5-6 (su quest’ultimo passo cfr. cap. 4, pp. 281 sg.). Per la retorica del thauma in Erodoto cfr. Hartog 1992, pp. 199 sgg. 41. Cfr. 1, 80, 2-5; 3, 9, 1; 7, 86, 2; 87; 184, 4. Cfr. inoltre Xen. Hell. 3, 4, 24 sui cammelli portati in Grecia da Agesilao. Per lo stato delle conoscenze “materiali” relative a questo animale cfr. la bibliografia data da Bodson 1998, n. 33 p. 144, oltre che da Asheri 1990, n. 103 p. 327 sgg., il quale nota che «i Greci conoscevano meglio il dromedario arabico da corsa (δροµα;ς καvµηλος) con una gobba sola; il tipo “battriano” a due gobbe è presente sui bassorilievi di Persepoli». Si noti come in nessuno dei passi erodotei citati in nota sia presente una sola descrizione dell’animale.

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scere il contenuto enciclopedico molare, dando per scontato che tutti i Greci possiedono un tipo cognitivo corretto dell’animale. A fronte di questa zoologia del meraviglioso e dell’ignoto, in cui poco spazio sembra essere riservato agli animali familiari o comunque ben noti, le cose cambiano di gran lunga con Aristotele. Proprio nel caso del cammello, ad esempio, lo Stagirita, anziché omettere, come aveva fatto Erodoto, la descrizione della physis dell’animale, traccia una vera e propria “sintesi” delle conoscenze raccolte in precedenza sulla bestia. Lo Stagirita infatti, benché sia verosimilmente al corrente del fatto che tutti i Greci conoscono i cammelli, riferisce che la gobba è il loro tratto peculiare, che si dividono in cammelli battriani (con due gobbe sul dorso) e cammelli arabi (con una sola gobba), che hanno l’organo genitale rivolto indietro e così via: «Αι J δε; καvµ ηλοι ι[διον ε[χουσι παρα; τα\λλα τετραvποδα το;ν

καλουvµενον υ{βον εjπι; τω'/ νωvτω/. ∆ιαφεvρουσι δ∆ αιJ Βαvκτριαι τω'ν ∆Αραβι vων: αι J µε;ν γα;ρ δυvο ε[χουσιν υ{βους, αι J δ∆ ε{να µοvνον, α[λλον δ∆ ε[χουσιν υ{βον τοιου'τον οι|ον α[νω εjν τοι'ς καvτω, εjφ∆ ου|, ο{ταν κατακλιθη'/ ειjς γοvνατα, εjστηvρικται το; α[λλο σω'µα. θηλα;ς µε;ν ου\ν ε[χει τεvτταρας ηJ καvµηλος ω{σπερ βου'ς, και; κεvρκον οJµοιvαν ο[νω/, το; δ∆ αιjδοι'ον ο[πισθεν. Και; γοvνυ δ∆ ε[χει εjν εJκαvστω/ τω'/ σκεvλει ε{ν, και; τα;ς καµπα;ς ουj πλειvους, ω{σπερ λεvγ ουσιv τινες, αjλλα; φαιvνεται δια; τη;ν υJποvσταλσιν τη'ς κοιλιvας. Και; αjστραvγ αλον ο{µοιον µε;ν βοι?, ιjσχνο;ν δε; και; µικρο;ν ωJς κατα; το; µεvγ εθος. ε[στι δε; διχαλο;ν και; ουjκ α[µφωδον, διχαλο;ν δ∆ ω|δε. εjκ µε;ν του' ο[πισθεν µικρο;ν ε[σχισται µεvχρι τη'ς δευτεvρας καµπη'ς τω'ν δακτυvλων: τα; δ∆ ε[µπροσθεν ε[σχισται µικροvν, ο{σον α[χρι τη'ς πρωvτης καµπη'ς τω'ν δακτυvλων εjπ∆ α[κρω/, τεvτταρα: και; ε[στι τι και; δια; µεvσου τω'ν σχισµαvτων, ω{σπερ τοι'ς χησιvν. οJ δε; πουvς εjστι καvτωθεν σαρκωvδης, ω{σπερ και; οιJ τω'ν α[ρκτων: διο; και; τα;ς ειjς ποvλεµον ιjουvσας υJποδου'σι καρβατιvναις, ο{ταν αjλγηvσωσιν». (Aristot. Hist. Anim. 2, 1, 499 a 13-30)

«Rispetto agli altri quadrupedi, i cammelli presentano una caratteristica loro propria, la cosiddetta gobba sul dorso. I cammelli battriani sono però diversi da quelli arabi: i primi infatti hanno due gobbe, i secondi una soltanto, mentre presentano nella parte inferiore del corpo un’altra gobba, simile a quella superiore, sulla quale si appoggia il resto del corpo quando s’inginocchiano. Il cammello poi ha quattro mammelle come il bue, una coda simile a quella dell’asino, e l’organo genitale rivolto all’indietro. E ha un ginocchio in ogni arto; esso non possiede numerose articolazioni, come dicono alcuni, bensì si tratta di un’apparenza dovuta alla contrazione dell’addome. L’astragalo è simile a quello del bue, ma è fragile e piccolo in rapporto alle sue dimensioni. Il cammello è artiodattilo ed è privo degli incisivi superiori. Il suo piede è diviso nel modo seguente: vi è una piccola fenditura che parte da dietro e giunge fino alla prima articolazione all’estremità delle dita; e vi è 114

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anche qualcosa che si stende attraverso le fenditure, come nelle oche. Il piede è inferiormente carnoso, come quello degli orsi, ed è per questo che, quando i cammelli vengono utilizzati in guerra, si mettono loro calzari di cuoio se soffrono ai piedi».

Se dunque la “zoologia” erodotea è una zoologia della singolarità e della differenza, intimamente legata alla unicità e alla discontinuità dei “luoghi”, se è una “scienza” che si limita ad offrire informazioni “etnozoologiche” di complemento rispetto ai dati posseduti dalla società autoctona rispetto al locutore, in Aristotele l’animale da un lato diventa oggetto di generalizzazione e ricapitolazione, dall’altro si inserisce nell’ambito di un sapere sintetico e, verrebbe quasi da dire, “enciclopedico” nel senso più pieno e tradizionale del termine.42 Il passo di Aristotele, infatti, riporta integralmente proprio quelle nozioni che probabilmente Erodoto aveva sottinteso. Lo storico di Turi infatti non menziona mai la gobba, né tanto meno istituisce una divisione fra i cammelli battriani e quelli arabi,43 non descrive le mammelle dell’animale, né si sofferma a parlare della dimensione degli astragali o delle caratteristiche della dentatura. Tutte cose che lo Stagirita ritiene invece di dover fare. È come se in Aristotele l’animale, anziché continuare ad essere un “marcatore di luogo”, sia diventato uno “spazio” (o un volume) uniforme da suddividere katà mere.44 In questo senso, a partire dalla Historia Animalium, la zoologia, divenuta anatomica, somiglia sempre di più all’attività del cartografo, che non solo tiene presente i contorni naturali dei paesi, ma si trova anche a definire le varie porzioni di spazio secondo criteri astratti che esulano dalle caratteristiche immediatamente visibili delle regioni da cartografare.45 Ebbene, in maniera analoga a quanto avviene nella cartografia, per Aristotele l’ani42. Il fatto che le “singolarità etnografiche” per certi versi perdano, nella Historia Animalium, il loro statuto di “fatti storici” è un problema che meriterebbe, in altra sede, una riflessione più approfondita. 43. È comunque da notare che una divisione di una classe di animali in due differenti sottogruppi è presente in Hdt. 3, 113, in cui si parla di δυvο γεvνεα οjι?ων. 44. A questo proposito Thom 1990, pp. 493 sg. ha recentemente paragonato l’analisi degli anomeomeri alla descrizione di quelli che in matematica vengono chiamati gli insiemi stratificati. Un simile raffronto chiarisce ulteriormente il punto di vista aristotelico: l’animale non è più un indicatore di luogo, bensì uno spazio (e un volume) da scomporre in strati di diverse dimensioni e dalle diverse conformazioni. 45. Un paragone fra l’attività del cartografo è quella dell’anatomista è istituito da Strabone in 2, 1, 30. Al geografo greco in realtà il paragone con la dissezione degli animali serve ad esporre il proprio progetto di una “anatomia geografica” che sia esente dagli alti livelli di matematizzazione e di astrazione propugnati da Eratostene e intende salvaguardare l’integrità delle “membra” che compongono lo spazio e che lo delimitano naturalmente (dati, questi, ininfluenti per la stesura della carta secondo Eratostene). Cfr. a questo proposito Jacob 1996, pp. 922 sgg.

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male non è più qualcosa di singolare e memorabile collegato “mnemotecnicamente” ad un luogo, bensì esso stesso diventa uno “spazio” in cui sono da ritagliare, materialmente o idealmente, singole parti, non solo in base alle sue caratteristiche fisiche visibili (katà melos), ma anche in virtù di criteri maggiormente astratti (katà meros).46 Esattamente come lo spazio può essere “smembrato” in base alla sua physiké perigraphé (il suo contorno naturale) immediatamente percepibile o, diversamente, essere tagliato in sphragides, in maniera analoga le parti degli animali possono essere suddivise in mele e poi in mere “anomeomere” e quindi “omeomere”.47 La descrizione di un animale dunque, così come la descrizione della terra, deve essere esaustiva: deve comprendere tutte le parti, esattamente come se si trattasse di una carta di cui il testo della Historia Animalium è il logos esplicativo.48 Come nella “scrittura della terra” è possibile segnare i fiumi e i monti e descriverne, per analogia con altri oggetti di natura, la conformazione, allo stesso modo di un animale bisogna catalogare e descrivere le parti, ricorrendo anche a comparazioni katà analogian con mele e mere di altri esseri viventi.49 L’animale diventa così lo “spazio”, privato di ogni natura “mnemotecnica” ed etnografica. Se infatti si ritorna, solo per fare un esempio, alla descrizione aristotelica del cammello, si vede bene come l’indicazione delle due località (Battriana e Arabia) sia funzionale ad una classificazione del genos e serva da mero espediente “denominativo” di due diversi eide dello stesso genos.50 La menzione dei due “luo46. Da Strab. 2, 1, 30 si intuisce che la dissezione katà mele sarebbe uno “smembramento” secondo le caratteristiche fisiche dell’animale, mentre la partizione katà mere sarebbe una ulteriore partizione in base a criteri meramente quantitativi e astratti. Evidentemente, nel parlare di dissezione katà mere per la geografia, Strabone fa implicitamente riferimento alla quadrettatura dello spazio (uniforme, omogeneo ed isotropo) in sphragides effettuata da Eratostene (cfr. a questo proposito Jacob 1993, pp. 394 sgg.; Jacob 1996, pp. 902 sgg.). Ringrazio sentitamente Andrea Cozzo per avermi aiutato a comprendere e ad interpretare il passo in questione. 47. Per la distinzione che Aristotele fa fra mere e mele cfr. Hist. Anim. 1, 1, 486 a 5 sgg. 48. Sull’abitudine di associare un logos alle carte cfr. Prontera 1984, pp. 232 sgg. 49. Per i gradi di identità e differenza negli animali cfr. Hist. Anim. 1, 1, 486 a 25-487 a 10. 50. Per il concetto di eidos e genos in Aristotele cfr. Pellegrin 1982, pp. 73 sgg., il quale sottolinea con forza la differenza che sussiste fra queste due categorie e le nostre categorie di “genere” e “specie”. A questo proposito Atran 1996, pp. 83 fa notare che la divisione in specie e generi non è universale e naturale, bensì culturalmente fondata. In particolare, a proposito del modello aristotelico, l’autore riprende quanto sostenuto da Pellegrin 1982 (pp. cit. sopra), e afferma che nello Stagirita non si può parlare di un vero e proprio progetto di costruzione di una tassonomia scientifica, vi è semmai una sistemazione della tassonomia folk tradizionale. Per una bibliografia aggiornata sul problema cfr. Repici 2000, n. 5 p. 260.

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ghi”, infatti, non serve come spunto per digressioni di tipo etnologico; ogni riferimento a culture “altre”; ogni “memoria” etnografica viene anzi espressamente occultata, esattamente come avviene, tendenzialmente, per quello che potremmo chiamare il sapere “antropologico” relativo agli animali e per la sfera delle loro “funzioni di uso”.51 Per il resto, nel passo in questione si fa soltanto un breve accenno all’abitudine in base alla quale «quando i cammelli vengono usati in guerra, si mettono calzari di cuoio se hanno male ai piedi» (2, 1, 499 a 28-30). Il dato, però, non viene presentato come una curiosità singolare, perché serve semmai a spiegare meglio la “natura” dei piedi dell’animale, e non certo per raccontare imprese straordinarie di cammelli in guerra.52 È ovvio infatti che, se l’animale è diventato uno “spazio” neutro da sezionare e nello stesso tempo viene occultato sistematicamente il “luogo” in cui esso vive e che contribuisce a differenziare e rendere disomogeneo, esso non è più buono per pensare intrecci narrativi simili a quello, per esempio, di cui sono protagonisti i myrmekes di Erodoto:53 descrivere e sezionare un animale (anche se mentalmente e in astratto), isolarlo dalla singolarità del suo habitat, significa, in fin dei conti, detenere un dominio totale e assoluto su di esso. Conoscere un animale significa non più “raccontarlo”, bensì descriverlo in base a criteri partinomici e quindi “possederlo”.54 1.4 Usare le Storie: il coccodrillo, Erodoto e Aristotele Nel paragrafo precedente si è preso in esame un animale di cui Aristotele non ha mai parlato (il myrmex indiano di Erodoto) e lo si è usato come paradigma esemplare di quello che si è indicato come uno dei modelli di discorso zoologico preesistenti alla Historia Animalium. A partire poi dal confronto fra i due passi relativi al cammello, rispettivamente in Erodoto e nello Stagirita, inoltre, si è fatto vedere più specificamente in che modo il discorso aristotelico sugli 51. Cfr. ad es. il riuso aristotelico del termine τεvρας (a proposito del quale rimando a n. 38, p. 31). 52. Sull’uso di cammelli in guerra in Erodoto cfr. Hdt. 7, 83, 2; 125. Cfr. inoltre 9, 81, 2 per i cammelli dati in dono a Pausania. 53. In un recente articolo, Labarrière 2000, pp. 120 sgg. ha dimostrato come gli stessi libri “etologici” della Historia Animalium (libri VIII e IX) non siano da vedere come semplici “favole” o situazioni narrative da mito, ma come «des arguments initialement construits pour servir une enquête sur les diverses formes d’intelligence». In particolare, l’autore (ibid.) ha dimostrato come il racconto del cammello che uccide il cammelliere dopo essere stato costretto ad accoppiarsi con la madre (Hist. Anim. 9, 47, 630 b 31-631 a 1) sia in realtà da spiegare in base alla teoria della phantasia e alle investigazioni psicologiche sulla vendetta fatte in Rhet. 2, 2, 1378 b 9 sgg. 54. Sul concetto di animale “schiavo” in Aristotele cfr. Vegetti 1994, pp. 128132.

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animali si differenzi dal discorso “etnozoologico” erodoteo, mostrando in particolare come esso sia caratterizzato in termini di generalizzazione e di sistemazione (e di “delocizzazione”) nei confronti di un bagaglio di informazioni che la tradizione storiografica aveva presentato unicamente come “singolari” e degne di memoria (e quindi come legate a contesti di natura prettamente etnografica). In questo paragrafo cercherò di dare maggiore forza alle conclusioni alle quali sono giunto nel paragrafo precedente attraverso un raffronto sistematico di alcuni passi tratti dalla Historia Animalium con i loci erodotei che Aristotele sembra avere usato come fonte. Da questa operazione verrà fuori come la differenza fra la Historia Animalium e la tradizione storiografica precedente non sia basata tanto sulla novità delle informazioni trasmesse, quanto sul modo in cui esse vengono presentate e “processate”. Il primo degli animali erodotei che viene ripreso nella Historia Animalium è il coccodrillo. L’animale viene presentato nell’ambito della rassegna degli animali che gli Egiziani ritengono sacri:55 «τω'ν δε; κροκοδειvλων φυvσις εjστι; τοιηvδε: του;ς χειµεριωταvτους µη'νας

τεvσσερας εjσθιvει ουjδεvν, εjο;ν δε; τετραvπουν χερσαι'ον και; λιµναι'οvν εjστι: τιvκτει µε;ν γα;ρ ω/jα; εjν γη'/ και; εjκλεvπει και; το; πολλο;ν τη'ς ηJµεvρης διατριvβει εjν τω'/ ξηρω/', τη;ν δε; νυvκ τα πα'σαν εjν τω'/ ποταµω'/: θερµοvτερον γα;ρ δηv εjστι το; υ{δωρ τη'ς τε αιjθριv ης και; τη'ς δροvσου. [2] παvντων δεv, τω'ν ηJµει'ς ι[δµεν, θνητω'ν του'το εjξ εjλαχιvστου µεvγ ιστον γιvνεται: τα; µε;ν γα;ρ ωj/α; χηνεvων ουj πολλω/' µεvζονα τιvκτει, και; οJ νεοσσο;ς κατα; λοvγ ον του' ωj/ου' γιvνεται, αυjξανοvµενος δε; γιvνεται και; εjς εJπτακαιvδεκα πηvχεας και; µεvζων ε[τι. [3] ε[χει δε; οjφθαλµου;ς µε;ν υJοvς, οjδοvντας δε; µεγαvλους και; χαυλιοvδοντας κατα; λοvγ ον του' σωvµατος. γλω'σσαν δε; µου'νον θηριvων ουjκ ε[φυσε. ουjδε; κινεvει τη;ν καvτω γναvθον, αjλλα; και; του'το µου'νον θηριvων τη;ν α[νω γναvθον προσαvγ ει τη'/ καvτω. [4] ε[χει δε; και; ο[νυχας καρτερου;ς και; δεvρµα λεπιδωτο;ν α[ρρηκτον εjπι; του' νωvτου. τυφλο;ν δε; εjν υ{δατι, εjν δε; τη/' αιjθριvη/ οjξυδερκεvστατον. α{τε δη; ω\ν εjν υ{δατι διvαιταν ποιευvµενον, το; στοvµα ε[νδοθεν φορεvει πα'ν µεστο;ν βδελλεvων. τα; µε;ν δη; α[λλα ο[ρνεα και; θηριvα φευvγ ει µιν, οJ δε; τροχιvλος ειjρηναι'οvν οι{ εjστι, α{τε ωjφελεοµεvνω/ προ;ς αυjτου': [5] εjπεα;ν γα;ρ εjς τη;ν γη'ν εjκβη'/ εjκ του' υ{δατος οJ κροκοvδειλος και; ε[πειτα χαvνη/ (ε[ωθε γα;ρ του'το ωJς το; εjπιvπαν ποιεvειν προ;ς το;ν ζεvφυρον), εjνθαυ'τα οJ τροχιvλος εjσδυvνων εjς το; στοvµα αυjτου' καταπιvνει τα;ς βδεvλλας: οJ δε; ωjφελευvµενος η{δεται και; ουjδε;ν σιvνεται το;ν τροχιvλον». (Hdt. 2, 68)

«Questa è la natura dei coccodrilli. Nei quattro mesi più freddi dell’inverno il coccodrillo non mangia nulla; è un animale a quattro 55. Cfr. Hdt. 2, 65, 2 sgg. Sugli animali egiziani in Erodoto cfr. Bodson 1998, pp. 159 sgg.

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zampe che vive nella terraferma e insieme nelle paludi; depone le uova e le fa schiudere nella terraferma e passa la maggior parte della giornata all’asciutto; la notte invece la passa nel fiume: la temperatura dell’acqua, infatti, è più alta rispetto a quella dell’aria aperta e della rugiada. [2] Di tutti gli esseri che conosciamo, è quello che da più piccolo che è diventa più grande; le uova che depone non sono molto più grandi di quelle delle oche e il piccolo nasce in proporzione all’uovo; crescendo, tuttavia, può arrivare a misurare fino a diciassette cubiti e anche di più. [3] Ha occhi di maiale, denti grandi e sporgenti, in proporzione rispetto al corpo. È il solo di tutti gli animali a non avere la lingua e in più non riesce a muovere la mascella inferiore. In compenso è l’unico animale ad essere capace di fare combaciare la mascella superiore con quella inferiore. [4] Ha artigli potentissimi e la sua pelle è squamosa e praticamente invulnerabile sul dorso. In acqua è cieco, ma all’aria aperta è dotato di una vista acutissima. Dato che passa la sua vita in acqua, quando esce ne riporta la bocca tutta piena di sanguisughe. Gli altri uccelli lo evitano, ma il trochilo vive in pace con lui, dal momento che gli è di grande aiuto. [5] Quando infatti il coccodrillo passa dall’acqua alla terraferma e se ne sta a bocca spalancata (è solito farlo rivolgendosi verso lo zefiro), allora il trochilo gli entra nella bocca e inghiotte tutto d’un fiato le sue sanguisughe. Al coccodrillo piace essere aiutato e per questo non fa alcun male al trochilo».

Il passo appena letto non può non sorprendere. Erodoto, infatti, in un certo senso, svolge il lavoro che avrebbe svolto Aristotele. La “mappa” dell’animale è – si potrebbe dire – esaustiva e segna nello spazio della descrizione tutte le informazioni possibili, dall’habitat, alla morfologia, all’etologia dell’animale. È come se Erodoto avesse seguito alla lettera tutti gli “assi di divisione” che lo Stagirita avrebbe preso in considerazione nei suoi raggruppamenti.56 Ma pri56. Cfr. Hist. Anim. 1, 1, 487 a 10 sgg. (citato più avanti nel testo principale a p. 121). Per l’interesse di Aristotele per i “raggruppamenti” cfr. Lloyd 1997, pp. 550 sgg. Ritengo personalmente che il termine “raggruppamento” sia di gran lunga più utile e meno anacronistico del termine “classe” (a questo proposito cfr. anche Lloyd 1993, pp. 641 sgg.). Si noti come per certi versi la logica del “raggruppamento” non sia in fondo dissimile dall’esigenza del genere historia di dare al lettore “impressioni di totalità” (cfr. Canfora 1972, p. 24): la raccolta di correlazioni universali in un certo senso risponde all’esigenza di “raccontare” tutti gli animali. Allo stesso tempo però questa impressione di “totalità” viene costruita attraverso il ricorso ad una selezione che opera nei confronti del sapere etnozoografico. Credo che comunque non sia da confondere la logica del raggruppamento, che risponde ad una esigenza di “totalità”, con la logica della tassonomia scientifica. In questo senso seguo l’ipotesi di Pellegrin 1982, pp. 73 sgg. ribadita in Id. 1990, p. 38, secondo la quale la logica del “raggruppamento”, nell’opera aristotelica, risponderebbe ad esigenze pratiche di sistemazione: tutti i tratti e tutte le proprietà degli animali sono considerati volta per volta pertinenti e volta per volta vengono scelti come “assi di divisione” (in questo senso laddove la tassonomia crea una scala di priorità nell’individuazione di determinati assi di divisione, non è così per i raggruppamenti aristotelici).

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ma di arrivare a conclusioni affrettate è forse meglio analizzare bene il passo, paragrafo per paragrafo. La descrizione dell’animale comincia con l’individuazione del bios. Tutto il primo paragrafo è mosso da un andamento antifrastico che crea un potente effetto di paradosso: «εjο;ν δε; τετραvπουν χερσαι'ον και; λιµναι'οvν εjστι» (2, 68, 1: «è un animale a quattro zampe che vive nella terraferma e insieme nelle paludi»). Il chiasmo sottolinea la singolarità della physis: il coccodrillo è insieme un animale di terra e un animale di palude. Le successive antifrasi ampliano, per aggiunta, il concetto espresso da questa frase: «το; πολλον; της' ηµ J ερ v ης διατριβ v ει εν j τω'/ ξηρω,/' την ; δε; νυκ v τα πασ ' αν εν j τω/ ' ποταµω» ' / (2, 68, 1: «passa la maggior parte della giornata all’asciutto; la notte invece la passa nel fiume»). Dopo aver terminato l’analisi del bios, Erodoto passa alla trattazione delle modalità di riproduzione (2, 68, 1). L’animale è un ootokon (che genera uova), ma la notizia viene presentata in maniera tale da sembrare paradossale: «Di tutti gli esseri che conosciamo, è quello che da più piccolo che è diventa più grande» (2, 68, 2). Le dimensioni dell’animale, nel momento della nascita e dopo la crescita, stanno fra di loro in rapporto di inversione. A venire sottolineata non è dunque, in effetti, la ootokia, bensì la particolare peculiarità del processo di crescita dell’animale. A partire dal terzo paragrafo, Erodoto comincia a descrivere i tratti morfologici del coccodrillo insistendo in particolare sui tratti che lo rendono unico (si noti l’anafora di µου'νον in 2, 68, 3). Il ricorso alle analogie con altri animali (l’oca per la descrizione delle uova nel paragrafo precedente, e il maiale per gli occhi) devono farci pensare che il coccodrillo non potesse essere un animale “comune” per i Greci. In altri termini, il coccodrillo non è il cammello;57 i Greci, dunque, nel momento in cui Erodoto lo descrive, probabilmente non possono sapere molto sulle caratteristiche della sua lingua e sulle singolarità della mascella inferiore. Particolari questi che, ancora una volta, sono presentati in maniera antifrastica: «è l’unico animale ad essere capace di fare combaciare la mascella superiore con quella inferiore». La menzione della mascella inferiore si accompagna, per antitesi, a quella della mascella superiore rafforzan57. Stando alle testimonianze forniteci dalle decorazioni musive di quel periodo, un tipo cognitivo “corretto” dell’animale doveva circolare già nel II e nel I sec. a.C. (cfr. ad esempio appendice, fig. 1; sulle immagini del coccodrillo cfr. anche Toynbee 1973, pp. 218-220). A poco a poco comunque, con il passare dei secoli, le caratteristiche morfologiche di questo animale, divenuto sempre meno “visibile”, dovettero cadere in parte nell’oblio. Nel Bestiario di Cambridge, ad esempio, ad accompagnare il testo relativo all’animale, c’è una miniatura che raffigura un essere che assomiglia ben poco al coccodrillo e che per di più sembra essere coperto di pelo come un mammifero (cfr. White 19695, p. 49; vd. fig. 2 in appendice). Per il coccodrillo nel Medio Evo, ad ogni modo, cfr. Radogna 1997, pp. 519 sgg.

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do così la simmetria delle opposizioni che già si cominciava a delineare fin dal primo paragrafo. Questa particolare simmetria viene ulteriormente ribadita nel paragrafo successivo: dopo una breve descrizione delle unghie e della pelle ricoperta di squame, lo storico ci informa infatti che il coccodrillo «In acqua è cieco, ma all’aria aperta è dotato di una vista acutissima» (2, 68, 4). In maniera antifrastica viene presentato anche il rapporto con il trochilo: «gli altri uccelli lo evitano, ma il trochilo vive in pace con lui, dal momento che gli è di grande aiuto». Allo stesso modo c’è una sorta di parallelismo nel dire che mentre il coccodrillo non mangia il trochilo, il trochilo mangia le sanguisughe che infestano i suoi denti (2, 68, 5). Insomma è come se ogni tratto della belva fosse usato per accrescere, nel lettore, il sospetto che l’animale abbia una physis doppia. Animale a due nature (una acquatica e una terrestre), piccolo e grande insieme, nocivo e mansueto (anche se soltanto nei confronti del trochilo), il coccodrillo è il tipico essere axion mnemes. Ancora una volta la “zoologia” di Erodoto è una zoologia della differenza e della singolarità. E tuttavia, nonostante tutto, Aristotele, forse anche in seguito alla esaustività con cui lo storico ha descritto i tratti dell’animale, non può fare a meno di prendere per buone le informazioni date dallo storico di Turi. Le rubriche di descrizione che ha usato Erodoto, in fondo, non sono molto differenti da quelle elencate dallo Stagirita all’inizio della Historia Animalium: «αιJ δε; διαφοραι; τω'ν ζωv/ων ειjσι; κατα; τε του;ς βιvους και; τα;ς πραvξεις και; τα; η[θη και; τα; µοvρια». (Hist. Anim. 1, 1, 487 a 10-11)

«Le differenze degli animali possono essere secondo il modo di vita, le attività, il carattere e le parti».58

Come si vede bene, se escludiamo il fatto che non vengono descritte le parti “interne” dell’animale oggetto di excursus, in 2, 68 Erodoto, in fondo, è come se tenesse presenti tutti i livelli di differenza di cui parla Aristotele nel passo appena letto, tanto che viene il sospetto che sia per questo motivo che nella Historia Animalium vengono confermate quasi tutte le notizie trasmesse da Erodoto (comprese quelle relative alla mascella inferiore della bestia):59 «τα; δε; τετραvποδα µε;ν ωj/οτοvκα δε; και; ε[ναιµα (ουjδε;ν δε; ωj/οτοκει' χερσαι'ον και; ε[ναιµον µη; τετραvπουν ο]ν η] α[πουν) κεφαλη;ν µε;ν ε[χει 58. Lanza e Vegetti 1971, p. 132. 59. Per l’errore commesso da Erodoto e Aristotele circa l’immobilità della mascella inferiore e la mancata presenza della lingua cfr. Manquat 1932, pp. 37 sgg. e pp. 117 sgg.

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και; αυjχεvνα και; νω'τον και; τα; πρανη' και; τα; υ{πτια του' σωvµατος, ε[τι δε; σκεvλη προvσθια και; οjπιvσθια και; το; αjναvλογον τω'/ στηvθει, ω{σπερ τα; ζω/οτοvκα τω'ν τετραποvδων, και; κεvρκον τα; µε;ν πλει'στα µειvζω, οjλιvγ α δ∆ εjλαvττω. παvντα δε; πολυδαvκτυλα και; πολυσχιδη' εjστι τα; τοιαυ'τα. προ;ς δε; τουvτοις τα; αιjσθητηvρια και; γλω'τταν παvντα, πλη;ν οJ εjν Αιjγ υvπτω/ κροκοvδειλος. ου|τος δε; παραπλησιvως τω'ν ιjχθυvων τισιvν: ο{λως µε;ν γα;ρ οιJ ιjχθυvες αjκανθωvδη και; ουjκ αjπολελυµεvνην ε[χουσι τη;ν γλω'τταν, ε[νιοι δε; παvµπαν λει'ον και; αjδιαvρθρωτον το;ν τοvπον µη; εjγ κλιvναντι σφοvδρα το; χει'λος. ω\τα δ∆ ουjκ ε[χουσιν αjλλα; το;ν ποvρον τη'ς αjκοη'ς µοvνον παvντα τα; τοιαυ'τα: ουjδε; µαστουvς, ουjδ∆ αιjδοι'ον, ουjδ∆ ο[ρχεις ε[ξω φανερου;ς αjλλ∆ εjντοvς, ουjδε; τριvχας, αjλλα; παvντ∆ εjστι; φολιδωταv. ε[τι δε; καρχαροvδοντα παvντα. οιJ δε; κροκοvδειλοι οιJ ποταvµιοι ε[χουσιν οjφθαλµου;ς µε;ν υJοvς, οjδοvντας δε; µεγαvλους και; χαυλιοvδοντας και ; ο[νυχας ι jσ χυρου;ς και ; δεvρµα α[ρρηκτον φολιδωτοvν: βλεvπουσι δ∆ εjν µε;ν τω'/ υ{δατι φαυvλως, ε[ξω δ∆ οjξυvτατον. τη;ν µε;ν ου\ν ηJµεvραν εjν τη'/ γη/' το; πλει'στον διατριvβει, τη;ν δε; νυvκτα εjν τω'/ υ{δατι: αjλεεινοvτερον γα;ρ εjστι τη'ς αιjθριvας». (Hist. Anim. 2, 10, 502 b 28-503 a 14)

«I quadrupedi ovipari e sanguigni (non c’è nessun animale di terra e sanguigno che deponga uova e che insieme non sia allo stesso tempo quadrupede o senza zampe) hanno testa, collo, schiena e parti dorsali e ventrali del corpo. Ancora, hanno le zampe davanti e dietro e una parte che è analoga al petto, come i quadrupedi vivipari. Inoltre hanno una coda per lo più molto più grande, rare volte più piccola. Animali simili sono tutti polidattili e hanno il piede fesso da molte divisioni. Oltre a tutte queste cose hanno tutti gli organi sensoriali e la lingua, ad eccezione del coccodrillo egiziano. Questo animale infatti è simile ad alcuni pesci: in generale infatti i pesci hanno la lingua spinosa e poco libera, alcuni invece hanno la lingua completamente liscia e inarticolata, sempre che non si spalanchino loro le labbra. Tutti gli animali di questo raggruppamento non hanno orecchie, ma soltanto una piccola fessura atta all’udito. Non hanno né mammelle né membro genitale, né testicoli visibili all’esterno (essi sono infatti organi interni), non hanno peli, ma sono coperti di squame. Inoltre sono tutti animali dotati di denti a sega. I coccodrilli fluviali hanno occhi di maiale, denti grandi e sporgenti, unghioni robusti e la loro pelle è squamosa e impenetrabile. Quando sono in acqua ci vedono poco e male, ma fuori dall’acqua la loro vista è acutissima. Di giorno passano la maggior parte del loro tempo sulla terraferma, di notte invece stanno in acqua: è infatti più calda dell’aria aperta».

Aristotele usa Erodoto come fonte e lo riassume (correggendolo a proposito della lingua dell’animale);60 ma, anche se sono quasi tut60. Cfr. Lanza e Vegetti 1971, n. 34 p. 182: «il pensiero aristotelico è chiarito in Part. Anim. 660 b 25 sgg. e 690 b 20 sgg. Il coccodrillo nilotico possiede una lingua, ma interamente saldata al palato e priva di papille».

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ti presenti, in un certo qual modo vengono, per così dire, “compressi”. Si parla, ad esempio, delle zanne a forma di sega (chauliodonta),61 ma non viene fatta alcuna menzione del trochilo; Aristotele accenna inoltre alle unghie, alla pelle squamosa e menziona molto velocemente la natura anfibia dell’essere (di cui vengono notate le analogie con i pesci) e la natura particolare della sua vista senza dilungarsi particolarmente sulla paradossalità di queste caratteristiche. Per il resto tutti gli altri tratti annoverati da Erodoto vengono considerati come propri del raggruppamento che comprende anche il coccodrillo: il fatto che il coccodrillo abbia una testa, gambe, una schiena, parti dorsali e ventrali e che sia polidattilo può essere dedotto implicitamente a partire dalle caratteristiche proprie dal raggruppamento nel quale viene inserito (gli animali tetrapoda, ootoka kai enaima, cioè: a quattro zampe, che generano uova e sanguigni). A suo modo, però, il coccodrillo rappresenta un’eccezione: si noti che il suo essere chauliodon risulta una deviazione dalla tendenza generale in base alla quale gli animali tetrapoda, ootoka ed enaima sono tutti karcharodonta (con i denti a sega). Il coccodrillo, inoltre, è l’unico di tutti gli animali del raggruppamento che non è munito di lingua e di aistheteria (organi di senso). Eppure, per certi versi, l’eccezione tende pur sempre ad essere compresa da un sistema di generalizzazioni:62 il coccodrillo fa pur sempre parte della classe degli ootoka kai enaima kai tetrapoda dei quali condivide le principali caratteristiche. L’animale insomma viene compreso in un sistema, è posto in uno spazio “neutro” in cui le analogie morfologiche non sono più soltanto ostensive, ma diventano tratti pertinenti per una classificazione che nello stesso tempo funziona anche da meccanismo inferenziale:63 disporre gli animali nello spazio astratto e generico del “raggruppamento” e della correlazione universale, catalogarli in base ad analogie e corrispondenze “pertinenti”, sapere quali altre caratteristiche si accompagnano alla presenza di determinati organi implica infatti la possibilità di avvalersi di una vera e propria “macchina” per la costru61. L’uso di termini “classificatori” come chauliodonta e tetrapoda dovrebbe essere studiato meglio. Il mio sospetto è che Aristotele ne faccia, in Hist. Anim. 1, 1, 487 a 10-11, un uso non “sistematico”, bensì “descrittivo”. Del resto, l’uso della parola tetrapoda per indicare tassonomicamente una classe è qualcosa che riguarda Linneo molto più di quanto non possa riguardare Aristotele o, in genere, gli antichi. Cfr. a questo proposito Ritvo 1997, p. 17: la studiosa fa notare come la leggenda di Aristotele tassonomista viene “fondata” con il sorgere dell’interesse per la tassonomia “scientifica”; notoriamente di diverso avviso è invece Lloyd 1985, spec. p. 252. 62. Riguardo all’apertura delle teorie aristoteliche nei confronti delle eccezioni e dei dati problematici si vedano le osservazioni di Lloyd 1996, passim (ma spec. p. 82, in cui l’autore mostra come lo Stagirita, relativamente alle cosiddette “fuzzy natures”, sia capace di rivedere le proprie posizioni generali). 63. Cfr. n. 50, p. 116.

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zione di deduzioni e per la formulazione di ipotesi su dati non immediatamente controllabili e verificabili.64 Erodoto non parla affatto dell’apparato uditivo né tanto meno di quello riproduttivo del coccodrillo, eppure sembra che Aristotele abbia qualcosa da aggiungere in questo senso: «non hanno orecchie, ma soltanto una piccola fessura atta all’udito. Non hanno né mammelle né membro genitale, né testicoli visibili all’esterno (essi sono infatti organi interni), non hanno peli, ma sono coperti di squame». Queste asserzioni, se sono valide per tutti gli animali dello stesso raggruppamento, saranno valide anche per i coccodrilli. Certo, Aristotele potrebbe aver visto effettivamente un coccodrillo in carne ed ossa, o avere avuto notizie ancora più precise e dettagliate da altre fonti; eppure, anche se così non dovesse essere stato, a partire dai tratti definitori del raggruppamento preso in considerazione, avrebbe potuto comunque ipotizzare tratti e caratteristiche altrimenti impossibili da notare sulla base della sola descrizione di Erodoto. Il raggruppamento, in altri termini, diventa una sorta di macchina inferenziale che permette di dire più di quanto i racconti etnografici possano dire. Questo accrescimento in termini di sapere “naturale” sulla morfologia e sulle caratteristiche fisiche e biologiche dell’animale, tuttavia, sembra essere possibile soltanto a scapito di un altro tipo di sapere: quello “culturale” ed etnografico. Se si confronta infatti la “versione” erodotea del coccodrillo con quella di Aristotele, ci si accorge che alcune delle informazioni presenti nel testo delle Storie, nella Historia Animalium vengono omesse o comunque messe in secondo piano in quanto scarsamente degne di nota. La qual cosa risulta evidente dai passi che stiamo per leggere: «τοι'σι µε;ν δη; τω'ν Αιjγ υπτιvων ιJροιv ειjσι οιJ κροκοvδειλοι, τοι'σι δε; ου[, αjλλ∆ α{τε πολεµιvους περιεvπουσι. οιJ δε; περιv τε Θηvβας και; τη;ν Μοιvριος λιvµνην οιjκεvοντες και; καvρτα η{γ ηνται αυjτου;ς ει\ναι ιJρουvς. [2] εjκ παvντων δε; ε{να εJκαvτεροι τρεvφουσι κροκοvδειλον, δεδιδαγµεvνον ει\ναι χειροηvθεα, αjρτηvµαταv τε λιvθινα χυτα; και; χρυvσεα εjς τα; ω\τα εjσθεvντες και; αjµφιδεvας περι; του;ς εjµπροσθιvους ποvδας και; σιτιvα αjποτακτα; διδοvντες και ; ι Jρη vι α και ; περιεvποντες ωJς καvλλιστα ζω'ντας: αjποθανοvντας δε; θαvπτουσι ταριχευvοντες εjν ιJρη/'σι θηvκη/σι. [3] οιJ δε; περι; ∆Ελεφαντιvνην ποvλιν οιjκεvοντες και; εjσθιvουσι αυjτουvς, ουjκ ηJγ εοvµενοι ιJρου;ς ει\ναι. καλεvονται δε; ουj κροκοvδειλοι αjλλα; χαvµψαι. κροκοδειvλους δε; [Ιωνες ωjνοvµασαν, ειjκαvζοντες αυjτω'ν τα; ει[δεα τοι'σι παρα; σφιvσι γινοµεvνοισι κροκοδειvλοισι τοι'σι εjν τη'/σι αιJµασιη'/σι». (Hdt. 2, 69)

64. A proposito dell’uso dell’inferenza semeiotica in Aristotele cfr. Lanza e Vegetti 1971, pp. 99 sgg. Sulle correlazioni universali cfr. Lloyd 1985, pp. 251 sg. Sul valore euristico dell’analogia in Aristotele cfr. Lloyd 1996, pp. 138 sgg. (spec. p. 158).

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«Per alcuni Egiziani i coccodrilli sono sacri, mentre per altri non lo sono (anzi addirittura li trattano come se fossero dei nemici). Gli Egiziani che vivono presso Tebe e intorno al lago Meride li ritengono sacri al di sopra di ogni altro animale. [2] Entrambe le tribù infatti nutrono un solo coccodrillo, addestrato ad essere domestico. Gli mettono alle orecchie pendenti di pietre fuse e d’oro e alle zampe anteriori applicano dei braccialetti; gli danno cibi ben definiti e vittime sacre e finché sono in vita li trattano benissimo. Quando muoiono li seppelliscono dopo averli imbalsamati in urne sacre. [3] Le tribù che vivono nei pressi della città di Elefantina, dal momento che non ritengono sacri questi animali, se li mangiano; non li chiamano coccodrilli, ma “champsai”. A chiamarli coccodrilli sono stati gli Ioni, dal momento che ritenevano che fossero simili, nell’aspetto, alle lucertole (che chiamano per l’appunto “coccodrilli”) che si trovano presso di loro e che stanno sui muri a secco»

L’assimilazione del coccodrillo ad altri animali ootoka, tetrapoda kai enaima in fondo è precedente ad Aristotele. Sono stati gli Ioni per primi a notare la somiglianza con le lucertole (una somiglianza in base alla quale viene assegnata la denominazione folk). Ma mentre in Erodoto il dato più importante è il dato religioso e culturale (e la notizia relativa alla analogia fra i coccodrilli e le lucertole è meramente secondaria o comunque indicativa unicamente degli usi e dei costumi di due popoli), Aristotele prende atto dell’analogia ostensiva per generalizzarla e trasformarla così in ipotesi di lavoro sulla morfologia del coccodrillo, scartando quanto di “antropologico” (e quindi, nella sua ottica, marginale) ci possa essere e omettendo pertanto di sottolineare i riferimenti alle credenze e alle pratiche religiose (o addirittura razionalizzandoli): «Κινδυνευvει δεv, ειj αjφθονιvα τροφη'ς ει[η, προvς τε του;ς αjνθρωvπους α]ν ε[χειν τιθασσω'ς τα; νυ'ν φοβουvµενα αυjτω'ν και; αjγ ριαιvνοντα, και; προ;ς α[λληλα το;ν αυjτο;ν τροvπον. δη'λον δε; ποιει' του'το ηJ περι; Αι[γ υπτον εjπιµεvλεια τω'ν ζω/vων: δια; γα;ρ το; τροφη;ν υJπαvρχειν και; µη; αjπορει'ν µετ∆ αjλληvλων ζω'σι και; αυjτα; τα; αjγ ριωvτατα: δια; τα;ς ωjφελειvας γα;ρ ηJµερου'ται, οι|ον εjνιαχου' το; τω'ν κροκοδειvλων γεvνος προ;ς το;ν ιJερεvα δια; τη;ν εjπιµεvλειαν τη;ν τη'ς τροφη'ς. το; δ∆ αυjτο; του'τ∆ ε[στιν ιjδει'ν και; περι; τα;ς α[λλας χωvρας γινοvµενον, και; κατα; µοvρια τουvτων». (Hist. Anim. 9, 1, 608 b 29 - 609 a 4)

«È probabile che, se ci dovesse essere sovrabbondanza di cibo, gli animali selvaggi che al giorno d’oggi sono temuti comincino a vivere in tutta familiarità con gli uomini e, allo stesso modo, gli uni con gli altri. Questo risulta chiaro se si pensa alla cura che hanno gli Egiziani nei confronti dei coccodrilli. Gli Egiziani, infatti, forniscono loro il cibo e non glielo fanno mai mancare: proprio per questo ne consegue che questi animali riescono a vivere in mezzo agli uomini e gli uomini, di contro, vivono con loro, anche quando Capitolo 2. Ipotesi sul manticora. Aristotele e gli animali “paradossali”

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sono più selvaggi. Questi animali infatti diventano mansueti proprio a causa del vantaggio che ricevono dagli esseri umani, come avviene talvolta ai coccodrilli che si trovano presso i sacerdoti (che si occupano del loro nutrimento). È possibile vedere un fenomeno simile anche in altri paesi e in altre regioni dell’Egitto».

Il culto del coccodrillo in Egitto non è dunque più, per così dire, una “curiosità etnografica”, ma entra a far parte di una “differenza” fondamentale fra quelle contemplate dallo Stagirita nel primo libro della Historia Animalium, quella cioè secondo cui «ci sono animali domestici e selvatici: alcuni sono sempre domestici (come ad esempio l’uomo e il mulo), altri, invece (come il leopardo e il lupo) sono sempre selvatici; altri ancora possono essere rapidamente addomesticati, come ad esempio l’elefante» (Hist. Anim. 1, 1, 488 a 26-29).65 La cultura del “luogo”, infatti, non interessa in alcun modo ad Aristotele, per il quale spiegare l’ethos dell’animale in base al fenomeno dell’addomesticamento è in un certo qual modo una maniera di proiettarlo sullo spazio neutro della generalizzazione e del raggruppamento. In qualche modo il coccodrillo, in base all’asse di divisione determinato dai modi di vita, si trova a condividere la stessa casella con l’elefante. Non importa quindi quali siano le pratiche di culto in uso in Egitto né importa tanto meno raccontare il modo in cui gli Egiziani catturano l’animale. La historia di Aristotele, dunque, – come ha osservato Vegetti – se da un lato svela l’essere vivente, collocato, come si è visto, nello “spazio” comune dei raggruppamenti, dall’altro nasconde le sue singolarità nella rete delle correlazioni universali e occulta le differenze antropologiche ed etnologiche che fanno parte della memoria dei “luoghi”.66 Il medesimo processo di occultamento delle informazioni “antropologiche” date dalla fonte è messo in atto anche in altri passi, anche nei libri sovente non attribuiti ad Aristotele.67 Per la descrizione degli ibis, ad esempio, nella Historia Animalium (Hist. Anim. 9, 27, 617 b 29 sgg.) viene presa per buona la ripartizione in ibis neri e ibis bianchi che si ricava da Erodoto (2, 75-76), ma ancora una volta, come accade per tutti gli altri casi, non viene fatta menzione del culto ad essi 65. Hist. Anim. 1, 1, 488 a 26-29: «ε[τι δ∆ η{µερα και; α[γ ρια, και; τα; µε;ν αjει;, οι|ον ο[νος και; οjρευ;ς αjει; η{µερα, τα; δ∆ α[γ ρια, ω{σπερ παvρδαλις και; λυvκος: τα; δε; και; ηJµερου'σθαι δυvναται ταχυv, οι|ον εjλεvφας». 66. Sullo “svelare e nascondere” della zoologia aristotelica cfr. Vegetti 1994, p. 125. 67. Per i passi in cui Erodoto è fonte di Aristotele rimando a Manquat 1932, pp. 37 sgg. Faccio però presente che non è da escludere che, in alcuni casi (ad esempio Hist. Anim. 1, 1, 487 a 22 sgg.; 6, 31, 579 b 1 sgg.; 8, 28, 606 b 14 sgg.), Aristotele, più che rifarsi al testo “scritto” di Erodoto, possa anche aver tenuto conto di tradizioni orali di motivi largamente diffusi.

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tributato in Egitto. Un caso del tutto particolare sembra poi essere quello dell’ippopotamo, descritto da Erodoto in 2, 71: «οιJ δε; ι{πποι οιJ ποταvµιοι νοµω'/ µε;ν τω'/ Παπρηµιvτη/ ιJροιv ειjσι, τοι'σι δε;

α[λλοισι Αιjγ υπτιvοισι ουjκ ιJροιv. φυvσιν δε; παρεvχονται ιjδεv ης τοιηvνδε: τετραvπουν εjστιv, διvχηλον, οJπλαι; βοοvς,68 σιµοvν, λοφιη;ν ε[χον ι{ππου, χαυλιοvδοντας φαι'νον, ουjρη;ν ι{ππου και; φωνηvν, µεvγ αθος ο{σον τε βου'ς οJ µεvγ ιστος. το; δεvρµα δ∆ αυjτου' ου{τω δηv τι παχυv εjστι ω{στε αυ[ου γενοµεvνου ξυστα; ποιεvεσθαι αjκοvντια εjξ αυjτου» ' .

«Gli ippopotami sono sacri nel nomo di Papremis, per gli altri Egiziani, invece, non sono sacri. Questa è la natura di questo animale: è un animale a quattro zampe con le unghie fesse, ha gli zoccoli di un bue, è camuso e ha la criniera di un cavallo, ha zanne sporgenti, coda e voce di cavallo; è grande quanto il più grande dei buoi. La sua pelle è così spessa che con essa, una volta disseccata, si fanno lance levigate».

La descrizione erodotea comincia con la menzione delle differentiae negli usi cultuali per poi proseguire su un asse più decisamente morfologico. L’ippopotamo, animale ignoto ai Greci, viene fatto conoscere attraverso il mezzo usuale dell’analogia ostensiva:69 è un tetrapous con le unghie fesse che ha tratti simili a quelli del bue e del cavallo. La sua pelle è spessissima e durissima, tanto che da essa vengono ricavate lance. Nel testo della Historia Animalium, così come ci è pervenuto, la descrizione erodotea viene ripresa in maniera pressoché fedele: «οJ δ∆ ι{ππος οJ ποταvµιος οJ εjν Αιjγ υvπτω/ χαιvτην µε;ν ε[χει ω{σπερ ι{ππος,

διχαλο;ν δ∆ εjστι;ν ω{σπερ βου'ς, τη;ν δ∆ ο[ψιν σιµοvς. ε[χει δε; και; αjστραvγ αλον ω{σπερ τα; διχαλαv, και; χαυλιοvδοντας υJποφαινοµεvνους, κεvρκον δ∆ υJοvς, φωνη;ν δ∆ ι{ππου: µεvγ εθος δ∆ εjστι;ν ηJλιvκον ο[νος. του' δε; δεvρµατος το; παvχος ω{στε δοvρατα ποιει'σθαι εjξ αυjτου'. τα; δ∆ εjντο;ς ε[χει ο{µοια ι{ππω/ και; ο[νω/». (Hist. Anim. 2, 7, 502 a 9-15)

«L’ippopotamo, che si trova in Egitto, ha una criniera come quella del cavallo. Ha le unghie fesse come il bue e l’aspetto camuso. Ha un astragalo (come tutti gli animali con le unghie fesse), zanne sporgenti, coda di maiale, voce di cavallo. Di grandezza è simile ad un asino. La sua pelle è così spessa che se ne possono ricavare lance. Le parti interne sono simili a quelle del cavallo e dell’asino». 68. Mi discosto qui dalla lezione di Rosén 1987, ad l., il quale prende per buona la congettura di Stein che elimina dal testo οJπλαι; βοοvς. 69. Per lo stato delle conoscenze dei Greci sull’ippopotamo cfr. Keller 1909, pp. 406 sg., oltre che Bodson 1998, p. 143.

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Mario Vegetti ha pensato di espungere questo passo in quanto «incongruo al testo e pieno di imprecisioni», spiegandolo come una «interpolazione da Erodoto».70 In effetti, l’incipit della digressione («οJ δ∆ ι{ππος οJ ποταvµιος οJ εjν Αιjγ υvπτω/ χαιvτην µε;ν ε[χει ω{σπερ βου'ς») poco si lega con l’argomento trattato immediatamente prima (le diverse dimensioni della bocca negli animali). Bisogna però osservare che se un copista ha interpolato il passo, doveva certamente conoscere bene la maniera di Aristotele di usare Erodoto. Infatti, oltre ad essere occultato il riferimento agli usi cultuali (degli Egiziani di Papremis e di tutti gli altri) viene aggiunta una informazione sugli organi interni dell’ippopotamo, basata evidentemente, secondo un modo di procedere tipicamente aristotelico, su una analogia fra esterno e interno. Dal momento che il “cavallo dei fiumi” appare per molti tratti come simile ai cavalli e agli asini, allora le sue parti interne dovranno necessariamente essere analoghe a quelle dei cavalli e degli asini. È certo possibile che il passo sia effettivamente da espungere, ma il fatto è che l’eventuale interpolatore, nell’aggiungere la ekphrasis dell’ippopotamo, ha seguito un modo di procedere tipico di Aristotele; un modo di procedere secondo il quale Erodoto, nella Historia Animalium, viene tendenzialmente usato come fonte degna di fede per quanto riguarda certi animali; ma qua e là deve essere corretto ed integrato.71 Quella dello storico di Turi è insomma una opsis di cui tenere conto, soltanto però a condizione di mutare il punto di vista della historia che, per dirla con Farinelli 1993 (pp. 43 sgg.), non può essere più quello “anisotropico” della disomogeneità dei luoghi, ma quello “isotropico” in base al quale l’animale viene visto genericamente come “spazio” da cartografare e descrivere.72 Bisogna però notare che tutte le volte che Aristotele decide di prendere per buone (adattandole ovviamente al “sistema” della sua scienza della vita) le informazioni tratte da Erodoto, quest’ultimo non viene mai citato nominatim. I mythologoi,73 se sono menzionati, sono menzionati soltanto per essere confutati o perché accusati di aver detto il falso o di avere raccontato, per l’appunto, favole.74 Ma vediamo di che natura sono queste favole: 70. Cfr. Lanza e Vegetti 1971, n. 30, p. 179 (sulla scia di Dittmeyer). Diversamente Louis 1964, ad l., il quale nota che «Aristote ne riproduit pas l’erreur d’Hérodote qui dit que “sa taille atteint celle du bœuf de la plus grande taille”». 71. Cfr. però Hist. Anim. 6, 31, 579 b 1 sgg. in cui le informazioni date da Erodoto per la storia dei cuccioli di leone che uccidono la madre al momento della nascita vengono confutate senza che lo storico venga citato per nome. Lo stesso avviene in Gen. Anim. 3, 5, 756 a 5 sgg. 72. Cfr. n. 29, p. 108. 73. Cfr. Gen. Anim. 3, 5, 756 b 6 sg. in cui Erodoto viene espressamente menzionato come mythologos. 74. Cfr. ad es. i passi aristotelici citati a pp. 56 sg.

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«αjλλ∆ JΗροvδοτος διεvψευσται γραvψας του;ς Αιjθιvοπας προι?εσθαι µεvλαιναν τη;ν γονηvν». (Hist. Anim. 3, 22, 523 a 17 sg.)

«ma Erodoto ha detto il falso quando ha scritto che gli Etiopi emettono lo sperma di colore nero».

L’asserzione viene ripresa nel De generatione animalium: « Ηρο J vδοτος γα;ρ ουjκ αjληθη ' λεvγ ει, φαvσ κων µεvλαιναν ει \ναι τη ;ν τω'ν Αιjθιοvπων γονηvν...». (Gen. Anim. 2, 2, 736 a 10)

«Erodoto infatti non dice il vero quando asserisce che lo sperma degli Etiopi è nero…».

Sembra dunque che Erodoto non sia da tenere in considerazione per quanto riguarda le questioni della generazione degli esseri viventi, vale a dire per un campo di ricerca assai specifico. Per il resto le informazioni “zoologiche” tratte dalle sue Storie, se depurate degli agganci della “memoria” etnografica e “trattate” in maniera tale da giustapporre notazioni e ipotesi di tipo anatomico, sono una buona base di partenza. Ma perché, a questo punto, la cosa non viene esplicitamente ammessa dallo Stagirita? In altri termini, perché Aristotele dovrebbe menzionare Erodoto solo per confutarlo, senza pertanto ammettere il debito nei suoi confronti? Una cosa analoga del resto accade, come si è visto, anche con Ctesia: le notizie trasmesse da questo scrittore, infatti, ogni volta che viene fatto il suo nome, vengono indicate dallo Stagirita come notizie da prendere con il beneficio dell’inventario.75 Laddove il medico di Cnido invece viene usato come fonte degna di fede, non viene minimamente menzionato.76 In ogni caso, il problema sembra essere proprio questo: ogni volta che uno storiografo deve essere usato, i suoi “meriti” vengono occultati e il suo nome viene apertamente citato soltanto in casi di condanna o di dubbio assenso. Ctesia ed Erodoto non sono sempre mentitori, ma c’è in fondo un motivo per cui devono essere presentati come tali al pubblico. La scienza di Aristotele, diversamente da come accade, ad esempio, con i trattati di zoologia della Cina antica, è una scienza che trova la propria legittimazione proprio nella critica del sapere tradizionale. In questo senso i logoi degli autori 75. Cfr. ad es. Gen. Anim. 2, 2, 736 a 2-5. 76. Per citare un solo caso in cui Ctesia, non menzionato per nome, viene trattato come una fonte assolutamente degna di fede cfr. Hist. Anim. 2, 1, 499 b 15 sgg. e Part. Anim. 3, 2, 663 a 24 sgg. (cfr. FrGrHist 688 F. 45, 45).

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del passato anziché essere fondativi rispetto alla sistemazione della conoscenza diventano qualcosa da destrutturare e da presentare in cattiva luce.77 Bisogna però dire che in questo senso l’operazione dello Stagirita non è molto diversa da quelle effettuate dalla historia tradizionale: «Aveva cominciato Ecateo mettendo in ridicolo le “molte favole dei Greci” come “assurde”, affermando invece che ciò che egli narrava era vero (alethes, Fr. 1). Ma Erodoto biasima i primi storiografi, e proprio Ecateo, per lo stesso motivo: per aver creduto e propinato storie fantastiche. Per esempio l’idea che la terra sia circondata da Oceano è risibile (Erodoto IV 36, cfr. 42). Erodoto dal canto suo, generalmente, ha visto, ha udito, ha interrogato – o così dice. Nella generazione seguente, nondimeno, il biasimo tocca a lui». (Lloyd 1991, p. 56)

La critica del sapere tradizionale, dunque, ha inizio con la nascita del genere stesso della historia. In questo senso, come histor, Aristotele sembra aver appreso molto dallo stesso Erodoto (e forse anche dallo stesso Ctesia), che viene sempre (ufficialmente) presentato come “raccontatore di favole”.78 È dunque evidente che il solo motivo per cui un mythologos non deve essere menzionato, quando vengono prese per buone le informazioni da lui ricavate, consiste nel fatto che chi cita non può rischiare di dequalificare il proprio discorso. Chi scrive dopo opera sempre nell’ambito del “discorso veritiero”, le teorie di chi ha scritto prima invece devono essere come minimo destrutturate: è questa, come dimostra Lloyd 1991 (pp. 57 sgg.), una delle regole principali del discorso “scientifico” (o – si potrebbe dire – “storico”) nella Grecia antica.79 77. Per uno studio comparativo fra le opere biologiche di Aristotele e lo Huainanzi, trattato zoologico composto sotto la direzione di Liu An attorno al 139 a.C., cfr. Lloyd 1997, pp. 545 sgg. e Id. 1999, pp. 79 sgg. 78. A questo proposito, sulla critica aristotelica ai mythologoi, ai theologoi, ma anche ai physikoi, cfr. anche Lloyd 1996, pp. 112 e 124. 79. Su Lloyd 1991, pp. 56 sgg. cfr. Buxton 1997, p. 15, che nota come lo studioso inglese presenti come evidente una differenza di fondo fra mythos (discorso non verificabile) e logos (discorso verificabile) che con molta probabilità non doveva risultare così chiara per gli stessi Greci. Riguardo al problema della presunta dicotomia mythos/logos Detienne 1983, pp. 83 sgg. mette l’accento su una serie di attestazioni (soprattutto relative al periodo arcaico: Omero, Senofane, Parmenide, Pindaro ed Erodoto) che dimostrano come i due termini fossero di fatto intercambiabili. Più recentemente Cozzo 2002, pp. 27 sgg. ha mostrato come la differenza essenziale fra mythos e logos, nel periodo arcaico, ma anche successivamente, consistesse nel fatto che mentre il primo era essenzialmente «la parola interiore che si intende dire», il secondo era considerato invece una «connessione sintattica di parole» finalizzata a conseguire alcuni effetti psicologici (ad es. la persuasione più che il raggiungimento della verità: cfr. Cozzo 2002, pp. 109 sgg.).

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Mostrarsi debitori di un mythologos del passato, dunque, per Aristotele significa correre il rischio di distruggere la propria autolegittimazione. È per questo che l’acquisizione delle informazioni erodotee (e di quelle tratte da Ctesia) deve sempre passare inosservata e sotto silenzio: il sapere tradizionale, quando viene mantenuto, deve essere quanto meno marginalizzato.

2.

Il mondo ipotetico

2.1 Discorso vero e discorso falso Siamo abituati a vedere i mostri e gli animali “fantastici” come realtà contro-intuitive, come esseri impossibili, frutto di impossibili composizioni di specie incompatibili e non omofile. Ci sembra ovvio che il manticora, l’unicorno, la fenice siano esseri che trovano la loro realtà soltanto nella zona franca del mito, eppure... (è con gli “eppure…”, ricorda Sperber 1982, p. 84, che prendono forma e nascono le credenze).80 Eppure la linea di divisione fra discorso vero e discorso falso doveva essere, nella Grecia antica, abbastanza sfumata e vaga.81 In fondo le notizie relative agli animali, le cui descrizioni sono state prese in analisi nei paragrafi precedenti (spec. pp. 103 sgg.), non erano poi meno controllabili e verificabili di quelle relative, per esempio, al manticora o ai serpenti alati. Decidere sullo statuto di verità di una data informazione talvolta doveva essere una vera e propria scommessa. Tanto più che, come si è visto nel paragrafo precedente, un autore, almeno fino a quando non è citato espressamente, né dice sempre cose false, né dice sempre cose vere. Lo stesso Aristotele, del resto, quando menziona Ctesia come sua fonte sull’India, sembra essere, talvolta, alquanto incerto sul da farsi.82 Lo Stagirita, infatti, sa bene che Ctesia non è affatto attendibile, eppure talvolta (sebbene non sia degno di fede) ci si deve fidare di lui, o quanto meno bisogna registrare le sue notizie (anche se con il beneficio dell’inventario): nessuno in fondo ci dice che i mythoi dell’indografo non possano talvolta essere veri. Il problema semmai sta nel fatto che, non essendoci giunto il testo di Ctesia, è difficile stabilire i criteri, in base ai quali Aristotele, nell’usare la sua fonte, opta, in relazione al giudizio da dare sui singoli loci, per uno o l’altro dei due statuti di discorso (il discorso “vero”, il discorso “fittizio”). Nel caso di Erodoto si è visto come i passi delle Storie che venivano eletti a discorsi veritieri fossero quelli 80. Sperber 1982, p. 84 cita a questo proposito O. Mannoni, Clefs pour l’imaginaire ou l’autre chêne, Le Seuil, Paris, cap. 1 (tr. it., Funzione dell’immaginario, Laterza, Roma-Bari 1972). 81. Cfr. a questo proposito Sassi 1993, pp. 449 sgg. 82. Cfr. ad es. Hist. Anim. 8, 28, 606 a 8-10. (citato al cap. 1, p. 56).

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che più si conformavano a determinati modi di procedere della descrizione, quei passi cioè che tendenzialmente coglievano, nella presentazione degli animali, la stessa tipologia di diaphorai elencate in Hist. Anim. 1, 1, 487 a 10-14. Non di meno se noi possiamo oggi dire con certezza che il coccodrillo e l’ippopotamo sono animali “veri”, non così facile doveva essere per lo stesso Aristotele. In fondo la presenza, ancora nel Medio Evo, di immagini raffiguranti coccodrilli che in tutto ricordano le descrizioni degli antichi, tranne per il fatto che sono coperti di pelo e non di squame, dovrebbe farci capire che non era poi così facile omologare il contenuto nucleare di animali invisibili all’occhio dei Greci.83 Il problema che si presentava ad Aristotele, nel momento in cui raccoglieva quell’enorme congerie di informazioni che sarebbero state trascritte nella Historia Animalium, era dunque quello delle “frontiere della realtà”: come parlare degli animali “fantastici” in un mondo limitato da orizzonti di esperienza assai angusti? In altri termini: come dovevano essere trattati i dati apparentemente “favolosi” (o irrazionali) che non era possibile verificare a causa delle distanze e della difficoltà dei viaggi?84 2.2.1 Ritorno al futuro: mostri inglesi e mostri greci Fra il XVIII e il XIX secolo era diventata comune la speranza che animali immaginari dalle forme più impensabili potessero esistere: le creature del mito cominciavano ad offrire una sorta di pagina bianca sulla quale le leggi che regolavano il funzionamento del regno animale potevano liberamente essere riscritte. Harriet Ritvo (Ritvo 1997, pp. 175 sgg.) ha recentemente spiegato questo fenomeno sostenendo che la forza con cui le credenze relative ai serpenti marini e alle sirene si andavano affermando era da mettere in relazione con le reazioni di feedback nei confronti del progressivo affermarsi del dominio intellettuale della classificazione scientifica. Le “favole” sui mostri, in altri ter83. Si ricordi il caso del coccodrillo del Bestiario di Cambridge (cit. alla n. 57, p. 120). 84. Il concetto di “frontiere di realtà” è mutuato dalla già citata Sassi 1993, pp. 465 sgg. Per quanto riguarda le differenze fra il nostro concetto di “fantastico” e il thaumastòn dei Greci (in particolare in Platone e Aristotele) cfr. Pinotti 1989, pp. 29 sgg. Più che al “fantastico” borgesianamente inteso è forse più corretto fare riferimento al θαυµαστοvν, e dunque non ad un ambito percettivo che ha a che fare con la fantasia e con il gusto della “meraviglia letteraria”, ma col regime della “visione” di cose e di oggetti ed eventi disomogenei. Il nostro termine “fantastico”, del resto, porta in sé il riferimento a quella ottocentesca suspension of disbelief che dovrebbe permettere al lettore di abbandonarsi ad emozioni che sono per lo più di angoscia e di terrore (cfr. Calvino 1980, p. 215), laddove invece il θαυµαστοvν di Aristotele permette di «permutare la meraviglia da operatore emotivo, ancorato al regime percettivo, a operatore cognitivo» (Pinotti 1989, p. 35).

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mini, nascevano, secondo la Ritvo, da un’intima voglia di rivalsa nei confronti di chi stava cercando di monopolizzare ogni discorso sugli animali. In questo senso l’esistenza di creature che sembravano forzare i limiti imposti dalla natura (così come erano stati fissati dai tassonomisti) era un modo di guardare il mondo da un differente punto di vista, in nome di una «reluctance to accept the structures imposed by self-constitued expertise».85 Gli animali immaginari del XIX secolo nascevano dunque ai margini della tassonomia, collocandosi così in un ambito di discorso per certi versi “ostile” al discorso scientifico.86 In un certo senso i racconti sui mostri e la scienza della natura ufficiale erano diventati due discorsi antagonisti. Laddove gli scienziati avevano gioco facile nello smontare le prove dell’esistenza di animali anomali, ecco che il loro intento diventava immediatamente quello di “uccidere i mostri” e sgomberare la mente del popolo dalle false opinioni e dalle credenze.87 C’erano però situazioni ben più complicate: nel caso dei serpenti marini, ad esempio, si trattava di scandagliare le vaste distese del mare e, ad un tempo, di verificare notizie di avvistamenti che non erano mai supportate dall’esistenza materiale di esemplari o di carcasse. Di conseguenza era forte il rischio degli scienziati di venire ridicolizzati dagli organi di stampa qualora si fossero impegnati in un’impresa di gran lunga più grande di loro:88 mentre da un lato era 85. Cfr. Ritvo 1997, p. 186. 86. Singolare in questo senso è il caso del mancato aumento di interesse della comunità scientifica nei confronti del progressivo aumento del data-base che raccoglieva le notizie relative agli avvistamenti di mostri marini. Il caso è stato studiato da Westrum 1979, pp. 306 sgg., il quale ha fatto notare come il mancato interesse dei naturalisti sia da spiegare proprio a partire dal timore di un risultato delusivo: il timore degli scienziati, nei confronti dei serpenti marini, era quello di venire ridicolizzati dagli organi di stampa. Il data-base esistente raccoglie una lista di occorrenze che va dal 1755 al 1976. La lista più recente di avvistamenti è quella pubblicata dal criptozoologo Bernard Heuvelmans (In the wake of the SeaSerpents, 1968). Una seconda edizione dell’opera, con dati aggiornati, è stata pubblicata nel 1976. La prima raccolta di dati risale ad Erich Pantoppidan, The Natural History of Norway, A. Linde, London 1755, 2 vv. (cfr. a questo proposito sempre Westrum 1979, pp. 306 sgg.). 87. La “sirena impagliata del Capitano Eades”, si rivelò un falso clamoroso in seguito all’attenta analisi del naturalista William Clift: «No sooner had the mermaid emerged from its carefully layered silk wrappings than he pronounced a fraud, constructed of the cobbled remains of an orangutan, a baboon, and a salmon. Further examination revealed additional tempering, for example with the nails, which were synthetic, and the arms, which had been shortened» (Ritvo 1997, pp. 178 sg.). 88. Cfr. Westrum 1979, p. 306 fa notare che la maggiore possibilità di trovare carcasse in uno spazio circoscritto, come può essere quello dei laghi, ha fatto sì che l’attenzione degli studiosi nel corso del XIX e XX secolo si concentrasse per lo più sulla verifica degli avvistamenti relativi al mostro di Loch Ness piuttosto che sugli “evanescenti” serpenti marini.

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facile l’attività di “debunking” degli specimina esistenti di – ad esempio – unicorni e sirene impagliate (famoso il caso della sirena del Capitano Eades, rivelatasi un falso clamoroso), dall’altro i serpenti marini, in fondo, esistevano davvero nel regno dell’immaginazione e del desiderio.89 Nel caso dei mostri marini, dunque, così difficili da “uccidere”, l’approccio della scienza ufficiale non poteva che essere quello di trascurare la ricerca e marginalizzare il problema, nascondendo il proprio imbarazzo nei confronti di quella che potremmo chiamare l’umana tendenza alla “bestiarizzazione”.90 Questo è quanto accadeva nel XIX secolo, ma sarebbe quanto meno anacronistico pensare che lo stesso paradigma di lettura possa essere applicato per comprendere, per analogia, le attitudes degli antichi nei confronti di animali che noi consideriamo immaginari.91 Si è visto, nel paragrafo precedente, come l’approccio nei confronti degli esseri lontani potesse essere legato anche a problemi di autolegittimazione del proprio “discorso” a scapito dei resoconti della “tradizione”. Questa situazione di antagonismo, in effetti, per certi versi potrebbe trovare alcune corrispondenze con l’ostilità fra discorso popolare e tassonomia scientifica (e viceversa) messa in luce dalla Ritvo (1997, pp. 175 sgg.) per il XIX secolo. Sono però convinto che tale analogia debba soltanto essere presa come tale e che non debba essere trasformata in una “identità”. Purtroppo, nonostante una certa aria di famiglia possa essere segnalata, a proposito dei mostri degli antichi e di quelli del XIX secolo, le cose non possono essere così semplici: siamo così sicuri che il manticora e i serpenti alati possano così facilmente essere assimilati, ad esempio, alla sirena impagliata che nel 1822 ha reso popolare il Capitano Eades, suo proprietario, in tutta l’Inghilterra o – per fare un esempio più popolare – al mostro di Loch Ness? In altri termini, siamo sicuri che il forte imbarazzo (quando non addirittura l’avversione) di naturalisti come Richard Owen (noto come “l’uccisore dei serpenti marini”) e William Clift (lo scienziato che rivelò che l’esemplare di Eades non era altro che un “Jenny Haniver”)92 nei confronti degli esseri immaginari tanto amati dal sapere dei 89. Ritvo 1997, p. 186. 90. Per il concetto di “bestiarizzazione” cfr. Bettini 1998, pp. 222 sg. 91. Un approccio simile è tentato da Mayor 2000, pp. 192 sgg., la quale parla di «tension between popular traditions and natural philosophy» anche per il mondo greco (laddove invece spesso – a mio avviso – è più opportuno parlare di una risistemazione polemica, da parte della filosofia, del sapere popolare e tradizionale). 92. I Jenny Haniver sono ibridi creati artigianalmente cucendo assieme parti di esseri non omofili (cfr. a questo proposito Mayor 2000, pp. 233 sg.; Barber e Riches 1999, p. 124; Ley 1948, cap. 4). Sulla fabbricazione di mostri artificiali nel periodo vittoriano cfr. Ritvo 1997, pp. 186 sgg.

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“profani” sia qualcosa che la “scienza” ha sempre mostrato, anche alle sue supposte “origini”?93 In fondo Aristotele, a differenza di William Clift (e di qualsiasi zoologo del XIX secolo), sembra avere visto di persona molti meno animali rispetto a quanto si è disposti a pensare.94 E poi bisogna concordare sul fatto che la sirena del XIX secolo è molto diversa dalla sirena di Omero,95 così come le notizie sul mostro di Loch Ness e quelle relative al manticora nascono in società completamente differenti e vengono “trasmesse” secondo modalità non del tutto assimilabili.96 In altri termini, non dobbiamo pensare a priori che gli antichi non credessero ai loro mostri soltanto perché siamo abituati a pensare che la scienza naturale del XIX secolo li ha “uccisi” o “ignorati”. Sarebbe come minimo un anacronismo grossolano. Né tanto meno si tratta soltanto – come si è già detto – di un problema di frontiere di realtà e di impossibilità oggettive nella verifica; ad entrare in gioco ci sono anche statuti di verità differenti. Si potrebbe senz’altro dire che sia la sirena del XIX secolo che il manticora sono stati, a loro modo, per un determinato periodo, problemi di storia naturale. Ma bisogna pur sempre ricordare che, 93. Sulle posizioni di Cambiano riguardo al mito delle origini cfr. n. 24 p. 26. A questo proposito potrebbe non essere fuori luogo citare il seguente passo di Pellegrin 1982, p. 9: «Si l’anachronisme est, en histoire, le péché capital, c’est peut être l’historien des sciences qui aura le plus de mal à s’en garder. […] Une fois que l’on à récusé les concepts fallacieux et finalement ethnocentriques de “progrès culturel” ou même de “progrès social”, il reste celui de “progrès des sciences” que ses difficultés ne suffisent pas à disqualifier. Serons-nous quitte avec cet obstacle théorique une fois que nous aurons abandonné la conception cartésienne du développement des sciences à partir d’un fondement immuable […]». Per il caso della sirena del capitano Eades cfr. n. 87 p. 133. Richard Owen, zoologo di età vittoriana, fu uno dei più acerrimi “uccisori” di serpenti marini (cfr. a questo proposito Westrum 1979, p. 308). Nonostante il suo atteggiamento di scetticismo in pubblico comunque, lo stesso Owen «took the trouble to keep a scrapbook in which he accumuleted and annotated a variety of materials – newspaper and magazine cuttings, reports, letters, and memoranda – bearing on this issue» (Ritvo 1997, p. 186). Gli appunti di Owen, se da un lato costituivano la base per la sua attività di “smascheramento”, di fatto nascondevano l’esigenza di capire fino in fondo il desiderio popolare di credere ai mostri. 94. Il problema del luogo in cui Aristotele ha scritto l’Historia Animalium è legato al problema relativo alla datazione (a questo proposito cfr. Louis 1964, pp. XVII e XXXIV). Nel caso in cui abbia scritto la sua opera in Grecia (e prima della spedizione di Alessandro), è quanto mai difficile che lo Stagirita abbia potuto effettivamente visionare gli animali esotici (pochi del resto) che vengono menzionati nella sua opera. Si ricordi inoltre che l’esperienza della tigre, ancora al tempo di Seleuco I, era per i Greci qualcosa di straordinario (per la donazione di un esemplare di tigre agli Ateniesi da parte del sovrano della Siria cfr. Philemon. Fr. 49 K.-A (Ath. 13, 57 Kaibel). 95. Sulle sirene di Omero mi limito a segnalare Roscalla 1998, pp. 41 sgg. (già citato). 96. Sul ruolo di gazzette e quotidiani nella diffusione delle notizie relative agli avvistamenti di mostri marini cfr. Westrum 1979, pp. 303 sgg.

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per quanto l’immagine di Aristotele come “antenato” e “protozoologo” (opposto al “favolista” Plinio il Vecchio) cominci ad affermarsi proprio nel XIX secolo, la storia naturale dello Stagirita non è affatto assimilabile alla storia naturale del 1800.97 Soltanto dopo aver fatto queste dovute premesse credo che si possano leggere i passi raccolti nel paragrafo successivo. 2.2.2 Credere agli unicorni: le ipotesi di esistenza degli animali “favolosi” e le risegmentazioni del mondo È dunque giunto il momento di ritornare ad Aristotele. Il lungo giro che ho imposto ai miei lettori deve essere ulteriormente deviato: ancora una volta è forse necessario percorrere un sentiero estravagante. Prima di ritornare al manticora, anche sulla scorta di quanto detto in precedenza, si dovranno guardare negli occhi altri mostri e altri animali mirabolanti, si dovrà avere il coraggio di perlustrare una “zona d’ombra nella razionalità aristotelica” e di scoprire le distanze fra la sua “zoologia” e la nostra. Nel corso di questo paragrafo, infatti, ci si occuperà principalmente di tutti quegli esseri che per un motivo o per un altro possono essere considerati aporetici. La prima occorrenza di un dato “fantastico” nella Historia Animalium è in 1, 5, 490 a 5 sgg. e riguarda i serpenti alati:98 «τω'ν δε; πτηνω'ν τα; µε;ν πτερωταv εjστιν, οι|ον αjετο;ς και; ιJεvραξ, τα; δε;

πτιλωταv, οι|ον µεvλιττα και; µηλολοvνθη, τα; δε; δερµοvπτερα, οι|ον αjλωvπεξ και; νυκτεριvς. Πτερωτα; µε;ν ου\ν εjστιν ο{σα ε[ναιµα, και; δερµοvπτερα ωJσαυvτως: πτιλωτα; δ∆ ο{σα α[ναιµα, οι|ον τα; ε[ντοµα. ε[στι δε; τα; µε;ν πτερωτα; και; δερµοvπτερα διvποδα παvντα η] α[ποδα: λεvγ ονται γα;ρ ει\ναιv τινες ο[φεις τοιου'τοι περι; Αιjθιοπιvαν. το; µε;ν ου\ν πτερωτο;ν γεvνος τω'ν ζω/'ων ο[ρνις καλει'ται, τα; δε; λοιπα; δυvο αjνωvνυµα εJνι; οjνοvµατι».

«Fra gli animali con le ali, alcuni hanno ali ricoperte di piume, come ad esempio l’aquila e il falco, altri invece le hanno formate da una membrana, come l’ape e il maggiolino, altri ancora hanno ali di pelle, come la volpe volante e il pipistrello. Fra gli animali che volano, tutti quelli che hanno il sangue hanno ali ricoperte di piume, o altrimenti da pelle; tutti quelli senza sangue, come gli insetti, hanno ali membranose. Gli animali con ali di penne o di pelle hanno tutti due zampe oppure sono senza zampe: si dice infatti che in Etiopia ci siano serpenti muniti di ali. Ora, il genos degli animali 97. Sulla “invenzione” di un Aristotele “padre della zoologia” cfr. Ritvo 1997, pp. 11 sgg. 98. Tengo a precisare che i passi raccolti in questo paragrafo riguardano esclusivamente animali che i manualetti di zoologia fantastica ritengono “immaginari”. Per intenderci, gli animali che oggi tendono a diventare “personaggi” nei giochi di ruolo e di “magic” (a tale proposito cfr. n. 19, p. 23).

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con le ali formate da penne viene chiamato “uccello”; i restanti due gene invece sono privi di denominazione».

È verosimile che Aristotele faccia qui riferimento ad un noto passo di Erodoto (2, 75-76), uno di quei passi, per intenderci, che Manquat (1932, pp. 37 sgg.) avrebbe potuto citare nella rubrica in cui ha raccolto tutti i loci erodotei riusati dallo Stagirita:99 «του' δε; ο[φιος ηJ µορφη; οι{η περ τω'ν υ{δρων. πτιvλα δε; ουj πτερωτα;

φορεvει, αjλλα; τοι'σ ι τη 'ς νυκτερι vδος πτεροι 'σ ι µαvλισταv κη / εjµφερεvστατα». (Hdt. 2, 76, 2-3)

«La forma del serpente è simile a quella dei serpenti d’acqua. Essi infatti non hanno ali ricoperte di piume ma le hanno molto simili (per quanto è possibile trovare una somiglianza) a quelle dei pipistrelli».

Ad esclusione della menzione della collocazione dell’animale, il raggruppamento di Aristotele in fondo è fedele alla descrizione di Erodoto, che raffigura l’animale come simile agli hydroi (verosimilmente i serpenti d’acqua)100 e con ali che ricordano quelle dei pipistrelli. Ma lo Stagirita, oltre all’esistenza di apodi con ali di pelle, sembra paventare la possibilità che esistano anche apodi con ali di penne. In altri termini, Aristotele amplia la sezione del mondo, attraverso il ricorso ad una inferenza tratta sulla base della logica del raggruppamento, come a dire che, se è vero quello che ha detto Erodoto, potrebbe anche essere vero il caso analogo degli apoda kai pterotà (apodi e con ali di penne). Ma quello che è importante notare è che l’eccezione “preternaturale” dei serpenti alati, seppur dotata di uno statuto ontologico incerto o comunque meramente ipotetico (lo indica il λεvγ ονται γα;ρ),101 viene “generalizzata” attraverso un 99. Ritengo comunque che non sia a priori da escludere, per questo passo, la possibilità che Aristotele sia stato informato dell’esistenza di serpenti alati etiopi anche da altre fonti (magari non scritte). Bisognerebbe in questo senso cercare di capire quali fonti vengano solitamente usate dallo Stagirita quando si parla di animali etiopici o comunque africani. In ogni caso, Manquat 1932, pp. 37 sgg. non prende in considerazione il passo aristotelico in questione, ma mette in rapporto, con Hdt. 2, 75-76, un passo del IX libro della Historia Animalium (9, 27, 617 b 27 sgg.) in cui vengono menzionati gli ibis. 100. Cfr. Th. L. Gr. v. IX, cc. 56 sg. s. v. υ{δρος. Per quanto riguarda le ipotesi sull’identificazione del serpente alato cfr. Mayor 2000, pp. 135 sgg. Martucci 1997, pp. 31 sgg. propone (in base ad una sua suggestione provocata dalla lettura della notizia, presumibilmente falsa, della scoperta di uno pterodattilo vivente nei pressi di Culmout, in Francia) di vedere questi animali come un canard, una bufala inventata a bella posta dallo storico greco. 101. L’uso di verbi della sfera semantica del “dire” come introduzione ai resoconti è la spia di un livello di elaborazione critica dei racconti tràditi (cfr. Sassi 1993, pp. 462 sg.).

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processo diairetico che permette di vedere come “classe” ciò che in effetti è un dato marginale.102 Abbiamo dunque quella che potremmo chiamare una “generalizzazione” dell’eccezione:103 mentre Erodoto tende a segnalare il thauma e le singolarità, Aristotele include la notizia in una correlazione universale: «tutti gli animali con ali di penne o di pelle sono bipedi o apodi»: ecco dunque che una curiosità meravigliosa viene inserita nello spazio neutro e generalizzante del raggruppamento. Nel passo aristotelico, oltre alla divisione in sanguigni e non sanguigni, sono compresenti due diverse segmentazioni del mondo secondo due diversi assi di divisione che sono da un lato l’aspetto delle ali, dall’altro la presenza o meno di zampe. La prima divisione porta ad una tripartizione degli alati in pterotà, ptilotà e dermoptera, mentre la seconda divisione istituisce i due raggruppamenti dei bipedi e degli apodi. La congiunzione delle divisioni che potrebbe definire il serpente alato di cui ci dà notizia Erodoto sarà quindi “alato e sanguigno e apode e con ali di pelle”. Si noti dunque che, per così dire, l’essenza dell’animale non sarà dovuta alla sua esotica “alterità” o all’antagonismo con altri esseri, bensì alle sue differenze relative e cioè, in un certo senso, al suo essere in relazione di somiglianza e di differenza con altri animali che compongono i diversi nodi di un medesimo raggruppamento.104 In questo senso la logica del raggruppamento aristotelico annulla tutte le funzioni narrative che potevano essere presenti nel testo erodoteo. Nel resoconto dello storico, infatti, i serpenti alati non soltanto erano animali che rappresentavano un confine (quello fra l’Arabia 102. L’eccezionalità del fenomeno viene indicata linguisticamente dall’uso della formula ει\ναιv τινες. Per l’uso di espressioni simili nelle rappresentazioni di casi abnormi della medicina antica si veda Di Benedetto 1966, pp. 324 sg. Per il procedimento diairetico (di divisione) in Aristotele e per la critica al modello dicotomico adottato da Platone cfr. Pellegrin 1982, pp. 41 sgg. (ma si veda anche il recente Carbone 2002, pp. 40 sgg.). 103. Per la tendenza, presente nelle opere del Corpus Hippocraticum, a generalizzare i dati eccezionali e a rendere “tendenze” quelle che potrebbero essere “leggi” si veda il già citato Di Benedetto 1966, pp. 315 sgg. 104. Cfr. a questo proposito Pellegrin 1982, pp. 109 sgg.: per Pellegrin l’analogia «ne sert pas tant à démarquer des familles naturelles de vivants, qu’a situer un groupe d’animaux par rapport à un autre pris comme référence, et, finalement, à situer tous les vivants par rapport à un être unique, pris comme modèle d’intellegibilité, et qui est l’homme». In questo senso i primi quattro libri della Historia Animalium non costituiscono una anatomia comparata, ma una anatomia e una etologia anthropocentrées. L’idea di una unità strutturale e funzionale di tutti i viventi è indissolubilmente legata, in Aristotele, a una concezione gerarchica che suddivide i viventi in un ordine di perfezione crescente in cui l’uomo è lo stadio ultimo. Gli animali sono, in questo senso, una sorta di abbozzo dell’uomo. Pertanto, come accade spesso in Aristotele, la visione metafisica (in questo caso l’antropocentrismo), è determinante.

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e l’Egitto), ma rivestivano principalmente il ruolo attanziale dell’antagonista. La lotta fra gli ibis e i serpenti in Erodoto in un certo senso era anche la lotta per l’intangibilità dei confini, la lotta per il mantenimento delle differenze fra i luoghi (non a caso si trattava di due animali rappresentativi di due zone geografiche diverse e confinanti: l’Egitto e l’Arabia).105 Niente di tutto questo, ovviamente, è possibile trovare in Aristotele: la dimensione del racconto, nella Historia Animalium si sfalda in una fitta rete di differenze e analogie che tratteggiano uno spazio neutro e “isotropico”.106 Il dato relativo ai serpenti alati viene dunque, in un certo qual modo, “anestetizzato”. In maniera analoga viene “anestetizzato” il thauma dell’asino indiano unicorno di cui per la prima volta aveva parlato Ctesia di Cnido (FrGrHist 688F. 45, 45): «εσ [ τι δε; και; τα; µεν ; κερατοφορ v α των ' ζωω v / ν τα; δ∆ ακ [ ερα. τα; µεν ; ουν \

πλεισ ' τα των ' εχ j ον v των κερ v ατα διχαλα; κατα; φυσ v ιν εσ j τιν v , οιο | ν βους ' και; ελ [ αφος και; αιξ [ : µων v υχον δε; και; δικ v ερων ουδ j εν ; ωπ \ ται. µονοκερ v ατα δε; και; µων v υχα ολ j ιγ v α, οιο | ν οJ ∆Ινδικος ; ον [ ος. Μονοκ v ερων δε; και; διχαλον ; ορ [ υξ. και; ασ j τραγ v αλον δ∆ οJ ∆Ινδικος ; ον [ ος εχ [ ει των ' µωνυχ v ων µον v ον». (Hist. Anim. 2, 1, 499 b 15-21)

«Alcuni animali poi hanno le corna, altri invece non le hanno. La maggior parte di quelli che le hanno, hanno per natura gli zoccoli fessi in due, come il bue, il cervo, la capra; non è stato mai visto alcun animale che abbia lo zoccolo unito e che insieme sia munito di due corna. Ci sono però pochi sparuti animali che sono dotati di un solo corno e sono insieme muniti di uno zoccolo continuo, come l’asino indiano. È invece unicorno ed ha lo zoccolo biforcuto 105. Cfr. Hdt. 2, 75, 1-3: « Εστι [ δε; χω'ρος τη'ς ∆Αραβι v ης κατα; Βουτου'ν ποvλιν µαvλισταv κη/ κειvµενος, και; εjς του'το το; χωριvον η\λθον πυνθανοvµενος περι; τω'ν οjφιvων. ∆Απικοvµενος δε; ει\δον οjστεvα οjφιvων και; αjκαvνθας πληvθει> µε;ν αjδυvνατα αjπηγηvσασθαι, σωροι; δε; η\σαν αjκανθεvων και; µεγαvλοι και; υJποδεεvστεροι και; εjλαvσσονες ε[τι τουvτων, πολλοι; δε; η\σαν ου|τοι. [Εστι δε; οJ χω'ρος ου|τος, εjν τω'/ αιJ α[κανθαι κατακεχυvδαται, τοιοvσδε τις: εjσβολη; εjξ οjρεvων στεινω'ν εjς πεδιvον µεvγ α, το; δε; πεδιvον του'το συναvπτει τω'/ Αιjγ υπτιvω/ πεδιvω/. λοvγ ος δεv εjστι α{µα τω'/ ε[αρι πτερωτου;ς ο[φις εjκ τη'ς ∆Αραβιvης πεvτεσθαι εjπ∆ Αιjγ υvπτου, τα;ς δε; ι[βις τα;ς ο[ρνιθας αjπαντωvσας εjς τη;ν εjσβολη;ν ταυvτης τη'ς χωvρης ουj παριεvναι του;ς ο[φις αjλλα; κατακτειvνειν» («C’è poi un luogo dell’Arabia, vicinissimo alla città di Buto: ebbene qui mi sono recato per prendere notizie sui serpenti alati. Giuntovi ho potuto vedere con i miei occhi ossa di serpenti e spine dorsali in un numero tale da non potere neanche essere raccontato: erano mucchi di spine dorsali grandi e meno grandi e ancora più piccole: ed erano davvero molte. Il luogo nel quale queste spine dorsali vengono ammonticchiate ha questa conformazione: è il punto di sbocco da stretti monti fino ad una vasta pianura. Questa pianura è quasi attaccata alla pianura egiziana. Si racconta che non appena inizia la primavera i serpenti alati volino dall’Arabia in Egitto, e che gli ibis, parandosi loro innanzi allo sbocco, non li lascino entrare ma ne facciano strage»). Sugli “animali confine” n. 36, p. 111. 106. Cfr. n. 29, p. 108.

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l’orige. C’è poi solo l’asino indiano, fra gli animali che hanno zoccolo unito, ad avere l’astragalo».

Il solo menzionare il nome dell’unicorno scatena in noi, lettori occidentali del XXI secolo, una ridda di suggestioni: ripensiamo a storie, favole e racconti di un mondo perduto.107 Eppure non doveva essere così per lo Stagirita. Certo, è difficile sapere quali fossero veramente le favole che aveva raccontato Ctesia sul meraviglioso asino dell’India,108 dobbiamo però immaginare che il processo di citazione fosse stato in qualche modo simile a quello usato nei confronti dei passi erodotei; che si fosse basato cioè sull’eliminazione dell’elemento narrativo e sulla generalizzazione della singolarità: quella che in Ctesia doveva essere una descrizione di un animale axion mnemes, si trasforma, in Aristotele, in una descrizione di un raggruppamento costituito in base ad un particolare asse di divisione.109 Nel passo aristotelico vengono distinti i keratophora (animali muniti di corna) e gli akera (animali senza corna). Data questa divisione, si passa ad una correlazione assai singolare: laddove ci si sarebbe aspettati una proposizione del tipo «tutti i keratophora sono artiodattili (dichalà)», si trova invece una proposizione che recita: «la maggior parte dei keratophora sono dichalà». Viene delineata dunque una correlazione parziale, valida cioè soltanto statisticamente. A rendere parziale la correlazione è la presenza di un dato residuale di eccezione giustapposto al raggruppamento determinato attraverso l’asse delle corna: l’asino indiano che, pur essendo perissodattilo (monychon), è dotato di corna. L’asino indiano è però, nonostante tutto, un keratophoros assai particolare: esso infatti ha un solo corno e non due come tutti gli altri “portatori di corna”. In altri termini, la presenza di questa caratteristica particolare non invalida la proposizione che precede immediatamente la determinazione relativa all’asino indiano, e cioè «non è stato mai osservato nessun perissodattilo provvisto di due corna». Questa proposizione è a tutti gli effetti una correlazione universale espressa in forma negativa che sembra ricostruire in forma ipotetica uno stato del mondo (considerato nel suo insieme come “spazio”): «se non sono stati mai visti perissodattili con due corna, nulla vieta di pensare che esistano perissodattili con un solo corno». Insomma, questa volta Aristotele sembra non avere alcun motivo di dubitare di quanto ha 107. Per la storia del motivo dell’unicorno cfr. Riddell 1945, pp. 194 sgg. Sulla suggestione che il TC ha esercitato nella costruzione del primo TC del rinoceronte cfr. Eco 1997, pp. 43 sgg. 108. Cfr. FrGrHist 688 F. 45, 45. 109. Sugli assi di divisione cfr. il più volte citato Pellegrin 1982, pp. 73 sgg. Per l’asino indiano unicorno cfr. anche Part. Anim. 3, 2, 663 a 20 sgg.

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detto Ctesia negli Indikà. Mentre infatti nel passo sui serpenti alati si lasciava il beneficio del dubbio (il legontai di 490 a 11), nel passo appena analizzato l’orige e l’asino indiano unicorno, anche se esseri marginali (oliga) vengono considerati dati di fatto. Aristotele non solo dimostra di credere a questi esseri, ma per certi versi, nel momento stesso in cui li inserisce in una complessa griglia di raggruppamento, rendendoli avulsi dalla sfera del “si dice” (e non menzionando Ctesia nominatim), in qualche modo li conosce.110 Un simile discorso si può fare anche per altri tre animali “singolari” menzionati in successione in Hist. Anim. 2, 1, 498 b 25 - 499 a 9: il bonaso, l’ippelafo, e il bue selvatico dell’Aracosia. «αυjτω'ν δε; τω'ν τετραποvδων και; τριvχας εjχοvντων τω'ν µε;ν α{παν το;

σω'µα δασυv, καθαvπερ υJο;ς και; α[ρκτου και; κυνοvς: τα; δε; δασυvτερα το;ν αυjχεvνα οJµοιvως παvντη/, οι|ον ο{σα χαιvτην ε[χει, ω{σπερ λεvων: τα; δ∆ εjπι; τω'/ πρανει' του' αυjχεvνος αjπο; τη'ς κεφαλη'ς µεvχρι τη'ς αjκρωµιvας, οι|ον ο{σα λοφια;ν ε[χει, ω{σπερ ι{ππος και; οjρευ;ς και; τω'ν αjγ ριvων και; κερατοφοvρων βοvνασος. ε[χει δε; και; οJ ιJππεvλαφος καλουvµενος εjπι; τη'/ αjκρωµιvα/ χαιvτην και; το; θηριvον το; παvρδιον οjνοµαζοvµενον: αjπο; δε; τη'ς κεφαλη'ς εjπι; τη;ν αjκρωµιvαν λεπτη;ν εJκαvτερον: ιjδιvα/ δ∆ οJ ιJππεvλαφος πωvγ ωνα ε[χει κατα; το;ν λαvρυγγα. ε[στι δ∆ αjµφοvτερα κερατοφοvρα και; διχαλαv. ηJ δε; θηvλεια ιJππεvλαφος ουjκ ε[χει κεvρατα. το; δε; µεvγ εθοvς εjστι τουvτου του' ζωv/ου εjλαvφω/ προσεµφερεvς. γιvνονται δ∆ οιJ ιJππεvλαφοι εjν ∆Αραχωv τ αις, ου|περ και ; οι J βοvες οι J α[γ ριοι. διαφεvρουσι δ∆ οι J α[γ ριοι τω'ν ηJµεvρων ο{σον περ οιJ υ{ες οιJ α[γ ριοι προ;ς του;ς ηJµεvρους: µεvλανεvς τε γα;ρ ειjσι και; ιjσχυροι; τω'/ ει[δει και; εjπιvγ ρυποι, τα; δε; κεvρατα εjξυπτιαvζοντα ε[χουσι µα'λλον: τα; δε; τω'ν ι Jππελαvφων κεvρατα παραπληvσια τοι'ς τη'ς δορκαvδος ειjσιvν».

«Fra gli stessi animali a quattro zampe che sono ricoperti di peli, alcuni hanno tutto il corpo peloso, come il maiale, l’orso, il cane; altri hanno il pelo più folto attorno al collo, come ad esempio gli animali che hanno la giubba (come il leone); altri ancora l’hanno sulla parte dorsale del collo, dalla testa fino al garrese, come ad esempio tutti gli animali che hanno la criniera (come il cavallo, il mulo, e, fra quelli selvatici e che hanno corna, il bonaso). Ad avere una giubba al garrese c’è anche il cosiddetto ippelafo e quell’animale selvatico che chiamano “pardion”: in entrambi i casi si è in presenza di una giubba sottile che va dalla testa fino al garrese; è una peculiarità dell’ippelafo quella di avere una barba lungo la la110. “conoscere” è un termine che in qualche modo deve essere smorzato (e tale dovrà essere considerato ogni qual volta ricorrerà all’interno di questo capitolo): si tratta più che altro di una sorta di stato di sospensione cognitiva che da un lato non è la “falsa credenza”, dall’altro non è ancora lo scetticismo snobistico dello “scienziato”. Bisogna più che altro parlare, nell’ambito della historia e della raccolta dei fatti (cfr. a questo proposito Pomata 1996, p. 178), di una “conoscenza possibile”.

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ringe. Entrambi questi animali sono muniti di corna ed hanno lo zoccolo biforcuto; l’ippelafo femmina però non ha corna. Per quanto riguarda le dimensioni questo animale è molto simile al cervo. Gli ippelafi vivono in Aracosia. Nella stessa regione vivono anche i buoi selvatici. Questi si differenziano dai buoi domestici proprio come i cinghiali dai maiali domestici: sono neri e di aspetto possente, hanno il naso ricurvo e corna rivolte all’indietro. Le corna degli ippelafi sono simili a quelle delle gazzelle».

Prima di analizzare il passo bisogna fare una digressione sulle scelte di traduzione adottate in Lanza e Vegetti 1971 (p. 170). I termini “ιJππεvλαφος”, “βοναvσ ος” e “βοvες οιJ α[γ ριοι”v vengono resi, da Vegetti, rispettivamente con “antilope”, “bufalo” e, ancora, con “bufali” (laddove è invece evidente che Aristotele, in Hist. Anim. 499 a 4, sta cominciando a parlare di un animale – o meglio, di uno speciema-generico111 – del tutto diverso dal “bonaso” di cui aveva parlato in precedenza).112 Ebbene, la traduzione di Vegetti rischia, se non di trarci in inganno, di creare qualche confusione. Laddove noi vediamo (ricostruiamo l’immagine mentale di) bufali, bisonti e antilopi, non siamo sicuri di capire con esattezza cosa dovevano vedere i lettori di Aristotele. Il solo fatto che lo Stagirita si soffermi qui a descrivere minuziosamente le caratteristiche dei tre animali (direi quasi le loro “singolarità”) ci dovrebbe fare capire che non ci troviamo di fronte ad esseri comuni per un greco. Il bonaso,113 il bue selvaggio e l’ippelafo114 sono animali lontani ed esotici che devono essere descritti ricorrendo allo stratagemma usuale dell’ostensione analogica. Ritengo che questo effetto di lontananza sia da mantenere e che in fondo i bufali, le giraffe115 e le antilopi siano molto più “vicini” a noi di quanto non potessero essere i coccodrilli o perfino i pavoni per i Greci.116 In altri termini, se fosse stato Erodoto a descriverci questi animali, sicuramente avrebbe usato le categorie interpretative del thauma o dell’axion mnemes. Categorie, queste, che, come si è visto, Aristotele tende a neutralizzare. Il 111. Gli speciemi generici sono il frutto di una immediata partizione del mondo dei viventi in “morfotipi”, modelli comportamentali a tre dimensioni che permettono di riconoscere differenti esemplari come individui dello stesso tipo (“gatto”, “cane”, “giraffa”). Per il concetto di “generic-specieme” cfr. Atran 1996, pp. 5 sgg. (ma vd. anche pp. 194 sgg.). 112. Non è inverosimile che qui Aristotele faccia riferimento al toro carnivoro dell’Etiopia (per questo animale cfr. pp. 70 sgg. e n. 167, p. 71). 113. Per il bonaso cfr. anche Strab. 15, 1, 69 e Plin. Nat. Hist. 8, 40. 114. Sull’ippelafo cfr. Sillitti 1980, pp. 77 sg., la quale nota come la denominazione di questo animale “sconosciuto” sia tratta dallo Stagirita a partire dal carattere composito del suo aspetto esterno. 115. Sull’identificazione del “pardion” cfr. Lanza e Vegetti 1971, n. 8 p. 170 e Sillitti 1980, p. 78. 116. Sulla diffusione del pavone in Grecia cfr. Bodson 1998, pp. 166 sgg.

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locus di provenienza dell’ippelafo, l’Aracosia, viene appena menzionato e, come è di norma in Aristotele, non viene considerato come un oggetto di discussione pertinente. Per di più l’ippelafo, il cui solo nome fa pensare ad un ibrido di cervo e cavallo, benché faccia parte di un raggruppamento quanto meno singolare, viene assolutamente “normalizzato”. Il raggruppamento degli animali “muniti di pelo” è senza dubbio assai vario, tanto che si ha l’impressione che, a volere ragionare in termini tassonomici, se consideriamo pertinenti, dal punto di vista della classificazione, le differenze relative a questo asse di divisione, molti degli animali menzionati nel passo potrebbero costituire un genere a sé.117 Nel caso dell’ippelafo, in particolare, il termine ιJδια v / con cui si apre la descrizione è effettivamente la chiara spia di una singolarità: l’ippelafo, così sembra volere dire Aristotele, è l’unico di tutti gli esseri muniti di pelo a possedere la barba κατα; τον; λαvρυγγα (lungo la laringe) e proprio per questo, in quanto eccezione, non potrebbe essere “raggruppabile” con altri animali. In un certo senso, dunque, l’ippelafo è un genos. Eppure bisogna dire che il solo fatto di menzionare questa singolarità nell’ambito di un asse di divisione, in un certo senso, la generalizza. In altri termini, l’ippelafo non è affatto un essere thaumatodes, è semplicemente “un essere che ha la barba lungo la laringe e le dimensioni di un cervo”. Ma c’è qualcosa di più: l’ippelafo è un animale esistente. Assieme al bonaso e al toro selvaggio dell’Aracosia, al pardion, questo animale, infatti, sembra condividere lo stesso livello di realtà dei leoni, degli orsi, dei maiali e dei cani menzionati poco prima. Nel testo della Historia Animalium, in questo senso, non ci sono tracce che possano far pensare che quella relativa all’ippelafo sia una credenza fallace. L’ippelafo è in qualche modo una conoscenza. E dunque, benché l’ippelafo sia un animale lontano, benché la sua effettiva esistenza – proprio a causa della sua lontananza – sia un problema difficile da risolvere, la segmentazione del mondo conosciuto che lo comprende non è certo presentata come instabile o fantasiosa né tanto meno viene fatta rientrare nell’area del “si dice”. Allo stesso modo, diversamente da quanto sarebbe potuto accadere ad un tassonomista del XIX secolo, Aristotele è disposto ad annoverare fra le conoscenze l’esistenza di quei mostri marini tanto odiati dai naturalisti “serî” di epoca vittoriana: «ε[στι δ∆ ε[νια ζω'/α περιττα; και; εjν τη/' θαλαvττη/, α} δια; το; σπαvνια ει\ναι

ουjκ ε[στι θει'ναι ειjς γεvνος. η[δη γα;ρ φασιv τινες τω'ν εjµπειρικω'ν αJλιεvων

[οι J µε;ν] εJωρακεvναι εjν τη /' θαλαv τ τη/ ο{µοια δοκι vοις, µεvλανα,

στρογγυvλα τε και; ιjσοπαχη': ε{τερα δε; και; αjσπιvσιν ο{µοια, το; µε;ν 117. Uso il termine “genere” in senso meramente interpretativo (per l’uso dei termini interpretativi in antropologia cfr. Sperber 1999, pp. 21 sgg.).

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χρω'µα εjρυθραv, πτερυvγ ια δ∆ ε[χοντα πυκναv: και; α[λλα ο{µοια αιjδοιvω/ αjνδρο;ς τοv τ∆ ει\δος και; το; µεvγ εθος πλη;ν αjντι; τω'ν ο[ρχεων πτερυvγ ια ε[χειν δυvο, και; λαβεvσθαι ποτε; του' πολυαγκιvστρου τω'/ α[κρω» / . (Hist. Anim. 4, 7, 532 b 18-26)

«Ci sono poi certi animali assolutamente al di fuori della norma anche nel mare; animali che per la loro rarità non è possibile porre in un genos. Alcuni esperti pescatori infatti asseriscono di avere visto in mare animali simili a piccole travi di legno, neri, rotondi e di grossezza uniforme; altri simili a scudi, di colore rosso, provvisti di pinne numerose e fitte; altri ancora simili al membro virile quanto a forma e a dimensioni (soltanto, al posto dei testicoli avevano – a loro dire – due pinne). Un esemplare di questo essere sarebbe stato pescato una volta con l’estremità di una lenza a molti ami».

Come si vede bene Aristotele non mette in dubbio le notizie che gli vengono date dai suoi informatori. In questo senso il suo atteggiamento, rispetto a quello dei naturalisti del XIX secolo, è senza dubbio più elastico:118 lo Stagirita non ridicolizza le doxai dei suoi informatori (tutt’al più le occulta) né denuncia la loro malafede o ne sminuisce resoconti spiegandoli come frutto del delirio, dell’ignoranza o di allucinazioni.119 Insomma, sebbene facciano parte della sfera del “si dice”, gli animali marini perittà sono a tutti gli effetti esseri “possibili” (anche se spania, rari).120 Bisogna però quanto meno segnalare una differenza fondamentale con tutti gli altri animali “strani” o “favolosi” della Historia Animalium che sono stati finora presi in considerazione. I mostri marini anomali “non possono essere posti in un genos” (532 b 19). In questo senso, per quanto animali ammissibili, sono certo esseri difficili da maneggiare e da analizzare. Ma perché questi stranissimi animali simili a pezzi di legno e a falli umani sono così problematici? Ci aiuta in questo senso la lettura di un passo dei Topica (4, 3, 123 a 30 sgg.): «εjπει; δε; παντο;ς γεvνους ει[δη πλειvω, σκοπει'ν ειj µη; εjνδεvχεται ε{τερον ει\δος ει\ναι του' ειjρηµεvνου γεvνους: ειj γα;ρ µη; ε[στι, δη'λον ο{τι ουjκ α]ν ει[η ο{λως γεvνος το; ειjρηµεvνον».

«E poiché sono più di uno gli eide di ciascun genos, bisogna cercare di vedere se non sia possibile che ci sia un secondo eidos del ge118. A questo proposito cfr. ad es. n. 86, p. 133. 119. Reazioni simili, ad esempio, si sono verificate da parte della scienza ufficiale nei confronti degli avvistamenti di mostri marini (cfr. Westrum 1979, pp. 303 sgg.). Di atteggiamenti simili da parte della scienza “ortodossa” parla anche Feyerabend 19943, pp. 242 sgg. 120. Sarebbe interessante capire in che modo sia funzionalizzato nella Historia Animalium il tratto della spaniotes. Mi riservo di studiare altrove questo problema.

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nos che è stato enunciato; se infatti non c’è, è chiaro che non sarà, complessivamente, genos quello che è stato enunciato».121

È dunque possibile, sulla scia della lettura di questo passo, ipotizzare che il fatto che la non collocabilità all’interno di un γεvνος sia in qualche modo legata all’impossibilità di individuare più eide dello stesso genos e, conseguentemente, di impostare un vero e proprio procedimento diairetico. Ma perché non si possono individuare gli eide dei mostri marini, se nel passo in questione vengono delineate almeno tre diverse tipologie della categoria “animale marino anomalo”? La risposta è, a mio avviso, da cercare nel fatto che il termine eidos non ha nulla a che fare con il concetto linneano di “specie” né individua un livello fisso di generalità.122 Secondo quanto ha dimostrato Pellegrin 1982 (pp. 106 sgg.), infatti, l’eidos è da riferirsi ad una categoria subordinata al genos a cui si arriva tramite una divisione che parta da un determinato asse.123 Ed è proprio a partire dalla nozione di “asse di divisione” che si può spiegare il problema del “porre in un genos”. Prima di far questo, però, è forse necessario fare una piccola premessa. L’esperienza di Marco Polo di fronte al rinoceronte indiano, la scoperta dell’ornitorinco e il dibattito della zoologia di fine ’700 e inizio ’800 sulla classificazione di questo animale così atipico ci insegnano che per spiegare l’ignoto, per inserirlo in una enciclopedia, o in una griglia di classificazione già data, si fa spesso ricorso a nozioni note.124 Per descrivere l’ornitorinco si paragona il suo becco a quello dell’anatra e il suo pelo e la sua coda al pelo e alla coda del castoro e così via: è come se il corpo dell’ornitorinco fosse un bricolage vivente delle nozioni di altri animali. Questo però, almeno così mi pare di capire, non può avvenire per i mostri marini di Aristotele. Per la loro descrizione si può fare ricorso o al solo campo di somiglianza125 degli oggetti (si parla infatti di animali simili a piccole travi di legno, oppure simili a scudi) o alla parte più indicibile e nascosta del meno animale di tutti gli esseri: l’uomo. Le similitudini che vengono attivate per la descrizione non riguardano, come dire, intersezioni di volumi,126 non si dice 121. Nel commentare questo passo Zadro 1974, p. 424 nota che «il luogo notevole (2, 25) asserisce, ora esplicitamente, che gli ει[δε di un γεvνος sono più di uno, cioè che l’ει[δος è un sottoinsieme del γεvνος e dà questa regola logica, e cioè che il γεvνος ha più di un sottoinsieme, come strumento di analisi dialettica […]». 122. Cfr. Pellegrin 1982, pp. 106 sgg. 123. A questo proposito cfr. anche Carbone 2002, pp. 40 sgg. 124. Per la “scoperta” dell’ornitorinco (e per il successivo dibattito nella zoologia del tempo) cfr. Eco 1997, pp. 71 sgg. e Ritvo 1997, pp. 1 sgg. 125. Per la similitudine in Aristotele cfr. Tamba-Mecz e Veyne 1979, p. 78 sgg. 126. Cfr. Bologna 1980, pp. 563 sgg.

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cioè che hanno la testa simile a quella dell’animale x e la coda simile a quella dell’animale y, ma che il loro corpo per intero è simile a qualcos’altro. Se ne deduce che, mentre nel caso degli unicorni o dei serpenti alati è possibile effettuare una sezione in parti (anche immaginaria) dell’animale, la stessa cosa non si può fare di un mostro marino. In altri termini, i tipi cognitivi127 di molti animali cosiddetti “fantastici” possono spesso essere caratterizzati dalla presenza di parti distinte, come i denti, le ali, il corno, mentre nel caso dei mostri marini avvistati si ha a che fare con una vaghezza sconcertante per quanto riguarda i mere. Non sarebbe dunque inverosimile immaginare che, per Aristotele, non sia affatto possibile effettuare una divisione in gene ed eide dei mostri marini per il semplice fatto che non è possibile individuare mere che facciano da assi di divisione pertinenti. È per questo forse che non si può porre il genere dei mostri marini: perché è impossibile effettuarne un’analisi moriologica,128 sia in praesentia (come nel caso degli animali “noti” con cui un greco è quotidianamente in contatto) che in absentia (come nel caso degli altri animali “strani” ed esotici presi in esame in questo paragrafo). 2.3.1 L’inventario ipotetico del mondo Come è emerso dalla lettura dei passi presi in considerazione nel precedente paragrafo, Aristotele dimostra di sapere processare dati in absentia e, a partire da questi, elaborare stati ipotetici del mondo.129 Nella Historia Animalium molte divisioni e molte correlazioni universali arrivano a comprendere dati problematici (quan127. Cfr. Eco 1997, pp. 103 sgg. 128. Per il progetto di una “moriologie étiologique” in Aristotele si veda Pellegrin 1982, pp. 189 sgg. 129. In questo senso non mi sento di sottoscrivere completamente la seguente affermazione di Lloyd 1997, p. 557: «Là où le Huainanzi utilise les monstres […], Aristote enferme les monstres du folklore dans la sphère du mythique. Ce qui est contraire à la nature n’est autorisé que comme exception à la règle générale qui est pour lui le bon objet d’enquête et d’explication. Pour Aristote, l’exceptionel n’a pas d’avenir, ni dans la réalité ni dans la science». Da quanto si vede dai passi che ho preso in considerazione nei paragrafi precedenti si può effettivamente dire che l’eccezione viene sempre normalizzata o generalizzata e diventa essa stessa tendenza. La cosa però vale anche per i cosiddetti “mostri del folklore” (che non siano ovviamente le chimere o gli ircocervi: cfr. a tale proposito Sillitti 1980, pp. 9 sgg.) che non vengono affatto marginalizzati in quanto mythodes, ma diventano semmai a tutti gli effetti oggetti di storia naturale. Il movimento, nei confronti degli animali eccezionali, è semmai inverso: ho infatti l’impressione che si abbia più che altro a che fare con una demitizzazione. Allo stesso modo, non credo che sia corretta la posizione di Atran 1996, p. 122 il quale sostiene che Aristotele: «did not foresee that the introduction of exotic forms would undermine his quest for a taxonomy of analyzed entities». Come si vede bene infatti, l’opera di sistemazione aristotelica, proprio in quanto basata sulle tassonomie folk e sui “basic-kinds” degli speciemi generici, dimostra di essere quanto mai elastica.

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do non assolutamente favolosi) che sono il frutto non di una esperienza autottica del naturalista, bensì di resoconti esterni di informatori, di relazioni di viaggio o di esperienze di avvistamenti. Tutti questi dati, raccolti dallo Stagirita (o dal suo staff di collaboratori) sono trattati quasi come matters of fact e non certo come semplici dicerie o come pseude. In questo senso si può parlare di una sorta di “empirismo allargato” in cui la conoscenza scientifica, oltre che avvalersi delle osservazioni dei fenomeni, tende a dare quasi “democraticamente” valore di fatto o di conoscenza possibile a rappresentazioni di seconda mano, per lo più prima facie irrazionali, che, anziché illustrare la regola, diventano esse stesse regola.130 Bisogna dunque come minimo ridimensionare le letture che fino ad adesso sono state fatte della presenza del “fantastico” nell’opera dello Stagirita. Fino ad adesso ci si è infatti sforzati da un lato di dimostrare la marginalità degli animali paradossali nelle opere biologiche di Aristotele,131 dall’altro di sottolineare l’eccessiva indulgenza con la quale certi dati sarebbero stati trattati.132 Come ho già avuto modo di osservare nel corso del primo capitolo (pp. 25 sgg.), se questo secondo approccio rischia di appiattire Aristotele nella sua vetusta antichità, nel primo si può notare un certo timore di leggere, nel protos heuretés di una scienza rispettabile qual è la zoologia, idee ed atteggiamenti che non possono uniformarsi con le nostre strutture culturali e cognitive. Certo, Aristotele non crede completamente a tutto ciò di cui viene informato, ma è capace di costruire, anche a partire da un dato incerto o aporetico, proposizioni ipotetiche sul mondo del tipo if… then e di effettuare inferenze a partire da quel vero e proprio 130. Si noti come questa sorta di empirismo allargato non sia in fondo dissimile dall’abitudine consolidata, nella comunità scientifica contemporanea, a considerare le “comunicazioni” come esperienze di seconda mano. La differenza sarebbe semmai da vedere nell’uso che la scienza antica fa della historia e in quella che si potrebbe chiamare la confusione dei ruoli fra storico e filosofo naturale. Sulla natura dell’empirismo aristotelico e sulla propedeuticità della historia nei confronti dell’attività teorica si veda Pomata 1996, spec. pp. 178 sgg. Quanto alla “regolarizzazione” dei dati singolari cfr. ad es. Hist. Anim. 2, 1, 499 b 11 sgg. In questo passo si effettua una divisione del genos del maiale in due differenti eide: i maiali con lo zoccolo biforcuto e i maiali solipedi. È un caso, questo, in cui una aberrazione viene per l’appunto generalizzata e considerata – per così dire – una specie a sé. Diversamente da quanto accade nella biologia contemporanea, il mostro, anziché essere “utile” per spiegare ed illustrare una regola (cfr. Gould 19974, pp. 189-200 per la letteratura scientifica sui “mostri utili”; per una tendenza analoga nella scienza del XVII secolo cfr. Daston e Park 2000, pp. 171 sgg.) in un certo senso si fa esso stesso regola (o meglio: tendenza) e in un certo senso costringe il naturalista a risegmentare il mondo conosciuto. 131. Cfr. Louis 1967, pp. 242-246. 132. Questa, mi sembra di vedere, è stata la posizione di Manquat 1932, pp. 117 sgg.

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meccanismo deduttivo che sono i raggruppamenti. In questo senso l’esempio dei serpenti alati è assai eloquente: a partire da un dato non autottico, la cui fonte potrebbe anche essere Erodoto, Aristotele arriva a dire che, se la notizia è vera, allora lo stato di una particolare sezione del mondo animale, costituita da un determinato gruppo di viventi che sono gli alati sanguigni, sarà costituita da una divisione in alati senza gambe e alati con due gambe. Come si vede bene, dunque, seppure in presenza di moduli semi-critici nei confronti di dati incerti, il genere della “historia” ammette il trattamento di “rappresentazioni semi-proposizionali” come quelle relative agli esseri “favolosi”, che possono a tutti gli effetti essere inseriti come voci degne di rispetto in quello che potremmo chiamare l’inventario ipotetico del mondo.133 In questo senso quella che altrove potrebbe essere semplicemente la sfera del “fantastico” e del “favoloso” diventa per certi versi, nelle opere biologiche dello Stagirita, un ambito cognitivo ben preciso.134 Si può pertanto dire che in fondo non esistono, nella Historia Animalium, animali frutto di finzione letteraria (o della finzione dell’etnografo), ma animali “possibili” la cui esistenza non è mai stata verificata fino in fondo. 2.3.2 Ritorno al manticora Fatte queste osservazioni è dunque possibile, forse, muovere di nuovo alla volta dell’India e, una volta arrivati, guardarsi attorno, sperando di incontrare gli occhi del manticora. Certo, i preparativi per questo ritorno nel paese dei mostri sono forse stati un po’ lunghi, ma – si sa bene – gli esploratori, talvolta, prima di potere avvistare gli animali dei quali vanno in cerca devono percorrere strade impervie e insicure e per di più, alla fine, hanno bisogno di mesi e mesi di attesa e di appostamenti. Il nostro viaggio fin qui è stato lungo e accidentato. Abbiamo scorto le orme della belva e, inciampando di fossa in fossa, inerpicandoci per sentieri incerti abbiamo visto – come in una poesia di Giorgio Caproni – la strada perdersi fra i sassi. Ma alla fine siamo arrivati: soltanto adesso è possibile rileggere il testo che più ci interessa. Allarghiamo l’obiettivo e aggiungiamo, alla descrizione del manticora, il passo della Historia Animalium immediatamente precedente: 133. Cfr. Sassi 1993, p. 463 a proposito del modulo “semi-critico” adottato da Aristotele e dai Peripatetici in genere. 134. Cfr. Aristot. Metaph. 1, 2, 982 b 12-20. Su questo passo Pinotti 1989, pp. 35 sgg. A questo proposito Jacob 1981, pp. 132 sgg., fa notare come in Aristotele non vengano usate particolari spie linguistiche che rimandano alla sfera del meraviglioso o al fantastico: il “meraviglioso” nello Stagirita viene sempre “razionalizzato” e “modalizzato” (per il concetto di “modalizzazione” cfr. Latour 1998, pp. 28 sgg.).

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«ε[στι δε; και; περι; του;ς οjδοvντας πολλη; διαφορα; τοι'ς α[λλοις ζω/vοις

και; προ;ς αυJτα; και; προ;ς α[νθρωπον. ε[χει µε;ν γα;ρ παvντα οjδοvντας ο{σα τετραvποδα και; ε[ναιµα και; ζω/οτοvκα, αjλλα; πρω'τον τα; µεvν εjστιν αjµφωvδοντα, τα; δ∆ ουjκ αjµφωvδοντα. ο{σα µε;ν γαvρ εjστι κερατοφοvρα, ουjκ αjµφωvδοντα: ουj γα;ρ ε[χει του;ς προσθιvους οjδοvντας εjπι; τη'ς α[νω σιαγοvνος. ε[στι δ∆ ε[νια ουjκ αjµφωvδοντα και; αjκεvρατα, οι|ον καvµηλος. και; τα; µε;ν χαυλιοvδοντας ε[χει, ω{σπερ οιJ α[ρρενες υ{ες, τα; δ∆ ουjκ ε[χει. ε[τι δε; τα; µεvν εjστι καρχαροvδοντα αυjτω'ν, οι|ον λεvων και; παvρδαλις και; κυvων, τα; δ∆ αjνεπαvλλακτα, οι|ον ι{ππος και; βου'ς: καρχαροvδοντα γαvρ εjστιν ο{σα εjπαλλαvττει του;ς οjδοvντας του;ς οjξει'ς. α{µα δε; χαυλιοvδοντα και; κεvρας ουjδε;ν ε[χει ζω/'ον, ουjδε; καρχαροvδουν και; τουvτων θαvτερον. τα; δε; πλει'στα του;ς προσθιvους ε[χει οjξει'ς, του;ς δ∆ εjντο;ς πλατει'ς. ηJ δε; φωvκη καρχαροvδουν εjστι; πα'σι τοι'ς οjδου'σιν, ωJς εjπαλλαvττουσα τω/' γεvνει τω'ν ιjχθυvων: οιJ γα;ρ ιjχθυvες παvντες σχεδο;ν καρχαροvδοντεvς ειjσιν. διστοιvχους δ∆ οjδοvντας ουjδε;ν ε[χει τουvτων τω'ν γενω'ν. ε[στι δεv τι, ειj δει' πιστευ'σαι Κτησιvα/: εjκει'νος γα;ρ το; εjν ∆Ινδοι'ς θηριvον, ω/| ο[νοµα ει\ναι µαρτιχοvραν, του'τ∆ ε[χειν εjπ∆ αjµφοvτεραv φησι τριστοιvχους του;ς οjδοvντας: ει\ναι δε; µεvγ εθος µε;ν ηJλιvκον λεvοντα και; δασυ; οJµοιvως, και; ποvδας ε[χειν οJµοιvους, προvσωπον δε; και; ω\τα αjνθρωποειδεvς, το; δ∆ ο[µµα γλαυκοvν, το; δε; χρω'µα κινναβαvρινον, τη;ν δε; κεvρκον οJµοιvαν τη'/ του' σκορπιvου του' χερσαιvου, εjν η/| κεvντρον ε[χειν και; τα;ς αjποφυαvδας αjπακοντιvζειν, φθεvγ γεσθαι δ∆ο{µοιον φωνη'/ α{µα συvριγγος και; σαvλπιγγος, ταχυ; δε; θει'ν ουjχ η|ττον τω'ν εjλαvφων, και; ειν \ αι αγ [ ριον και ; αν j θρωποφαγ v ον». (Hist. Anim. 2, 1, 501 a 8 - 501 b 1)

«Anche per quanto riguarda i denti, molte sono le differenze fra i diversi animali e fra essi e l’uomo. Tutti gli animali a quattro zampe, sanguigni e vivipari hanno i denti: ma, innanzitutto, alcuni di essi hanno gli incisivi in entrambe le mascelle, altri invece no. Tutti quelli che hanno le corna, non hanno gli incisivi sia sopra che sotto: mancano infatti degli incisivi nella mascella inferiore. Ci sono comunque alcuni animali che sono privi sia di incisivi sia di corna, come ad esempio il cammello. Alcuni hanno zanne sporgenti, come il maiale selvatico, altri invece no. Inoltre, alcuni hanno denti a sega, come il leone, la pardalis, il cane, altri hanno denti non intercalati, come il cavallo e il bue (si dice che hanno “denti a sega” animali i cui denti aguzzi si incrociano incastrandosi a vicenda). Nessun animale ha contemporaneamente zanne sporgenti e corna, e tutti gli animali con i denti a sega non possiedono né le zanne né le corna. La maggior parte degli animali ha i denti anteriori aguzzi, quelli all’interno piatti. La foca ha tutti i denti a sega, come se fosse un incrocio con il genere dei pesci (i pesci infatti hanno quasi tutti i denti a sega). Non c’è uno solo degli animali che abbiamo raggruppato in questi “generi” che abbia una duplice fila di denti. Se si deve credere a Ctesia, però, c’è un’eccezione: egli dice infatti che la belva dell’India chiamata “martichora” ha una triplice fila di denti disposti su ogni mascella. Questa belva – così racconta – Capitolo 2. Ipotesi sul manticora. Aristotele e gli animali “paradossali”

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per dimensioni, pelo e piedi assomiglia al leone, ma la faccia e le orecchie sono umanoidi, gli occhi sono glauchi, il corpo è del colore del cinabro, la coda è simile a quella dello scorpione di terra, ed è munita di un aculeo e di appendici che scaglia come se fossero frecce; il suo verso è simile ad un tempo al suono del flauto e a quello della tromba, corre non meno veloce dei cervi, è feroce e si nutre di carne umana».

Non è possibile dire con certezza come Ctesia abbia descritto per la prima volta l’animale, ma si deve immaginare che i processi di citazione dello Stagirita non siano poi di gran lunga differenti rispetto a quelli attivati nel caso delle informazioni tratte da Erodoto. La descrizione del manticora, come ho già avuto modo di ricordare nel primo capitolo (cfr. spec. p. 63), viene inserita nel contesto di un ben determinato raggruppamento delineato a partire da un ben preciso asse di divisione (la dentatura). Aristotele definisce la correlazione universale in base alla quale tutti i quadrupedi, sanguigni e vivipari, sono dotati di denti ed effettua una divisione del raggruppamento appena determinato in animali con incisivi in entrambe le mascelle (amphodonta) e animali non amphodonta. Successivamente, dopo che è stato introdotto l’ulteriore asse di divisione della presenza o assenza di corna (in associazione con la dentatura), gli animali vengono divisi in chauliodonta (con i denti a zanna), karcharodonta (con i denti a sega) e anepallakta (con i denti non intercalati). Si noti che ognuno di questi raggruppamenti viene considerato un genos a sé stante. Il che può essere dedotto da come viene introdotta la descrizione relativa al mostro indiano: «διστοιvχους δ∆ οjδοvντας ουjδε;ν ε[χει τουvτων τω'ν γενω'ν». Anche il manticora potrebbe dunque essere, da quanto ci è dato di capire, un genos di cui è possibile effettuare una analisi moriologica,135 visto che, come per gli animali “strani” esaminati nei paragrafi precedenti, anche nel suo caso l’eccezione viene generalizzata e per di più viene usata per confermare la validità statistica di una tendenza: «nessuno degli animali appartenenti a questi generi ha una duplice fila di denti». «Vi è però un genos che…»: questo è quello che sembra voler dire lo Stagirita. Eppure, nonostante la correlazione universale in forma negativa («nessuno degli animali…») non venga invalidata dalla possibile esistenza del mostro indiano, sembra comunque che lo Stagirita abbia, almeno rispetto a tutti gli altri esseri aporetici fin qui presi in considerazione, qualche titubanza in più. «Ma c’è qualcosa («ε[στι δεv τι»), se si deve credere a Ctesia», c’è un dato che sembra sfuggire 135. Sulla “moriologia” cfr. Pellegrin 1982, pp. 189 sgg. Per il dibattito sulla moriologia cfr. Lloyd 1993a, pp. 646 sgg. e la conseguente risposta di Pellegrin 1990, pp. 40 sgg.

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a qualsiasi tendenza impensabile e che è difficile da credere e da controllare. La formula del verbo essere unito al pronome indefinito («ε[στι δεv τι») è, esattamente come nel caso già visto dei serpenti alati, una spia linguistica che indica l’eccezionalità del fenomeno (cfr. Di Benedetto 1966, pp. 324 sgg.). Come nel caso di tutti gli animali aporetici, ancora una volta l’eccezionalità viene da un lato indicata, dall’altro – in quanto inserita nel contesto di un asse di divisione – generalizzata. In più il dato viene “salvato” mediante l’inserimento nella sfera del “si dice”.136 Ma questa volta la sfera del “si dice” sembra avere, rispetto a tutti gli altri casi, un valore ben più determinante e marcato, se non altro per il fatto che la diceria ha stavolta un auctor (Ctesia). Aristotele, infatti, dopo avere menzionato il medico di Cnido, passa ad illustrare i tratti della belva, ma, mano a mano che procede nella loro descrizione, lascia l’impressione che sia oltre modo difficile superare l’effetto di meraviglia che essi destano. Il manticora viene incluso nell’inventario ipotetico del mondo, ma come credere completamente a questo essere, visti i suoi tratti mirabolanti? Aristotele, in questo caso, non può che rimettere a Ctesia le responsabilità della descrizione e, per certi versi, espropriare la propria Historia Animalium delle sue parole: tutte le caratteristiche della belva vengono catalogate in una serie di infinitive che la dicono molto lunga: il discorso indiretto è una maniera che Aristotele usa non tanto per criticare Ctesia, quanto per deresponsabilizzarsi in relazione alla rappresentazione di cui sta dando la versione. In un certo senso lo Stagirita decide di non esercitare la sua autorità e di sospendere il giudizio in una maniera peraltro molto più forte rispetto ai passi analizzati in precedenza; come a dire che il manticora può a tutti gli effetti essere incluso in un inventario ipotetico del mondo, ma che un’operazione del genere è quanto meno azzardata (o almeno lo è molto di più di quanto possa essere per gli unicorni e i serpenti alati). Il manticora ha il pelo e il corpo simile a quello del leone, ha occhi e orecchie simili a quelle dell’uomo, una coda di scorpione che scaglia le sue appendici. Ma queste, per l’appunto, sono tutte cose che dice Ctesia. Se poi confrontiamo la versione di Aristotele con tutte le rappresentazioni a venire, in particolare con quelle di Fozio e di Eliano, ci accorgiamo per di più che lo Stagirita elimina dal suo racconto una serie di effetti di realtà che invece gli altri interpretanti hanno sviluppato (o ripreso da Ctesia).137 Innanzitutto Aristotele non fa alcun rife136. A questo proposito è utile dare uno sguardo a Pellegrin 1982, n. 58 pp. 67 sg. 137. Cfr. FrGrHist 688 F. 45, 15 (= Phot. Bibl. 45b 31-46 a 12 Henry) ed Ael. Nat. Anim. 4, 21 (Per questi passi cfr. rispettivamente pp. 19 sg. e 251 sgg.).

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rimento alla misura delle parti, laddove invece il testo di Fozio e quello di Eliano riporteranno minuziosamente le dimensioni della belva: la coda, nei loro resoconti, misura più di un cubito, i pungiglioni hanno la lunghezza di un piede e lo spessore di un giunco sottilissimo (o di una fune), i denti sono un po’ più larghi rispetto a quelli del cane. Il tipo cognitivo dell’animale che viene costruito dal testo di Aristotele, in questo senso, risulta essere quanto mai approssimativo rispetto a quello che costruiranno Fozio ed Eliano. Ma c’è ancora qualcosa di più. Aristotele non fa riferimento, come è suo solito, a tutti i tratti “narrativi” che quasi sicuramente dovevano essere presenti nel testo di Ctesia. Tanto per cominciare, non viene fatta alcuna menzione dell’antagonismo fra il manticora e l’elefante né viene posto alcun accento sulla particolare ferocia della belva. Da Fozio ed Eliano sappiamo che il manticora non solo è ghiottissimo di carne umana, ma è capace di uccidere perfino tre uomini insieme e di avere la meglio su qualsiasi animale che non sia l’elefante (o il leone). Niente di tutto ciò viene detto nella Historia Animalium. E per di più vengono taciute le curiose notizie relative alla caccia al manticora che gli Indiani fanno a dorso di elefante. Da quanto si vede, insomma, la selezione effettuata dallo Stagirita nei confronti del testo degli Indikà sembra essere stata quanto mai massiccia. In questo, effettivamente, se si vuole effettuare un confronto con gli altri testi relativi ad esseri aporetici letti nei paragrafi precedenti (pp. 136 sgg.), non è che Aristotele abbia agito diversamente dal solito. La menzione del “luogo” (l’India) viene spogliata di tutte le sue memorie etnografiche e l’animale viene così, in un certo senso, “delocizzato” e privato di tutte le sue funzioni narrative e della sua singolarità meravigliosa. In più, come avviene nel caso dei serpenti alati, il manticora viene “salvato” mediante l’inclusione nello spazio di sospensione del “si dice”; ma mentre i serpenti dell’Etiopia (o dell’Arabia?) vengono inseriti all’interno di una divisione, l’esistenza del manticora viene “giustapposta” alle divisioni effettuate subito prima della sua menzione. In un certo senso, quindi, è come se la possibile esistenza dell’animale venisse considerata esterna ad una segmentazione valida del mondo; il che implica ovviamente che il manticora potrebbe senz’altro essere un genos a sé, ma che in un certo senso non bisogna fare troppo affidamento alla possibilità dell’esistenza di questo genos per il semplice fatto che è Ctesia a parlarne. Certo, il manticora, fra gli esseri “eccezionali” che popolano la Historia Animalium, non è l’unico la cui descrizione, anziché essere inserita nell’ambito dei raggruppamenti determinati dagli assi di divisione, viene ad essi giustapposta: un caso simile era quello degli animali ad un solo corno.138 Per questi esseri però – come si è già vi138. Per l’unicorno e l’orige in Aristotele cfr. pp. 139 sg.

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sto – lo Stagirita non faceva ricorso alla sfera di sospensione del “si dice”. In qualche modo gli unicorni, a differenza del manticora, erano animali “conosciuti” e quindi venivano presentati come un dato certo e per di più a loro riguardo Aristotele – che dava praticamente per scontata la veridicità della notizia – non si preoccupava di citare nominatim la sua fonte: Ctesia. Per quale motivo dunque Aristotele avrebbe dovuto “credere” ad esseri eccezionali come gli unicorni e avrebbe invece dubitato circa l’esistenza di un altro essere altrettanto eccezionale come il manticora? Viene il sospetto che, in fondo, non sia soltanto il manticora in sé ad essere un problema, ma che la citazione di determinati animali, nell’ambito di una historia naturalis, possa anche giocare un ruolo particolare nel processo di costruzione dell’autorità di chi scrive. Evidentemente, però, non può essere soltanto così. Prima di continuare a parlare di questioni di autorità è forse indispensabile porre una ulteriore domanda: perché il manticora dovrebbe essere un problema per Aristotele e per la cultura di cui partecipa? La risposta si può forse trovare nel volto e nello sguardo della bestia. 2.4 Il manticora e il viso dell’uomo Nel descrivere i tratti umani del mostro indiano, Aristotele, anziché ricorrere ad aggettivi come homoios o prosempherés o hoiosper, usa il termine “anthropoeidés”. Il che ovviamente annulla ogni ipotesi che faccia pensare ad una ostensione analogica simile a quelle di cui si è discusso nel primo capitolo: come gli dei delle credenze popolari o le immagini funerarie, il manticora di Aristotele (e forse anche quello di Ctesia) non ha il rostro “simile” o “analogo” a quello dell’uomo, ma ha effettivamente l’eidos (l’aspetto) del prosopon conformato come quello di un essere umano.139 139. Per l’uso dell’aggettivo ανj θρωποειδηςv in riferimento alle immagini funerarie e all’aspetto umano degli dei cfr. Hdt. 2, 86, 7; Aristot. Metaph. 3, 2, 997 b 10; Ath. 8, 65 Kaibel; Sext. Pyrrhoniae hypotiposeis 3, 3; Adv. Math. 9, 44. L’aggettivo viene anche usato in riferimento a quelle brutte copie dell’uomo che per Aristotele sono le scimmie (Aristot. Hist. Anim. 2, 8, 502 a 24). Si noti che, a proposito delle scimmie, Aristotele dice (2, 8, 502 a 16 sg.) che condividano (epamphoterizei) la physis dell’uomo e dei tetrapoda. Si capisce dunque come l’aggettivo anthropoeidés veicoli una natura intimamente umana e sia da intendere in senso molto più che analogico (ma si veda Ath. 9, 44 Kaibel, in cui, a proposito dell’allocco, si dice che anthropoeidés è qualsiasi animale che imiti il comportamento degli uomini). A proposito del prosopon umano, poi, bisogna ricordare che Aristotele, in Hist. Anim. 1, 8, 491 b 9-12, dice che solo agli uomini si può attribuire il prosopon: « το; δ∆ υJπο; το; κρανι vον οjνοµαvζεται προvσ ωπον εjπι; µοvνου τω'ν α[λλων ζω/vων αjνθρωvπου: ιjχθυvος γα;ρ και; βοο;ς ουj λεvγ εται προvσωπον» («La parte al di sotto del cranio è chiamata “viso” e si trova, fra tutti gli esseri viventi, solo nell’uomo. Non si può dire infatti che il pesce o il bue hanno un “viso”»). Bisogna però dire che l’uso del termine prosopon associato a rostri di animali ricorre ancora prima del-

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Il viso di un uomo, peraltro, secondo i canoni del sapere fisiognomico, costituisce in un certo senso la differenza per antonomasia. Diversamente da come accade per tutti gli animali che – a meno che non vengano addomesticati – mantengono sempre e in ogni luogo gli stessi ethe, la varietà dei tipi di volto umano implica infatti una conseguente varietà di tratti psicologici (cfr. ad es. pp. 77 sgg.). Un essere come il manticora, dunque, che ha il volto simile a quello dell’uomo, è in realtà molto più inquietante e imprevedibile di qualsiasi altro animale. È una fiera senza dubbio selvaggia, ma del suo essere “feroce” si potrebbero immaginare tante sfumature psicologiche quanti sono i diversi tipi facciali ed oftalmici dell’uomo. Se dunque la fisiognomica insegna che ogni animale si decifra da sé, e che per decifrare l’uomo è necessario al contrario conoscere tutte le fisionomie di tutti gli animali, allora, virtualmente, per comprendere volta per volta i singoli esemplari di manticora bisogna eseguire gli stessi processi inferenziali che si eseguono tutte le volte che si ha davanti un uomo sconosciuto. «Se questo mostro esiste, dunque, sono fatti di Ctesia»: questo sembra volerci dire Aristotele con fare sornione. Ma oltre che per l’ambiguità dello sguardo, il volto umano del manticora risulta perturbante anche rispetto ad una visione comune dello spazio e del rapporto che all’uomo viene usualmente attribuito con esso. A tale proposito è noto come Aristotele sia solito connotare simbolicamente le tre polarità dimensionali (alto-basso, destra-sinistra e davanti-dietro), esprimendo, nei loro confronti, giudizi di valore: oltre alla destra e alla sinistra, infatti, secondo lo Stagirita, «anche gli altri principi – l’alto e il davanti – sono nell’uomo meglio definiti secondo natura» (De incessu animalium 5, 706 b 12 sgg.).140 Nel De partibus animalium, inoltre, si dice che: «ο{λως δ∆ αjει; το; βεvλτιον και; τιµιωvτερον, ο{που µηv τι µει'ζον ε{τερον εjµποδιvζει, του' µε;ν α[νω και; καvτω εjν τοι'ς µα'λλοvν εjστιν α[νω, του' δ∆ ε[µπροσθεν και; ο[πισθεν εjν τοι'ς ε[µπροσθεν, του' δεξιου' δε; και; αjριστερου' εjν τοι'ς δεξιοι'ς». (Part. Anim. 3, 3, 665 a 22-26)

«Complessivamente, ciò che è sempre migliore e più nobile – a meno che non ci sia qualcosa di più grande che sia di impedimento – per quanto riguarda l’alto e il basso tende a trovarsi in alto, per quanto riguarda il davanti e il dietro, tende a trovarsi davanti, per quanto riguarda la destra e la sinistra, tende a trovarsi a destra». lo Stagirita (ad es. cfr. Hdt. 2, 76, 1 e 2, 46, 2). In questo senso sospetto che l’asserzione aristotelica di 491 b 9 sgg. abbia valore non tanto descrittivo rispetto a un uso, quanto, semmai, normativo. 140. Su Inc. Anim. 5, 706 b 12 sgg. e Part. Anim. 3, 3, 665 a 22 sgg. cfr. Lloyd 1971, 41 sgg.

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Se dunque negli uomini le archai (destra, davanti e alto) sono meglio differenziate rispetto alle dislocazioni spaziali meno nobili ad esse simmetriche, negli altri esseri viventi esse risultano del tutto indistinte. La qual cosa, pur in una visione come quella antica, che non riesce a distinguere metafisicamente i grandi generi di “uomo” e di “animale” (entrambi appellati con il comune termine di zoia), in qualche modo contribuisce a creare una gerarchia biologica secondo la quale l’animale può essere considerato una sorta di “uomo imperfetto”.141 Ebbene, nell’ambito di questa concezione, lo strumento di “elevazione” per eccellenza, per l’uomo, è considerato proprio il capo, la testa; vale a dire la parte del corpo che sta più in alto. Si veda ad esempio il seguente passo di Senofonte: «οι} πρω'τον µεν; µονv ον των' ζωω /v ν αν [ θρωπον ορ j θον ; αν j εσ v τησαν: ηJ δε;

ορ j θοvτης και; προοραν ' πλεο v ν ποιει' δυν v ασθαι και; τα; υπ { ερθεν µαλ ' λον θεασ ' θαι και; η|ττον κακοπαθειν ' και; οψ [ ιν και; ακ j οην ; και; στοµ v α εν j εποιv ησαν: επ [ ειτα τοις ' µεν ; αλ [ λοις ερ J πετοις ' ποδv ας εδ[ ωκαν, οι} το; πορευεv σθαι µον v ον παρεχ v ουσιν, αν j θρωπ v ω/ δε; και; χειρ ' ας προσεθ v εσαν, αι} τα; πλεισ ' τα οις | ευδj αιµονεσ v τεροι εκ j ειν v ων εσ j µεν ; εξj εργαζv ονται. και; µην ; γλω'τταν v γε παν v των των ' ζωω /v ν εχ j ον v των, µον v ην την ; των ' αν j θρωπ v ων επ j οιv ησαν οια { ν αλ [ λοτε αλ j λαχη/' ψαυο v υσαν του' στοµ v ατος αρ j θρουν ' τε την ; φωνην ; και; σηµαιν v ειν παν v τα αλ j ληλ v οις α} βουλοµ v εθα». (Xen. Mem. 1, 4, 11-12)

«Innanzitutto solo l’uomo, fra tutti gli altri esseri viventi, gli dei misero in posizione eretta. E proprio questa posizione che fa sì che egli possa vedere innanzi a sé e che possa osservare meglio le realtà superne e che si faccia meno male agli occhi, alle orecchie e alla bocca. Poi, mentre agli altri animali hanno dato i piedi, che permettono solo di spostarsi, all’uomo hanno dato anche le mani, che costruiscono la maggior parte delle cose in virtù delle quali siamo più felici delle bestie. In più, se tutti gli animali hanno la lingua, solo quella degli uomini gli dei l’hanno fatta in modo che, toccando in momenti differenti zone differenti della bocca, essa riesca ad articolare la voce e ci permetta di significare l’un l’altro ciò che vogliamo».

Senofonte, in base ad un progetto di gran lunga meno ambizioso (e forse anche meno consapevole e riflesso) rispetto a quello aristotelico, sottolinea i vantaggi della struttura fisica dell’uomo e la mette in connessione con le sue facoltà intellettuali nell’ambito di quello che potrebbe dirsi un finalismo provvidenzialista tout court,142 141. Per la “continuità” metafisica tra uomo e animale nella zoologia antica cfr. Wolff 1997, spec. pp. 161 sgg. Per l’animale come “uomo imperfetto” si veda invece Vegetti 1994, pp. 123 sgg. 142. Per questo passo (e per la supposta influenza di Diogene di Apollonia) cfr. Lanata 1994, p. 19 e Ead. 2000, pp. 19 sgg. Per la possibile influenza del pensiero di Antistene cfr. Brancacci 1997, pp. 213 sg. A proposito del finalismo

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in base al quale non solo la natura è stata progettata in funzione dell’uomo, ma l’uomo stesso è stato dotato di un punto di vista privilegiato per studiarla (e quindi, grazie all’uso delle mani, per modificarla a proprio vantaggio). Il viso umano, posto nella parte superiore del corpo, funziona dunque non solo come un forte strumento cognitivo, ma anche come un mezzo di elevazione spirituale; in un certo qual modo, infatti, è proprio perché il suo prosopon sta in alto che l’uomo è spinto verso le cose “alte”. L’animale, per converso, diventa ciò che è simmetricamente opposto rispetto all’uomo: se l’uomo infatti è ciò che verte verso l’“alto”, l’animale è, al contrario, ciò che verte verso il “basso”. Esemplare, in tal senso, è la ben nota sezione della zoologia simbolica del Timeo. 143 Se da un lato, infatti, in essa i destini dell’uomo e dell’animale vengono presentati da Platone come intrecciati (nel momento in cui si immagina, con grande forza visionaria, un processo entropico secondo cui le anime degli uomini defunti si vanno progressivamente a dislocare nei corpi di animali occupanti volta per volta diversi gradini della scala gerarchica delle forme di vita), dall’altro lato la morfologia corporea e la destinazione ambientale degli esseri viventi vengono concepiti come segni ed effetti, ad un tempo, di una degradazione irreversibile delle anime dell’uomo che finiscono per “animalizzarsi” in assenza della filosofia (e dunque dell’uso delle facoltà più elevate dell’anima):144 «το; δ∆ αυ\ πεζον; και; θηριωδ' ες γεγv ονεν εκ j των ' µηδεν ; προσχρωµεν v ων

φιλοσοφια v / µηδε; αθ j ρουν v των της ' περι ; τον ; ουρ j ανον ; φυσ v εως περ v ι µηδεν v ,

senofonteo, è opportuno distinguerlo dal più raffinato finalismo aristotelico, per il quale si rimanda a Pellegrin 1990, p. 40, ove si mostra come la genesi del progetto moriologico aristotelico sia da inserire nel contesto agonico che vedeva contrapposti il meccanicismo atomistico e il finalismo tradizionale. La scelta di Aristotele, in questo senso, – secondo Pellegrin 1990, p. 4 – prescinde sia dal provvidenzialismo sia dall’emanantismo e opta per la subordinazione della combinatoria meccanicistica alla teleologia. Utile sarebbe, a tale proposito, un confronto con Phys. 2, 8, 198 b 10 sgg. 143. Cfr. Plat. Tim. 91 e sgg. (citato più avanti). La dizione «zoologia simbolica» a proposito del Timeo di Platone è da riferire a Pinotti 1994, p. 103. Per l’uso degli animali che fa Platone cfr. Ead., pp. 103 sg.: «[…] l’eclissi dell’animale in quanto tale, la sua subordinazione, in quanto figura simbolica, ad un ordine antropocentrico del discorso –, l’uso che Platone fa degli animali riserva più di una sorpresa. Da un lato, esso comporta un allineamento dell’umano all’animale, la disarticolazione del rapporto gerarchico dato tra l’uno e l’altro. […] Tra umano e animale non si dà differenza radicale, piuttosto un’ontologica, e per questo inquietante, prossimità. Dall’altro, esso implica un inglobamento, nell’infrastruttura concettuale stessa, delle molteplici prospettive dello sguardo animale sul mondo. La prossimità tra umano e animale comporta, per Platone, molto di più di un semplice scambio di connotazioni: essa contempla, al di là del rispecchiamento, la possibilità di una vera e propria permutazione di modi di vita e prospettive di conoscenza». 144. Su questo passo cfr. Pinotti 1994, pp. 105 sgg.

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δια; τo; µηκεvτι ταις' εν j τη/' κεφαλη/' χρησ ' θαι περιοδ v οις, αλ j λα; τοις ' περι; τα; στηθ v η της ' ψυχης' ηγJ εµοσ v ιν επ { εσθαι µερ v εσιν. εκ j τουvτων ουν \ των ' επ j ιτηδευµαv των ταv τ∆ εµ j προσ v θια κωλ ' α και ; τας ; κεφαλας; ειςj γην ' ελ J κοµ v ενα υπ J ο; συγγενεια v ς ηρ [ εισαν, προµηκ v εις τε και ; παντοια v ς εσ [ χον τας; κορυφαςv , οπ { η/ συνεθλιφ v θησαν υπ J ο; αρ j για v ς εκ J ασ v των αι J περιφοραι: v τετραπ v ουν τε το; γεν v ος αυj των ' εκ j ταυvτης εφ j υε v το και ; πολυπ v ουν της ' v εις υπ J οτιθεν v τος πλει ο v υς τοις ' µαλ ' λον αφ [ ροσιν, προφασ v εως, θεου' βασ ωςJ µαλ ' λον επ j ι ; γην ' ελ { κοιντο». (Plat. Tim. 91e - 92a)

«La schiatta degli animali terrestri e selvaggi è nata dagli uomini che non praticavano affatto la filosofia e non guardavano per nulla la natura del cielo perché non si servivano affatto delle orbite nella loro testa, ma seguivano, come guida, le parti dell’anima collocate nei pressi del petto. A seguito di questi comportamenti gli arti anteriori e le teste vennero trascinati, per affinità, verso terra; il cranio si è allungato e ha assunto forme di ogni genere, a seconda del modo in cui le rivoluzioni nella testa di ciascuno erano state compresse dalla pigrizia: questa razza è nata perciò con quattro e più zampe, perché ai più stolti gli dei hanno fornito sostegni più numerosi, affinché si trascinassero maggiormente verso terra».

Se dunque da un lato viene ribadita la continuità progressiva che lega gli uomini e gli animali in un unico grande genere, 145 dall’altro a differenziare la morfologia delle due classi (quella umana e quella animale) è proprio il diverso uso che della psyche viene fatto in relazione alla simmetria alto/basso. Gli uomini che nella loro vita precedente si sono fatti guidare dal “basso” del proprio ventre, infatti, vengono trascinati verso terra e si trasformano in quadrupedi. Il quadrupede, a sua volta, visto come il frutto della metensomatosi, viene concepito, secondo tale concezione, come un “uomo difettoso” che non riesce ad avvalersi delle dynameis più nobili e più “alte” dell’anima. Ma se l’unico grande genere dell’uomo e dell’animale va distinto in base alla simmetria alto-basso (ma anche in base a quelle destrasinistra e davanti-dietro), che tipo di mostri potranno mai essere il manticora, il tritone o – poniamo il caso – il centauro? Tali animali infatti – posto che la loro esistenza sia ammessa dagli interpretanti che volta per volta ne parlano – costituirebbero senza dubbio una devianza rispetto all’ordine cosmologico prestabilito ab aeterno: facce di uomo che si sostengono su quattro zampe e che, anziché sondare l’immensità dello spazio stellato, scrutano prone il suolo o gli abissi marini, il manticora, il tritone e il centauro scardinano, confondendole fra loro, le polarità dello spazio distinte provvidenzialmente dalla natura. 145. A questo proposito cfr. Wolff 1997, pp. 161 sgg.

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Il manticora, in particolare, è una faccia di uomo, priva di mani, che usa la bocca non – come l’uomo senofonteo – per parlare e comunicare, ma per attirare, sedurre, spaventare e divorare esseri che hanno un viso simile al suo: gli uomini. Esempio, questo, di una estrema intemperanza dello stomaco (l’antropofagia) che, seguendo il paradigma delle metensomatosi platoniche, costituirebbe uno dei discrimini più netti fra umanità e bestialità. Si capisce, dunque, come il manticora potrebbe essere per gli antichi particolarmente buono per pensare e – per così dire – ottimo da usare simbolicamente. Niente di tutto questo però avviene – almeno ad un livello esplicito – in Aristotele, né, presumibilmente, in nessun altro autore prima di lui. Lo Stagirita, del resto, non dà alcun valore simbolico ai singoli animali, i quali, una volta “delocizzati” e “spazializzati”, non risultano buoni per pensare alcunché. È la loro moriologia semmai a diventare modello per la comprensione e la riflessione sull’uomo nella sua singolarità e sul suo rapporto con tutti gli altri esseri viventi. In Aristotele, in altri termini, sono gli animali in toto ad essere buoni da pensare e per pensare.146 Il manticora, certo, sarebbe stato per un altro autore un ottimo reagente simbolico che avrebbe permesso di riflettere su un numero infinito di cose, fornendo ottimi spunti per digressioni etico-filosofiche e cosmologiche, eppure per Aristotele esso non è che uno dei tanti animali che sono menzionati nel corso della Historia Animalium: è soltanto uno dei tanti dati (problematici) che occupano lo spazio neutro del tavolo dell’anatomista. È comunque ipotizzabile che le preoccupazioni atropologiche e antropocentriche (e cosmologiche) che la possibile esistenza di una belva come il manticora avrebbe suscitato si collochino, semmai, sullo sfondo della versione aristotelica del mostro, e che in qualche modo, pur se occultate, influenzino la rappresentazione mentale che l’autore si fa di esso. Abbiamo visto nel paragrafo precedente come Aristotele sia capace di “mettere fra virgolette” dati estremamente problematici e incerti inserendoli in una sorta di inventario ipotetico del mondo. La collocazione (o meglio la giustapposizione) del manticora in tale inventario, tuttavia – come si è già notato – è qualcosa di cui lo Stagirita sembra sorridere beffardamente alle spalle di Ctesia. Certo, Aristotele dimostra di sapere bene che il mondo della natura è il mondo delle imperfezioni e dell’epì to polyv: gli enti di natura funzionano secondo date regole tendenzialmente ricorrenti, ma al di là delle (poco) strette maglie delle correlazioni universali, lo Stagirita è capace – come si è già visto – di ammettere l’esistenza di esseri non 146. Cfr. a tale proposito Hist. Anim. 8, 1, 588 a 16 sgg.; Pol. 1, 3, 1256 b 15 sgg. Su questi passi cfr. Vegetti 1994, pp. 123 sgg. Sugli animali come buoni per pensare nella loro totalità in Aristotele cfr. Lloyd 1997, pp. 557 sgg.

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meno sensazionali del manticora.147 Vi è inoltre il fatto che, a differenza dell’ircocervo (che non esiste in alcun luogo e che nessuno ha mai avvistato),148 del manticora esisterebbe pur sempre una prova (la testimonianza di Ctesia), seppure esile e incerta: questa belva sensazionale – secondo il medico di Cnido – vivrebbe in India, dove addirittura sarebbe possibile vederla e finanche catturarla.149 E quindi, perché Aristotele non si vuole fidare completamente della sua fonte? Si è visto peraltro come l’esistenza del manticora non venga a turbare nessuna delle tendenze di natura valide per lo più e individuate dallo Stagirita relativamente all’asse di divisione dei denti, dal momento che la sua ipotetica esistenza non verrebbe ad intaccare la correlazione universale secondo la quale non è possibile che ci siano animali con due file di denti in entrambe le mascelle. Tuttavia, a mio avviso il problema, per Aristotele, non sta tanto nella dentatura sensazionale – che pure può essere ricondotta a normalità e facilmente “generalizzata” –, quanto nel fatto, per l’appunto, che tale dentatura si vada ad innestare in un viso umano prono e antropofago. La lettura dei passi effettuata in questo paragrafo ci deve infatti fare quanto meno sospettare che il commento di Aristotele alla rappresentazione fatta circolare a partire da Ctesia possa essere attribuito più che altro alla idealizzazione della rappresentazione culturale greca del volto umano. A tale proposito l’antropologo Dan Sperber ha mostrato come sia possibile che in molte culture l’elaborazione di norme ideali relative al funzionamento della natura intervenga nei discorsi sul mondo reale; in particolare, a proposito dell’uso simbolico degli animali, Sperber ha mostrato come l’assunzione normativa della “perfezione” e della “esemplarità” di tutti gli esseri viventi porti a scartare dal dominio dell’esistente tutte le eccezioni, o comunque a ricondurle nel piano del simbolico mettendole “fra virgolette”.150 La costru147. Oltre agli esseri menzionati nel paragrafo precedente si pensi ad esempio ai dualizers o alle forme di vita fuzzy in Aristotele (a proposito delle quali cfr. Lloyd 1996, pp. 67-82). J οιω v ς δ∆ αν j αγ v κη και; περι; τοπ v ου 148. Cfr. ad es. Phys. 4, 1, 208 a 27 sgg.: «οµ

το;ν φυσικο;ν ω{σπερ και; περι; αjπειvρου γνωριvζειν, ειj ε[στιν η] µηv, και; πω'ς ε[στι, και; τιv εjστιν. ταv τε γα;ρ ο[ντα παvντες υJπολαµβαvνουσιν ει\ναιv που (το; γα;ρ µη; ο]ν ουjδαµου' ει\ναι: που' γαvρ εjστι τραγεvλαφος η] σφιvγ ξ;) […]». («Lo studioso della natura deve

necessariamente occuparsi anche del “luogo”, per stabilire, come in precedenza a proposito dell’infinito, se esso esiste oppure no, in che modo esiste e cosa è. Tutti infatti affermano che le cose che esistono sono in qualche luogo: si dice infatti che “il non essere non è da nessuna parte”: dove si trova infatti l’ircocervo? Oppure: dove si trova la sfinge?)». Su questo passo cfr. Sillitti 1980, pp. 9 sgg.; Ebbesen 1997, pp. 533 sgg. Oltre al passo riportato qui in nota cfr. anche i già cit. APr. 1, 38, 49 a 24; APo. 2, 1, 89 b 32; 2, 7, 92 b 7. 149. Cfr. Ael. Nat. Anim. 4, 21. 150. Cfr. a tale proposito Sperber 1975, pp. 25 sgg.

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zione della norma ideale, in tal senso, consiste nel fare diventare universalmente vera e cogente una proposizione sul mondo che è invece è soltanto statistica e contingente. Ebbene, si può ipotizzare che nel suo commento sospettoso del manticora lo Stagirita forse solo per un attimo abbia “idealmente” pensato alle correlazioni universali sullo spazio come a norme necessariamente vere e universalmente valide. Aristotele non lo dice mai esplicitamente, ma è verosimile che in qualche modo, mentre commenta la notizia riportata da Ctesia, partecipi di quelle norme ideali che non permettono di pensare un viso umano che nell’uomo e “in alto”. Secondo tali norme ideali la “nobiltà” del viso umano (che sta davanti e in alto) non può essere immaginata come innestata in un essere prono, feroce e sanguinario come il manticora. 2.5 Se il manticora fosse un ibrido… Oltre che i motivi culturali che sono stati ipotizzati nel paragrafo precedente, vi erano però probabilmente motivi più strettamente biologici che vietavano ad Aristotele di credere completamente al manticora. Se infatti immaginiamo questo mostro alla lettera (e dunque sciogliendo tutte le analogie ostensive in “identità”), come un incrocio di uomo e animale, riuscirà più facile capire i dubbi dello Stagirita nei confronti della sua fonte. Riguardo alla riproduzione incrociata di esseri non omofili esistevano, nell’antichità, diversi paradigmi. Vi era innanzitutto – come si è già visto – l’abitudine di decifrare i mostri come “segni divini” (terata);151 ma nello stesso tempo esisteva una tendenza razionalizzante popolare – di cui potrebbero essere una utile testimonianza due noti passi plutarchei152 – secondo cui gli ibridi mostruosi sarebbero semplicemente da interpretare come il frutto della bestiale intemperanza degli uomini che, a differenza di tutti gli altri animali, provano estremo piacere nel praticare atti sessuali con esseri di specie diverse dalla propria. Si vedano ad esempio, le seguenti parole che Plutarco mette in bocca al maiale parlante protagonista del Bruta animalia ratione uti: «τα; δ∆ εjν υJµι'ν αjκοvλαστα ουjδε; το;ν νοvµον ε[χουσα συvµµαχον ηJ φυvσις εjντο;ς ο{ρων καθειvργνυσιν, αjλλ∆ ω{σπερ υJπο; ρJευvµατος εjκφεροvµενα πολλαχου' ται'ς εjπιθυµιvαις δεινη;ν υ{βριν και; ταραχη;ν και; συvγ χυσιν εjν τοι'ς αjφροδισιvοις αjπεργαvζεται τη'ς φυvσεως. και;

151. Cfr. n. 38, p. 31 (ma vd. anche pp. 182 sgg.). 152. Septem Sapientium Convivium 149 C 11-D 3 (in cui Talete si fa beffe della concezione secondo cui il mostro è visto come un teras divino) e Bruta animalia ratione uti 990 F 3-991 A 8. Quest’ultimo passo è riportato infra.

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γα;ρ αιjγ ω'ν εjπειραvθησαν α[νδρες και; υJω'ν και; ι{ππων µιγνυvµενοι και; γυναι'κες α[ρρεσι θηριvοις εjπεµαvνησαν: εjκ γα;ρ τω'ν τοιουvτων γαvµων υJµι'ν Μινωvταυροι και; Αιjγ ιvνπανες, ωJς δ '∆ εjγ ω\/µαι και; Σφιvγ γες αjναβλασταvνουσι και; Κεvνταυροι. καιvτοι δια; λιµοvν ποτ ∆ αjνθρωvπου και; κυvων ε[φαγεν υJπ ∆ αjναvγ κης και; ο[ρνις αjπεγευvσατο: προ;ς δε; συνουσιvαν ουjδεvποτε θηριvον εjπεχειvρησεν αjνθρωvπω/ χρηvσασθαι. θηριvα δ '∆ α[νθρωποι και; προ;ς ταυ'τα και; προ;ς α[λλα πολλα; καθ∆ ηJδονα;ς βιαvζονται και; παρανοµου'σιν». (Plut. Bruta anim. 990 F 3 - 991 A 8)

«Alle vostre intemperanze, neppure con l’aiuto della legge la natura è in grado di mettere limiti, anzi, rompendo gli argini come un fiume in piena, la lussuria umana turba, oltraggia, sovverte l’ordine naturale. Così ci sono stati uomini che hanno sperimentato l’unione con capre, scrofe e cavalle, e donne che hanno nutrito insane passioni per animali maschi; da accoppiamenti di tal fatta vengono fuori, penso, i vostri Minotauri ed Egipani, e le Sfingi e i Centauri. È pur vero che costretti dalla fame, cani e uccelli hanno mangiato talvolta carne umana, ma nessuna bestia ha mai tentato di abusare dell’uomo a fini sessuali. Siete voi che, in questo come in molti altri casi, perseguendo il piacere fate violenza e oltraggio alle bestie».

A tale concezione (che, come dimostra il brano di Plutarco, sembra avere lunga vita), tuttavia, cominciano ad essere affiancate, già dal V sec. a.C., una serie di teorie “colte” che, partendo dall’esperienza fattuale, tentano di delegittimare in maniera più raffinata le credenze relative ai “centauri” e agli ibridi mostruosi in genere. In particolare doveva essere molto conosciuto (e discusso) il modello cosmologico di Empedocle che, in un certo qual modo – stando almeno all’interpretazione di Gallavotti153 – aveva spiegato razionalisticamente l’esistenza di mostri (i famosi αjνδροφυη' βουvκρανα, torsi umani con testa di bue) che comunque venivano considerati ormai estinti. Secondo quanto viene solitamente (e forse rischiosamente)154 ricostruito a partire dalle testimonianze e dai frammenti,155 Empedocle aveva distinto quattro fasi che coincidevano con il periodo della lenta ripresa della Philia (Amore) dopo la sconfitta subita ad opera della Eris (Contesa) separatrice. Nella prima fase venivano create a caso parti organiche separate e non accordabili fra loro; nella seconda (di cui si parla in B 59 DK) queste membra cominciavano ad unirsi e a formare una serie di esseri fantastici forniti di più nature 156 (gli ανj δροφυη' βουκ v ρανα e i βουγενη' αν j δροπ v ρωρ / α per l’appunto); nella terza e nella quarta infine si creavano – in seguito alla vittoria 153. 154. 155. 156.

Cfr. Gallavotti 19852, ad. l. (fr. 7 Gallavotti: B 59 e 61 DK). Cfr. Giannantoni 1998, pp. 365 sg. A tale proposito cfr. Laurenti 1999, pp. 221 sgg. Cfr. B 59 e 61 DK.

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definitiva di Philia su Eris – esseri completi forniti di un’unica natura che cominciarono a poco a poco a generare altri esseri simili a se stessi (le specie, o meglio: gli speciemi generici).157 Questa impalcatura teorica viene però messa in crisi da Aristotele, il quale nel de generatione animalium (1, 18, 722 b 17 sgg.) osserva che è impossibile che, fosse anche in un passato lontano (la prima fase dello schema cosmologico di Empedocle), la terra sia stata popolata da “molte tempie senza collo” (cfr. B 57 DK), dal momento che – dice lo Stagirita – «una parte priva di anima e priva di vita non può conservarsi» (722 b 22-23: «ου[τε γα;ρ µη; ψυχη;ν ε[χοντα ου[τε µη; ζωηvν τινα δυvναιτ ∆ α]ν σωvζεσθαι»). L’interesse di Aristotele in questo passo è principalmente quello di attaccare sin dalle fondamenta la teoria della pangenesi.158 In particolare si tratta di evitare il paradosso in base al quale, ammettendo che il seme venga formato da tutte le parti del corpo di ciascuno dei genitori, si dovrebbero formare due feti (un maschio e una femmina) in tutto simili ai due genitori (cfr. 1, 18, 722 b 7 sgg.). Aristotele riconosce che la teoria empedoclea (la teoria delle “tessere”), pur partendo da premesse analoghe a quelle della pangenesi, riesce ad evitare questo paradosso, ma dall’altro lato ricade nell’errore secondo il quale la generazione degli esseri viventi finisce per essere vista come una mera somma aritmetica di parti diverse;159 cosa che, dal punto di vista dello Stagirita, porterebbe a conseguenze del tutto paradossali. Se infatti si ammettesse che le parti vengono dalle parti, si potrebbe arrivare ad ammettere che dall’incrocio di esseri non omofili di qualsiasi sorta potrebbe venire alla luce un prodotto formato dalla mera somma di due “tessere” diverse. In altri termini, il mondo sarebbe pieno di ibridi mostruosi nei quali si verrebbe a realizzare – cosa del tutto impossibile per Aristotele – la compresenza di più nature diverse.160 Ma non è tutto qui. 157. Cfr. B 71, 4 DK; B 60 DK; B 61 DK; B 62 DK; B 65 DK; B 67 DK (ma vd. anche Aet. 5, 19, 5: A 72 DK). 158. Per l’esposizione delle teorie pangenetiche, oltre che Gen. Anim.1, 17, 721 b 6 sgg., cfr., nel Corpus Hippocraticum, Arie, Acque e Luoghi 14 (II, 60 Littré); Sul morbo sacro 2 (VI, 364 L); Sulla generazione 3 e 8 (VII, 474 e 480 L). Sulla trattazione di queste teorie in Aristotele cfr. Balme 19923, pp. 140 sgg. e Lesky 1951, pp. 1294 sgg. (oltre che – per le teorie della riproduzione e la concezione greca della consanguineità – S. Grimaudo, ΣϒΝΑΙΜΟΣ−ΟΝΑΙΜΟΣ, in corso di pubblicazione per i tipi della Palumbo nel volume Γεvνος /genus curato da G. Picone). 159. In questo senso si deve leggere, a mio avviso, anche l’asserzione di Gen. Anim. 1, 18, 722 b 22-23 che altrimenti – come lascia intendere la traduzione di Diego Lanza (Lanza e Vegetti 1971, p. 853 – potrebbe essere letta come in contraddizione con quanto detto in Hist. Anim. 8, 28, 606 b 17 sgg. e Gen. Anim. 2, 7, 746 a 29 sgg. Per una lettura di questo passo rimando alla traduzione di Louis 1961, p. 21. 160. Sull’impossibilità della compresenza di più nature in un unico essere cfr. ad es. il già cit. Gen. Anim. 1, 18, 722 b 17 sgg.

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La teoria empedoclea, infatti, nell’ipotizzare l’esistenza dei mostri in un passato lontano, oltre ad ammettere che le cose che sono da natura e per natura non sono organizzate in vista di un fine (ma sono rette dal caso),161 viene a violare quella norma statisticamente valida secondo la quale la natura segue sempre (o per lo più) leggi fisse e, di conseguenza, non ammette variazioni nel tempo per l’ordine da lei tendenzialmente determinato.162 Una cosa simile, peraltro, Aristotele afferma che avvenga anche per la generazione interspecifica, che, come tutti i fenomeni naturali, non può che seguire delle sue regole valide epì to poly.v Secondo lo Stagirita, infatti, la koinogonia esiste (e a testimoniarlo come semeion c’è anche il noto proverbio greco secondo cui «l’Africa genera sempre qualcosa di nuovo»), ma si verifica soltanto a determinate condizioni:163 « Ολως { δε; τα; µε;ν α[γ ρια αjγ ριωvτερα εjν τη'/ ∆Ασιvα/, αjνδρειοvτερα δ∆ εjν τη'/

Ευjρωvπη/ παvντα, πολυµορφοvτατα δ∆ εjν τη'/ Λιβυv η/: και; λεvγ εται δεv τις παροιµιvα, ο{τι αjει; Λιβυv η φεvρει τι καινοvν. ∆ια; γα;ρ τη;ν αjνοµβριvαν µιvσγεσθαι δοκει' αjπαντω'ντα προ;ς τα; υJδαvτια και; τα; µη; οJµοvφυλα, και; εjκφεvρειν ω|ν οιJ χροvνοι οιJ τη'ς κυηvσεως οιJ αυjτοι; και; τα; µεγεvθη µη; πολυ; αjπ∆ αjλληvλων: προ;ς α[λληλα δε; πραυ?νεται δια; τη;ν του' ποτου' χρειvαν. και; γα;ρ και; δεvονται του' πιvνειν τουjναντιvον τω'ν α[λλων του' χειµω'νος µα'λλον η] του' θεvρους: δια; γα;ρ το; µη; ειjωθεvναι υ{δατα γιvνεσθαι του' θεvρους αjσυvνηθες αυjτοι'ς το; πιvνειν εjστιvν. και; οι{ γε µυvες ο{ταν πιvωσιν, αjποθνηvσκουσιν. γιvνεται δε; και; α[λλα εjκ µιvξεως µη; οJµοφυvλων, ω{σπερ και; εjν Κυρηvνη/ οιJ λυvκοι µιvσγονται ται'ς κυσι; και; γεννω'σι, και; εjξ αjλωvπεκος και; κυνο;ς οιJ Λακωνικοιv. Φασι; δε; και; εjκ του' τιvγ ριος και; κυνο;ς γιvνεσθαι του;ς ∆Ινδικουvς, ουjκ ευjθυ;ς δ∆ αjλλ∆ εjπι; τη;ς τριvτης µιvξεως: το; γα;ρ πρω'τον γεννηθε;ν θηριω'δης γιvνεσθαιv φασιν. Αγοντες [ δε; δεσµευvουσιν ειjς τα;ς εjρηµιvας τα;ς κυvνας: και; πολλαι; κατεσθιvονται, εjα;ν µη; τυvχη/ οjργω'ν προ;ς τη;ν οjχειvαν το; θηριvον». (Hist. Anim. 8, 28, 606 b 17 - 607 a 8)

161. Cfr. a tale proposito Phys. 2, 8, 198 b 10 sgg. 162. Sulla natura come causa di ordine in Aristotele cfr. Lang 1998, pp. 265 sgg. (ma cfr. anche Giannantoni 1998, pp. 392 sg.). Bisogna segnalare il fatto che tale principio lo si ritrova in qualche modo banalizzato nel Perì apiston di Palefato, quando si dice che: «ο{σα δε; ει[δη και; µορφαιv ειjσι λεγοvµεναι και; γενοvµεναι τοv τ ε, αι } νυ'ν ουjκ ει jσ ι v, τα; τοιαυ' τ α ουjκ εjγ εvνοντο. ει j γα;ρ < τιv> ποτε και ; α[λλοτε εjγ εvνετο, και; νυ'ν τε γιvνεται και; αυ\θις ε[σται» (praef. Festa: ««tutte le specie e tutte le forme che si dice siano state generate in passato, e che ora non esistono più, in realtà non sono mai esistite; infatti se mai qualcosa è stata generata in altri tempi, la stessa cosa e viene generata ancora adesso e di nuovo lo sarà in futuro»). 163. Il termine koinogonia relativamente alla riproduzione incrociata di specie non omofile viene usato da Platone (Politico 265 d 9 sgg.) in contrapposizione alla idiogonia. In questo passo si lascia intendere che, per l’appunto, relativamente ai modi di riproduzione, gli animali si possono dividere in animali che ammettono la koinogonia e animali che hanno unicamente la idiogonia; fra questi ultimi (che costituiscono la maggioranza degli animali) ci sarebbero gli uomini (265 e).

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«In genere gli animali feroci sono più feroci in Asia; in Europa invece sono tutti più coraggiosi, mentre in Africa presentano una maggiore varietà di forme. A questo proposito c’è anche un proverbio che dice che l’Africa genera sempre qualcosa di nuovo e strano. Sembra in effetti che a causa della scarsa piovosità della zona gli animali si accoppino quelle volte che si incontrano presso i rigagnoli e che questo avvenga anche per gli esseri che non appartengono alla stessa razza. L’unione è feconda solo quando la durata della gestazione è la stessa e quando la taglia di un animale non è molto differente da quella dell’altro. Questi animali infatti si addomesticano fra di loro proprio perché hanno bisogno di abbeverarsi ed al contrario degli animali delle altre zone del mondo hanno bisogno di bere più in inverno che in estate. Gli animali africani infatti, dal momento che di solito non è possibile trovare acqua in estate, perdono l’abitudine di bere in questa stagione. I topi africani infatti, quando cercano di bere, muoiono.164 Ci sono altri frutti dell’accoppiamento di esseri non omofili: ad esempio a Cirene i lupi si uniscono ai cani e riescono a procreare; allo stesso modo i cani di Laconia vengono dall’unione dei cani e delle volpi. Si dice inoltre che i cani indiani siano il frutto dell’accoppiamento della tigre e di un cane e che però non vengano dati alla luce se non alla terza generazione. Il cucciolo dato alla luce alla prima generazione infatti è un animale estremamente feroce. Si conducono le cagne in luoghi deserti e le si legano. Molte di esse vengono divorate qualora il maschio della tigre non sia in calore».

I mostri prodigiosi dell’Africa (ma anche i cani della Laconia e i cani-lupo di Cirene), dunque, secondo l’interpretazione del noto proverbio fornitaci da Aristotele,165 non sarebbero altro che ibridi che vengono a crearsi in condizioni climatiche estreme. L’Africa è infatti una zona incredibilmente calda e secca e la mancanza d’acqua tipica di questa zona si presta come occasione perché accoppiamenti altrove improbabili diano vita ad esseri dalle forme più impensate. E dunque la nascita di animali che in altre zone del mondo sarebbero considerati anomali (o quanto meno rari: tanto rari da essere considerati monstra o, nell’accezione tradizionale, terata)166 viene qui resa spiegabile facen164. Per l’interpretazione di questa frase rimando a Louis 1969, ad l.: «cette phrase semble en contradiction avec ce qui a été dite au chapitre 6, 595 a 8, à propos de la façon de boire des souris. Mais ici Aristote ne parle que des souris de Libye». 165. Oltre che lo stesso Aristotele (Gen. Anim. 2, 7, 746 a 29 - 746 b 11), per altre versioni del proverbio sulla Libia cfr. anche Zenobio 2, 51 Leutsch; Diogene 6, 11 Leutsch; Gregorio di Cipro 2, 60 Leutsch; Apostolio 10, 75 Leutsch; Anaxilas fr. 27 Kaibel. È verosimile, ma non completamente dimostrabile, che un accenno a questo proverbio sia stato fatto nel trattatello del Corpus Hippocraticum su Arie, Acque e Luoghi (§ 12), nella parte lacunosa relativa all’Egitto e alla Libia (a tale proposito cfr. Bottin 1986, n. 30 p. 138). Per le limitazioni poste dalla natura alla generazione degli ibridi cfr. anche Lucrezio 5, 837 sgg. 166. Cfr. n. 38, p. 31 (ma vd. anche pp. 182 sgg.).

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do ricorso a ragioni fisiche (il caldo, il secco, la mancanza di pioggia). La spiegazione tuttavia contiene in sé una limitazione: si dice infatti che l’unione sia feconda soltanto quando il periodo di gestazione è il medesimo per entrambe le specie e quando la taglia degli animali che si accoppiano fra loro è la stessa (606 b 23 sg.: «εκ j φερ v ειν ων | οιJ χρον v οι οιJ τη'ς κυηvσεως οιJ αυjτοι; και; τα; µεγεvθη µη; πολυ; αjπ∆ αjλληvλων»).167 Le medesime argomentazioni vengono riprese più tardi da Aristotele – nell’ambito di un mutato contesto – nel De generatione animalium (2, 7, 746 a 29 sgg.), ove si spiega anche come i frutti eccezionali di accoppiamenti interspecifici possano allignare e, addirittura, diventare – per così dire – speciemi generici a se stanti: «Τα; µεν; ουνj αλ [ λα των ' εκ j τοιαυvτης µιξv εως γινοµεν v ων συνδυαζοµ v ενα

φαιvνεται παvλιν αjλληvλοις και; µιγνυvµενα και; δυναvµενα τοv τε θη'λυ και; το; α[ρρεν γεννα'ν, οιJ δ∆ οjρει'ς α[γ ονοι µοvνοι τω'ν τοιουvτων: ου[τε γα;ρ εjξ αjλληvλων ου[τ ∆ α[λλοις µιγνυvµενοι γεννω'σιν». (Aristot. Gen. Anim. 2, 7, 746 b 12-16)

«E mentre per il resto sembra che tutti gli animali che vengono fuori da questo tipo di accoppiamento riescano ad unirsi a loro volta fra di loro e che, una volta accoppiatisi, siano in grado di dare vita sia a cuccioli maschi che a cuccioli femmina, i muli, invece, sono gli unici ibridi che non riescono a riprodursi. Infatti non generano né accoppiandosi fra di essi, né unendosi ad altri animali».

Ad esclusione del mulo, dunque, è possibile che tutti gli ibridi arrivino alla seconda generazione e che quindi si venga a creare volta per volta un nuovo speciema-generico fornito di una denominazione e di un pacchetto di tratti morfocomportamentali stabili che ne definiscano la natura. Ecco pertanto che, sulla base di questo ragionamento, si può spiegare facilmente come sia possibile che in Etiopia (ma anche in zone climatiche analoghe, come ad esempio l’India) vengano alla luce ad ogni piè sospinto nuove specie di animali, generati – per l’appunto – dai numerosi accoppiamenti interspecifici dei quali sono teatro le rive dei pochi fiumiciattoli che è possibile trovare in questa zona estrema del mondo. Resta comunque da chiedersi se, in base a quanto affermato nei due passi in questione, venga considerata come eventualità possibile la generazione di un ibrido di uomo ed animale come il centauro (un’eventualità, questa, che, come si sa bene, veniva contemplata dal mito).168 167. Voglio specificare in nota che l’uso del termine “specie” in questo saggio è da intendere in senso meramente interpretativo. Per l’uso dei termini interpretativi in antropologia cfr. ad es. Sperber 1999, pp. 21 sgg. 168. Per la critica razionalistica del mito dei centauri in ambito peripatetico si veda ad es. Palefato, Perì apiston 1 Festa (che riprende gli argomenti aristotelici in fatto di riproduzione incrociata).

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Ebbene, la risposta è no: per Aristotele, infatti, tutti i terata multiformi di cui parla la tradizione relativa ai prodigi vanno visti non come effettivi incroci di uomo e animale, bensì come esseri anomali e irregolari che hanno deviato da una norma biologica valida statisticamente e le cui caratteristiche (la somiglianza in alcune parti del corpo ad esseri non omofili, così come la presenza di menomazioni o le conformazioni multiple) possono essere ricondotte a principi fisici (eccesso di residuo, eccessivo calore, troppo scarso calore etc.).169 E pertanto, quando si parla di bambini nati con la testa di bue, non bisogna pensare effettivamente ad un incrocio fra l’uomo e il bue (e dunque ad una somma aritmetica delle parti), bensì ad un bambino che nasce con la testa simile a quella di un bue: «το; δε; γινοvµενον κριου' κεφαληνv φασιν η] βοο;ς ε[χειν και; εjν τοι'ς α[λλοις οJµοιvως εJτεvρου ζωv/ου, µοvσχον παιδο;ς κεφαλη;ν η] προvβατον βοοvς. ταυ'τα δε; παvντα συµβαιvνει µε;ν δια τα;ς προειρηµεvνας αιjτιvας, ε[στι δ∆ ουjθε;ν ω|ν λεvγ ουσιν αjλλ∆ εjοικοvτα µοvνον: ο{περ γιvνεται και; µη; πεπηρωµεvνον». (Gen. Anim. 4, 3, 769 b 13-18)

«Si racconta di nati con la testa di caprone o di bue, e similmente, tra gli altri animali, di vitelli con la testa di bambino o di pecore con la testa di bue. Tutti questi fatti avvengono per le cause dette, tuttavia nulla di quello che si racconta c’è veramente, ma si tratta soltanto di somiglianze, e ciò accade anche in animali non menomati».

Per il resto, Aristotele, menzionando le condizioni per la procreazione interspecifica rilevate in Hist. Anim. 606 b 17 sgg. e Gen. Anim. 746 a 29-b 11, ribadisce che i centauri non possono esistere: «ο{τι δ ∆ εjστι;ν αjδυvνατον γιvνεσθαι τεvρας τοιου'τον, ε{τερον εjν εJτεvρω/

ζω'/ον, δηλου'σ ιν οιJ χροvνοι τη'ς κυηvσ εως πολυ; διαφεvροντες αjνθρωvπου και ; προβαvτου και ; κυνο;ς και ; βοο;ς: αjδυvνατον δ ∆ ε{κ αστον γενεvσ θαι µη; κατα; του;ς οιjκ ει vους χροvνους». (Gen. Anim. 4, 3, 769 b 22-25)

169. Cfr. Lanza e Vegetti 1971, p. 822: «la nascita di un animale anomalo o addirittura mostruoso […] è sempre spiegabile con ragioni fisiche (eccesso di residuo, troppo o troppo scarso calore etc.), la sua deformità quindi, anche se contro natura, è spiegabile con condizioni anomale che inevitabilmente (εξj ανj αγv κης) lo hanno prodotto. Ciò perché, mentre i fenomeni biologici hanno una regolarità probabile, quelli fisici hanno una regolarità assoluta, che non ammette eccezioni». Più in particolare Aristotele (cfr. Gen. Anim. 4, 4, 769 b 30 sgg.) confuta la teoria democritea della doppia immissione di sperma (che attribuiva le malformazioni al seme alla parte “maschile”) e spiega le anomalie con la mancata sottomissione della “materia” (la parte “femminile”) alla forma (cioè al principio generativo fornito dal seme), mostrando come condizioni del genere si realizzino per lo più negli animali multipari (polytoka). La presenza di molti feti infatti – a detta di Aristotele – sarebbe da ostacolo al “completamento” e ai movimenti della generazione (Gen. Anim. 4, 4, 770 b 26 sg.: j ποδιζ v ειν τας ; τελειωσ v εις αλ j ληλ v ων και; τας ; κινησ v εις τας ; γιννητικας v »). «εµ

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«Che è impossibile che si produca una simile anomalia, che un animale cioè si formi in un altro, lo mostrano i tempi della gestazione che sono molto diversi per l’uomo, la pecora, il cane, il bue. Ed è impossibile che ciascuno di questi nasca non conformemente al proprio tempo».

Come è dunque impensabile che il centauro possa mai essere esistito, allo stesso modo si deve sospettare che il manticora – possibile ibrido di uomo e leone – sia una invenzione letteraria di un autore non degno di fede. Certo, Aristotele sa bene che la natura è capace di sorprendere con la sua prodigiosa creatività e proprio per questo si dimostra anche disposto, in molti casi, a modificare le sue concezioni abituali di fronte a casi problematici o addirittura – come nel caso di alcuni dualizers (ad esempio le spugne o le oloturie) – a ridefinire la propria concezione di “animale”.170 Inoltre Aristotele sa bene che i tratti del mostro elencati da Ctesia possono anche essere intesi come mere analogie ostensive. Tuttavia è come se di fronte ad una qualsiasi possibilità di intersezione (anche analogica) fra uomo e animale scattasse in lui un campanello di allarme. Quelle leggi di natura che funzionano per lo più (in questo caso le leggi sulla riproduzione incrociata) si trasformano in norme ideali, tanto che, seppure il manticora sia catalogato (fra virgolette) nell’inventario ipotetico del mondo, la “responsabilità” – per così dire – della sua esistenza viene rimessa del tutto al suo auctor originario, cioè Ctesia. La qual cosa, però, se da un lato preserva Aristotele dalla eventualità di non avere trattato un animale esistente, dall’altro gli permette di usare il mostro come un pretesto per sminuire l’autorità del medico di Cnido e legittimare, di contro, il proprio “discorso scientifico”. In questo senso, come l’ircocervo negli Analitici primi e negli Analitici Secondi funziona da “operatore logico”,171 il manticora, nella Historia Animalium, funge da “operatore polemico” e, per così dire, da confine di demarcazione di due diversi ambiti di discorso quali potevano essere il discorso favoloso e soggettivo degli storici del passato e il discorso vero e critico di chi scrive. È così, dunque, che il manticora contribuisce a costruire l’autorità dello Stagiri170. I dualizers, nella dizione comune adottata per le tassonomie folk, sono esseri che condividono i tratti di due raggruppamenti che dovrebbero invece essere mutualmente esclusivi (la spugna ad es. ha tutte le caratteristiche della pianta, ma si dice che, come gli “animali”, abbia la percezione: cfr. Aristot. Hist. Anim. 1, 1, 487 b 10 sg.; 5, 16, 548 a 28 sgg.; 8, 1, 588 b 20 sg.; Part. Anim. 4, 5, 681 a 11 sgg.). A questo proposito Lloyd 1996, pp. 81 sg. dimostra che Aristotele risolve spesso il problema della “doppia classificazione” rivedendo i tratti pertinenti della “animalità”, che viene definita non più (come lo Stagirita è solito fare nella maggior parte dei casi) in base alla presenza della percezione, ma in base alla presenza dei tratti dello stimolo di autoconservazione e della produzione di residuo. 171. Sugli ibridi fantastici come operatori logici cfr. Ebbesen 1997, pp. 533 sgg.; Sillitti 1980, pp. 11 sgg.; Ginzburg 1996, p. 203.

Capitolo 2. Ipotesi sul manticora. Aristotele e gli animali “paradossali”

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ta richiamando alla memoria – nominatim – la possibile mendacità della sua fonte.

3.

La scomparsa del mostro: ovvero il paradosso dei paradossografi

Cominciamo a capire adesso come la storia del manticora in Aristotele sia una storia di silenzi. In questo senso, forse, l’immagine più azzeccata per spiegare l’operazione orchestrata dallo Stagirita sarebbe quella della stratificazione degli occultamenti. Aristotele, infatti, in primo luogo elimina – come vuole la struttura dell’opera che scrive – ogni riferimento etnografico relativo al luogo (l’India) e ai particolari narrativi e curiosi che dovevano essere presenti nel racconto di Ctesia, quindi omette ovviamente di discutere i possibili livelli di lettura alternativa del mostro. Le teorie platoniche ed empedoclee (che Aristotele certo conosceva bene), in un certo senso, rimangono fuori dal testo in una sorta di oblio necessario: se solo fossero state citate probabilmente avrebbero potuto anche funzionare, ad un tempo, da giustificazione e spiegazione “scientifico-filosofica” di quanto detto dall’indografo. Ma la sola menzione di Platone ed Empedocle in un contesto per certi versi “scabroso” come quello relativo al manticora rischiava di diventare una legittimazione delle informazioni tratte da Ctesia e avrebbe certo dipinto in una luce ben diversa il testo degli Indikà; un testo che doveva invece essere attaccato, a meno di non volere generare nel lettore (il lettore ideale che Aristotele prevede per la sua opera) seri dubbi sulla “veridicità” e sulla serietà della stessa Historia Animalium, di un’opera, cioè, che voleva superare il “sensazionalismo” e la “singolarizzazione” delle storie tradizionali.172 Per di più il manticora, nonostante le preterizioni e le reticenze di Aristotele (o forse anche a causa delle stesse), mantiene con forza i suoi tratti perturbanti; e questo nonostante Aristotele non ricorra ad alcuna spia linguistica particolare (ad esempio l’uso di aggettivi come xenon, paradoxon, thaumastòn o idion) per segnalarlo.173 Il fatto è che l’intervento (taciuto) di norme ideali come quelle relative al simbolismo dello spazio e alle possibili ibridizzazioni di uomo e animale in un certo senso vietano allo Stagirita di accettare fino in fondo l’ipotetica esistenza del manticora e nello stesso tempo gli offrono un’arma bene affilata per l’autolegittimazione del proprio discorso scientifico: la critica a Ctesia. Rimane però da spiegare un paradosso apparentemente molto complicato. Come mai il manticora, animale paradoxon – a quanto 172. Sulla natura polemica delle storie degli antichi cfr. anche pp. 131 sg. 173. Sull’uso (o meglio… sul “non uso”) di aggettivi che afferiscono alla sfera del meraviglioso nella Historia Animalium cfr. Jacob 1981, p. 130.

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sembra – anche per Aristotele, non compare mai nei trattati di paradossografia che ci sono giunti? Quando nel leggere a tappeto la Historia Animalium mi sono imbattuto per la prima volta nel manticora, mi è venuto spontaneo allontanarmi immediatamente dallo schermo del mio portatile acceso che illuminava l’edizione ingiallita di Pierre Louis e di cercare, fra gli scaffali della biblioteca di Filologia greca della mia facoltà, l’edizione dei paradossografi curata da Alessandro Giannini. Ero sicuro che avrei trovato una miriade di passi su un animale mirabolante come il manticora. Mi misi dunque a sfogliare avidamente l’index rerum notabilium,174 ma del manticora non c’era traccia. Mi balzavano davanti agli occhi i nomi degli animali più disparati: animali comuni (come l’αjλωvπεξ o gli α[ρκτοι) o “strani” (come il κροκοvττας e il κατω'βλεψ).175 Per il manticora, niente. Rimasi deluso. Come potevano i paradossografi avere messo da parte un animale paradossale come il manticora? Si trattava forse di un atroce scherzo del destino? Credo, con il passare del tempo, di avere trovato una risposta a questo dilemma, anche con l’aiuto di un articolo di Christian Jacob che tuttora ritengo davvero illuminante.176 Nello studiare i processi di citazione messi in atto da Antigono di Caristo nei confronti di Aristotele, Jacob 1981 (pp. 121 sgg.) dimostra come il meraviglioso sia soprattutto una tecnica di scrittura: il paradossografo non trova dati sorprendenti in sé e per sé nelle opere dello Stagirita, ma ottiene l’effetto del paradosso attraverso una serie di “tecniche” ben studiate, che consistono principalmente nell’eliminare tutte le espressioni di commento presenti nel testo di partenza e nell’occultare il contesto argomentativo costruito dalle impalcature delle eziologie, dei raggruppamenti e delle correlazioni universali.177 In ogni caso, però, Antigono di Caristo parte sempre da notizie che Aristotele ritiene vere e fondate; si affida cioè all’autorità di chi ha scritto la Historia Animalium. Completamente opposto è invece il comportamento che il paradossografo tiene nei confronti di Ctesia, che pure era stato una delle fonti di Aristotele. Nell’aneddoto 15 b, infatti in seguito ad una singolare notizia relativa agli unici due corvi che esisterebbero a Crannone (una città dove notoriamente non erano presenti i corvi), in Tessaglia, Antigono dice: 174. Giannini 1966, pp. 400 sgg. 175. Per questi animali cfr. rispettivamente Antig. 49; Aristot. Mir. 83, 836 b 27 sgg.; 144, 845 a 17 sgg.; P. V. 2; Archel. F. 7. 176. Jacob 1981, pp. 121-142. 177. Jacob 1981, pp. 132 sgg.

Capitolo 2. Ipotesi sul manticora. Aristotele e gli animali “paradossali”

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«και ; εjν

∆ Εκβατα v ν οις δε; και ; εjν Πεvρσαις Κτησι vας ι Jσ τορει ' παραπληvσ ιοvν τι τουvτοις. δια; δε; το; αυjτο;ν πολλα; ψευvδεσθαι παρελειvποµεν τη;ν εjκ λογηvν: και; γα;ρ εjφαιvνετο τερατωvδης».

(Antig. 15 b)

«Ctesia racconta che avviene qualcosa di simile anche ad Ecbatana e in Persia. Ma dal momento che costui dice molte menzogne, lasciamo da parte la sua citazione. Mi sembra infatti che sia di natura prodigiosa».

Antigono, dunque, nello scegliere le informazioni da citare, cerca accuratamente di evitare il τερατωvδης, cosa che di conseguenza lo porta a mettere da parte gli autori “sospetti”. Ebbene, chi è più sospetto di Ctesia? Sia ben chiaro che ancora una volta lo statuto di molte informazioni tratte dagli Indikà risulta essere poco chiaro: Ctesia dice “molte” menzogne, ma qualcuna – lo si intuisce dal testo – risulta essere verità. Per di più – si badi bene – le cose che dice “sembrano” essere teratodes, ma non v’è alcuna certezza che lo siano. Semplicemente, a differenza di Aristotele, Antigono di Caristo sceglie, per lo più, di non tenerle in considerazione.178 In un certo senso, dunque, il progetto aristotelico trova il suo coronamento nel paradossografo: Aristotele ha conferito al suo discorso l’autorità del discorso veritiero debellando nell’agone una delle sue fonti (Ctesia), che pure ha usato. È per questo che non ci può più essere alcuno spazio per il manticora in un’opera, come quella di Antigono, che si colloca sulla scia di Aristotele. Le parole relative al manticora, in quanto parole di Ctesia, non possono avere più alcun valore né essere “salvate” semiproposizionalmente nella sfera di sospensione ontologica del “si dice”. Del resto un autore come Antigono, il cui fine principale è quello di sorprendere il lettore, per non essere bollato dall’infamante epiteto di pseudologos, ha bisogno di ricorrere a statuti di verità molto forti per raggiungere il suo scopo (divulgare la natura meravigliosa e sensazionale della Natura). La sola menzione di Ctesia come fonte degna di fede, in altri termini, avrebbe fatto traballare tutta l’impalcatura della sua opera. È per questo che il manticora, il più paradossale e sorprendente di tutti gli animali “possibili”, deve scomparire dalle paradossografie.

178. Oltre al passo già citato cfr. ad es. Antig. 145 (FrGrHist 688 F. 1, 11) in questo passo la notizia recata da Ctesia viene presa per buona anche perché c’è un secondo riscontro: Filone, autore di Aithiopikà, che historeî sulla fonte rossa e che dunque, in virtù della sua historia, prova che ciò che dice Ctesia è vero. Ma vd. anche Antig. 150 (FrGrHist 688 F. 45, 49) e 165 (FrGrHist 688 F. 61 a).

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CAPITOLO 3

Passaggio in Etiopia: il manticora nell’inventario di Roma

«Se non esistessero i fiori riusciresti ad immaginarli? / Se non esistessero i pesci riusciresti ad immaginarli? / In altre zone di questo universo / (è facile da realizzare) / esiste tutto ciò che io non riesco ancora ad immaginare» (M. “Morgan” Castoldi dei Bluvertigo, Altre f. d. v.)

0.

Il manticora, i carri armati e gli armadilli: la fine di un futuro possibile

Voglio cominciare il capitolo citando un’opera che rischia di sfuggire all’attenzione della maggior parte dei classicisti e che, a mio avviso, non può non essere considerata un passo fondamentale per il Fortleben del manticora. Mi riferisco a Tarkus, il secondo album degli Emerson Lake & Palmer, esponenti di punta, negli anni ’70, del rock progressivo britannico.1 Come altri lavori del periodo,2 Tarkus è una vera e propria sinfonia rock, una struttura musicale sorprendentemente complessa in cui 1. L’album, del 1971, è stato recentemente restaurato e ristampato su Compact Disc nel 1996 dalla Leadclass Ltd. Quanto al “progressive rock” si tratta di un sottogenere del rock, nato in Gran Bretagna alla fine degli anni ’60 dalla fusione di rock, jazz, fusion e musica barocca e dalla particolare attenzione nei confronti delle avanguardie musicali di quegli anni. Il progressive nasceva, in contrapposizione al rock degli anni ’60, come musica colta e adulta (cfr. a tale proposito Rizzi 1999, pp. 5-15. Per gli Emerson Lake & Palmer cfr. Id., pp. 28 sgg.). 2. Si vedano ad esempio Close to the Edge e Tales from Topographic Oceans degli Yes; Athom Earth Mother dei Pink Floyd; Thick as a Brick dei Jethro Tull e In the Court of the Crimson King dei King Crimson (per una scheda discografica di questi album cfr. Rizzi 1999, pp. 74; 75; 60; 46; 49).

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più temi e più movimenti si inseguono per fare da sfondo sonoro alla storia figurata che è raccontata nell’interno di copertina dell’album dalle illustrazioni di William Neal. In un tempo e in un luogo imprecisato, nella vaghezza di un paesaggio brullo e montagnoso, un vulcano in eruzione emette, in un turbinare di lapilli dal colore rosso acceso e sanguinolento, un uovo gigantesco. L’uovo si schiude dando alla luce una stranissima creatura, un essere dalle dimensioni strabilianti che neanche la fervida immaginazione degli antichi avrebbe mai potuto partorire. Si tratta di Tarkus, un incrocio mostruoso di parti organiche e parti meccaniche, un essere metà armadillo e metà carro armato. Le illustrazioni successive raffigurano il protagonista della storia alle prese con altri mostri analoghi: uno pterodattilo con le ali di un caccia bombardiere, una strana creatura con il dorso di pesce, le zampe di cavalletta e il viso ricoperto da una luccicante armatura metallica dotata di lanciamissili e, infine, una belva – l’unica interamente organica – con la coda di scorpione, il corpo di leone e il viso di uomo. Questa bestia, come indica il titolo del quinto movimento della suite, è un “Manticore”. Il manticora, nelle vignette di Neal, è dunque l’ultimo degli animali con cui si trova a dover lottare Tarkus, l’armadillo-carro armato il cui nome dà il titolo all’album. Ebbene, qual è il destino del manticora? Mentre di tutti gli esseri mostruosi che affrontano Tarkus è illustrata la fine atroce, nulla ci è dato sapere del mostro “indiano”. Dello pterodattilo e del pesce-cavalletta sono ben visibili i disegni delle carcasse insanguinate, ma del cadavere del manticora, nei disegni di Neal, non v’è alcuna traccia: le due vignette che lo riguardano lo raffigurano ora campeggiante in tutta la sua maestosa ferocia, con le labbra pronunciate e gli occhi rossi (una variante, questa, degna di nota), ora mentre affronta l’armadillo-carro armato, puntando con la sua coda di scorpione la testa da armadillo dell’avversario. Infine c’è l’ultima vignetta della storia che raffigura Tarkus nell’atto di traversare a guado un fiume. Cosa è successo? Tarkus si allontana dal territorio in cui ha seminato il panico dopo avere sconfitto il manticora oppure, al contrario, è stato da quest’ultimo messo in fuga? Rimarrebbe deluso chi volesse cercare ragguagli nel testo delle tre canzoni (The stones of Years, Mass e Battlefield) che costituiscono rispettivamente il secondo, il quarto e il sesto movimento della suite. La storia intonata dalla voce di Greg Lake, cantante e bassista (nonché songwriter) degli ELP, sembra infatti non avere nulla a che fare con le illustrazioni di William Neal. I versi, epigrafici, che chiudono il cantato di Tarkus, del resto, sembrano volere insistere implicitamente sulla confusione che sembra debba necessariamente avvolgere l’ascoltatore: 172

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«Confusion… will be my epitaph As I cross a cracked and broken path If we make it, we can all sit back and laugh».3

La natura, nel mondo di Tarkus, segue leggi ben strane. È una natura ibrida e maligna – questo sembrano volerci suggerire i versi di chiusura –, una stepmother che – si direbbe – ha interiorizzato a tal punto le conoscenze della meccanica militare da produrre esseri che sempre più somigliano a macchine foriere di morte. E tuttavia, nonostante l’atrocità dello spettacolo che essa stessa inscena, questa natura sembra avere qualcosa di ridicolo: “…we can all sit back and laugh” non possiamo che dire in coro con Greg Lake. Ma cosa è che ci fa ridere dell’immaginario, peraltro un po’ kitsch, che fa da sfondo alle canzoni di Tarkus? Non credo, in realtà, che si tratti del kitsch in sé, né credo che il nostro riso sia dovuto a quei tratti da fumetto, così caricaturali e così seventies, con cui i mostri vengono raffigurati. A farci ridere, in un certo senso (e a rassicurarci), è proprio l’improbabilità delle creature che campeggiano sullo sfondo bianco dell’interno di copertina. Tarkus degli Emerson Lake & Palmer, in fin dei conti, sembra ancora respirare l’aria della science fiction di quegli anni, di una letteratura che in fondo è ancora legata intimamente al fiabesco e al favoloso e che finisce per dipingere futuri che per la loro aliena esoticità non possono che essere improbabili. Certo, il paesaggio di Tarkus non può non ricordare, al lettore paranoico che ha già fatto l’esperienza di Erodoto, i deserti delle eschatiai popolati dai myrmekes, le eremiai che orlano gli ultimi lembi dell’oikoumene. L’armadillo – carro armato, per gli Emerson Lake & Palmer, per certi versi continua ad essere un mostro dei margini, esattamente come lo erano i myrmekes di Erodoto o il manticora di Ctesia. Non si tratta più, ovviamente, dei margini del mondo conosciuto, non più dell’Etiopia o dell’India. Se così si può dire, l’eschatie di Tarkus è una zona d’ombra indistinta, un luogo al di fuori del tempo e dello spazio, al limite fra la realtà dei sanguinosissimi conflitti regionali di quegli anni e la fantasia.4 Se il deserto di Erodoto era la fascia che racchiudeva il mondo reale e conosciuto, il deserto di Tarkus è diventato un non-luogo. La rimozione geografica e psicologica dei mostri, nel momento in cui si narra3. I tre versi conclusivi sono in realtà una citazione di Epitaph, la seconda traccia di In the Court of Crimson King dei King Crimson (dei quali Greg Lake, songwriter degli Emerson Lake & Palmer, era stato vocalist e bassista). 4. Cfr. Bianchi 1981, p. 228: «Gli esseri fantastici e i mondi meravigliosi scompaiono infine dalla cultura ufficiale per divenire caso mai appannaggio della cultura popolare, divertimento dei fanciulli, come più tardi, “Alice nel paese delle meraviglie”, “il mago di Oz”, “il signore degli anelli”, ecc.; non certo di molto più fantastici dei viaggi del signor de Mandeville».

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no le gesta dell’armadillo-carro armato, si è spinta ancora oltre: i mostri di Tarkus vivono in uno spazio che non è, in un futuro che non sarà. Proprio per questo sono un fictional object assai rassicurante:5 nel momento in cui viene pubblicato il secondo album degli Emerson Lake & Palmer, gli incubi del cyberpunk sono ancora di là dall’essere conosciuti dal grande pubblico, così come le alchimie eugenetiche alle quali si teme che potrebbe approdare la biotecnologia contemporanea.6 Il futuro tutto sommato è ancora qualcosa di rassicurante, o comunque improbabile: non è diventato ancora l’angosciante distopia di film come Blade Runner o di romanzi come Il Neuromante.7 È proprio per questo che il mondo improbabile degli armadillicarro armato, per certi versi, ci fa ancora più ridere, perché il futuro che noi viviamo non è affatto quello che negli anni ’70 si pensava. Un ibrido di animale e di macchina in fin dei conti è fuori moda: la nostra tecnologia non è più «la gigantesca meraviglia sbuffante vapore» (Sterling 1994, p. 20), ma qualcosa di molto più pervasivo. I nostri mostri sono ben altra cosa che gli elefantiaci ammassi di metallo e lamiera umanizzata che hanno popolato le nostre fantasie di bambini.8 È per questo forse che la tradizionale fascinazione nei confronti dell’ibridazione e dell’incrocio, nella science fiction degli anni successivi a Tarkus, si è diretta altrove: dopo l’incrocio fra organico e digitale, fra umano 5. I mostri di Tarkus in fondo erano molto più rassicuranti delle sataniche figures in black che popolavano, pressappoco negli stessi anni, i testi delle canzoni dei Black Sabbath (e che avrebbero ispirato negli anni a venire il gusto gotico dell’heavy metal americano e britannico). L’uso da retrobottega della rappresentazione classica peraltro era funzionale alla politica di autolegittimazione culturale del rock che veniva messa in atto in quegli anni proprio dai gruppi progressive britannici: il manticora in un album rock da un lato garantiva la “letterarietà” del prodotto ammiccando al lettore colto, dall’altro era un “personaggio” accattivante per il pubblico giovanile usuale. 6. Per i legami fra biotecnologia ed eugenetica cfr. Rifkin 1998, pp. 195 sgg. Sulla produzione extogenetica ed eugenetica nel mondo antico e nel mondo contemporaneo, e, più in generale, sui rapporti fra fiction, bioetica e informazione massmediatica cfr. Patrizia Pinotti, Dal Frankenstein di Mary Shelley alla Repubblica di Platone. Storie permesse e storie proibite sulla paternità asessuata e sui figli della scienza, in corso di pubblicazione in «Materiali per una storia della cultura giuridica». 7. Blade Runner è il titolo del famoso film di Ridley Scott ispirato al romanzo di Philip K. Dick, Do Androids Dream of Electric Sheep? (tr. it. Blade Runner. Cacciatore di Androidi, Edizioni Nord, Milano 1995). Il Neuromante è invece un noto romanzo di William Gibson (Neuromancer, tr. it., Neuromante, Edizioni Nord, Milano 1986; su questo romanzo cfr. D. Brolli e A. Caronia in Sterling 1994, p. 7), considerato il padre del genere cyberpunk. Per una definizione del termine “cyberpunk” cfr. D. Brolli e A. Caronia in Sterling 1994, pp. 5-13. 8. Basti pensare ai famosi disegni animati del cartoonist giapponese Go Nagai, autore, fra le altre cose, di UFO Robot Grendizer (1975; 74 episodi), meglio noto in Italia come Goldrake (prima apparizione in RAI: 3 Aprile 1978; 72 episodi).

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e cibernetico (temi, questi, tipici della letteratura cyberpunk degli anni ’80), adesso a popolare le fantasie degli scrittori e degli sceneggiatori che lavorano per l’industria cinematografica e per il mondo dei fumetti sono proprio gli organismi geneticamente modificati.9 La stessa “scienza della vita”, del resto, sembra sempre più fare concorrenza alla letteratura fantascientifica e ha finito per ricreare, nel nostro immaginario, scenari che sembravano dimenticati. Paradossalmente la fuga di Tarkus – è così che mi piace leggere il finale della storia dell’interno di copertina dell’album degli Emerson Lake & Palmer – segna, per noi, il trionfo del manticora. I nostri ibridi, adesso che il concetto usuale di “specie” viene messo in crisi, ritornano ad essere ibridi organici.10 Dopo aver cacciato l’armadillo-carro armato dall’interno di copertina di Tarkus degli ELP, il manticora ritorna tra noi e trionfa: gli incroci fra specie che un tempo erano considerate non omofile ritornano ad essere possibili per il nostro immaginario (e non solo).

1.

Ritorno al passato: comprendere i mostri

Anche noi, dunque, abbiamo i nostri esemplari di manticora che ci minacciano. In più, il terrore che incutono in noi i nostri mostri non è più circoscritto alle eschatiai o al passato mitico come poteva esserlo ai tempi di Plinio o di Erodoto; le creature dei nostri incubi da “uomini schizoidi del ventunesimo secolo” hanno abbandonato i margini ultimi del mondo, hanno lasciato i brumosi paesaggi di Marte o delle galassie più lontane, hanno attraversato i secoli per occupare le gelide stanze dei laboratori o le nostre mense.11 Le Chimere e i Centauri non sono più relegati nel nostro passato mitico, ma minacciano di essere il nostro futuro (e a volte sono già il nostro presente). Qualcuno forse un giorno riderà per questo, così come adesso si sta ridendo degli ibridi di armadillo e carro armato. Questo, però, se non altro, ci dovrebbe fare capire come i mostri dell’antichità non debbano essere derisi; devono semmai essere compresi fino in fondo. 9. Solo per fare un esempio italiano, basti ricordare, i “mutati”, una specie di schiavi ribelli creata in laboratorio che popola il mondo di Nathan Never, fumetto della Sergio Bonelli Editore (cfr. ad es. l’episodio n. 112: “La città sotterranea”; oppure: “Il segreto di Juno 20”, nello speciale “Agenzia Alfa” n. 6). 10. Per la ridefinizione del concetto classico di “biologia” alla luce delle nuove scoperte biotecnologiche cfr. ad es. Rifkin 1998, pp. 25 sgg. 11. Il lettore più sensibile a certe citazioni si sarà reso conto che l’espressione “uomini schizoidi del ventunesimo secolo” è tratta fuori dalla Corte del Re Cremisi (mi riferisco alla canzone che apre In the court of the Crimson King dei King Crimson: 21st century schizoid man).

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È giunto dunque il momento di lasciare le suggestioni dateci dal rock progressivo degli anni ’70 e di ritornare alla storia della rappresentazione relativa all’animale oggetto del presente studio. La seconda narrazione di cui disponiamo, in ordine di tempo, è quella di Plinio: «Apud eosdem nasci Ctesias scribit quam mantichoran appellat, triplici dentium ordine pectinatim coeuntium, facie et auriculis hominis, oculis glaucis, colore sanguineo, corpore leonis, cauda scorpionis modo spicula infigentem, vocis ut si misceatur fistulae et tubae concentus, velocitatis magnae, humani corporis vel praecipue adpetentem». (Nat. Hist. 8, 75)

«Ctesia scrive che presso gli stessi Etiopi si può trovare un essere che egli chiama manticora; questo essere è munito di una triplice fila di denti che si chiudono disponendosi a forma di pettine, ha il viso e le orecchie dell’uomo, gli occhi glauchi. È dello stesso colore del sangue, ha il corpo di leone, e, come lo scorpione, colpisce con i pungiglioni che si trovano sulla coda. La sua voce risuona come un concento di zampogna e di tromba, è molto veloce, e fra tutte le altre cose è particolarmente ghiotto di carne umana».

Apparentemente non c’è alcuna differenza con la versione fornitaci da Aristotele: i tratti della belva vengono snocciolati per lo più nel medesimo ordine seguito dallo Stagirita nella Historia Animalium: alla descrizione dei denti seguono rispettivamente quella della faccia, delle orecchie, degli occhi, del corpo, della coda, degli aculei e del caratteristico verso. Inoltre entrambe le versioni, sia quella di Plinio che quella di Aristotele, si chiudono con l’accenno alla velocità dell’animale e alle sue atroci abitudini alimentari. In questo senso, l’unica differenza del testo pliniano consisterebbe nel fatto che i riferimenti alle zampe e al vello della bestia verrebbero saltati a piè pari. Plinio infatti avrà probabilmente pensato che, dicendo che il manticora è dotato corpore leonis, si sottintende naturalmente che esso abbia anche ποvδας οJµοιvους e che sia δαvσυ οJ− µοιvως (cfr. Hist. Anim. 2, 1, 501 a 24 sgg.). La sensazione che si ha è dunque che l’enciclopedista romano abbia fatto un riassunto estremamente stringato del testo aristotelico: i tratti ci sono tutti, ma sono esposti in maniera quanto mai sintetica. Ma c’è anche qualcos’altro. Plinio, esattamente come Aristotele, non dà alcuna spiegazione del nome dell’animale. Il termine mantichora suona come qualcosa di esotico e immotivato, come un balbettio barbarico e tremendo di cui è difficile cogliere il senso e di cui è impossibile ricostruire l’etimologia. Proprio per questo, però, l’enciclopedista romano, più sensibile di Aristotele al fascino del mirabile, con interventi appena percettibili, nella sua pur stringata versione, accentua la ferocia e la pericolosità della belva. 176

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Gli spicula del manticora non solo colpiscono il bersaglio, ma addirittura vengono conficcati con forza nella carne di chi viene preso di mira. L’atto dell’infigere si fissa nella mente del lettore che vede materialmente lo squarcio sanguinolento provocato dalla coda della bestia.12 Quello che insomma nel testo dello Stagirita era un pericolo possibile, viene presentato come un danno in atto dallo scrittore latino. Per di più, oltre che attraverso il ricorso al colore “di sangue”, di cui ho già parlato nel primo capitolo (cfr. pp. 80 sgg.), la pericolosità del manticora viene accentuata dalla perifrasi che Plinio usa per rendere edotto il lettore circa le predilezioni alimentari della belva «humani corporis vel praecipue adpetentem». Il manticora, come sarà per Eliano e per lo stesso Solino, non è più semplicemente antropofago; esso è “avido” di carne umana: è questo il cibo che brama al di sopra ogni altra cosa. Se insomma per Aristotele, la bestia di cui aveva parlato Ctesia era un animale “possibile”, già per Plinio la pericolosità del manticora sembra essere qualcosa di meno lontano ed è – per così dire – effettiva. I tratti che Plinio enumera sono pressappoco gli stessi che sono stati inventariati dallo Stagirita, ma per certi versi hanno già assunto il colore dell’effetto di realtà. Leggendo Plinio si vede già il manticora nell’atto di uccidere e divorare; azioni, queste, che in Aristotele erano in un certo senso rimosse. Non è un caso, infatti, che la formula con cui lo storico di Cnido viene citato sia così dissimile da quella usata dallo Stagirita. Se il “ειj δει' πιστευ'σαι Κτησιvα/” indica, per certi versi, la natura – per così dire – semiproposizionale dell’informazione che lo Stagirita sta per dare al lettore, lo Ctesias scribit è una spia evidente di un assenso dato, da parte di Plinio, a quella che adesso sembra essere diventata a tutti gli effetti una “credenza”, o meglio: un dato storico. Il fine di questo capitolo sarà proprio quello di capire innanzitutto come Plinio può avere letto Aristotele (e/o Ctesia) e come sia stato possibile questo cambiamento nella modalizzazione della rappresentazione nel passaggio dalla Historia Animalium (e/o dagli Indikà di Ctesia o di un altro autore) alla Naturalis Historia.

2.

La migrazione in Etiopia: alcune considerazioni su Nat. Hist. 8, 72-74

2.1 La rete dell’Etiopia: il contesto paradigmatico e il contesto sintagmatico Si è già visto come, per osservare un animale “fantastico” (ma in fondo anche per osservare gli animali “reali” dell’antichità), sia necessa12. A proposito di infigere, solo per fare un esempio si veda Plin. Iun. Ep. 1, 20, 18: qui non pungit sed infigit («colui che non punge soltanto, ma che addirittura configge»).

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rio, a volte, allargare l’obiettivo, studiarne, oltre che i tratti, il “paesaggio”, ovvero le porzioni di testo che lo contengono. Si tratta, in altri termini, di analizzare, prima ancora dell’ambiente “culturale” e “psicologico” in cui le singole versioni allignano, due diversi tipi di contesti nei quali i singoli esseri in questione possono essere inseriti. Un primo contesto potrebbe essere chiamato il contesto paradigmatico, vale a dire l’insieme dei descrittori analogici e dei rapporti di similitudine che legano l’animale oggetto di studio con altri animali che servono strumentalmente ad ostenderlo. Un secondo tipo di contesto di cui tenere conto, invece, sarebbe il contesto sintagmatico, ovvero la rete di animali contigui che sono raggruppati o affiancati paratatticamente all’animale in questione nell’ordine della scrittura e del testo. Relativamente al manticora, ad esempio, la rete paradigmatica è costituita quasi sempre dal leone, dallo scorpione, dall’uomo, dal cervo etc.; la rete sintagmatica, invece, muta di versione in versione e, nel caso di Aristotele, viene formata dagli animali assieme ai quali il mostro di Ctesia viene catalogato; vale a dire tutti gli animali muniti di denti che vengono menzionati in Hist. Anim. 501 a 8 sgg.: il cane, la pardalis, il cavallo, il bue, la foca, il pesce; esseri, questi, rispetto ai quali il manticora sembrerebbe costituire una sorta di raggruppamento (o genos) a sé stante mutualmente esclusivo rispetto a tutti gli altri, quello cioè dei tristoichoi: gli esseri con tre file di denti con ogni mascella.13 Una volta individuata una rete sintagmatica, però, bisogna cercare di capire quale tipo di legame possa sussistere fra gli animali elencati paratatticamente e l’animale oggetto di esame. Bisogna insomma vedere non solo quali sono gli esseri che “descrivono” l’animale oggetto di studio, ma anche quali sono quelli assieme ai quali esso può veni13. Cfr. P. Li Causi e R. Pomelli, art. cit.: usualmente pardalis viene reso con “leopardo”, tuttavia non sempre la traduzione sembra calzare; è infatti verosimile che anche i Greci e i Romani avessero qualche problema nell’identificazione dell’animale. In Plin. Nat. Hist. 8, 42 – per cui cfr. pp. 217 sgg. – si scorge l’ombra di una credenza secondo la quale i leopardi sarebbero il frutto dell’incrocio fra i pardi (maschi della pantere) e le leonesse. Ma siamo veramente sicuri che il greco “pardalis” si possa tradurre agevolmente con il nostro “leopardo”? Nella misura in cui un sistema di denominazione “scientifica” non si era ancora affermato (il primo serio tentativo di uniformazione nominale sarà effettuato da Linneo), si deve piuttosto pensare di avere a che fare con una situazione di “multivocalità”, in base alla quale identici vernacular names indicano esseri diversissimi fra loro (cfr. Ritvo 1997, pp. 52 sgg.). A questo proposito bisogna ricordare che la questione dell’identificazione della pardalis sarà un vero e proprio problema scientifico fino al XVIII sec. d.C.: «Naturalists had occasionally attempted to rise above this vulgar polyphony by coining names in the learned tongue of Latin, but in so doing they simply produced an additional layer of confusion. For example, by the early eighteenth century, the leopard and the panther had, between them, accumulated the Latin denominations of Panthera, Pardus, Pardalis, Leopardus, and Uncia, some of which were occasionally applied to the cheetah (then usually termed the “hunting leopard” in vernacular English), the jaguar, and various lynxes as well”» (Ritvo 1997, p. 53).

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re volta per volta raggruppato (o affiancato) e cercare di capire in base a quali criteri venga costruito il raggruppamento o l’elenco che lo comprendono. Per quanto riguarda l’esame delle reti analogiche (l’asse paradigmatico) si può prendere ad esempio ciò che ho cercato di fare nel primo capitolo (cfr. pp. 68 sgg.), quando ho tentato di vedere in che modo gli animali “descrittori” potessero contribuire alla costruzione del morfotipo comportamentale del manticora nell’antichità. Per quanto riguarda invece il “contesto sintagmatico”, relativamente, ad esempio ad Aristotele, si è visto come nella Historia Animalium fosse il meccanismo dell’asse di divisione a funzionare da principio ordinatore e di raggruppamento. In particolare, nel corso del secondo capitolo (spec. pp. 121 sg.) si era visto come in Aristotele l’asse paradigmatico delle analogie tendesse a coincidere con l’asse sintagmatico (o paratattico) della scrittura: il coccodrillo, ad esempio, veniva affiancato paratatticamente alla lucertola proprio in virtù delle analogie “anatomiche” che era possibile riscontrare fra i due esseri.14 In Aristotele dunque ogni analogia veniva “isolata” volta per volta nel contesto di un singolo asse di divisione; asse che costituiva ad un tempo un criterio di selezione paradigmatica e di organizzazione sintattica. Del tutto diversa è invece la pratica pliniana. Nell’enciclopedista romano, infatti, l’uso dell’analogia ritorna ad essere aleatorio e non influisce più sulla disposizione paratattica degli oggetti da descrivere. Gli esseri di Nat. Hist. 8, 72 sgg. sono infatti giustapposti non perché collocabili sul medesimo asse di divisione, bensì perché vagamente simili nella loro stranezza. Il tratto analogo che li lega (paratatticamente) consiste semmai nell’apparire tutti come esseri composti di parti analoghe a quelle di altri animali che però non vengono inseriti contestualmente nel catalogo. Il rigore aristotelico nella costruzione dell’ordine del discorso (e dunque nella costruzione del contesto sintagmatico) sembra dunque non avere alcun luogo in Plinio, la cui trattazione si lascia organizzare attraverso il libero fluire delle associazioni di idee, senza seguire apparentemente alcun ordine rigidamente fissato, con una varietà estrema nei criteri della costruzione dell’asse sintagmatico: «Ad esempio, la trattazione del coccodrillo, che vive nel Nilo, trascina con sé quella di un altro animale nilotico, come l’ippopotamo, e il fatto che questo sia, come sappiamo, un maestro di medicina, introduce un uccello autoterapeuta come l’ibis (8, 89-97). Ancora: dalla riproduzione 14. Per il coccodrillo e la lucertola in Aristotele cfr. pp. 124 sgg. Per il resto si deve ricordare che lo Stagirita utilizzava uno strumento (l’analogia) già presente in Omero non più a fini metrico-ostensivi, ma come principio di ordinamento e di “classificazione” (Atran 1996, pp. 105 sgg.).

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degli uccelli e dei serpenti Plinio trascorre a quella degli animali terrestri, quindi degli uomini: di qui slitta immediatamente al racconto delle performances erotiche di Messalina, capace di reggere 25 amplessi nelle 24 ore: e tutto in soli quattro, brevi paragrafi (10, 169-172)». (Vegetti 1982, p. 120)

Se dunque l’analogia, per Aristotele, assumeva un valore cognitivo e di ordinamento della scrittura, in Plinio essa diventa spesso, come dimostra Vegetti, uno dei tanti artifici formali che permettono di passare da un essere ad un altro o addirittura da un tema ad un altro. Ebbene, tenuto conto di queste premesse, resta da chiedersi come funzioni il “contesto sintagmatico” nel quale si va a collocare il manticora nella Naturalis Historia. A questo proposito, il lettore più accorto avrà già notato un’omissione evidente, nei precedenti paragrafi, da parte di chi scrive. La prima e più sconcertante differenza fra il testo aristotelico e quello pliniano sta già nelle primissime parole che introducono la descrizione del manticora: «apud eosdem nasci Ctesias scribit quam mantichoran appellat… (corsivo dell’Autore)».

A chi si riferisce Plinio con l’espressione “apud eosdem”? Ian e Mayhoff nella loro edizione avanzavano timidamente il dubbio, in apparato, che apud eosdem dovesse leggersi apud Indos.15 Ma bisogna sospettare che si trattasse quasi certamente di una lectio facilior: nessuna traccia evidente lascia intendere che Plinio possa aver citato “correttamente” Ctesia (o Aristotele). E del resto il contesto non sembra lasciare alcun dubbio: il manticora, per Plinio, sembra essere a tutti gli effetti un animale etiopico, così come etiopici sono tutti gli altri esseri che assieme ad esso vengono raggruppati: «Lyncas vulgo frequentes et sphingas, fusco pilo, mammis in pectore geminis, Aethiopia generat multaque alia monstris similia, pinnatos equos et cornibus armatos, quos pegasos vocant, crocotas velut ex cane lupoque conceptos, omnia dentibus frangentes protinusque devorata conficientes ventre, cercopithecos nigris capitibus, pilo asini et dissimiles ceteris voce, Indicos boves unicornes tricornesque, leucrocotam, pernicissimam feram asini feri magnitudine, clunibus cervinis, collo, cauda, pectore leonis, capite melium, bisulca ungula, ore ad aures usque rescisso, dentium locis osse perpetuo: hanc feram humanas voces tradunt imitari. [73] apud eosdem et quae vocatur eale, magnitudine equi fluviatilis, cauda elephanti, colore nigra vel fulva, maxillis apri, maiora cubitalibus cornua habens mobilia, quae alterna in pugna sistit variatque infesta aut obliqua, utcumque ratio monstravit; [74] sed atrocissimos tauros silvestres, maiores agrestibus, velo15. Cfr. Ian e Mayhoff 1909, ad l.

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citate ante omnes, colore fulvos, oculis caeruleis, pilo in contrarium verso, rictu ad aures dehiscente iuxta cornua mobilia. Tergori duritia silicis, omne respuens vulnus. Feras omnes venantur, ipsi non aliter quam foveis capti feritate semper intereunt». (Nat. Hist. 8, 72-74)

«L’Etiopia genera linci numerose sparse dappertutto e sfingi dal pelo di colore bruno che hanno due mammelle nel petto e molti altri animali simili ai monstra: cavalli con ali di piume e armati di corna ai quali danno il nome di “pegasi”; corocotte, quasi concepite da un cane e da un lupo, che distruggono tutto con i loro denti e subito digeriscono quello che hanno divorato; cercopitechi dalla testa nera, col pelo simile a quello dell’asino, diversi dalle altre scimmie per la voce. L’Etiopia genera anche i buoi indiani (quelli unicorni e quelli con tre corna), la leucrocota, animale selvaggio velocissimo, grande quanto un asino selvatico, che ha le natiche di cervo, il collo, la coda e il petto di leone, la testa di martora, gli zoccoli divisi in due parti, la bocca che si apre fino agli orecchi e al posto dei denti un osso continuo: si racconta che questo animale sia capace di imitare la voce umana. Presso gli stessi Etiopi si trova anche la belva chiamata eale, grande quanto un cavallo di fiume, con la coda di elefante, di colore nero o fulvo, e con le mascelle del cinghiale; ha le corna mobili più lunghe di un cubito: durante il combattimento tiene dritti ora un corno ora un altro o, diversamente, dispone le corna in vario modo, ora in avanti per colpire, ora oblique, a seconda di come voglia il caso. Ma l’Etiopia produce anche i ferocissimi tori selvatici: essi sono più grandi dei tori domestici che vivono in campagna e superano tutti gli altri animali per velocità; sono di colore fulvo, con gli occhi cerulei, il pelo rivolto al contrario, le fauci che si aprono fino agli orecchi, quasi fino a toccare le corna mobili. La loro pelle è dura come la pietra e tale da respingere qualunque ferita. Danno la caccia a tutte le bestie, ma, una volta catturati soltanto per mezzo di fosse, si lasciano morire sempre di rabbia».

Leggendo questo passo si rimane subito allibiti per la mirabolante processione di esseri strani che scorrono davanti ai nostri occhi. Come usualmente accade nelle historiai dell’antichità, ognuno degli animali “ignoti” che si presenta allo sguardo del lettore è una sorta di piccola enciclopedia zoologica: ogni essere ignoto (o comunque poco conosciuto) è legato “a rete” ad altri esseri con i quali intrattiene rapporti ostensivi di analogia.16 16. È ovvio che ognuno degli animali enumerati da Plinio meriterebbe di essere oggetto di analisi “epidemiologica”. Mi limito, in nota, a dare alcuni loci nei quali viene fatta menzione di questi esseri. Per le linci cfr. ad es. Xen. Cyn. 11, 1; Eur. Alc. 579; Plut. De fraterno amore 482 C 3; Ael. Nat. Anim. 14, 6; Verg. Georg. 3, 264; per la rappresentazione mitica dei cavalli alati cfr. ad es. Hes. Th. 281; Plat. Phaedr. 229 d 7 sgg.; Pind. Ol. 13, 64; Ovid. Met. 4, 786; 5, 262; Hor. Carm. 4, 11, 27; per il toro etiopico cfr. pp. 70 sgg. e n. 167 p. 71; per la corocotta cfr. Diod. 3, 35, 10; Strab. 16, 4, 16; D. Cass. 76, 1, 3; Ael. Nat. Anim. 7, 22; Pol. Silv. nom.

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Ecco dunque che lo sguardo cognitivo, la ricerca di somiglianze, l’ausilio del “noto” fanno sì che per parlare della leucocrota si debbano richiamare alla memoria l’asino selvatico, il leone, la martora e perfino l’uomo. Allo stesso modo l’eale è legata, attraverso una rete di analogie, con il cavallo di fiume (l’ippopotamo?), l’elefante, il cinghiale. Ogni essere viene cioè definito in base ad una sorta di asse paradigmatico nell’ambito del quale viene accostato ad una serie di esseri analoghi. Dal punto di vista più strettamente sintagmatico tuttavia questi esseri sono accomunati da un fatto: tutti sono animali della eschatie etiopica. L’espressione apud eosdem anaforicamente ripetuta, in questo senso, funziona come un principio di catalogazione che cuce insieme i diversi paragrafi (73, 75) e nello stesso tempo si trasforma in una sorta di principio di raggruppamento. In 8, 72 sgg., infatti, vengono elencati tutti i morfotipi comportamentali degli animali dell’Etiopia, i quali, classificati in base all’isotopia corografica, presentano tutti la medesima connotazione di esseri monstris similia. A questo proposito, non è difficile capire per quale motivo l’enciclopedista romano dovesse considerare “simili ai mostri” questi esseri prodigiosi. Il monstrum infatti, nella cultura latina, come si può inferire scorrendo, ad esempio, le pagine del Prodigiorum liber di Giulio Ossequente,17 può essere o una forma organica caratterizzata dall’assenza di determinati organi vitali o, al contrario, un essere vivente che presenta uno o più tratti in eccesso (ad esempio organi in più o comunque superflui, come nel caso dei buoi con tre corna di Plinio), oppure ancora il monstrum può essere un animale composto da elementi o parti del corpo di esseri eterogenei: un ibrido.18 In ogni caso il monstrum – per l’appunto – “mostra”, indica, con la sua sola esistenza un ordine di natura che è stato mutato; è la spia di uno stravolgimento di norme ideali statisticamente valide che – come ha dimostrato Dan Sperber – vengono interpretate dal senso comune come eterne e inviolabili; quelle norme cioè secondo le quali, ad esempio, il simile dovrebbe generare il simile e tutti gli animali dovrebbero essere animaux parfaits: animali cioè che preanim. chron. I p. 543, 6 (oltre che Plin. Nat. Hist. 8, 107). L’eale compare per la prima volta in Plinio (cfr. anche Pol. Silv. I p. 543, 7). Per tutti gli animali menzionati in Nat. Hist. 8, 72 sgg. cfr. anche Sol. 52, 34 sgg. Si noti che per i buoi indiani unicorni Plinio sembra unificare il morfotipo del toro etiopico con quello dell’asino indiano unicorno (cfr. Aristot. Hist. Anim. 2, 1, 499 b 15-21 e Ctesia, FrGrHist 688 F. 45, 45). L’attestazione dei buoi indiani a tre corna compare per la prima volta in Plinio. 17. Cfr. ad es. 154, 12 (per il bambino nato con quattro mani e quattro piedi) e 155, 14 (per il maiale con le mani e i piedi umani). 18. Per alcune occorrenze di monstrum (e di espressioni linguistiche analoghe) in Plinio cfr. n. 38, p. 31.

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sentano tutti (e in sommo grado) i tratti definitori caratteristici della specie.19 Il monstrum è dunque in questo senso l’infrazione di un ordine, e proprio per questo è qualcosa che deve essere degno di attenzione o, quanto meno, di memoria. Ebbene, gli esseri dell’Etiopia, proprio in questo sono simili ai mostri: essi somigliano, secondo la logica comune dell’analogia ostensiva (secondo la quale l’ignoto si spiega e si “mostra” con il noto) ad animali familiari (la corocotta ad esempio somiglia insieme al lupo e al cane; l’eale al cavallo, all’elefante e al cinghiale). Di questi animali familiari, però – come i mostri della tradizione teratologica – o hanno qualche tratto definitorio in meno, oppure presentano una serie di tratti in eccesso o iperbolicamente eterogenei. L’unica vera differenza con i monstra consiste nel fatto che questi “ibridi” prodigiosi dell’Etiopia non sono un fatto eccezionale e singolare, ma sono in qualche modo delle eccezioni generalizzate, dal momento che costituiscono le specie (o meglio: gli speciemi-generici) che di norma è possibile trovare in Etiopia.20 L’effetto che si viene così a creare in questi paragrafi è un effetto di identità fra il tratto corografico della “etiopicità” e il tratto della mostruosità. Quel che ne viene fuori è pertanto che tutti gli animali etiopici sono abnormi e paradossali e che, conseguentemente, la mostruosità in Etiopia sia, per l’appunto, una norma. Resta comunque da capire come il manticora sia diventato un animale etiopico. 2.2 Scambi di luogo: la storia di Plinio lettore È noto come l’India e l’Etiopia nel mondo antico siano in qualche modo spazi non marcati dal punto di vista connotativo e, proprio per questo, intercambiabili. La confusione fra le due zone, del resto, era già presente in qualche modo in Omero (cfr. ad es. Od. 1, 23-34), che parlava di Etiopi dell’Ovest e di Etiopi dell’Est. In Erodoto le due regioni erano ben distinte geograficamente, ma gli Indiani continuavano ad essere pur sempre gli “Etiopi dell’Est” (cfr. 3, 94 e 101).21 19. A proposito del concetto di “norma ideale” cfr. ad es. Sperber 1975, pp. 25 sgg. (oltre che pp. 158 sgg.). 20. Per il concetto di speciema-generico cfr. n. 111, p. 142 e pp. 194 sgg. 21. A questo proposito cfr. Casevitz 1995, p. 11 ed Hartog 1992, p. 41. Per quanto riguarda la sovrapponibilità relativa alla collocazione geografica della fauna indiana ed etiopica cfr. ad es. Aristot. Cael. 2, 14, 298 a 9-15, ove si parla della reciproca vicinanza delle zone dell’estremo ovest e quelle dell’estremo est e si adducono come esempio gli elefanti che sono presenti sia in India che in Etiopia ; cfr. anche Romm 1992, p. 82. Per la presenza di una teoria analoga a quella aristotelica nel pensiero greco arcaico cfr. Ballabriga 1986, pp. 108 sgg. e 175 sgg. Più in generale per le concezioni relative all’India cfr., oltre che l’ormai classico Dihle 1964, pp. 17-23, Romeo 1997/98, pp. 10 sgg. e Karttunen 1989 e 1997.

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Per il resto, in ambito romano, le testimonianze di Pomponio Mela e di Plinio (e la ricostruzione ipotetica della carta di Agrippa) dimostrano come l’India fosse tendenzialmente distinta dall’Etiopia, dalla quale risultava divisa per mezzo dell’Arabia;22 ciononostante non era raro che molti animali favolosi si trovassero indifferentemente collocati, in autori diversi, ora in India, ora in Etiopia.23 La qual cosa dimostra che, se dal punto di vista meramente denotativo (e “spaziale”) le due zone erano quasi del tutto differenziate, dal punto di vista della caratterizzazione “locale” e simbolica venivano del tutto confuse, tanto da risultare del tutto sovrapponibili per quanto riguarda gli elementi di “singolarizzazione” etnografica (ad es. gli uomini dalla pelle scura, gli elefanti, i myrmekes scavatori dell’oro, ma anche – con Plinio – il manticora). Non era dunque impossibile che un autore, nel delineare la corografia di una delle due zone, potesse – per così dire – confondere le schede relative a questo o a quell’altro animale simile ai mostri, collocandolo indifferenziatamente in India o in Etiopia. Tutto ciò, però, non spiega ancora del tutto come Plinio possa essere arrivato ad effettuare tale scambio di luoghi. Per comprenderlo è necessario affidarsi ad una pratica della filologia ormai pressoché in disuso: la Quellenforschung. Ebbene – lo confesso apertamente – quello che farò nel corso di questo paragrafo sarà, per certi versi, qualcosa di simile ad essa; soltanto, anziché concentrarmi unicamente sulle fonti dell’enciclopedista romano, cercherò anche di capire quale sia stato l’uso che Plinio può averne fatto. Innanzitutto, prima di cominciare, bisogna dire che ogni singolo interpretante di una determinata versione non solo non può tenere presente l’insieme della catena “epidemiologica” (a meno che ovviamente non si voglia incorrere nello specioso paradosso temporale secondo il quale Plinio potrebbe già avere in mente la versione di Eliano del manticora, magari perché entrambi usano una stessa fonte intermedia), ma spesso può non avere neanche contezza degli anelli precedenti. In altre parole si deve ammettere, in via meramente ipotetica, che, per il passo relativo al manticora, Plinio possa non aver letto Ctesia o Aristotele o vice versa (ma dietro l’angolo c’è anche un’altra alternativa: cioè che Plinio possa non aver letto né 22. Per la ricostruzione della carta di Agrippa cfr. Nicolet 1989, fig. 41, p. 179 e pp. 91 sgg. Per il resto cfr. Pomponio Mela 3, 61-71; Plin. Nat. Hist. 6, 70; 6, 175 sg.; 6, 177 (i confini dell’Etiopia comunque risultavano in Plinio piuttosto sfumati). 23. Oltre al manticora si può menzionare, ad es., il caso delle formiche giganti scavatrici dell’oro, attestate in India in Hdt. 3, 98 sgg.; Strab. 15, 1, 44; Arr. Ind.15, 4, sgg. e collocate in Etiopia da Philostr. Ap. 6, 1; su questi passi cfr. P. Li Causi e R. Pomelli, art. cit.

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l’uno né l’altro autore e che si sia avvalso di una fonte che potrebbe avere a sua volta riassunto sia lo Stagirita che il medico di Cnido, ovvero soltanto uno dei due). Nel passo che stiamo analizzando Plinio cita espressamente Ctesia, il cui nome in Aristotele, come si è già visto, funzionava come qualcosa di simile ad un “operatore polemico”.24 Niente di tutto questo accade invece in Plinio, che non mette mai in dubbio l’autorità del medico di Cnido che asserisce di avere usato come fonte.25 Ma come può l’enciclopedista romano aver letto gli Indikà (o una fonte intermedia) e aver commesso un errore così grossolano come lo scambio dei luoghi? Ebbene, a mio avviso sarebbe fin troppo facile attribuire con certezza l’errore ad una fonte intermedia che risolverebbe tutti i problemi. Per chi poi desse uno sguardo poco attento all’edizione di Jacoby di Ctesia, il lavoro potrebbe essere perfino troppo semplice. Si legga questo passo di Antigono riportato a fronte del punto del riassunto di Fozio dei Persikà in cui si parla di una fantomatica “Fonte Rossa” (cfr. FrGrHist 688 F. 1, 14): «Κτησιvαν δε; τη;ν εjν Αιjθιοπιvα/ το; µε;ν υ{δωρ ε[χειν εjρυθρο;ν ωJσανει; κινναvββαρι, του;ς δε; αjπ∆ αυjτη'ς πιοvντας παραvφρονας γιvνεσθαι. του'το δ∆ ιJστορει' και; Φιvλων οJ τα; Αιjθιοπικα; συγγραψαvµενος». (Antig. 145)

«Ctesia dice che in Etiopia c’è una fonte la cui acqua è di colore rosso come quello del cinabro; chi beve da questa fonte, diventa folle. La stessa notizia viene provata da Filone che ha scritto un libro di Aithiopikà».

Ebbene, la stessa notizia viene riportata da Plinio in un catalogo di fonti miracolose in Nat. Hist. 31, 8-9: «In eadem Campaniae regione Sinuessanae aquae sterilitatem feminarum et virorum insaniam abolere produntur, in Aenaria insula 24. Cfr. cap. 2, pp. 168 sgg. 25. Le notizie che Plinio trae da Ctesia per tutto il corso della Naturalis Historia non vengono mai messe in dubbio. Solo per fare alcuni esempi cfr. Nat. Hist. 7, 207 (cfr. FrGrHist 688 F. 3); Nat. Hist. 7, 23-34 (cfr. FrGrHist 688 F. 45, 45 p α e t; F. 51); Nat. Hist. 7, 28-29 (cfr. FrGrHist 688 F. 52); Nat. Hist. 31, 9 (FrGrHist 688 F. 1, 1 l γ ); Nat. Hist. 31, 21 (FrGrHist 688 F. 47 b); Nat. Hist. 31, 25 (FrGrHist 688 F. 61 b); Nat. Hist. 37, 39 (FrGrHist 688 F. 45, 36). In base al fatto che Plinio si fidi di Ctesia e che non lo consideri un mentitore si potrebbe supporre che l’enciclopedista romano non dovesse sapere molto di questo autore e che dunque non dovesse conoscere direttamente la sua opera. Non è comunque da escludere a priori che un’eventuale fonte intermedia possa avere comunque segnalato la scarsa attendibilità del medico di Cnido (è quello che fa il paradossografo Antigono di Caristo in 15 b). Qualora Plinio non abbia conosciuto Ctesia direttamente dovremmo infatti ammettere l’uso di una fonte intermedia in cui le informazioni attribuite a Ctesia non venivano modalizzate in alcun modo.

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calculosis mederi et quae vocatur Acidula ab Teano Sidicino ΙΙ—Ι—Ι—. – haec frigida –, item in Stabiano quae Dimidia vocatur et in Venafrano ex fonte Acidulo. idem contingit in Velino lacu potantibus, item in Syriae fonte iuxta Taurum montem auctor est M. Varro et in Phrygiae Gallo flumine Callimachus. sed ibi in potando necessarius modus, ne lymphatos agat, quod in Aethiopia accidere iis, qui e fonte Rubro biberint, Ctesias scribit». «Si racconta che nella stessa regione campana si trovino le acque di Sinuessa che eliminerebbero la sterilità delle donne e la pazzia degli uomini; si dice poi che nell’isola Enaria trovino guarigione i malati di calcoli. La stessa cosa si dice anche dell’acqua chiamata “Acidula”, a quattro miglia di distanza da Teano Sidicino (un’acqua, questa, di natura fredda) e allo stesso modo, nella zona di Stabia, dell’acqua chiamata “Dimidia” e, nella zona di Venafro, dell’acqua della fonte Acidula. Lo stesso accade a coloro che bevono nel lago Velino e, parimenti, nella fonte presso i monti del Tauro, in Siria (lo attesta Varrone) e – stando a quanto dice Callimaco-nel fiume Gallo in Frigia. Ma lì nel bere bisogna usare moderazione, perché quell’acqua può fare impazzire; cosa che – come scrive Ctesia – accade in Etiopia, a coloro che bevono l’acqua della fonte Rossa».

Da quanto ci è possibile capire la notizia relativa alla “Fonte Rossa” sarebbe inserita, nel testo di Ctesia, all’interno di un excursus. Nel corso della narrazione delle gesta di Semiramide, il suo arrivo in Etiopia, dopo la conquista dell’Egitto, diventerebbe lo spunto per una digressione sulle meraviglie del luogo. Antigono, secondo la sua solita maniera di procedere, seleziona la notizia, la sintetizza e la inserisce nell’ambito di un vero e proprio “catalogo di fonti miracolose”. Lo stesso fa Plinio.26 È dunque Antigono la fonte intermedia dell’enciclopedista romano? Se così fosse, si potrebbe ipotizzare che, sviato dal paradossografo di Caristo, Plinio avrebbe potuto concludere che Ctesia aveva scritto Aithiopikà e non Indikà e, nel leggere e schedare il passo di Aristotele relativo al manticora, avrebbe ben pensato di correggere il filosofo. Ma le cose non sono così semplici. Innanzitutto, ad una lettura più attenta del passo pliniano appena preso in considerazione, si nota subito il riferimento a Callimaco. Di quest’ultimo abbiamo perduto l’opera paradossografica: quale migliore prova per poter dire che era proprio questa la fonte intermedia che cerchiamo e che non potremo mai trovare? Plinio non avrebbe letto né Aristotele né Ctesia, dacché tutte le notizie che ricava dai due scrittori sono in realtà da attribuire, se non al filtro di Antigono, al poeta alessandrino (o ad entrambi). Ancora una volta però la cosa non è così semplice. Chi andasse un po’ più avanti nello sfogliare l’edizione di Jacoby, infatti, trove26. Sul metodo di selezionare le informazioni da parte di Antigono di Caristo cfr. cap. 2, pp. 168 sgg.

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rebbe altre sorprese: per molti passi di Ctesia le uniche versioni di cui disponiamo, oltre a quelle di Fozio, sono unicamente quelle di Plinio. Così avviene, ad esempio, in Nat. Hist. 37, 39, in cui l’enciclopedista romano riassume in maniera scarna il racconto relativo alle doti meravigliose del fiume Ipobaro, il cui corso, in determinati periodi dell’anno, trascinerebbe elettro. Vi sono inoltre casi in cui il testo di Fozio non ci dà alcuna notizia su alcuni passaggi di Ctesia di cui abbiamo testimonianza solo ed unicamente da Plinio e da nessun altro autore. L’enciclopedista romano, ad esempio, è l’unico ad informarci del fatto che, nel dibattito per individuare il protos heuretés della navigazione, Ctesia avrebbe asserito che Semiramide sarebbe stata il primo essere umano a fare uso di una barca.27 Da Plinio soltanto inoltre sappiamo dell’esistenza in India dei Monocoli,28 dei Pandarae,29 nonché di una fonte armena «ex quo nigros pisces ilico mortem adferre in cibis».30 Tutte cose, queste, di cui avrebbe parlato Ctesia. Si possono attribuire tutti questi loci all’uso diretto di Callimaco o di un’altra opera “intermedia” perduta nella voragine dei secoli?31 A confondere le acque, inoltre, c’è un passo pliniano ancora più enigmatico: «hominum sermones imitari et mantichoram in Aethiopia auctor est Iuba». (Nat. Hist. 8, 107)

«È Giuba ad attestare che in Etiopia anche il marticora è capace di imitare la voce degli uomini».

Ebbene, né Callimaco, né Antigono, ma Giuba sarebbe la fonte intermedia per il manticora. Anzi, si potrebbe anche osare di più: Giuba avrebbe riassunto Aristotele e Ctesia e sarebbe da considerare la fonte principale per tutto ciò che, se non in tutta la Naturalis Historia, almeno nell’VIII libro avrebbe a che fare con l’India e l’Etiopia.32 27. Nat. Hist. 7, 207 (cfr. FrGrHist 688 F. 3). 28. Nat. Hist. 7, 23-34 (cfr. FrGrHist 688 F. 45, 45p α; F. 51). 29. Nat. Hist. 7, 28 (cfr. FrGrHist 688 F. 52). 30. Nat. Hist. 31, 25 (cfr. FrGrHist 688 F. 61 b). 31. Bisogna comunque notare che mentre Antigono (e lo stesso Aristotele) vengono menzionati nel I libro della Naturales Historia fra gli auctores externi, non così è per Callimaco. 32. Questa tesi è stata avanzata da Münzer 1897, pp. 411 sgg. Su Giuba cfr. Romano 1994a, pp. 24 sgg., alla quale si rimanda per una bibliografia più dettagliata (in particolare cfr. Ead. n. 17 p. 24). La Romano sottolinea il ruolo importante svolto da Giuba alla corte di Augusto e mostra come, a proposito della questione relativa al problema delle sorgenti del Nilo, le sue ipotesi in merito venissero ritenute “socialmente” valide. Lo stesso – a mio avviso – si sarebbe potuto verificare per il manticora. La rispettabilità di Giuba, e il solo fatto che ne parlasse, in un certo senso potevano funzionare come prova dell’esistenza del mostro antropofago.

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C’è però un’altra eventualità che non può essere scartata a priori e si può formulare con questa domanda: «e se Plinio avesse letto Ctesia, Aristotele, Antigono, Callimaco e Giuba, tutti per intero?». I ritmi di lettura di cui ci dà notizia il nipote in una sua famosa epistola (Plin. Iun. Ep. 3, 5, 7-20) devono certo farci pensare che un’ipotesi del genere potrebbe anche non essere del tutto inverosimile. Plinio, ad esempio, potrebbe aver letto Aristotele e Giuba prima di leggere Ctesia e, nel compulsare il testo dei suoi Indikà, imbattutosi nel passo relativo al manticora, potrebbe essersi accorto di avere già schedato in precedenza la notizia relativa al mostro che aveva già trovato negli autori sopra menzionati. Niente inoltre esclude che l’enciclopedista romano possa avere citato a memoria, in 8, 107, una delle opere geografiche di Giuba, il quale, verosimilmente, poteva aver catalogato sia la fauna etiopica che quella indiana. Insomma, Plinio, pur tenendo presente la descrizione aristotelica (di cui sembra essere debitore) potrebbe aver deciso, sulla base di un “corto circuito” causatogli, nel momento della scrittura, da un ricordo fallace di Giuba, di collocare il manticora in Etiopia perché quella, in quel momento, era la casella di cui si stava occupando. Inoltre scrivendo della corocotta potrebbe anche avere ricordato, per associazione di idee, che Giuba parlava anche del manticora e che, secondo quanto Plinio ricordava (forse erroneamente) dalla lettura dei trattati di questo autore (che forse aveva talvolta schedato erroneamente), anche questo animale riusciva ad imitare la voce umana.33 È del resto verosimile che Giuba nella sua opera abbia fatto menzione del manticora “indiano” di Ctesia solo perché condivideva alcuni tratti con le due bestie etiopiche (la iena e la corocotta) che stava inventariando e che poi Plinio abbia inferito erroneamente, dalla lettura del passo di Giuba, che il manticora si trovava, come la iena e la corocotta, in Etiopia anziché in India (come correttamente poteva anche aver detto – o sottinteso – Giuba). È ovvio che queste sono soltanto ipotesi che nascono da quella che potrebbe essere una sorta di parodia della Quellenforschung. La storia 33. È curioso che un errore del genere sia capitato a C. J. S. Thompson, studioso di folclore dell’inizio del XX secolo, il quale, proprio in una citazione del passo pliniano relativo al manticora, attribuisce al mostro di Ctesia la dentatura tipica della corocotta: «Plinio descrive un mostro simile [ndA: al martichora di cui parla Ctesia che, nella traduzione di Thompson, ha gli occhi “grigi”], ma con gli occhi azzurri, di colore sanguigno e in grado di imitare il linguaggio degli uomini. Non aveva gengive e i denti erano costituiti da un unico osso» (Thompson 2001, p. 102). Una confusione analoga era presente anche ne La Première Semaine ou la Création du Monde di Guillaume du Bartas: «Ecco poi l’Unicorno, la Iena che dissacra / le tombe, la Manticora veloce, e della Nubia il Cefo: / e Manticora e Cefo e Iena aveano tutti / voce di uomo e viso d’uomo e d’uomo piedi e mani» (tr. it. cit. in Thompson 2001, p. 102).

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delle letture di Plinio non è affatto ricostruibile nella sua interezza; e del resto, se lo fosse, ci piace immaginare che ce l’avrebbe già raccontata Plinio il Giovane in una sua epistola. Delle avide letture dell’enciclopedista romano tuttavia ci dobbiamo accontentare di conoscere soltanto i ritmi e i tempi descrittici in maniera romanzata dal nipote. Per il resto non ci rimane che fidarci degli auctores menzionati da Plinio stesso nel primo libro della sua Naturalis Historia. Ogni ricostruzione di uno stemma fontium rischia pertanto di essere ridicola (oltre che inutile). Smetto dunque un esercizio che rischia di sviarmi dai miei fini. Più che sapere quali siano le fonti intermedie, in fondo, credo che sia utile capire quale ratio Plinio segua nel riscrivere le notizie (e le schede) di cui è in possesso. A proposito dell’uso del materiale aristotelico, ad esempio, si è visto come nel corso del libro VIII della Naturalis Historia Plinio abbia trascurato, nella descrizione dei vari animali, le notazioni anatomo-fisiologiche fatte dallo Stagirita per lasciare spazio ai dati mirabolanti e alle notizie relative alla vita romana.34 La qual cosa, però, anziché fungere da spunto per una maggiore comprensione dei modelli epistemologici pliniani, è stata spesso vista come la prova di una mancata lettura diretta, da parte di Plinio, della Historia Animalium. In particolare Isabella Bona e Filippo Capponi hanno insistito particolarmente nel dire che il disordine e l’omissione nella citazione del materiale aristotelico sarebbe da attribuire a fonti indirette, quali potrebbero essere ad esempio Antigono, Plutarco e Trogo, autore, quest’ultimo, di un’epitome De animalibus.35 Non voglio dilungarmi nel discutere le conclusioni alle quali sono giunti i due studiosi; semplicemente mi chiedo se non sia il caso di interrogarsi sul motivo del “disordine” nelle fantomatiche fonti intermedie. Per spiegare tale disordine si deve forse ricorrere ad ulteriori fonti intermedie fra Aristotele e Trogo o fra Aristotele e Antigono? E poi, per quale motivo Plinio dovrebbe citare Aristotele tutte quelle volte che, secondo la Bona e Capponi, avrebbe invece avuto sott’occhio il testo di Trogo, se altrove non si fa scrupolo alcuno di citare nominatim lo stesso autore del De animalibus?36 34. Cfr. Bona 1991, pp. 9; 16; 44; 50; 243, ma già Vegetti 1982, pp. 117 sgg. Bona 1991, p. 28, sulla scia di Capponi 1987, pp. 127-143, sostiene che «per quanto riguarda le notizie esotiche, che costituiscono la prima sezione dell’VIII libro (§§ 1-141), è difficile riconoscervi una conoscenza diretta della Historia Animalium da parte di Plinio; è più probabile che le notizie gli siano pervenute attraverso opere di corografia, antologie o epitomi e da auctores di mirabilia». A questo proposito cfr. anche Capponi 1985, p. 263. Le basi sulle quali Capponi e Bona negano una conoscenza diretta di Aristotele da parte di Plinio sono però molto deboli. 35. Per le ipotesi formulate da Isabella Bona e da Filippo Capponi cfr. sopra n. 34. Per quanto riguarda il “panorama intellettuale” nel quale si è formato Plinio cfr. invece Romano 1994, pp. 11 sgg. 36. Cfr. ad es. Nat. Hist. 7, 33; 10, 101; 11, 229; 274; 276.

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Per quale motivo non dobbiamo credere che Plinio, quando cita il nome di un autore, non debba effettivamente avere letto o schedato l’opera dell’auctor che sta menzionando? Semplicemente ci si deve rendere conto del fatto che la Naturalis Historia non è un’epitome: l’intento di Plinio non può essere quello di riassumere questo o quell’autore. La Naturalis Historia di Plinio non è la Bibliotheca di Fozio. Plinio non compendia Aristotele, come pure dice di fare in Nat. Hist. 8, 44, ma «ne seleziona le informazioni e ne decostruisce le strutture di organizzazione» (Vegetti 1982, p. 117). Il disordine nel riuso delle informazioni tratte da Aristotele, in termini di Quellenforschung, non prova nient’altro che se stesso. Tanto più che lo stesso disordine e la stessa destrutturazione del testo viene messa in atto anche con le notizie che probabilmente erano da attribuire a Ctesia. Si legga ad esempio il seguente passo, del quale si era già fatta sopra menzione:37 «Ctesias in Indis flumen esse Hypobarum, quo vocabulo significetur omnia bona eum ferre; fluere a septentrione in exortivum oceanum iuxta montem silvestrem arboribus electrum ferentibus. Arbores eas psitthachoras vocari, qua appellatione significetur praedulcis suavitas». (Nat. Hist. 37, 39)

«Ctesia scrive che in India c’è un fiume chiamato Ipobaro il cui nome significa “portatore di tutti i beni”; scorre da settentrione nell’Oceano orientale nei pressi di un monte boscoso i cui alberi producono ambra. Quegli alberi vengono chiamati “psitthacora”, che vuol dire “dolcissima soavità”».

Si confronti adesso questo passo con il seguente riassunto di Ctesia fatto da Fozio: «ε[στι δε; και; ποταµο;ς διαρρεvων δια; τη'ς ∆Ινδικη'ς, ουj µεvγ ας µε;ν

αjλλ∆ωJς εjπι; δυvο σταδιvους το; ευ\ρος ο[νοµα δε; τω'/ ποταµω'/ ∆Ινδιστι; µε;ν {ϒπαρχος, JΕλληνιστι ; δε; φεvρων παvντα τα; αjγ αθαv. ου| τ ος του' εjνιαυτου' λ∆ηJµεvρας η[λεκτρον καταρρει '. φασι; γα;ρ εjν τοι'ς ο[ρεσι δεvνδρα ει\ναι υJπερεvχοντα του' υ{δατος (υ{δατι γα;ρ ρJει'ται τα; ο[ρη)· ει\τα ω{ρα εjστιvν, ο{τε δαvκρυα φεvρει ω{σπερ αjµυγδαλη' η] πιvτυς η] α[λλο τι δεvνδρον, µαvλιστα δε; ειjς λ∆ ηJµεvρας του' εjνιαυτου·' ει\τα αjποπιvπτει τα; δαvκρυα ταυ'τα ειjς το;ν ποταµο;ν, και; πηvγ νυται. τω'/ δενδρεvω/ δε; τουvτω/ ο[νοµαv εjστιν ∆Ινδιστι; σιπταχοvρα, Ελληνιστι J ; σηµαι vνει γλυκυv, ηJδυv: καjκει'θεν οιJ ∆Ινδοι; συλλεvγ ουσι το; η[λεκτρον. φεvρειν δε; και; καρπο;ν τα; δεvνδρα βοvτρυς ω{σπερ α[µπελος· ε[χειν δε; τα;ς ρJω'γ ας ω{σπερ καvρυα τα; Ποντικα» v . (FrGrHist 688 F. 45, 36: 47b 5-18 Henry)

37. Cfr. n. 25, p. 185.

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«C’è poi un un fiume che attraversa l’India, non di grandi dimensioni: misura in larghezza, più o meno, due stadi. Il suo nome indiano è “Hyparchos”, che in greco significa “che porta ogni bene”. Per trenta giorni all’anno le sue correnti trasportano ambra. Dicono infatti che sulle montagne (il fiume infatti scorre attraverso le montagne) vi siano alberi che si elevano con i loro rami al di sopra delle acque del fiume; quando è arrivata la stagione – e in particolare per trenta giorni all’anno – questo tipo di alberi forma delle gocce di resina (come fanno il mandorlo, il pino e altri alberi), gocce che cadono poi nelle acque del fiume e si solidificano. Il nome indiano di questo albero è “siptachora”, che in greco significa “dolce”, “gradevole”. È da quest’albero che gli Indiani ricavano l’ambra. Quest’albero produce inoltre – come la vite – frutti in forma di grappoli, i cui chicchi sono grandi quanto le noci del Ponto».

Da una lettura attenta, si vede come, a meno che le razionalizzazioni non siano da attribuire al patriarca bizantino, Plinio mette in ombra molti degli elementi di modalizzazione che potevano essere presenti nel testo di Ctesia. Innanzitutto non vengono menzionate le misurazioni che vengono date nel testo greco («ουj µεvγ ας αjλλ∆ ωJς εjπι; δυvο σταδιvους το; ευ\ρος») e per di più il riferimento agli alberi che in un determinato periodo dell’anno farebbero scorrere l’elettro sul fiume è vertiginosamente brachilogico («iuxta montem silvestrem arboribus electrum ferentibus»), tanto che a chi leggesse il passo senza conoscere il testo di Fozio rischierebbe di sfuggire ogni legame di causalità fra lo stillare degli alberi e lo scorrere del fiume. Dunque Plinio, a quanto sembra, riassume Ctesia senza operare tagli sostanziali (e senza mai smentirlo), eppure molti dei passaggi logici che si presume debbano essere stati presenti nella fonte vengono saltati o comunque sono scarsamente evidenziati: il monte sul quale si troverebbero gli alberi di sitthachora viene menzionato ex abrupto con una sinteticità che non può che confondere chi legge. Per di più, oltre a non venire menzionata la ciclicità del fenomeno, manca del tutto la descrizione dei frutti di “sitthachora” presente v ). invece, a quanto sembra, in Ctesia («φεvρειν... τα; Ποντικα» L’interesse di Plinio, nel riassumere Ctesia (o una eventuale fonte indiretta), sta tutto nel far risaltare la meravigliosità di un fiume che trascina con il suo corso omnia bona. In questo senso si potrebbe dire che le tecniche di selezione usate da Plinio nei confronti dei racconti di Ctesia non sono dissimili da quelle usate, ad esempio, da Antigono di Caristo nei confronti di Aristotele.38 Stupisce per di più il fatto che i tratti meravigliosi, che dovevano già essere presenti nel testo di Ctesia, vengono, nel passo appena esaminato, ulteriormente accentuati. 38. Cfr. cap. 2, pp. 168 sgg. (ove si cita Jacob 1981, pp. 121 sgg.).

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Se si guarda inoltre al contesto in cui il passo di Ctesia viene riutilizzato si vede bene come l’intento di Plinio non sia tanto quello di “compendiare” Ctesia, quanto quello di raccogliere una serie di notizie da varie fonti, fra cui Ctesia stesso, e riunirle – direbbero Bona o Capponi – “disordinatamente” per compilare quell’oggetto così ambiguo che è la Naturalis Historia. Lo stesso accade, mi sembra di vedere, con i paragrafi 72-75 del libro VIII.39 2.3 Dall’asse di divisione al ritorno della “localizzazione” Selezione, destrutturazione e decontestualizzazione. Questi sarebbero dunque i criteri seguiti da Plinio nell’uso delle sue fonti. I passi che Plinio legge vengono sintetizzati e smontati in segmenti da dislocare qua e là nel corso dell’opera.40 Vediamo, dunque, di capire quello che succede con la versione pliniana del manticora. Come si è già visto (cfr. cap. 2, pp. 148 sgg.), in Aristotele, la descrizione del mostro indiano veniva inserita nel contesto di un raggruppamento determinato in base ad un ben preciso asse di divisione di tipo anatomo-fisiologico: la dentatura. La porzione di testo nella quale il manticora veniva incasellato comprendeva, dunque, nello Stagirita, una serie di esseri, per lo più non omologhi (quali l’uomo, il cammello, il verro, il leone, il leopardo, il cane, il cavallo, il bue, i pesci, la foca), rispetto ai quali il mostro indiano costituiva un’eccezione (sia pur “generalizzata”).41 L’asse di divisione aristotelico, in definitiva, funzionava come un operatore di differenza sulla base del quale era possibile individuare singoli gene. Se si rileggono le porzioni di testo pliniano che sono state riportate nei paragrafi precedenti, si vede bene come nel caso di Nat. Hist. 8, 75 il quadro sia completamente mutato. Le notazioni ana39. A proposito di Ctesia Zambrini 1982, pp. 128 sgg. parla di “favoloso spiegato scientificamente”. 40. Questo è quello che accade, per fare solo un esempio, con i passi aristotelici relativi all’elefante (Aristot. Hist. Anim. 5, 2, 540 a 19 sgg.; 5, 14, 546 b 7 sgg.; 6, 27, 578 a 17 sgg.). Le informazioni che Plinio ricava da questi passi vengono alla lettera “smembrate” e sparse qua e là nel corso dei §§ 1-30 del libro VIII. Cfr. a questo proposito Bona 1991 (pp. 50 sgg.), la quale però a mio avviso, pur descrivendo correttamente i processi di citazione pliniana, si lascia andare a conclusioni affrettate circa la lettura “indiretta” di Aristotele da parte dell’enciclopedista romano, senza in fondo capire le motivazioni profonde della selezione operata da Plinio che, a mio avviso, sono da spiegare non solo con un gusto del mirabile (chiamato in causa peraltro fin troppo spesso e troppo spesso poco compreso), ma anche, in particolare nei confronti di Hist. Anim. 5, 14, 546 b 7 sgg., con quel vero e proprio strumento organizzativo e cognitivo che è la tradizione del moralismo romano (a questo proposito cfr. Citroni Marchetti 1991, pp. 28; 83; 182; su queste pp. cfr. Romano 1995, p. 224). Sull’uso creativo delle fonti in Plinio cfr. Beagon 1992, p. 21. 41. Rimando alle pp. 148 sgg.

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tomo-fisiologiche che erano presenti in Aristotele si sono ridotte ad uno scarno accenno alle caratteristiche della dentatura della belva (triplici dentium ordine pectinatim coeuntium). Per di più questo accenno finisce di costituire, in quello che si è detto essere l’asse sintagmatico dell’enciclopedia dell’animale, un criterio di ordinamento. Gli animali che sono posti accanto al manticora non sono raggruppati in base ad una differentia anatomica, bensì in virtù della loro isotopia corografica. Il “luogo”, che in Aristotele, era stato escluso dalle ricerche sugli animali, ritorna prepotentemente in Plinio. Quello che le linci, i buoi unicorni, le leucrocote e il manticora hanno in comune è il fatto che – come si è visto – tutti vivono nella medesima zona marginale del mondo: l’Etiopia. Per di più tutti presentano nature paradossali rispetto agli esseri che comunemente vivono nel centro della terra. In questo senso, se in Aristotele il manticora veniva presentato come un’eccezione nell’ambito di un asse di divisione che era quello relativo alla conformazione dei denti, in Plinio esso viene percepito dal lettore come un ente di natura che in una determinata porzione del mondo è del tutto nella norma. In questo senso, dunque, la localizzazione pliniana, segnala la singolarità di un luogo facendo ricorso all’effetto di generalizzazione ottenuto per mezzo della forma catalogica. In Etiopia – si è già notato – tutti gli animali che è possibile inventariare sono analoghi al manticora. E in un certo senso tutti sono virtualmente la prova dell’esistenza di ognuno degli speciemi generici che è possibile classificare in questa zona del mondo.42 Se dunque esistono l’elefante e il leone (e gli esseri monstris similia) perché non dovrebbe esistere il manticora? Ma cosa porta Plinio ad una tale interpretazione della rappresentazione relativa al mostro indiano? Quali sono i modelli di pensiero e di veridizione che stanno dietro ad una simile versione? Prima di rispondere a queste domande è forse opportuno formularne un’altra, da considerare, in un certo senso, preliminare rispetto ad esse: per quale motivo Plinio avrebbe dovuto mutare l’asse sintagmatico che poteva avere trovato nella versione aristotelica (sempre che l’abbia usata direttamente)? Si tratta in altri termini di capire come mai il meccanismo di raggruppamento adoperato dallo Stagirita abbia ceduto il passo, nel capitolo della Naturalis Historia che si sta qui prendendo in esame, all’organizzazione corografica dei dati. Per comprendere come ciò sia potuto accadere è forse necessario fare qualche riflessione sull’uso pliniano della classificazione. 42. Per il concetto di “generic-specieme” cfr. Atran 1996, pp. 5 sgg. Per una esposizione di questo concetto cfr. anche n. 111, p. 142.

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2.4 Criteri di classificazione folk nell’inventario della Naturalis Historia Si è spesso insistito sull’assoluta mancanza, in Plinio, di una vera e propria classificazione scientifica o di un qualsivoglia progetto sistematico;43 ed effettivamente, fino a questo momento, non ci sono elementi per potere affermare il contrario. Plinio, in altri termini, non era Linneo, né tanto meno era Aristotele; il che però non significa che egli non abbia affatto seguito alcun criterio nel comporre la parte zoologica della Naturalis Historia. È infatti evidente che l’enciclopedista romano, nel riorganizzare i dati in suo possesso, si sia rifatto ad una divisione degli esseri viventi ampiamente diffusa nel momento in cui scriveva; Plinio si è avvalso cioè di una classificazione basata sul senso comune, di una folk taxonomy. Ebbene, si tratta adesso di spiegare – prima di continuare a parlare della sezione zoologica della Naturalis Historia – quali siano le caratteristiche di questo tipo di divisione degli esseri viventi. A tale proposito gli studi antropologici sulle etnoscienze sembrano essere giunti unanimemente alla conclusione che le classificazioni folk abbiano universalmente una struttura tassonomica e siano composte da una rigida gerarchia di taxa mutualmente esclusivi.44 Se così fosse, si dovrebbe ammettere che tutti gli uomini, ogni qual volta si trovino a parlare di un essere vivente, ricorrono a schemi di classificazione di senso comune. Dagli studi di Berlin, Breedlove e Raven45 si evince inoltre come i livelli gerarchici che verrebbero universalmente a comporre le classificazioni folk sarebbero, secondo la terminologia da loro usata, gli unique beginners, il generic-specieme e la life-form. Se lo unique beginner si riferisce ai grandi generi di “pianta”, “animale” e “uomo”,46 lo speciema generico costituisce il livello di base, logicamente subordinato, ma psicologicamente precedente al livello della forma di vita: 43. Cfr. ad esempio Bodson 1986, p. 100 o lo stesso Atran 1996, p. 127. Della Corte 1982, pp. 19 sgg. sostiene che la classificazione non sia affatto il fine della Naturalis Historia di Plinio. A mio avviso è però bene specificare che “la classificazione scientifica” non poteva essere un fine contemplato da Plinio. 44. Cfr. a questo proposito Atran 1996, pp. 5 sgg. e 17 sgg. (il quale riporta lo schema di Berlin, Breedlove e Raven 1973, pp. 214 sgg. riportato più avanti in appendice: cfr. fig. 3). Si noti che i meccanismi di classificazione analoghi a quelli descritti da Atran 1996, pp. 5 sgg. e da Berlin, Breedlove e Raven 1973, pp. 214 sgg. vengono esposti, con una terminologia leggermente diversa, in Sperber 1975, pp. 5 sgg. 45. Berlin, Breedlove e Raven 1973, pp. 214 sgg. 46. A proposito dello unique beginner Atran evidenzia la sua appartenenza “to the ontological category of plants or that of animals excluding humans” (Atran 1996, p. 5).

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«Ideally it is constituted as a fundamentum relationis, that is, an exhaustive and mutually exclusive partitioning of the local flora and fauna into well bounded morpho-behavioural gestalts (which visual aspect is readily perceptible at a glance)». (Atran 1996, p. 5)

Gli speciemi generici sono dunque il frutto di una immediata partizione del mondo dei viventi in “morfotipi”, modelli comportamentali a tre dimensioni che permettono di riconoscere differenti esemplari come individui dello stesso tipo (“gatto”, “cane”, “giraffa”).47 Ad esempio, riconosciamo un cane dal fatto che esso condivide una serie di tratti morfologici e di caratteristiche motorie ed “etologiche” con gli altri cani. Per di più, per il riconoscimento, possono intervenire altre variabili percettive: possiamo infatti distinguere un cane, oltre che per la ricorrenza dei tratti morfologici e motori, anche per il caratteristico verso o addirittura per l’odore. Questo fascio di tratti ricorrenti è, per l’appunto, il “tipo cognitivo” (o il “morfotipo comportamentale”) che permette di individuare un essere come facente parte di una classe ben definita che è lo “speciema generico”, il livello del quale corrisponde, grosso modo, ad una coestensione del livello del genere e della specie, abitualmente distinti, invece, dalle tassonomie scientifiche.48 Il livello successivo, in cui i singoli speciemi generici verrebbero raggruppati secondo un criterio di ulteriore astrazione, è quello delle forme di vita. Tale livello riunisce gli speciemi-generici in gruppi mutualmente esclusivi più estesi (“erba”, “albero”, “quadrupede”, “uccello”, “pesce”, “insetto” etc.): «The life-form level further assembles generic-speciemes into larger exclusive groups (tree, grass, moss, quadruped, bird, fish, insect, etc.). A salient characteristic of folkbiological life-forms is that they partition the plant and animal categories into contrastive lexical fields. The system of lexical markings thus constitutes a pretheoretical fundamentum divisionis of features that are positive and opposed. The opposition may be along a single perceptible di47. Sulla formazione di un modello 3-D di un essere vivente cfr. anche Eco 1997, pp. 109 sgg. Quello che qui chiamo morfotipo comportamentale viene chiamato TC (tipo cognitivo) da Eco 1997, pp. 106 sgg. 48. Sulla coestensione dei livelli di genere e specie nella tassonomia folk cfr. Atran 1996, p. 28: «Within any local community the layman readily perceives “gaps” between groups of organisms. For the most part, these apparent discontinuities in the local flora and fauna correspond to species differences. Among the Tzeltal Maya, for example, Hunn 1976, pp. 508 sgg. reports that nearly all (95%) animal generics correspond to recognized scientific taxa, three fourths (75%) to scientific species and more than half (57%) to “isolated species” having no congeners in the local area. So, in the majority of cases species and genus are extensionally equivalent and hence cannot be distinguished perceptually».

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mension (size, stem habit, mode of locomotion, skin covering, etc.) or simultaneously along several dimensions». (Atran 1996, p. 6)

A differenza della classificazione degli oggetti inanimati e dei manufatti, la classificazione degli esseri viventi si baserebbe dunque sulla immediata percezione di nature “intrinseche” che animerebbero gli oggetti sui quali viene applicata la partizione e che garantirebbe, in una ottica folk, la “stabilità” nel tempo, sia pure nella variazione individuale, di ogni speciema generico. A detta di Atran 1996 (pp. 100 sgg.; 119 sgg.), Aristotele, pur prendendo le mosse dalla classificazione folk, la avrebbe integrata con un vero e proprio sistema scientifico basato sulla ricerca delle cause e delle funzionalità degli organi del corpo. Del tutto diverso, in questo senso, sembra essere il programma di Plinio. A differenza dello Stagirita, infatti, il discorso sugli animali della Naturalis Historia rimane fortemente vincolato dalla tassonomia popolare; cosa che risulta ancora più chiara ed evidente se si cerca di capire l’atteggiamento dell’enciclopedista romano nei confronti della “ricerca delle cause”. Prendiamo ad esempio il seguente passo: «Insecta multi negarunt spirare, idque ratione persuadentes, quoniam viscera interiora nexus spirabilis non inessent. Itaque vivere ut fruges arboresque, sed plurimum interesse, spiret aliquid an vivat. Eadem de causa nec sanguinem iis esse, qui sit nullis carentibus corde atque iecore. Sic nec spirare ea quibus pulmo desit. Unde numerosa quaestionum series exoritur. Iidem enim et vocem esse iis negant in tanto murmure apium, cicadarum sono, et alia quae suis aestimabuntur locis. [6] Nam mihi contuenti semper suasit rerum natura nihil incredibile existimare de ea. Nec video cur magis possint non trahere animam talia et vivere quam spirare sine visceribus, quod etiam in marinis docuimus quamvis arcente spiritum densitate et altitudine umoris. [7] Volare quidem aliqua et animatu carere in ipso spiritu viventia, habere sensum victus, generationis, operis atque etiam de futuro curam, et quamvis non sint membra quae velut carina sensus invehant, esse tamen iis auditum, olfactum, gustatum, eximia praeterea naturae dona, sollertiam, animum, artem, quis facile crediderit? [8] Sanguinem non esse iis fateor sic ut terrestribus quidem, cunctis inter se similem: verum ut saepiae in mari sanguinis vires atramentum optineat, purpurarum generi infector ille sucus, sic et insectis quisquis est vitalis umor, hic erit sanguis. Denique existimatio sua cuique sit: nobis propositum est naturas rerum manifestas indicare, non causas indagare dubias [nda: corsivo mio]». (Nat. Hist. 11, 5-8).

«Molti autori hanno detto che gli insetti non possono respirare e lo hanno dimostrato sulla base del fatto che i loro organi interni non hanno condotti respiratori. Pertanto sostengono che essi vivono come le 196

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piante e gli alberi (anche se c’è una grandissima differenza fra ciò che respira e ciò che vive). Per lo stesso motivo dicono anche che gli insetti siano privi di sangue (il sangue infatti non è presente in tutti quegli esseri privi di cuore e di fegato). Allo stesso modo non possono respirare tutti gli animali privi di polmoni. Da qui viene fuori una serie di numerose questioni, perché gli stessi autori dicono che – nonostante il fitto brusio delle api, il frinire delle cicale e altre prove che verranno valutate più in là – gli insetti sono privi di voce. [6] Ora, per l’esperienza che ne ho fatto, la natura mi ha convinto che niente di tutto ciò che le riguarda deve essere considerato incredibile. E non vedo il motivo per cui si debba credere che sia più probabile che questi animali vivano senza respirare rispetto al fatto che possano respirare senza polmoni (cosa che – come abbiamo dimostrato – avviene per gli animali marini, sebbene essi siano impediti nella respirazione dalla densità e dalla profondità dell’acqua). [7] E chi poi potrebbe credere facilmente che alcuni animali siano privi del respiro quando invece riescono a volare proprio in mezzo alla stessa aria che si respira: molti di questi animali, del resto, hanno anche il senso del nutrimento, della riproduzione, del lavoro e riescono persino a preoccuparsi per il loro futuro; e poi, nonostante non siano provvisti di organi che, come le chiglie delle navi, riescano a indirizzare i sensi, questi animali hanno anche l’udito, l’olfatto, il gusto e, oltre a queste cose, preziosi doni della natura come l’astuzia, il coraggio, la capacità di fare cose. [8] Ammetto che gli insetti siano privi di quel sangue che, come quello degli animali terrestri, è simile in tutti, ma come nella seppia del mare è l’inchiostro che sostituisce le funzioni del sangue e nella porpora è quel succo che serve per tingere, così per gli insetti qualunque sia il tipo di liquido vitale, questo sarà, per loro, il sangue. Per finire: ognuno giudichi come creda: la nostra intenzione è quella di descrivere la natura evidente delle cose e non quella di indagare le cause oscure».

Il passo appena citato meriterebbe certo uno studio più approfondito.49 Per ora basti fare alcune osservazioni. Plinio, nel riportare alcu49. Si noti come in Nat. Hist. 11, 5-8 si possa rilevare una sorta di scetticismo di fondo in base al quale tutte le ipotesi sugli insetti sono presentate come equivalenti (sarà meglio dunque attenersi ai fenomeni evidenti e manifesti – questa la conclusione di Plinio). C’è inoltre da segnalare la confusione fra suono come rumore e fenomeno fisico della voce come emissione di aria modulata dai filtri degli organi della respirazione. Interessante è poi il fatto che Plinio sembra per certi versi avere interiorizzato il metodo aristotelico dell’analogia come meccanismo inferenziale: il liquido nero della seppia è infatti indicato come simile al sangue katà analogian. Tutti i passi aristotelici usati da Plinio in questo locus sono menzionati in Davies e Kathirithamby 1986, pp. 23 sgg. Sulla respirazione Aristot. Resp. 474 b 31 sgg. Su questo passo cfr. Capponi 1994, pp. 31 sgg: «il testo pliniano si riferisce probabilmente alla polemica che lo Stagirita conduce contro gli antichi naturalisti nel trattato Resp. 471 b 19 sgg., ove si legge come i discorsi errati sulla respirazione di tutti gli animali dimostrino la mancata osservazione delle parti interne e la non ammissione della finalità che hanno le opere della natura»; p. 32: «L’allusione, poi ad autori che negano essere negli insetti il sangue, poiché non avrebbero osservato né cuore né fegato, sembra dipendere da Aristotele, …(Part. Anim. 2, 3, 650 b 5 sgg.)».

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ne teorie circa la respirazione, la voce e le funzioni vitali degli insetti, espone le proprie opinioni facendo ricorso anche a maniere di ragionare tipicamente peripatetiche: l’analogia con il liquido della seppia lo porta infatti alla conclusione che anche gli insetti devono essere muniti di un liquido vitale le cui funzioni non possono che essere analoghe a quelle del sangue.50 Ma nonostante nell’uso della analogia si accosti ad una pratica consueta in Aristotele, subito dopo, facendo ricorso ad argomentazioni che meriterebbero di essere studiate a fondo, Plinio finisce per smentire il filosofo greco quando dice di non credere che gli insetti non respirino. Sembra infatti che secondo Plinio la respirazione degli esseri viventi debba spiegarsi secondo un principio esterno di natura fisica più che biologica:51 il soffio vitale che avvolge gli insecta che volano sarebbe la prova che essi respirano. La spiegazione pliniana viene tuttavia presentata come meramente immaginaria ed aleatoria. Essa è infatti fondata sull’ipotesi non dimostrata della possibilità di una respirazione senza polmoni. È come se l’enciclopedista romano, in fondo, non tenesse particolarmente ad affermare la correttezza del proprio punto di vista: «la natura mi ha convinto che niente di tutto ciò che le riguarda deve essere considerato incredibile». Come a dire, cioè, che tutte le teorie, tutte le posizioni assunte dai filosofi e dai naturalisti, in termini di cause invisibili o interne, sono del tutto equivalenti, se non addirittura indifferenti. Manca, in definitiva, un modello conoscitivo forte che detti regole di veridizione. È per questo, dunque, che bisogna limitarsi a «descrivere la natura evidente delle cose». La natura è dunque qualcosa da contemplare e non da investigare: ogni tentativo di comprenderne a fondo le cause non può che essere destinato a rivelarsi autodelusorio.52 Del resto, come ha osservato Mary Beagon (1992, p. 45), ogni qual volta lo stesso Plinio tenta di dare spiegazioni del funzionamento della natura, come si è visto nel passo sopra menzionato, lo fa in termini del tutto generali: un esempio lampante, in questo senso, è costituito dai capitoli in cui l’autore enumera le diverse teorie che spiegano il moto dei venti (Nat. Hist. 2, 116-121). Le premesse della trattazione sembrano essere ambiziose: 50. Per la seppia in Aristotele cfr. Hist. Anim. 1, 5, 489 b 35. Per le somiglianze katà analogian cfr. invece Hist. Anim. 1, 1, 486 b 17-21. 51. Cfr. a questo proposito Lanza e Vegetti 1971, n. 21, p. 1216 in nota ad un passo del de respiratione di Aristotele (472 a 1 sgg.) in cui si commenta la teoria della respirazione democritea (67 A 28 DK: cfr. Aristot. An. 404 a 1-16) in base al quale vi sarebbe un’identità assoluta fra vita e respirazione. In Nat. Hist. 11, 5 sgg. sembra proprio che Plinio faccia implicitamente riferimento a questa teoria probabilmente contaminata con il principio dello pneuma stoico (per lo stoicismo di Plinio cfr. Beagon 1992, pp. 42 sgg.). 52. A questo proposito cfr. Beagon 1992, pp. 42 sgg. e spec. p. 45. Per i legami di questa concezione con la filosofia stoica cfr. anche Giannini 1963, pp. 261 sg.

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«Quapropter scrupulosius, quam instituto fortassis conveniat operi, tractabo ventos, tot milia navigantium cernens». (Nat. Hist. 2, 118)

«Per questo motivo io tratterò i venti più minuziosamente di quanto forse converrebbe all’impianto dell’opera, tenendo presente l’esperienza di tante migliaia di navigatori».

Ma in effetti l’investigazione pliniana, se così si può dire, si conclude con una semplice (e per noi deludente) catalogazione dei venti esistenti, i cui comportamenti vengono definiti regolari e limitati nello spazio e nel tempo, senza che però venga illustrata alcuna eziologia relativa a tale regolarità (cfr. Nat. Hist. 2, 121). Per Plinio, dunque, è sufficiente riconoscere che ci sia – per così dire – una intrinsic underlying nature che regola i fenomeni naturali. Per il resto, dal momento che è impossibile conoscere le regole della natura, non è importante dire quali siano: esiste una lex, ma è impossibile, se non addirittura improbum, per i mortali, conoscerla a fondo.53 L’unica cosa da fare è dunque inventariare le nature delle cose, ovvero descrivere tutto ciò che è immediatamente percepibile dal senso comune senza tentare di andare al di là di esso. Lo stesso ragionamento sembra implicitamente valere per gli animali: dal momento che è impossibile conoscere le loro cause, non resta che dedicarsi alla descrizione di tutti quegli aspetti (di tutte le naturae) che sono sotto gli occhi di tutti.54 Se poi si tratta di animali mai visti, non resta che riportare ciò che gli altri hanno visto (o più semplicemente raccontato). I criteri che Plinio usa nel parlare della fauna di tutti gli angoli del mondo, al di fuori di qualsivoglia progetto eziologico sistematico, sono dunque criteri principalmente legati al senso comune della classificazione folk. In fondo esiste, nella Naturalis Historia, una ratio nella partizione degli animali. Si tratta della ratio delle tassonomie popolari: gli enti di natura vengono divisi da Plinio in regni: uomo, animali, piante. Dello unique beginner degli animalia successivamente si traccia una suddivisione in life-forms: i terrestria, dei quali si tratta nell’VIII libro, gli animali aequorum, amnium stagnorumque, dei quali si parla nel IX libro e infine gli aves e gli insecta dei quali si tratta rispettivamente nel X e nell’XI libro.55 Ogni libro 53. Sulla improbitas della investigazione scientifica per Plinio cfr. 2, 87; 247 (ma cfr. anche 2, 97). Su questi passi cfr. Beagon 1992, p. 44. 54. Sul concetto di natura in Plinio cfr. anche French 1994, pp. 196 sgg. 55. Cfr. rispettivamente Nat. Hist. 8, 1; 9, 1; 10, 1; 11, 1. Si noti come la suddivisione degli uomini, considerati come una life form a parte rispetto ai terrestria (cfr. 7, 1 sgg.), indichi implicitamente una visione fortemente antropocentrica (a proposito dell’antropocentrismo di Plinio cfr. French 1994, pp. 206 sgg. e Beagon 1992, pp. 37).

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descrive, senza fare ricorso a strategie di raggruppamento sistematiche, i singoli generic-speciemes che compongono volta per volta la lifeform che dà il titulus alla trattazione. Di ogni animale, concepito come speciema generico, a sua volta vengono descritte le tipologie morfocomportamentali (i morfotipi comportamentali). Oltre alla descrizione delle Gestalten,56 infatti, vengono per lo più fornite informazioni circa i comportamenti inter e intraspecifici, le malattie alle quali i singoli animali sono soggetti, i modi in cui si curano, le maniere in cui vengono “usati” dagli uomini.57 C’è però una differenza di fondo con tutte le classificazioni folk: la rassegna degli speciemi generici che viene fatta da Plinio è infatti “dimensionale”.58 Se tutte le classificazioni popolari sono locali, la trattazione dell’enciclopedista romano sugli animali pretende di essere un inventario del mondo e, in un certo senso, si presenta come un’addizione di distinte tassonomie locali (non-dimensionali) di diversi paesi.59 A testimoniarlo ci sarebbe la stessa struttura bipartita del libro VIII, in cui per prima cosa ci si occupa degli animali esotici (1-141), e soltanto dopo si passa alla trattazione degli animali comuni nel territorio italico (142 sgg.).60 La Naturalis Historia è dunque una sorta di “libro contabile” del mondo in cui il fine di chi la scrive è quello di includere il maggior numero possibile di oggetti. Alla stessa maniera, il fine, ad esempio, del libro VIII deve necessariamente essere quello di annoverare quanti più animali possibili. Quello che ne viene fuori è dunque una enorme messe di dati. Ma come fare per organizzarli? Come si è già visto, Plinio in linea di massima tende a scartare a priori la possibilità di investigare a fondo le cause dei fenomeni che descrive. Il che, come si vedrà più avanti non significa che non sia possibile trovare barlumi di spiegazione per particolari occorrenze del suo inventario;61 semplicemente ogni spiegazione sembra essere priva del 56. Per l’uso del termine Gestalt nell’ambito delle tassonomie folk cfr. J. Cullen, Botanical problems of numerical taxonomy, in V. Heywood (a cura di), Modern methods in plant taxonomy, Academic Press, New York 1968, p. 176 (cit. in Atran 1996, p. 25). 57. Per queste osservazioni, calzanti del resto per gran parte della zoologia antica, cfr. Bodson 1997, pp. 331 sgg. in cui si analizza in particolare Nat. Hist. 8, 67 sg. (a questo proposito cfr. più avanti pp. 224 sg.). 58. Uso il termine “dimensionale” in opposizione a “non-dimensionale” (nell’accezione data da Atran 1996, p. 17, secondo il quale le “nondimensional species” sono quelle specie che coesistono «in the same locality over a few ovserved generations») esattamente come si potrebbe usare il termine “globale” in opposizione a “locale”. 59. Sulla teoria in base alla quale gli animali sono considerati come partes del mondo cfr. anche Sen. Nat. Quaest. 2, 3-4. Su questo passo e sulla differenza con la concezione pliniana cfr. Beagon 1992, pp. 46 sgg. 60. Cfr. Bodson 1997, pp. 331 sg. 61. Cfr. ad es. Nat. Hist. 9, 2 (su questo passo cfr. Romano 1998, pp. 138 sgg.).

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suo fondamento di veridizione o si presenta come aleatoria e malcerta. Una visione del genere non solo implica una serie di conseguenze di tipo epistemologico, ma, cosa immediatamente evidente, viene anche ad inficiare la struttura del discorso pliniano.62 Il sistema ideato da Aristotele nella Historia Animalium era anche, per certi versi, un principio di organizzazione della scrittura: la maniera di pensare le interrelazioni fra i vari animali nell’ambito dei diversi assi di divisione o dei diversi punti di vista che venivano scelti volta per volta funzionava come una griglia di scrittura che il filosofo poteva seguire rigorosamente. Ebbene, l’appiattirsi sulla classificazione folk fornisce a Plinio un metodo di ripartizione dei dati che funziona soltanto a livello macrotestuale (la suddivisione in libri), ma che, all’interno della trattazione relativa alle singole life-forms e ai singoli speciemi generici, finisce per essere estremamente caotico. C’è un solo mezzo a disposizione dell’autore per dominare il caos (lo stesso mezzo che per altri versi lo crea): il catalogo. Il principio in base al quale nella Naturalis Historia si passa da un animale all’altro, infatti, è generalmente paratattico. Si passa da una messa a fuoco su un determinato animale (come è ad esempio nel caso dell’elefante o del leone),63 ai veri e propri sommari di esseri che popolerebbero determinate zone della terra. Si badi bene: Plinio in questo caso non inventa nulla; usa semmai, in particolare per l’inventario dei mostri dell’India e dell’Etiopia (8, 72-108), uno stilema retorico già sperimentato da Erodoto, ma, soprattutto, da paradossografi come Callimaco o Antigono.64 Ecco dunque che, non potendo conoscere a fondo le causae genitales del manticora o della leucrocota, in mancanza di un criterio rigido di raggruppamento, non rimane che porre questi esseri come elementi paratattici della stessa lista. Ed è proprio l’uso della lista che causa determinati effetti psicologici che sembrano agire sullo stesso autore oltre che sul lettore. Come ha già osservato Romm 1992 (p. 93), la forma catalogica, nei trattati geografici dell’antichità (e in particolare nelle digressioni etnografiche sulle eschatiai), è caratterizzata infatti da un matter-of-fact tone, costruito essenzialmente dalla fitta trama di marche linguistiche di attestazione di esistenza e dall’uso frequente della citazione di auctores. La proliferazione dei dati, così presentati, viene dunque ad inficiare l’abilità del lettore di separare il ve62. Sul “collasso epistemologico” in Plinio e, più in generale, nel I sec. a.C. e nel I d.C. cfr. pp. 218 sgg. 63. Cfr. Nat. Hist. 8, 1-34; 8, 42 sg. 64. Si veda ad es. Hdt. 4, 191 (su questo passo e sull’uso del catalogo in genere cfr. Romm 1992, p. 91).

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ro dal falso, forzandolo a credere a tutto ciò che altrimenti potrebbe sembrare incredibile. Ma soprattutto il catalogo, da vera e propria macchina generatrice di credenza quale è, finisce per agire anche su chi scrive. Per chi legge (e per chi scrive) la lista dei mostri etiopici, dunque, non c’è alcun dubbio sull’esistenza effettiva del manticora: che il manticora esista e che si nutra preferibilmente di carne umana non solo lo garantisce Ctesia (o Giuba?), ma viene ad essere provato dalla stessa natura dell’Etiopia, madre di mostri del tutto analoghi. Si noti ad esempio, in 8, 72-75, l’uso insistente di espressioni inerenti alla sfera semantica del nascere e del procreare. In 8, 72 il solo verbo generat regge una serie di accusativi tutti indicanti bestie mirabolanti: linci, pegasi, cercopitechi, buoi indiani, leucrocote. L’idea della procreazione ritorna proprio in 8, 75 rafforzata dall’autorità di Ctesia: «apud eosdem nasci». L’esistenza di mostri assolutamente incredibili viene dunque attestata con il ricorso all’idea della procreazione. Il soggetto di questo atto così naturale è proprio l’Etiopia, madre che produce, di norma, esseri che condividono la medesima aria di famiglia. I dati zoologici vengono dunque affastellati davanti agli occhi del lettore senza che alcuna attività di modalizzazione sia presente. Del resto, come si sa bene, a Plinio non interessa capire a fondo i meccanismi regolari della natura: gli basta evidenziare che questi ci siano. Ebbene, in Etiopia, la “nascita” del manticora e della leucrocota è una regolarità. Una regolarità incomprensibile, eppure, per certi versi, incontrovertibile. Del resto c’è Ctesia stesso a testimoniare che sia così.65

3.

Credere al manticora

3.1 Motivazioni sociali: il circo e il foro dei mostri come spazi paradossografici In tutta la Naturalis Historia, come si è già detto, nessuna delle notizie che Plinio trae dal testo di Ctesia viene mai messa in dubbio.66 Ma cosa ha portato Plinio a credere a Ctesia (e al manticora)? Si potrebbe rispondere – adducendo una spiegazione cui si ricorre un po’ troppo di frequente – che Plinio ha parlato del manticora perché era particolarmente attratto dai mirabilia. Ma una soluzione del genere, ovviamente, non può che essere circolare. Per cominciare a districare meglio la matassa, in realtà, bisognerebbe guardare al di fuori di Plinio. 65. Per il riuso di Ctesia in Plinio cfr. n. 25, p. 185. 66. Cfr. n. 25, p. 185.

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Innanzitutto non è certo inutile ricordare, come fa la Bodson (1997, p. 330), che fra Aristotele e Plinio c’è il filtro della scienza ellenistica. Se pensiamo di leggere Plinio attraverso lo Stagirita, come se l’enciclopedista romano fosse un vero e proprio continuatore delle sue ricerche biologiche, diventa inevitabile incorrere in errori e delusioni: l’idea del declino, se non della scomparsa, della scienza a Roma ne uscirebbe fuori rediviva e rafforzata. Bisogna invece riconoscere che fra Aristotele e Plinio c’è la “mediazione” dei secoli, ma soprattutto bisogna dire che gli intenti dei due autori sono del tutto diversi e, a partire da qui, capire che cosa è diventata la tradizione peripatetica ad Alessandria e come essa possa essere stata recepita a Roma. In questo senso, una importanza fondamentale per la nascita del gusto del meraviglioso deve essere attribuita alle riduzioni divulgative delle ricerche aristoteliche operate dai trattati paradossografici.67 Opere come quelle di Antigono di Caristo o di Alessandro di Mindo68 avevano come fine – come ci segnala Jacob 1981 (pp. 135 sgg.) – quello di “istruire e piacere”. Con i paradossografi si approda dunque ad una vera e propria stratificazione dell’accesso alla conoscenza secondo la quale, accanto al sapere alto della filosofia e della storia naturale, si viene a sviluppare una vera e propria letteratura parallela finalizzata alla diffusione elementare ed immediata delle nozioni. La tradizione peripatetica, attraverso le opere dei paradossografi, è diventata a portata di mano anche per le classi meno colte. Secondo un meccanismo tipico di tutte le forme di apprendimento elementare, le raccolte paradossografiche rendevano infatti facilmente memorizzabili i dati raccolti proprio con il porre l’accento sulla loro stranezza e sulla loro singolarità.69 Opere di questo tipo, per di più, non erano esclusivamente scritte in greco e da Greci. Abbiamo infatti notizia di una massa di autori latini di opere paradossografiche che vengono citati dallo stesso Plinio: Turranio Gracile, Trebio Nigro, Valeriano;70 tutti autori che davano al lettore la sensazione che la verità fosse ben più strana e sensazionale della finzione letteraria. Il sospetto che la natura potesse comprendere nel suo regno anche alberi parlanti, polipi dalle dimensioni gigantesche dediti alle razzie di bestiame, si faceva, 67. A questo proposito cfr. Sassi 1993, pp. 457 sgg. e Romano 1994, pp. 11 sgg. 68. Per Antigono di Caristo cfr. pp. 168 sgg. Alessandro di Mindo è un paradossografo, autore di un’opera sugli uccelli, usato come fonte da Claudio Eliano nel De natura animalium (cfr. a tale proposito Wellman 1891a, pp. 481 sgg.). 69. Jacob 1981, p. 136. 70. Cfr. ad esempio Nat. Hist. 9, 11; 9, 89; 9, 92-3; 10, 5. Su questi passi e, in generale, sul gusto per il meraviglioso nel I sec. d.C. cfr. Beagon 1992, pp. 9 sgg. (su questi autori Romano 1994, pp. 11 sgg.).

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nel pubblico medio (e non solo), sempre più forte.71 A testimoniare il progressivo espandersi del gusto per il curioso, per il freak of nature c’era pure, nel I secolo d.C., la dura condanna di Plutarco che si lamenta del fatto che da troppo tempo ormai gli uomini non si interessano più delle più importanti questioni di storia naturale (come ad esempio le cause del moto degli astri o del fiorire delle piante), ma concentrano la loro attenzione soltanto su fenomeni curiosi e “maligni”.72 Il luogo deputato a Roma per l’esposizione, e per la visione, di tali mostruosità era il foro dei prodigi, di cui ci parla lo stesso Plutarco continuando la sua lamentela: «ω{σπερ ου\ν εjν Ρω J vµ η/ τινε;ς τα;ς γραφα;ς και ; του;ς αjνδριαvντας και ; νη ;

∆ιvα τα; καvλλη τω'ν ωjνιvων παιvδων και; γυναικω'ν εjν µηδενι; λοvγ ω/ τιθεvµενοι περι; τη;ν τω'ν τεραvτων αjγ ορα;ν αjναστρεvφονται, του;ς αjκνηvµους και; του;ς γαλεαvγ κωνας και; του;ς τριοφθαvλµους και; του;ς στρουθοκεφαvλους καταµανθαvνοντες και; ζητου'ντες ει[ τι γεγεvνηται “συvµµικτον ει\δος και; αjποφωvλιον τεvρας”. αjλλ∆ εjα;ν συνεχω'ς τις εjπαγαvγ η/ τοι'ς τοιουvτοις αυjτου;ς θεαvµασι, ταχυ; πλησµονη;ν και; ναυτιvαν το; πρα'γ µα παρεvξει... ». (Plut. de curiositate 520 B12-C9)

«A Roma ci sono persone che non tengono in alcun conto le pitture, le statue e – per Zeus! – neanche le grazie dei giovinetti o delle donne che frequentano il mercato. Essi infatti se ne stanno a bighellonare per il foro dei prodigi e osservano esseri senza gambe o con le braccia atrofiche o con tre occhi o con la testa di struzzo, cercando se mai vi sia un mostro orrido e di natura ibrida. Eppure, se di continuo qualcuno li portasse a vedere tali spettacoli, ben presto la cosa verrebbe a generare in essi sazietà e nausea…».73

Dalla lamentela di Plutarco, certo, non ci è dato di conoscere le proporzioni del fenomeno – che si intuiscono esagerate dal tono moralistico che permea tutto il passo –, dobbiamo però credere che 71. Un autore che sembra aver raccolto principalmente notizie paradossografiche relative ad abnormità fisiologiche sembra essere stato un liberto di Adriano il cui nome era Flegonte di Tralle (cfr. a questo proposito Giannini 1964, pp. 129 sg.). A proposito del crescente gusto per i mirabilia del mondo animale e per le mostruosità cfr. anche Mayor 2000, pp. 136 sgg. Per una bibliografia sui freaks of nature nel periodo imperiale Sassi 1993, n. 26 p. 467. Interessante la notizia trasmessaci da Pausania (8, 46, 5), il quale riferisce dell’esistenza a Roma di speciali soprintendenti εjπι; τοι'ς θαυvµασιν (a questo proposito cfr. Sassi 1993, n. 28 p. 467). 72. Cfr. Plut. de curiositate 517 D 10-E 6. Su questo passo cfr. Beagon 1992, p. 10 e Inglese 1996, ad l. 73. Per la citazione del verso euripideo (Fr. 996, 1) nel passo plutarcheo cfr. Inglese 1996, ad l.

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al tempo di Plinio ci fossero all’interno del tessuto urbano della città alcuni spazi deputati, per così dire, all’esposizione paradossografica di “mostri orridi e di natura ibrida”, di esseri cioè che sembravano violare quelle che il senso comune – secondo quanto ha dimostrato Sperber – tende universalmente a considerare le “norme ideali” secondo le quali la natura dovrebbe generare sempre (e non tendenzialmente) “omofili” somiglianti a se stessi e non dovrebbe ammettere ibridi.74 Ma oltre agli spettacoli della natura che era possibile vedere ogni giorno a Roma, oltre alle belve visibili da tutti, circolavano per di più notizie di esseri che i Romani non avevano mai potuto ammirare.75 Dati, questi, che un tempo Aristotele avrebbe considerato incerti o dei quali avrebbe sottolineato la semiproposizionalità e l’ipoteticità. Adesso invece con Plinio questi stessi dati sembrano acquisire un valore del tutto nuovo. Il manticora – come si è visto – è sempre più reale. Gli spettacoli dei circhi, del resto, offrivano agli occhi dei Romani, le forme viventi più impensate: tigri, elefanti, leoni, camelopardi.76 Roma stessa era, per certi versi, una “enciclopedia” in forma di città: vi erano luoghi e istituti culturali (si pensi ad esempio, oltre al circo e al foro dei prodigi menzionato da Plutarco, allo spazio del trionfo) deputati all’esibizione dell’esotico. Non a caso fra le marche descrittive che nell’enciclopedia pliniana entrano di diritto a far parte dei tipi morfocomportamentali dei singoli animali, vi sono anche le date in cui essi sarebbero stati visti per la prima volta a Roma.77 «Le cose di cui tratta la Naturalis Historia (animali piante minerali)», osserva Sandra Citroni Marchetti (Citroni Marchetti 1991, p. 73), «non sono semplicemente in natura: esse portano, tutte, il segno di Roma, il loro aspetto odore sapore sono in quanto sono giudicati a Roma». L’Urbs stessa, dunque, nel momento in cui Plinio scrive, funziona come una grande opera paradossografica, come un catalogo del

74. A questo proposito cfr. Sperber 1975, pp. 5 sgg., il quale, a proposito degli ibridi e degli “animali perfetti”, spiega come lo scarto simbolico (e dunque la meraviglia che essi generano) nasce dal fatto che questi tipi di animali violano una tendenza statistica che però viene interpretata dal senso comune come norma ideale. 75. Per quanto riguarda le mostruosità visibili da tutti, oltre alle belve dei circhi (e del foro dei prodigi) bisogna annoverare i «paleontological hoaxes originated in the Roman era». A questo proposito cfr. Mayor 2000, pp. 228 sgg., la quale attribuisce questi falsi alla «response to the tension between popular and scientific beliefs» (ma su questo approccio dell’autrice cfr. pp. 132 sgg.). 76. Per il camelopardo cfr. p. 206. 77. Solo per fare alcuni esempi cfr. Nat. Hist. 8, 4; 37; 53; 65; 69; 70; 96. Sulla “storicità” dell’abitudine di menzionare le “prime apparizioni” cfr. French 1994, pp. 212 sgg.

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mondo esistente in cui la natura viene “raccolta” e mostrata agli occhi della gente senza che di essa vengano spiegate le cause.78 L’animale esotico e strano, per di più, diventava anche oggetto di contesa simbolica. Da quanto ci racconta Plinio (cfr. ad es. 8, 6970), sia Cesare che Pompeo avevano l’abitudine di mostrare, nei giochi circensi da loro offerti, esseri dalle forme e dai tratti strabilianti:79 «Nabun Aethiopes vocant collo similem equo, pedibus et cruribus bovi, camelo capite, albis maculis rutilum colorem distinguentibus, unde appellata camelopardalis, dictatoris Caesaris circensibus ludis primum visa Romae. Ex eo subinde cernitur, aspectu magis quam feritate conspicua, quare etiam ovis ferae nomen invenit. [70] Pompei Magni primum ludi ostenderunt chama, quem Galli rufium vocabant, effigie lupi, pardorum maculis. Iidem ex Aethiopia quas vocant κηπ v ους, quarum pedes posteriores pedibus humanis et cruribus, priores manibus fuere similes. Hoc animal postea Roma non vidit». (Nat. Hist. 8, 69-70)

«Gli Etiopi chiamano nabu un animale simile nel collo al cavallo, nei piedi e nelle zampe al bue, nella testa al cammello, con macchie bianche che chiazzano il suo manto fulvo; per queste sue caratteristiche l’animale è chiamato “camelopardalis”, e fu visto a Roma per la prima volta durante i giochi del circo offerti da Cesare nel periodo della sua dittatura. Da quel momento in poi lo si vede spesso, animale notevole per il suo aspetto più che per la natura feroce, e per questo ha avuto anche il nome di “pecora selvatica”. [70] Il “chama” invece è stato mostrato per la prima volta durante i giochi di Pompeo Magno; i Galli lo chiamavano “rufio”; ha l’aspetto di un lupo e le macchie del pardo. Nella stessa occasione i Romani hanno conosciuto, portati dall’Etiopia, gli animali chiamati “cepi”, le cui zampe posteriori erano simili ai piedi e alle gambe degli uomini, quelle anteriori alle mani. Questa bestia in seguito non si è più vista a Roma».

Nel caso del camelopardo, del rufio, del chama, l’animale, mostrato nella sua nuda percettibilità sensoriale, diventava allo stesso tempo spettacolo, mezzo per accattivarsi la benevolenza delle masse e – soprattutto – connotatore di status.80 Nel portare a Roma tutto ciò che 78. Su Roma come “catalogo dell’esistente” cfr. Romano 1995, p. 225. 79. Si noti che il termine camelopardalis, unitamente alla descrizione pliniana dei suoi tratti, genera nel lettore del tempo la sensazione che l’essere sia, nell’aspetto, una sorta di ibrido di cammello e di leopardo. Questo tipo di interpretazione della natura dell’animale è peraltro esplicita nel grammatico Aristofane (Aristoph. Hist. Anim. epitome, 2, 270). 80. Sull’animale esotico come connotatore di status nel mondo antico cfr. Bodson 1998, pp. 598 sgg.; Beagon 1992, pp. 125 sgg. Sulla notizia in base alla quale Augusto avrebbe rubato le zanne del cinghiale calidonio per portarle a Roma cfr. Mayor 2000, p. 142 (a questo proposito vd. Paus. 8, 47, 2).

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era mirabile, tutto ciò che era da ammirare e contemplare, Pompeo e Cesare per certi versi non facevano che trasporre, nello spazio architettonico della città, l’atto della scrittura di un Antigono di Caristo o dello stesso Plinio: selezionavano e raccoglievano tutto ciò che in natura era mirandum e lo mostravano agli occhi di tutti, omettendo qualsiasi spiegazione teorica e qualsiasi modalizzazione (processi, questi, tipici – come ha dimostrato Jacob 1981, pp. 131 sgg. – della scrittura paradossografica). La fisicità dell’animale veniva presentata al tempo stesso come prova della sua stessa esistenza e della varietas della Natura,81 ma anche come segno distintivo che indicava il prestigio di chi si era fatto auctor della sua presenza a Roma. Per di più animali come il nabu o il chama, belve dalla natura apparentemente composita e ibrida, potevano essere a loro volta percepiti come prova tangibile dell’esistenza di esseri analoghi: «se esistono il nabu e il cama – questo potrebbe essere un argomento implicito che potrebbe avere affascinato Plinio – perché non dovrebbe esistere il manticora?».82 Ad influire ulteriormente sul gusto per i mirabilia, come osserva la Beagon (1992, pp. 9 sgg.), c’erano inoltre le spedizioni militari (si veda ad esempio Nat. Hist. 32, 142-143) e il conseguente accrescimento del sapere geografico, concepito peraltro come passibile di ulteriori ritocchi:83 «Peractis aquatilium dotibus non alienum videtur indicare per tot maria, tam vasta et tot milibus passuum terrae infusa extraque circumdata mensura, paene ipsius mundi quae intellegatur, animalia centum quadraginta quattuor omnino generum esse eaque nominatim complecti, quod in terrestribus volucribusque fieri non quit. [143] Neque enim omnis Indiae Aethiopiaeque aut Scythiae desertorumve novimus feras aut volucres, cum hominum ipsorum multo plurimae sint differentiae, quas invenire potuimus. Accedat his Taprobane insulaeque aliae atque aliae oceani fabulose narratae. Profecto conveniet non posse omnia genera in contemplationem universam vocari, at, Hercules, in tanto mari oceanoque quae nascuntur certa sunt, notioraque, quod miremur, quae profundo natura mersit». (Nat. Hist. 32, 142-143)

«Dopo aver trattato delle proprietà degli animali acquatici non mi sembra cosa estranea al mio intento fare menzione del fatto che, attraverso tanti mari, così vasti, che si insinuano nella terra bagnandola 81. A questo proposito cfr. Benabou 1975, pp. 147 sgg. 82. Sul possibilismo pliniano nei confronti dell’esistenza dei mostri cfr. Nat. Hist. 7, 6-8 (su questo passo Benabou 1975, pp. 146 sgg.). 83. French 1994 (pp. 1 sgg.; 114 sgg.; 196 sgg.) insiste particolarmente sul legame fra espansione militare e progresso delle conoscenze della storia naturale.

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per tante miglia e che la circondano all’esterno per una estensione che viene computata come quasi uguale a quella del mondo, esistono in tutto centoquarantaquattro specie di animali; né mi pare fuori luogo indicare per nome tutte queste specie (cosa che non si può fare per gli animali terrestri e per gli uccelli). Noi infatti non possiamo conoscere tutte le bestie e gli uccelli che si trovano in India e in Etiopia o gli animali generati dalla Scizia o dai deserti, soprattutto se consideriamo che numerosissime sono le varietà degli stessi uomini che abbiamo potuto trovare. Si aggiungano inoltre, a questi dati, Taprobane e tutte le altre isole dell’Oceano delle quali si narrano cose meravigliose. Certo, saremo d’accordo sul fatto che non è possibile riunire in una visione generale tutte le specie, ma – per Ercole! – gli esseri che nascono nel mare – che è così vasto – e nell’oceano sono ben noti e – cosa che suscita meraviglia – sono più noti quelli che la natura ha immerso negli abissi».

Se dunque gli esseri del mare sono tutti già inventariati (assunto, questo, che – sia detto per inciso – sembra del tutto in contraddizione con quanto affermato in Nat. Hist. 9, 2), ancora non si conosce tutto dei mostri di zone estremamente lontane come l’India e l’Etiopia, ma quello che si sa già basta per alimentare l’attesa di quanto si potrebbe ancora scoprire.84 Molte di quelle che un tempo erano considerate “dicerie sulle eschatiai” si sono rivelate, in seguito alle esplorazioni effettuate, sorprendenti verità. E lo stesso destino, in fondo potrebbe essere riservato ad altre opiniones inverosimili. Inoltre, dal momento che qualsiasi animale esotico era percepito come un connotatore di status, l’attesa del “mostro”, in un certo senso, finiva per creare il mostro stesso: il suo avvistamento, e il conseguente resoconto, accresceva, in qualche modo, l’autorità di chi lo aveva effettuato. Non è un caso, in questo senso, che la maggior parte degli avvistamenti di animali paradoxa siano tutti da attribuire, secondo i resoconti di Plinio, a funzionari imperiali. Si pensi ad esempio al caso del tritone avvistato presso l’Oceano Gaditano da illustri personaggi di ordine equestre («equestri ordine splendentes»: cfr. Nat. Hist. 9, 10) o al legatus Galliae (cfr. Nat. Hist. 9, 9) che, nell’attestare l’esistenza delle Nereidi – probabilmente per rendere più credibile il suo resoconto – ne corregge il morfotipo tramandato dalla “tradizione” aggiungendo alcuni tratti, per così dire, “razionalizzanti”: le Nereidi infatti, secondo quanto aveva potuto considerare, avevano non solo la zona caudale, bensì tutto il corpo ricoperto di squame (e quindi anche le parti umane).85 84. Cfr. Beagon 1992, p. 10. 85. Su questi due passi cfr. Romano 1998, pp. 137 sgg.

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Ebbene, anche in questi casi, esattamente come accade con la notizia del manticora (e in genere con tutte le notizie tratte da Ctesia), Plinio non batte ciglio: si limita a leggere e trascrivere le informazioni di cui viene in possesso senza dubitare della loro veridicità. 3.2 Plinio lettore di Aristotele: l’inventario come ideologia Nel paragrafo precedente si è visto come la maggiore disponibilità a credere ad esseri simili al manticora, possa essere spiegata in base a motivi sociali: l’attesa quasi spasmodica del mirabile e nello stesso tempo la sua elezione a connotatore di posizione sociale hanno modificato lo statuto che esso poteva avere nelle opere biologiche aristoteliche: il fatto che lo stesso imperatore Claudio abbia scritto di ippocentauri e – pare – ne abbia conservato sotto miele uno portatogli in dono dall’Egitto la dice lunga su quali fossero le attitudes nei confronti degli esseri paradoxa nella Roma del I secolo d.C.86 Oltre che adducendo motivazioni esterne e “ambientali” (come quelle individuate nel paragrafo precedente), bisogna però anche dire – a mio avviso – che la disponibilità a credere a certi dati, in Plinio, può essere spiegata facendo ricorso a cause, per così dire, interne all’opera. Esemplare, in questo senso, è, a mio avviso il paragrafo 44 del libro ottavo della Naturalis Historia: «Aristoteles diversa tradit, vir quem in his magna secuturus ex parte praefandum reor. Alexandro Magno rege inflammato cupidine animalium naturas noscendi delegataque hac commentatione Aristoteli, summo in omni doctrina viro, aliquot milia hominum in totius Asiae Graeciaeque tractu parere iussa, omnium quos venatus, aucupia piscatusque alebant quibusque vivaria, armenta, alvaria, piscinae, aviaria in cura erant, ne quid usquam genitum ignoraretur ab eo. Quos percunctando quinquaginta ferme volumina illa praeclara de animalibus condidit. Quae a me collecta in artum cum iis, quae ignoraverat, quaeso ut legentes boni consulant, in universis rerum naturae operibus medioque clarissimi regum omnium desiderio cura nostra breviter peregrinantes». (Nat. Hist. 8, 44)

«Cose diverse riferisce Aristotele, uomo del quale – almeno così la penso – è necessario che io parli, dal momento che ho intenzione 86. Nat. Hist. 7, 35. Pare che anche Tiberio abbia nutrito interessi “criptozoologici” (cfr. Svetonio, Tiberius 70, su questo passo vd. Mayor 2000, p. 145). Sul centauro portato in dono a Claudio cfr. Mayor 2000, p. 240: «immersion in honey would not only enhance authenticity but would prevent close inspection of the blurry illusion». A questo proposito la studiosa menziona un altro falso di cui ci reca notizia Luciano (Alex. 12 sgg.): «taking as an example Lucian’s firsthand account of the phony human headed snake exhibit, we can guess that the Centaur was shown in a dimly lit room, and that viewers were hurried along to the exit before they could examine the hoax».

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di seguirlo in gran parte, visto che tratto di questi argomenti. Il re Alessandro Magno cominciò ad ardere dalla brama di conoscere la caratteristiche fisiche degli animali e ne affidò lo studio ad Aristotele, uomo di somma preparazione in ogni disciplina. In tutte le regioni dell’Asia e della Grecia erano ai suoi ordini alcune migliaia di uomini che vivevano di caccia, di uccellagione e di pesca e che erano preposti ai vivai, agli armenti, agli alveari, alle peschiere, alle uccelliere, perché nessun essere vivente fosse ignorato da Aristotele. Ebbene, proprio interrogando queste persone Aristotele compose quei famosi volumi sugli animali (cinquanta all’incirca di numero). Io ho qui riassunto le cose da lui scritte e le ho integrate con altre notizie delle quali non era a conoscenza e adesso chiedo di accogliere bene il frutto del mio lavoro ai miei lettori; quei lettori che, grazie alla nostra fatica, in un tempo breve possono aggirarsi fra tutte le opere della natura e in mezzo a quelle notizie che hanno suscitato perfino la curiosità del più grande dei re».

Aristotele viene associato ad Alessandro quasi come suo partner scientifico. La cosa risulta oggi priva di senso storico, ma è tuttavia da considerare come una spia assai interessante, dal momento che lascia trasparire una maniera alternativa in cui potevano essere lette l’opera dello Stagirita e la stessa spedizione in India del condottiero macedone.87 Associare Aristotele ad Alessandro significa dare alla marcia di Alessandro un crisma di – diciamo così – “scientificità”.88 La marcia dei Greci in oriente, in base a questa interpretazione, è dunque finalizzata alla scoperta di nuovi esseri, alla volontà di gettare finalmente luce su quella che per secoli e secoli era stata una zona d’ombra del mondo. Grazie ad Alessandro il novero delle specie viventi poteva ormai avviarsi alla conclusione e toccava ad Aristotele rendere edotto il curioso sovrano circa le cause della loro natura. La conquista dell’oriente diventa così, in virtù dell’interpretazione pliniana, soprattutto una conquista cognitiva: essa è vista come un accrescimento delle conoscenze scientifiche dei Greci voluto fortemente da Alessandro. Ma se questo è l’effetto dell’accostamento del nome di Aristotele a quello di Alessandro, al contrario accostare il nome del re ma87. La “storicità” del rapporto fra l’opera biologica aristotelica e l’interesse zoologico di Alessandro è stata sostenuta da Jaeger 19602, p. 448 (a questo proposito cfr. Romm 1992, n. 54 p. 108). Più recentemente French 1994, pp. 105 sgg., anche se in via meramente ipotetica, ha provato a prendere sul serio la partnership scientifica fra Alessandro ed Aristotele: Aristotele non avrebbe scritto la Historia Animalium per Alessandro, ma – così sostiene French (il quale però pone in secondo piano molte delle fonti indografiche utilizzate dallo Stagirita) – molte delle sue conoscenze sugli animali potrebbero essere basate sulle relazioni che Aristotele si faceva spedire dai militari macedoni all’estero. 88. Romm 1992, pp. 98 sgg. e 107 sgg.

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cedone a quello dello Stagirita finisce per imporre, in un certo senso, una lettura mitica della sua opera scientifica. Il nome di Alessandro richiama infatti alla memoria i paesaggi favolosi e le bestie sensazionali dei margini del mondo. Anziché cancellare il manticora o i Cinocefali dalla “geografia vera” dell’India, la spedizione del re macedone, che aveva accresciuto il gusto e l’interesse per il favoloso, nell’ottica di Plinio finisce quasi per giustificarli.89 Se dunque Alessandro è il primo uomo dell’occidente ad avere visto i mostri del mare indiano e i favolosi cani-tigre di cui per la prima volta aveva parlato Ctesia,90 se dunque Alessandro è l’uomo dei mostri, l’opera di Aristotele non può che essere letta, fra le righe, come un inventario di esseri “mostruosi” e novissimi. Il lavoro dello Stagirita, in questa versione mitologizzata, diventa dunque, in un certo senso, un’opera di recensione dell’esotico. Ed è proprio in base a questa lettura dello Stagirita che è da vedere il germe del programma pliniano di inventariare il mondo tutto dei viventi. Uno scopo, questo, che, come si sa bene, non poteva essere quello di Aristotele. Scott Atran (1996, p. 122) ha fatto notare che appena trenta specie esotiche erano conosciute nel momento in cui lo Stagirita scriveva le sue opere biologiche e che quindi uno “schedario completo” del mondo non poteva essere ancora sentito come un problema: l’animal lore dei Greci, se si escludono i dati ipotetici provenienti da scrittori come Ctesia, era ancora per certi versi, nel momento in cui veniva composta la Historia Animalium, il tipico mondo non-dimensionale delle faune locali.91 Non è più così, però, per Plinio: le conquiste e le spedizioni romane, come si è visto, avevano fatto diventare Roma una città “paradossografica” che raccoglieva ed esibiva specimina di animali provenienti da ogni angolo del mondo conosciuto. Occorreva dunque che qualcuno mettesse per iscritto e che inventariasse tutti gli speciemi generici esistenti. Per gli esseri già conosciuti, almeno nell’ottica “mitologizzante” di Plinio, era possibile fare affidamento ad Aristotele (e alla 89. Cfr. Beagon 1992, p. 128: «The results of his expeditions and their finds may have provided material for that basic human fascination for the strange and the new, giving it a fresh impetus which lasted into the following age of Rome». 90. Cfr. Nat. Hist. 9, 5; 8, 148-9; FrGrHist 688 F. 45, 10. 91. Cfr. Atran 1996, p. 122: «It is not that Aristotle rejects such an approach. He simply has no need of it. With only thirty or so exotic species to worry about, and less than 600 indigenous species to survey, his situation is fundamentally no different from that of a local folk the world over. In such a circumstance, there is no concern with reconciling the partial orders of many different local environments scattered over the various corners of earth. There is, therefore, no warrant to systematically fill in the lacune. Accordingly, Aristotle does not endeavour to predict a single, worldwide order in which all organisms, known as yet unknown, would naturally fall into place».

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tradizione paradossografica precedente), ma per il resto bisognava unire alle conoscenze dello Stagirita i dati che egli ignorava: «quae a me collecta in artum cum iis, quae ignoraverat, quaeso ut legentes boni consulant, in universis rerum naturae operibus medioque clarissimi regum omnium desiderio cura nostra breviter peregrinantes» (8, 44). Per lo spirito di servizio di Plinio, dunque, completare l’inventario del mondo che Alessandro aveva commissionato ad Aristotele è un vero e proprio dovere, sebbene immane.92 Lo schedario del mondo è infatti destinato a rimanere incompleto. A dimostrarlo c’è l’attività incessante della Natura che, proprio ai margini del mondo, sembra scatenare la sua forza creativa. In Etiopia, ad esempio, – la stessa Etiopia che, nel testo pliniano genera il manticora – ci sono uomini alti più di otto cubiti, i Menismini, che si cibano del latte dei cinocefali;93 e poi vi sono perfino fantasmi di uomini che svaniscono nello stesso momento in cui li si incontra (“In Africae solitudinibus hominum species obviae subinde fiunt momentoque evanescunt”: cfr. 7, 32): «Haec atque talia ex hominum genere ludibria sibi, nobis miracula ingeniosa fecit natura. Ex singulis quidem quae facit in dies ac prope horas, quis enumerare valeat? Ad detegendam eius potentiam satis sit inter prodigia posuisse gentes. Hinc ad confessa in homine pauca». (Nat. Hist. 7, 32)

«Questi popoli singolari e altri simili la Natura ha fatto per sé come oggetto di divertimento, per noi come oggetto di ammirazione. E chi riuscirebbe mai a enumerare le realizzazioni su singoli individui che essa produce di giorno in giorno, anzi di ora in ora? Al fine di svelare la sua potenza ci basti l’avere posto nel novero dei prodigi intere popolazioni. A partire da qui adesso passo a quei pochi dati che riguardano gli uomini che sono stati provati con certezza».

La Natura si diverte ad osservare i suoi spettacoli. Spettacoli peraltro incomprensibili per l’uomo. Davanti al miraculum che sono le popolazioni meravigliose che vivono in India o nell’Africa, i mortali non possono far altro che tentare di stilare un catalogo.94 Questa stessa attività, per di più, sembra essere una sorta di fatica di Tantalo: «quis enumerare valeat?». E tuttavia compilare un inventario del mondo, attività impossibile ed autodelusoria, sembra essere l’unico gesto che la natura ha concesso ai mortali, se non altro per rendere ancora più visibile la propria potenza. 92. Sullo spirito di servizio come linea di fondo dell’opera cfr. Citroni Marchetti 1982, pp. 124 sgg. 93. Per questi popoli fantastici in Plinio cfr. Nat. Hist. 7, 31. 94. Cfr. anche Nat. Hist. 32, 143 (riportato a p. 207).

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Il progetto di Plinio è dunque un progetto “aperto”: il progetto di un’opera che non potrà mai essere completata e che tuttavia deve essere almeno iniziata, come se si trattasse di un castigo divino. Tutta la Naturalis Historia è in fondo un’opera a tesi: schedare il mondo equivale a dimostrare un’idea filosofica; schedare il mondo significa rendere visibile la varietà e la progettualità provvidenziale della Natura.95 Oltre all’intento didascalico c’è però ben altro. L’inventario del mondo dell’Aristotele di Plinio nasce come qualcosa di intimamente legato al potere del clarissimus omnium regum. Schedare la natura è dunque qualcosa che non può prescindere, in qualche modo, dalla conquista materiale della stessa. L’inventario del mondo è dunque per certi versi l’inventario del mondo conquistato da Roma, è il segno della presenza del suo sguardo in ogni angolo dello stesso, è l’impronta dell’espansione dell’Urbs.96 Analogamente a come era successo con Alessandro Magno (con l’Alessandro Magno di Plinio), l’avanzata di Roma nello spazio dell’orbe si accompagna ad una sorta di annessione, inesorabile, dell’animal lore dei luoghi che entrano a far parte della sua sfera di potenza. Come si intuisce in 8, 44, l’idea che Plinio ha, riguardo alla possibilità di conoscere la natura, sembra essere intimamente legata all’esistenza di un progetto politico e culturale: l’ordine delle cose può essere colto soltanto attraverso il filtro di un ordine politico che è quello di Roma.97 Comincia dunque ad essere chiaro il motivo per cui il catalogo pliniano finisce per sciabordare oltre la sfera dei confessa in homine pauca cui si accenna in Nat. Hist. 7, 32. Se solo il fine di Plinio fosse stato diverso, con molta probabilità la sua versione del manticora sarebbe potuta essere molto più in sintonia con quella di Aristotele; il “se si deve credere a Ctesia” usato dallo Stagirita per modalizzare l’informazione tratta da Ctesia (Hist. Anim. 2, 1, 501 a 24 sgg.), lo avrebbe spinto certo a dubitare che essa potesse essere un confessum. Certo, non sappiamo quali potevano essere le prove addotte da Giuba (una delle probabili fonti dirette di Plinio) per dimostrare l’esistenza dell’animale; ciò non di meno, credo che l’annessione nel catalogo del mondo sia da attribuire a ben altri meccanismi. Quello che è importante per Plinio, infatti, non è tanto spiegare le tendenze regolari della natura, quanto enumerare i suoi fenomeni. È il numero che conta! Quanti più animali sono conosciuti da Roma, tanto più elevato sarà lo status dell’Urbe. Conoscere un animale, e inventariarlo, si95. A questo proposito rimando a Beagon 1992, pp. 26 sgg. 96. Sull’influenza dell’ideologia del dominio di Roma sulla pratica dell’inventario cfr. Romano 1994, pp. 25 sg. 97. Cfr. Romano 1995, p. 225.

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gnifica per certi versi possederlo, essere artefice del suo destino. E del resto cos’è il circo se non una maniera di rendere lo sguardo di Roma simile, nell’ottica pliniana, a quello della Natura?98 La natura ha progettato la lotta fra gli elefanti e i serpenti giganti dell’India al sono fine di inscenarsi uno spettacolo.99 Ebbene, il pubblico di Roma che osserva le lotte fra gli animali più strani, organizzate dai vari imperatori, dai condottieri, dai funzionari, non fa altro che imitare l’atto della Natura che assiste allo spettacolo della sua creazione. Ecco dunque che il manticora, non meno incredibile di altri esseri che si sono visti nella grande città-catalogo, fa numero; schedarlo fra i confessa in homine pauca, non è in fondo un atto così ingiustificabile; non annoverarlo fra gli esseri del mondo sarebbe invece, per certi versi, un sottrarre qualcosa allo sguardo onnipresente di Roma. Non c’è dunque alcun motivo per interrompere la fitta trama tessuta dal catalogo di 8, 72-75 mettendo in dubbio la sua esistenza, dal momento che essa, per così dire, “non stona”. 3.3.1 Le causae genitales: come nascono gli ibridi mostruosi dell’Africa? La Naturalis Historia è dunque un’opera inclusiva in cui nessun dato deve sfuggire al compilatore. Tutti gli animali di cui è giunta notizia devono essere catalogati e descritti, anche se non sono mai stati visti ai giochi o nel foro dei prodigi, per dimostrare l’esuberante varietà della Natura e per marcarla con il segno di Roma. Vi sono, certo, anche storie alle quali Plinio dimostra di non credere fino in fondo, ma che comunque riporta, quasi per spirito di servizio.100 L’enciclopedista romano registra scrupolosamente tutte le notizie che circolano sulla fenice e ricorda anche l’anno in cui il favoloso animale fu portato a Roma, eppure, nonostante la messe di testimonianze disponibili, ammette timidamente il suo sospetto che si possa trattare di una leggenda: «haud scio an fabulose» dice in Nat. Hist. 10, 3. Riguardo all’esemplare esposto nel comizio durante la censura dell’imperatore Claudio, poi, dice che si doveva trattare evidentemente di un falso.101 Ancora più duro è l’attacco alle credenze relative ai versipelles (cfr. Nat. Hist. 8, 80). Plinio nega con forza la loro esistenza («nessuna menzogna è tanto impudente – dice Plinio – da essere priva di un testimone»),102 tuttavia non adduce alcuna spiegazione scientifi98. A questo proposito cfr. Beagon 1992, pp. 151 sgg. 99. Cfr. Nat. Hist. 8, 34. 100. Per lo spirito di servizio pliniano cfr. n. 92, p. 212. 101. Cfr. anche Nat. Hist. 10, 136 sg. Per una bibliografia sulla fenice cfr. Lanata 2000, n. 21 p. 32. 102. Cfr. Nat. Hist. 8, 82: «nullum tam impudens mendacium est, ut teste careat».

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ca che lo dimostri. La motivazione sulla quale Plinio si basa potrebbe semmai essere di natura culturale e antropologica, se non addirittura etnocentrica. A Plinio infatti basta infatti individuare il luogo di origine della notizia (la Grecia)103 per fare capire al lettore (che è verosimilmente un romano della classe media) che essa non può essere fondata, dato che, secondo una rappresentazione comune, i Greci sono tutti creduloni o comunque sono testimoni infidi.104 Ciò comunque non vieta all’autore di riportare una notizia di cui si nega la fondatezza, ma che finisce per essere comunque catalogata ed inclusa nell’inventario romano del mondo come legendum. Ma se la storia dei lupi mannari è falsa, come mai Plinio non ha alcun dubbio circa il manticora? Alla base di questa notizia infatti, esattamente come avviene con i versipelles, c’è una fonte greca: Ctesia. Come si è già visto esistevano alcuni motivi – per così dire – esterni all’opera di Plinio per cui una bestia come quella descritta dal medico di Cnido potesse sembrare non solo ammissibile, ma anche del tutto “reale”. Finora cioè sono stati messi in luce soltanto alcuni fenomeni storico-antropologici ed ideologici che possono in qualche modo spiegare come i “mostri” e gli esseri straordinari siano diventati in qualche modo “usuali” nella Roma del I sec. d.C. A mio avviso comunque si possono addurre anche alcune spiegazioni di tipo “naturale” (per non dire “scientifico”) per capire meglio la disponibilità pliniana alla credenza. Una spiegazione la si potrebbe trovare nel cosiddetto “determinismo ambientale” degli antichi, una teoria ampiamente diffusa secondo la quale le condizioni climatiche delle eschatiai tes oikoumenes – e dunque delle zone marginali rispetto al centro del mondo che era, nel caso dei Romani, l’Italia – sono maggiormente adatte a creare forme biologiche mirabolanti.105 Già Erodoto aveva osservato che «in qualche modo le zone estreme della terra hanno ottenuto in sorte le cose più belle, laddove analogamente la Grecia ha avuto in sorte un clima molto più temperato».106 Aristotele poi, proprio a proposito dell’Africa – il continente in cui Plinio aveva fatto migrare il manticora – diceva che pullulava di fiere dalle forme stranissime. Se infatti gli animali feroci dell’Europa erano i più coraggiosi e sfrontati (αjνδρειοvτερα), e quelli dell’Asia erano – per l’appunto – i più feroci (αjγ ριωvτερα), nel 103. Plinio attribuisce la notizia ad un non meglio identificato storico greco di nome Evante che avrebbe ripreso un motivo narrativo diffuso in Arcadia (cfr. 8, 81). 104. Cfr. Nat. Hist. 8, 82: «Mirum est quo procedat Graeca credulitas!» («è incredibile fino a che punto arrivi la credulità dei Greci»). Ma cfr. anche 5, 4 e 12, 11. 105. Per il determinismo ambientale cfr. n. 162, p. 70. 106. Cfr. Hdt. 3, 106, 1: «αιJ δ∆ εjσχατιαιv κως τη'ς οιjκεοµεvνης καvλλιστα ε[λαχον, καταv περ ηJ ÔΕλλας τα;ς ω{ρας πολλοvν τι καvλλιστα κεκρηµεvνας ε[λαχε».

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continente africano gli α[γ ρια erano tutti – in seguito al realizzarsi di una serie di condizioni climatiche – πολυµορφοvτατα, presentavano cioè la maggiore molteplicità e varietà di forme.107 Lo stesso Plinio del resto, nel libro VI della Naturalis Historia, si trova ad abbozzare una spiegazione climatico-ambientale per le monstrificas effigies che si troverebbero presso le extremitates dell’Etiopia:108 «Animalium hominumque monstrificas effigies circa extremitates eius gigni minime mirum, artifici ad formanda corpora effigiesque caelandas mobilitate ignea. Ferunt certe ab orientis parte intima gentes esse sine naribus, aequali totius oris planitie, alias superiore labro orbas, alias sine linguis». (Nat. Hist. 6, 187)

«Non bisogna affatto stupirsi della nascita, presso i margini dell’Etiopia, di uomini e di animali dall’aspetto mostruoso: queste nascite sono infatti spiegabili con la mobilità creativa del fuoco che lo porta a modellare i corpi e quasi a cesellare le fisionomie. Si racconta con certezza ad esempio che nell’estrema parte orientale dell’Etiopia vi siano tribù di uomini senza naso, con il viso di una piattezza uniforme, mentre alcune altre popolazioni sarebbero prive del labbro superiore e altre sarebbero addirittura prive della lingua».

Per spiegare l’esistenza delle popolazioni portentose, l’enciclopedista romano ricorre – come ha già rilevato Marcel Benabou109 – al principio fisico del fuoco artifex che plasma e “cesella” i corpi degli esseri e ne varia iperbolicamente le forme fino al limite del grottesco. Il più mobile (e fantasioso) dei quattro elementi peraltro riesce a generalizzare e a rendere tratti specifici di determinate razze e popolazioni quelle che invece dovrebbero essere delle anomalie di singoli individui (l’assenza di nasi, lingua etc.). Per di più, mentre spiega e generalizza le anomalie fisiche e morfologiche delle varie popolazioni umane, la presenza del fuoco spiega anche – così sembra di capire – l’estrema varietà di realizzazioni che possono essere compiute in quelle zone estreme. Ai margini dell’Etiopia, dunque (così come, ad esempio, nel mare),110 questo elemento è libero di sperimentare a suo piacimento 107. Cfr. Aristot. Hist. Anim. 8, 28, 606 b 17-19. Per le teorie aristoteliche sulla riproduzione incrociata cfr. pp. 160 sgg. 108. Per converso c’è anche un passo di Plinio in cui, per spiegare la mitezza delle belve che popolano il suolo italico, si riccorre alla mitezza del clima e dell’ambiente della regione (cfr. Nat. Hist. 37, 201). 109. Benabou 1975, p. 149. 110. In Nat. Hist. 9, 2 si dice espressamente che il mare, la parte altra per eccellenza rispetto alla terra, è pieno di causae genitales che permetterebbero la creazione di sempre nuovi esseri mostruosi.

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non solo sul corpo degli uomini, ma anche – lo si immagina, anche se Plinio non lo dice – su quello degli animali. Questa caratterizzazione dell’Etiopia come “laboratorio biologico” ritorna nell’enciclopedista romano proprio nella ripresa del noto proverbio greco sull’Africa che abbiamo già visto commentato da Aristotele: «Leoni praecipua generositas tunc, cum colla armosque vestiunt iubae; id enim aetate contingit e leone conceptis. Quos vero pardi generavere, semper insigni hoc carent; simili modo feminae. Magna his libido coitus et ob hoc maribus ira. Africa haec maxime spectat, inopia aquarum ad paucos amnes congregantibus se feris. Ideo multiformes ibi animalium partus, varie feminis cuiusque generis mares aut vi aut voluptate miscente: unde etiam vulgare Graeciae dictum semper aliquid novi Africam adferre». (Nat. Hist. 8, 42)

«Il leone maschio raggiunge il massimo delle sue qualità quando la criniera gli arriva a coprire il collo e le spalle. Un fenomeno simile si verifica, con il passare degli anni, per tutti i cuccioli che vengono concepiti dal leone. Per quanto riguarda invece i cuccioli maschi che sono stati generati dai pardi, questo segno di distinzione viene sempre a mancare (così come manca, allo stesso modo, per le femmine). Le leonesse infatti sono affette dal desiderio sfrenato di accoppiamento (cosa che provoca l’ira dei leoni maschi). Queste belve si vedono soprattutto in Africa, dal momento che, a causa della mancanza di acqua, tutti gli animali si ritrovano assieme nei pressi di quei pochi fiumi che esistono. Per questo motivo in questo luogo è possibile trovare una produzione multiforme di esseri, dal momento che i maschi di una specie si possono unire variamente, o con la forza o in virtù del desiderio di quelle di accoppiarsi, con le femmine di qualsivoglia specie. Da qui ha origine quel famoso proverbio dei Greci secondo il quale “l’Africa produce sempre qualcosa di nuovo”».

Plinio, come si vede bene, cita il proverbio per chiosare la credenza secondo la quale i leopardi sarebbero il frutto dell’accoppiamento fra i “pardi” (i maschi delle pantere) e le leonesse. Se infatti la proverbiale libido di queste ultime è indicata come una delle cause principali della nascita dell’ibrido,111 il fatto che i leopardi, rispetto ad altre zone dell’ecumene, si trovino in quantità maggiori in Etiopia è attribuibile unicamente a quelle ragioni climatiche che avrebbero generato il noto adagio e che, fra le altre cose, esattamente come aveva già avuto modo di notare Aristotele nell’Historia Animalium e successivamente nel De generatione animalium, sono alla base della multiforme varietà della fauna di questa zona. 111. Per i pardi cfr. Nat. Hist. 8, 63. Per la proverbiale libido delle leonesse cfr. anche Isid. Orig. 12, 2, 11.

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Ma mentre Aristotele, come si è già visto, legava la spiegazione del proverbio all’esposizione delle condizioni necessarie per la koinogonia, queste ultime vengono totalmente ignorate dall’enciclopedista romano. L’omissione di questo particolare viene pertanto a rendere più elastica la visione delle tendenze generali della natura. Se prima lo stesso proverbio sull’Africa era limitato da leggi ben definite, adesso le maglie sembrano essersi allargate: la proliferazione di incroci mostruosi in questa zona estrema del mondo non solo è una norma, ma non sembra presentare limiti di sorta: i cuccioli che si trovano in quelle zone possono presentare le forme più impensate, dacché, come lascia intendere la versione pliniana del proverbio greco, ogni sorta di accoppiamento interspecifico può essere fruttuoso.112 Non è dunque inverosimile che, magari anche dopo una serie di prove e in seguito a più generazioni, in Etiopia, in virtù di chissà quale accoppiamento interspecifico, si sia potuto generare lo speciema generico del manticora. 3.3.2 Il collasso epistemologico: da Cicerone ai mirabilia Come si è visto nel paragrafo precedente, dietro la disponibilità pliniana a credere a mostri come il manticora si può intravedere l’esistenza di una banalizzazione del determinismo climatico-ambientale e delle teorie sulla riproduzione dell’antichità. Oltre a questo però si tratta ancora di cercare di individuare i modelli di conoscenza che hanno portato Plinio alla sua versione del mostro di Ctesia. Per comprendere a pieno il “gusto pliniano per il meraviglioso” è infatti necessario individuare i criteri che potevano permettere di distinguere il vero dal falso nel momento in cui l’enciclopedista romano scriveva. Per fare questo è essenziale, ancora una volta, fare un giro lungo. Bisogna lasciare il fantastico labirinto della Naturalis Historia ed essere disposti a fare un salto indietro e cercare di comprendere, per grandi linee, quale potesse essere lo stato del dibattito epistemologico romano che poteva avere influenzato la visione della realtà di Plinio. 112. La notizia della nascita di un centauro in Tessaglia, data in Nat. Hist. 7, 35, è una spia evidente di una credenza che doveva essere ampiamente diffusa, e cioè che ogni uomo di normali condizioni potesse accoppiarsi con animali e partorire ibridi (cfr. a questo proposito Mayor 2000, p. 240). Bisogna comunque dire che il centauro della Tessaglia, secondo la notizia riportata da Plinio, muore nel momento stesso della nascita, quasi a dimostrare l’esattezza delle teorie lucreziane (5, 837 sgg.: ma Plinio era a conoscenza di queste teorie?). In ogni caso, se in luoghi come l’Etiopia o l’India era possibile che gli accoppiamenti interspecifici fossero all’origine della nascita di sempre nuovi “speciemi generici”, nel centro del mondo (o nelle zone adiacenti al nuovo centro del mondo – Roma – come la Tessaglia) essi producevano aborti (o esseri non classificabili e di breve durata) da “espiare” con riti religiosi (a questo proposito cfr. Beagon 1992, p. 146).

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Questo lavoro, per la fortuna di chi scrive, in parte è stato già fatto. In un suo recente studio, infatti, Elisa Romano (Romano 1998, pp. 137 sgg.) ha descritto quello che potremmo chiamare il “paesaggio” epistemologico della letteratura paradossografica del I sec a.C. e del I sec. d.C. Nel ricostruire questo quadro la studiosa è partita dalle Tusculanae e dal De natura deorum di Cicerone; quest’ultimo letto non come un’opera di filosofia delle religioni, ma «come una più complessiva riflessione epistemologica, all’interno della quale il tema della conoscenza e della rappresentazione degli dei assume il ruolo di uno dei grandi problemi conoscitivi, forse il problema conoscitivo per eccellenza» (Romano 1998, p. 142). Come fare dunque a “conoscere” gli dei o le anime immortali dei defunti? Come dare il proprio assenso a ciò che non si vede, siano essi gli dei o gli ippocentauri e le chimere? Un passo ciceroniano delle Tusculanae in particolare è assai illuminante in questo senso: «Ut porro firmissimum hoc adferri videtur cur deos esse credamus, quod nulla gens tam fera, nemo omnium tam sit inmanis, cuius mentem non imbuerit deorum opinio (multi de dis prava sentiunt – id enim vitioso more effici solet –, omnes tamen esse vim et naturam divinam arbitrantur, nec vero id conlocutio hominum aut consessus effecit, non institutis opinio est confirmata, non legibus; omni autem in re consensio omnium gentium lex naturae putanda est)…».113 (Cic. Tusc. 1, 30)

«Ora, per quanto riguarda gli dei, mi sembra che l’argomento più sicuro che ci possa portare a credere alla loro esistenza stia nel fatto che non esistono popoli così selvaggi o uomini così crudeli la cui mente non sia, per così dire, impregnata dall’idea della divinità (ci sono molti uomini che hanno opinioni errate sugli dei – cosa che di solito accade a causa di una consuetudine erronea – tutti però credono che esista una certa potenza e una natura divina; idea, questa, che non viene generata dagli abboccamenti che gli uomini hanno tra loro o dagli incontri: questa idea non viene convalidata dalle istituzioni o dalle leggi e del resto, in ogni campo, il consenso comune di tutti i popoli è da ritenere a tutti gli effetti legge di natura».

A garantire la veridicità dell’opinio sugli dei è dunque il consensus omnium gentium. Basta questo a fondare la verità e la naturalità della credenza.114 Esiste dunque una sorta di primo livello co113. Ma cfr. anche Tusc. 1, 26 sull’immortalità dell’anima. 114. Cfr. nat. deor. 1, 2: «velut in hac quaestione plerique, quod maxime veri simile est et quo omnes †sese duce natura venimus, deos esse dixerunt …» («ad esempio, per quanto riguarda il nostro problema, i più hanno affermato che gli dei esistono – opinione, questa, alla quale noi tutti approdiamo guidati dalla natura e che è in sommo grado verosimile»). In Tusc. 1, 30 si dice: «haec ita sentimus natura duce, nulla ratione nullaque doctrina» («E così abbiamo queste opinioni per un impulso naturale, senza che ci sia nessuna ragione e nessuna teoria»).

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gnitivo negli uomini che garantisce loro di cogliere la fondatezza delle opiniones quasi per una virtù innata. Il fatto che poi tali opiniones si mantengano nel tempo e che da esse nascano istituzioni, usi e costumi convenzionali che sono – si potrebbe dire – “sintomatici” è un’ulteriore prova della fondatezza delle stesse. Oltre al consensus omnium, dunque, l’antiquitas di una rappresentazione culturale sarebbe garanzia di verità.115 Ma come nascono le false credenze? Per Cicerone non sembra esservi dubbio alcuno: a partire dalla naturalità del primo livello cognitivo si sviluppano una serie di inferenze di secondo ordine che, qualora non corrette, possono portare alla nascita di opiniones errate. Ecco dunque che dall’immortalità dell’anima si può arrivare alla credenza nell’Acheronte o nella divinizzazione degli eroi; in maniera analoga dall’opinio sull’esistenza degli dei si finisce con l’attribuire agli dei una forma e un volto umani.116 La falsità di una credenza, tuttavia, può essere smascherata dal tempo che passa: «Etenim videmus ceteras opiniones fictas atque vanas diuturnitate extabuisse. Quis enim hippocentaurum fuisse aut Chimaeram putat, quaeve anus tam excors inveniri potest, quae illa quae quondam credebantur apud inferos, portenta extimescat? Opinionis enim commenta delet dies, naturae iudicia confirmat». (nat. deor. 2, 5)

«Vediamo infatti che tutte le altre credenze false e vane si sono dissolte con il passare del tempo. Chi crede infatti che siano potuti esistere l’ippocentauro o la chimera? Si può trovare una vecchia così folle da temere che esistano quegli esseri mostruosi che un tempo si credeva infestassero gli inferi? Il tempo distrugge le invenzioni della fantasia e rafforza i giudizi della natura».117

E dunque questa è la principale differenza fra gli dei e gli esseri mostruosi del mito: i primi sono qualcosa che si conosce naturalmente e la cui conoscenza si consolida con il tempo, i secondi sono da ritenere pari alle superstizioni di una vecchia priva di senno. I mostri, col tempo, sono destinati a scomparire, proprio perché frutto di false credenze. Ma allora come mai dal dubbio di Aristotele, dal suo atteggiamento “ipotetico” nei confronti del manticora si passa alla credenza consolidata in Plinio? Se l’Ippocentauro e le Chimere sono opiniones vanae per Cicerone, come possono diventare confessa in homine per l’enciclopedista romano se non addirittura per l’imperatore Claudio? 115. Cfr. anche Tusc. 1, 28; 1, 38. 116. Cfr. Romano 1998, p. 144. Per la critica all’antropomorfismo cfr. nat. deor. 1, 81 sgg.; 2, 45 sgg. Per la divinizzazione degli eroi cfr. Tusc. 1, 28. 117. Per la negazione dell’esistenza dei centauri cfr. anche Lucr. 5, 878 sgg.

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Una prova ulteriore della fondatezza delle opiniones era, secondo Cicerone, l’auctoritas degli scrittori e dei filosofi che le hanno attestate. Ebbene, tenendo conto di ciò, come possono, nel nostro caso, il nome di Giuba e di Ctesia essere diventati così autorevoli da venire citati senza alcuna modalizzazione di sorta nei confronti delle notizie da essi trasmesse?118 Nel caso di Giuba, illustre personaggio della corte di Augusto, è facile accampare motivazioni sociali per spiegare la dipendenza di Plinio nei suoi confronti. Dobbiamo presupporre che nelle opere del re di Mauretania – analogamente a quanto accadeva, del resto, nella Naturalis Historia – la componente autottica non dovesse essere particolarmente sviluppata, eppure la forza sociale di questo personaggio doveva essere tale da imporre il crisma della veridicità a tutte le informazioni da lui trasmesse (e “processate”).119 Più problematico, in questo senso, è però il caso di Ctesia. Il medico di Cnido infatti era un Greco e non, ad esempio, un legatus Galliae dell’impero romano: la sua forza sociale era dunque minima. C’era però la forza del tempo a dare ragione (o meglio: a non dare torto) a Ctesia. Nel caso del manticora, stando ai criteri di veridicità tracciati da Cicerone nel passo delle Tusculanae sopra citato e ripresi nei primi due libri del De natura deorum,120 Plinio avrebbe potuto appellarsi, come prova dell’esistenza della belva etiopica, non solo all’auctoritas delle sue fonti, ma anche alla vetustas dell’informazione. Sono già passati quasi cinque secoli da quando Ctesia ha scritto gli Indikà e, fino al momento in cui Plinio scriveva la Naturalis Historia, nessuno lo aveva smentito definitivamente circa l’esistenza della belva antropofaga (o di altri mostri). Molti autori avevano messo in dubbio la sua attendibilità, eppure nessuno poteva provare con certezza la falsità delle sue informazioni, proprio per il fatto che si trattava di informazioni – per così dire – di natura semi-proposizionale. Il manticora, i Cinocefali, i Monocoli avevano conquistato un’aura 118. Come si è visto sopra (cfr. pp. 123 sgg.) non è completamente dimostrabile che Plinio abbia letto Ctesia e Giuba direttamente. In ogni caso è ben chiaro che i nomi dei due scrittori vengono usati, nella Naturalis Historia, come marche di autorità. Per Giuba cfr. ad es. 6, 96; 6, 124; 6, 139; 6, 141; 6, 149; 6, 156; 6, 170; 6, 175; 6, 176; 6, 179; 6, 201; 6, 203; 6, 205; 8, 7; 8, 14; 8, 155; 9, 115; 10, 126 (bisogna comunque segnalare 8, 35, in cui Plinio sembra correggere il tiro di una osservazione dell’autore africano; un’omissione di Giuba viene inoltre segnalata in 6, 149). Per Ctesia in Plinio cfr. n. 25, p. 185. 119. Cfr. a questo proposito Romano 1994a, pp. 19 sgg. Bisogna comunque segnalare che in Plinio sono presenti alcuni indizi che ci lasciano presagire che Giuba dovette comunque fare alcune esperienze “autottiche” relative agli oggetti delle sue historiai (cfr. ad es. 6, 203; 6, 205). 120. Cfr. Romano 1998, p. 144.

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di “mistero culturale”:121 come i misteri della fede, il solo fatto di non poterli comprendere fino in fondo e di non poterne dimostrare razionalmente l’esistenza era diventato in un certo senso la causa principale del loro contagio. Da troppo tempo troppi auctores parlavano del manticora (e delle meraviglie dell’India e dell’Etiopia). Si poteva dunque avere il sospetto che la vetustas della rappresentazione fosse garanzia della sua naturalità. Come accadeva per gli dei di Balbo e di Velleio, protagonisti del De natura deorum, c’era in qualche modo consensus sul manticora. Lo stesso Aristotele, del resto, non aveva chiaramente negato la sua esistenza. Queste ed altre cose potrebbe avere pensato Plinio (posto che abbia conosciuto tutti i giudizi degli autori del passato su Ctesia). Questi ed altri pensieri avrebbero potuto insinuarsi nell’ambiente nel quale l’enciclopedista romano si era formato. Ecco dunque che una “nozione comune”, fondata sul consenso di tutti, si è trasformata in una “nozione soggiacente” e quindi in un dato di natura.122 Certo, non è detto che Plinio leggesse il mondo con gli occhiali di Cicerone (o di Velleio e di Balbo) e non è neanche detto che abbia letto il De natura deorum come trattato di espistemologia, ma l’opera dell’Arpinate doveva senza dubbio essere spia di una determinata maniera di rappresentare e di “conoscere” la realtà che poteva anche essere largamente condivisa. Ma proprio a questo proposito bisogna dire che in Cicerone sembrano esistere due anime: accanto allo stoicismo e all’epicureismo di Balbo e di Velleio, c’è anche da mettere in conto l’atteggiamento di Cotta che Cicerone sembra riprendere nel De divinatione. 121. Cfr. Sperber 1999, p. 75, il quale sostiene che i “misteri culturali” sono «più evocativi e quindi più facili da ricordare». L’autore continua dicendo che «l’evocazione può essere vista come una forma di risoluzione dei problemi: il problema sta nel trovare un’interpretazione più precisa per qualche idea compresa a metà. Per fare questo si cercano nella memoria ipotesi e credenze nel contesto delle quali le idee comprese a metà abbiano senso». Potrebbe essere questo il caso, in Grecia e a Roma, di molti esseri mostruosi che sembrano violare le norme ideali del senso comune (relative al funzionamento della natura) e che vengono reinseriti nell’inventario ipotetico del mondo in virtù della “evocazione” delle “credenze” (o delle “teorie”) relative al funzionamento paradoxon della natura presso i margini del mondo. Per il concetto di “norma ideale” cfr. Sperber 1975, pp. 25 sgg. 122. Sulla confusione dell’argumentum de consensu omnium e le koinai ennoiai cfr. Obbink 1992, pp. 193-231, cit. in Romano 1998, p. 146: «Dirk Obbink ha dimostrato che l’ingresso delle “nozioni soggiacenti” (tendenze naturali della conoscenza, la cui importanza è dovuta al fatto di garantire la conformità di una data teoria alla natura) nell’elenco dei criteri per una conoscenza incontrovertibile, il ruolo cruciale che assumono e la connessa confusione terminologica con le opinioni del consensus omnium sono un effetto del dibattito tra le scuole dogmatiche e l’accademismo scettico che proclamava la sospensione del giudizio: in questo quadro, esse vengono ad occupare una collocazione strategica quando si discute di questioni il cui contenuto cade al di fuori della percezione sensoriale».

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L’accademismo-scettico, cui Cotta aderiva, negava ogni valore conoscitivo alle credenze. Per il Cotta del De natura deorum l’argomento del consensus omnium non ha alcun valore e la naturalità delle opiniones viene smentita dalla loro molteplicità.123 L’unica differenza fra Cotta (pontefice massimo al tempo in cui viene ambientato il dialogo) e uno scettico come Sesto Empirico consiste nella volontà di salvaguardare la tradizione romana.124 Le credenze da salvaguardare, per Cotta, sono quelle che ci sono state trasmesse dagli antenati.125 Il mantenimento di tali opiniones non è giustificato però in base ad un criterio di conoscenza ben definito, semmai risponde ad un fine meramente politico, vale a dire la salvaguardia della coesione dello stato: «Con una operazione abile, anche se non priva di contraddizioni, Cicerone recupera alcune opiniones, bandendone altre, quali in primo luogo quelle relative alla divinazione e, in generale, a tutte le forme di superstizione. E in assenza di altri criteri, tolto via quello della naturalità e quello della vetustà, eliminato il carattere di nozione “insita”, ci si appiglia all’auctoritas dei maiores». (Romano 1998, p. 150)

Ecco dunque che Roma, oltre che una città paradossografica che raccoglie informazioni mirabolanti, si trasforma in criterio di veridizione. Si spiega pertanto come, una volta abbattuto ogni modello conoscitivo forte, l’auctoritas dello Stato e dei funzionari romani (unitamente alla vetustas delle informazioni) sia diventata l’unica garanzia della fondatezza di una informazione. Le “apparently irrational beliefs” in questo modo, anche se non comprese fino in fondo, possono più facilmente essere credute e inventariate: «Nam Fauni vocem equidem numquam audivi: tibi, si audivisse te dicis, credam, etsi Faunus omnino quid sit nescio». (nat. deor. 3, 15)

«Io non ho mai udito la voce di un fauno, ma se tu dici di averla sentita, ti credo, anche se non so assolutamente cosa sia un fauno».

E dunque, se per Balbo i mostri del mito e gli ippocentauri erano frutto del delirio delle beghine o di inferenze errate effettuate su opiniones naturali corrette, Cotta, al contrario asserisce provocatoriamente che anche la realtà più assurda potrebbe essere creduta. 123. Cfr. nat. deor. 1, 57 sgg.; 1, 62 sg.; 3, 1 sgg.; 3, 53 sgg. (ma anche div. 2, 81). Su questi passi Romano 1998, pp. 147 sgg. Per una posizione analoga a quella di Cotta nei confronti delle credenze vedi Sext. adv. phys. 1, 49 sgg. Su questi passi Romano 1998, pp. 147 sgg. 124. Romano 1998, pp. 149 sg. 125. Cfr. nat. deor. 3, 5.

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Come a dire che basta che ci sia un auctor socialmente credibile perché qualsiasi informazione possa essere messa fra virgolette e “commentata” e schedata come vera; tanto più se questa informazione riguarda parti del mondo non immediatamente visibili: «Omnia tollamus ergo quae aut historia nobis aut ratio nova adfert. Ita fit ut mediterranei mare esse non credant. Quae sunt tantae animi angustiae ut, si Seriphi natus esses nec umquam egressus ex insula, in qua lepusculos vulpeculasque saepe vidisses, non crederes leones et pantheras esse, cum tibi quales essent dicerentur, si vero de elephanto quis diceret, etiam rideri te putares». (nat. deor. 1, 88)

«Eliminiamo dunque tutte le conoscenze che o la ricerca storica o le nuove riflessioni filosofiche hanno apportato. Quello che ne viene fuori è che tutte le persone che vivono nelle terre non bagnate dal mare non dovrebbero credere all’esistenza del mare. Un simile atteggiamento di ristrettezza mentale è tale che, se tu fossi nato a Serifo e non avessi mai messo un piede fuori da quest’isola, nella quale hai spesso visto leprotti e volpicelle, non crederesti di certo all’esistenza dei leoni e delle pantere, qualora qualcuno ti venisse a descrivere le loro caratteristiche fisiche, e se poi qualcuno dovesse parlarti dell’elefante, di certo crederesti che si stia prendendo gioco di te».

Dunque, come chi abita a Serifo si deve fidare di chi parla di leoni ed elefanti, allo stesso modo, quando si parla delle estremità del mondo, dell’India o dell’Etiopia, ma anche – immaginiamo – della penisola iberica o delle province settentrionali dell’Africa, ci dobbiamo fidare di chi si fa auctor delle notizie relative a queste zone, dal momento che non c’è alcuna ragione di fare il contrario. Ecco dunque che se non si è stati in Etiopia (o in India), dal momento che il collasso epistemologico avvenuto dal I sec. a.C. al I sec. d.C. non permette di appoggiarsi ad alcun criterio forte di conoscenza, risulta assolutamente impossibile distinguere le notizie vere da quelle false. È per questo che non c’è alcuna ragione di non credere al manticora. Plinio a questo proposito avrebbe potuto dire di non avere mai sentito il suo verso terribile risuonare nelle foreste indiane, ma se Ctesia e Giuba (o le fonti intermedie), ne avevano parlato allora c’era da credervi.

4.

Tratti assenti e tratti in eccesso: alcune osservazioni sulle marche di descrizione del manticora

4.1 Tratti in absentia: le inimicizie del manticora e la caccia a dorso di elefante Nei libri zoologici della Naturalis Historia è possibile individuare alcune marche descrittive tendenzialmente ricorrenti che Liliane Bod224

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son (Bodson 1997, pp. 331 sgg.) ha cercato di elencare in un suo recente studio. Queste marche, riscontrabili in quasi tutti i discorsi “zoologici” dell’antichità (e di molte altre culture) che non siano nettamente sistematici (come lo sono ad esempio le opere aristoteliche),126 hanno come fine evidente quello di “ostendere” un essere ignoto ai membri del gruppo di cui fa parte il locutore. Riporto nel riquadro sottostante le “marche di segnalazione” individuate dalla Bodson nella descrizione pliniana del cammello (Nat. Hist. 8, 67-68): Nom:

Cameli (chameaux, camélidés).

Nature:

armenta (gros bétail).

Aire de répartition:

Oriens (Orient).

Espèces:

duo genera (deux espèces).

Distribution géographique:

Bactriae (Bactriane) – Arabiae (Arabie).

Différenciation morphologique:

bina… tubera in dorso (deux bosses sur le dos) – singula (in dorso) et sub pectore alterum cui incumbant (une seule bosse sur le dos et une autre à la hauteur du poitrail sur laquelle ils s’appuient quand ils se couchent).

Anatomie comparée:

dentium superiore ordine, ut boves, carent in utroque genere (chez les deux espèces, comme chez les bœufs, pas d’incisives à la mâchoire supérieure).

Caractéristiques générales:

velocitas (vitesse), ne ultra adsuetum procedit spatium nec plus instituto onere recipit ([limites de l’endurance] il ne dépasse pas la distance à laquelle il est accoutumé ni n’accepte plus que la charge qui lui est habituelle), sitim….tolerant (sobrieté), quinquagenis annis, quaedam et centenis ([longévité] cinquante, voire cent ans).

Comportement interspécifique:

odium adversos equos gerunt naturale (ils éprouvent une aversion naturelle pour les chevaux).

Santé:

rabiem… sentiunt (ils sont sensibles à la rage).

Utilisations:

(des mâles et des femelles stérilisées pour accroître leur courage): iumentorum ministeriis dorso funguntur… equitatus in proeliis (ils assument les tâches des bêtes de somme… la cavalerie dans les combats).

126. Cfr. il già citato Bettini 1998, pp. 229 sgg., ma vd. anche capp. 1 e 2 del presente saggio (pp. 17 sgg. e 100 sgg.).

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Ora, a proposito di queste marche, bisogna dire che esse non sono usate da Plinio come uno strumento rigido e rispondono più che altro ad una maniera usuale di delineare il morfotipo comportamentale di un essere vivente atto alla individuazione di uno speciema generico. L’uso della griglia sopra riportata, dunque, non deve essere visto come uno strumento infallibile per leggere la zoologia di Plinio; la Bodson stessa (1997, p. 332), del resto, segnala il “disordine” dell’autore nel maneggiare queste rubriche: «Pour donner à connâitre la nature des animaux dans ses multiples manifestations, Pline n’a pas établi de “fiche segnalétique type” dont il remplirait les rubriques, au prorata de la documentation à sa disposition». (Bodson 1997, p. 331)

Le marche quindi non sono affatto una norma fissa nella Historia Animalium: Plinio non lavora riempiendo caselle fissate obbligatoriamente da un sistema di enumerazione rigido, come era invece, ad esempio – ricorda la Bodson –, nel caso del Secretariat de la Faune et de la Flore di Parigi.127 Si deve parlare semmai di una elencazione asistematica dei morfotipi che può comprendere anche l’individuazione di sottogeneri che la Bodson (1997, p. 331) chiama “espèces”, ma che sarebbe forse più corretto chiamare, in un ambito di classificazione popolare, folk-specifics.128 Non di meno, nonostante l’asistematicità nell’uso di tali marche, la loro individuazione può essere utile per comprendere per differentiam come possono venire caratterizzate le descrizioni di alcuni animali. Il mio intento, a tale proposito, è quello di individuare, una volta presa come modello la griglia proposta dalla Bodson, le caselle mancanti (rispetto alle altre versioni) del manticora pliniano e vedere fino a che punto le variazioni nel modello della descrizione possono essere considerate significative. Innanzitutto bisogna dire che l’accenno di Nat. Hist. 8, 107 sulla capacità del manticora etiopico di imitare la voce umana potrebbe anche essere un indizio interessante. Plinio avrebbe potuto essere a conoscenza dell’esistenza di duo genera dell’animale: esisteva un manticora etiopico ed uno indiano, ma l’autore avrebbe scelto di parlare di uno soltanto dei due folk-specifics (quello etiopico), la127. Cfr. Bodson 1997, p. 332, la quale cita a sua volta Maurin-HaffnerKeith 1994, pp. 85 sg. 128. Cfr. a tale proposito Atran 1996, p. 53: «The terminal level not only indiscriminately mixes in monogeneric life-forms with generic-speciemes, but also those taxa found below the rank of generic-specieme, that is, at the level of what ethnobiologists call the “folk-specific” (e.g. red oak, white oak) and “folk-varietal” (e.g. spotted white oak)».

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sciando così incompleta la casella relativa alla distribuzione geografica. Ad orientarci verso una simile lettura potrebbe esserci la congiunzione et di 8, 107 («hominum sermones imitari et mantichoram in Aethiopia auctor est Iuba»), che potrebbe supportare la seguente interpretazione: «in Etiopia anche il manticora imita la voce umana (cosa che non fa il manticora indiano)». A questa ricostruzione, tuttavia, si affianca l’ipotesi – più verosimile e supportata dal contesto – della confusione pliniana, dovuta all’intercambiabilità degli animali delle eschatiai.129 In tal senso il brano dovrebbe essere interpretato in questa maniera: «in Etiopia anche il manticora imita la voce umana (e non solo la iena e la corocotta)».130 Più lampante è comunque la mancanza della descrizione dei comportamenti interspecifici del manticora. Se il riassunto di Ctesia fatto da Fozio non è inficiato da possibili aggiunte fantasiose dell’epitomatore, nel testo degli Indikà doveva essere raccontato anche l’odio del manticora per gli elefanti e perfino, forse (stando alla versione di Eliano),131 per il leone. In Plinio, però, non vi è alcun cenno a proposito di queste storie: non una soltanto delle inimicitiae della fiera antropofaga viene infatti elencata. Certo, nell’ipotesi in cui Plinio abbia appreso del manticora attraverso Giuba (e Aristotele) e non attraverso Ctesia, potrebbe anche darsi che l’enciclopedista romano non abbia mai avuto notizia di tali rivalità. Ma a ben guardare, se si allarga l’obiettivo su quello che si è chiamato “l’asse sintagmatico” di un animale, si vede bene come di nessuno degli esseri elencati nel catalogo di Nat. Hist. 8, 72 sgg. vengono raccontate le inimicitiae. Questo ovviamente non può spiegarsi con un disinteresse dell’enciclopedista romano nei confronti di una tal sorta di tematizzazione. Per tutto il corso della Naturalis Historia è infatti possibile imbattersi in loci nei quali le lotte fra gli animali più impensabili vengono raccontate con toni talvolta quasi epici.132 A cosa dunque può essere dovuta l’eliminazione della casella relativa ai comportamenti interspecifici? È possibile che sia stata la forma catalogica ad influenzare le omissioni pliniane: un catalogo, per costruire il suo matter-of-facttone deve necessariamente essere sintetico e proprio per questo deve elencare le caratteristiche essenziali degli oggetti che devono in esso 129. Per l’intercambiabilità della fauna etiopica ed indiana cfr. p. 183. 130. Cfr. Nat. Hist. 8, 105-106 (passo riportato a p. 232). 131. Cfr. Ael. Nat. Anim. 4, 21. 132. Un esempio per tutti potrebbe essere quello relativo alla lotta fra elefanti e serpenti giganti (Nat. Hist. 8, 34); ma cfr. anche 8, 42 (leoni e pardi); 8, 87 (l’aspide e l’icneumone); 8, 90 (il coccodrillo e l’icneumone); 8, 91 (il coccodrillo e il delfino); 8, 136 (il leone e il leontofono); 11, 279 (il serpente ed altri animali).

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venire inclusi. A ben vedere, infatti, nella lista di 8, 72 sgg., le uniche caselle “riempite” – se così si può dire – sono quelle relative al nome, alla natura (gli animali inventariati sono tutti bestie selvatiche), all’anatomia e alle caratteristiche generali. Non si fa mai riferimento agli usi di questi animali e alle notizie relative al loro stato di salute. Inoltre, la casella della distribuzione geografica è presente, ma assume il ruolo “vampirizzante” di principio di raggruppamento.133 Si deve quindi supporre che alcuni tratti del manticora virtualmente elencabili non sono stati registrati da Plinio unicamente per esigenze di “contesto”. Nella porzione di testo relativa alla lista etiopica il fine di Plinio non era tanto quello di sottolineare l’eccezionalità di un determinato animale, quanto quello di focalizzare l’attenzione del lettore sulla singolarità di una certa zona geografica. E dunque non solo non era necessario elencare le inimicitiae di ogni singolo animale, ma per di più porre un limite naturale alla ferocia di ognuno degli esseri elencati nella lista sarebbe equivalso in qualche modo a sfumare la connotazione dell’Etiopia come terra che partorisce esseri dai tratti sans contrepartie: il fatto stesso che un essere iperbolico potesse avere un inimicus in un certo senso avrebbe sminuito la sua iperbolicità. La stessa spiegazione, per certi versi, potrebbe essere addotta per la mancanza di un altro dei segmenti presenti in altre versioni del manticora. Mi riferisco in particolare alla scena della caccia alla belva fatta a dorso di elefante di cui ci ha lasciato notizia Fozio.134 Analogamente a quanto si è detto sopra, infatti, descrivere i particolari della caccia era in un certo qual modo fuori contesto. Se la forma catalogica ha bisogno soltanto dell’essenziale e per di più il fine della lista compilata da Plinio era quello di sottolineare l’eccezionalità dell’Etiopia, allora la menzione della caccia al manticora sarebbe stata certamente fuori luogo. Bisogna tuttavia dire che, per quanto riguarda questo caso (e in genere per tutti i racconti di lotte fra uomo e animale in Plinio), è forse possibile ipotizzare motivazioni meno evidenti e, in un certo senso, più profonde. Si deve notare infatti che in Plinio i remedia contro le belve feroci trovati dalla sollertia umana scarseggiano. Per gli animali etiopici di 8, 72 sgg. non sembra infatti che ci siano particolari espedienti escogitati dall’uomo per potere sfuggire alla loro minaccia. Si fa un accenno alle fosse scavate per catturare il toro selvaggio, ma, al contrario di quanto accade in Diodoro Siculo (3, 35, 7 sgg.), non si dice chiaramente che sono gli uomini a prepararle.135 La sensazio133. A questo proposito cfr. pp. 182 sg. 134. Il testo di Fozio è stato trascritto e tradotto a pp. 19 sg. 135. Su questo passo di Diodoro cfr. pp. 70 sgg. e n. 167, p. 71.

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ne che si ha dalla lettura di 8, 72 sgg. è pertanto che non ci siano rimedi contro le belve feroci dell’Etiopia. Quello che ne viene fuori, insomma, sembra essere il ritratto di una Natura che nelle estremità del mondo mostra il suo lato oscuro. Ma come si accorda tutto ciò con il proverbiale provvidenzialismo pliniano e con l’idea della centralità dell’uomo nell’universo?136 In realtà Plinio sa bene che la Natura non agisce invano e che ogni pestilentia viene controbilanciata da un remedium.137 La cosa, ovviamente vale anche per i ferocissimi animali delle eschatiai. Si legga ad esempio il passo seguente: «Iuxta hunc fera appellatur catoblepas, modica alioqui ceterisque membris iners, caput tantum praegrave aegre ferens – id deiectum semper in terram –, alias internicio humani generis, omnibus, qui oculos eius videre, confestim exspirantibus. [78] Eadem et basilisci serpentis est vis. Cyrenaica hunc generat provincia, duodecim non amplius digitorum magnitudine, candida in capite macula ut quodam diademate insignem. Sibilo omnes fugat serpentes nec flexu multiplici, ut reliquae, corpus inpellit, sed celsus et erectus in medio incedens. Necat frutices, non contactos modo, verum et adflatos, exurit herbas, rumpit saxa: talis vis malo est. Creditum quondam ex equo occisum hasta et per eam subeunte vi non equitem modo, sed equum quoque absumptum. [79] Atque huic tali monstro – saepe enim enectum concupivere reges videre – mustellarum virus exitio est: adeo naturae nihil placuit esse sine pare. Interficiunt has cavernis facile cognitis soli tabe. Necant illae simul odore moriunturque, et naturae pugna conficitur». (Nat. Hist. 8, 77-79)

«Vicino alla fonte del Nigri vive una belva chiamata “catoblepa”, animale peraltro di piccola taglia e imbelle, ma che per il resto riesce solo a stento a sollevare il suo capo che è pesantissimo: lo tiene infatti sempre chinato verso terra; diversamente, se lo sollevasse, farebbe strage del genere umano, visto che tutti quelli che lo hanno fissato negli occhi sono morti all’istante. [78] Ad avere le medesima proprietà c’è il serpente basilisco. Questo animale, non più lungo di dodici dita, riconoscibile per la sua caratteristica macchia bianca sul capo a mo’ di diadema, viene generato dalla provincia della Cirenaica. Con il suo sibilo mette in fuga gli altri serpenti, a differenza dei quali non muove il suo corpo in volute, ma avanza stando diritto e alto per metà del suo corpo. Fa seccare i cespugli, brucia le erbe e rompe i sassi non solo toccandoli, ma anche soffiando loro sopra: tanta è la potenza di questo malanno! Un tempo addirittura si è diffusa come vera la notizia secondo la quale un catoblepa fu ucciso da cavallo con un’asta e il veleno del suo corpo, 136. Cfr. Beagon 1992, pp. 36 sgg.; 130 sgg. 137. Cfr. ad es. Nat. Hist. 21, 77-78. Su questo passo Beagon 1992, p. 38.

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risalito attraverso di essa, uccise non soltanto il cavaliere, ma anche il cavallo. [79] Ebbene, per un simile mostro – spesso i re hanno desiderato di vederlo estinto – è mortale il veleno delle donnole: a tal punto alla natura piacque che nulla fosse privo del suo avversario! Gli uomini fanno entrare le donnole nelle caverne dove vivono i basilischi che si riconoscono facilmente a causa della putredine che ricopre il suolo. Le donnole di contro uccidono i serpenti con il loro odore e muoiono nello stesso tempo. Così si conclude questo combattimento della natura».

Il basilisco, così come il catoblepa, è un vero e proprio flagello;138 gli effetti della sua potenza mortifera sembrano non avere alcun limite: niente sembra sottrarsi al veleno della bestia: piante, uomini, animali – perfino i sassi – non possono trovare scampo alcuno. Eppure la Natura anche per una bestia così nociva ha previsto una contropartita inimmaginabile: la donnola.139 Ma si badi bene: a trovare il rimedio non è stata la sollertia degli uomini e neanche il potere dei re. Il racconto sul basilisco dimostra che l’uomo, senza l’intervento della Natura sarebbe completamente indifeso contro le insidie che essa stessa tende. Niente può quindi l’ingegno umano: a trovare i remedia è sempre una Natura che solo all’apparenza è più matrigna che madre:140 «Non est fateri rerum natura largius mala an remedia genuerit. Iam primum hebetes oculos huic malo dedit, eosque non in fronte adversos cernere, sed in temporibus – itaque excitatur saepius auditu quam visu –, deinde internecivum bellum cum ichneumone». (Nat. Hist. 8, 87)

«Non è possibile dire se la natura abbia elargito con maggiore generosità malanni o rimedi. Innanzitutto ha dato a questa disgrazia occhi fiacchi, occhi che non possono guardare dalla fronte ciò che hanno davanti, ma dalle tempie – per questo questa belva è stimolata più spesso dall’udito che dalla vista –, e poi ha fatto sì che questa belva combattesse con l’icneumone una battaglia che la uccide assieme ad esso».

Se la Natura trova rimedi, costruendo una fitta rete di inimicitiae, l’uomo però non sempre riesce ad avvalersene. Ogni volta che il suo ingegno lo spinge ad “usare” un animale al fine di sfuggire ad un altro animale o debellarlo, c’è sempre un margine di insicurezza. Ecco dunque che, per esempio, l’espediente in uso presso i raccogli138. Per il basilisco cfr. n. 48, p. 34. Per il catoblepa cfr. n. 10, p. 21. 139. Cfr. Bettini 1998, pp. 158 sg.; 178; 231; 259; 345. Per altri casi di inimicizia fra gli animali in Plinio cfr. n. 132, p. 227. 140. Cfr. Beagon 1992, pp. 37 sgg.

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tori di oro indiani per sfuggire all’inseguimento delle formiche guardiane dell’oro sembra aver perso la favolosa efficacia che aveva nel logos erodoteo:141 «Erutum hoc ab iis tempore hiberno Indi furantur aestivo fervore, conditis propter vaporem in cuniculos formicis, quae tamen odore sollicitatae provolant crebroque lacerant quamvis praevelocibus camelis fugientes». (Nat. Hist. 11, 111)

«L’oro che le formiche indiane estraggono in inverno gli Indiani lo sottraggono in estate, quando a causa del caldo si nascondono nelle loro tane. Le formiche, però, attirate dall’odore schizzano fuori e flagellano con i loro morsi i cercatori, sebbene essi fuggano su cammelli velocissimi».

Laddove Erodoto focalizzava l’attenzione del lettore sul buon esito della caccia, l’accento pliniano, come si vede dal passo appena citato, è tutto posto sul “lacerant”, vale a dire sull’inquietante possibilità che la sollertia umana non giunga a buon fine: gli Indiani, infatti, benché si avvalgano di cammelli velocissimi, sono spesso fatti a pezzi dalle formiche giganti. È questa la dura realtà che sembra trasparire dalla versione pliniana del logos: l’uomo è completamente soggetto all’opera della Natura madre ed è a lei soltanto che si deve affidare se vuole trovare scampo dalle minacce degli esseri mostruosi e feroci. Ecco dunque che un manticora ucciso da un espediente umano, in un certo senso, oltre che stonare nel quadro del catalogo etiopico, non rientra in quello che potremmo chiamare il modus operandi della Natura pliniana. Per Plinio la Natura ha certo assegnato all’uomo un posto centrale nell’universo, ma si trova anche ad essere l’unica e sola garante di questo suo status. Se dunque è facile per Plinio ammettere l’esistenza di esseri mirabolanti, un po’ meno facile gli risulta accettare che l’uomo sia l’artefice unico della propria salvezza. In questo senso l’assenza di una delle marche possibili nella versione pliniana dell’animale (mi riferisco alla marca relativa ai metodi di caccia) sembra essere la spia evidente di un atteggiamento tipico dell’autore: se infatti in Aristotele le marche relative alla caccia e ai comportamenti interspecifici erano assenti in quanto poco compatibili con il programma di eliminazione e occultamento dei dati “narrativi”, in Plinio spesso la scomparsa (ma anche la presenza) di questi tratti è più che altro funzionale ad una visione provvidenziale della natura e del mondo. 141. Cfr. Hdt. 3, 98 sgg. (trascritto e tradotto in parte a pp. 106 sgg.). Su questo passo cfr. anche P. Li Causi e R. Pomelli, art. cit.

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4.2 Un tratto in eccesso: il manticora ha voce umana Anche il manticora, come accade per altri animali dell’Etiopia, imita la voce umana. Questo tratto che, se si prendono in considerazione gli autori che vanno dal IV sec. a.C. al IV d.C., è presente soltanto in Plinio, verrà ripreso dai bestiari medievali per rimanere per sempre una costante nelle versioni post-classiche.142 Ma a quale fine il manticora imita la voce degli uomini? Una risposta può essere trovata sul piano dell’asse sintagmatico dell’enciclopedia che lo comprende. In altri termini, bisogna ancora una volta allargare l’obiettivo per analizzare il contesto in cui il manticora viene inserito nel secondo passo pliniano che lo riguarda: «Hyaenis utramque esse naturam et alternis annis mares, alternis feminas fieri, parere sine mare vulgus credit, Aristoteles negat. Collum ut iuba in continuitatem spinae porrigitur flectique nisi circumactu totius corporis non quit. [106] Multa praeterea mira traduntur, sed maxime sermonem humanum inter pastorum stabula adsimulare nomenque alicuius addiscere, quem evocatum foris laceret, item vomitionem hominis imitari ad sollicitandos canes quos invadat. Ab uno animali sepulcra erui inquisitione corporum. Feminam raro capi. Oculis mille esse varietates colorumque mutationes. Praeterea umbrae eius contactu canes obmutescere, et quibusdam magicis artibus omne animal, quod ter lustraverit, in vestigio haerere. [107] Huius generis coitu leaena Aethiopica parit corocottam, similiter voces imitantem hominum pecorumque. Acies ei perpetua, in utraque parte oris nullis gingivis, dente continuo: ne contrario occursu hebetetur, capsarum modo includitur. Hominum sermones imitari et mantichoram in Aethiopia auctor est Iuba». (Nat. Hist. 8, 105-107)

«Che le iene siano fornite di entrambi i sessi, che ad anni alterni i maschi diventino femmine e le femmine maschi e che possano procreare senza accoppiarsi con i maschi sono credenze del volgo (è stato Aristotele a sconfessarle). In questi esseri il collo, così come la criniera, si allunga in soluzione di continuità rispetto alla spina dorsale e per di più questi animali possono flettersi senza che si giri tutto il corpo. [106] Oltre a queste cose, circolano sulle iene molti racconti meravigliosi, ma soprattutto si dice che, fra le capanne dei pastori, esse siano capaci di imitare il modo di parlare degli uomini e che riescano ad imparare il nome di uno di essi per chiamarlo fuori e per farne scempio. Parimenti si racconta che le iene siano capaci di imitare il vomito dei cani per attirarli e quindi assalirli. Da questo animale soltanto si dice che vengano scavate le tombe per trarne fuori i cadaveri. Per il resto, è raro catturare un esemplare femmina di iena. I loro 142. Per alcune rappresentazioni post-classiche del manticora cfr. n. 21, p. 24.

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occhi assumono una serie infinita di forme e mutano colore svariate volte. Si crede inoltre che i cani, a contatto con le ombre proiettate dai corpi delle iene, diventino muti e che, in virtù di una certa capacità stregonesca di questa bestia, tutti gli animali intorno ai quali essa ha compiuto tre giri, rimangano inchiodati al terreno. [107] Dall’accoppiamento con questo genere di animali la leonessa etiopica genera la corocotta, un animale che, alla stessa maniera, riesce ad imitare il suono della voce degli uomini e del bestiame. Questo animale tiene gli occhi perennemente aperti e in entrambi i lati della bocca non ha gengive, ma un dente continuo che, perché non possa rovinarsi per il continuo aprirsi e chiudersi della bocca, si chiude come si chiudono le casse per i libri. Giuba attesta che anche il manticora in Etiopia sia capace di imitare il modo di parlare degli uomini».143

Dopo Nat. Hist. 8, 75, il manticora viene menzionato una seconda volta nel testo pliniano. La seconda immissione in elenco dell’animale avviene subito dopo la registrazione delle credenze mirabolanti relative alla iena e alla corocotta. I tre animali sembrano condividere molti tratti: sono esseri feroci e sanguinari e sono dotati – ognuno a modo suo – di uno sguardo perturbante. Il colore degli occhi della iena cambia continuamente, quasi ad indicare una sorta di anarchia fisiognomica. Se infatti è vero che dagli occhi degli animali è possibile risalire al carattere,144 la iena, in questo senso è un animale ambiguo e imprevedibile; esattamente come il manticora, che ha occhi mutevoli di uomo che, analogamente a quanto avviene per quelli della iena, risplendono nella notte.145 143. Per la descrizione della iena in Aristotele cfr. Gen. Anim. 3, 6, 757a 2 sgg. La notizia che un genos di iena arabica sia capace di causare l’afonia delle proprie vittime e di immobilizzarle è riportata in Aristot. Mir. 845 a 24 sgg. Altri passi pliniani sulla iena sono 11, 151 e 177. Una descrizione dell’animale simile a quella pliniana si trova in Eliano (7, 22). Si noti che l’abitudine di fare scempio dei cadaveri era un tratto comunemente attribuito nell’antichità anche alla donnola, animale anch’esso dai tratti stregoneschi (solo per fare un esempio cfr. Ael. Nat. Anim. 15, 11; su questo passo Bettini 1998, p. 59). Per quanto riguarda la presunta bisessualità della iena, bisogna dire che la notizia che circolava nell’antichità aveva, in un certo senso, un suo fondamento: «le iene femmine sono praticamente indistinguibili dai maschi. La loro clitoride è molto sviluppata, formando un organo delle stesse dimensioni, forma e posizione del pene maschile, e può inoltre essere eretta. Le labbra della vagina si sono ripiegate e fuse a formare un falso scroto, che non è discernibilmente diverso nella forma o posizione esterna dal vero scroto dei maschi. Esso contiene addirittura del tessuto grasso che forma due rigonfiamenti facilmente scambiabili per testicoli» (Gould 19974, pp. 148 sg.). 144. Per le posizioni di Plinio nei confronti della fisiognomica vd. nn. 187 e 188 cap. 1. 145. Cfr. Nat. Hist. 11, 151.

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Per quanto riguarda la corocotta, poi, le analogie diventano di numero maggiore: anche la corocotta infatti è un ibrido (come si immagina che sia il manticora – anche se Plinio non lo dice mai esplicitamente); essa è uno dei tanti frutti della varietas etiopica, testimoniata dall’adagio citato in 8, 42, e della proverbiale libido delle leonesse. Come il manticora, la corocotta – si immagina – ha il corpo di leone e una dentatura paradossale. Se il manticora infatti ha una triplice fila di denti, la corocotta ha un unico dente continuo che si chiude a mo’ di cassa. Ma soprattutto i tre animali, che condividono nel catalogo pliniano lo stesso locus geografico e caratteristiche mirabolanti analoghe, hanno in comune la capacità di imitare la voce umana e non certo per fini – diciamo così – socializzanti. Se il manticora imita la voce umana dobbiamo infatti immaginare che lo faccia non perché abbia voglia di comunicare con l’uomo, ma per gli stessi fini e probabilmente – come si è già avuto modo di anticipare – con le stesse modalità della iena.146 Come avviene per le sirene l’imitazione della voce umana non è un segno di comunicazione, bensì di avversione totale nei confronti degli uomini. Il sermo humanus negli animali feroci non è, come avviene per gli uccelli, “satis… decoris”:147 non è una nota di valore, bensì un tratto di iperbolica ferocia e di disumanità. Se pertanto è una enormità e quasi un segno di barbara ferocia mangiare gli uccelli che imitano la lingua umana,148 al contrario – quasi per una sorta di inversione simbolica – per animali come il manticora, la iena, la corocotta (e verosimilmente anche per la leucrocota)149 è un segno di estrema bestialità il fatto di imitarla. Come le sirene, così le iene attraggono gli uomini (e i cani) per poi assalirli dopo averli isolati dal gruppo. Il solo fatto che il manticora venga menzionato dopo la corocotta ci deve far pensare che il suo comportamento, secondo l’interpretazione di Plinio (o delle sue fonti, o, ancora, della lettura che Plinio ha fatto delle sue fonti), dovesse essere analogo. Il manticora pliniano ha dunque, rispetto a quello descritto dagli altri interpretanti, un tratto di perturbante ambiguità in più, aggiunto dalla particolare associazione sintagmatica con due esseri 146. Cfr. pp. 92 sg. 147. Cfr. Nat. Hist. 10, 118. 148. È quello che fece Clodio Esopo: «… nulla alia inductus suavitate nisi ut in iis imitationem hominis manderet» («…indotto da nessun altro dolce gusto se non quello di mangiare, in questi uccelli, un simulacro dell’umanità») (Nat. Hist. 10, 142). 149. Cfr. ad es. il commento ottocentesco di Cuvier, il quale, in Ajasson de Grandsagne 1827, ad 8, 72 sgg., arriva ad avanzare l’ipotesi che leucrocota e corocotta siano lo stesso animale. In ogni caso l’identificazione non dovrebbe essere presa troppo sul serio, dal momento che, anche in presenza di tratti pressoché simili, la differenza di nome (come si vedrà ad es. nel cap. 4, pp. 275 sgg. nel caso dell’identificazione del manticora con la tigre) implica già una differenza nella definizione dello speciema generico.

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“stregoneschi” come la iena e la corocotta.150 Magie della struttura catalogica – si potrebbe dire. È proprio la lista, infatti, a dare un tono di stato di fatto alla meravigliosità della notizia. Nel leggere il testo pliniano il lettore che non trova alcun tipo di modalizzazione delle informazioni è spinto a non nutrire alcun dubbio. Per quanto mi riguarda, però, per quanto la struttura catalogica non lo permetta, è necessario porsi qualche domanda in più. Come può essere possibile, ad esempio, che un animale possa imitare il suono della voce umana? Nel catalogo etiopico non viene addotta alcuna motivazione di tipo fisiologico. Ma bisogna dire che altrove Plinio lascia intravedere alcune spiegazioni. In 10, 119, infatti, dopo avere parlato delle caratteristiche delle gazze, che amano pronunciare le parole umane che hanno imparato,151 Plinio conclude dicendo: «Latiores linguae omnibus in suo cuique genere, quae sermonem imitantur humanum». (Nat. Hist. 10, 119)

«Gli uccelli che imitano il modo di parlare degli uomini hanno, ognuno in rapporto al proprio genere, la lingua oltre modo larga».

Quella di Plinio è una correlazione universale che sembra assumere anche il valore di spiegazione fisiologica: se tutti gli uccelli che imitano il sermo umano hanno lingue latiores, di contro la loro capacità di imitare il suono della voce degli uomini e di articolare le parole deve essere spiegata proprio in virtù di questa particolare conformazione fisica. Aristotele, prima di Plinio, aveva usato termini simili per spiegare la dialektos negli uccelli: «το; δε; τω'ν οjρνιvθων γεvνος αjφιv ησι φωνηvν: και; µαvλιστα ε[χει

διαvλεκτον ο{σοις υJπαvρχει ηJ γλω'ττα πλατει'α, και; ο{σα ε[χουσι τη;ν γλω'τταν αυjτω'ν λεπτηvν». (Hist. Anim. 4, 9, 536 a 20-22)

«Il genere degli uccelli può emettere la phoné. Ad essere maggiormente dotati di una voce articolata sono gli uccelli che hanno la lingua larga, e fra di essi quanti hanno la lingua sottile».

Plinio sembra essere debitore nei confronti di questo passo, ma evidentemente lo ha travisato. Se infatti Aristotele si riferiva genericamente alla dialektos nel senso di “voce articolata”,152 Plinio – se 150. Il fatto che manticora, corocotta e iena formino un “trio perfetto” potrebbe avere avuto una certa influenza nella collocazione etiopica del mostro antropofago di Ctesia. 151. Cfr. Nat. Hist. 10, 119. 152. Cfr. Laspia 1997, pp. 59 sgg.

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ha veramente letto Aristotele – restringe l’estensione del termine riferendolo soltanto alla capacità di produrre il sermo umano. Ecco dunque che qualsiasi uccello che sia munito di una lingua abbastanza larga può essere capace di imitare la voce dell’uomo: «Quamquam id paene in omnibus contigit: Agrippina Claudii Caesaris turdum habuit, quod numquam ante, imitantem sermones hominum. Cum haec proderem, habebant et Caesares iuvenes sturnum, item luscinias Graeco et Latino sermone dociles, praeterea meditantes assidue et in diem nova loquentes, longiore etiam contextu. Docentur secreto et ubi nulla alia vox misceatur, adsidente qui crebro dicat ea, quae condita velit, ac cibis blandiente». (Nat. Hist. 10, 120)

«Eppure tutto ciò accade quasi a tutti gli uccelli: Agrippina, la moglie dell’imperatore Claudio, ebbe un tordo – cosa mai vista prima – capace di imitare il modo di parlare degli uomini. E, mentre io stavo per pubblicare questo mio lavoro, c’erano anche i giovani Cesari che avevano uno storno e anche degli usignoli che imparavano facilmente sia il greco che il latino e che si esercitavano con costanza e che per di più di giorno in giorno imparavano parole nuove e, anche, frasi sempre più lunghe. Questi animali vengono addestrati in posti isolati e lontani da ogni altra parola che si possa mescolare; il maestro siede sempre accanto a loro per ripetere con frequenza quelle espressioni che vuole che essi memorizzino e li alletta con il cibo».

Storni, tordi ed usignoli: sembra dunque che tutti gli uccelli siano virtualmente capaci di imparare il sermo degli uomini. La lingua larga (evidentemente in estensione), che in Aristotele spiegava la dialektos, diventa in Plinio un motivo in più per credere che quello che un tempo per il pappagallo era sentito come un paradoxon possa essere la cosa più naturale di questo mondo anche per altri animali.153 Ci vuole poco insomma perché una bestia riesca ad imitare la voce umana. Allo stesso modo, non c’è da stupirsi se in Etiopia, oltre che gli uccelli, a farlo siano capaci anche le belve feroci. Gli animali etiopici, del resto, rientrano a loro modo perfettamente nella norma. È forse questo il motivo per cui, in particolare nella lista di Nat. Hist. 8, 72 sgg., non ci sono termini che indicano meraviglia.154 Se dunque gli incroci più incredibili di esseri apparentemente non omofili non devono destare alcuno stupore, allo stesso modo la capa153. Cfr. ad esempio la notizia del pappagallo data per la prima volta da Ctesia (cfr. FrGrHist 688 F. 45, 8). 154. Nell’arco di 25 capitoli, che vanno dalla lista etiopica di 8, 72-76 alle notizie relative alla iena, alla corocotta e al manticora di 8, 105-107, l’aggettivo mirum compare solo tre volte (8, 82; 8, 92 e 8, 106).

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cità di alcuni di essi di imitare la voce umana sembra essere qualcosa di usuale. Certo, si tratta per lo più di leggende e di dicerie incontrollate (non a caso le proposizioni relative a questa strana facoltà sono tutte infinitive rette da verbi di narrazione),155 ma nonostante tutto non è in fondo così incredibile che un animale possa parlare come gli umani. Tanto più se c’è un auctor che lo garantisce (e non importa affatto che questo auctor non sia Aristotele). Oltre alla spiegazione fisiologica – o meglio: oltre ad una eventuale cattiva interpretazione della fisiologia di Aristotele –, è comunque possibile addurre una spiegazione di tipo antropologico. Plinio, nel descrivere il manticora, attribuisce a questo animale non un rostrum (vale a dire la “bocca mangiante” degli animali),156 ma una facies. Ebbene, proprio Plinio in 11, 138, nel prendere in esame le varie parti del corpo degli animali, dice che «facies homini tantum» («soltanto gli uomini possono avere una “facies”»). A partire da questa precisazione dell’autore si comprende bene come l’espressione facies hominis riferita al manticora, per Plinio, implichi necessariamente il fatto che questa belva abbia alla lettera fattezze umane (e che dunque non presenti unicamente una vaga analogia con il volto dell’uomo). La facies è infatti un aspetto “anatomico” tipico dell’uomo, «appartiene all’ordine della natura» ed «è un dato indipendente dalla volontà e dall’animo del soggetto» (Bettini 2000, p. 337). Il fatto di avere una facies, però, – benché il termine facies in sé sia antropologicamente neutro – implica per lo meno due cose: avere una facies significa infatti non solo avere un aspetto fisico immediatamente visibile, ma anche avere un vultus (lo sguardo che indica l’interiorità di un individuo)157 e, soprattutto, avere un os (la bocca che orat e che parla: una caratteristica, questa, che gli animali in genere non hanno).158 È proprio in virtù della sua facies, dunque, che il manticora, nonostante la sua dentatura mostruosa (caratteristica comune, peraltro, ad altri ferocissimi animali che imitano la voce umana), può parlare come un uomo. 155. Cfr. 8, 72: «humanas voces imitari tradunt» («raccontano che siano capaci di imitare la voce umana»); 8, 106: «multa praeterea mira traduntur, sed maxime sermonem humanum… adsimulare» («circolano molte storie meravigliose, ma soprattutto si dice che riescano ad imitare il modo di parlare degli uomini»); 8, 107: «Hominum sermones imitari… auctor est Iuba» («Giuba attesta che il manticora… sia capace di imitare il modo di parlare degli uomini»). 156. Su rostrum come “bocca mangiante” degli animali cfr. Bettini 2000, p. 318. 157. Cfr. Bettini 2000, p. 336. 158. Cfr. Bettini 2000, n. 19, p. 318 (il quale fa notare che il termine os è raramente usato per indicare il muso degli animali e ricorre soprattutto nei casi di metamorfosi uomo-animale e, per l’appunto, di animali fantastici come il manticora).

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5.

Ritorno in India: il manticora di Solino

Il tratto dell’imitazione della voce umana scompare in Solino, anche perché la catena sintagmatica iena-corocotta-manticora che era presente in Plinio, fonte principale dei Collectanea rerum memorabilium, viene meno. Solino riprende infatti le descrizioni pliniane della iena e della corocotta, ma non le fa seguire dalla descrizione del manticora: «Hyaenam quoque mittit Africa, cui cum spina riget collum continua unitate flectique non quit nisi toto corporis circumactu. Multa de ea mira: primum quod sequitur stabula pastorum et auditu assiduo addiscit vocamen quod exprimere possit imitatione vocis humanae, ut in hominem astu accitum nocte saeviat. [24] Vomitus quoque humanos mentitur falsisque singultibus sollicitatos sic canes devorat: qui forte si venantes umbram eius dum sequuntur contigerint, latrare nequeunt voce perdita. Eadem hyaena inquisitione corporum sepultorum busta eruit. Praeterea pronius est marem capere: feminis enim ingenita est callidior astutia. [25] Varietas multiplex inest oculis colorumque mutatio. In quorum pupulis lapis invenitur, hyaeniam dicunt, praeditum illa potestate, ut cuius hominis linguae fuerit subditus, praedicat futura. Verum hyaena quodcumque animal ter lustraverit, movere se non potest: quapropter magicam scientiam inesse ei pronuntiaverunt. [26] In Aethiopiae parte coit cum leaena, unde nascitur monstrum: corocottae nomen est. Voces hominum et ipsa pariter adfectat. Numquam cohibet aciem orbium, sed in obtutum sine nictatione contendit. In ore gingiva nulla, dens unus atque perpetuus, qui ut numquam retundatur, naturaliter capsularum modo clauditur». (Sol. 27, 23-26)

«L’Africa dà alla luce anche la iena, un animale che ha il collo rigido e in soluzione di continuità con la spina dorsale e che non può piegarsi se non facendo girare tutto il corpo. Molte sono le notizie favolose su questo animale: innanzitutto si dice che essa faccia le poste alle capanne dei pastori e che ascoltando continuamente le loro voci impari un nome che poi possa pronunziare imitando la voce umana per poi potere dilaniare di notte l’uomo che è riuscito ad attirare con questo stratagemma. Riesce anche ad imitare il vomitare degli uomini e simulando i singulti riesce ad attirare fuori i cani che poi divora. I cani, del resto, se mentre la cacciano e la inseguono vengono accidentalmente a contatto con la sua ombra, perdono la voce e non possono più abbaiare. Questo stesso animale cerca i corpi delle persone sepolte e tira fuori i loro cadaveri. Inoltre è più facile, di questi animali, catturare gli esemplari maschi: nelle femmine infatti è innata un’astuzia maggiore. Gli occhi di questo animale possono assumere forme molteplici e cambiare varie volte colore. Nelle loro pupille è possibile trovare una pietra che viene chiamata “ienia”. Questa 238

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pietra ha questo potere: chiunque se la metta sotto la lingua riesce a predire il futuro. In più, ogni animale attorno al quale la iena è riuscita a compiere tre giri perde immediatamente la facoltà di muoversi: per questo motivo è stata attribuita a questo animale una certa arte stregonesca. In una zona dell’Etiopia questo animale si accoppia con la leonessa; da questa unione viene fuori un animale mostruoso chiamato “corocotta”. Anche questo animale riesce ad imitare la voce degli uomini. Non chiude mai gli occhi, ma lancia continuamente il suo sguardo senza mai sbattere le palpebre. La sua bocca è priva di gengive ed è munita di un unico dente continuo che, perché non venga smussato, si chiude come si chiudono le casse dei libri».

Solino riusa evidentemente Plinio e fonde assieme le notizie che trova in Nat. Hist. 8, 105 sgg. e 37, 168 (in cui Plinio parla delle qualità della ienia). Viene taciuta la notizia sulla bisessualità dell’animale (evidentemente perché non più credibile dopo essere stata sconfessata da Aristotele e, indirettamente, da Plinio),159 ma per il resto tutte le informazioni presenti nella Naturalis Historia sono riprese quasi passo per passo. L’unica differenza sta nel fatto che il manticora è scomparso dall’Etiopia e non forma più un “trio perfetto” con iena e corocotta. La qual cosa però accade non certo perché il mostro di Ctesia sia da ritenersi un animale incredibile: se Plinio, infatti, era sensibile al fascino dei mirabilia, Solino ne è addirittura stregato, arrivando perfino a dichiarare, nella praefatio, che il suo intento è proprio quello di catalogarli secondo un ordine corografico; per poter dare una stabile struttura alla locorum commemoratio, è infatti necessario ricordare tutto ciò che è degno di nota per la sua paradossalità e la sua singolarità: «Addita pauca de arboribus exoticis, de extimarum gentium formis, de ritu dissono abditarum nationum, nonnulla etiam digna memoratu, quae praetermittere incuriosum videbatur quorumque auctoritas, quod cum primis industriae tuae insinuatum velim, de scriptoribus manat receptissimis». (Sol. praef. 4-5)

«Sono state aggiunte poche notizie sugli alberi esotici, sull’aspetto dei popoli più lontani, sui diversi costumi delle genti nascoste al nostro sguardo. Ne sono state inoltre aggiunte anche alcune degne di essere ricordate, che tralasciare sarebbe sembrato indice di negligenza e (cosa che vorrei si insinui, assieme alle prime cose, negli spazi della tua attività) la cui veridicità sgorga – per così dire – dal lavoro di scrittori autorevolissimi». 159. Cfr. Aristot. Gen. Anim. 3, 6, 757 a 2 sgg.; Hist. Anim. 6, 32, 579 b 15 sgg.

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Quello che viene fuori dalla praefatio di Solino è proprio la ricerca dell’esotico e del mirabile come progetto. Omettere certe informazioni può essere incuriosum, tanto più quando le stesse sono “garantite” dall’autorità di scrittori receptissimi. Bisogna dunque, per Solino, andare innanzitutto alla ricerca di ciò che sorprende e incuriosisce il lettore, tanto che, anche quando si parla delle parti “centrali” del mondo, c’è la tendenza a ricordare non tanto la ricorrenza di fenomeni “normali”, quanto gli scarti rispetto a quelle che potrebbero essere le tendenze generali della natura.160 Non è un caso, in questo senso, che nel parlare delle qualità di cui l’“animale uomo” è dotato non vengono riportati dati fisiologici o correlazioni universali relative alla sua morfologia, bensì esempi di velocità eccezionale, di vigoria fisica superiore alla media o di straordinaria acutezza della vista.161 Essendo queste le premesse, il manticora in Solino non può mancare. Semplicemente, bisogna attendere qualche pagina prima di poterlo avvistare di nuovo. Nei Collectanea Rerum Memorabilium, infatti, il manticora ritorna ad essere un animale indiano. Ecco perché la catena iena-corocotta-manticora, inaugurata da Plinio (o da Giuba?), viene spezzata. L’animale viene catalogato molti capitoli avanti nella parte relativa alla fauna indiana. La cosa strana è, però, che se in Plinio un mostro indiano era diventato un mostro etiopico, in Solino adesso accade il contrario. Nel catalogo di Sol. 52, 34 sgg., infatti, gli animali che nella Naturalis Historia erano stati presentati come etiopi ricompaiono quasi nello stesso ordine come animali indiani. La leucrocota, l’eale, il toro indiano si trasferiscono in India come per seguire il manticora che vi ritorna.162 Per di più, subito dopo la descrizione del mostro di cui per la prima volta aveva parlato Ctesia, Solino comincia a parlare del monoceronte e dei buoi indiani unicorni e tricorni.163 Anche questi erano esseri che Plinio aveva collocato in Etiopia e che aveva catalogato poco prima della leucrocota e dell’eale.164 Ci sarebbe da riflettere su questa migrazione in massa degli animali “etiopici”. Si potrebbe perfino pensare di riabilitare la proposta, avanzata (timidamente: è bene ripeterlo) da Ian e Mayhoff, di leggere “apud eosdem” come “apud Indos”.165 Del resto, lo stesso Mommsen (19794, p. IX), che aveva edito i Collectanea, non vedeva altro uso 160. Si pensi ai Ciclopi e ai Lestrigoni che da esseri di un passato mitico diventano dati di fatto in Sol. 5, 14 (cfr. Plin. Nat. Hist. 3, 89 che parla piuttosto di località geografiche). 161. Cfr. Sol. 1, 96 sgg.; 1, 99 sgg.; 1, 102 sgg. 162. Cfr. Sol. 52, 34-36. 163. Cfr. rispettivamente Sol. 52, 39 e 52, 38. 164. Cfr. Nat. Hist. 8, 73. 165. Cfr. p. 180.

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per Solino che quello di cartina di tornasole per aggiustare il tiro alle edizioni pliniane: dal testo di Solino, secondo il filologo tedesco, si potevano ricostruire le lezioni corrette della Naturalis Historia. Bisogna però ammettere che nulla vietava a Solino di interpolare, ed eventualmente correggere, la propria fonte principale consultando altri auctores. Tanto più che la lezione “apud Indos” di Plinio non è neanche attestata dai codici. Inoltre credo che, benché ad esclusione del particolare della collocazione geografica risulti estremamente aderente a quella pliniana, la versione di Solino sia da leggere in sé e per sé, rivendicandone in qualche modo una sorta di autonomia di progetto. L’autore dei Collectanea rerum memorabilium, in quanto epitomatore di Plinio (che seleziona e riorganizza i dati della Naturalis Historia secondo una struttura corografica), è sempre stato visto come una copia sbiadita dell’enciclopedista romano.166 Si dimentica di dire però che anche le epitomi possono avere finalità estranee alle loro fonti preferenziali e che anche a partire da questo genere di opera è possibile ricostruire l’ambiente e le “rappresentazioni mentali” dell’epitomatore. La versione del manticora data da Solino, del resto, benché molto fedele, non è affatto la copia di quella pliniana. È semplicemente una delle tante versioni. Non è mio compito, qui, spiegare approfonditamente il progetto culturale di Solino. Mi limiterò soltanto a fare alcune osservazioni sul passo dei Collectanea rerum memorabilium relativo al manticora: «Mantichora quoque nomine inter haec nascitur, triplici dentium ordine coeunte vicibus alternis, facie hominis, glaucis oculis, sanguineo colore, corpore leonino, cauda velut scorpionis aculeo spiculata, voce tam sibila ut imitetur modulos fistularum [tubarumque concinentum]. Humanas carnes avidissime affectat. [38] Pedibus sic viget, saltu sic potest, ut morari eam nec extentissima spatia possint nec obstacula latissima». (Sol. 52, 37-38)

«Oltre a questi animali nasce in India un essere chiamato manticora, con una triplice fila di denti che si uniscono a spazi alterni, la faccia umana, gli occhi glauchi, il colore del sangue, il corpo del leone, la coda come quella dello scorpione (e cioè munita di un aculeo), la voce così sibilante da imitare l’intonazione delle zampogne [e delle trombe che suonano assieme]. Questo animale è bramosissimo di carne umana; in più tale è la sua forza nelle zampe, tanto è abile nello spiccare balzi che neanche gli spazi più estesi o gli impedimenti più ampi lo possono fermare».

Come si vede bene, il passo di Solino è quasi una copia di Nat. Hist. 8, 75: dove Plinio scrive «triplici dentium ordinate pectinatim 166. Cfr. a questo proposito Mommsen 19794, p. XVII.

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coeuntium», Solino riprende la medesima formula variandola in «triplici dentium ordine coeunte vicibus alternis»; c’è poi in Solino un più generico «facie hominis» al posto del più specifico «facie et auriculis hominis»; infine ci sono le inversioni di «glaucis oculis» per «oculis glaucis», di «sanguineo colore» per «colore sanguineo» e di «corpore leonino» per «leonis corporis». Tuttavia il passo dell’epitomatore, pur fedele alla sua fonte, iperbolizza alcuni tratti del mostro. Se Plinio infatti aveva dato un forte effetto di realtà alla rappresentazione del manticora, adesso Solino sembra accentuare la sua eccezionalità. Il manticora non imita più la voce umana, ma il suo verso, nonostante la mancanza di questo tratto mirabolante, assume ugualmente connotazioni perturbanti. Non si dice più che esso ha «la voce che ricorda il suono di una zampogna e insieme di tromba» ma che la sua voce è «tam sibila ut imitetur modulos fistularum tubarumque concinentum». Quella che prima era un’analogia ostensiva, adesso diventa quasi un tratto surreale. L’accento posto sull’aggettivo (tam sibila) rende l’idea non più soltanto del fragore di due strumenti che urlano all’unisono, bensì di un suono terribilmente innaturale. Il tratto è dunque sempre più sans contrepartie. Per di più Solino forza la mano, nella descrizione, per mezzo di un uso indiscriminato dei superlativi assoluti: l’antropofagia è qualcosa che viene esagerata ulteriormente. Se Plinio aveva usato l’espressione «praecipue adpetentem», Solino adesso iperbolizza con un «avidissime affectat». La sanguinarietà dell’animale viene in questo modo accentuata oltre ogni limite. La velocità dello stesso viene inoltre ulteriormente estremizzata attraverso l’uso iperbolizzante della consecutiva: «pedibus sic viget, saltu sic potest, ut morari eam nec extentissima spatia possint». L’uso del verbo “viget”, per di più, aggiunge al tratto della velocità quello, assente nelle altre versioni, della vigoria e della prestanza fisica: non solo il manticora è ferocissimo e velocissimo, ma è anche instancabile. Come si vede bene, dunque, Solino amplifica sistematicamente la descrizione di Plinio e caratterizza il manticora ancora di più come un animale sans contrepartie. A ben vedere, però, queste non sono le variazioni più importanti della versione di Solino. Bisogna infatti notare che dal testo dei Collectanea è scomparso il nome di Ctesia. Il manticora ormai è a tutti gli effetti da annoverare tra gli oggetti esistenti, proprio perché già in Plinio era così. A proposito dei mostri delle eschatiai Solino, infatti, usa Plinio come fonte autorevole (la fonte che ha scelto di riassumere: particolare questo che, ovviamente, non può non essere rilevante). Di conseguenza tutto quello che Plinio ritiene vero è vero anche in Solino e, viceversa, tutto ciò che viene indicato come falso non viene neanche menzionato. Ecco perché la notizia sulla bisessualità delle iene viene occultata e 242

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la “verità” del manticora non viene discussa. In questa struttura autoritativa così organizzata aggiungere il nome di Ctesia come ulteriore marca di veridicità sarebbe stato un pleonasmo: il dato era, per usare un’espressione pliniana, confessum in homine già nella Naturalis Historia. Tutto ciò che era stato scritto sull’India, del resto, proprio in quanto “scritto”, aveva per Solino valore di verità: Ctesia, Megastene, Dionisio avevano tutti lo stesso grado di autorità, in quanto avevano parlato di cose che in qualche modo avevano visto. Questi autori, per di più, avevano raccontato storie analoghe sull’India:167 sui dati della fauna e della flora indiana (ed etiopica) c’era dunque una sorta di consensus di tutti gli scrittori; un consensus che in qualche modo doveva essere avvertito come una prova dell’esistenza di tutti i mirabilia descritti. In una situazione simile, nell’interpretazione di Solino, è come se tutte le notizie che ci sono giunte sull’India siano già state periclitatae.168 Per il solo fatto che la notizia sul manticora è giunta, vuol dire, dunque, nell’ottica del compilatore, che è stata messa alla prova all’origine. In mancanza di criteri di verifica validi si rimanda tutto al buon senso e alla buona fede degli auctores. È proprio per questo che il bisogno di menzionarli non è più così forte: se tutto quello che ha scritto Plinio è vero, non c’è bisogno dei suoi auctores per dimostrarlo.169

167. Cfr. Sol. 52, 3 e 27. Megastene, ambasciatore di Seleuco I Nicatore dal 303 al 292 presso il re indiano Chandragupta, era diventato, dopo Ctesia, una delle fonti più autorevoli sull’India (su Megastene cfr. Zambrini 1982, pp. 71 sgg. e Id. 1985, 781 sgg. Per i frammenti di Megastene cfr. FrGrHist 715). Di Dionisio si sa soltanto che era stato un inviato di Tolomeo II Filadelfo (285-246 a.C.). Per i frammenti degli Indikà di Dionisio cfr. FrGrHist 717. 168. Cfr. Bianchi 1981, pp. 246 sg.: «Solino raccoglie già in sé una tradizione vecchia ormai di 7 secoli, il tempo cioè che intercorre fra questi ed Erodoto. Durante questo periodo si è già compiuta una selezione delle conoscenze intorno alla configurazione degli spazi terrestri tendente appunto a limitare gli spazi obiettivi a favore di quelli fantastici. La geografia perde il gusto per le sue componenti più prettamente matematico-astronomiche a favore di una descrizione tanto più interessante quanto più favolosa». Per il diminuito interesse nei confronti del discrimine fra vero e falso e per il gusto per i fenomeni “coloriti” nella letteratura paradossografica in genere cfr. anche Gabba 1995, pp. 19 sg. È indubbio che in Solino il “peso dell’erudizione” (di cui parla Gabba per la paradossografia nelle pagine sopra menzionate), aveva assunto un ruolo ormai “vampirizzante”: non era più importante distinguere il vero dal falso, ma riportare tutte le notizie più curiose e, per l’appunto, erudite. 169. Un processo analogo è descritto da Latour 1998, p. 54 per la chiusura delle “controversie” in “scatole nere”: una volta che un enunciato si è trasformato in fatto, il nome dell’autore originario dell’enunciato tende ad essere occultato (cfr. Id. 1998, p. 55: «Chi di noi cita più l’articolo di Lavoisier quando scrive la formula H2O dell’acqua?»). Capitolo 3. Passaggio in Etiopia: il manticora nell’inventario di Roma

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Si arriva dunque al paradosso secondo il quale con Solino, ormai, ancor più che in Plinio, il manticora ha una auctoritas quasi insita. Potremmo quasi dire che si prova da solo, tanto da diventare a tutti gli effetti “dato obiettivo”.170 Il collasso epistemologico che cominciava nel I sec. a.C. ha ormai raggiunto, nel momento in cui scrive Solino, livelli parossistici, tanto che non è più importante distinguere il vero dal falso, bensì riportare quanti più dati eruditi possibili, anche senza alcuna sorta di modalizzazione di tipo critico.171

170. Bianchi 1981, p. 247 ha parlato di «scadimento del dato obiettivo» nel passaggio delle notizie da un autore all’altro: «Tale scadimento diviene sempre più accentuato negli autori successivi, quali un Marziano Capella o un Isidoro di Siviglia, per non parlare dei compilatori medioevali di bestiari. In questi difatti l’interesse verso il dato concreto è diventato ormai elemento del tutto accessorio se non addirittura assente; ciò che domina è solamente il fantastico». Il modello interpretativo della Bianchi, tuttavia, è basato forse su una concezione ancora troppo “meccanica” della trasmissione delle rappresentazioni. La studiosa inoltre sembra contrapporre in maniera alquanto rigida il “dato fantastico” al “dato concreto”, quando invece bisognerebbe capire che molti dei dati che a noi sembrano fantastici o favolosi assumevano a tutti gli effetti la forza del “dato concreto” agli occhi di chi li usava. Questo mi sembra essere il caso del manticora per Solino. 171. Per il crescente valore dell’erudizione nell’ambito dell’educazione antica cfr. Marrou 1948, pp. 254-409 (ma cfr. anche Gabba 1995, p. 19).

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CAPITOLO 4

Fine delle trasmissioni: Eliano, Pausania, Filostrato, Eusebio e gli ultimi passi di un animale ipotetico

«Finalmente il mostro non poté sopravvivere ai colpi che gli inferivano quattro avversari infuriati, e con un rantolo orribile si spense». (U. Eco, Baudolino).

0.

Scherzi del destino. I canguri e il manticora: nuove considerazioni su Ctesia (…come per una conclusione anticipata)

Mentre gli uomini dell’equipaggio si industriavano a riparare i danni dell’Endeavour, arenatosi qualche giorno prima nelle coste settentrionali dell’Australia, a Joseph Banks, dovizioso compagno di viaggio del capitano James Cook, capitò quasi per caso di avvistare un animale assai curioso ed insolito. Si trattava di un essere che nessun suddito della regina aveva mai visto prima: era grande come un cane da caccia, aveva il muso simile a quello dei topi ed era velocissimo. James Cook, che solo più tardi vide l’animale, aggiunse nel suo diario di bordo poche parole per completare il morfotipo che cominciava a delinearsi nelle descrizioni del suo compatriota: «[it had] a long tail which it carried like a grey hound, in short I should have taken it for a wild dog, but for its walking or runing […] it jumped like a Hare or a dear».1 Insomma, più aumentavano gli avvistamenti, più l’animale 1. J. Cook, The Journals of Captain James Cook on His Voyages of Discovery: the Voyage of the Endeavour, 1768-1771, ed. J. C. Beaglehole (Hakluyt Society, Cambridge University Press, Cambridge 1955), p. 352: cit. in Ritvo 1997, n. 1, p. 214. Per i problemi tassonomici conseguenti alla scoperta di questo “strano animale” cfr. più in generale Ritvo 1997, pp. 1 sgg. (a queste pagine mi rifaccio per il racconto del par. 0).

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doveva destare stupore. Esso infatti somigliava ad un tempo ad un cane e ad un topo, ma, anziché correre, come facevano la maggior parte dei quadrupedi, saltava come una lepre o come un cervo. Le analogie cominciavano a diventare fin troppe, tanto che, anziché spiegare l’ignoto attraverso la solita rete di somiglianze con il noto e l’usuale, esse avevano finito per rendere ancora più misterioso l’oggetto dei sempre più numerosi avvistamenti. Il sistema dell’ostensione analogica, in altri termini, si era fatto così fitto da diventare confuso e caotico. Fu così che, alla fine, lo stesso Banks dovette ammettere che l’animale aveva “not the least resemblance” con alcuno degli animali da lui conosciuti.2 Come a dire che era quasi impossibile parlare di questo prodigio della natura che sembrava sfuggire alle strette maglie della tassonomia scientifica. Fu per questo che, dal momento che la scienza contemporanea non aveva le parole per parlare di quell’essere, i due navigatori britannici decisero di usare quelle degli indigeni: CUNQUROO; ecco come gli abitanti dell’Australia nord-orientale chiamavano quel bizzarro animale! Si potrebbe continuare ancora con la storia del canguro; si potrebbe aggiungere, ad esempio, che il primo esemplare vivente arrivò in Gran Bretagna nel 1790; si potrebbe anche dire che il re Giorgio III in un certo senso elesse questo bizzarro animale a connotatore della propria sovranità, facendone rinchiudere alcuni esemplari nel proprio serraglio; infine, si potrebbe concludere ricordando come un agente del Gran Duca di Toscana fosse partito alla volta dell’Inghilterra (e non dell’Australia)3 per procurarsi uno specimen vivente di quello che nella denominazione scientifica veniva adesso chiamato il “Macropus Giganteus”. Per tutti questi capitoli della storia del canguro rimando alle primissime pagine del prezioso libro della Ritvo (1997, pp. 2 sgg.); quello che qui mi interessa fare è invece sottolineare alcune analogie e alcune differenze con un’altra storia non meno affascinante: la storia della “scoperta” del manticora. Tanto per cominciare, bisogna ammettere che la maniera fortuita in cui questo animale venne “scoperto” dai Greci, non è poi così diversa da quella in cui fu scoperto il canguro. In un certo senso entrambi gli animali sono il frutto di tempestose traversie e di amari scherzi del destino. Sir James Cook, che era partito da Plymouth per osservare il passaggio di Venere sul Sole,4 si ritrovò, naufrago, ad esplorare una porzione di mondo che doveva essere quanto meno di secon2. Joseph Banks, The Endeavour Journal of Joseph Banks, ed. J. C. Beaglehole (Sydney: Angus and Robertson, 1962), vol. II, p. 84, cit. in Ritvo 1997, n. 1, p. 214. 3. Il canguro nei primi anni del XIX secolo veniva ormai considerato a tutti gli effetti un animale “inglese” (cfr. Ritvo 1997, p. 3). 4. Per la biografia di Sir James Cook cfr. Beaglehole 1974, pp. 3 sgg.

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dario interesse per la sua missione. Fu così quasi per caso che scoprì il CUNQUROO. In maniera analoga Ctesia, che verosimilmente aveva lasciato Cnido per combattere contro i Persiani, si ritrovò ad essere loro prigioniero per circa diciassette anni e cominciò a narrare cose (vere o false?) che i Greci solo a stento avrebbero creduto. Le storie di Ctesia e di Cook, insomma, potrebbero anche essere, ognuna a suo modo, una sorta di grande parabola sull’eterogenesi dei fini. Sia Ctesia che Cook avevano lasciato la loro terra per fare altro, ma alla fine entrambi si ritrovarono a descrivere, quasi per un atroce scherzo del destino, esseri che avevano “not the least resemblance” con quelli conosciuti e che, soprattutto, non avevano apparentemente nulla a che fare con lo scopo dei loro viaggi. Curioso è pure il fatto che la maniera in cui questi due animali vennero descritti da chi li “vide” per la prima volta è quasi del tutto simile. Da come si può evincere a partire dalle versioni del manticora finora prese in analisi, la descrizione di Ctesia doveva infatti essere giocata su una rete di analogie ostensive che però, alla fine, si rivelava fin troppo fitta, al punto da avvolgere l’oggetto della descrizione nell’ambiguità e nel mistero. Il manticora aveva il prosopon e le orecchie simili a quelle di un uomo, il corpo simile a quello di un leone, la coda, infine, somigliava in tutto a quella di uno scorpione, ma era munita di pungiglioni che venivano scagliati come se fossero dardi. Insomma, se il manticora nelle sue parti era rapportabile ad altri esseri noti, visto nel suo insieme era qualcosa di terribilmente “nuovo” e, per dirla con sir James Cook, aveva “not the least resemblance” con alcuno degli animali già conosciuti dai Greci. Fu forse per questo che Ctesia (sempre che abbia visto ciò che – sembra – affermava di aver visto), analogamente a come avvenne per la denominazione del canguro, decise di ricorrere ad un termine autoctono (o che almeno doveva suonare come tale alle orecchie dei Greci): MARTICHORAS, che in greco poteva essere tradotto con “antropofago”. Fin qui, dunque, niente di diverso. La storia del manticora e quella del canguro sembrano quasi coincidere, al punto che potremmo anche immaginare un passo perduto della Historia Animalium di Aristotele che reciti pressappoco così: «Se si deve credere a James Cook esiste, in una grande isola al di là dell’India, un animale con il viso e le orecchie simili in tutto a quelli dei topi, con il corpo di un cane da caccia e la coda lunghissima e che corre come una lepre o un cervo. Pur essendo un quadrupede, questo animale correrebbe su due zampe anziché su quattro». Ma è proprio a questo punto che, nelle analogie che si sono fin qui istituite, si crea una sorta di biforcazione: Ctesia, di ritorno in Grecia, porta con sé i suoi Persikà e i suoi Indikà, laddove invece Cook e Banks portano in Inghilterra le ossa e le pelli del canguro. A precedere il primo esemplare “inglese” Capitolo 4. Fine delle trasmissioni: Eliano, Pausania, Filostrato, Eusebio…

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del bizzarro animale, arrivano in Gran Bretagna – se così si può dire – i semeia (o gli argumenta) che provano la sua esistenza.5 Diversissima è, da questo punto in poi, la storia del manticora. Di esso infatti in Grecia non arriva niente altro che la descrizione. Non ci sono pelli, non code, non ossa, non pungiglioni (e dire che il suolo indiano – stando alle informazioni che è possibile ricavare da Fozio e da Eliano – ne doveva essere pieno!). L’universo del manticora è insomma un universo di parole. Una congerie di tratti che possono essere visti dai Greci soltanto con lo sguardo vicario dell’analogia e non certo per esperienza diretta. È per questo che, se il canguro diventa un animale “inglese”, il manticora rimane pur sempre un mostro misterioso dell’India, un essere ambiguo e “nuovo” di cui, paradossalmente, nulla di nuovo è dato sapere rispetto a quanto ha detto Ctesia. Parlare del manticora è dunque una sorta di atto di fede (che si può accordare o meno) nei confronti di un auctor. In altri termini, per usare una categoria sperberiana, il manticora è una sorta di animale “semi-proposizionale” o “ipotetico” di cui non esistono prove tangibili ma che pure non è ascrivibile completamente alla categoria del mito (o dello pseudos).6 Il manticora rare volte si dice impersonalmente: per lo più infatti esso viene detto da Ctesia come cosa vera e, soprattutto, del “presente storico”.7 Alle origini della rappresentazione ad esso relativa c’è dunque una autorità, certo scomoda, ma pur sempre “autorevole”: Ctesia era l’unico che parlava con – diciamo così – “presunzione di autopsia” del manticora e, come si è visto nel secondo capitolo (cfr. pp. 131 sg.), nell’impossibilità di una verifica, bisognava pur sempre tenere conto di lui, anche se si era poco disposti a credergli. Emblematica, in questo senso, è la vicenda di un altro famoso animale “ipotetico” dell’India. Mi riferisco qui alle rappresentazioni relative alla “formica scavatrice dell’oro” (per la storia della quale rimando ad un mio articolo in corso di pubblicazione scritto a quattro mani insieme a Roberto Pomelli).8 Il primo, in Grecia, a riferire dell’esistenza di myrmekes dalle dimensioni strabilianti, posti a guardia dell’oro delle eremiai dell’India settentrionale, è Erodoto (3, 98-106), ma nessuno degli interpre5. Sul semeion come prova cfr. Hankinson 1997, pp. 1169 sgg. Sulla struttura inferenziale dell’argumentum cfr. invece Bettini 2000, pp. 293 sgg. Il semeion (in Grecia) e l’argumentum a Roma sono i segni inferenziali (o le prove) a partire dai quali è possibile dedurre (o indicare) l’esistenza di altri oggetti. 6. Per il concetto di “semi-proposizionalità” cfr. Sperber 1981, pp. 71 sgg. 7. Le uniche versioni in cui il nome di Ctesia non viene fatto sono quelle di Filostrato Ap. 3, 45 (che o lo omette per una questione di autorità o si rifà ad una tradizione orale), di Solino 52, 37 (che epitoma Plinio, il quale però cita Ctesia come fonte) e di Eusebio Hier. 22 (che, come si vedrà, polemizza con Filostrato). 8. P. Li Causi e R. Pomelli, art. cit.

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tanti successivi, nel parlare di queste bestie, lo cita mai esplicitamente. Erodoto è dunque un potenziale auctor per tutti i discorsi di “storia naturale” relativi alle formiche indiane,9 eppure sia Strabone (15, 1, 44 sgg.) che Arriano (Ind. 15, 4 sgg.) preferiscono menzionare soltanto Nearco e Megastene come proprie fonti. Se infatti Erodoto aveva parlato dei ferocissimi myrmekes basandosi unicamente sul “si dice” dei logoi Persiani (cfr. 3, 105, 2), Nearco e Megastene, diversamente, si erano recati di persona in India e per di più il primo aveva perfino raccolto un “segno” della loro esistenza: le pelli che – così si dice che abbia scritto il generale di Alessandro – gli Indiani recavano all’accampamento macedone.10 Nearco e Megastene, insomma, riuscirono a dire qualcosa di “nuovo” su un animale misterioso come il myrmex indiano. È per questo che l’autorità di Erodoto, almeno per quanto riguardava le notizie relative ai myrmekes, era stata da loro azzerata (o comunque occultata).11 Un simile cambio di testimone nella catena di trasmissione delle rappresentazioni (e della auctoritas che le confermava come “vere”) però non era di fatto avvenuto nel caso del manticora. Le esplorazioni geografiche non avevano portato nessuna nuova notizia ad esso relativa e – a quanto risulta – neanche gli stessi Nearco e Megastene, che pure avevano a loro modo “aggiornato” la tradizione indografica, avevano accennato al manticora.12 A Ctesia, semmai, era stato affiancato Giuba che, stando a quanto scrive Plinio, aveva aggiunto al mostro il tratto dell’imitazione della voce umana. Ma il re di Mauretania non aveva mai veramente sostituito il medico di Cnido come auctor. Giuba, del resto, era un originale divulgatore dotato di una formazione libresca e la sua attendibilità presso autori come Plinio, più che fondarsi su verifiche empiriche e su esplorazioni autottiche, era dovuta, come si è già avuto modo di ricordare, all’influenza che aveva esercitato alla corte di Augusto.13 In altre parole a rendere autorevole Giuba non era ciò che egli aveva effettivamente visto, ma il suo status sociale. È 9. Del myrmex indiano esistono anche versioni proverbiali e “letterarie”. Cfr. Hld. Aith. 10, 26, 2; Luc. Gall. 16; Prop. 3, 13, 1-5; Eub. fr. 20 Hunter (cfr. Harp. Lex. s. v. χρυσωχοει'ν, p. 307 Dindorff). Su questi passi P. Li Causi e R. Pomelli, art. cit. 10. Nearco diceva di avere visto le “pelli” dei myrmekes portate dagli Indiani nell’accampamento dei Macedoni (cfr. Arr. Ind. 15, 4 sgg.; Strab. 15, 1, 44 sgg.). 11. Da quanto si evince dal testo di Arriano (Ind. 15, 5) infatti è verosimile che Megastene potesse aver tenuto conto anche (e forse non solo) della versione erodotea nel precisare che era atrekés il racconto relativo alle formiche indiane. Cfr. a questo proposito P. Li Causi e R. Pomelli, art. cit. 12. Per un’edizione dei frammenti di Megastene cfr. Schwanbeck 19662 (oltre che FrGrHist 715). Per Nearco cfr. FrGrHist 133. Ma vedi anche n. 135, p. 62. 13. Cfr. a questo proposito Romano 1994 a, pp. 23 sgg.

Capitolo 4. Fine delle trasmissioni: Eliano, Pausania, Filostrato, Eusebio…

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dunque possibile che il re abbia scritto qualcosa di nuovo sul manticora (indiano o etiopico che fosse), ma di certo non ne aveva portato a Roma alcun esemplare vivente né tanto meno aveva prodotto alcun semeion rivelatore. Non c’era dunque nulla che, solo per fare un esempio, impedisse ad Eliano – uno degli anelli successivi della nostra catena – di dimenticare il medico di Cnido. In questo senso, più che di vera e propria “catena” epidemiologica, per il manticora si dovrebbe parlare (almeno per Plinio ed Aristotele) di una sorta di raggiera, dacché le versioni della rappresentazione, anziché trasmettersi in maniera lineare da un autore all’altro, sembrano quasi tutte prendere le mosse principalmente da un unico centro di irradiazione: il testo di Ctesia. La voce (o il nome) di Giuba (o quella eventuale di Aristotele), pertanto, era per Plinio stesso una sorta di stella periferica che non avrebbe in alcun modo potuto oscurare la luce del medico di Cnido. In questo senso è singolare il fatto che, ad esclusione dell’autore della Naturalis Historia, nessun interpretante faccia menzione di un interpretante precedente che non sia Ctesia. Può semmai capitare, come in Solino o in Filostrato,14 che non venga menzionato alcun auctor, ma in fin dei conti lo stesso Pausania, quando vorrà confutare la veridicità delle notizie relative all’animale, partirà proprio dal testo del medico di Cnido (non dunque da Plinio, Aristotele o da altri). Era dunque come se Ctesia fosse il detentore di una sorta di copyright sul manticora: chiunque avesse voluto parlare di questo animale doveva in qualche modo citarlo. In questo senso il mancato reperimento (o la mancata “costruzione”) di reliquie che potessero provare l’esistenza della belva, era per certi versi una fortuna per la memoria dell’autore di Cnido, dal momento che, se solo un giorno fossero stati prodotti “segni” analoghi alle pelli dei myrmekes, questi avrebbero senz’altro scalzato la sua pur labile autorità, costruita sull’universo di “comunicazione” che era riuscito a creare attorno ad un animale pressoché invisibile.15 Insomma, la mancanza di esemplari viven14. Solino aveva sotto gli occhi il testo di Plinio che stava epitomando (cfr. pp. 238 sgg.). Non è facile invece capire quale fosse la fonte di Filostrato. Non è da escludere comunque che del manticora circolassero anche versioni orali. A spingermi a credere che dovessero esistere anche versioni non scritte del mostro indiano è il caso dei myrmekes indiani dei quali circolavano finanche usi proverbiali (cfr. ad es. Luc. Gall. 16 e Harp. Lex. s. v. χρυσωχοει'ν, p. 307 Dindorf). 15. Sulla costruzione di false prove finalizzate a dimostrare l’esistenza di animali immaginari come il centauro o il tritone cfr. Mayor 2000, pp. 228 sgg. Le motivazioni epistemologiche che illustrerebbero tale fenomeno sono però appena abbozzate dalla studiosa e, quanto meno, discutibili. La Mayor infatti parla di una reazione dei “profani” nei confronti di una sempre più rigida scienza ufficiale: una spiegazione, questa, che, se può andare bene per la zoologia di età vittoriana (cfr. a tale proposito Ritvo 1997, pp. 175 sgg.), mi sembra forzata per il II sec. d.C. Sul valore delle reliquiae nella storiografia antica cfr. Humphreys 1997, pp. 207 sgg.

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ti o di “fossili”, che provassero la veridicità della notizia relativa al manticora data negli Indikà, manteneva viva la controversia relativa all’esistenza del mostro e, al contempo, costituiva la garanzia che Ctesia potesse continuare ad essere citato.16 Dall’altro lato, però, come si vedrà nel corso di questo capitolo, l’assenza di semeia e di prove si sarebbe volta a lungo andare, contro Ctesia stesso: la non visibilità dell’animale di cui il medico di Cnido si era fatto auctor avrebbe finito infatti per determinare, per un periodo abbastanza lungo, l’interruzione della trasmissione delle rappresentazioni ad esso relative.

1.

Eliano: il manticora che si morde la coda

1.1 Il manticora è ancora vivo (e di Ctesia non v’è traccia) Eliano, il “nodo” successivo a Plinio nella nostra serie degli interpretanti, si rifà esplicitamente all’indografo di Cnido senza menzionare nessun’altra delle versioni precedenti.17 Bisogna però fare notare che la maniera in cui l’autore del De natura animalium comincia a descrivere l’animale è quanto meno singolare e insolita: «θηριvον ∆Ινδικο;ν βιvαιον τη;ν αjλκηvν, µεvγ εθος κατα; το;ν λεvοντα το;ν

µεvγ ισθον, τη;ν δε; χροvαν εjρυθροvν, ωJς κινναβαvρινον ει\ναι δοκει'ν, δασυ; δε; ωJς κυvνες, φωνη/' τη'/ ∆Ινδω'ν µαρτιχοvρας ωjνοvµασται». (Ael. Nat. Anim. 4, 21)

«Esiste una bestia indiana di indole feroce e combattiva, grande quanto il più grande dei leoni, di colore rosso, simile a quello del cinabro, pelosa come lo sono i cani. Questa bestia, nella lingua degli Indiani, viene chiamata “martichoras”».

Confrontando questo passo con l’incipit della descrizione di Aristotele o, ad esempio, con le prime battute della versione pliniana, il lettore avvertirà la mancanza di un elemento, l’assenza di qualcosa che sembra stentare a rivelarsi ai suoi occhi. Aristotele cominciava con un eloquentissimo «ειj δει' πιστευσ ' αι Κτησια v » / , frase che denunciava immediatamente la natura semi-proposizionale dell’animale mettendo in dubbio la veridicità del suo auctor. Analogamente Plinio, che pure dava l’impressione di “credere” al manticora, sentiva l’esigenza di dichia16. Uso il termine “controversia” nell’accezione data ad esso da Latour 1998, pp. 5 sgg. 17. In realtà il “nodo” cronologicamente successivo a Plinio dovrebbe essere Pausania del quale mi riservo di parlare più avanti. Si noti che Eliano, pur potendo avvalersi della versione del manticora presente in Giuba (cfr. Wellmann 1892, pp. 389 sgg. ), non lo menziona affatto, servendosi di Ctesia come unico “centro di irradiazione”.

Capitolo 4. Fine delle trasmissioni: Eliano, Pausania, Filostrato, Eusebio…

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rare innanzitutto la propria fonte: «Ctesias scribit». Entrambi gli autori dunque (a prescindere dalla maniera di commentare la proposizione messa fra virgolette «c’è nel luogo x un essere y che ha i tratti z+z1+…..zn»)18 attribuivano la paternità della notizia al medico di Cnido e lasciavano intendere di riassumere una descrizione altrui. Non è più così per Eliano. L’autore di Preneste infatti introduce ex abrupto una bestia indiana che viene chiamata µαρτιχοvρας senza accennare a Ctesia. Il manticora, nelle prime battute di questa versione, sembra essere animato di vita propria: sembra, in altre parole, che non ci sia bisogno di un auctor perché esso possa esistere: «Una bestia indiana feroce e fortissima, grande quanto il più grande dei leoni, rossa di colore, come il cinabro, pelosa come un cane: questa bestia, nella lingua degli Indiani, viene chiamata MARTICHORAS». Il manticora, dunque, è vivo e vegeto ed è un animale pericolosissimo. A rafforzare questa impressione nel lettore, del resto, è il modo in cui Eliano gestisce la descrizione di tutti i tratti caratterizzanti, ritardando la menzione della propria fonte: «το; προvσωπον δε; κεvκτηται τοιου'τον, ωJς δοκει'ν ουj θηριvου του'τοv γε,

αjλλα; αjνθρωvπου ε[χειν. οjδοvντες δε; τριvστοιχοι εjµπεπηvγ ασιν οιJ α[νω αυjτω/', τριvστοιχοι δε; οιJ καvτω, τη;ν αjκ µη;ν οjξυvτατοι, τω'ν κυνειvων εjκει'νοι µειvζους: τα; δε; ω\τα ε[οικεν αjνθρωvπω/ και; ταυ'τα, µειvζω δε; και; δασεvα: του;ς δε; οjφθαλµου;ς γλαυ'κοvς εjστι, και; εjοιvκασιν αjνθρωπιvνοις και; ου|τοι. ποvδας δεv µοι νοvει και; ο[νυχας οι{ους ει\ναι λεvοντος. τη'/ δε; ουjρα'/ α[κρα/ προσηvρτηται σκορπιvου κεvντρον, και; ει[ η α]ν υJπε;ρ πη'χυν του'το, και; παρ∆ εJκαvτερα αυjτω'/ ηJ ουjρα; κεvντροις διειvληπται: το; δε; ουjραι'ον το; α[κρον εjς θαvνατον εjκεvντησε το;ν περιτυχοvντα, και; διεvφθειρε παραχρη'µα. εjα;ν δεv τις αυjτο;ν διωvκη/, οJ δε; αjφιv ησι τα; κεvντρα πλαvγ ια ωJς βεvλη, και; ε[στι το; ζω'/ον εJκηβοvλον. και; εjς του[µπροσθεν µε;ν ο{ταν αjπολυvη/ τα; κεvντρα, αjνακλα'/ τη;ν ουjραvν: εjα;ν δε; εjς τουjπιvσω κατα; του;ς Σαvκας, οJ δε; αjποταvδην αυjτη;ν εjξαρτα'/. ο{του δ∆α]ν το; βληθε;ν τυvχη/, αjποκτειvνει: εjλεvφαντα δε; ουjκ αjναιρει' µοvνον. τα; δε; αjκοντιζοvµενα κεvντρα ποδιαι'α το; µη'κοvς εjστι, σχοιvνου δε; το; παvχος». (Nat. Anim. 4, 21)

«Il suo rostro è composto in maniera tale da sembrare non il rostro di una belva feroce, bensì il viso di un uomo. I denti, disposti su una triplice fila, le sono quasi come conficcati sia nella mascella superiore sia in quella inferiore. Essi sono oltre modo aguzzi e più grandi di quelli di un cane. Le sue orecchie sono simili a quelle dell’uomo; soltanto sono più grandi e più pelose. Gli occhi sono glauchi e assomigliano anch’essi a quelli dell’uomo. Le zampe e gli artigli – è un particolare degno di nota – sono simili alle zampe e 18. Sul ruolo del “commento” nel pensiero simbolico cfr. Sperber 1981, pp. 114 sgg.

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agli artigli del leone. Sulla punta della coda le sta quasi conficcato come un pungiglione di scorpione che può anche raggiungere la lunghezza di un cubito. Questa coda per di più è ricoperta ad intervalli, dall’una e dall’altra parte, di aculei. Ebbene, con la punta della coda il martichoras può colpire chiunque si imbatta in lui procurandogli una morte immediata. Se qualcuno poi si mettesse ad inseguirlo, il martichoras gli scaglierebbe contro gli aculei laterali come se fossero frecce; cosa, questa, che può fare anche da grande distanza, dal momento che questo animale è un vero e proprio arciere: quando scaglia i suoi aculei in avanti piega indietro la coda, se invece li scaglia all’indietro – alla stessa maniera dei Saci – allora allunga la sua coda tendendola in linea retta. Chiunque venga colpito, muore. Solo l’elefante non può subire alcun danno. Gli aculei lanciati dal martichoras misurano un piede di lunghezza e hanno la larghezza di un giunco».

Tutti i tratti dell’animale risultano essere – per così dire – amplificati. Mentre Aristotele e Plinio avevano descritto il manticora in maniera stringata ed essenziale, Eliano invece si dilunga a descrivere, per larghi giri, le caratteristiche della bestia inserendo addirittura qualche particolare in più. La forza (τη;ν αjλκηvν) del manticora, cui nessun interpretante aveva fatto cenno, viene messa in primo piano. Per la prima volta, inoltre, viene inserito il cane nella rete delle analogie ostensive: oltre al pelo, i denti del manticora, anche se più forti e resistenti (si noti il valore icastico del verbo εjµπεπηvγ ασιν che lascia intendere come le zanne della bestia siano “conficcate” saldamente in triplice fila in entrambe le mascelle), sono infatti simili a quelli di questo animale. Per il resto ogni tratto viene descritto in maniera quanto mai ridondante. Ad esempio, per quanto concerne la descrizione degli elementi umani dell’animale, Aristotele scriveva sinteticamente: «προσ v ωπον δε; και; ω\τα αjνθρωποειδεvς, το; δ∆ ο[µµα γλαυκοvν»; per parlare delle stesse caratteristiche invece Eliano usa ben tre periodi distinti: 1) το; προvσωπον δε; κεvκτηται τοιου'τον, ωJς δοκει'ν ουj θηριvου του'τοv γε, αjλλα; αjνθρωvπου ε[χειν. 2) τα; δε; ω\τα ε[οικεν αjνθρωvπω/ και; ταυ'τα, µειvζω δε; και; δασεvα: 3) του;ς δε; οjφθαλµου;ς γλαυ'κοvς εjστι, και; εjοιvκασιν αjνθρωπιvνοις και; ου|τοι.

Particolare enfasi viene inoltre data alla descrizione della coda e dei dardi che da essa vengono scagliati. Eliano distribuisce la descrizione di questa parte del corpo del manticora in ben cinque periodi: 1) τη'/ δε; ουjρα'/ α[κρα/ προσηvρτηται σκορπιvου κεvντρον, και; ει[η α]ν υJπε;ρ πη'χυν του'το, και; παρ∆ εJκαvτερα αυjτω'/ ηJ ουjρα; κεvντροις διειvληπται.

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2) το; δε; ουjραι'ον το; α[κρον εjς θαvνατον εjκεvντησε το;ν περιτυχοvντα, και; διεvφθειρε παραχρη'µα.

3) εjα;ν δεv τις αυjτο;ν διωvκη/, οJ δε; αjφιvησι τα; κεvντρα πλαvγ ια ωJς βεvλη,

και; ε[στι το; ζω'/ον εJκηβοvλον. και; εjς του[µπροσθεν µε;ν ο{ταν αjπολυvη/ τα; κεvντρα, αjνακλα'/ τη;ν ουjραvν: εjα;ν δε; εjς τουjπιvσω κατα; του;ς Σαvκας, οJ δε; αjποσταvδην αυjτη;ν εjξαρτα'/. 4) ο{του δ∆α]ν το; βληθε;ν τυvχη/, αjποκτειvνει: εjλεvφαντα δε; ουjκ αjναιρει' µοvνον. 5) τα; δε; αjκοντιζοvµενα κεvντρα ποδιαι'α το; µη'κοvς εjστι, σχοιvνου δε; το; παvχος.

Come si vede dunque viene messa in scena una vera e propria “sinfonia di ridondanze”. Una particolare insistenza, in questo senso, si può notare nella continua ripetizione di verbi e di espressioni che rimandano al lessico dell’uccisione. Nel giro dei cinque periodi sopra elencati, ad esempio, viene ripetuto ben tre volte il medesimo concetto: chiunque venga colpito dal pungiglione del manticora, muore immediatamente: 1) εςj θανv ατον εκ j εν v τησε τον ; περιτυχον v τα; 2) και; διεφ v θειρε παραχρηµ ' α; 3) ο{του δ∆αν] το; βληθεν; τυχ v η,/ απ j οκτειν v ει, mentre non viene data particolare enfasi al motivo dell’animale antagonista, che viene ricordato soltanto di sfuggita. Ad accrescere l’effetto di realtà della descrizione v’è inoltre l’accenno alle misure degli aculei della belva (και; ει[ η α]ν υJπε;ρ πη'χυν του'το…σχοιvνου δε; το; παvχος). 1.2 Il ritorno di Ctesia: la seconda sezione della versione di Eliano del manticora Fin qui Eliano ha delineato il morfotipo comportamentale dell’animale, rendendoci edotti, con dovizia di particolari, finanche dei movimenti della coda (cosa che né Plinio né Aristotele avevano fatto): il manticora può scagliare i suoi aculei anche da grande distanza e, se inseguito, è capace di inarcare indietro la sua coda e di saettare esattamente come fanno i Saci. In virtù della descrizione (e della ridondanza) è dunque possibile visualizzare mentalmente l’animale vivo, la sua maniera di muoversi quando attacca e quando fugge. In altre parole, è possibile figurarsi mentalmente il suo modello 3-D in movimento. Ma ad Eliano evidentemente non interessava soltanto descrivere l’animale. La sua versione, infatti, come il lettore più attento potrà notare, consta di due sezioni ben distinte. La prima, per l’appunto, è dedicata unicamente alla costruzione del morfotipo, la seconda invece, come si evincerà tra breve dalla lettura del passo che citerò, ritorna su determinati tratti della belva mettendoli meglio a fuoco e, soprattutto, fornendo alcuni aneddoti su di essa. 254

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Orbene, la linea di passaggio che unisce la prima parte del capitolo alla seconda è proprio la menzione di Ctesia: «λεvγ ει δε; α[ρα Κτησιvας καιv φησιν οJµολογει'ν αυjτω'/ του;ς ∆Ινδουvς, εjν ται'ς χωvραις τω'ν αjπολυοµεvνων εjκειvνων κεvντρων υJπαναφυvεσθαι α[λλα, ωJς ει\ναι του' κακου' του'δε εjπιγονηvν». (Nat. Anim. 4, 21)

«Ctesia riferisce (e dice che gli Indiani possono confermare) che nelle zone in cui questi aculei vengono espulsi, ne spuntano sempre di nuovi, dacché questo malanno è capace di riprodursi».

Il nome del medico di Cnido dunque riemerge dalla nube di oblio nella quale era stato avvolto nella prima sezione, ma la sua funzione sembra essere completamente diversa rispetto a quella che aveva rivestito in Plinio o in Aristotele. Ctesia non è più – per così dire – il “proprietario” della descrizione del manticora, o quanto meno lo è ancora, ma in una maniera assai più sfumata ed ambigua. Il medico di Cnido viene infatti menzionato (insieme con il “si dice” degli Indiani) più che altro al fine di confermare il morfotipo comportamentale costruito in precedenza dalla sinfonia delle ridondanze: più che come il “padre” del manticora, Ctesia viene presentato come una sorta di elemento accessorio usato unicamente per accrescere – almeno così sembra dalla maniera in cui viene introdotto – la sensazione di stranezza di un animale già di per sé fuori dal comune: «φιληδει' δεv, ωJς οJ αυjτο;ς λεvγ ει, µαvλιστα αjνθρωvπους εjσθιvων, και;

αjναιρει' γε, αjνθρωvπους πολλουvς, και; ουj καθ∆ ε{να εjλλοχα'/, δυvο δ∆α]ν εjπιvθοιτο και; τρισιv, και; κρατει' τω'ν τοσουvτων µοvνος. καταγωνιvζεται δε; και; τω'ν ζω/'ων τα; λοιπαv, λεvοντα δε; ουjκ α]ν καθεvλοι ποτεv. ο{τι δε; κρεω'ν αjνθρωπει vων εjµπιπλαvµενον τοvδε το; ζω/'ον υJπερη vδεται, κατηγορει' και; το; ο[νοµα: νοει' γα;ρ τη'/ ÔΕλληvνων φωνη'/ αjνθρωποφαvγ ον αυjτο; ει\ναι. εjκ δε; του' ε[ργου και; κεvκληται. πεvφυκε δε; κατα; τη;ν ε[λαφον ω[κιστος. τα; βρεvφη δε; τω'νδε τω'ν ζωv/ων ∆Ινδοι; θηρω'σιν αjκεvντρους τα;ς ουjρα;ς ε[χοντα, και; λιvθω/ γε διαθλω'σιν αυjταvς, ι{να αjδυνατω'σι τα; κεvντρα αjναφυvειν. φωνη;ν δε; σαvλπιγγος ωJς ο{τι εjγ γυταvτω προι?εται». (4, 21)

«Il martichoras – così dice lo stesso Ctesia – ama in sommo grado divorare carne umana; uccide molti uomini e non tende le sue insidie alle vittime scegliendole ad una ad una, ma spesso assale anche due o tre persone alla volta e da solo, questo animale, riesce ad avere la meglio su molti uomini. Questo essere, per giunta, riesce ad avere la meglio su tutti gli altri animali; solo il leone non riuscirebbe mai ad abbattere. Il fatto che questo animale ami particolarmente rimpinzarsi di carne umana viene attestato anche dal nome: bisogna infatti ricordare che “martichoras” significa, in greco, Capitolo 4. Fine delle trasmissioni: Eliano, Pausania, Filostrato, Eusebio…

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“antropofago” (il nome, infatti, viene dato in base alle sue caratteristiche). Questa bestia, inoltre, è velocissima, come il cervo. Gli Indiani cacciano i cuccioli del martichoras quando le loro code sono ancora prive degli aculei. Per impedire che questi nascano, schiacciano le loro code con una pietra. Il verso che questo animale emette si avvicina al suono della tromba».

Se dunque da un lato la testimonianza di Ctesia serve a completare la costruzione del morfotipo effettuata nella prima parte del capitolo 21 (con l’aggiunta della descrizione del verso e la menzione del leone come ulteriore animale antagonista oltre all’elefante), dall’altro lato Eliano attribuisce al medico di Cnido tutta una serie di notizie supplementari che amplificano ulteriormente le caratteristiche delineate in precedenza: la riproduzione dei pungiglioni, il piacere estremo che la bestia prova nel divorare gli uomini, l’etimologia del nome, l’aneddoto relativo alla mutilazione dei cuccioli di manticora. Di diverso tono però sembra essere la chiusa del capitolo: «λεvγ ει δε; και; εJορακεvναι τοvδε το; ζω'/ον εjν Πεvρσαις Κτησιvας εjξ ∆Ινδω'ν

κοµισθε;ν δω'ρον τω'/ Περσω'ν βασιλει', ειj δηv τω/ ιJκανο;ς τεκµηριω'σαι υJπε;ρ τω'ν τοιουvτων Κτησιvας. αjκουvσας γε µη;ν τα; ι[διαv τις του'δε του' ζω/vου ει\τα µεvντοι τω/' συγγραφει' τω/' Κνιδιvω/ προσεχεvτω». (4, 21)

«Ctesia dice di avere visto in Persia un esemplare di martichoras portato in dono al re dei Persiani. Non so se l’autorità di Ctesia basta a provare la veridicità di questi fatti. Comunque, dopo avere ascoltato le caratteristiche di questo animale, bisogna soltanto affidarsi allo scrittore di Cnido».

Dopo avere presentato il manticora come un essere “vivo” nella prima sezione e dopo avere rafforzato questa impressione con il ricorso alla testimonianza del medico di Cnido, Eliano lascia affiorare, alla fine della sua versione, un barlume di problematizzazione. Solo alla fine si lascia intendere che ad affermare di aver visto l’animale c’è solo Ctesia e nessun altro. Il manticora non è dunque un animale comune e lo stesso Ctesia, quando dice di averlo visto alla corte del re dei Persiani, non è completamente degno di fede: «λεγv ει δε; και; εοJ ρακενv αι τοδv ε το; ζωο /' ν εjν Πεvρσαις Κτησιvας εjξ ∆Ινδω'ν κοµισθε;ν δω'ρον τω'/ Περσω'ν βασιλει', ειj δηv τω/ ιJκανο;ς τεκµηριω'σαι υJπε;ρ τω'ν τοιουvτων Κτησιvας». Eliano sembra dubitare fortemente del fatto che la testimonianza dell’indografo sia sufficiente (ιJκανοvς) a provare l’esistenza della bestia, eppure non ha alcuno strumento per dimostrare che essa sia una finzione. Tutta la costruzione del racconto di Nat. Anim. 4, 21 sembra dunque essere una sorta di gigante dai piedi d’argilla, o – meglio – “un manticora che si morde la coda”. Eliano si compiace nel descrivere i tratti 256

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della bestia come se si trattasse di un essere reale che egli stesso ha visto più volte, ma alla fine, come Aristotele (seppur con diverse sfumature), segnala al lettore la sua natura semi-proposizionale ed ipotetica facendo crollare la solida impalcatura costruita nella prima sezione del capitolo e nella prima parte della seconda sezione. È possibile che in fondo Eliano, in relazione al manticora, potesse riporre nelle parole dell’indografo una fiducia maggiore di quanto non gliene accordasse lo Stagirita, ma c’è sempre – sembra – un margine di incertezza che sembra inquietarlo. Le caratteristiche del manticora (τα; ιδ[ ια) sono nello stesso tempo “cose estremamente insolite” e pertanto difficilmente credibili.19 1.3 Il ritratto del manticora e il mantello di Aristotele: digressione su una possibile eredità peripatetica in Eliano Nei capitoli precedenti si era visto come il mostro antropofago potesse marcare la singolarità di un “luogo” (in Plinio) o come, al contrario, tramite l’occultamento sistematico della memoria etnografica, potesse esso stesso diventare uno “spazio” neutro da “cartografare” in relazione ad altri esseri collocabili nel medesimo asse di divisione (in Aristotele).20 Ebbene, cosa è rimasto di tutto questo in Eliano? Che fine hanno fatto l’inventario del mondo pliniano o gli sforzi dello Stagirita per studiare le cause degli animali e le loro differentiae? Ma soprattutto che fine ha fatto l’India di Ctesia? Il manticora di Eliano continua a vivere senz’altro in un’India che rimane pur sempre una vaga e lontana terra di mostri e di esseri paradossali, ma l’immagine di questa zona del mondo può essere ricostruita dal lettore soltanto a stento e in maniera frammentaria, trascegliendo le varie tessere disseminate qua e là nel resto dell’opera.21 Il manticora – è vero – vive ancora in India, ma ha smesso in un certo senso di “marcarla”: non è più un espediente mnemotecnico che permette di segnarne l’alterità, né al contrario è possibile spiegare deterministicamente la sua stranezza attraverso le usuali teorie climatiche e geografiche. Il manticora di Eliano, più che un essere da spiegare, è un animale da raccontare. A prescindere dai luoghi e dagli altri esseri che gli vengono affiancati.22 19. Non è da escludere che Eliano voglia qui giocare con il doppio senso del termine “τα; ι[δια” che può significare sia “le caratteristiche” (cfr., solo per fare un es., Aristot. Top. 102 a 18) sia “le stranezze” (cfr. Aristot. Gen. Anim. 3, 10, 760 a 5; Plut. De communibus notitiis adversus Stoicos 1068 B 10). 20. Cfr. cap. 2, pp. 112 sgg; 148 sgg. e cap. 3., pp. 192 sgg. 21. Cfr. ad es. Ael. Nat. Anim. 3, 3; 4, 26; 4, 27; 4, 36; 4, 41; 4, 46; 4, 52; 5, 3; 16, 31; 16, 42; 17, 29; 17, 34. Di animali indiani comunque si parla soprattutto nel XVI e nel XVII libro del De natura animalium. 22. Si noti come in Plinio e in Aristotele il manticora in un certo senso facesse parte di un “raggruppamento”. In Eliano invece il manticora non è raggruppato assieme ad altri animali.

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È vero: gli aneddoti attribuiti a Ctesia dipingono uno scenario accattivante. A leggere la versione del De natura animalium più facilmente si riescono a immaginare le parate di elefanti e le battute di caccia capeggiate da giovani indiani nel fiore degli anni, le aule policrome della corte degli Achemenidi, le processioni di messi che portano esemplari di manticora al Gran Re. Ma tutto questo, per l’appunto, non è che uno scenario (peraltro molto sfumato), la quinta solenne che fa – si potrebbe dire – da sfondo al personaggio-manticora. Fra l’ambientazione e il mostro non esiste più alcun rapporto eziologico: il luogo non spiega l’animale e l’animale non spiega il luogo. Ma se non esistono più rapporti significativi fra il manticora e l’India, in maniera analoga, si sono perduti del tutto i legami “sintagmatici” che permettono di connettere fra loro i diversi racconti di animali. Legami, questi, che pure in qualche modo erano presenti nello stesso Plinio. Raramente Eliano “raggruppa”;23 piuttosto preferisce organizzare i morfotipi comportamentali delle bestie di cui parla in medaglioni slegati fra loro. Così è anche per il manticora. Il capitolo che precede immediatamente la descrizione del mostro indiano è infatti una stringatissima raccolta di correlazioni universali che poco o nulla hanno a che fare l’una con l’altra né tanto meno con il nostro animale: «αjνθρωvπου µοvνου και; κυνο;ς κορεσθεvντων αjναπλει' ηJ τροφηv. και;

του' µε;ν αjνθρωvπου ηJ καρδιvα τω'/ µαζω'/ τω'/ λαιω'/ προσηvρτηται, τοι'ς γε µη;ν α[λλοις ζωv/οις εjν µεvσω/ τω'/ στηvθει προσπεvπλασται. γαµψωvνυχον δε; α[ρα ουjδε; ε}ν ου[τε πιvνει ου[τε ουjρει' ου[τε µη;ν συναγελαvζεται εJτεvροις». (Nat. Anim. 4, 20)

«Solo negli uomini e nei cani, dopo che si sono riempiti a sazietà, il cibo risale su. Il cuore dell’uomo è attaccato alla mammella sinistra, negli altri animali è posizionato nel centro del torace. Degli uccelli rapaci nessuno beve o urina o si raggruppa insieme con altri della sua specie».

Ancor più sorprendente è la fulminea laconicità con cui si apre e si chiude il paragrafo seguente alla descrizione del manticora: «σκολοvπενδρα θαλαττι vα διαρρη vγ νυται, ω{ς φασιν, αjνθρωvπου διαπτυvσαντος αυjτη'ς». (4, 22)

«Dicono che la scolopendra marina scoppi se le si sputa addosso». 23. Cfr. ad es. 1, 58 in cui vengono raggruppati in un elenco tutti gli animali nemici (εjπιvβουλοι και; εjχθροι); delle api. Per la costruzione delle “reti sintagmatiche” nelle descrizioni dei singoli animali cfr. pp. 177 sgg.

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Come si vede bene, a volere cercare a tutti i costi un legame sintattico che sia significativo, l’unico fine che potrebbe celarsi dietro la successione dei capitoli 20-22 non sarebbe che quello di fare risaltare la lunghezza (e l’importanza?) della descrizione del mostro indiano. Il capitolo 20 e il capitolo 22 sarebbero dunque una sorta di cornice policroma e varia del ritratto (a colori foschi) del manticora. Ma cos’è che ha portato Eliano al “ritratto”? Si è parlato in passato di “perdita dello spirito scientifico greco” o di una maggiore disponibilità a “prestare fede” che avrebbe permeato l’intero periodo che va dal II al III secolo d.C.24 In questo senso l’opera zoologica di Eliano segnerebbe un punto di regresso rispetto alle acquisizioni aristoteliche.25 In effetti non si può negare che Eliano dia spesso l’impressione di usare programmaticamente la historia e le informazioni “scientifiche” come fonti di divertissement letterario,26 ma questo basta per parlare di regresso? E poi quanto erano realmente acquisite le famose “acquisizioni” aristoteliche? Uno degli intenti dell’investigazione peripatetica era stato quello di «rilevare e se possibile spiegare […] una serie di fatti non immediatamente inquadrabili nei termini della teoria generale» (Sassi 1993, p. 457). Ebbene, proprio le difficoltà che gli eredi di Aristotele potrebbero aver incontrato nel fornire spiegazioni soddisfacenti per i fatti aporetici dei quali venivano a conoscenza avrebbero finito per permeare le loro historiai di un particolare gusto per il paradossale che nel loro precursore era, se non del tutto assente, quanto meno funzionale all’impianto eziologico delle opere. Non sarebbe un caso, in questo senso, che uno dei primi scritti paradossografici dell’antichità, il Περι; θαυµασιω v ν ακ j ουσµαv των, sia nato, già nel III secolo a.C., proprio in ambiente peripatetico.27 Alla stessa maniera le opere di un Callimaco 24. Cfr. Reardon 1971, pp. 13 e 237 sgg. 25. A questo proposito French 1994, pp. 263 sgg. sottolinea le vistose differenze di approccio nei confronti degli animali da parte di Aristotele da un lato e di Eliano dall’altro ribadendo la “non filosoficità” dell’opera dello scrittore di Preneste. 26. A questo proposito Reardon 1971, pp. 225 sg. cita il caso esemplare del cavallo di Socle (Nat. Anim. 6, 44): «Il avait au début entrepris de montrer l’amabilité des cheveux, leur reconnaissance envers un bon maître; mais entre temps il semble avoir un peu perdu son chemin […] On est hereux de constater qu’il ne s’efforce pas de tirer trop de conclusions, mais se contente, la plupart du temps, du rôle de conteur». Moltissimi altri esempi si potrebbero addurre. Per il solo IV libro cfr. 4, 1; 4, 2; 4, 4; 4, 7; 4, 8; 4, 29; 4, 45; 4, 54; 4, 56. Sui numerosi parallelismi istituiti da Eliano fra la vita degli animali ed episodi famosi della storia della letteratura cfr. French 1994, pp. 264 sgg. 27. Seguo qui Sassi 1993, pp. 458 sg., la quale propone di considerare il Περι; θαυµασιvων αjκουσµαvτων autonomo rispetto alla raccolta di mirabilia di Callimaco, abitualmente ritenuta la “tappa augurale del genere paradossografico”. Per una bibliografia relativa a questo problema cfr. Sassi 1993, n. 13, p. 458.

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o di un Antigono di Caristo, benché facessero riferimento anche alla tradizione “letteraria” (omerica ed esiodea) e storiografica, dovevano avere il loro nervo proprio nel materiale aristotelico e peripatetico.28 Insomma, sebbene non sia possibile sapere con certezza «quali condizioni di lavoro rimanessero possibili nel Peripato» dopo la morte di Aristotele e di Teofrasto,29 si ha la netta sensazione che la fatidica eredità della zoologia aristotelica dovesse essere confluita per la maggior parte proprio nel filone paradossografico. Per quanto riguardava gli animali, delle ricerche di Aristotele erano rimasti soltanto i “nudi fatti”; l’impalcatura sistematica di opere come la Historia Animalium o il De partibus animalium era invece, se non del tutto scomparsa, quanto meno sfumata o comunque era confluita in ambiti di discorso che con gli animali, in senso stretto, avevano poco a che fare (si pensi ad esempio all’opera di Galeno).30 Emblematico, in questo senso, è il fatto che Artemidoro citi come sua fonte per le notizie relative agli animali, accanto ad Aristotele e Senocrate, Archelao di Chersoneso, autore di una raccolta di epigrammi di argomento paradossografico, gli ∆Ιδιοφυη,' i cui passi conservati si riferiscono unicamente a temi di tipo zoologico.31 Per un lettore del II secolo d.C. non è dunque un’eresia associare Aristotele ad un paradossografo come Archelao o addirittura considerarlo alla sua stessa stregua. Ecco dunque che l’intento di Eliano di «accrescere le proprie cognizioni in materia zoologica» («πλεοv ν µαθειν' και; εjν τοι'σδε»)32 può spiegarsi, in questa prospettiva, come un tentativo di creare una piccola enciclopedia (caotica) sugli animali che raccolga quanti più “fatti” e aneddoti possibili al fine di “istruire e piacere”, secondo un motto che si è visto essere tipico del filone paradossografico in generale.33 È in questo senso che si può dire (come ha fatto Parker 1984, p. 175) che «il mantello di Aristotele è ricaduto su Eliano».34 Il tentativo dello Stagirita di creare un metodo rigoroso per lo studio degli animali è rimasto una voce pressoché inascoltata; la sua eredità, le “acquisizioni” che hanno riguardato il II sec. d.C., più che sul processo moriologico o sul metodo diairetico, si sono basate sui 28. Cfr. Sassi 1993, pp. 459 sgg. 29. Sassi 1993, p. 459. 30. Cfr. a questo proposito Lloyd 1998, p. 701. 31. Cfr. Artemid. 4, 22 Westermann (cit. in Giannini 1964, n. 72, p. 111). Eliano stesso in Nat. Anim. 2, 7 cita Archelao come sua fonte a proposito del basilisco. 32. Cfr. l’epilogo di Ael. Nat. Anim. 33. Su Antigono cfr. pp. 168 sgg. Secondo Reardon 1971, pp. 219 sgg. il fine di “istruire e piacere” è comune a tutte le opere del II e III sec. d.C. 34. Cfr. Parker 1984, p. 175: «there was no breakthrough in the life sciences to a rigorous demonstrative method, the danger of a reversion to the trivial and anecdotal was always present. Archytas prepared the way for Euclid, but Aristotle’s zoological mantel fell upon Aelian».

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“nudi fatti” e sugli aneddoti che era possibile trovare nelle pagine delle sue opere biologiche.35 È seguendo queste tendenze, forse, che Eliano, più che tentare una qualsivoglia classificazione del manticora, ha deciso di dipingerne un “ritratto” i cui contorni realistici vengono resi a sorpresa evanescenti nella chiusa. 1.4 Ai confini dell’etologia: l’uomo e il manticora 1.4.1 L’uomo e la pernice: Eliano e il dibattito sull’intelligenza degli animali Si è parlato fin qui di una possibile e singolare eredità aristotelica in Eliano. Bisogna però aggiungere che Aristotele non è l’unico modello dell’antichità per chi vuole parlare di animali.36 Se infatti escludiamo le raccolte di meraviglie di autori come Flegonte di Tralle,37 dobbiamo ricordare che un’influenza non indifferente dovette esercitare il dibattito sulla “intelligenza degli animali”, ancora in corso mentre Eliano scriveva il De natura animalium.38 Già Aristotele nelle sue opere biologiche aveva sviluppato una teoria in base alla quale si potevano attribuire agli animali facoltà analoghe a quelle che negli esseri umani erano la saggezza e l’intelligenza.39 Gli stoici, invece, andranno molto più in là, negando agli animali ogni sorta di attività che possa essere paragonabile al logos. Gli animali, secondo la loro teoria, sono infatti esseri “diretti provvidenzialmente dalla natura” e solo per questa ragione sembrano talvolta agire in maniera appropriata in diverse situazioni, dando così all’even35. È opinione comune che Eliano, benché gli capiti sovente di citarlo (cfr. ad es. 2, 39; 2, 49; 2, 52; 3, 24; 3, 40; 3, 45; 4, 6; 4, 57; 4, 58; 5, 8 etc.), abbia usato solo indirettamente Aristotele (cfr. Maspero 1998, p. 19). A mio avviso, comunque, anche nel caso in cui si fosse trovato ad usare direttamente le opere zoologiche dello Stagirita, Eliano avrebbe senz’altro lette queste ultime con l’animo del paradossografo, selezionando cioè i “nudi fatti” e privandoli di qualsiasi modalizzazione. 36. È una tendenza comune quella di parlare degli “animali dei Greci” o delle “piante dei Greci” e di intendere invece soltanto gli animali e le piante “di Aristotele e Teofrasto” dimenticando che possono esserci anche momenti nella storia del pensiero dell’antichità in cui le posizioni peripatetiche, nell’ambito della costruzione (esplicita o meno) di un sapere, potevano anche risultare minoritarie, se non addirittura marginali. 37. Su Flegonte (il quale comunque non viene mai menzionato nel corso del De natura animalium) cfr. Giannini 1964, pp. 129 sg. e Mayor 2000, pp. 145 sgg. (per i frammenti di Flegonte cfr. FrGrHist 257). 38. Su questo argomento cfr. Dierauer 1977, pp. 1 sgg. e Id. 1997, pp. 330, ma anche Sorabji 1993, pp. 3 sgg. e Labarrière 2000, pp. 107 sgg. 39. Cfr. ad es. Hist. Anim. 8, 1, 588 a 29-31, ma vedi anche Metaph. 1, 1, 980 a 26 sgg.; APo. 1, 19, 81 b 10 sgg.; EN, 6, 7, 1141 a 25-28 e più in generale il libro IX della Hist. Anim. . Sulla questione dell’intelligenza degli animali in Aristotele cfr. Labarrière 2000, pp. 111 sgg.; Dierauer 1977, pp. 100 sgg.; Id. 1997, pp. 11-17.

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tuale osservatore l’impressione fallace di agire in base a ragionamenti logici.40 A schierarsi contro queste posizioni saranno soprattutto, oltre che scettici, epicurei e neopitagorici, i neoplatonici. Labarrière 2000 (pp. 109 sgg.) ha recentemente tentato di ricostruire i termini della questione e il tenore degli argomenti mossi in merito dagli accademici contro la Stoa.41 Non è il caso che qui io riporti punto per punto le singole ipotesi avanzate dallo studioso francese; è tuttavia opportuno segnalare alcune osservazioni che possono aiutarci a comprendere l’influenza che il dibattito può avere avuto in Eliano. Innanzitutto, come è possibile evincere dalle pagine del suo recente saggio (Labarrière 2000, pp. 114 sgg.), è interessante notare come la difesa da parte degli accademici, più che essere mossa da ideali sinceramente animalisti, fosse essenzialmente uno strumento polemico finalizzato a criticare il dogmatismo degli stoici; in secondo luogo – e questo mi sembra essere il punto fondamentale – è importante segnalare come l’approccio degli stoici (così come in fondo quello degli epicurei) avesse finito con il causare il mutamento del punto di vista secondo il quale veniva studiata la questione. Se infatti con Aristotele il problema dell’intelligenza animale era innanzitutto un problema biologico e cognitivo, in molti autori (e soprattutto in Plutarco) esso cominciava già a trasformarsi in un mezzo per focalizzare l’attenzione su questioni di etica (umana).42 A prescindere dalle posizioni che si assumevano sulla questione dell’intelligenza animale, gli zoia cominciavano insomma a diventare sempre di più (e sempre più sistematicamente) buoni per pensare i vizi, le “affezioni” e le virtù dell’uomo.43 Ed è forse a seguito dei solchi lasciati da questo dibattito (ancora vivo nel II sec. d.C.), che gli animali di Eliano hanno smesso di essere soltanto animali, per diventare una sorta di pretesto per la 40. Per le teorie stoiche sugli animali cfr. ad es. Polystr. fr. 1; 3; 4 Wilke; Philod. de diis I, col. 10, 33-15, 34 Diels; Sen. Ep. 121, 5-9; 18-23; SVF II, 988: Origene, de principiis, 3, 108 Delarue. Su questi passi Dierauer 1997, pp. 18 sgg. (ma vd. anche Dierauer 1977, pp. 224-245). 41. È possibile ricostruire gli argomenti degli accademici a partire da testi come il De animalibus di Filone o il De sollertia animalium e il Bruta animalia ratione uti di Plutarco (cfr., a questo proposito, anche Dierauer 1997, pp. 24 sgg.). Del De animalibus di Filone esiste soltanto una traduzione in armeno per la quale segnalo la recente edizione curata da Abraham Terian (Philonis Alexandrini De animalibus, The Armenian Text with an Introduction, Translation and Commentary, A.T. Studies in Hellenistic Judaism I, Chico, California 1981: cit. in Dierauer 1997, n. 64, p. 24). Per il resto cfr. Labarrière 2000, pp. 109 sgg. Sulle teorie zoopsicologiche di epicurei, neoplatonici e neopitagorici cfr. anche Dierauer 1977, pp. 178 sgg. e 253 sgg. 42. Cfr. Labarrière 2000, p. 116: il culmine di questo processo di mutamento dell’approccio al problema sarebbe stato raggiunto con Porfirio. 43. Bisogna del resto ricordare che il confronto sistematico fra l’uomo e l’animale era tipico dei cinici. Cfr. a questo proposito Dierauer 1977, pp. 178 sgg.; Brancacci 1997, pp. 207 sgg.

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costruzione di una monumentale “etologia comparata” in cui se da un lato si cerca meccanicamente di seguire la terminologia e il lessico dello stoicismo, dall’altro lato sembrano evidenti le influenze delle posizioni accademiche e plutarchee.44 Gli animali, nel De natura animalium, sono spesso designati (secondo un vero e proprio dogma epicureo) come aloga, come esseri privi di ragione;45 ciononostante essi sono sempre dotati, e in misura maggiore rispetto agli uomini, di saggezza, di moderazione, di coraggio, di pietà paterna, di devozione filiale, di religiosità:46 essi, in altri termini, se erano stati usati dagli accademici come argomento polemico, adesso cominciavano in Eliano a diventare una sorta di “argomento allegorico”: l’essere vivente nel De natura animalium sempre meno è un oggetto da studiare in sé e per sé e sempre più diventa un pretesto per discutere dei costumi e dei vizi degli uomini. Un esempio classico di questo procedimento potrebbe essere l’inizio del IV libro, in cui si parla dell’erotomania e dell’intemperanza della pernice. Il fatto che quest’uccello non sopporti di essere sconfitto da un avversario in presenza della propria compagna offre 44. Cfr. ad es. Ael. Nat. Anim. Epilog.: «ειj δε; εις| τα; των' τοσουvτων εκ j δεικνυvει και; υπ J ∆ αυγ j ας ; αγ [ ει και ; ηθ [ η και ; πλασ v εις και ; σοφια v ν και ; αγ j χιν v οιαν και ; δικαιοσυν v ην και; σωφροσυvνην και; αjνδρειvαν και; στοργη;ν και; ευjσεvβειαν θηραvσας, πω'ς ουjκ η[δη και; θαυµαvσαι α[ξιος; η{κων δε; εjνταυθοι' του' λοvγ ου και; παvνυ α[χθοµαι, ειj ζω'/ων µε;ν ευσ j εβ v ειαν αλ j ογ v ων αδ /[ οµεν, αν j θρωπ v ων δε; ασ j εβ v ειαν ελ j εγ v χοµεν» («Se un uomo di tanti animali mostra e mette in luce i costumi, le forme, la saggezza, l’intelligenza, la giustizia, la moderazione, il coraggio, l’affetto, la pietà filiale e la devozione religiosa, perché mai anche quest’uomo non dovrebbe risultare degno di ammirazione? Giunto a questo punto del mio discorso, devo necessariamente rammaricarmi se mi vedo costretto a esaltare il sentimento di pietà degli animali e a biasimare, invece, l’empietà degli uomini»). A proposito dello stoicismo di Eliano, già Dierauer 1977, p. 224 aveva notato che esso è da considerare più che altro terminologico e lessicale, ma che per il resto il De natura animalium è concettualmente molto lontano dalle teorie stoiche vere e proprie. j ογ v οις µετειν ' αι v τινος αρ j ετης ' κατα; 45. Cfr. ad es. il prologo: «το; δε; και; τοις' αλ

φυ v σ ιν, και ; πολλα ; τω' ν α j ν θρωπι v ν ων πλεονεκτηµα v των και ; θαυµαστα ; ε [ χ ειν συγκεκληρωµεvνα, του'το η[δη µεvγ α» («È una cosa certo grandiosa il fatto che gli

esseri privi di ragione posseggano naturalmente una serie di virtù e abbiano ottenuto in sorte, assieme all’uomo, molti straordinari privilegi»). È, questa, una considerazione che sembra aderire perfettamente alla teoria stoica secondo la quale gli animali sono aloga e partecipano della areté soltanto katà physin e cioè secondo un piano provvidenziale stabilito dalla natura. Eppure il resto dell’opera insisterà molto, più che sulla “direzione della natura”, sulle virtù degli animali e sui loro effetti. A questo proposito Hübner 1984, p. 159 ha visto nello stoicismo una sorta di motore della narrazione paradossografica del De natura animalium: secondo Eliano infatti il fatto che gli uomini possiedano la ragione non è nulla di eccezionale (cfr. praef.: «α[νθρωπον µε;ν ει\ναι σοφο;ν.. παραvδοξον ι[σως ουjδεvν»: «forse non è affatto sorprendente … che gli uomini siano saggi»), lo è semmai, secondo i dogmi dello stoicismo, il fatto che la possiedano gli animali. Sugli animali come aloga in Eliano cfr. anche Nat. Anim. 1, 35; 4, 53; 6, 2; 7, 11; 7, 45; 8, 26; 9, 7 etc. 46. Cfr. sopra n. 45.

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infatti lo spunto per raccontare la vicenda di un giovane cretese che, caduto in battaglia, nel momento in cui sta per essere ucciso dal nemico, chiede di essere colpito al petto e non alla schiena, affinché il suo amante non lo accusi di vigliaccheria.47 Alla fine del racconto, Eliano commenta così la vicenda: «αι jδεσθη 'ναι µε;ν ου\ν α[νθρωπον ο[ντα φανη 'ναι κακο;ν ου[πω

θαυµαστοvν: πεvρδικι δε; µετει'ναι αιjδου'ς υJπεvρσεµνον του'το εjκ τη'ς φυvσεως το; δω'ρον». (Nat. Anim. 4, 1)

«Il fatto che un uomo si vergogni ad apparire vile non è certo cosa che suscita meraviglia, ma che una pernice condivida questo pudore è un nobilissimo dono concesso dalla natura».

L’espressione riprende sinteticamente, nella forma, un concetto, già espresso nella prefazione, che potrebbe per certi versi essere considerato il motivo dominante dell’intera opera:48 «αν[ θρωπον µεν; ειν\ αι σοφον; και; δικ v αιον και ; των ' οικ j ειω v ν παιδ v ων

προµηθεσ v τατον, και ; των ' γειναµεν v ων ποιεισ ' θαι την ; προσηκ v ουσαν φροντιδv α, και; τροφην ; εα J υτω/' µαστευε v ιν και ; επ j ιβουλας ; φυλαvττεσθαι και; τα; λοιπα; οσ { α αυj τω/' συν v εστι δωρ ' α φυσ v εως, παραδ v οξον ισ [ ως ουδj εν v : και ; γαρ ; λογv ου µετειλ v ηχεν αν [ θρωπος του' παν v των τιµιωταv του, και; λογισµου' ηξj ιω v ται, οσ { περ ουν \ εσ j τι πολυαρκεσ v τατος v τε και; πολυωφελεσ v τατος: αλ j λα; και ; θεους ; αιδj εισ ' θαι οιδ \ ε και ; σεβ v ειν. το; δε; και; τοις' αλ j ογ v οις µετειν ' αι v τινος αρ j ετης ' κατα; φυσ v ιν, και ; πολλα; των ' αν j θρωπιν v ων πλεονεκτηµαv των και; θαυµαστα; εχ [ ειν συγκεκληρωµεν v α, του'το ηδ[ η µεγv α». (Nat. Anim. praef.)

«Forse non c’è nulla di straordinario nel fatto che l’essere umano riesca ad essere saggio e giusto, che abbia riguardo per i propri figli, che si prenda la giusta cura dei genitori, che cerchi di procurarsi il cibo, che si protegga dalle insidie e che custodisca tutti i beni che la natura gli offre in dono. L’uomo, infatti, ha avuto in sorte la parola, che è certamente la cosa più preziosa, e ha l’onore di fare uso della ragione, facoltà che gli è di grandissimo aiuto e di enorme utilità. Per di più l’uomo è capace di onorare e venerare gli dei. È invece una cosa davvero enorme che anche gli animali, esseri privi di ragione, possiedano per natura alcune virtù e abbiano ottenuto in sorte insieme con l’uomo molti straordinari privilegi». 47. Cfr. Nat. Anim. 4, 1: «“µηδαµω'ς” ει\πεν “αιjσχρα;ν και; αjναλκη' πληγη;ν εjπαγαvγ η/ς, αjλλα; κατα; τω'ν στεvρνων αjντιvαν παι'σον, ι{να µηv µου δειλιvαν οJ εjρωvµενος καταψηφισ v εται..”» («“Non sferrare contro di me un colpo che mi renda vile e imbelle, ma colpiscimi dritto al petto, affinché il mio amato non mi accusi di vigliaccheria e si rifiuti di seppellire il mio cadavere…”»). 48. Cfr. a questo proposito Hübner 1984, p. 159.

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Gli animali sono esseri privi di logos, eppure partecipano delle medesime virtù degli uomini; il che, se da un lato viene considerato come qualcosa di paradossale e di strabiliante (παραδv οξον e θαυµαστονv sono i termini che usa Eliano), dall’altro, a mano a mano che si procede nella lettura dei 798 capitoli che compongono il De natura animalium, appare sempre più come un fenomeno perfettamente naturale e finanche scontato. Gli animali spesso sono migliori di certi uomini – questo sembra essere il messaggio ricorrente in Eliano –, e per di più, a differenza degli uomini, non hanno bisogno di leggi per essere giusti,49 dacché le loro qualità positive sono spontanee e innate.50 Ecco dunque che l’alogon cessa di essere semplicemente un oggetto di “studio” e di descrizione e si trasforma da un lato in un modello etico, dall’altro in uno strumento di paragone finalizzato alla classificazione di tipi umani:51 «∆Αριστοvδηµος δε; οJ τρεvσας και; Κλεωvνυµος οJ ρJιvψας τη;ν αjσπιvδα και; οJ δειλο;ς Πειvσανδρος ου[τε τα;ς πατριvδας ηj/δου'ντο ου[τε τα;ς γαµετα;ς ου[τε τα; παιδιvα». (Nat. Anim. 4, 1)

«Invece Aristodemo, il pauroso, e Cleonimo, quello che gettò via lo scudo, e Pisandro, il codardo, non hanno provato alcun pudore né nei confronti della patria, né nei confronti delle mogli, né nei confronti dei figli».52

Il pudore della pernice e il suo coraggio in battaglia sono una sorta di cartina al tornasole per individuare alcuni tipi antropologici deteriori: Aristodemo, Cleonimo, Pisandro non meritano di essere considerati pienamente uomini perché, oltre che essere scarti negativi rispetto ad una consuetudine (ideale) umana (che prevede l’uso del coraggio in battaglia), sono incapaci perfino di essere pari ad un uccello. Questi tre esseri “mostruosi” non solo non trovano da sé il coraggio per affrontare il nemico, ma non riescono neanche a provare amore per le proprie mogli e i propri figli. 1.4.2 Il manticora non è buono per pensare gli uomini! Si è visto, nel paragrafo precedente, come la descrizione dell’animale, e del suo ethos, possa coincidere con la costruzione di una classifica49. Cfr. ad es. 3, 23 e 5, 17. 50. Sulla spontaneità e l’innatismo come componente fondamentale della “zoopsicologia” stoica cfr. Dierauer 1997, pp. 18 sgg. (cfr. anche Hübner 1984, p. 161). 51. Un uso analogo del confronto fra uomini e animali ricorreva anche, a quanto sembra, in Antistene (cfr. Brancacci 1997, p. 220). Per l’animale come stereotipo morale in Eliano e come marcatore di classificazione cfr. Lanata 2000, pp. 17 sgg. e 30 sgg. (cfr. anche Albert-Llorca 2000, pp. 44 sgg.). 52. Per l’identificazione dei personaggi menzionati cfr. Maspero 1998, n. 1, p. 217.

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zione antropologica.53 Ebbene, al punto in cui si è giunti è forse opportuno chiedersi se e in che modo il manticora possa interagire con un progetto “totemico” di tal sorta;54 in altri termini, bisogna chiedersi se sia possibile individuare in 4, 21 elementi in comune con quelli che sono stati rilevati nella descrizione etologica della pernice. È evidente che sono moltissime (e non irrilevanti) le differenze fra un manticora e un uccello (e non solo di natura morfologica), così come lampanti sono le differenze nella struttura delle “voci” del De natura animalium che comprendono questi due esseri.55 La pernice è uno di quegli animali “familiari” per i quali è necessario, nell’ottica della poikilia di Eliano, fare più rimandi, spendere più parole in più capitoli. Molte sono, infatti, le “conoscenze” che circolano su di essa. Oltre che la sua proverbiale intemperanza, ad esempio, sono note la sua capacità di difendersi dal malocchio (1, 35) o la sua abilità nell’evitare che i cacciatori si avvicinino troppo al suo nido (3, 16). Si sa inoltre che le femmine delle pernici possono rimanere fecondate dal vento (17, 15), caratteristica, questa, che il sapere zoologico degli antichi attribuiva anche ad altri animali.56 Del manticora, invece, si sa troppo poco.57 Si sa che è un essere antropofago, ma non è possibile ricordare neanche il nome di una sola persona da esso divorata. Ci sono alcuni aneddoti che si possono riferire sul manticora, ma non ci sono veri e propri racconti che possono essere ad esso associati. Per di più, benché questa belva abbia il volto umano, sembra quasi impossibile pensarla antropomorficamente. Inoltre, diversamente da quanto accade per la pernice e per altri animali “comuni”, non c’è alcun ethos umano che possa essere sovrapponibile al suo comportamento sanguinario: il manticora è buono soltanto per pensare la bestialità e l’animalità. Esso (così come, ad esempio, il grifone e l’onocentauro)58 si colloca per certi versi al di qua del progetto dello scrittore di costruire un’etologia comparata: il manticora è il segno di una profonda differenza: è qualcosa di non pensabile nei termini dell’etica umana. 53. Cfr. a questo proposito anche Hübner 1984, pp. 156 sg. 54. Uso l’aggettivo nell’accezione proposta da Albert-Llorca 2000, pp. 45 sgg. 55. Per la pernice cfr. anche Nat. Anim. 1, 35; 3, 5; 3, 16; 3, 35; 4, 5; 4, 12; 4, 13; 4, 16; 5, 46; 5, 48; 7, 19; 10, 35; 11, 40; 13, 25; 16, 7; 17, 15. 56. Per gli animali impregnati dal vento cfr. Aristot. Hist. Anim. 5, 5, 541 a 26 sg.; 10, 3, 636 a 10 sgg.; 10, 5, 637 b 5 sgg. (ma vd. anche Plin. Nat. Hist. 10, 102; Varr. Res rusticae 3, 11, 4). Sulla wind-pregnancy in generale cfr. Bettini 1998, pp. 172 sgg., il quale a sua volta rimanda a Zirkle 1937, pp. 95 sgg. per una rassegna «curiosa e dettagliata» (Bettini 1998, n. 175, p. 193). 57. Condizioni analoghe a quelle del manticora sono da registrare anche per altri animali paradoxa, dei quali Eliano tratteggia i morfotipi comportamentali senza che sia possibile tratteggiare un’etologia comparata a quella umana. Si veda ad es. la descrizione del grifone (4, 27) o quella dell’onocentauro (17, 9; per cui cfr. pp. 270 sg). 58. Per il grifone e l’onocentauro in Eliano cfr. n. 57, p. 266. Sull’onocentauro cfr. infra pp. 270 sg.

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Bisogna però dire che questa differenza non è legata unicamente alla sua ferocia. È normale infatti che a permettere il parallelismo etico siano proprio gli animali che più sono familiari, gli esseri il cui comportamento è immediatamente visibile e paragonabile con quello degli uomini.59 Il manticora, in questo senso, benché presentato come un essere vivo, rimane pur sempre un animale “lontano”, un essere strano ed invisibile che alligna – per l’appunto – in una terra lontana, un thaumastòn la cui funzione è – almeno per Eliano – quella di stupire. Soltanto che, mentre prima lo stupore e la meraviglia erano legati anche alla lontananza “geografica”, alla stranezza di una natura che funzionava in maniere diverse in angoli diversi del mondo, adesso, nella versione di Eliano, la lontananza del manticora comincia a diventare soprattutto una lontananza “etica”. Dell’uomo non rimangono che gesti meccanici: lo sguardo, la maniera di muovere le orecchie, l’atto di scoccare indietro i propri dardi «come fanno i Saci» («κατα; του;ς Σαvκ ας»). Eliano insiste particolarmente sulla descrizione dei tratti umani della belva e tuttavia sembra voler suggerire con forza che le orecchie del manticora, il suo viso, i suoi occhi, non sono esattamente umani. Se infatti il manticora di Plinio aveva alla lettera «la faccia e le orecchie dell’uomo»,60 Eliano sembra interpretare diversamente la descrizione di Ctesia. Le note che usa per la sua sinfonia di ridondanze rimandano infatti alla sfera semantica della somiglianza piuttosto che a quella dell’identità: 1) το; προvσωπον δε; κεvκτηται τοιου'τον, ωJς δοκει'ν ουj θηριvου του'τοv γε, αjλλα; αjνθρωvπου ε[χειν.

2) τα; δε; ω\τα ε[οικεν αjνθρωvπω/ και; ταυ'τα. 3) του;ς δε; οjφθαλµου;ς γλαυ'κοvς εjστι, και; εjοιvκασιν αjνθρωπιvνοις και; ου|τοι.

Il parallelismo uomo-manticora, quindi, può soltanto essere di natura morfologica. Il manticora assomiglia ad un uomo, ma la sua intima natura è quella di una belva feroce. Una belva feroce di una ferocia che neanche il peggiore degli uomini potrebbe mai raggiungere. Lo stesso paragone con i Saci, del resto, come si era già osservato nel corso del primo capitolo (cfr. pp. 88 sgg.), non serve ad altro che a sottolineare l’infingardaggine di una bestia che, esattamente come fanno i barbari, uomini vili per eccellenza, colpisce (disumanamente) mentre fugge. Il manticora dunque non solo non è un animale “domestico” e familiare (e visibile), ma è per di più un essere ottimo per pensare l’antagonismo e l’inimicizia fra l’uomo e l’animale (o fra il “noi” 59. Cfr. a questo proposito Romeyer Dherbey 1997, pp. 142 sgg. 60. Cfr. cap. 3, p. 176.

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e il “diverso”): paradossalmente, fra tanti animali giusti, temperanti, saggi, pii e devoti che popolano l’opera di Eliano, il manticora rischia di essere uno dei pochi animali veramente “animali”. 1.5 Divagazioni mostruose: il modello (distorto) di Empedocle e gli argomenti statistici Come si è visto l’allegoria etologica di Eliano presuppone la “visione”, o quanto meno la “familiarità”, dell’animale. Soltanto più tardi, nel Medio Evo, sarà possibile (anche in virtù dell’influenza del Physiologus)61 prescindere dalla conoscenza effettiva di un essere per potere innescare il processo allegorico.62 Sarà allora che il manticora si trasformerà nell’immagine del demoniaco; sarà allora che la sua natura composita, analogamente a quanto accadrà per molti altri animali “fantastici”, diventerà figura della doppiezza (psicologica, morale e teologica) del male.63 In Eliano si è ancora molto lontani da questa metamorfosi. Se infatti le rappresentazioni dei bestiari saranno completamente prive di ogni sorta di modalizzazione delle informazioni o, ad esempio, non si cureranno affatto di discutere la veridicità delle fonti (usualmente non citate),64 per l’autore del De natura animalium (così come era stato per Aristotele e Plinio), il manticora rimane pur sempre un problema legato a quelle che Maria Michela Sassi chiama le «frontiere di realtà» del mondo antico (Sassi 1993, p. 468). Il fascino che prova nei confronti della bestia, come si è visto, è fortissimo, eppure Eliano non può fare a meno di segnalare, implicitamente, la mancanza di certezze assolute circa la sua effettiva esistenza. E tuttavia per l’autore del De natura animalium c’è qualche motivo per credere al manticora, dacché è possibile cogliere nel mondo segni indiretti di una sua possibile presenza: «∆Εµπεδοκλη'ς οJ φυσικοvς φησι, περι; ζωv/ων ιjδιοvτητος λεvγ ων και; εjκει'νος δηvπου, γιvνεσθαιv τινα συµφυη' και; κραvσει µορφη'ς µε;ν διαvφορα, εJνωvσει δε; σωvµατος συµπλακεvντα. α} δε; λεvγ ει, ταυ'ταv εjστι: 61. Il Fisiologo è un trattato di autore anonimo, di data e di origine incerta (presumibilmente composto tra il II e il III sec. d.C. ad Alessandria d’Egitto), dal quale traggono origine tutti i Bestiari medievali. In esso vengono descritte, senza un principio ordinatore ben preciso, le nature di 48 (o 49, nell’edizione più recente) animali, pietre e piante. I capitoli sono organizzati in base ad una struttura bipartita secondo la quale alle caratteristiche fisiche dell’oggetto in questione vengono affiancati i significati simbolici. È interessante notare che per ognuno degli oggetti paradoxa elencati nel Fisiologo non è presente alcun criterio di modalizzazione né viene mai menzionata alcuna auctoritas che possa garantirne l’effettiva esistenza. Sul Fisiologo in generale cfr. Morini 1996, pp. VI sgg. e Zambon 19934, pp. 11 sgg. 62. A questo proposito cfr. Morini 1996, pp. VI sgg. 63. Per alcune rappresentazioni medievali del manticora cfr. n. 21, p. 24 (ma vd. anche fig. 7). 64. Cfr. sopra n. 63.

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πολλα; µε;ν αjµφιπροvσωπα και; αjµφιvστερνα φυvεσθαι, βουγενη' αjνδροvπρω/ρα, τα; δ∆ ε[µπαλιν εjξανατεvλλειν αjνδροφυη' βουvκρανα µεµιγµεvνα τη/' µε;ν αjπ∆ αjνδρω'ν, τη'/ δε; γυναικοφυη' σκιεροι'ς ηjσκηµεvνα γυιvοις». (Nat. Anim. 16, 29)

«Intervenendo anche lui a proposito delle caratteristiche degli animali, Empedocle, lo studioso della natura, sostiene che esistono alcuni esseri frutto di unioni fra animali di diversa natura e che presentano una fusione di membra di esseri discordi fra loro. Questo è ciò che dice: molte forme si generavano con duplice volto e con duplice torace, razze di buoi con torsi umani; e poi viceversa nascevano umane stirpi con teste bovine, frutto da un lato della mescolan[za di membra di uomini dall’altro di femminea natura, così scolpite nelle membra ombrose».

Eliano cita un passo famoso della zoogonia empedoclea (B 59 e 61 DK), ma, estrapolandolo dal contesto, ne stravolge completamente il senso. Quello che in Empedocle era essenzialmente un modello diacronico volto a razionalizzare il passato mitico si trova adesso ad essere implicitamente attualizzato.65 I mostri a due teste, i vitelli con il corpo umano e i minotauri non sono più esseri che hanno popolato un mondo lontano nel tempo, ma diventano una possibilità del presente. Eliano fa infatti dire ad Empedocle che essi esistono (al presente: γιvνεσθαι) e non certo che sono stati i primi tentativi mal riusciti dell’opera creatrice della terra. È comunque verosimile che l’autore del De natura animalium fosse ben consapevole dell’entità della sua operazione. Più avanti, infatti, nel menzionare l’onocentauro, dimostra di essere perfettamente a conoscenza dei termini del dibattito relativo all’esistenza nel passato degli esseri paradossali del mito:66 65. Sul passo empedocleo citato da Eliano (fr. 7, 5-11 Gallavotti: 59 e 61 DK) cfr. pp. 161 sg. 66. Il dibattito sull’esistenza degli esseri mitici del passato si era aperto verosimilmente con la zoogonia di Empedocle (fr. 7, 5-11 Gallavotti: 59 e 61 DK). La possibilità avanzata da Empedocle di un’esistenza, seppure effimera, di ibridi mostruosi nel passato era stata negata, come si è già visto (cfr. pp. 161 sgg.), da Aristotele (Phys. 2, 8, 198 b 31 sgg.; Gen. Anim. 2, 7, 746 a 29-746 b11), da Palefato (Perì apiston praef. e 1 Festa) e, più tardi, da Lucrezio (5, 837 sgg.). Una posizione particolare all’interno del dibattito sembra avere avuto Plinio, il quale, sulla base di un numero sempre crescente di avvistamenti, ammetteva addirittura l’esistenza di esseri mitici nel presente delle eschatiai: è il caso, ad esempio, dei satiri (Nat. Hist. 6, 197) e dei pegasi (Nat. Hist. 8, 72). A provare l’esistenza di alcuni esseri del passato mitico doveva comunque esserci anche l’evidenza dei ritrovamenti fossili che potevano essere interpretati, sulla scia del wishful thinking, come prove della loro esistenza (su questo argomento cfr. Mayor 2000, pp. 192 sgg.; più specificamente cfr. pp. 160 sgg. e 270 sgg. sul dibattito intorno all’esistenza dei centauri).

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«οjνοκενταυvραν καλου'σι ζω'/οvν τι, και; ταυvτην ο{στις ει\δεν, ουjκ α]ν

ηjπιvστησεν ο{τι και; Κενταυvρων φυ'λα η\ν, και; ουj κατεψευvσαντο οιJ χειρουργοι; τη'ς φυvσεως, αjλλα; και; εjκειvνους η[νεγκεν οJ χροvνος κραvσει σωµαvτων ουjχ οJµοιvων εJνωθεvντας. καταλειvπωµεν δε; αυjτουvς, ει[τε εjγ εvνοντο ο[ντως εjπιδηµιvα/ µια'/ και; τη/' αυjτη'/, ει[τε ηJ φηvµη κηρου' παντο;ς ου\σα ευjπλαστοτεvρα τε και; ευjπειθεστεvρα διεvπλασεν αυjτουvς, και; αjνεvµιξεν ι{ππου και; αjνθρωvπου δαιµονιvα/ τινι; συναφη'/ ηJµιvτοµα, και; ε[δωκε µιvαν ψυχηvν». (Nat. Anim. 17, 9)

«Esiste un essere che chiamano onocentauro: chiunque riesca a vederlo, potrebbe smettere di dubitare che sia esistita la razza dei centauri e potrebbe finirla di calunniare gli scultori che rappresentano la natura. Nel passato infatti è venuta davvero alla luce una razza simile di esseri che erano il prodotto della fusione di parti diverse di animali. Ad ogni modo non voglio occuparmi di questa questione: non mi interessa dire se i centauri siano veramente esistiti e se siano apparsi una e una sola volta, o se invece siano il frutto di quella fama che, più malleabile della cera e facile da sorbire, li ha plasmati e li ha creati per mezzo di una prodigiosa fusione di due metà equine e umane dando ad esse una sola anima».

Prima di esporre il morfotipo comportamentale dell’onocentauro, Eliano prende posizione nel dibattito circa l’esistenza degli ibridi mostruosi del mito. Il tutto però viene fatto con un andamento altalenante (come se l’autore scrivesse di getto senza avere riflettuto prima sulla questione). In un primo momento dice che la bestia è senz’altro da assumere come semeion da opporre a chi nega l’esistenza degli ibridi del mito; quindi, a supporto di questa tesi, si appiglia ad un argomento – diciamo così – empedocleo («Nel passato infatti è venuta davvero alla luce una razza simile di esseri che erano il prodotto della fusione di parti diverse di animali»); infine sospende il giudizio (o meglio: lascia intendere di voler sospendere il giudizio). Bisogna però dire che questa concessione allo scetticismo si rivela in qualche modo, se non fittizia, quanto meno labile. La porzione successiva di testo, infatti, comincia a poco a poco ad erodere questo atteggiamento di “buon senso epistemologico”: «αυ{τη δε; υJπε;ρ η|ς ω{ρµηται λεvγ ειν ο{δε οJ λοvγ ος, εjς αjκοη;ν τη;ν εjµη;ν

τοιαvδε αjφιvκετο. αjνθρωvπω/ το; προvσωπον ει[κασται, περιεvρχονται δε; αυjτο; βαθει'αι τριvχες. τραvχηλοvς τε υJπο; τω'/ προσωvπω/ και; στεvρνα, και; ταυ'τα αjνθρωπικαv: µαζοι; δε; ηj/ρµεvνοι και; κατα; του' στηvθους εjφεστω'τες, ω\µοι δε; και; βραχιvονες και; πηvχεις, ε[τι δε; χειvρες και; […] στεvρνα εjς ιjξυvν, και; ταυ'τα αjνθρωπικαv: ρJαvχις δε; και; πλευραι; και; γαστη;ρ και; ποvδες οιJ κατοπ v ιν ον [ ω/ και ; µαλ v α εµ j φερη,' και ; τεφρωδ v ης κατ∆ εκ j ειν ' ον ηJ χροα v , τα; δε; υπ J ο; τας ; λαπαρ v ας ησ J υχη' λευκανθιζ v ει. αι J χειρ ' ες δε; τωδ /' ε τω/' ζωω v/ / διπλην ' παρεχ v ουσι χρεια v ν: εν [ θα µεν ; γαρ ; 270

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ταvχους δει ', προθεvουσι τω'ν οjπι vσ ω σκελω'ν, και ; τω'ν λοιπω'ν τετραποδv ων ουχ j ηJττα'ται τον ; δροµ v ον: δει ' δε; παλ v ιν η] αφ j ελειν ' τι η] καταθεσ v θαι η] συλλαβειν ' και; σφιγv ξαι, και; οιJ ποδv ες οιJ τεω v ς χειρ ' ες εγj εν v οντο, και ; ουj βαδιζ v ει, καθ v ηται δε.v βαρυθ v υµον δε; ισ j χυρως ' το; ζωο '/ ν v εσ j τιν. εα j ν ; γουν ' αλ J ω,/' δουλεια v ν µη; φερ v ον και ; της ' τεω v ς ελ j ευθερια v ς γλιχοµ v ενον τροφην ; απ j εσ v τραπται πασ ' αν, και ; απ j οθνησ v κει λιµω./' Πυθαγορ v ας λεγ v ει και ; ταυ' τα, ωσ { περ ουν \ τεκµηριοι' Κραvτης οJ εκ j του' Μυσιο v υ Περγαµ v ου». (Nat. Anim. 17, 9)

«Ma dell’animale di cui sto parlando queste sono le notizie che mi sono giunte all’orecchio: il suo viso somiglia a quello di un uomo e folti peli lo cingono. Al di sotto del viso, il collo e il petto sono anch’essi di forma umana; le mammelle sono sporgenti e collocate in mezzo al petto; le spalle, le braccia, i gomiti e, ancora, le mani […] il torace, fino ai lombi, ha anch’esso una forma simile a quella degli uomini; la schiena, i fianchi e le zampe posteriori sono molto simili a quelle di un asino; la pelle è di colore simile a quello della cenere, ma le parti che si trovano sotto i fianchi tendono leggermente al bianco. Le mani di questo animale possono essere usate in due modi: quando c’è bisogno di una corsa veloce, corrono in avanti rispetto alle zampe posteriori, cosa che rende questo animale non inferiore in velocità agli altri quadrupedi; quando poi ha bisogno di portare via qualche cosa o di metterla giù o di afferrarla e di stringerla, quelle che erano zampe si trasformano in mani; allora l’onocentauro non cammina più, ma si siede. Questo animale inoltre è molto irritabile; se viene catturato, dal momento che non sopporta la schiavitù ed agogna alla libertà di cui fino al momento della cattura aveva goduto, rifiuta ogni genere di cibo e si lascia morire di fame. Lo stesso Pitagora conferma queste notizie, proprio come testimonia Cratete di Pergamo nella Misia».

Nel fornire al lettore il morfotipo comportamentale particolareggiatissimo dell’animale (avallato dalla auctoritas di Cratete di Pergamo e da quella di Pitagora), Eliano in un certo senso lo stordisce, mettendogli finalmente davanti agli occhi la prova vivente dell’esistenza, se non del centauro, quanto meno dell’onocentauro (vale a dire di un animale analogo ai centauri, ma anche – per certi versi – al manticora). Per il resto, chi fosse convinto dell’argomento secondo il quale tutto ciò che è stato una volta esiste ed esisterà sempre (un argomento di origine peripatetica che Eliano sembra conoscere, anche se forse non riesce a ricostruirne la paternità: «και; ταυvτην ο{στις ει\δεν, ουjκ 67 αν ] ηπ j ισ v τησεν ο{τι και; Κενταυρ v ων φυλ ' α ην \ »), potrebbe facilmente fare 67. Tale argomento è esplicitamente espresso, come si è più volte ricordato in nota, da Palefato nel Perì apiston (praef. Festa). Sulla vicinanza di questo autore al Peripato cfr. Blumenthal (von) 1942, cc. 2449 sgg.; Fornaro 2000, cc. 163 sgg. e Mayor 2000, pp. 221 sg. e 239 sgg.

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un ragionamento inverso: se c’è l’onocentauro adesso, vuol dire che c’è sempre stato. Eliano dunque, nel recensire in maniera apparentemente confusa e caotica (nonché cifrata e implicita) i diversi approcci possibili sulla koinogonia mostruosa (quello di Empedocle, ma anche – forse – quello di Palefato e quello scettico), in qualche modo li amalgama fra loro e, sulla base della prova vivente della bestia prodigiosa (sull’esistenza della quale non si nutre alcun dubbio), finisce indirettamente con lo sferzare un feroce colpo all’assunto aristotelico secondo il quale è impossibile che dalla somma aritmetica di due nature venga fuori una sola anima.68 Ne consegue che, benché si dichiari esplicitamente di sospendere il giudizio, in realtà, sulla base dell’argomento dell’uniformità diacronica della natura, viene avallato il sospetto che i centauri (e dunque tutti gli altri ibridi mostruosi) potrebbero essere veramente esistiti e che, di conseguenza, possano in qualche modo continuare ad esistere. Ecco dunque che l’onocentauro diventa potenzialmente uno strumento argomentativo che permette di fatto ad Eliano di prendere posizione nel dibattito sull’esistenza degli ibridi della mitologia: il “presente” della paradossografia è infatti diventato, implicitamente, un mezzo analogico per costruire un modello ipotetico di lettura dei misteri del passato. Non è un caso del resto che i capitoli nei quali vengono menzionate (o meglio “vengono distorte”) le teorie di Empedocle siano collocati negli ultimi due libri dell’opera, ovvero nella sezione del De natura animalium in cui più alta è la concentrazione di notizie relative ad esseri meravigliosi e “semi-proposizionali”, l’esistenza dei quali è garantita unicamente dall’aleatorietà del “si dice” o dalla traballante (per noi!) autorità degli indografi, dei paradossografi e degli storiografi in generale. Gli esseri che popolano il libro XVI e il libro XVII sono spesso esseri ipotetici, dei quali Eliano stesso segnala in un modo o nell’altro la problematicità. Il cercione, il kela, i mostri dell’isola di Taprobane, il cartazono, i granchi giganti sono tutti animali che vivono nella zona d’ombra del sapere zoologico;69 lontano dagli sguardi dei Greci e dei Romani, la loro esistenza viene alimentata unicamente dall’universo di comunicazione costruito a partire dalle opere degli auctores che ne parlano e dalla rete delle dicerie. Eliano, certo, talvolta dà segno di non credere alle informazioni delle quali è in possesso e tuttavia ritiene opportuno riferirle; non crede, ad esempio, che Eudosso abbia davvero visto uccelli più grossi di un bue volare al di là delle colonne d’Ercole, eppure si sente in dovere di segnalare al lettore questa notizia perché egli possa a sua volta commentarla («και; ο{τι µε;ν ουj πειvθει µε 68. A tale proposito cfr. pp. 160 sgg. 69. Cfr. Nat. Anim. 16, 3; 16, 4; 16, 18; 16, 20; 17, 1.

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οJ λεvγ ων, η[δη ει\πον: α} δ∆ου\ν η[κουσα, ουjκ εjσιvγ ησα»: «che questi racconti non mi convincano del resto l’ho già detto: tuttavia non voglio passare sotto silenzio le notizie che sono giunte al mio orecchio», Nat. Anim. 17, 14). Per il resto la sensazione che sembra voler lasciare lo scrittore in chi legge è quella che stia fornendo implicitamente, e in maniera strisciante, un argomento statistico: non è possibile che nessuno degli esseri mirabolanti che vengono menzionati nel corso del De natura animalium non esista; non tutti possono essere frutto di quella fantasia più malleabile della cera di cui si era parlato in 17, 9. Il numero esorbitante di bestie che vivono nella zona d’ombra sembra dunque voler cingere di un assedio sempre più stringente e soffocante la cittadella dello scetticismo. E dunque se esiste l’onocentauro, per quale motivo non dovrebbero mai essere esistiti i centauri o le neadi?70 E se sono esistite le neadi o i centauri, perché non si dovrebbe credere a Ctesia che afferma di aver visto un esemplare di manticora nel palazzo degli Achemenidi quando per di più è la natura stessa, agli occhi di Eliano, a disattendere le proprie leggi? «και; µενv τοι και; τετρακ v ερω προβ v ατα εν j τω/' του' ∆ιος; του' Πολιεω v ς ην \

και; τρικ v ερω. εγ j ω; δε; και ; πενταπ v οδα βουν ' ιεJ ρον ; εθ j εασαµ v ην, αν j αθ v ηµα τω/' θεω/' τωδ/' ε εν j τη/' πολ v ει τη/' ∆Αλεξανδρεω v ν τη/' µεγαλ v η,/ εν j τω/' αδ/j οµεν v ω/ του' θεου' α[λσει, ε[νθα περσεvαι συvµφυτοι σκια;ν περικαλλη' και ; ψυ'ξιν αjπεδειvκνυντο. και; η\ν µοvσχος εjνταυ'θα τη;ν χροvαν κηρω'/ προσεικασµεν v ος, και ; επ j ι ; του' ωµ [ ου ποδ v α απ j ηρτηµεν v ον ειχ [ ε περιε v ργον µεν ; οσ { α επ j ιβην ' αι, τελ v ειον δε; οσ { α ες j πλασ v ιν. και ; ταυ' τα µεν ; δοκει' τη/' φυσ v ει οµ J ολογειν ' ουj παν v υ τι, εγ j ω; δε; οσ { α ες j εµ j ην ; οψ [ ιν τε και ; ακ j οην ; αφ j ικ v ετο ειπ [ ον». (Nat. Anim. 11, 40)

«C’erano anche pecore con quattro o tre corna nel tempio di Zeus Protettore della città. Io stesso ho visto un bue sacro con cinque zampe, offerto in voto a quella divinità, nella grande città di Alessandria, nel famoso bosco del dio, dove ci sono alberi di persea che, fitti, fanno frescura con la loro ombra soave. C’era qui un vitello dal colore simile a quello della cera che aveva attaccata una zampa a una spalla, una zampa che di certo risultava essere in più per camminare, ma perfettamente formata. Non sembra affatto che tali fenomeni possano accordarsi con le normali tendenze della natura; io, da parte mia, ho solo voluto riferire ciò che ha colpito i miei occhi e che è giunto alle mie orecchie».

Quelle che per Aristotele erano tendenze statisticamente valide diventano adesso per Eliano norme ideali e divine. Nello stesso tem70. Cfr. Nat. Anim. 17, 28. Per gli avvistamenti dei centauri nell’antichità (cfr. anche Plin. Nat. Hist. 7, 35) cfr. Mayor 2000, pp. 241 sgg.

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po il τεvρας che Aristotele aveva svincolato dall’ambito del sacro ritorna prepotentemente ad essere un’entità religiosa.71 È per questo che la vista di mostri come il vitello a cinque zampe fa allibire Eliano e, al contempo, sembra anche funzionare come prova dell’esistenza di ciò che non è immediatamente visibile. Da qui la necessità di riferire tutte le notizie che si sono apprese da altri autori, anche le più incredibili. Lo sgomento di Eliano nel riferire di avere visto i frutti di parti mostruosi (che per Aristotele erano perfettamente spiegabili in termini razionali) potrebbe in questo senso essere la spia di una confusione di fondo che animerebbe tutto il De natura animalium e che impedirebbe di distinguere le anomalie della riproduzione (il vitello con la zampa sulla spalla) dagli speciemi-generici insoliti ed esotici (il manticora e gli onocentauri). Se così fosse, ogni animale “poco familiare” verrebbe ad assumere lo status dell’essere portentoso ed inspiegabile (in altri termini del “miracolo”) da collocare al di fuori di tutte le leggi di natura, ma, nello stesso tempo, sarebbe anche equiparabile ai “normali” freaks of nature che ai tempi di Eliano era possibile vedere nei templi e nei luoghi pubblici.72 Il manticora, in questo senso, diventerebbe una sorta di ente possibile-impossibile di un mondo incerto ed oscuro in cui le stesse categorie ontologiche ed epistemologiche risultano, come si è visto nel capitolo precedente, ibridate e confuse.73 In tal modo sarebbe forse possibile spiegare il diverso tono delle due sezioni della descrizione di 4, 21: Eliano è fortemente attratto dall’alone di mistero e di fascino innaturale che avvolge la belva e per di più può avvalersi (sempre che egli stesso in 11, 40 dica la verità)74 di alcune esperienze autottiche facilmente atte a rendere maggiormente credibile un essere così poco 71. Cfr. a questo proposito n. 38, p. 31. Bisogna peraltro ricordare che per Eliano la divinità (oltre che la “natura” dei filosofi) era una delle principali cause di cambiamento che operavano nel mondo fisico. A questo proposito cfr. French 1994, pp. 266 sgg. (che cita i seguenti passi di Eliano: 4, 42; 13, 21 e 16, 9). 72. Cfr. cap. 3, p. 204. 73. Sul concetto di “mondo possibile” cfr. Eco 1990, pp. 204 sgg.: «i mondi narrativi sono incompleti e semanticamente non omogenei: sono mondi handicappati e piccoli». Questa definizione, che l’autore riprende da L. Dolezˇel, Possible Worlds and Literary Fiction, in S. Allen (ed.), Possible Worlds in Humanities, Arts and Sciences, De Gruyter, Berlin 1989, pp. 233 sgg., viene data per i mondi narrativi creati dalle opere letterarie, ma a ben guardare potrebbe andare bene per l’universo di realtà di cui avevano esperienza i Greci e i Romani, la cui rappresentazione dell’oikoumene risultava sempre più sgranata a mano a mano che ci si allontanava dal centro e ci si avvicinava alle eschatiai. 74. Come è noto, uno dei problemi principali per chiunque voglia ricostruire la biografia di Eliano è quello dei suoi viaggi. Filostrato infatti diceva che Eliano non si era mai spostato dall’Italia (Vitae Soph. 2, 624 sgg.). Particolare, questo, che è però visibilmente in conflitto proprio con quanto detto in 11, 40 (a questo proposito cfr. Wilson 1997, p. 5).

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usuale come il manticora. Tuttavia, nello stesso tempo, egli sembra essere consapevole del fatto che gli argomenti fornitigli dai freaks of nature o dagli onocentauri sono insufficienti: la statistica dice che alcuni animali sono “possibili”, ma non può certo dire quali. Ecco dunque che il “buon senso epistemologico” non può trasformarsi né in rigetto totale né in atto di fede e diventa, alla lettera, un blocco. Alla fine, per quanto riguarda il problema del manticora, ad Eliano non rimane che affidarsi a Ctesia per cavarsi di impaccio. E dunque «τω'/ συγγραφει' τω'/ Κνιδιvω/ προσεχεvτω».

2.

Dal manticora alla tigre: la razionalizzazione di Pausania

2.1 Caccia alla tigre? Del manticora dunque si raccontava. Eppure non si poteva raccontare di più di quello che avevano detto Ctesia o, ad esempio, Eliano; si diceva – sembra – che il manticora fosse capace di assalire persino gruppi di uomini, eppure – è facile immaginarlo – né Plinio né Eliano (né probabilmente lo stesso Ctesia) avrebbero mai potuto raccontare le storie degli uomini morti a causa della bestia antropofaga. Nessuna cronaca locale, nessun cippo funerario delle province asiatiche aveva mai attestato una sola morte di manticora. Che fosse davvero tutta un’invenzione di Ctesia? Il medico di Cnido – è vero – sembrava spararle grosse,75 ma in fondo era pur sempre un greco e assieme a scrittori come Erodoto, Megastene e Nearco faceva parte in qualche modo di quella che nel II sec. d.C. doveva essere sentita come la “cultura nazionale”.76 È forse per questo motivo che uno scrittore attaccato alla tradizione storiografica antica come Pausania è arrivato ad un’ipotesi che probabilmente sarebbe suonata come singolare alle orecchie di Aristotele, ma che molta fortuna ha avuto nei commentatori contemporanei: «Riguardo al manticora, Ctesia non si è inventato tutto, ma ha sbagliato a fidarsi della testimonianza degli insiders»:77 75. Per i testimonia di Ctesia cfr. pp. 55 sgg. 76. Sul culto della “cultura nazionale” in Pausania cfr. Musti 1982, p. XXIII. Per le digressioni sulle eschatiai nella seconda sofistica in genere cfr. Del Corno 19882, pp. 23 sgg.: «[…] il recupero mitologico significa la riconquista di un passato, in cui la Grecia investiva della propria creatività l’universo e le sue forze, la vita umana, le stesse gesta che l’avevano condotta alla consapevolezza di una nazione. Di questi momenti nativi l’esotismo e l’erudizione sono certo una forma degenere; ma sono anche un compenso all’impotenza. Essi offrono una risposta gratificante a quel desiderio di evasione, che è così caratteristico agli ambienti greci in quest’epoca […]». 77. Questa interpretazione, come si è visto, ha avuto molta fortuna anche presso i commentatori contemporanei (cfr. ad es. Steier 1936, c. 948; Louis 1964, ad. Arist. Hist. Anim. 2, 1, 501 a 24 sgg.; Martucci 1997, pp. 46 sg.; Bodson 1998, p. 178).

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«θηριvον δε; εjν τω'/ Κτησιvου λοvγ ω'/ τω'/ εjς ∆Ινδου;ς – µαρτιχοvρα υJπο; τω'ν ∆Ινδω'ν, υJπο; δε; ÔΕλλη vνων φησι ;ν αjνδροφαvγ ον λελεvχθαι – ει \ναι

πειvθοµαι το;ν τιvγ ριν: οjδοvντας δε; αυjτο; τριστοιvχους καθ∆ εJκατεvραν τη;ν γεvνυν και; κεvντρα εjπι; α[κρας εχ [ ειν της ' ουρ j ας ' , τουvτοις δε; τοις ' κεν v τροις εγ j γυθ v εν αµ j υν v εσθαι και; απ j οπεµ v πειν ες j τους; πορρωτερ v ω τοξοvτου αν j δρος ; οιj στω/' ισ [ ον, ταυvτην ουκ j αλ j ηθη' την ; φηµ v ην οιJ ∆Ινδοι; δεξv ασθαι δοκουσ ' ιv µοι παρ∆ αλ j ληλ v ων υπ J ο; του' αγ [ αν ες j το; θηριο v ν δειµ v ατος. ηπ j ατηθ v ησαν δε; και; ες j την ; χροα v ν αυjτου,' και; οπ J οvτε κατα; του' ηλ J ιο v υ φανειv η σφισ v ιν οJ τιγ v ρις την ; αυγj ην v , ερ j υθρος v τ∆ εδj οκ v ει και; v ι – δια; το; εν j ταις' οµ J οχ v ρους η] υπ J ο; της ' ωκ j υvτητος η] – ειj µη; θεο επ j ιστροφαις ' συνεχες v , αλ [ λως τε και ; ουκ j εγj γυθ v εν γινοµεν v ης της ' θεα v ς». (Paus. 9, 21, 4)

«Sono propenso a credere che la bestia che descrive Ctesia nei suoi Indikà – dice che viene chiamata µαρτιχοvρα dagli Indiani, e che invece i Greci la chiamano αjνδροφαvγ ον – sia in realtà una tigre. Ctesia dice che questo animale ha una triplice fila di denti in ogni mascella e aculei, sulla punta della coda, con i quali si difende combattendo da vicino e che scaglia contro chi la insegue da lontano come se fossero frecce lanciate da un arciere. Penso che tutto questo sia falso e ritengo che gli Indiani prestino fede a queste dicerie, e che le facciano circolare fra di loro, soltanto perché hanno una paura eccessiva dell’animale. Gli Indiani cadono nell’errore anche per quanto riguarda il colore della bestia. Infatti, ogni qual volta la tigre appare loro alla luce del sole, essa dà l’impressione che il suo manto sia di un rosso uniforme o a causa della velocità o, qualora non dovesse correre, per il suo continuo girarsi e rigirarsi su se stessa, specialmente quando non la si guarda da vicino».

Pausania è dunque disposto a credere che Ctesia abbia mentito in buona fede: il manticora esiste, ma non sarebbe nient’altro che una tigre. Ctesia dunque non aveva detto il falso ma aveva attribuito tratti pseude ad un essere effettivamente esistente. Come era potuto succedere tutto questo? Pausania a modo suo trova una spiegazione “epidemiologica”. Il δει'µα, il timore che la tigre suscitava negli abitanti dell’India, aveva spinto questi ultimi ad esagerare iperbolicamente i tratti perturbanti della belva e a diffondere, quasi per contagio, le notizie errate relative ad essi. Alla paura degli Indiani si aggiungevano poi le caratteristiche oggettive della belva. La tigre è velocissima – così sostiene Pausania – e proprio per questo risulta difficile capire bene quale sia il colore del suo manto; quando anche poi non dovesse correre, essa continua a girarsi freneticamente su se stessa, rendendo così impossibile uno studio più approfondito delle sue caratteristiche. Insomma, a quanto sembra gli Indiani (e ovviamente i Persiani) non ne sapevano molto né di tigri né di manticora e Ctesia avrebbe avuto il torto di essersi fidato di informatori così poco precisi (e così spaventati!) co276

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me loro e, di conseguenza, di essere stato “contagiato” da una credenza fondata su banalissimi errori percettivi. Pausania dunque razionalizza. Ma la sua razionalizzazione – bisogna riconoscerlo – risulta essere per lo meno strana. Lo scrittore greco riduce il manticora ad un onoma, ad un mero significante che rimanda ad un contenuto vuoto, eppure dalla sua descrizione per lo meno fantasiosa del movimento frenetico e continuo della tigre che non corre, risulta evidente quanto scarsa dovesse essere la sua familiarità con l’animale.78 La tigre cominciava ad essere – è vero – un animale da circo,79 ma il sapere enciclopedico relativo ad essa, esattamente come era nel caso del manticora, per lungo tempo dovette essere una sorta di puzzle incomprensibile e affascinante, un insieme di notizie leggendarie ricavate dalle citazioni di indografi i quali, peraltro, si trovavano spesso ad usare informazioni di seconda mano. Nearco, ad esempio, stando a quanto ci riferisce Arriano (Ind. 15, 1-3), riferiva di avere visto la pelle dell’animale, ma mai una tigre in carne e ossa. Ancora nel III sec. a.C., inoltre, la notizia della presenza di una tigre ad Atene doveva destare un enorme scalpore.80 Insomma, le informazioni che circolavano intorno ad un animale che i nostri documentari televisivi ci rappresentano come vivo (o tutt’al più come moribondo e in via di estinzione) dovevano essere avvertite come non meno fantasiose e curiose di quelle relative ad unicorni, catoblepa e tori carnivori. Le tigri, nell’enciclopedia esotica costruita dalla storiografia greca, avevano una forza superiore a quella di qualsiasi altro animale e, come il manticora, erano velocissime; le loro dimensioni erano inoltre superiori a quelle del più grande cavallo.81 Per di più gli ∆Ινδικοι; λοvγ οι riferivano che queste belve pericolosissime venivano fatte accoppiare dagli Indiani con delle cagne di razza al fine di produrre una specie assai particolare di canidi; così almeno ci raccontava, fra gli altri, Eliano (nel II sec. d.C.!):82 78. Cfr. Arr. Ind. 15, 1-3, ove si dice che quelle che i Greci chiamavano tigri erano probabilmente sciacalli (non è da escludere che Arriano confonda le tigri con i famosi ibridi indiani di tigre e di cane). 79. Cfr. ad es. Plin. Nat. Hist. 8, 65 (per cui vd. E. Giannarelli in Conte 1983, n. 2, p. 185). 80. Per la donazione di un esemplare di tigre agli Ateniesi cfr. Philemon Fr. 49 K.-A. (Ath. 13, 57 Kaibel), il quale fa dire nella commedia Neaira, ad un personaggio : «una tigre che noi, proprio noi, abbiamo visto». Cfr. anche Alexis fr. 207 K.-A. (Ath. 13, 57 Kaibel). Su questi passi e sulle ipotesi accampate riguardo al motivo del dono del sovrano ellenistico cfr. Bodson 1998, pp. 155 sgg. 81. Cfr. Arr. Ind. 15, 1. 82. Cfr. Ctesia (FrGrHist 688 F. 45, 10 ); Hdt. 1, 192, 4 ; Xen. Cyn. 10, 1; Aristot. Hist. Anim. 8, 28, 607 a 4 sgg.; Grat. Cyneg. 161 sgg.; Plin. Nat. Hist. 8, 147-150; Diod. 17, 92, 1 sg.; Strab. 15, 1, 31; Plut. Soll. Anim. 970 F 4 sgg.; Ael. Nat. Anim. 8, 1; 4, 19. Sulla tigre nel mondo antico cfr. Bodson 1998, pp. 151 sgg.

Capitolo 4. Fine delle trasmissioni: Eliano, Pausania, Filostrato, Eusebio…

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«ου|τοι δε; α[ρα οιJ κυvνες, οι|ς παvρεστι πατεvρα αυjχει'ν τιvγ ριν, ε[λαφον

µε;ν θηρα'σαι η] συι; συµπεσει'ν αjτιµαvζουσι, χαιvρουσι δε; εjπι; του;ς λεο v ντας α[/ττοντες και; τους ; αν [ ω του' γεν v ους απ j οδεικνυν v τες εν j τευθ ' εν». (Nat. Anim. 8, 1)

«Questi cani, che possono vantarsi di avere come padre una tigre, disdegnano di andare a cacciare i cervi o di piombare sui cinghiali: quello che li esalta invece è azzuffarsi con i leoni perché è così che possono provare la nobiltà della loro razza».

Stando a queste informazioni, gli ibridi prodotti dal favoloso incrocio dovevano avere la forza della tigre e l’ostinazione e la pervicacia dei cani, fino al punto che, quando piombavano su un leone, non mollavano la presa neanche se venivano loro recisi tutti gli arti. Il primo uomo greco ad avere provato la “veridicità” di questa notizia era stato Alessandro, favoloso testimone di favolose meraviglie,83 che con i suoi occhi poté assistere, stando a quanto ci dice Eliano (Nat. Anim. 8, 1), allo strabiliante spettacolo di uno di questi esseri le cui zanne, anche dopo essere stato decapitato, rimasero attaccate al corpo del leone. Come si vede, dunque, anche nel periodo in cui scriveva Pausania (e cioè probabilmente qualche anno prima che Eliano mettesse mano al De natura animalium)84 lo stato delle “conoscenze” relative alla tigre non doveva essere poi mutato di molto. Ebbene, stando così le cose, perché mai Pausania avrebbe sentito l’esigenza di “uccidere” un animale come il manticora? Le risposte, come vedremo nei prossimi paragrafi, vanno cercate nei tratti della tigre e del manticora, così come nel progetto che regge l’intera opera di Pausania. 2.2 Caccia alla tigre! Prima che fosse un animale protetto o un sogno enciclopedico di Borges, prima che l’uomo diventasse “mangiatore di tigri”,85 in India (nell’India del nostro sapere geografico), le battute di caccia alla tigre venivano fatte a dorso di elefante. Le modalità di caccia più o meno corrispondono a quelle raccontateci da Fozio a proposito del manticora: 83. Il nome di Alessandro Magno, dopo la sua spedizione in India, diventa una sorta di marca di enunciazione volta quasi sempre a legittimare la “credibilità” delle notizie più mirabolanti. A proposito del viaggio in India di Alessandro e dell’influenza che questo evento ebbe sulla produzione paradossografica e sulle opere degli indografi posteriori cfr. Romm 1992, pp. 93 sgg. 84. Per la cronologia dell’opera di Pausania cfr. Musti 1982, pp. XI sgg. 85. Per reperire i dati sull’estinzione delle tigri è possibile consultare sul web il sito italiano del WWF al seguente indirizzo: http://www.netlab.it/wwf.na/storia/storia2.html.

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«ε[στι δε; πολλα; εjν τη'/ ∆Ινδικη'/. αjποκτειvνουσι δε; αυjτα; τοι'ς εjλεvφασιν εjποχουvµενοι α[νθρωποι καjκει'θεν βαvλλοντες». (FrGrHist 688 F. 45, 15: Phot. Bibl. 46 a 10-12 Henry)

«In India i manticora sono molto diffusi: gli uomini li cacciano a dorso di elefante e li uccidono bersagliandoli dall’alto».

La curiosa corrispondenza aveva già colpito il curatore della voce “Tiger” della Pauly-Wissowa (Steier 1936, c. 948), il quale concludeva, seguendo la pista di Pausania, che il manticora di Ctesia altro non era che il famoso felino striato dell’India. Ora, la soluzione di Steier certo non è inverosimile, ma per certi versi, ai nostri occhi, essa è senza dubbio poco interessante. Usare Pausania come unico interprete degno di fede nei confronti del “reale referente della rappresentazione”, infatti, significa in un certo senso non riconoscere la specificità di tutti gli altri interpretanti che, in un modo o nell’altro, hanno costruito e trasmesso la propria versione del manticora. Di più, porsi come unico problema quello di capire cosa c’è veramente dietro il manticora, significa non sforzarsi di comprendere le specificità della stessa versione di Pausania. Ebbene, a mio avviso non è tanto interessante scoprire che animale fosse realmente il manticora, quanto cercare di comprendere in base a quale “progetto culturale” Pausania avrebbe operato la riduzione dal manticora alla tigre. In altri termini, si tratta di capire semplicemente che quella di Pausania è soltanto una delle tante versioni della rappresentazione e che si colloca all’interno della catena (o della “raggiera”) epidemiologica secondo modalità psicologiche ed ambientali ad essa del tutto specifiche. Innanzitutto bisogna rendersi conto del fatto che la caccia alla tigre a dorso di elefante potrebbe essere un particolare significativo soltanto per noi e non per Pausania, dal momento che nessuno degli autori antichi a noi pervenuti ci informa di un uso simile presso gli Indiani. Che gli Indiani andassero a caccia di tigri era una cosa abbastanza nota, ma riguardo alle modalità da essi seguite per la cattura dovevano circolare notizie per lo più confuse, se non del tutto fantasiose.86 Si veda, ad esempio, il seguente passo di Plinio il Vecchio: «Tigrim Hyrcani et Indi ferunt, animal velocitatis tremendae et maxime cognitae, dum capitur totus eius fetus, qui semper numerosus est. Ab insidiante rapitur equo quam maxime pernici atque in recentes subinde transfertur. At ubi vacuum cubile reperit feta – maribus enim subolis cura non est –, fertur praeceps odore vestigans. Raptor 86. Cfr. Plin. Nat. Hist. 6, 91. Oltre a questo passo cfr. anche Sol. 15, 11; 17, 4; 27, 16; 53, 19; Mart. Cap. 6, 698; Ael. Nat. Anim. 15, 14; Curt. 9, 8, 2; Amm. Marc. Chron. 23, 6, 50. Per altri loci cfr. il già citato Steier 1936, cc. 949 sgg.

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adpropinquante fremitu abicit unum ex catulis; tollit illa morsu et pondere etiam ocior acta remeat iterumque consequitur ac subinde, donec in navem regresso inrita feritas saevit in litore». (Nat. Hist. 8, 66)

«Dall’India e dall’Ircania proviene la tigre, animale dalla velocità terribile della quale si può fare prova soprattutto quando le vengono sottratti tutti i cuccioli che ha generato, che sono sempre numerosi. Il cacciatore sottrae di soppiatto i piccoli avvalendosi di un cavallo il più possibile veloce e poi trasferendoli su cavalli freschi. Ma quando la tigre femmina, che ha appena partorito, trova vuoto il giaciglio – i maschi della tigre non si curano affatto dei propri figli –, si precipita a capofitto seguendo le tracce con l’olfatto. Il rapitore, dal canto suo, non appena avverte il ruggito della tigre che si avvicina, getta giù uno dei cuccioli; quella allora lo solleva prendendolo per i denti e, come se il peso la rendesse più veloce, ripercorre il suo cammino fino alla tana e quindi torna di nuovo all’inseguimento; e così di seguito, finché l’uomo ritorna sulla nave e la belva invano infuria in riva al mare».

Di questo racconto, inoltre, ben presto dovette cominciare a circolare una versione ancor più fantasiosa secondo la quale, anziché gettare volta per volta un cucciolo, il cacciatore in fuga mostrava, alla madre che lo inseguiva, uno specchio grazie al quale la belva finiva per scappare in preda al terrore causato dalla sua stessa immagine riflessa.87 Se poi guardiamo alcuni morfotipi comportamentali della tigre e del manticora che dovevano circolare nell’antichità, ci accorgiamo che, per quanto riguarda la descrizione dei comportamenti interspecifici, c’è da segnalare un’incongruenza quanto mai strana. Il manticora, secondo il riassunto di Fozio e la versione di Eliano, riesce ad avere la meglio su tutti gli animali tranne che sull’elefante, mentre la tigre, stando a quanto dicono gli stessi Indiani, è “πολλοvν τι αjλκιµωτεvρην” («molto più forte») rispetto all’elefante:88 «τιvγ ριν γα;ρ εjπεα;ν οJµου' ε[λθη/ εjλεvφαντι, εjπιπηδα'ν τε εjπι; τη;ν κεφαλη;ν του' εjλεvφαντος και; α[γ χειν ευjπετεvως». (Arr. Ind. 15, 2)

«Quando infatti la tigre è alle prese con un elefante, con un balzo gli si attacca alla testa e lo strangola con facilità». 87. Per altre versioni della caccia alla tigre cfr. Pomp. Mela 3, 43; Sol. 17, 4-6; Philostr. Ap. 2, 14; Val. Flacc. 6, 148 sgg.; Sen. Med. 863 sgg.; Martial. 3, 44, 6; Stat. Theb. 4, 315 sgg.; 10, 820 sg.; silv. 2, 1, 8. Per la versione dello specchio cfr. Claud. Rapt. Pros. 3, 263 sgg.; Timoth. Gaz. excerpta ex libris de animalibus 9. Questa versione ebbe particolare fortuna nei bestiari medievali (cfr. Richart de Fornival, Bestiaire d’amours, in Morini 1996, p. 388; Bestiario Moralizzato, XVI in Morini 1996, p. 501). 88. Arr. Ind. 15, 1 e 2.

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A leggere bene le notizie che circolavano sulle due fiere indiane, dunque, si deve pensare che la caccia alla tigre a dorso di elefante doveva sembrare, ad un greco, se non impossibile, quanto meno estremamente pericolosa, al contrario invece di quanto accadeva per il manticora. Il sapere enciclopedico relativo ai due animali, come si vede, presentava alcune differenze vistose; e dunque, stando così le cose, perché mai Pausania sarebbe giunto ad identificare la tigre con il manticora? Bisogna dire che in realtà i morfotipi delle due belve non erano del tutto divergenti. Se rileggiamo la versione di Pausania, ci accorgiamo che molti tratti della belva vengono taciuti (non si parla, ad esempio, del verso caratteristico del manticora, né della perturbante somiglianza del suo rostro con il prosopon umano), ma c’è almeno una marca di descrizione comune che viene fortemente amplificata dall’autore della Periegesi. Innanzitutto i due animali sono entrambi attestati in India e poi entrambi vengono caratterizzati dalla tradizione come esseri tremendae velocitatis (cfr., solo per fare un esempio, Plin. Nat. Hist. 8, 66). Ebbene, Pausania si concentra su questo unico tratto e lo usa, assieme al deima ingiustificato, come mezzo per spiegare gli errori percettivi degli Indiani. Ecco dunque che il manticora viene normalizzato e anestetizzato; dell’animale viene fornita una nuova versione che annulla tutti i tratti sans contrepartie che erano stati tramandati (quasi) meccanicamente dalla tradizione. Il manticora, in altri termini viene “ucciso”. Verrebbe da parlare, usando stereotipi in voga qualche tempo fa, del trionfo dello spirito critico e della vittoria della “razionalità greca”, ma purtroppo le cose non sono così semplici. Pausania, infatti, non solo non rende conto di alcuni tratti apparentemente inspiegabili (non risulta, ad esempio, che la tigre avesse il viso umano o la voce di flauto e di tromba, ma l’autore della Periegesi non si cura di sciogliere queste incongruenze), e per di più, mentre non è disposto a credere al manticora, crede al tritone (che asserisce di avere visto con i propri occhi)89 e ai serpenti alati (di cui ha soltanto sentito parlare): «δοκω' δεv, ειj και; Λιβυvης τις η] τη'ς ∆Ινδω'ν η] ∆Αραvβων γη'ς εjπεvρχοιτο

τα; ε[σχατα εjθεvλων θηριvα οJποvσα παρ∆ Ελλεσιν { εjξευρει'ν, τα; µε;ν ουjδε; αjρχη;ν αυjτο;ν ευJρηvσειν, τα; δε; ουj κατα; ταυjτα; ε[χειν φανει'σθαιv οιJ: ουj γα;ρ δη; α[νθρωπος µοvνον οJµου' τω'/ αjεvρι και; τη'/ γη'/ διαφοvροις ου\σι διαvφορον κτα'ται και; το; ει\δος, αjλλα; και; τα; λοιπα; το; αυjτο; α]ν παvσχοι του'το, εjπει; και; τα; θηριvα αιJ αjσπιvδες του'το µε;ν ε[χουσιν αιJ Λιvβυσσαι παρα; τα;ς Αιjγ υπτιvας τη;ν χροvαν, του'το δε; εjν Αιjθιοπιvα/ µελαιvνας τα;ς αjσπιvδας ουj µει'ον η] και; του;ς αjνθρωvπους ηJ γη' τρεvφει. ου{τω χρη; παvντα τινα; µηvτε εjπιvδροµον τη;ν γνωvµην µηvτε αjπιvστως ε[χειν εjς τα; σπανιωvτερα. εjπει; τοι και; εjγ ω; πτερωτου;ς ο[φεις ουj θεασαvµενος

89. Cfr. Paus. 9, 20, 4.

Capitolo 4. Fine delle trasmissioni: Eliano, Pausania, Filostrato, Eusebio…

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πειvθοµαι: πειvθοµαι δε; ο{τι αjνη;ρ Φρυ;ξ η[γ αγεν εjς ∆Ιωνιvαν σκορπιvον ται'ς αjκριvσιν οJµοιοvτατα πτερα; ε[χοντα». (Paus. 9, 21, 5-6)

«D’altro canto io penso che se uno volesse attraversare le zone più lontane della Libia, dell’India o dell’Arabia, alla ricerca degli stessi animali che è possibile trovare in Grecia, alcuni non li troverebbe affatto, altri invece avrebbero un aspetto del tutto differente, dal momento che l’uomo non è l’unico essere che muta il suo aspetto con il mutare del clima e della zona. Gli altri esseri viventi, infatti, si comportano allo stesso modo. Ad esempio, l’aspide libico, se paragonato a quello egiziano, ha un colore diverso, mentre in Etiopia ci sono aspidi di colore nero, esattamente come accade per gli uomini. Pertanto, per quanto riguarda gli animali rari, non bisognerebbe dare giudizi affrettati né d’altro canto bisognerebbe subito rigettare le notizie che ci giungono come false. Io, ad esempio, pur non avendone mai visto uno, credo che i serpenti alati esistano. Credo inoltre che sia vera quella notizia che riferisce di un uomo frigio che portò in Ionia alcuni scorpioni che avevano ali in tutto simili a quelle delle locuste».

Questo passo è immediatamente successivo a quello in cui viene operata la riduzione razionalizzante dal manticora alla tigre. Pausania fornisce qui una sua versione della ben nota teoria del determinismo ambientale, ma il fatto che questa esposizione venga collocata proprio in questo punto sembra per lo meno in forte contrasto con quanto detto nel paragrafo immediatamente precedente. Nel momento stesso in cui si spiega che la macchina dei climi può permettere la più estrema varietà zoologica, infatti, viene esplicitamente negata l’esistenza di un essere così vario come il manticora di Ctesia. Ebbene, come è possibile spiegare una tale aporia? Si potrebbe ipotizzare, tanto per cominciare, che la contraddizione sia soltanto apparente. Come si è già visto sopra, del resto, ridurre il manticora alla tigre non significava ridurre un essere strano ed insolito ad un essere ben noto, comune e familiare (come la tigre dei nostri documentari, per intenderci). Certo, a partire dal I secolo d.C. se ne cominciavano a vedere alcuni esemplari nei circhi, ma della tigre, almeno fino al II secolo, se ne doveva sapere ancora molto poco in termini di contenuto molare, visto che alcune credenze che circolavano intorno ad essa erano del tutto fantastiche. In questo senso si potrebbe dunque ipotizzare che l’esposizione delle teorie climatiche sia da intendere non come in contrasto rispetto a quanto detto nel paragrafo precedente riguardo all’inesistenza del manticora (9, 21, 4), bensì come una sorta di argomentazione pseudoscientifica il cui intento era quello di rafforzare ulteriormente la credenza relativa ad un animale altrettanto fantasioso, strano e variopinto qua282

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le era la tigre. Il ragionamento di Pausania, in questi termini, suonerebbe pressappoco così: «se è ammissibile l’esistenza dei serpenti e degli scorpioni alati, non si capisce perché non si debba dare il proprio assenso relativamente alla presenza in India della tigre-manticora». Si deve però notare che l’argomento climatico sembra qui inserito al fine di illustrare la possibilità dell’esistenza di differenti folk-specifics per uno stesso speciema generico;90 in altri termini, la spiegazione addotta da Pausania sarebbe pressappoco questa: «se esistono i serpenti e gli scorpioni in Grecia ed esiste il determinismo climatico, allora è ovvio che in alcune parti del mondo i serpenti e gli scorpioni potrebbero anche avere le ali». Questo ragionamento non spiega affatto i motivi per i quali la tigre-manticora dell’India potrebbe essere ammessa in natura, visto che di essa non esiste un equivalente folkspecific greco. A meno che non si intenda dire – questa potrebbe essere una seconda ipotesi possibile – che il manticora di cui aveva parlato Ctesia, altro non era che un differente folk-specific della più comune tigre indiana. Sciogliere il dilemma è difficile, e in fondo poi nessuno ci dice che Pausania non potesse talvolta incorrere in contraddizioni come quella appena segnalata. In fondo, l’autore della Periegesi della Grecia, potrebbe semplicemente avere affiancato i due passi (9, 21, 4 e 9, 21, 5) per una mera associazione di idee, senza che 9, 21, 5 avesse una funzione particolare nei confronti di 9, 21, 4. Ad ogni modo, come si vede, la razionalizzazione relativa al manticora è molto più problematica di quanto non possa sembrare e per comprenderla meglio dobbiamo ancora guardare al suo contesto, questa volta spostandoci un po’ indietro nella lettura del testo. 2.3 Integrazione e correzione: il manticora, il tritone e gli “avvistamenti” di Pausania L’ipotesi di Pausania sul manticora si colloca nell’ambito di una più ampia digressione che comincia a partire dalla segnalazione di un θαυ'µα presente nel tempio di Dioniso a Tanagra: «εjν δε; του' ∆ιονυvσου τω'/ ναω/' θεvας µε;ν και; το; α[γ αλµα α[ξιον λιvθου τε

ο]ν Παριvου και; ε[ργον Καλαvµιδος, θαυ'µα δε; παρεvχεται µει'ζον ε[τι οJ Τριvτων». (Paus. 9, 20, 4)

«Nel tempio di Dioniso è degna di essere vista anche la statua di marmo pario fatta da Calamis. Ma a stupirci ancora di più è senza dubbio il Tritone». 90. Per il concetto di “speciema-generico” cfr. n. 111, p. 142 e cap. 3, pp. 194 sgg.

Capitolo 4. Fine delle trasmissioni: Eliano, Pausania, Filostrato, Eusebio…

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Ci aspetteremmo da parte di Pausania una descrizione dell’oggetto di cui sta parlando, ma in realtà non c’è niente di tutto questo. L’autore della Periegesi, anziché spiegare che cosa sia veramente il fantomatico tritone, prosegue raccontando due logoi contrastanti che spiegherebbero la sua presenza nel tempio: «οJ µε;ν δη; σεµνοvτερος εjς αυjτο;ν λοvγ ος τα;ς γυναι'καvς φησι τα;ς

Ταναγραιvων προ; τω'ν ∆ιονυvσου οjργιvων εjπι; θαvλασσαν καταβη'ναι καθαρσιvων ε{νεκα, νηχοµεvναις δε; εjπιχειρη'σαι το;ν Τριvτωνα και; τα;ς γυναι'κας ευ[ξασθαι ∆ιοvνυσοvν σφισιν αjφικεvσθαι βοηθοvν, υJπακου'σαιv τε δη; το;ν θεο;ν και; του' Τριvτωνος κρατη'σαι τη'/ µαvχη/: οJ δε; ε{τερος λοvγ ος αjξιωvµατι µε;ν αjποδει' του' προτεvρου, πιθανωvτερος δεv εjστι. φησι; γα;ρ δη; ου|τος, οJποvσα εjλαυvνοιτο εjπι; θαvλασσαν βοσκηvµατα, ωJς εjλοvχα τε οJ Τριvτων και; η{ρπαζεν: εjπιχειρει'ν δε; αυjτο;ν και; τω'ν πλοιvων τοι'ς λεπτοι'ς, εjς ο} οιJ Ταναγραι'οι κρατη'ρα οι[νου προτιθεvασιν αυjτω'/. και; το;ν αυjτιvκα ε[ρχεσθαι λεvγ ουσιν υJπο; τη'ς οjσµη'ς, πιοvντα δε; εjρρι'φθαι κατα; τη'ς η/jοvνος υJπνωµεvνον, Ταναγραι'ον δε; α[νδρα πελεvκει παιvσαντα αjποκοvψαι το;ν αυjχεvνα αυjτου': και; δια; του'το ουjκ ε[πεστιν αυjτω'/ κεφαληv. ο{τι δε; µεθυσθεvντα ει|λον, εjπι; τουvτω/ υJπο; ∆ιονυvσου νοµιvζουσιν αjποθανει'ν αυjτοvν». (Paus. 9, 20, 4)

«La più solenne delle due versioni riferisce che le donne di Tanagra, poco prima delle orge di Dioniso, si recarono in riva al mare per purificarsi e che qui, mentre nuotavano, furono assalite dal Tritone. Esse allora pregarono Dioniso di accorrere in loro aiuto e il dio, che aveva prestato ascolto ai loro pianti, ebbe la meglio sul Tritone. La seconda versione è meno altisonante della prima, ma in compenso è più credibile. Secondo questa versione il Tritone tendeva i suoi agguati al bestiame che veniva a trovarsi in riva al mare e lo razziava, ed era solito attaccare perfino le barche di piccola taglia; fin quando gli abitanti di Tanagra esposero per lui un cratere di vino. Dicono infatti che finalmente il tritone, attratto dall’odore, venne a riva e che, dopo avere bevuto il vino, si abbandonò sulla battigia e dormì. Allora un abitante di Tanagra piombò su di lui con un’accetta e gli tagliò il collo. Per questo motivo questo tritone non ha testa. Per il fatto poi che fu preso ubriaco si dice che è stato Dioniso ad ucciderlo».

I due logoi eziologici fornitici da Pausania hanno implicitamente un valore epidittico e mostrativo: in un certo senso essi sono la descrizione del tritone. Senza di essi, in effetti, noi non sapremmo mai che il tritone di Tanagra era senza testa. Ma cos’era veramente il tritone? Dobbiamo riconoscere che mentre per noi il passo è criptico, i lettori del tempo di Pausania dovevano sapere bene di cosa stesse parlando l’autore della Periegesi: la reticenza a proposito delle caratteri284

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stiche del θαυµ ' α esposto nel tempio ci fa capire infatti quanto esso dovesse essere famoso.91 Noi invece brancoliamo nel buio. I commentatori e i traduttori hanno avanzato varie ipotesi circa la natura della visione di Pausania.92 Solo per fare un esempio, Jones 1961 (p. 259) ha tradotto «και; δια; του'το ουjκ ε[πεστιν αυjτω'/ κεφαλη» v con «for this reason the image has no head», lasciando intendere che l’oggetto esposto nel tempio potesse essere una statua. È noto che effettivamente in Grecia venissero prodotte immagini e statue che raffiguravano esseri “fantastici” del passato mitico:93 lo stesso Pausania, del resto, ci descrive alcuni agalmata famosi in oro e in bronzo di tritoni, ma nel parlare di essi non usa mai il termine thauma.94 Per di più Eliano nel De natura animalium (13, 21) ci riferisce la notizia di un tritone senza testa, descrittoci da Demostrato e conservato in salamoia proprio a Tanagra, che sarebbe stato ispezionato da un senatore romano (morto poi – fa sospettare Eliano – in seguito alla maledizione del mostro) e che potrebbe benissimo essere lo stesso animale di cui parla Pausania in 9, 20, 4.95 L’oggetto esposto a Tanagra dunque doveva essere avvertito come qualcosa di organico, come un corpo che un tempo doveva essere stato vivo. Ma cos’era veramente ciò che aveva visto Pausania? Cos’era ciò che aveva descritto Demostrato? Cos’era ciò che aveva esaminato il senatore romano morto tragicamente in mare? A questo proposito Ann Mayor (Mayor 2000, pp. 230 sgg.) ha ipotizzato che l’essere di cui si fa menzione in 9, 20, 4 potesse essere un “Jenny Haniver”, un ibrido creato artigianalmente cucendo assieme parti di esseri non omofili.96 L’ipotesi della Mayor è senza dubbio verosimile, eppure bisogna riconoscere che, qualunque cosa fosse l’oggetto esposto nel tempio di Dioniso a Tanagra, per Pausa91. È tipico di Pausania non eccedere nella descrizione di oggetti che sono molto noti ai più. Cfr. a questo proposito Musti 1982, pp. XXXVI sgg. 92. Cfr. a questo proposito Mayor 2000, p. 230 sgg. e Levi 1979, n. 105 ad Paus. 9, 20. 93. Cfr. ad es. Plat. Symp. 215 a 4 sgg.; Ael. Nat. Anim. 17, 9. Sull’iconografia del tritone nel mondo antico cfr. Shepard 1940, pp. 14 sgg. 94. Cfr. Paus. 2, 1, 7-8. Si sa anche di un gruppo scultoreo presente a Roma in cui era inclusa l’immagine di un tritone (cfr. Plin. Nat. Hist. 36, 26). 95. Cfr. Ael. Nat. Anim. 13, 21: «και ; τα; µε;ν α[λλα η \ν φησι και ; τοι'ς

πλαττοµενv οις οµ { οιος και; τοις ' γραφοµεν v οις, την ; δεv οιJ κεφαλην ; υπ J ο; χρον v ου διεφθαρµεν v ην ουj παvνυ σαφη' ε[φατο ει\ναι ουjδε; οι{αν συνιδει'ν και; γνωριvσαι ρJα/'στα» («In tut-

to il resto era simile – così dice Demostrato – alle statue e ai disegni che vengono usualmente fatti di questi esseri, ma la testa era così rovinata, a causa dell’azione del tempo, che non era più facile distinguerla e riconoscerla con chiarezza»). Più avanti Eliano adduce come prova dell’esistenza dei tritoni alcuni versi attribuiti all’oracolo di Apollo di Didima: «ειj τοινv υν οJ πανv τα ειδj ως; και; Τριvτωνας ειν\ αιv φησιν, ηJµα'ς υJπε;ρ τουvτου διαπορει'ν ουj χρη» v («Se dunque colui che tutto sa ci dice che esistono anche i Tritoni, non bisogna dubitare riguardo a questa questione»). 96. Cfr. n. 92, p. 134.

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nia esso era effettivamente un tritone o quanto meno lo rappresentava: il che equivale a dire che esso rappresentava uno speciema generico effettivamente esistente in natura.97 Che fosse così, del resto, lo dimostra la strana razionalizzazione del logos che spiegava la mancanza della testa del monstrum esposto nel tempio: Pausania, a quanto sembra, è maggiormente disposto a credere al tritone (che vede con i propri occhi) piuttosto che all’intervento della divinità. Il racconto che prevede l’intervento umano, piuttosto che quello divino, viene infatti indicato come “il più credibile” (πιθανωvτερος). La posizione di Pausania alle nostre orecchie può suonare come strana e illogica, o perfino come perturbante; eppure, come fa notare Mayor 2000 (p. 231), essa non può essere considerata del tutto “irrazionale”, tanto più se si considera che, secondo le teorie “scientifiche” del tempo era perfettamente normale aspettarsi che il mare, esattamente come la Libia, producesse sempre qualcosa di nuovo.98 Anche oggi, del resto, il mare non è meno inesplorato di quanto non lo fosse per gli antichi e, a detta di molti biologi e zoologi, molte specie devono ancora essere scoperte. In questo senso è esemplare il caso dell’architeutis, una sorta di calamaro gigante la cui esistenza è ipotizzata dai criptozoologi contemporanei a partire da dicerie, avvistamenti e ritrovamenti di resti deteriorati e incompleti lasciati sulle spiagge dalla risacca.99 E dunque, analogamente a quanto accade oggi nel campo della biologia marina, anche nel II sec. d.C. era del tutto normale aspettarsi che il mare producesse esseri insoliti e “rari”, molto più di quanto non lo fosse immaginare che un dio venisse ad abbatterli. Semplicemente, non ci si doveva aspettare che i tritoni fossero come la tradizione mitica o gli scultori e i pittori li raffiguravano solitamente.100 In questo senso la descrizione di un secondo tritone visto εjν τοι'ς Ρωµαι J vων θαυvµασι («fra le meraviglie dei Romani»), potrebbe anche essere letta come la correzione di un morfotipo errato tramandato dalla tradizione: «παρεvχονται δε; ιjδεvαν οιJ Τριvτωνες: ε[χουσιν εjπι; τη'/ κεφαλη/' κοvµην οι|α τα; βατραvχια ; εjν ται'ς λιvµναις χροvαν τε και; ο{τι τω'ν τριχω'ν 97. Che il tritone fosse pensato come un animale effettivamente esistente in natura lo si può desumere anche da Plin. Nat. Hist. 32, 144. 98. Sul mare come luogo dell’inaspettato, del mostruoso e del diverso nel mito greco cfr. Buxton 1997, pp. 113 sgg. (ma vd. anche Plin. Nat. Hist. 9, 2 sulle causae genitales presenti nel mare secondo Plinio il Vecchio). 99. Cfr. Mayor 2000, p. 231. 100. Esiodo ad es. aveva parlato del Tritone come di una divinità del mare generata direttamente da Poseidone (cfr. Th. 931). Una correzione di un morfotipo precedente è presente, come si è già visto, in Plinio (Nat. Hist. 9, 9; per questo passo cfr. p. 208).

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ουjκ α]ν αjποκριvναις µιvαν αjπο; τω'ν α[λλων, το; δε; λοιπο;ν σω'µα φολιvδι λεπτη'/ πεvφρικεv σφισι κατα; ιjχθυ;ν ρJιvνην. βραvγ χια δε; υJπο; τοι'ς ωjσι;ν ε[χουσι και; ρJι'να αjνθρωvπου, στοvµα δε; ευjρυvτερον και; οjδοvντας θηριvου: τα; δε; ο[µµατα εjµοι; δοκει'ν γλαυκα; και; χει'ρεvς ειjσιν αυjτοι'ς και; δαvκτυλοι και; ο[νυχες τοι'ς εjπιθεvµασιν εjµφερει'ς τω'ν κοvχλων: υJπο; δε; το; στεvρνον και; τη;ν γαστεvρα ουjραv σφισιν αjντι; ποδω'ν οι{α περ τοι'ς δελφι'σιvν εjστιν». (Paus. 9, 21, 1)

«I Tritoni hanno il seguente aspetto: i capelli che hanno sulla testa sono simili a quelli delle rane che vivono negli stagni e per il colore e per il fatto che è impossibile separare un capello dall’altro. Per il resto, il loro corpo è ispido e ricoperto di squame sottili come quelle dello squalo. Essi hanno squame sotto le orecchie e un naso di uomo, la bocca soltanto è più larga e i denti sono quelli di una bestia feroce. Mi sembra che i loro occhi siano azzurri, e le loro mani, le dita e le unghie simili ai gusci delle conchiglie. Sotto il petto e la pancia hanno, al posto delle gambe, una coda simile a quella dei delfini».

Dopo averne visto ben due esemplari, dunque, Pausania è in grado di fornire la descrizione “corretta” del terribile mostro. Un mostro che, a ben guardare, non doveva certo essere meno terribile del manticora, con il quale, peraltro, aveva alcuni tratti in comune. Come il manticora, infatti, il tritone si presentava come un ibrido di specie assolutamente non omofile (l’uomo e il pesce); un essere, per di più, dalla dentatura mostruosa e con tremendi occhi “glauchi”. Perché mai dunque Pausania, dopo avere visto un essere così insolito e raccapricciante, avrebbe dovuto “uccidere” il manticora? Il tritone, peraltro, non era l’unico animale “strano” e raro che l’autore della Periegesi affermava di avere visto: «ειδ\ ον δε; και; ταυρ v ους τους v τε Αιθ j ιοπικους v , ους } επ j ι ; τω/' συµβεβηκοv τι

ον j οµαζ v ουσι ρι J νοκ v ερως, ο{ τ ι σφισ v ιν επ j ∆ ακ [ ρα τη/' ρι J νι ; εν j εσ v τηκε κερ v ας και; αλ [ λο υπ J ερ ; αυjτο; ουj µεγv α, επ j ι ; δε; της ' κεφαλης ' ουδ j ε; αρ j χην ; κερ v αταv j Παιον v ων ες [ τε το; αλ [ λο εσ j τι, και ; τους ; εκ j Παιον v ων – ου| τοι δε; οι J εκ σωµ ' α δασεις ' και; αµ j φι ; το; στερ v νον µαλ v ισταv εισ j ι και ; την ; γεν v υν – καµηλ v ους τε ∆Ινδικας ; χρωµ ' α εικ j ασµεν v ας παρδαλ v εσιν. εσ [ τι δε; αλ [ κη καλουµ v ενον θηριο v ν, ειδ \ ος µεν ; ελ j αφ v ου και ; καµηλ v ου µεταξυ,v γιν v εται δε; εν j τη/' Κελτων ' γη./' θηριω v ν δε; ων | ισ [ µεν µον v ην αν j ιχνευσ ' αι και ; προιδ> ειν ' ουκ j εσ [ τιν αν j θρωπ v ω,/ σταλεισ ' ι δε; ες j αγ [ ραν αλ [ λων και ; την v δε εςj χειρ ' αv ποτε δαιµ v ων αγ [ ει. οσ j φρα' ται µεν ; γε αν j θρωπ v ου και ; πολυ; ε[ τι απ j εχ v ουσα, ως { φασι, καταδυεv ται δε; εςj φαρ v αγγας και ; σπηλ v αια τα; βαθυvτατα. οιJ θηρευο v ντες ουν \ , οπ J οv τε επ j ι ; βραχυv τατον, σταδιω v ν την ; πεδιαδv α χιλιω v ν η] και ; ορ [ ος περιλαβον v τες, τον ; κυκ v λον µεν ; ουκ j εσ [ τιν οπ { ως διαλυσ v ουσιν, επ j ισυνιον v τες δε; αε j ι ; τα; εν j τος ; γινοµ v ενα του' κυκ v λου παν v τα αιρ J ουσ ' ι ταv τε αλ [ λα και ; τας ; αλ [ κας: ει j δε; µη; τυχ v οι ταυvτη/ φωλευο v υσα, εJ τερ v α γε αλ [ κην ελ J ειν ' εσ j τιν ουδ j εµια v µηχανη» v . (Paus. 9, 21, 2-3)

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«Ho visto anche i tori etiopici, chiamati, per accidens, rinoceronti per il fatto che essi hanno un corno sulla punta del naso e uno un po’ più su, ma non tanto grande, mentre invece non c’è traccia di altre corna sulla testa. Ho visto anche i tori della Peonia, che sono pelosi in tutto il resto del corpo, ma in massimo grado intorno al petto e nella parte della mascella. Ho visto anche i cammelli indiani, simili alla pardalis per il colore. C’è anche un animale chiamato “αλ [ κη” che ha l’aspetto assieme di un cervo e di un cammello. Questo animale vive nella terra dei Celti e, fra tutti gli esseri che conosciamo, è l’unico del quale è impossibile seguire le tracce e che è praticamente invisibile a distanza per gli umani. Tuttavia, alcune volte, quando gli uomini sono fuori a caccia di altri animali, può capitare per caso, quasi per una divina fatalità, di imbattersi in esso. Ora, si dice che esso avverta l’odore degli uomini anche ad una grande distanza, e che si infratti nelle spelonche e nelle caverne più profonde. Così, dunque, se i cacciatori circondano il piano o la montagna per un giro di minimo mille stadi, facendo attenzione a non rompere il cerchio e restringendo sempre di più il giro, può capitare loro di catturare tutte le bestie che vi si trovano dentro e fra queste talvolta anche l’αλ [ κη. Ma se l’αλ [ κη non si trova a nascondersi da quelle parti, allora non c’è altra maniera di catturarla».

È come se Pausania rivedesse, nello spazio di appena un paragrafo, una parte considerevole della tradizione storiografica e paradossografica antica relativa agli animali “strani” e, a modo suo, la riconfermasse. Gli animali di cui hanno parlato gli storiografi – questo sembra volerci dire l’autore della Periegesi – non solo non sono da considerare pseude, ma addirittura, per i più fortunati, non è impossibile vederli con i propri occhi.101 Perfino l’α[λκη, l’animale più sfuggente e più imprendibile fra tutti quelli conosciuti (θηριvων δε; ω|ν ι[σµεν), può essere catturato, se un δαιvµων lo vuole, dai cacciatori celtici.102 A ben guardare, però, la conferma del sapere tradizionale non funziona affatto come copia esatta di tutto quanto trasmesso dalla tradizione. Pausania infatti, secondo una tendenza generale della sua opera,103 integra e corregge quanto è stato detto dagli storiografi pre101. Per il toro etiopico cfr. pp. 70 sgg. e n. 167, p. 71. Per i “cammelli indiani” (o “camelopardi”) cfr. Plin. Nat. Hist. 8, 69; Diod. 2, 51, 1; Strab. 16, 4, 16; 17, 3, 5; D. Cass. Hist. Rom. 72, 10, 3; Hld. Aith. 10, 27, 4; Aristoph. Gr. Hist. Anim. epitome, 2, 270. Per il rinoceronte cfr. Diod. 3, 35, 2 sg.; D. Cass. Hist. Rom. 51, 22, 5; Ael. Nat. Anim. 17, 44; Strab. 16, 4, 15; Plin. Nat. Hist. 8, 71. Per quanto riguarda i buoi della Peonia è possibile che qui Pausania faccia riferimento al bonaso che Aristotele aveva descritto in Hist. Anim. 2, 1, 498 b 25-499 a 9 (cfr. Strab. 15, 1, 69 e Plin. Nat. Hist. 8, 40). 102. Per l’alce cfr. Caes. B. Gall. 6, 27, 1-5; Plin. Nat. Hist. 8, 39 (in cui il tipo cognitivo dell’alce si sdoppia in due diverse denominazioni folk: alces e achlis), oltre che Paus. 5, 12, 1 (in cui si dice che questo animale ha le sopracciglia). 103. Per il progetto di integrazione e correzione di tradizioni culturali consolidate e diffuse in Pausania cfr. Musti 1982, pp. XXXVI sgg.

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cedenti a proposito di ogni singolo animale che viene menzionato nella digressione.104 Se nel caso dell’α[λκη, ad esempio, si può parlare di una vera e propria integrazione, rispetto a quanto avevano detto Cesare e Plinio il Vecchio a proposito di questo essere,105 nel caso del toro etiopico e del camelopardo viene messo in atto un processo di riduzione in tutto simile a quello che è stato segnalato a proposito del manticora. Il pericolosissimo toro etiopico infatti viene identificato con il rinoceronte, mentre il camelopardo, che Plinio aveva descritto quasi come un ibrido mirabolante di cammello e di leopardo,106 viene di fatto ridotto a folk-specific indiano di uno speciema generico abbastanza familiare per il pubblico greco: il cammello.107 Pausania, dunque, parte da una tradizione consolidata, ma, nel confermarla e nell’integrarla, la normalizza e ne corregge il tiro in base ad un criterio che tanta fortuna ha avuto nella storia del genere: la vista. L’autore della Periegesi, in altri termini, riduce gli esseri “invisibili” (e mai visti!) tramandati dalla tradizione ad altri esseri esotici e strani come il rinoceronte o il cammello; esseri, questi, che non solo chi scriveva asseriva di avere visto autotticamente, ma con i quali anche i frequentatori abituali dei circhi dovevano cominciare ad avere una certa familiarità, quanto meno, per l’appunto, “visiva”.108 Dati dunque alcuni animali dei quali si conosceva perfettamente il “modello 3D” (e dei quali magari non si conoscevano ancora a fondo, come si è visto nei precedenti paragrafi, le caratteristiche etologiche o comunque molari), si trattava, nel progetto di Pausania, di annullare ed azzerare i tipi cognitivi e i morfotipi comportamentali degli “animali mai visti” e di sostituirli con i tipi cognitivi e i morfotipi comportamentali di animali altrettanto singolari, ma la cui esistenza era dimostrabile in base al criterio dell’autopsia.109 Ecco dunque il motivo per cui il tritone, agli occhi di Pausania, era più credibile di Dioniso: mentre il dio non era mai stato avvistato da un solo mortale, l’oggetto di natura organica esposto a Tanagra (così come quello esposto “fra le meraviglie dei Romani”) che 104. Un processo di integrazione e correzione dei “microsaperi” relativi agli animali indiani è presente anche in Arr. Ind. 15, 1 sgg. (su questo passo in particolare e sulla correzione dei “microsaperi” cfr. P. Li Causi e R. Pomelli, art. cit., in corso di pubblicazione). 105. Cfr. n. 102, p. 288. 106. Cfr. Plin. Nat. Hist. 8, 69. 107. Cfr. Hdt. 3, 103 (per questo passo cfr. p. 113). 108. Cfr. ad es. Plin. Nat. Hist. 8, 71. 109. Non è inverosimile che nell’identificazione del toro etiopico con il rinoceronte abbia potuto giocare un ruolo la lettura di Caes. B. Gall. 6, 26, in cui si parla di un fantastico “bos” ad un solo corno che è possibile trovare nelle terre del nord.

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tutti chiamavano “tritone” (qualunque cosa esso fosse) era invece davanti agli occhi di tutti. Allo stesso modo, del manticora non si aveva più alcuna notizia dai tempi di Ctesia, mentre della tigre, benché su di essa circolassero molte conoscenze decisamente fantasiose, cominciavano a vedersi sempre più spesso alcuni esemplari nei circhi di Roma e nei serragli dei re e degli imperatori.110 In maniera analoga a quanto accadeva per il toro etiopico, dunque, era possibile “normalizzare” il manticora e nello stesso tempo salvare la testimonianza della tradizione (in questo caso di Ctesia).111 In questo modo, secondo il programma messo in atto nella Periegesi, gran parte delle notizie che Luciano nella sua Vera Historia denunciava come falsi evidenti,112 per Pausania erano invece semplicemente da vedere sotto un’altra luce: la tradizione storiografica greca, per uno scrittore che pretendeva di battere le vie di Erodoto,113 era da salvare. Solo a patto, ovviamente, che fosse rivista, integrata e corretta. In questa luce si comprende meglio lo strano finale della digressione (9, 21, 6) di cui si è parlato sopra:114 in presenza di notizie relative ad animali strani e/o rari (σπανιωvτερα) tramandati dagli auctores del passato, laddove non sia possibile ridurre l’ignoto al noto (o meglio: il “non visto” al “visto”, come nel caso del toro etiopico e del manticora), è meglio sospendere il giudizio e affidarsi all’auctoritas di chi scrive, senza né dare frettolosamente il proprio assenso alle “rappresentazioni” né negarlo. Sia la vista che le leggi del determinismo climatico-ambientale, infatti, ci dimostrano che spesso anche gli esseri più incredibili possono esistere. Proprio per questo tutte le rappresentazioni relative agli animali più insoliti, fin quando non saranno verificate (o fin quando non possono subire un processo di riduzione razionalizzante), devono essere messe fra virgolette e preservate come legenda.

3.

Filostrato: Apollonio di Tiana e la scomparsa del manticora

3.1 L’inizio dell’interruzione (o della asparizione del manticora) Un processo di trasmissione di una rappresentazione, come si è visto, è essenzialmente un processo di trasformazione. E la trasformazione può variare fra due estremi: la duplicazione e la distruzione.115 Fin qui 110. Cfr. p. 277, nn. 79 e 80. 111. Si noti che Ctesia viene menzionato una volta soltanto in Pausania (proprio in 9, 21, 4). Questo potrebbe voler dire che Pausania non conosceva direttamente l’opera di Ctesia. In tal caso non sarebbe da escludere che, nel momento in cui la Periegesi veniva scritta, il medico di Cnido fosse diventato famoso proprio per il manticora. 112. Cfr. Luc. Vera Hist. 1, 3. 113. Cfr. Musti 1982, pp. XX sgg. 114. Cfr. par. 2.2, spec. pp. 282 sg. 115. Cfr. Sperber 1999, p. 87.

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si è visto come nel tempo diversi interpretanti, più che duplicare Ctesia, il primo anello della catena (o il centro della raggiera), abbiano invece dato diverse versioni del manticora, di un animale che, benché spesso presentato come poco credibile (ora per una questione di destrutturazione dell’autorità, come nel caso di Aristotele, ora in vista di una “correzione” di una tradizione da salvare, come nel caso di Pausania), è pur sempre stato avvertito come “memorabile” e affascinante. Il manticora era un essere incerto, che viveva nella zona d’ombra dei confini del mondo (e della realtà), ma sia che fosse – a seconda dei commenti – un incubo partorito dalla malafede creativa di Ctesia (o dalla paura degli Indiani), sia che fosse un animale che veramente infestasse le eschatiai (indiane o etiopiche), esso per lungo tempo è stato qualcosa da raccontare, da trasmettere e da “trasformare”. C’è però un momento, nella storia del “contagio” della sua rappresentazione nel mondo antico, in cui il manticora viene distrutto definitivamente: con Pausania, come si è già visto, esso viene mantenuto in vita, paradossalmente, a patto di essere “ucciso”, di essere trasformato cioè in un essere altrettanto strano e “raro”, ma per lo meno più visibile, come la tigre; sarà a partire da Filostrato invece che il manticora comincerà a “morire”, per risorgere dalle sue ceneri, come una fenice, con i bestiari medievali.116 Si è detto “morire” fra virgolette. Ed è bene precisare. Si vedrà infatti andando avanti che più che di una morte vera e propria si tratterà – per usare un termine caro a Giorgio Caproni – di una sorta di “asparizione”, di una comparsa-scomparsa che avrà una funzione ben definita. 3.2 Oltre le orme di Alessandro: la costruzione dell’autorità di Apollonio, la finzione dell’India e i livelli di realtà È impossibile sapere se Apollonio di Tiana sia andato veramente in India come ci racconta Filostrato. C’è chi sostiene che il ricorso all’esotismo nella Vita sia un mezzo artificioso per intrattenere gli “spiriti superficiali” attraverso una narrazione strana e abnorme,117 c’è chi invece afferma che è del tutto verosimile che un saggio (o un santone) del I sec. d.C. abbia potuto desiderare di recarsi ai confini del mondo, magari per seguire le orme del proprio idolo intellettuale, Pitagora, che – come raccontavano le biografie che circolavano in quel tempo – era arrivato fin presso i Babilonesi.118 Allo stesso 116. Per alcune rappresentazioni medievali del manticora cfr. n. 21, p. 24 (e fig. 7). 117. Cfr. Lo Cascio 1974, p. 23. 118. Cfr. Anderson 1986, pp. 206 sg. (ove si parla, fra l’altro, dello sfruttamento letterario e “finzionale” del viaggio in India).

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modo è difficile dissolvere la nube di mistero che avvolge il fantomatico manoscritto di Damis. È esistito veramente? È il frutto del lavoro collettivo di un gruppo di allievi del santone di cui Filostrato si è fidato ciecamente? È tutta una finzione dell’autore?119 In maniera analoga a quanto accade con gli animali paradoxa, dei quali è per noi impossibile attestare l’effettiva esistenza e per i quali non ci è dato di arrivare ad una identificazione ben precisa, anche per le figure che animano il viaggio di Apollonio attraverso l’esotico, per i personaggi misteriosi come Damis o come Iarca, è forse meglio chiedersi quale sia la loro funzione all’interno dell’opera piuttosto che interrogarsi sulla loro effettiva storicità. Questa è stata, grosso modo, la soluzione proposta da Dario Del Corno (Del Corno 19882, p. 18), che, più in particolare per quanto riguarda la questione relativa al personaggio “Damis”, ha notato come esso sia un mezzo che permette a Filostrato di prendere le distanze da Apollonio assumendo così le vesti del narratore piuttosto che quelle dell’apostolo. Non sappiamo dunque se l’esperienza del viaggio in India sia stata un’esperienza vissuta. Ci accorgiamo però, leggendo, che essa è senza dubbio un’esperienza filtrata. È qualcosa di cui si parla intrecciando diversi livelli di realtà e diverse tradizioni di discorso. A sovrapporsi, infatti, non sono soltanto la voce di Filostrato narratore e di Damis testimone, ma anche gli stilemi e i modi di diversi generi letterari: l’opera di Filostrato è una biografia, è il racconto di una vita (quella di Apollonio di Tiana) che viene presentata come sensazionale ed esemplare, ma al tempo stesso al genere della biografia si affiancano i generi del romanzo, della paradossografia e della historia.120 Qualcuno ha visto in questo intreccio una sorta di ramo sterile, denunciando la futilità delle digressioni paradossografiche e romanzesche presenti nell’opera;121 è però di gran lunga più fruttuoso pensare, come ipotesi di lavoro iniziale, che le digressioni abbiano una funzione ben più significativa. Come minimo infatti esse, come ha osservato Del Corno 19882 (p. 22), hanno senza dubbio un potente valore denotativo: servono infatti, non tanto a delineare un’agiografia (intento, questo, che sarebbe solo uno dei tanti dell’opera) o a tracciare un nucleo di verità storica, quanto a caratterizzare la personalità di Apollonio, che, proprio attraverso il ricorso agli excursus paradossografici, viene dipinto come un personaggio curioso ed 119. Per la bibliografia relativa al problema del manoscritto di Damis cfr. Del Corno 19882, p. 17. 120. Sulla molteplicità dei livelli della Vita di Apollonio di Tiana cfr. Del Corno 19882, pp. 22 sgg. 121. Cfr. Lo Cascio 1974, pp. 19 sgg.

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interessato, per così dire, alle “questioni scientifiche” del tempo. In più, la funzione denotativa si accompagnerebbe ad un fine ben più impegnativo: quello di sistemare, tramite la vita di Apollonio, alcune delle nozioni del tempo in una sorta di zibaldone romanzato.122 Il viaggio in India, in questo senso, non è soltanto uno strumento letterario che permette al narratore di costruire ad arte un’ambientazione accattivante per la storia (vera o falsa che sia) che deve essere raccontata,123 ma diventa anche un viaggio nella tradizione e nelle conoscenze dell’esotismo greco. Tradizione e conoscenze che, in maniera analoga a quanto avviene in Pausania, non vengono semplicemente “replicate”, ma che talvolta, come succede nel caso del manticora, vengono integrate e corrette: «∆Επει; δε; και; ο{δε οJ λοvγ ος αjναγεvγ ραπται τω'/ ∆αvµιδι σπουδασθει;ς εjκει' περι; τω'ν εjν ∆Ινδοι'ς µυθολογουµεvνων θηριvων τε και; πηγω'ν και; αjνθρωvπων, µηδ∆ εjµοι; παραλειπεvσθω, και; γα;ρ κεvρδος (α]ν) ει[ η µηvτε πιστευvειν, µηvτε αjπιστει'ν πα'σιν. η[ρετο γα;ρ δη; οJ ∆Απολλωvνιος “ε[στι τι ζω'/ον εjνταυ'θα µαρτιχοvρας;” οJ δε; ∆Ιαvρχας “και; τιvνα” ε[φη “φυvσιν του' ζω'/ου τουvτου η[κουσας; ειjκο;ς γα;ρ και; περι; ει[δους αυjτου' (τι) λεvγ εσθαι” “λεvγ εται” ει\πε “µεγαvλα και; α[πιστα, τετραvπουν µε;ν γα;ρ ει \ναι αυj τ οv, τη;ν κεφαλη ;ν δε; αjνθρωvπω/ ει jκ αvσ θαι, λεvοντι δε; ωJµοιω'σθαι το; µεvγ εθος, τη;ν δε; ουjρα;ν του' θηριvου τουvτου πηχυαιvας εjκφεvρειν και; αjκανθωvδεις τα;ς τριvχας, α}ς βαvλλειν ω{σπερ τοξευvµατα εjς του;ς θηρω'ντας αυjτο” v ». (Philostr. Ap. 3, 45)

«Anche di questa conversazione tenuta presso i Bramani ha scritto Damis, la quale conversazione ebbe come argomento le bestie feroci, le fonti e gli uomini che si favoleggia popolino l’India. Io, da parte mia, non intendo tralasciarla, perché può essere conveniente non prestare fede ad ogni cosa, e però non negarla a tutte. Apollonio quindi fece questa domanda: “c’è qui un animale chiamato martichoras?”. Iarca, di rimando, chiese: “E quale sarebbe la physis di questo animale? Cosa hai sentito dire in proposito? È verosimile infatti che si dica qualcosa a proposito del suo aspetto”. “Cose enormi ed incredibili” rispose Apollonio “si dicono del manticora: ad esempio si dice che sia un animale a quattro zampe, ma che abbia il viso di un uomo, che sia della stessa taglia del leone, ma che abbia sulla coda peli lunghi un cubito e muniti di aculei, che lancia come se fossero frecce contro quanti gli danno la caccia”». 122. Cfr. Del Corno 19882, p. 22: «gli excursus denotano la curiosità intellettuale di Apollonio e sono ingredienti di un tessuto narrativo, che inventa le sue strutture e i suoi temi all’interno della polivalenza dei piani in cui si organizza il racconto. Accade così che la biografia di Apollonio assuma per certi aspetti la funzione di incorniciare uno zibaldone: non diversamente che il banchetto degli eruditi in Ateneo […]». 123. Cfr. Anderson 1986, p. 206.

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Come si vede bene da questo passo, il viaggio in India di Apollonio comincia a partire da Ctesia, o comunque, se non da Ctesia (che mai viene citato nel corso della Vita), dalle notizie che da lui per primo sono state trasmesse ai Greci. È verosimile infatti che le narrazioni meravigliose del medico di Cnido abbiano cominciato a circolare anche a prescindere dai suoi Indikà. Il manticora e i grifoni, così come le notizie relative alle fonti e alle pietre mirabolanti dell’India e dell’Etiopia, ad un certo punto possono essere diventati “patrimonio comune”; in altri termini, non è inverosimile pensare che i mirabilia indiani si fossero a poco a poco stilizzati, scollandosi dai loro auctores (da Ctesia così come dagli altri indografi), per entrare a far parte di una sorta di “enciclopedia dell’Altro” largamente condivisa in Grecia e a Roma.124 Nei confronti di questa enciclopedia, come si è visto, molte erano le riserve, dal momento che, nell’impossibilità di verificare i dati incerti e semi-proposizionali che la tradizione aveva trasmesso, era spesso opportuno sospendere il giudizio riguardo a molte questioni; eppure, nonostante i dubbi, ogni viaggio nella terra dell’Altro, ogni ispezione delle eschatiai, non poteva che partire proprio dai nodi che costituivano questa enciclopedia dell’esotico.125 Recarsi in India non significava semplicemente viaggiare in un paese lontano, ma significava anche, come minimo, aspettarsi di vedere le stranezze che gli indografi avevano descritto come verità fattuali. Il viaggio in India di Apollonio, in questo senso, viene presentato da Filostrato come una grande opportunità per risolvere alcuni “misteri” della tradizione. Nella finzione della narrazione il santone di Tiana ha l’opportunità di intervistare direttamente il capo dei Bramani, Iarca, riguardo all’effettiva esistenza di alcuni mirabilia tramandati dagli indografi. Apollonio chiede se esiste davvero un essere chiamato manticora, un essere incredibile la cui physis prevede la compresenza di tratti apparentemente in contrasto fra di loro (lo dimostra la costruzione in parallelo di µε;ν e δε;), un essere che cammina a quattro 124. La stilizzazione nella trasmissione di proposizioni sintetiche sul mondo avviene quando un enunciato finisce per attestarsi come fatto (cfr. a tale proposito Latour 1998, p. 54) al punto che non è più necessario menzionare per nome l’autore dell’enunciato. In questo senso si potrebbe sospettare che il fatto che Filostrato non menzioni Ctesia significhi (analogamente a quanto era accaduto in Solino) che le notizie da lui trasmesse – che non erano state ancora invalidate – cominciassero ad essere considerate come “verità fattuali” o meglio come “conoscenze” (anche se ancora da verificare). 125. Cfr. a questo proposito Jacob 1995, pp. 72 sgg. il quale fa vedere in particolare come Strabone, nonostante i suoi atti di accusa nei confronti degli pseude degli indografi, contribuisca, riproducendone i resoconti e gli errori, a perpetuare l’immagine dell’India da essi fornita.

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zampe ma ha il volto di un uomo, che ha il corpo di un leone, ma che, diversamente dal leone, ha i peli della coda lunghi un cubito (una variante questa rispetto alla versione omologata). La risposta di Iarca è sorprendente: «εjροµεvνου δε; αυjτου' και; περι; του' χρουσου' υ{δατος, ο{ φασιν εjκ πηγη'ς

βλυvζειν, και; περι; τη'ς ψηvφου τη'ς α{περ ηJ µαγνη'τις ποιουvσης αjνθρωvπων τε υJπο; γη'ν οιjκουvντων και; πυγµαιvων αυ\ και; σκιαποvδων υJπολαβω;ν οJ ∆Ιαvρχας “περι; µε;ν ζω'/ων η] φυτω'ν” ει\πεν “η] πηγω'ν, ω|ν αυjτο;ς εjνταυ'θα η{κων ει\δες, τιv α]ν σοι λεvγ οιµι; σο;ν γα;ρ η[δη νυ'ν εjξηγει'σθαι αυjτα; εJτεvροις: θηριvον δε; τοξευ'ον η] χρυσου' πηγα;ς υ{δατος ου[πω εjνταυ'θα η[κουσα”». (Philostr. Ap. 3, 45)

«Alle domande relative all’acqua aurifera che si dice stillare da una fonte, alle domande relative alla pietra che ha gli stessi poteri del magnete, e poi a quelle relative agli uomini che vivono sottoterra, ai Pigmei e agli Sciapodi, Iarca rispose: “che cosa ti dovrei raccontare degli animali, delle piante e delle fonti che tu stesso hai visto nel tuo viaggio? È tuo compito ormai descriverli agli altri. Quanto a una fiera che lancia frecce o a fonti d’oro liquido, qui non ne ho mai sentito parlare”».

Il testo di Filostrato fissa una sorta di genealogia dello statuto dell’autorevolezza di Apollonio in fatto di cose indiane (e non solo). L’informatore che non risponde alle domande del santone greco in qualche modo legittima il suo status di descrittore veridico: non è necessario che Iarca riferisca a sua volta cose che Apollonio ha già visto, semplicemente bisogna che neghi l’esistenza del manticora e di altri mirabilia di cui aveva parlato la tradizione indografica per far sì che – per così dire – morto un auctor (verosimilmente Ctesia) se ne faccia un altro (Apollonio). In questo senso la risposta che viene data non può non essere emblematica: «qui non ne ho mai sentito parlare». Apollonio, secondo il fantomatico manoscritto di Damis, arriva fin dove neanche Alessandro Magno era arrivato e dunque viene presentato come qualcuno che è in grado di dire molte più cose veritiere sull’India di quante non ne abbiano dette, ad esempio, Ctesia o Nearco:126 l’εjνταυ'θα (qui) della risposta di Iarca, insomma, è uno spazio del quale nessuno degli indografi precedenti ha mai fatto esperienza effettiva e del quale spetta adesso ad Apollonio parlare. Ecco dunque che ancora una volta (seppur secondo dinamiche completamente differenti rispetto ad Aristotele) il manticora viene usato 126. Cfr. Philostr. Ap. 2, 43 (Apollonio varca la stele che segna il punto fin dove era arrivato Alessandro Magno). Un espediente narrativo simile è presente in Luc. Vera Hist. 1, 7. Per Nearco cfr. n. 135, p. 62.

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come operatore polemico: negarlo (o metterlo in dubbio, come era nel caso di Aristotele) significa correggere la tradizione e contribuire a costruire un’autorità. Secondo la strategia narrativa di Filostrato, Apollonio ormai può prescindere dalle dicerie degli storici greci, che pure sono il suo punto di partenza, e descrivere ciò che ha visto con i propri occhi e sentito con le proprie orecchie. La tradizione indografica, tuttavia, non viene annullata in toto. Subito dopo infatti Iarca conferma ad Apollonio, seppure con delle variazioni, alcune delle notizie più incredibili: la pantarba, i grifoni e la fenice esisterebbero veramente, così come i Pigmei e gli Sciapodi.127 Ai nostri occhi tutto questo non può che risultare sorprendente e per certi versi atopos. Viene naturale chiedersi: «come mai subito dopo avere negato il manticora Iarca finisce per confermare altre notizie che secondo i nostri parametri risultano strampalate?». Innanzitutto dobbiamo ricordare la premessa che Filostrato appone a tutta la discussione («può essere conveniente non prestare fede ad ogni cosa, e però non negarla a tutte»): delle notizie relative all’India molte sono vere e molte sono false e dunque non si deve né credere con troppa fretta né negare tutto in blocco. Del resto, a tornare da un viaggio dalle eschatiai senza riferire di avere visto nessuna cosa mirabile, si rischiava seriamente di non essere creduti: era impossibile recarsi in India o in Etiopia senza registrare neanche una traccia della presenza dei famosi mirabilia descritti dagli storiografi.128 In altri termini, se il manoscritto di Damis avesse negato in blocco l’intera tradizione indografica, probabilmente nessuno dei lettori avrebbe mai creduto che Apollonio si fosse realmente recato in India. Per rendere verosimile il viaggio bisognava, per l’appunto, negare alcune cose per confermarne altre. Paradossalmente, dunque, se la negazione del manticora funziona come operatore polemico, la conferma (o la correzione) delle notizie relative ai grifoni, alla pantarba e ai Pigmei potrebbe anche attivare un vero e proprio effetto di realtà. C’è però ancora un altro paradosso del quale si deve tenere conto. L’asparizione del manticora, che appare soltanto per scomparire definitivamente, non è nient’altro che una finzione che avviene in un livello di realtà che non è affatto quello dell’autore.129 La premessa con la quale si apre 3, 45 («και; γα;ρ κεvρδος κτλ.»), infatti, 127. Della pantarba, dei grifoni, dei Pigmei e degli Sciapodi ha parlato per la prima volta Ctesia (cfr. FrGrHist 688 F. 45, 6; F. 45, 26; F. 45, 21; F. 51 a: Plin. Nat. Hist. 7, 23; F 51 b: Tzetz. Chil. 7, 629; F. 60: Harpocr. (Sud. Σ 601) s.v. Σκιαvποδες, p. 276 Dindorf). 128. È il caso, questo, di Nearco, che vede con i suoi occhi quelle che crede le prove dell’esistenza dei myrmekes (cfr. Arr. Ind. 15, 4-7; Str. 15, 1, 44 ). 129. Per il concetto di “livello di realtà” in letteratura cfr. Calvino 1980a, pp. 310 sgg.

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se vale per tutta la tradizione indografica, vale anche per il testo di Damis. Se consideriamo infatti che il racconto di Filostrato presenta almeno tre diversi livelli di realtà (1) “Filostrato scrive…”; 2) “… che Damis registra…”; 3) “… la vita di Apollonio di Tiana”), e che ad ognuno dei livelli di realtà corrispondono diversi “universi di esperienza”, si capisce subito che la negazione del manticora (così come una sua eventuale conferma) non fa parte dell’universo di esperienza dell’autore. Filostrato, che non è mai stato in India, sin dall’inizio del paragrafo dice di non essere in grado di dire se il racconto di Damis riguardo alle meraviglie indiane sia del tutto credibile, e tuttavia sostiene che è un “guadagno” (κεvρδος) per il lettore “sospendere il giudizio”, trasformando così, attraverso lo sdoppiamento del soggetto dello scrivere che si realizza con la funzione “Damis”, l’annoso blocco epistemologico (già sperimentato da Aristotele ed Eliano) in un raffinato invito alla suspension of disbelief. Il mostro indiano antropofago, dunque (così come tutti gli altri mirabilia dei quali Apollonio discute con Iarca), si trasforma da problema – per così dire – di “storia della scienza” in materiale di costruzione del romanzesco:130 una volta che risulta impossibile dire, nel mondo reale che costituisce l’universo di esperienza dell’autore, se il manticora esiste o meno, ecco che esso diventa un elemento che contribuisce a creare, all’interno della biografia romanzata di Apollonio di Tiana, una sorta di “ambientazione intellettuale” della storia del personaggio.

4.

Fine delle trasmissioni: il manticora perde il suo fascino

Come si è visto nel paragrafo precedente l’asparizione del manticora avviene all’interno di un livello di realtà ben preciso, il livello 3, quello cioè della vita di Apollonio raccontata da Damis. Filostrato 130. Un fenomeno analogo di trattamento romanzesco della tradizione paradossografica si verifica negli Aithiopikà di Eliodoro (cfr., solo per fare un esempio, 10, 26, 2. Su questo passo P. Li Causi e R. Pomelli, art. cit.). Inoltre vorrei segnalare la presenza della manticora nell’ultimo romanzo di Umberto Eco (Baudolino, Bompiani, Milano 2000, pp. 356 sg.): «L’affrontarono il Borone Kyot, il Boidi e il Porcelli; mentre Solomon le scagliava contro delle pietre mormorando maledizioni nella sua lingua santa, Ardzrouni si ritraeva indietro, nero anche di terrore ed Abdul stava rattrappito per terra, preso da più intensi tremori. La bestia parve considerare la situazione con astuzia umana e belluina insieme. Con inattesa agilità schivò chi le si parava d’innanzi e, prima che quelli potessero ferirla, si era già girata su Abdul, incapace di difendersi. Con i suoi triplici denti lo morse a una scapola, né mollò la presa quando gli altri corsero a liberare il loro compagno. Ululava sotto i colpi delle loro spade, ma teneva fermamente il corpo di Abdul, che sprizzava sangue da una ferita che si stava allargando sempre più. Finalmente il mostro non poté sopravvivere ai colpi che gli inferivano quattro avversari infuriati, e con un rantolo orribile si spense». Sul riuso letterario del manticora rimando comunque alle conclusioni (pp. 301 sgg.).

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in questo senso, per mezzo del filtro del discepolo di Apollonio, costruisce una certa distanza da tutto ciò che avviene in questo livello e dunque anche da tutte le questioni paradossografiche che in esso vengono dibattute, presentandosi, come si è già visto, come narratore più che come apostolo. Tuttavia bisogna dire che mentre per noi è molto facile avvertire la distanza fra i diversi livelli di realtà (e probabilmente anche ingigantirla), per un lettore del II o del III sec. d.C. era forse impossibile non sentire l’universo di esperienza di Apollonio e quello dell’autore come fortemente contigui. Il fine di Filostrato, del resto, era quello di presentare in buona luce la figura del santone e dunque di presentare come veri e credibili tutti i fatti raccontati a suo riguardo: se pure si costruiva una certa distanza fra il narratore e la narrazione, infatti, ciò non significava necessariamente che il narratore intendesse presentare apertamente la narrazione come una finzione romanzesca. La finzionalità del “romanzo” di Apollonio, in fondo, è qualcosa che potrebbe essere più evidente per noi che per i lettori dell’antichità. A testimoniarlo del resto c’è proprio l’uso polemico che viene fatto dell’opera (e della figura di Apollonio in essa delineata) nel Philaletés di Ierocle, il quale presenta le vicende raccontate nella Vita di Apollonio di Tiana, come “fatti storici” da opporre ai miracoli di Cristo.131 Ad assumersi il compito di smontare la verità di questi “fatti”, in risposta all’opera dello scrittore pagano, è Eusebio di Cesarea, il quale, nel suo In Hieroclem, cerca di smontare la fama di “uomo divino” di Apollonio costruita da Filostrato. A tal fine lo scrittore cristiano segnala, quando può, le inverosimiglianze, le incoerenze e le contraddizioni dei prodigi narrati; quando invece non riesce a “disinnescare” i miracoli del santone di Tiana, li presenta come opera del demonio.132 Ovviamente a finire nel mirino dello scrittore cristiano, oltre che i miracoli e i prodigi di Apollonio, c’è anche il suo viaggio in India: «ταυ'τα και; αjπο; του' δευτεvρου παραθεvµενοι ι[ωµεν εjπι; το; τριvτον τα;

κατα; του;ς βεβοηµεvνους εjποψοvµενοι Βραχµα'νας: ε[νθα δη; τα; υJπε;ρ Θουvλην α[πιστα και; ει[ τιv περ α[λλο τερατω'δεvς ποτε µυθολοvγ οις τισι;ν αjναπεvπλασται, ευ\ µαvλα πιστα; και; αjληθεvστατα, ωJς εjν παραθεvσει τουvτων, αjναφανθηvσεται: οι|ς και; το;ν νου'ν εjπιστη'σαι α[ξιον τη'ς του' Φιλαληvθους ε{νεκεν αυjθαδειvας ηJµι'ν µε;ν “ευjχεvρειαν και; κουφοvτητα” τροvπου περιαvπτοντος, αυJτω'/ δε; και; τοι'ς αυjτω'/ παραπλησιvοις τη;ν “αjκ ριβη' και; βεβαιvαν” µετα; συνεvσεως κριvσιν. {Ο ρα γου'ν εjφ∆οι |ς σεµνυvνεται παραδοvξοις τω'ν η Jµετεvρων θει vων ευjαγγελιστω'ν προκριvνων το;ν Φιλοvστρατον, ωJς µη; µοvνον παιδειvας εjπι; πλει'στον η{κ οντα, αjλλα; και; αjληθειvας εjπιµεµεληµεvνον». (Eus. Hier. 17)

131. Cfr. a questo proposito Forrat 1986, pp. 44 sgg. 132. Cfr. a questo proposito Forrat 1986, pp. 48 sgg.

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«Ma adesso mettiamo da parte il libro secondo e passiamo al libro terzo per esaminare ciò che si dice a proposito dei Bramani. Qui infatti tutte le cose incredibili raccontate ne Le Meraviglie al di là di Thyle o in tutti gli altri racconti prodigiosi che sono stati inventati dai mitologi potrebbero sembrare del tutto credibili e verosimili in confronto. Ebbene questi fatti meritano di essere attenzionati proprio perché il Philaletés osa bollare la nostra “superficialità e leggerezza”, ma a se stesso e ai suoi simili imputa un giudizio “rigoroso e fondato” sull’intelligenza. Vedi dunque di quali miracoli si vanta preferendo, ai nostri divini evangelisti, Filostrato, uomo che stima non soltanto fra i più colti, ma che presenta perfino come uno che si dedica alla verità».

Eusebio nota, per così dire, il livello di finzionalità presente nei racconti indiani della Vita di Apollonio e non a caso li associa al ben noto romanzo di Antonio Diogene, Le meraviglie al di là di Thyle relegandoli così nello spazio del mythos, inteso qui negativamente come invenzione letteraria mendace.133 Ancora più pesante è però il commento che lo scrittore cristiano fa a proposito delle discussioni tenute fra Apollonio e Iarca: «εjρεvσθαι δεv φησιν το;ν ∆Απολλωvνιον ειj ε[στιν παρ∆αυjτοι'ς χρυvσεον υ{δωρ – ω] του' σοφου' και; παραδοvξου πυvσµατος – και; περι; αjνθρωvπων δε; υJπο; γη'ν οιjκ ουvντων και; Πυγµαιvων α[λλων και; Σκιαποvδων αjνερωτα'ν, και; ειj γιvγ νοιτο παρ∆ αυjτοι'ς ζω'/ον τετραvπουν, ο} λεvγ εται µαρτιχοvρα, ο} τη;ν κεφαλη;ν αjνθρωvπω/ ειjκαvσθαι, λεvοντι δε; ωJµοιω'σθαι το; µεvγ εθος, τη;ν δε; ουjρα;ν εjκφεvρειν πηχυαιvας αjκανθωvδεις τριvχας, α}ς βαvλλειν ω{σπερ τοξευvµατα ειjς του;ς θηρω'ντας: και; τοιαυ'τα µε;ν το;ν ∆Απολλωvνιον αjνερωτα'ν, το;ν δε; ∆Ιαvρχαν διδαvσ κειν αυj τ ο;ν περι ; µε;ν τω'ν Πυγµαιvων, ωJς α[ρα ει\εν οιjκου'ντες µε;ν υJποvγ ειοι διατριvβοντες δε; υJπε;ρ το;ν Γαvγ γην ποταµο;ν ζω'ντες, περι; δε; τω'ν α[λλων, ωJς αjνυvπαρκτα ει[ η». (Eus. Hier. 22)

«Nel racconto di Filostrato, inoltre, Apollonio domanda se presso di loro esisteva veramente l’acqua dorata – oh questione meravigliosa e degna veramente di un uomo saggio! – e si informa a proposito degli uomini che abitano sotto terra e, fra le altre cose, sui Pigmei e sugli Sciapodi. Chiede inoltre se esiste presso di loro un animale a quattro zampe chiamato “martichora”, la cui testa asso133. Sappiamo di una distinzione canonica, di origine peripatetica, dei tre J τορια v , 2) πλασ v µα, livelli di verità che possono essere presenti in una narrazione: 1) ισ 3) µυθ' ος. Per l’esposizione di questa teoria cfr. Quint. Inst. 2, 4, 2.; Sext. Emp. adv. Math. 1, 263. In base a questa distinzione ιJστοριvα è l’esposizione di eventi che sono realmente accaduti, πλαvσµα è l’esposizione di cose che non sono accadute ma che vengono raccontate come se fossero accadute, mentre µυθ' ος è l’esposizione di cose che non sono mai accadute, di menzogne. Su questi passi cfr. Feeney 1991, pp. 5-56.

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miglia a quella di un uomo, che è grande quanto un leone e che porta sulla coda peli lunghi un cubito che scaglia a mo’ di frecce contro chi gli dà la caccia. A queste domande, nel racconto di Filostrato, Iarca risponde informando Apollonio circa i Pigmei e dicendo che essi abitano sotto terra, ma che passano la loro vita al di là del Gange; per quanto riguarda le altre cose, risponde che esse non esisterebbero affatto».

Il sarcasmo di Eusebio qui si fa pesante: non solo al viaggio in India viene negato il valore di “fatto storico” (che evidentemente era stato riconosciuto da Ierocle), ma per giunta (come si capisce a seguito delv µατος”) le questioni dibatla battuta “ω] του' σοφου' και; παραδοξv ου πυσ tute da Apollonio e Iarca nel testo di Filostrato, seppur immaginarie, vengono irrise come roba di poco conto; un giudizio, questo, che è facile capire se si pensa che la tradizione cristiana relativa agli animali, a partire dal Physiologus, escluderà per molto tempo dal catalogo delle belve tutti gli animali non biblici.134 Parlare del manticora e degli Sciapodi, in altri termini, è roba da pagani dotati di poco senno e che si trovano sempre e comunque nel falso. Si capisce dunque perché la rappresentazione del mostro indiano, insieme alle rappresentazioni relative a quelle di molti altri esseri mirabolanti della tradizione, perde tutto il suo fascino e tutta la sua memorabilità fino al punto di scomparire. Il ciclo della sua trasmissione, a partire da Eusebio, viene interrotto per essere ripreso soltanto molto più tardi, quando cioè il bestiario medievale si sarà già aperto alle contaminazioni con la tradizione classica ed enciclopedica.135 Per tutto questo tempo non varrà più la pena di “trasmettere” le rappresentazioni del manticora neanche come legenda.

134. Cfr. a questo proposito Morini 1996, pp. VII sgg., la quale fa notare come a partire dal Fisiologo Greco la questione non sia più tanto quella di stabilire la veridicità di determinati animali quanto quella di “mettere in pratica il significato di una immagine” relativa ad un animale, secondo una linea dettata per la prima volta da Agostino con la enarratio in Psalmos (66, 10). 135. Cfr. ad es. la versione del manticora di Brunetto Latini (per la quale rimando a n. 21, p. 24).

300

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CAPITOLO 5

La coda del mostro (come una conclusione)

«…O wie er schwinden muß, daß ihrs begrifft! / Und wenn ihm selbst auch bangte, daß er schwände. / Indem sein Wort das Hiersein übertrifft, / ist er schon dort, wohin ihrs nicht begleitet…» (R. M. Rilke, Die Sonette an Orpheus, V)

0.

Preludio (un inizio prima della fine) «Da molto tempo lui aveva perso la via in quel vasto labirinto a volta, e le manticore, come se lo avessero intuito, cominciavano ad avvicinarsi. Sentiva il lezzo forte e aspro, i versi gutturali simili a quelli del tacchino che a loro servivano a comunicare. Dall’alto, a intervalli irregolari, strisce di luce piovevano di tra le sbarre. L’uomo si guardò indietro senza fermarsi, e vide le manticore, arrivate al pozzo di luce, dividersi in due gruppi e allontanarsi di sghembo in fila indiana lungo le pareti… Sussurri, sdrucciolii, rumore di corse affrettate… ticchettio di artigli… tic-tic-tic. Le manticore aborrivano la luce».

Come si vede bene la storia del manticora è molto più lunga di quella che fino ad adesso ho cercato di raccontare. Il vasto labirinto a volta, l’oscurità appena squarciata da irregolari strisce di luce, l’inseguimento dei manticora – diventati di genere femminile nella traduzione in italiano del testo originale inglese –, l’uomo misterioso in fuga che, per il lettore che avrà proseguito oltre, si rivelerà essere Virgilio (un Virgilio che più che dedicarsi alla poesia si dedica alla negromanzia e alla stregoneria), i ticchettii affrettati della corsa delle belve feroci sono tutti gli elementi che Avram Davidson ha 301

scelto per iniziare, nel 1966, il suo The Phoenix and the Mirror, un romanzo fantasy ambientato in un mondo tardo-classico ampiamente reinventato.1 I manticora che inseguono il Vergilius Magus hanno tratti nuovi e inusitati. Non si muovono nei deserti o nelle foreste dell’India, ma nei condotti sotterranei di una Napoli da favola; non emettono suoni simili a quelli della zampogna e della tromba, ma un verso gutturale che ricorda quello del tacchino; non sembrano essere animali solitari, ma si muovono in gruppo; e per di più, mentre il manticora di Eliano riusciva ad assalire anche tre uomini alla volta, gli animali che inseguono Virgilio quasi non osano avvicinarsi a lui: «Finora non si erano decise ad assalirlo. Il timore dell’uomo – insieme con l’odio per l’uomo, una delle loro caratteristiche istintive – glielo aveva impedito. Lui continuava a camminare, sicuro come se passeggiasse per le vie di Napoli. Alcune di quelle strade erano più buie di quel luogo; altre erano più strette… e altre ancora, anche se non molte, quasi altrettanto insicure. Dietro, con la medesima costanza, venivano le manticore. Di forma erano simili a grosse donnole tronfie, col pelo in massima parte di un giallo rossastro e irsute come capre; gli occhi sporgenti roteavano da tutte le parti e mostravano un’intelligenza incomprensibilmente diversa da quella dell’uomo, ma assai più che puramente animale. Attorno al collo avevano una criniera che pareva un collare di piume appiccicate a incorniciare una faccia da incubo, somigliante a un volto umano di dimensioni ridotte e schiacciato, con occhi vicini e bocca larga».

Viene quasi difficile riconoscere i tratti del manticora ai quali siamo stati abituati: il corpo dell’animale ha la forma affusolata delle donnole e il suo pelo non è più quello dei felini o dei cani, ma è irsuto come quello delle capre.2 Lo scrittore americano, insomma, ha pensato di accentuare i tratti meravigliosi della bestia, costruendo a bella posta un morfotipo iperbolicamente trans-specifico: il manticora è un animale con gli artigli di un felino, le piume di un uccello attorno al collo, il verso dei tacchini, il pelo degli ovini e il corpo dei mustelidi. Lo stesso volto del manticora è sempre meno qualcosa che somiglia al viso di un uomo (una similitudine, questa, ripresa e stravolta dallo scrittore) e sempre più ad una smorfia raccapricciante, a qualcosa che ricorda, nella sua scomposta atrocità, i 1. Per l’edizione italiana del romanzo, la cui traduzione sto tenendo presente, cfr. G. Montanari (a cura di), All’ombra degli dei, tre romanzi di Avram Davidson, Henry Kuttner, William Tenn, Mondadori, Milano 1979. 2. Si ricordi che nella Imago Mundi di Gossuin (XIII, 2454) venivano attribuiti al manticora occhi di capra (cfr. n. 21, p. 24). Gli occhi del manticora di Davidson sembrano invece ricordare gli occhi della iena di Plinio e Solino (cfr. a questo proposito pp. 232 sgg. e 238 sgg.).

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mascheroni che nelle miniature medievali rappresentavano l’ingresso dell’Inferno.3 Del manticora del mondo classico, in ultima istanza, sono rimasti pochi tratti e, soprattutto, è rimasto il nome. La cosa può sembrare poco rilevante. Nella storia della letteratura, del resto, non sono infrequenti i casi in cui i nomi propri di personaggi famosi ritornano in opere diverse da quelle nelle quali sono comparsi per la prima volta con caratteristiche più o meno mutate.4 Questo, per l’appunto, potrebbe essere il caso del manticora di Davidson (e ancora prima, forse, di quello di Flaubert), che viene visto come un essere che non possiede alcuna denotazione nel mondo reale e che viene riusato come un ente di finzione, alla stregua di qualsiasi “personaggio” letterario il cui nome funziona come un “designatore rigido” e il cui cluster di proprietà può essere mutato a piacimento a seconda delle esigenze di regia.5 Ebbene – proprio questo è il punto – tutto ciò non accadeva nel mondo classico. Filostrato, come si è visto, riusava letterariamente la notizia del manticora per caratterizzare meglio il personaggio Apollonio, ma era ben lontano dal dare alla belva – per così dire – la piena dignità di “personaggio” (anzi: la sua esistenza, nell’ambito del racconto, era perfino negata) o dallo stravolgere i tratti comunemente noti. Questi tratti, del resto, si presentavano di versione in versione come tendenzialmente omologati, tanto che – si potrebbe dire – l’identità della belva risultava essere nettamente determinata dal punto di vista epistemico. Ebbene, come poteva accadere tutto questo? Non è difficile pensare che la mancanza di quello che potremmo chiamare il “riuso finzionale” sia da attribuire proprio all’incertezza relativa all’esistenza della bestia: il manticora non era un animale chiaramente “non reale”, anzi si sospettava che esso facesse effettivamente parte del mondo conosciuto. Di contro, inoltre, il manticora non era un animale tanto “reale” e familiare da diventare, ad esempio, il personaggio di una favola di Fedro.6 3. Si veda ad es. la miniatura tratta da un’Apocalisse francese del ’300 riportata in fig. 4. 4. Per chiunque abbia una discreta pratica d’uso con i manuali di storia della letteratura italiana e con i “percorsi tematici” da essi sovente proposti agli alunni è facile ricordare, ad esempio, il caso del personaggio Ulisse, “riusato”, fra gli altri, da Dante, da D’Annunzio, da Joyce, da Pascoli, da Gozzano, da Consolo. 5. Per i nomi degli enti di finzione come “designatori rigidi” cfr. Pavel 1992, pp. 48 sgg., spec. p. 56. Si noti comunque come il “riuso finzionale” dei nomi propri può avvenire anche nel caso di personaggi storici (per casi di questo tipo cfr. Id., p. 44). 6. Bettini 1998, p. 237 sgg. sostiene che gli animali non sono “personaggi” veri e propri, perché la loro identità viene caratterizzata diversamente a seconda delle storie che li raccontano. Bisogna comunque ricordare che una sorte simile può capitare a tutti i “nomi propri” (e non solo ai “nomi comuni” degli animali) della letteratura: «Supponiamo allora che Nahum Tate abbia scritto una commedia

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In seconda istanza c’è da dire che il problema dei testi analizzati nei capitoli precedenti non era quello di usare il manticora come personaggio, bensì quello di presentare l’animale come un dato (o come un problema) di storia naturale. In un ambito di discorso simile si capisce come lo spazio per le variazioni nella descrizione dei tratti sia quasi nullo. Le variazioni più sostanziali sono semmai costituite dai commenti che i vari autori appongono all’ipotetica esistenza della bestia (“esiste”; “non esiste”; “ne parla Ctesia”). Non sorprende dunque che il “riuso finzionale” cominci proprio nel momento in cui risulta più chiaro che l’animale non possiede alcuna denotazione reale nel nostro mondo, vale a dire nel momento in cui il manticora comincia ad essere associato allo spazio parallelo dei mondi di fantasia degli antichi:7 nel momento stesso in cui finisce la storia naturale, dunque, gli spazi per la risemantizzazione e per la modifica del cluster dei tratti si allargano sempre di più.8 Se comunque per noi il manticora può anche essere un animale di fantasia, uno dei tanti mostri sanguinari e maligni che popolano i romanzi fantasy o i giochi di magic, non così era – lo si è già detto più volte – per gli antichi. Paradossalmente l’incipit di The Phoenix and the Mirror rischia di essere più istruttivo di qualsiasi manuale di zoologia fantastica: l’ansia controllata del Vergilius Magus che sfugge ai manticonella quale Cordelia si mostri in grado, fin dall’inizio, di esprimere amore per il proprio padre, non sposi il re di Francia ma assista Lear in tutte le sue vicissitudini e alla fine sposi Edgardo. Critici letterari minimamente accorti affermerebbero probabilmente che, così facendo Tate, ha sostituito Cordelia con un altro personaggio. Tuttavia, il modo più ovvio per descrivere l’accaduto sta nell’affermare che, nell’ipotetico dramma di Tate, Cordelia si comporta diversamente rispetto al dramma di Shakespeare» (Pavel 1992, p. 55). Il riuso letterario di animali “paradossali” nel mondo antico è attestato (cfr. ad es. Hld. 10, 26, 2 per i myrmekes indiani): gli esseri in questione tuttavia non perdono mai le loro proprietà e quasi mai rivestono funzioni narrative particolari (come nel caso, ad esempio, dell’incipit di The Phoenix and the Mirror). 7. Questa è in fondo l’ottica di Borges e Guerrero 19982, pp. 3-5 e 94 (ma anche, ad esempio, di Barber e Riches 1999, pp. 3 sgg. e 139-140). 8. A questo proposito sarebbe interessante capire quali sono le modalità in base alle quali, a partire dal Medio Evo, c’è una maggiore “creatività” nella rivisitazione dei tratti del manticora (cfr. a tale proposito n. 21, p. 24). Azzardo una possibile risposta: nel momento in cui la tradizione del Fisiologo viene a sostituire la logica della historia naturalis il problema non è più quello dell’effettiva esistenza di alcuni animali, quanto quello di «mettere in pratica il significato di una immagine» (cfr. Morini 1996, pp. VII sgg.). È a partire da questa ottica che i tratti del manticora possono essere rivisti in chiave “allegorica” e venire variamente pertinentizzati (se non addirittura amplificati). Proprio a partire da questa amplificazione allegorica potrebbe venire elusa la tendenziale fissità dell’omologazione dei tratti. La questione, comunque, merita un serio approfondimento. Per la “fine della storia naturale” cfr. il classico Foucault 1967, pp. 3 sgg. Per la fine del “meraviglioso” nel ’700 cfr. Daston e Park 2000, pp. 283 sgg.

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ra nei cunicoli di Napoli in fondo non deve essere molto dissimile dall’ansia di chi, per qualsivoglia ragione, si fosse dovuto recare in India (al tempo, ad esempio, di Alessandro Magno) o in Etiopia (ai tempi, ad esempio, di Augusto o di Traiano) e avesse temuto di imbattersi nell’animale antropofago e negli altri mostri dei margini tramandati dalla tradizione storiografica. In altri termini: se il nostro manticora è una “credenza” degli antichi o un ente di finzione che può popolare i “piccoli mondi” di invenzione, il manticora degli antichi era qualcosa che aveva a che fare con l’enciclopedia.9

1.

Sapere enciclopedico e sapere simbolico: come iscrivere il manticora nel libro della natura

Si è più volte parlato, nei capitoli precedenti, di “conoscenze” relative al manticora, così come di “enciclopedia” degli antichi. Ebbene a questo punto è forse opportuno fare qualche osservazione riguardo a questi due termini cercando, contemporaneamente, di tirare le fila di alcuni dei discorsi fin qui effettuati. Nel distinguere il sapere “semantico” dal sapere “enciclopedico” Sperber 1981 (pp. 90 sgg.) afferma che, mentre il primo «si fonda sulle categorie», il secondo invece «si fonda sul mondo». Se il primo può essere espresso sotto forma di proposizioni analitiche che non pretendono di avere alcuna referenza nel mondo reale, il secondo si esprime sotto forma di proposizioni sintetiche che possono essere vere o false a seconda dello stato del mondo. Ebbene, se prendiamo in considerazione la descrizione che chiameremo da ora in poi “M”: «il manticora è un animale che vive in India e che ha tre file di denti, etc.», vediamo subito che ci troviamo davanti, non ad una proposizione analitica (o ad un insieme di proposizioni analitiche), ma ad una proposizione sintetica (o ad un insieme di proposizioni sintetiche) che pretende di dare una informazione relativa ad un ente di natura che partecipa di un determinato stato del mondo. Il manticora, dunque, in un certo senso faceva parte dell’enciclopedia zoologica degli antichi. Il problema, però, come si è visto, sembrava essere grosso modo quello di stabilire la veridicità della rappresentazione relativa all’animale. Per risolvere la questione non c’era alcuna regola che venisse in aiuto: l’unico modo era quello di verificare sul posto l’esistenza del manticora; cosa che però risultava essere, per varie ragioni, se non impossibile, oltre modo difficile. Verificare lo “stato del mondo” era un’impresa pressoché insormontabile per qualsiasi histor e pro9. L’espressione “piccoli mondi” è mutuata da Eco 1990, pp. 193 sgg.

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prio per questo era naturale (e perfino “razionale”) che potessero nascere e addirittura convivere assieme i commenti più disparati sulla versione originale di Ctesia, commenti che possiamo riassumere e riformulare in questa maniera: 1) «“M” è una cosa che dice Ctesia che può essere vera come può essere falsa» (in Aristotele). 2) «“M” è una cosa che dicono Ctesia e Giuba, ed è vera» (in Plinio). 3) «“M” è una cosa che dice Ctesia, ma che è vera solo se si riconosce che non è “M” ma che è “T”» (in Pausania, dove “T” indica una proposizione del tipo: «la tigre è un animale pericoloso»). 4) «“M” è una cosa che dice Ctesia, molto credibile, ma che potrebbe anche essere falsa» (in Eliano). 5) «“M” è qualcosa di cui discutono Iarca e Apollonio e che è falsa» (in Filostrato). 6) «“M” è vera» (in Solino). 7) «“M” non merita neanche di essere enunciata» (in Eusebio di Cesarea).

Si noti che, in questo schema riassuntivo, tutte le volte che compare la proposizione (o l’insieme di proposizioni) che abbiamo indicato con “M” in enunciati che riguardano uno stato del mondo, essa viene “messa fra virgolette” e inclusa all’interno di altre proposizioni (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7) che, per l’appunto, la commentano e che in alcuni casi entrano in contraddizione fra loro (6 e 2, ad esempio, si contraddicono con 3 e 5). La maniera in cui il manticora era inserito nel sapere enciclopedico degli antichi aveva dunque molto in comune, per certi versi, con quello che Sperber 1981 (pp. 90 sgg.) chiama il “sapere simbolico”, caratterizzato dalla messa fra virgolette delle rappresentazioni concettuali non comprese fino in fondo che «coesistono senza difficoltà accanto a proposizioni enciclopediche che le contraddicono, direttamente o per implicazione».10 Bisogna però ricordare che, in Grecia e a Roma, tutte le “proposizioni enciclopediche” che avrebbero potuto contraddire la proposizione “M” (ad es. la formulazione aristotelica della “regola” sull’ibridismo animale) non avevano quasi mai valore di leggi, ma erano per lo più indicate come tendenze generali della natura (che, anzi, di norma operava in maniera sorprendente e parà physin proprio ai margini del mondo). Per di più, nel caso di Aristotele, addirittura, si ricorda che l’ipotetica esistenza del manticora non veniva a contraddire alcuna correlazione universale. 10. Sperber 1981, p. 93.

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In una situazione del genere, le uniche regole di discorso che permettevano di parlare del manticora (così come di qualsiasi altro animale paradossale e incerto) e di inserirlo nel “libro della natura” erano o quella dell’accettazione dell’autorità (peraltro malferma) di Ctesia (o di un altro autore) o, per l’appunto, quella della messa fra virgolette in uno stato di esistenza ipotetica di una notizia che, secondo un’abitudine tipica del genere historia, doveva comunque essere ricordata a prescindere dalla sua effettiva verità.

2.

Il manticora non è molto buono per pensare

Si è visto come le differenze principali fra le versioni del manticora in Grecia e a Roma siano essenzialmente differenze di commento e di “modalizzazione” della notizia. In particolare si è cercato di fare vedere come la rappresentazione relativa al manticora si adattasse di volta in volta ai diversi “ambienti” e ai diversi contesti nei quali veniva inserita dai vari autori. Aristotele usava il manticora come un “operatore polemico” finalizzato alla fondazione dell’autorità del proprio discorso (un uso per certi versi analogo a quello di Filostrato); per Plinio invece si trattava semplicemente di un dato in più nell’inventario di un mondo dominato da Roma; per Eliano il manticora era un essere “esotico” buono da descrivere, mentre per Pausania la negazione di questo animale paradoxon (e di molti altri) era, a suo modo, una maniera di recuperare (aggiustando il tiro ogni qual volta fosse stato necessario: e nel caso del manticora lo era) la tradizione storiografica greca. A prescindere da queste rifunzionalizzazioni, bisogna comunque dire che, nonostante i tratti del manticora potessero essere antropologicamente rilevanti (lo si è visto in particolare nel cap. 2), i riusi simbolici degli stessi erano pressoché scarsi, se non addirittura nulli. Certo, la sua stranezza e l’apparente stravaganza rispetto alle “credenze intuitive diffuse”, secondo le quali gli ibridi di uomo e animale erano comunque esseri, se non impossibili, spania (rari), rendevano il manticora un animale “memorabile” e quindi degno di essere ricordato nei vari trattati di historia. La memorabilità però, a differenza di quanto poteva accadere per altri animali strani o “incerti” del mondo antico, non si è mai trasformata, ad esempio, in proverbialità:11 i myrmekes indiani scavatori dell’oro, solo per fare un esempio, offrivano a Plinio un’occasione ghiotta per una tirata moralistica contro il lusso e la corruzio11. Cfr. ad es. il caso dei myrmekes indiani (a questo proposito cfr. P. Li Causi e R. Pomelli, art. cit.).

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ne dei costumi (cfr. Nat. Hist. 11, 111); il leone, poi, era notoriamente ottimo per pensare i modi di agire degli eroi, così come degli uomini dai comportamenti bestiali e disumani si poteva benissimo dire che erano stati generati, ad esempio, da una tigre ircana.12 Tutto questo per il manticora (almeno prima del Medio Evo – e nelle testimonianze a nostra disposizione –) non accadeva:13 tutte le affordances simboliche che i suoi tratti offrivano (il viso di leone, la coda di scorpione, lo scagliare i pungiglioni alla maniera dei Saci) venivano anzi sistematicamente ignorate.14

3.

I motivi del “contagio” e la sua fine

Il manticora era un essere in bilico, un animale che viveva nella zona d’ombra dell’esistenza (come ce ne sono tanti anche oggi) di cui poco si sapeva con certezza e che tuttavia nessuno riusciva pacificamente a sospingere nell’aereo mondo dell’immaginario. Sicuramente il manticora non era classificabile come “credenza intuitiva”:15 nel mondo (o meglio nello “stato del mondo”) dei Greci e dei Romani, esso non era qualcosa di immediatamente percepibile (come lo erano, ad esempio, il cane o la pernice); la sua esistenza, al contrario, poteva essere inferita unicamente a partire dall’universo di comunicazione che ruotava intorno al testo di Ctesia. Peraltro, diversamente da come capitava per altri animali “incerti”, tranne che nel caso della testimonianza scritta degli Indikà del medico di Cnido (e dell’opera di Giuba?), per il manticora non è attestata la produzione di altri semeia che potessero provare (anche a posteriori) la sua esistenza. 12. Cfr. ad es. Verg. Aen. 4, 367. Per i paragoni epici con il leone cfr. ad es. Il. 3, 23; 5, 161; 10, 485; 11, 113 etc. 13. Sarà l’interpretazione allegorica del Fisiologo e dei Bestiari, come si è visto (cfr. n. 21, p. 24) a pertinentizzare simbolicamente i tratti del manticora e, per così dire, a sfruttare le sue affordances (cfr. a questo proposito Bettini 1998, pp. 202 sgg.). 14. Le affordances corrispondono sostanzialmente alle «possibilità di riuso simbolico» che, quasi naturalmente, i singoli tratti di un oggetto o di un ente di natura presentano (cfr. Bettini 1998, pp. 202 sgg.). 15. A proposito delle credenze intuitive cfr. Sperber 1999, p. 93: «sono intuitive in quanto prodotto tipico di processi inferenziali e percettivi spontanei e inconsci, per avere credenze intuitive non c’è bisogno di essere consapevoli di possederle, e ancor meno delle ragioni per cui le abbiamo» e poi a p. 94: «le credenze intuitive derivano o sono derivabili dalla percezione attraverso il meccanismo inferenziale. Il vocabolario mentale delle credenze intuitive è probabilmente limitato a concetti di base, vale a dire a concetti che si riferiscono a fenomeni identificabili percettivamente e a concetti astratti innati e non analizzati (come, per esempio, norma, causa, sostanza, specie, funzione, numero o verità). In circostanze normali, le credenze intuitive riguardano tutto ciò che è concreto e affidabile. Insieme, esse rappresentano una specie di visione del mondo dettata dal senso comune».

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Per i myrmekes indiani, ad esempio, c’era la testimonianza di Nearco, generale di Alessandro, che diceva di avere visto le pelli dell’animale portate in dono dagli Indiani all’accampamento dei soldati macedoni. Plinio, poi, nel I sec. d.C., riferiva della possibilità di vedere esposte, nel tempio di Ercole ad Eritre, le corna di una Indica formica.16 Ebbene, per il manticora non c’era niente di tutto questo: nonostante i secoli passassero, l’unica fonte autoritativa continuava ad essere Ctesia, senza che nulla di veramente rilevante (ad esclusione dell’aggiunta del tratto dell’imitazione della voce umana con Plinio il Vecchio) accadesse nel “contagio” della rappresentazione. E tuttavia, nonostante l’assenza di nuove prove, la rappresentazione relativa al manticora continuò ad essere “contagiata” almeno fino al IV secolo d.C. Si può provare a trovare alcune spiegazioni per il perpetuarsi della memoria dell’animale: in primo luogo bisogna pensare che la sua stranezza e la sua ambiguità dovevano sicuramente contribuire ad aumentare l’attrattiva delle historiae che ne parlavano. In secondo luogo per molto tempo, anche se incerta, la notizia del manticora dovette mantenere un fondo di credibilità: ora perché non in contrasto con le credenze diffuse in base alle quali la natura operava “prodigi” ai margini del mondo, ora perché si considerava la fonte della notizia come degna di fiducia (questo sembra essere, ad esempio, il caso di Plinio e, in fondo, anche di Pausania, che pure correggeva la rappresentazione), ora perché non si poteva fare a meno di riferire le parole dell’unica fonte di cui si disponeva in proposito (e dunque perché si doveva “cedere” alla sua autorità: questo era, ad esempio, il caso di Eliano). In altri termini, il manticora veniva “contagiato” perché dotato di fascino e, in qualche modo, anche di credibilità; una credibilità costruita a partire da una struttura autoritativa che pure si rivelava molto fragile. Il primo duro colpo a questa struttura era stato dato da Aristotele (un colpo che, come si è visto, nel caso dei paradossografi ha portato, con molta probabilità, all’interruzione della trasmissione), ma la catastrofe definitiva, in questo senso, si ebbe con Eusebio di Cesarea, con il quale il manticora non solo perdette la sua credibilità, ma anche il suo fascino. Dobbiamo aspettare i bestiari medievali perché qualcuno cominci di nuovo a temere il mostro antropofago dell’India.

16. Per i myrmekes indiani cfr. ad es. Strab. 15, 1, 44; Arr. Ind. 15, 4-7; Plin. Nat. Hist. 11, 111 (su questi passi cfr. P. Li Causi e R. Pomelli, art. cit.). Testimonianze analoghe erano prodotte per i grifoni (a proposito dei quali cfr. Mayor 2000, pp. 15 sgg.).

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332

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INDICE DEI PASSI CITATI

Aezio 5, 19, 5: 162 n. 157

Apostolio 10, 75 Leutsch: 164 n. 165

Agostino enarratio in Psalmos 66, 10: 300 n. 134

Aristofane Ran. 1042: 91 n. 229

Alessi fr. 207 K. -A.: 277 n. 80 Ammiano Marcellino Chron. 23, 6, 50: 279 n. 86 Anaxilas fr. 27 Kaibel: 164 n. 165 Anonimo Latino Physiogn. 22: 79 Physiogn. 23: 79 Physiogn. 24: 80 Physiogn. 25: 80 Physiogn. 35: 80 Physiogn. 51: 85 n. 209 Physiogn. 121: 87 n. 217 Anthologia Graeca 6, 46, 3: 91 n. 230 6, 151, 1 sgg.: 91 n. 230 6, 159, 1 sgg.: 91 n. 230 7, 425, 8: 75 n. 177 Antigono di Caristo 1: 111 n. 36 4: 111 n. 36 9: 111 n. 36 15: 55 n. 115 15 b: 169; 185 n. 25 49: 169 n. 175 145: 170 n. 178; 185 150: 170 n. 178 165: 170 n. 178

Aristofane di Bisanzio Hist. Anim. epitome 2, 162: 28 n. 30 Hist. Anim. epitome 2, 270: 206 n. 79; 288 n. 101 Aristotele De int. 1, 16 a 16 sgg.: 22 n. 18 APr. 1, 38, 49 a 24: 22 n. 18; 159 n. 148 APo. 1, 19, 81 b 10 sgg.: 261 n. 39 APo. 2, 1, 89 b 32: 159 n. 148 APo. 2, 7, 92 b 7: 22 n. 18; 159 n. 148 Top. 1, 5, 102 a 18: 257 n. 19 Top. 4, 3, 123 a 30 sgg.: 144 Phys. 2, 8, 198 b 10 sgg.: 156 n. 142; 163 n. 161 Phys. 2, 8, 198 b 31 sgg.: 269 n. 66 Phys. 4, 1, 208 a 27 sgg.: 159 n. 148 Phys. 4, 1, 208 a 30 sgg.: 22 n. 18 Cael. 2, 2, 284 b 25 sgg.: 88 n. 221 Cael. 2, 14, 298 a 9-15: 183 n. 21 An. 1, 2, 404 a 1-16: 198 n. 51 Resp. 9, 471 b 19 sgg.: 197 n. 49 Resp. 10, 472 a 1 sgg.: 198 n. 51 Resp. 15, 474 b 31 sgg.: 197 n. 49 Hist. Anim. 1, 1, 486 a 5 sgg.: 116 n. 47 Hist. Anim. 1, 1, 486 b 17-21: 198 n. 50 Hist. Anim. 1, 1, 486 a 25- 487 a 10: 116 n. 49 Hist. Anim. 1, 1, 487 a 10 sgg.: 119 n. 56; 121; 132 Hist. Anim. 1, 1, 487 b 10 sg.: 167 n. 170

333

Hist. Anim. 1, 1, 487 a 22 sgg.: 126 n. 67 Hist. Anim. 1, 1, 488 a 26: 75 n. 176 Hist. Anim. 1, 1, 488 a 26-29: 126; 126 n. 65 Hist. Anim. 1, 1, 488 b 17: 84 n. 197 Hist. Anim. 1, 5, 489 b 35: 198 n. 50 Hist. Anim. 1, 5, 490 a 5 sgg.: 136 Hist. Anim. 1, 5, 490 a 11: 141 Hist. Anim. 1, 8, 491 b 9 sgg.: 153 n. 139 Hist. Anim. 1, 9, 491 b 11-15: 78 n. 187 Hist. Anim. 1, 10, 491 b 24 sgg.: 78 n. 187 Hist. Anim. 1, 10, 491 b 34 – 492 a 7: 77 n. 186 Hist. Anim. 1, 10, 492 a 8 sgg.: 77 n. 184 Hist. Anim. 1, 12, 493 a 14-15: 56 n. 119 Hist. Anim. 1, 15, 493 b 32: 78 n. 187 Hist. Anim. 2, 1, 498 b 25- 499 a 9: 141; 288 n. 101 Hist. Anim. 2, 1, 499 a 4: 142 Hist. Anim. 2, 1, 499 b 11 sgg.: 147 n. 130 Hist. Anim. 2, 1, 499 b 15 sgg.: 129 n. 76 Hist. Anim. 2, 1, 499 a 13-30: 114 Hist. Anim. 2, 1, 499 a 28-30: 117 Hist. Anim. 2, 1, 501 a 8 sgg.: 63 n. 141; 149; 178 Hist. Anim. 2, 1, 501 a 24 sgg: 18 n. 5; 36 n. 55; 56; 63; 176; 213; 275 n. 77 Hist. Anim. 2, 3, 501 b 20 sgg.: 56 n. 119 Hist. Anim. 2, 7, 502 a 9-15: 127 Hist. Anim. 2, 8, 502 a 16 sg.: 153 n. 139 Hist. Anim. 2, 8, 502 a 24: 153 n. 139 Hist. Anim. 2, 10, 502 b 28-503 a 14: 121 sg. Hist. Anim. 3, 9, 517 a 28 sgg.: 72 n. 167 Hist. Anim. 3, 22, 523 a 17 sg.: 129 Hist. Anim. 3, 22, 523 a 26: 104 n. 20 334

Hist. Anim. 3, 22, 523 a 26 sg.: 56 n. 119 Hist. Anim. 4, 7, 532 b 18-26: 143 sg. Hist. Anim. 4, 7, 532 b 19: 144 Hist. Anim. 4, 9, 536 a 20-22: 235 Hist. Anim. 4, 9, 536 b 20 sgg.: 90 Hist. Anim. 5, 2, 540 a 19 sgg.: 192 n. 40 Hist. Anim. 5, 5, 541 a 26 sg.: 266 n. 56 Hist. Anim. 5, 14, 546 b 7 sgg.: 192 n. 40 Hist. Anim. 5, 16, 548 a 28 sgg.: 167 n. 170 Hist. Anim. 6, 7, 563 b 14 sgg.: 97 n. 5 Hist. Anim. 6, 27, 578 a 17 sgg.: 192 n. 40 Hist. Anim. 6, 31, 579 b 1 sgg.: 126 n. 67; 128 n. 71 Hist. Anim. 6, 32, 579 b 15 sgg.: 239 n. 159 Hist. Anim. 8, 1, 588 a 16 sgg.: 158 n. 146 Hist. Anim. 8, 1, 588 a 29-31: 261 n. 39 Hist. Anim. 8, 1, 588 b 20 sg.: 167 n. 170 Hist. Anim. 8, 3, 592 b 8: 75 n. 176 Hist. Anim. 8, 6, 595 a 8: 164 n. 164 Hist. Anim. 8, 28, 605 b 22 sgg.: 113 n. 40 Hist. Anim. 8, 28, 606 a 8: 104 n. 20 Hist. Anim. 8, 28, 606 a 8-10: 56; 61 n. 134; 113 n. 40; 131 n. 82 Hist. Anim. 8, 28, 606 b 14 sgg.: 126 n. 67 Hist. Anim. 8, 28, 606 b 17-19: 216 n. 107 Hist. Anim. 8, 28, 606 b 17- 607 a 8: 162 n. 159; 163; 166 Hist. Anim. 8, 28, 606 b 23 sg.: 165 Hist. Anim. 8, 28, 607 a 4 sgg.: 277 n. 82 Hist. Anim. 8, 29, 607 a 15 sgg.: 88 n. 222 Hist. Anim. 9, 1, 608 b 29-609 a 4: 125 Hist. Anim. 9, 1, 609 a 8: 75 n. 176 Hist. Anim. 9, 2, 609 a 13 sgg.: 74 n. 176 Indice dei passi citati

Hist. Anim. 9, 5, 611 a 25 sgg.: 87 Hist. Anim. 9, 5, 611 b 26 sgg.: 92 n. 235 Hist. Anim. 9, 27, 617 b 27 sgg.: 137 n. 99 Hist. Anim. 9, 27, 617 b 29 sgg.: 126 Hist. Anim. 9, 47, 630 b 31- 631 a 1: 117 n. 53 Hist. Anim. 9, 51, 632 b 14 sgg.: 97 n. 5 Hist. Anim. 10, 3, 636 a 10 sgg.: 266 n. 56 Hist. Anim. 10, 5, 637 b 5 sgg.: 266 n. 56 Part. Anim. 2, 1, 646 a 8-10: 105 Part. Anim. 2, 3, 650 b 5 sgg.: 197 n. 49 Part. Anim. 2, 17, 660 b 25 sgg.: 122 n. 60 Part. Anim. 3, 2, 663 a 20 sgg.: 140 n. 109 Part. Anim. 3, 2, 663 a 24 sgg.: 129 n. 76 Part. Anim. 3, 3, 665 a 22 sgg.: 88 n. 221; 154; 154 n. 140 Part. Anim. 4, 5, 681 a 11 sgg.: 167 n. 170 Part. Anim. 3, 11, 690 b 20 sgg.: 122 n. 60 Inc. Anim. 5, 706 b 1 sgg.: 88 n. 221 Inc. Anim. 5, 706 b 12 sgg.: 154 n. 140 Gen. Anim. 1, 17, 721 b 6 sgg.: 162 n. 158 Gen. Anim. 1, 18, 722 b 7 sgg.: 162 Gen. Anim. 1, 18, 722 b 17 sgg.: 162 Gen. Anim. 1, 18, 722 b 22-23: 162 n. 159 Gen. Anim. 2, 2, 736 a 2-5: 56; 57; 129 n. 75 Gen. Anim. 2, 2, 736 a 10: 129 Gen. Anim. 2, 7, 746 a 29 sgg.: 162 n. 159; 164 n. 165; 166; 269 n. 66 Gen. Anim. 2, 7, 746 b 12-16: 165 Gen. Anim. 3, 5, 756 a 5 sgg.: 128 n. 71 Gen. Anim. 3, 5, 756 b 6 sg.: 128 n. 73 Indice dei passi citati

Gen. Anim. 3, 6, 757 a 2 sgg.: 233 n. 143; 239 n. 159 Gen. Anim. 3, 10, 760 a 5: 257 n. 19 Gen. Anim. 4, 3, 769 b 13-18: 166 Gen. Anim. 4, 3, 769 b 22-25: 166 Gen. Anim. 4, 4, 769 b 30 sgg.: 166 n. 169 Gen. Anim. 4, 4, 770 b 26 sg.: 166 n. 169 Mir. 83, 836 b 27 sgg.: 169 n. 175 Mir. 144, 845 a 17 sgg.: 169 n. 175 Mir. 145, 845 a 24 sgg.: 233 n. 143 Mir. 146, 845 a 28: 28 n. 30 Metaph. 1, 1, 980 a 26 sgg.: 261 n. 39 Metaph. 1, 2, 982 b 12-20: 148 n. 134 Metaph. 3, 2, 997 b 10: 153 n. 139 Pol. 1, 3, 1256 b 15 sgg.: 158 n. 146 EN 6, 7, 1141 a 25-28: 261 n. 39 EN 7, 1, 1145 a 29 sgg.: 70 n. 161 EN 7, 5, 1148 b 20 sgg.: 70 n. 161 Rhet. 2, 2, 1378 b 9-10 sgg.: 117 n. 53 Poet. 22, 1458 a 26: 33 n. 45 Arpocrazione Lex. s. v. Σκιαπ v οδες, p. 276 Dindorf: 296 n. 127 Lex. s. v. χρυσωχοειν' , p. 307 Dindorf: 250 n. 14 Lex. s. v. χρυσωχοει'ν, pp. 307-309 Dindorf: 37 n. 56 Arriano Anab. 5, 4, 2: 56 n. 117 Ind. 15, 1: 289 n. 104 Ind. 15, 1: 86 n. 212; 277 n. 81; 280 n. 88 Ind. 15, 2: 86 n. 88, 280 n. 88 Ind. 15, 4 sgg.: 184 n. 23; 249 n. 10; 296 n. 128; 309 n. 16 Ind. 15, 5: 249 n. 11 Ind. 15, 8-9: 113 n. 40 Ateneo 5, 64 Kaibel: 21 n. 10 8, 65 Kaibel: 153 n. 139 9, 44 Kaibel: 153 n. 139 13, 57 Kaibel: 135 n. 94; 277 n. 80 335

Aulo Gellio 2, 26, 19: 76 n. 180 Bestiario Moralizzato XVI p. 501 Morini: 280 n. 87 XXIV p. 505 Morini: 24 n. 21; 41 n. 77 Brunetto Latini Tresor p. 168 Carmody: 25 n. 21 Cassio Dione 51, 22, 5: 288 n. 101 72, 10, 3: 288 n. 101 76, 1, 4: 181 n. 16 Catullo Carm. 45, 7: 76 n. 183 Cesare B. Civ. 3, 46: 91 n. 229 B. Gall. 6, 26: 289 n. 109 B. Gall. 6, 27: 67 n. 153; 288 n. 102 Cicerone Att. 1, 16, 11: 92 n. 233 De fato 7 sgg.: 78 n. 187 De orat. 3, 225: 92 div. 2, 81: 223 n. 123 nat. deor. 1, 2: 219 n. 114 nat. deor. 1, 57 sgg.: 223 n. 123 nat. deor. 1, 62 sg.: 223 n. 123 nat. deor. 1, 81 sgg.: 220 n. 116 nat. deor. 1, 88: 224 nat. deor. 2, 45 sgg.: 220 n. 116 nat. deor. 2, 5: 220 nat. deor. 3, 1 sgg.: 223 n. 123 nat. deor. 3, 15: 223 nat. deor. 3, 5: 223 n. 125 nat. deor. 3, 53 sgg.: 223 n. 123 Tusc. 1, 26: 219 n. 113 Tusc. 1, 28: 220 n. 115; 220 n. 116 Tusc. 1, 30: 219; 219 n. 114

FrGrHist 688 T. 8: 58 n. 125 FrGrHist 688 T. 11: 55 n. 114 FrGrHist 688 F. 1b: 59 FrGrHist 688 F. 1, 1l γ: 185 n. 25 FrGrHist 688 F. 1, 14: 185 FrGrHist 688 F. 3: 185 n. 25; 187 n. 27 FrGrHist 688 F. 29 a: 56 n. 116 FrGrHist 688 F. 36: 55 n. 115 FrGrHist 688 F. 45a: 56 n. 117 FrGrHist 688 F. 45, 6: 296 n. 127 FrGrHist 688 F. 45, 8: 236 n. 153 FrGrHist 688 F. 45, 10: 211 n. 90; 277 n. 82 FrGrHist 688 F. 45, 15: 19; 19 n. 7; 58 n. 126; 87; 151 n. 137; 279 FrGrHist 688 F. 45, 21: 296 n. 127 FrGrHist 688 F. 45, 26: 296 n. 127 FrGrHist 688 F. 45, 27: 113 n. 40 FrGrHist 688 F. 45, 36: 185 n. 25; 190 FrGrHist 688 F. 45, 45: 140 n. 108; 182 n. 16 FrGrHist 688 F. 45, 45p α: 185 n. 25; 187 n. 28 FrGrHist 688 F. 45, 45 t: 185 n. 25 FrGrHist 688 F. 45, 49: 170 n. 178 FrGrHist 688 F. 47 b: 185 n. 25 FrGrHist 688 F. 48 a: 56 n. 119 FrGrHist 688 F. 51: 187 n. 28 FrGrHist 688 F. 51 a: 296 n. 127 FrGrHist 688 F. 51 b: 296 n. 127 FrGrHist 688 F. 52: 185 n. 25; 187 n. 29 FrGrHist 688 F. 60: 296 n. 127 FrGrHist 688 F. 61 a: 170 n. 178 FrGrHist 688 F. 61 b: 185 n. 25; 187 n. 30 Curzio Rufo 8, 9, 12-13: 72 n. 168 9, 1, 11: 72 n. 168 9, 8, 2: 279 n. 86

Claudiano Rapt. Pros. 1, 65: 91 n. 229 Rapt. Pros. 3, 263 sgg.: 280 n. 87

Democrito 68 A 157 DK: 74 n. 176

Ctesia di Cnido FrGrHist 688 T. 1 sgg.: 19 n. 6; 45 n. 87; 55 n. 114

Diodoro Siculo 2, 8, 4: 59 2, 8, 6: 59

336

Indice dei passi citati

2, 35, 3 sgg.: 72 n. 168 2, 51, 1: 288 n. 101 3, 2, 1: 59 n. 168 3, 3, 1 sgg.: 72 n. 168 3, 35, 1 sgg.: 72 n. 168 3, 35, 2 sg.: 288 n. 101 3, 35, 7: 87 3, 35, 7 sgg.: 71; 71 n. 167; 76 n. 182; 76 n. 183; 81 n. 195; 228 3, 35, 10: 181 n. 16 3, 58, 2: 92 n. 233 3, 58, 3: 92 n. 233 4, 8, 4: 22 n. 17 17, 92, 1 sg.: 277 n. 82 Diogene 6, 11 Leutsch: 164 n. 165 Dione di Prusa 12, 1 sgg.: 74 n. 176; 75 n. 178 35, 24: 87 n. 213 72, 15: 75 n. 176 Donato Comm. ad Ter. Hec. 440: 76 n. 183 Eliano Nat. Anim. praef.: 263 n. 45; 264 Nat. Anim. 1, 28: 87 n. 213 Nat. Anim. 1, 29: 75 n. 178 Nat. Anim. 1, 31: 84 n. 198 Nat. Anim. 1, 35: 263 n. 45; 266; 266 n. 55 Nat. Anim. 1, 57: 31 n. 38 Nat. Anim. 1, 58: 258 n. 23 Nat. Anim. 2, 5: 34 n. 48 Nat. Anim. 2, 7: 34 n. 48; 260 n. 31 Nat. Anim. 2, 10: 87 n. 213 Nat. Anim. 2, 39: 261 n. 35 Nat. Anim. 2, 49: 261 n. 35 Nat. Anim. 2, 52: 261 n. 35 Nat. Anim. 3, 1: 84 n. 199; 85 Nat. Anim. 3, 3: 61 n. 134; 113 n. 40 Nat. Anim. 3, 5: 266 n. 55 Nat. Anim. 3, 9: 75 n. 178 Nat. Anim. 3, 16: 266; 266 n. 55 Nat. Anim. 3, 23: 265 n. 49 Nat. Anim. 3, 24: 261 n. 35 Nat. Anim. 3, 31: 34 n. 48 Indice dei passi citati

Nat. Anim. 3, 40: 261 n. 35 Nat. Anim. 3, 45: 261 n. 35 Nat. Anim. 4, 1: 264 n. 47; 265 Nat. Anim. 4, 2: 259 n. 26 Nat. Anim. 4, 4: 259 n. 26 Nat. Anim. 4, 5: 266 n. 55 Nat. Anim. 4, 6: 261 n. 35 Nat. Anim. 4, 7: 259 n. 26 Nat. Anim. 4, 8: 259 n. 26 Nat. Anim. 4, 12: 266 n. 55 Nat. Anim. 4, 13: 266 n. 55 Nat. Anim. 4, 16: 266 n. 55 Nat. Anim. 4, 18: 28 n. 30 Nat. Anim. 4, 19: 277 n. 82 Nat. Anim. 4, 20: 258 Nat. Anim. 4, 21 : 32 n. 40; 36 n. 55; 58 n. 126; 62 n. 136; 65; 65 n. 146; 65 n. 147; 69 n. 159; 84; 88; 97; 151 n. 137; 251 sgg.; 274 Nat. Anim. 4, 22: 258 sg. Nat. Anim. 4, 26: 257 n. 21 Nat. Anim. 4, 27: 257 n. 21 Nat. Anim. 4, 29: 259 n. 26 Nat. Anim. 4, 32: 61 n. 134 Nat. Anim. 4, 34: 85 n. 209 Nat. Anim. 4, 36: 257 n. 21 Nat. Anim. 4, 40: 85 n. 204 Nat. Anim. 4, 41: 257 n. 21 Nat. Anim. 4, 45: 259 n. 26 Nat. Anim. 4, 46: 257 n. 21 Nat. Anim. 4, 52: 86 n. 212; 257 n. 21 Nat. Anim. 4, 53: 263 n. 45 Nat. Anim. 4, 54: 259 n. 26 Nat. Anim. 4, 56: 259 n. 26 Nat. Anim. 4, 57: 261 n. 35 Nat. Anim. 4, 58: 261 n. 35 Nat. Anim. 5, 2: 75 n. 178 Nat. Anim. 5, 3: 257 n. 21 Nat. Anim. 5, 8: 261 n. 35 Nat. Anim. 5, 17: 265 n. 49 Nat. Anim. 5, 39: 84 n. 202 Nat. Anim. 5, 46: 266 n. 55 Nat. Anim. 5, 48: 266 n. 55 Nat. Anim. 5, 50: 34 n. 48 Nat. Anim. 6, 2: 263 n. 45 Nat. Anim. 6, 25: 85 n. 208 Nat. Anim. 6, 44: 259 n. 26 Nat. Anim. 6, 62: 85 n. 208 337

Nat. Anim. 7, 5: 21 n. 10 Nat. Anim. 7, 11: 263 n. 45 Nat. Anim. 7, 12: 85 n. 208 Nat. Anim. 7, 13: 85 n. 208 Nat. Anim. 7, 19: 266 n. 55 Nat. Anim. 7, 22: 181 n. 16; 233 n. 143 Nat. Anim. 7, 25: 85 n. 205 Nat. Anim. 7, 38: 85 n. 208 Nat. Anim. 7, 40: 85 n. 208 Nat. Anim. 7, 45: 263 n. 45 Nat. Anim. 7, 48: 84 n. 200 Nat. Anim. 8, 1: 277 n. 82; 278 Nat. Anim. 8, 2: 85 n. 208 Nat. Anim. 8, 8: 21 n. 10 Nat. Anim. 8, 26: 263 n. 45 Nat. Anim. 9, 1: 84 n. 201 Nat. Anim. 9, 7: 263 n. 45 Nat. Anim. 9, 23: 21 n. 10; 31 n. 38 Nat. Anim. 9, 30: 84 n. 201 Nat. Anim. 10, 35: 266 n. 55 Nat. Anim. 11, 3: 85 n. 208 Nat. Anim. 11, 5: 85 n. 206 Nat. Anim. 11, 13: 85 n. 208 Nat. Anim. 11, 20: 85 n. 207 Nat. Anim. 11, 40: 273; 274; 274 n. 74 Nat. Anim. 13, 21: 274 n. 71; 285; 285 n. 95 Nat. Anim. 13, 25: 266 n. 55 Nat. Anim. 14, 6: 181 n. 16 Nat. Anim. 15, 11: 233 n. 143 Nat. Anim. 15, 14: 279 n. 86 Nat. Anim. 15, 21: 61 n. 134 Nat. Anim. 16, 3: 272 n. 69 Nat. Anim. 16, 4: 272 n. 69 Nat. Anim. 16, 5: 61 n. 134 Nat. Anim. 16, 7: 266 n. 55 Nat. Anim. 16, 18: 31 n. 38; 34 n. 48; 272 n. 69 Nat. Anim. 16, 19: 34 n. 48 Nat. Anim. 16, 20: 272 n. 69 Nat. Anim. 16, 29: 268 sg. Nat. Anim. 16, 31: 257 n. 21 Nat. Anim. 16, 37: 61 n. 134 Nat. Anim. 16, 39: 61 n. 134 Nat. Anim. 16, 42: 257 n. 21 Nat. Anim. 17, 1: 272 n. 69 Nat. Anim. 17, 9: 22 n. 17; 86 n. 212; 266 n. 57; 270 sg.; 285 n. 93 338

Nat. Anim. 17, 14: 272 sg. Nat. Anim. 17, 15: 266; 266 n. 55 Nat. Anim. 17, 28: 273 n. 70 Nat. Anim. 17, 29: 257 n. 21 Nat. Anim. 17, 34: 257 n. 21 Nat. Anim. 17, 44: 288 n. 101 Nat. Anim. 17, 45: 72 n. 167 Nat. Anim. epilog.: 260 n. 32; 263 n. 44 Eliodoro Aith. 3, 8, 2: 34 n. 48 Aith. 10, 26, 2: 249 n. 9; 297 n. 130; 304 n. 6 Aith. 10, 27, 4: 288 n. 101 Empedocle A 72 DK: 162 n. 157 B 57 DK: 162 B 59 DK: 161; 161 n. 156; 269 B 60 DK: 162 n. 157 B 61 DK: 161 n. 156; 162 n. 157; 269 B 62 DK: 162 n. 157 B 65 DK: 162 n. 157 B 67 DK: 162 n. 157 B 71, 4 DK: 162 n. 157 Erodoto 1, 80, 2-5: 113 n. 41 1, 153, 4: 88 n. 222 1, 192, 4: 277 n. 82 2, 46, 2: 154 n. 139 2, 65, 2 sgg.: 118 n. 55 2, 68, 1-5: 118 sgg. 2, 69, 1-3: 124 sg. 2, 71: 127 2, 75, 1-5: 139 n. 105 2, 75-76: 57; 126; 137; 137 n. 99 2, 76, 1: 154 n. 139 2, 76, 2-3: 137 2, 86, 7: 153 n. 139 3, 94: 183 3, 98 sgg.: 106 sgg.; 184 n. 23; 231 n. 141 3, 98, 1: 106 3, 98, 2: 107 3, 98, 3: 107 3, 98-100: 109 3, 98-106: 248 Indice dei passi citati

3, 99, 1: 107 3, 99, 1 sgg.: 70 n. 161 3, 101, 1-2: 107 3, 102, 1-3: 107 3, 102, 2: 111 3, 102, 3: 87 n. 213 3, 103: 113; 289 n. 107 3, 104, 1-3: 109 3, 104, 2-3: 72 n. 168 3, 105, 2: 249 3, 106, 1: 215 n. 106 3, 106, 1-3: 61 n. 134; 110 n. 33 3, 113: 115 n. 43 4, 191: 201 n. 64 7, 64, 2: 88 n. 222 7, 83, 2: 117 n. 52 7, 86, 2: 113 n. 41 7, 87: 113 n. 41 7, 125: 117 n. 52 7, 184, 4: 113 n. 41 9, 81, 2: 117 n. 52 Eschilo Ag. 1233: 21 n. 10 Sept. 394 sg.: 91 n. 229 Esiodo Sc. 184: 22 n. 17 Th. 281: 181 n. 16 Th. 931: 286 n. 100 Eubulo fr. 20 Hunter: 37 n. 56; 249 n. 9 Euripide Alc. 579: 181 n. 16 Fr. 996, 1: 204 n. 73 Eusebio di Cesarea Comm. in Psalm. 23, 1156: 34 n. 48 Hier. 17: 66 n. 151; 298 Hier. 22: 32 n. 43; 36 n. 55; 66 n. 150; 248 n. 7; 299 Filemone Fr. 49 K.-A: 135 n. 94; 277 n. 80 Filodemo De diis I, col. 10, 33-15, 34 Diels: 262 n. 40 Indice dei passi citati

Filostrato Ap. 1, 39: 31 n. 38 Ap. 2, 14: 280 n. 87 Ap. 2, 43: 295 n. 126 Ap. 3, 32: 31 n. 38 Ap. 3, 45: 32 n. 43; 36 n. 55; 66 n. 149; 248 n. 7; 293 sgg. Ap. 4, 3: 31 n. 38 Ap. 4, 4: 31 n. 38 Ap. 5, 9: 31 n. 38 Ap. 5, 13: 31 n. 38 Ap. 6, 1: 37 n. 56; 184 n. 23 Ap. 6, 10: 31 n. 38 Ap. 6, 11: 31 n. 38 Ap. 7, 14: 31 n. 38 Vitae Soph. 2, 624 sgg.: 274 n. 74 Fozio Bibl. 35 b 41-43 Henry: 58 n. 125 Bibl. 45b 31-46 a 12 Henry: 19; 69 n. 159; 87 sg.; 151 n. 137 Bibl. 46 a 10-12 Henry: 279 Bibl. 47 b 5-18 Henry: 190 Galeno de simplicium medicamentorum temperamentis ac facultatibus, XII, p. 250 Kühn: 34 n. 48 Giovanni Lido De mens. 4, 54: 74 n. 176 Girolamo Cardano De rerum varietate 1, 7: 63 n. 139 Giulio Ossequente 154, 12: 182 n. 17 155, 14: 32 n. 41; 182 n. 17 157, 22: 32 n. 41 158, 25: 32 n. 41 Gossuin Imago Mundi XIII, 2454 sgg.: 24 n. 21; 302 n. 2 Grattio Cyneg. 161 sgg.: 277 n. 82 Gregorio di Cipro 2, 60 Leutsch: 164 n. 165 339

Ippocrate Arie, Acque e Luoghi 12: 164 n. 165 Arie, Acque e Luoghi 14: 79; 162 n. 158 Sul morbo sacro 2: 162 n. 58 Sulla generazione 3: 162 n. 58 Sulla generazione 8: 162 n. 58 Isidoro di Siviglia Orig. 12, 1, 50: 76 n. 182 Orig. 12, 2, 11: 217 n. 111 Isigono di Nicea FHG IV fr. 1: 76 n. 181 Leucippo 67 A 28 DK: 198 n. 51 Lucano 1, 431 sg.: 91 n. 228 4, 62-7: 72 n. 168 7, 475-479: 91 n. 229 Luciano Alex. 12 sgg.: 209 n. 86 DMeretr. 2, 1: 79 Gall. 16: 37 n. 56; 108 n. 29; 249 n. 9; 250 n. 14 Harm. 1: 75 n. 178 Vera Hist. 1, 3: 48 n. 93; 56 n. 117; 290 n. 112 Vera Hist. 1, 4: 48 n. 93 Vera Hist. 1, 7: 295 n. 126 Lucrezio 4, 732 sgg.: 22 n. 17 5, 837 sgg.: 164 n. 165; 218 n. 112; 269 n. 66 5, 878 sgg.: 22 n. 17; 220 n. 117 Macrobio Sat. 1, 20, 3: 76 n. 183 Marziale 3, 44, 6: 280 n. 87 Marziano Capella 6, 698: 279 n. 86 340

Nicandro Th. 372: 21 n. 10 Th. 384: 21 n. 10 Nonno di Panopoli D. 5, 146: 21 n. 10 Omero Ad Ath. 1, 1-5: 74 n. 175 Il. 1, 206: 74 n. 173 Il. 1, 225: 87 n. 218 Il. 2, 166: 74 n. 173 Il. 2, 172: 74 n. 173 Il. 3, 23: 308 n. 12 Il. 4, 439: 74 n. 173 Il. 5, 161: 308 n. 12 Il. 10, 485: 308 n. 12 Il. 11, 113: 308 n. 12 Il. 11, 113 sgg.: 87 n. 216 Il. 11, 832: 22 n. 17 Il. 13, 102 sg.: 87 n. 217 Il. 18, 217-221: 90 Il. 18, 525 sg.: 92 n. 233 Il. 20, 449: 85 n. 210 Il. 22, 345: 85 n. 210 Od. 1, 23-34: 183 Od. 1, 44: 74 n. 173 Od. 1, 80: 74 n. 173 Od. 21, 295: 22 n. 17 Od. 23, 244 sg.: 87 n. 213 Oppiano Hal. 1, 129: 34 n. 48 Orazio Carm. 1, 17, 10: 92 n. 233 Carm. 4, 11, 27: 181 n. 16 Origene De principiis 3, 108 Delarue: 262 n. 40 Ovidio Met. 4, 786: 181 n. 16 Met. 5, 262: 181 n. 16 Palefato praef. Festa: 163 n. 162; 269 n. 66; 271 n. 67 1 Festa: 269 n. 66 Indice dei passi citati

Paradoxographus Vaticanus 2: 169 n. 175 Pausania 1, 24, 1: 31 n. 38 2, 1, 7-8: 285 n. 94 2, 21, 3: 91 n. 230 5, 12, 1: 67 n. 153; 288 n. 102 5, 23, 6: 31 n. 38 8, 46, 5: 204 n. 71 9, 20, 4: 281 n. 89; 283 sgg. 9, 21, 1: 286 sg. 9, 21, 2-3: 287 9, 21, 3: 67 n. 153 9, 21, 4: 18 n. 5; 29; 36 n. 55; 60; 64; 276; 282; 283; 290 n. 111 9, 21, 5: 283 9, 21, 5-6: 113 n. 40; 281 sg. 9, 21, 6: 290 9, 31, 6: 31 n. 38 10, 26, 3: 31 n. 38 Pindaro Ol. 7, 35-38: 74 n. 175 Ol. 13, 64: 181 n. 16 P. 2, 44: 22 n. 17 Platone Epin. 975 a 1 sgg.: 70 n. 161 Euth. 290 a 2: 88 n. 220 Phaedr. 229 d 7 sgg.: 181 n. 16 Phaedr. 253 e 3: 79 n. 192 Pol. 265 d 9 sgg.: 163 n. 163 Pol. 265 e: 163 n. 163 Symp. 215 a 4 sgg.: 285 n. 93 Tim. 68 c 3: 81 n. 195 Tim. 91 e - 92 a: 156 sg. Tim. 91 e sgg.: 156 n. 143 Plinio il Giovane Ep. 1, 20, 18: 177 n. 12 Ep. 3, 5, 7-20: 188 Plinio il Vecchio Nat. Hist. 2, 87: 199 n. 53 Nat. Hist. 2, 97: 199 n. 53 Nat. Hist. 2, 116-121: 198 Nat. Hist. 2, 118: 199 Nat. Hist. 2, 121: 199 Indice dei passi citati

Nat. Hist. 2, 247: 199 n. 53 Nat. Hist. 3, 89: 240 n. 160 Nat. Hist. 4, 88: 70 n. 161 Nat. Hist. 5, 4: 215 n. 104 Nat. Hist. 6, 53: 70 n. 161 Nat. Hist. 6, 70: 184 n. 22 Nat. Hist. 6, 91: 279 n. 86 Nat. Hist. 6, 96: 221 n. 118 Nat. Hist. 6, 124: 221 n. 118 Nat. Hist. 6, 139: 221 n. 118 Nat. Hist. 6, 141: 221 n. 118 Nat. Hist. 6, 149: 221 n. 118 Nat. Hist. 6, 156: 221 n. 118 Nat. Hist. 6, 170: 221 n. 118 Nat. Hist. 6, 175: 221 n. 118 Nat. Hist. 6, 175 sg.: 184 n. 22 Nat. Hist. 6, 176: 221 n. 118 Nat. Hist. 6, 177: 184 n. 22 Nat. Hist. 6, 179: 221 n. 118 Nat. Hist. 6, 187: 216 Nat. Hist. 6, 187 sgg.: 72 n. 168 Nat. Hist. 6, 197: 269 n. 66 Nat. Hist. 6, 201: 221 n. 118 Nat. Hist. 6, 203: 221 n. 118; 221 n. 119 Nat. Hist. 6, 205: 221 n. 118; 221 n. 119 Nat. Hist. 7, 1 sgg.: 199 n. 55 Nat. Hist. 7, 6-8: 207 n. 82 Nat. HIst. 7, 9: 70 n. 161 Nat. Hist. 7, 12: 76 Nat. Hist. 7, 21 sgg.: 72 n. 168 Nat. Hist. 7, 22: 110 n. 32 Nat. Hist. 7, 23: 296 n. 127 Nat. Hist. 7, 23-34: 185 n. 25; 187 n. 28 Nat. Hist. 7, 28: 187 n. 29 Nat. Hist. 7, 31: 212 n. 93 Nat. Hist. 7, 32: 212; 213 Nat. Hist. 7, 33: 189 n. 36 Nat. Hist. 7, 35: 22 n. 17; 209 n. 86; 218 n. 112; 273 n. 70 Nat. Hist. 7, 207: 185 n. 25; 187 n. 27 Nat. Hist. 8, 1: 199 n. 55 Nat. Hist. 8, 1-34: 201 n. 63 Nat. Hist. 8, 4: 205 n. 77 Nat. Hist. 8, 7: 221 n. 118 Nat. Hist. 8, 14: 221 n. 118 341

Nat. Hist. 8, 32: 72 n. 168 Nat. Hist. 8, 34: 82 sg.; 214 n. 99; 227 n. 132 Nat. Hist. 8, 35: 72 n. 168; 221 n. 118 Nat. Hist. 8, 37: 205 n. 77 Nat. Hist. 8, 39: 67 n. 153; 288 n. 102 Nat. Hist. 8, 39 sg.: 28 n. 29 Nat. Hist. 8, 40: 142 n. 113; 288 n. 101 Nat. Hist. 8, 42: 178 n. 13; 217; 227 n. 132; 234 Nat. Hist. 8, 42-43: 201 n. 63 Nat. Hist. 8, 44: 190; 209 sgg. Nat. Hist. 8, 53: 205 n. 77 Nat. Hist. 8, 55: 32 n. 38 Nat. Hist. 8, 63: 217 n. 111 Nat. Hist. 8, 65: 277 n. 79 Nat. Hist. 8, 66: 86; 279 sg.; 281 Nat. Hist. 8, 67-68: 200 n. 57; 225 sg. Nat. Hist. 8, 69: 72 n. 168; 288 n. 101; 289 n. 106 Nat. Hist. 8, 69-70: 206 Nat. Hist. 8, 70: 205 n. 77 Nat. Hist. 8, 71: 288 n. 101; 289 n. 108 Nat. Hist. 8, 72: 32 n. 38; 72 n. 167; 202; 237 n. 155; 269 n. 66 Nat. Hist. 8, 72 sgg.: 72 n. 168; 179; 182; 182 n. 16; 227; 229; 234 n. 149; 236 Nat. Hist. 8, 72-74: 177 sgg. Nat. Hist. 8, 72-75: 32 n. 39; 34; 64; 192; 202; 214 Nat. Hist. 8, 72-76: 236 n. 154 Nat. Hist. 8, 72-108: 201 Nat. Hist. 8, 73: 240 n. 164 Nat. Hist. 8, 74: 72 n. 167 Nat. Hist. 8, 75: 28 n. 29; 36 n. 55; 64; 84 n. 203; 176; 192; 202; 233; 241 Nat. Hist. 8, 77: 21 n. 10; 28 n. 29 Nat. Hist. 8, 78: 34 n. 48 Nat. Hist. 8, 80: 214 Nat. Hist. 8, 82: 214 n. 102; 215 n. 104; 236 n. 154 Nat. Hist. 8, 85: 21 n. 10 Nat. Hist. 8, 87: 227 n. 132; 230 Nat. Hist. 8, 89-97: 179 342

Nat. Hist. 8, 90: 227 n. 132 Nat. Hist. 8, 91: 227 n. 132 Nat. Hist. 8, 92: 236 n. 154 Nat. Hist. 8, 96: 205 n. 77 Nat. Hist. 8, 105 sgg.: 239 Nat. Hist. 8, 105-107: 232; 236 n. 154 Nat. Hist. 8, 106: 236 n. 154; 237 n. 155 Nat. Hist. 8, 106 sgg.: 93 n. 236 Nat. Hist. 8, 107: 64; 72 n. 168; 93 n. 236; 182 n. 16; 187; 188; 226; 237 n. 155 Nat. Hist. 8, 113: 88; 88 n. 223 Nat. Hist. 8, 131: 72 n. 168 Nat. Hist. 8, 136: 28; 38 n. 61; 227 n. 132 Nat. Hist. 8, 147-150: 277 n. 82 Nat. Hist. 8, 148-149: 211 n. 90 Nat. Hist. 8, 155: 221 n. 118 Nat. Hist. 8, 199: 72 n. 168 Nat. Hist. 8, 216: 72 n. 168 Nat. Hist. 9, 1: 199 n. 55 Nat. Hist. 9, 2: 32 n. 38; 200 n. 61; 208; 216 n. 110; 286 n. 98 Nat. Hist. 9, 4-5: 72 n. 168 Nat. Hist. 9, 5: 211 n. 90 Nat. Hist. 9, 9: 208; 286 n. 100 Nat. Hist. 9, 10: 208 Nat. Hist. 9, 11: 203 n. 70 Nat. Hist. 9, 89: 203 n. 70 Nat. Hist. 9, 91: 32 n. 38 Nat. Hist. 9, 92-93: 203 n. 70 Nat. Hist. 9, 115: 221 n. 118 Nat. Hist. 10, 1: 72 n. 168; 199 n. 55 Nat. Hist. 10, 3: 72 n. 168; 214 Nat. Hist. 10, 5: 203 n. 70 Nat. Hist. 10, 74: 72 n. 168 Nat. Hist. 10, 101: 189 n. 36 Nat. Hist. 10, 102: 266 n. 56 Nat. Hist. 10, 118: 234 n. 147 Nat. Hist. 10, 119: 235; 235 n. 151 Nat. Hist. 10, 120: 236 Nat. Hist. 10, 126: 221 n. 118 Nat. Hist. 10, 136-137: 214 n. 101 Nat. Hist. 10, 142: 234 n. 148 Nat. Hist. 10, 169-172: 180 Nat. Hist. 11, 1: 199 n. 55 Nat. Hist. 11, 5 sgg.: 198 n. 51 Indice dei passi citati

Nat. Hist. 11, 5-8: 196; 197 n. 49 Nat. Hist. 11, 111: 108 n. 29; 231; 308; 309 n. 16 Nat. Hist. 11, 138: 237 Nat. Hist. 11, 141: 78 n. 189 Nat. Hist. 11, 142-143: 76 n. 180 Nat. Hist. 11, 143: 76 Nat. Hist. 11, 145: 78 Nat. Hist. 11, 151: 233 n. 143 Nat. Hist. 11, 177: 233 n. 143 Nat. Hist. 11, 229: 189 n. 36 Nat. Hist. 11, 273-276: 78 n. 188 Nat. Hist. 11, 274: 189 n. 36 Nat. Hist. 11, 274-276: 78 n. 187 Nat. Hist. 11, 276: 189 n. 36 Nat. Hist. 11, 279: 227 n. 132 Nat. Hist. 12, 11: 215 n. 104 Nat. Hist. 12, 17: 72 n. 168 Nat. Hist. 12, 101: 72 n. 168 Nat. Hist. 13, 43: 72 n. 168 Nat. Hist. 21, 77-78: 229 n. 137 Nat. Hist. 28, 163: 87 n. 219 Nat. Hist. 28, 166: 87 n. 219 Nat. Hist. 28, 167: 87 n. 219 Nat. Hist. 28, 178: 87 n. 219 Nat. Hist. 28, 194: 87 n. 219 Nat. Hist. 28, 196: 87 n. 219 Nat. Hist. 28, 200: 87 n. 219 Nat. Hist. 28, 202: 87 n. 219 Nat. Hist. 28, 204: 87 n. 219 Nat. Hist. 28, 205: 87 n. 219 Nat. Hist. 28, 211: 87 n. 219 Nat. Hist. 28, 227: 87 n. 219 Nat. Hist. 28, 233: 87 n. 219 Nat. Hist. 28, 241: 87 n. 219 Nat. Hist. 28, 246: 87 n. 219 Nat. Hist. 28, 252: 87 n. 219 Nat. Hist. 31, 8-9: 185 sg. Nat. Hist. 31, 9: 185 n. 25 Nat. Hist. 31, 21: 185 n. 25 Nat. Hist. 31, 25: 185 n. 25; 187 n. 30 Nat. Hist. 32, 142-143: 207 Nat. Hist. 32, 143: 72 n. 168; 212 n. 94 Nat. Hist. 32, 144: 286 n. 97 Nat. Hist. 33, 115-117: 81 sg. Nat. Hist. 35, 30: 74 n. 172 Nat. Hist. 36, 26: 285 n. 94 Indice dei passi citati

Nat. Hist. 37, 39: 185 n. 25; 187; 190 Nat. Hist. 37, 201: 216 n. 108 Plutarco Artax. 6, 9, 1014 B 11-C 3: 56 n. 116 Bruta animalia ratione uti 990 F 3991 A 8: 160 sg.; 160 n. 152 De communibus notitiis adversus Stoicos 1068 B 10: 257 n. 19 De curiositate 517 D 10-E 6: 204 n. 72 De curiositate 520 B 12-C 9: 204 De fraterno amore 482 C 3: 181 n. 16 De sollertia animalium 961 E 1 sgg.: 92 n. 235 De sollertia animalium 970 F 4 sgg.: 277 n. 82 Praecepta gerendae rei publicae 806 E 10: 34 n. 48 Quaestiones Conviviales. 713 B 1 sgg.: 92 n. 233 Septem Sapientium Convivium 149 C 11-D 3: 160 n. 152 Polemio Silvio nom. anim. chron. I p. 543, 6: 28 n. 29; 182 n. 16 nom. anim. chron. I p. 543, 7: 182 n. 16 Polistrato fr. 1 Wilke: 262 n. 40 fr. 3 Wilke: 262 n. 40 fr. 4 Wilke: 262 n. 40 Pomponio Mela 3, 43: 280 n. 87 3, 61-71: 184 n. 22 3, 85 sgg.: 72 n. 168 Properzio 3, 13, 1-5: 108 n. 29; 249 n. 9 4, 4, 6: 92 n. 233 Pseudo Aristotele Physiogn. 806 a 28 sgg.: 80 Physiogn. 806 b 9 sg.: 84 n. 197; 87 n. 215 343

Physiogn. 809 b 14-35: 84 n. 197 Physiogn. 810 b 5: 84 n. 197 Physiogn. 811 a 15: 84 n. 197 Physiohn. 811 a 20 sg.: 84 n. 197 Physiohn. 811 a 21 sgg.: 85 n. 209 Physiogn. 811 b 3: 87 n. 217 Physiogn. 811 b 7: 87 n. 217 Physiogn. 811 b 35: 84 n. 197 Physiogn. 812 a 21 sg.: 81 Physiogn. 812 a 22 sgg.: 81 Physiogn. 812 b 4 sg.: 79 n. 191 Pseudo Aspro Gramm. Suppl. 239, 3 Hagen: 76 n. 183 Pseudo Palladio Ind. 1, 4: 34 n. 48 Quintiliano Inst. 1, 10, 27: 92 n. 232 Inst. 2, 4, 2: 299 n. 133 Richart de Fornival, Bestiaire d’amours p. 388 Morini: 280 n. 87 Scholia ad Pind. Ol. 8, 37: 76 n. 183 Seneca De ira 1, 11, 1-4: 80 n. 194 Ep. 106, 5 sgg.: 78 n. 187 Ep. 121, 5-9: 262 n. 40 Ep. 121, 18-23: 262 n. 40 Herc. f. 778: 22 n. 17 Med. 863 sgg.: 280 n. 87 Nat. Quaest. 2, 3-4: 200 n. 59 Nat. Quaest. 5, 18, 2: 72 n. 168 Senofonte Anab. 4, 2, 1: 91 n. 229 Anab. 7, 3, 32: 91 n. 229 Cyn. 10, 1: 277 n. 82 Cyn. 11, 1: 181 n. 16 Cyrop. 1, 1, 4 sgg.: 88 n. 222 Cyrop. 5, 2, 25 sgg.: 88 n. 222 Hell. 3, 4, 24: 113 n. 41 Mem. 1, 4, 11-12: 155 344

Sesto Empirico Adv. Math. 1, 263: 299 n. 133 Adv. Math. 9, 44: 153 n. 139 Adv. Math. 1, 49 sgg.: 223 n. 123 Pyrrhoniae hypotiposeis 3, 3: 153 n. 139 Silio Italico 2, 19: 91 n. 228 Solino praef. 4-5: 239 1, 96 sgg.: 240 n. 161 1, 99 sgg.: 240 n. 161 1, 102 sgg.: 240 n. 161 5, 14: 240 n. 160 15, 11: 279 n. 86 17, 4: 279 n. 86 17, 4-6: 280 n. 87 27, 16: 279 n. 86 27, 23-26: 238 52, 1 sgg.: 72 n. 168 52, 3: 243 n. 167 52, 27: 243 n. 167 52, 34 sgg.: 182 n. 16 52, 34-36: 240 n. 162 52, 36: 72 n. 167 52, 37: 36 n. 55; 64 n. 145; 84 n. 203; 248 n. 7 52, 37-38: 241 52, 38: 240 n. 163 52, 39: 240 n. 163 53, 19: 279 n. 86 Stazio silv. 2, 1, 8: 280 n. 87 Theb. 3, 650 sg.: 91 n. 228 Theb. 4, 315 sgg.: 280 n. 87 Theb. 10, 820 sg.: 280 n. 87 Strabone 2, 1, 30: 115 n. 45; 116 n. 46 2, 5, 33: 72 n. 168 11, 6, 3: 55 n. 115 15, 1, 20: 72 n. 168 15, 1, 24: 72 n. 168 15, 1, 25: 72 n. 168 15, 1, 31: 277 n. 82 Indice dei passi citati

15, 1, 44: 184 n. 23; 296 n. 128; 309 n. 16 15, 1, 44 sgg.: 249; 249 n. 10 15, 1, 69: 142 n. 113; 288 n. 101 16, 4, 15: 288 n. 101 16, 4, 16: 181 n. 16; 288 n. 101 17, 1, 3: 72 n. 168 17, 3, 5: 288 n. 101 SVF II, 988: 262 n. 40 Tacito Germ. 4, 1: 80 n. 194 Hist. 2, 29, 3: 91 n. 229 Teofrasto De lapidibus 55 sgg.: 74 n. 172 Tibullo 2, 5, 30: 92 n. 233

Tzetzes Chil. 7, 629: 296 n. 127 Valerio Flacco 6, 148 sgg.: 280 n. 87 Valerio Massimo 8, 10, 1: 92 Varrrone Res rusticae 3, 11, 4: 266 n. 56 Virgilio Aen. 4, 367: 308 n. 12 Aen. 6, 286: 22 n. 17 Aen. 8, 526: 91 n. 228 Ecl. 3, 25: 92 n. 233 Ecl. 7, 24: 92 n. 233 Georg. 2, 456: 22 n. 17 Georg. 3, 264: 181 n. 16 Georg. 4, 72: 91 n. 228

Timoteo di Gaza Excerpta ex libris de animalibns 9: 280 n. 87

Vitruvio 7, 9, 1 sgg.: 74 n. 172

Tucidide 6, 32, 1: 91 n. 229

Zenobio 2, 51 Leutsch: 164 n. 165

Indice dei passi citati

345

INDICE DEGLI AUTORI MODERNI CITATI

Affergan, F.: 61 n. 132 Ajasson de Grandsagne, J. B. F.: 234 n. 149 Albert-Llorca, M.: 265 n. 51; 266 n. 54 Allen, S.: 274 n. 73 Anderson, G.: 291 n. 118; 293 n. 123 Asheri, D.: 113 n. 41 Atran, S.: 55 n. 112; 68 n. 154; 102 n. 14; 116 n. 50; 142 n. 111; 146 n. 129; 179 n. 14; 193 n. 42; 194 n. 43; 194 n. 44; 194 n. 46; 195; 195 n. 48; 196; 200 n. 56; 200 n. 58; 211; 211 n. 91; 226 n. 128 Auberger, J.: 19 n. 6; 24 n. 21; 48 n. 95; 58 Ballabriga, A.: 72 n. 168; 183 n. 21 Balme, D.: 162 n. 158 Banks, J.: 245; 246 n. 2; 247 Barber, R.: 21 n. 12; 23 n. 19; 134 n. 92; 304 n. 7 Barnes, T. D.: 66 n. 150 Beaglehole, J. C.: 245 n. 1; 246 n. 2; 246 n. 4 Beagon, M.: 78 n. 187; 192 n. 40; 198; 198 n. 51; 198 n. 52; 199 n. 53; 199 n. 55; 200 n. 59; 203 n. 70; 204 n. 72; 206 n. 80; 207; 208 n. 84; 211 n. 89; 213 n. 95; 214 n. 98; 218 n. 112; 229 n. 136; 229 n. 137; 230 n. 140 Beccaria, G. L.: 108 n. 29 Benabou, M.: 207 n. 81; 207 n. 82; 216; 216 n. 109 Berlin, B.: 73 n. 169; 194; 194 n. 44; 194 n. 45 Bettini, M.: 26 n. 25; 29 n. 32; 39 n. 66; 134 n. 90; 225 n. 126; 230 n. 139; 233 n. 143; 237; 237 n. 156; 237 n. 157; 237 n. 158; 248 n. 5; Indice degli autori moderni citati

266 n. 56; 303 n. 6; 308 n. 13; 308 n. 14 Bevegni, C.: 104 n. 19 Bianchi, E.: 39 n. 64; 173 n. 4; 243 n. 168; 244 n. 170 Blumenthal (von): 271 n. 67 Bodson, L.: 18 n. 5; 53 n. 109; 113 n. 41; 118 n. 55; 127 n. 69; 142 n. 116; 194 n. 43; 200 n. 57; 200 n. 60; 203; 206 n. 80; 225; 226; 226 n. 127; 275 n. 77; 277 n. 80; 277 n. 82 Bologna, C.: 24 n. 21; 31 n. 36; 31 n. 37; 33 n. 45; 145 n. 126 Bona, I.: 189; 189 n. 34; 189 n. 35; 192; 192 n. 40 Borges, J. L.: 9, 17 sgg.; 17 n. 1; 18 n. 3; 20 n. 8; 21 n. 10; 21 n. 11; 23 n. 19; 49; 89; 278; 304 n. 7 Bottin, L.: 164 n. 165 Brancacci, A.: 155 n. 142; 262 n. 43; 265 n. 51 Breedlove, D.: 194; 194 n. 44; 194 n. 45 Brinster, R.: 101 n. 13 Brolli, D.: 174 n. 7 Buxton, R.: 71 n. 165; 104 n. 20; 130 n. 79; 286 n. 98 Calame, C.: 37 n. 57; 37 n. 59 Calvino, I.: 89; 89 n. 225; 132 n. 84; 296 n. 129 Cambiano, G.: 26 n. 24; 135 n. 93 Canevacci, M.: 45 n. 84 Canfora, L.: 104 n. 19; 119 n. 56 Capponi, F.: 189; 189 n. 34; 189 n. 35; 192; 197 n. 49 Caproni, G.: 95; 148; 291 Carbone, A.: 138 n. 102; 145 n. 123 Cardona, G. R.: 73 n. 169; 74 n. 171; 74 n. 172 Carmody, F. J.: 25 n. 21 347

Caronia, A.: 174 n. 7 Casevitz, M.: 183 n. 21 Castoldi, M. “Morgan”: 171 Chantraine, P.: 69 n. 159 Citroni Marchetti, S.: 192 n. 40; 205; 212 n. 92 Clift, W.: 133 n. 87; 134 sg. Consolo, V.: 303 n. 4 Conte, G. B.: 277 n. 79 Cook, J.: 245 sgg.; 245 n. 1; 246 n. 4 Cozzo, A.: 39 n. 63; 104 n. 20; 116 n. 46; 130 n. 79 Cullen, J.: 200 n. 56 Cuvier, J. L.: 234 n. 149 D’Annunzio, G.: 303 n. 4 Dante Alighieri: 303 n. 4 Daston, L.: 11 n. 1; 63 n. 139; 147 n. 130; 304 n. 8 Davidson, A.: 301 sgg.; 302 n. 1 Davies, M.: 197 n. 49 Dei, F.: 45 n. 84 Del Corno, D.: 275 n. 76; 292; 292 n. 119; 292 n. 120; 293 n. 122 Della Corte, F.: 194 n. 43 Dennet, D. C.: 50 n. 102 Detienne, M.: 74; 74 n. 174; 74 n. 176; 75 n. 179; 90 n. 226; 91 n. 231; 130 n. 79 Di Benedetto, V.: 138 n. 102; 138 n. 103; 151 Dick, Ph. K.: 174 n. 7 Dierauer, U.: 261 n. 38; 261 n. 39; 262 n. 40; 262 n. 41; 262 n. 43; 263 n. 44; 265 n. 50 Dihle, A.: 183 n. 21 Dolby, R. G. A.: 52 n. 106 Dolezˇel, L.: 274 n. 73 Dumesnil, R.: 49 n. 101 Ebbesen, S.: 22 n. 18; 33 n. 44; 159 n. 148; 167 n. 171 Eco, U.: 55 n. 112; 68 n. 155; 68 n. 156; 68 n. 157; 96 n. 2; 97 n. 4; 98 n. 6; 98 n. 7; 99; 99 n. 9; 99 n. 10; 100 n. 12; 140 n. 107; 145 n. 124; 146 n. 127; 195 n. 47; 274 n. 73; 305 n. 9 348

Farinelli, F.: 108 n. 29; 110 n. 34; 128 Feeney, D. C.: 60 n. 131; 299 n. 133 Feyerabend, P.: 144 n. 119 Filoramo, G.: 59 n. 130 Finley, M.: 26 n. 24 Fisher, C.: 101 n. 13 Flaubert, G.: 49; 49 n. 101; 51; 303 Fornaro, S.: 271 n. 67 Forrat, M.: 66 n. 150; 298 n. 131; 298 n. 132 Foucault, M.: 17; 18 n. 2; 21; 304 n. 8 Franco, C.: 85 n. 210 French, R.: 22 n. 15; 199 n. 54; 199 n. 55; 205 n. 77; 207 n. 83; 210 n. 87; 259 n. 25; 259 n. 26; 274 n. 71 Gabba, E.: 243 n. 168; 244 n. 171 Gallavotti, C.: 161, 161 n. 153; 269 n. 65 Giannantoni, G.: 161 n. 154; 163 n. 162 Giannarelli, E.: 277 n. 79 Giannini, A.: 76 n. 181; 169; 169 n. 174; 198 n. 52; 204 n. 71; 260 n. 31; 261 n. 37 Gibson, W.: 174 n. 7 Ginzburg, C.: 167 n. 171 Good, B.: 14; 40 n. 70; 45 n. 86; 46 n. 89; 52; 53; 54; 54 n. 110 Gould, S. J.: 101 n. 13; 147 n. 130; 233 n. 143 Gozzano, G.: 303 n. 4 Grimaudo, S.: 162 n. 158 Guastella, G.: 35 n. 50; 37 n. 57; 37 n. 60; 38 n. 62; 46 n. 90; 49 n. 98 Guerrero, M.: 20 sgg.; 20 n. 8; 21 n. 10; 21 n. 11; 23 n. 19; 304 n. 7 Haffner, P.: 226 n. 127 Hankinson, J.: 248 n. 5 Hartog, F.: 70 n. 162; 89 n. 224; 113 n. 40; 183 n. 21 Heck, H.: 30 n. 35 Heuvelmans, B.: 27 n. 28; 133 n. 86 Hübner, W.: 263 n. 45; 264 n. 48; 265 n. 50; 266 n. 53 Humphreys, S. C.: 250 n. 15 Hunn, E.: 195 n. 48 Indice degli autori moderni citati

Ian, L.: 180; 180 n. 15; 240 Inglese, A.: 204 n. 72; 204 n. 73 Jacob, C.: 61 n. 132; 62 n. 137; 102; 104 n. 18; 108 n. 29; 111; 111 n. 36; 115 n. 45; 116 n. 46; 148 n. 134; 168 n. 173; 169; 169 n. 176; 169 n. 177; 191 n. 38; 203; 203 n. 69; 207; 294 n. 125 Jacoby, F.: 185; 186 Jaeger, W.: 210 n. 87 Jones, W. H. S.: 285 Joyce, J.: 303 n. 4 Karttunen, K.: 183 n. 21 Kathirithamby, J.: 197 n. 49 Kay, P.: 73 n. 169 Keith, Ph.: 226 n. 127 Keller, O.: 127 n. 69 Kluckhohn, C.: 46 n. 91 Kollar, E. J.: 101 n. 13 Kuhn, F.: 17 sgg. Kuttner, H.: 302 n. 1 Labarrière, F.: 117 n. 53; 261 n. 38; 261 n. 39; 262; 262 n. 40; 262 n. 42 Lake, G.: 171 sgg.; 173 n. 3 Lanata, G.: 39 n. 66; 97 n. 5; 155 n. 142; 214 n. 101; 265 n. 51 Lang, H. S.: 163 n. 162 Lanza, D.: 31 n. 38; 104; 105 n. 22; 105 n. 23; 106 n. 24; 106 n. 25; 121 n. 58; 122 n. 60; 124 n. 64; 128 n. 70; 142; 142 n. 115: 162 n. 159; 166 n. 169; 198 n. 51 Laspia, P.: 235 n. 152 Latour, B.: 41 n. 76; 52 n. 106; 148 n. 134; 243 n. 169; 251 n. 16; 294 n. 124 Laurenti, R.: 161 n. 155 Le Goff, J.: 11; 11 n. 1 Legrand, Ph.-L.: 107 n. 26; 107 n. 27; 109 n. 31 Lehner, E.: 59 n. 130 Lehner, J.: 59 n. 130 Lenfant, D.: 43 n. 80 Lesky, E.: 162 n. 158 Levy-Bruhl, L.: 25 n. 22 Indice degli autori moderni citati

Ley (de), H.: 79 n. 190 Lloyd, G. E. R.: 86 n. 211; 87 n. 214; 88 n. 221; 102 n. 15; 105 n. 21; 119 n. 56; 123 n. 61; 123 n. 62; 124 n. 64; 130; 130 n. 77; 130 n. 78; 130 n. 79; 146 n. 129; 150 n. 135; 154 n. 140; 158 n. 146; 159 n. 147; 167 n. 170; 260 n. 30 Lo Cascio, F.: 291 n. 117; 292 n. 121 Louis, P.: 18 n. 5; 25; 25 n. 23; 26; 26 n. 24; 128 n. 70; 135 n. 94; 147 n. 131; 162 n. 159; 164 n. 164; 169; 275 n. 77 Lucchetta, G. A.: 33 n. 45 Mackal, R.: 27 n. 27 Maffi, L.: 73 n. 169 Malamoud, C.: 19 n. 6; 24 n. 21 Malinowski, B.: 45 n. 84 Mangani, G.: 104 n. 18 Mannoni, O.: 131 n. 80 Manquat, M.: 25; 26; 101; 102; 106; 121 n. 59; 126 n. 67; 137; 137 n. 99; 147 n. 132 Maranini, A.: 98 n. 8 Marincola, J.: 105 n. 21 Martucci, V.: 18 n. 5; 28; 28 n. 29; 29; 30; 30 n. 35; 137 n. 100; 275 n. 77 Maspero, F.: 261 n. 35; 265 n. 52 Maurin, H.: 226 n. 127 Maux: 91 n. 227 Mayhoff, C.: 180; 180 n. 15; 240 Mayor, A.: 92 n. 234; 134 n. 91; 134 n. 92; 137 n. 100; 204 n. 71; 205 n. 75; 206 n. 80; 209 n. 86; 218 n. 112; 250 n. 15; 261 n. 37; 269 n. 66; 271 n. 67; 273 n. 70; 285; 285 n. 92; 286; 286 n. 99; 309 n. 16 Mc Carthy, P.: 27 n. 27 Menestrina, G.: 104 n. 19 Merrifield, W.: 73 n. 169 Mommsen, Th.: 240; 241 n. 166 Montanari, G.: 302 n. 1 Morini, L.: 24 n. 21; 41 n. 77; 268 n. 61; 268 n. 62; 280 n. 87; 300 n. 134; 304 n. 8 Mundkur, B.: 49 n. 97 349

Münzer, F.: 187 n. 32 Musti, D.: 275 n. 76; 278 n. 84; 285 n. 91; 288 n. 103; 290 n. 113 Nagai, G.: 174 n. 8 Neal, W.: 171 sgg. Newton, I.: 74 Nicolet, C.: 184 n. 22 Nippel, W.: 70 n. 161 Norfolk, L.: 17 Obbink, D.: 222 n. 122 Oniga, R.:70 n. 162; 71 n. 164; 80 n. 194; 92 n. 234; 110 n. 32 Ortalli, G.: 111 n. 35 Owen, R.: 134; 135 n. 93 Pantoppidan, E.: 133 n. 86 Park, K.: 11 n. 1; 63 n. 139; 147 n. 130; 304 n. 8 Parker, R.: 260; 260 n. 34 Pascoli, G.: 303 n. 4 Pavel, T. G.: 303 n. 5; 304 n. 6 Pellegrin, P.: 63 n. 141; 116 n. 50; 119 n. 56; 135 n. 93; 138 n. 102; 138 n. 104; 140 n. 109; 145; 145 n. 122; 146 n. 128; 150 n. 135; 151 n. 136; 156 n. 142 Picone, M.: 108 n. 29 Pinotti, P.: 132 n. 84; 148 n. 134; 156 n. 143; 156 n. 144; 174 n. 6 Pomata, G.: 22 n. 15; 141 n. 110; 147 n. 130 Pomelli, R.: 37 n. 56; 108 n. 28; 108 n. 29; 178 n. 13; 184 n. 23; 231 n. 141; 248; 248 n. 8; 249 n. 11; 289 n. 104; 297 n. 130; 307 n. 11; 309 n. 16 Porada, E.: 58 n. 127; 59 n. 128; 59 n. 130 Porzio, D.: 17 n. 1 Prontera, F.: 22 n. 13; 116 n. 48 Raina, G.: 69 n. 158; 77 n. 185; 79 n. 191; 79 n. 193 Radogna, C.: 120 n. 57 Raven, P.: 194; 194 n. 44; 194 n. 45 Reardon, B. P.: 259 n. 24; 259 n. 26; 260 n. 33 350

Repici, L.: 116 n. 50 Riches, A.: 21 n. 12; 23 n. 19; 134 n. 92; 304 n. 7 Riddell, W. H.: 140 n. 107 Rifkin, J.: 101 n. 13; 102 n. 14; 174 n. 6; 175 n. 10 Rilke, R. M.: 301 Ritvo, H.: 123 n. 61; 132 sgg.; 133 n. 85; 133 n. 87; 134 n. 89; 134 n. 92; 135 n. 93; 136 n. 97; 145 n. 124; 178 n. 13; 245 n. 1; 246; 246 n. 2; 246 n. 3; 250 n. 15 Rizzi, C.: 171 n. 1; 171 n. 2 Rocca-Serra, G.: 77 n. 184 Romano, E.: 22 n. 13; 22 n. 14; 40 n. 69; 46 n. 90; 63 n. 143; 73 n. 170; 74 n. 172; 81 n. 196; 187 n. 32; 189 n. 35; 192 n. 40; 200 n. 61; 203 n. 67; 203 n. 70; 206 n. 78; 208 n. 85; 213 n. 97; 219; 220 n. 116; 221 n. 119; 221 n. 120; 222 n. 122; 223; 223 n. 123; 223 n. 124; 249 n. 13 Romeo, B.: 183 n. 21 Romeyer Dherbey, G.: 33 n. 46; 267 n. 59 Romm, J. S.: 22 n. 13; 183 n. 21; 201; 201 n. 64; 210 n. 87; 210 n. 88; 278 n. 83 Rosén, H.: 127 n. 68 Sassi, M. M.: 54 n. 111; 57 n. 121; 69 n. 158; 70 n. 162; 73 n. 170; 77 n. 184; 84 n. 197; 112 n. 39; 131 n. 81; 132 n. 84; 137 n. 101; 148 n. 133; 203 n. 67; 204 n. 71; 259; 259 n. 27; 260 n. 28; 260 n. 29; 268 Scarpi, P.: 32 n. 41 Saunders, B.: 73 n. 169 Schwanbeck, E. A.: 62 n. 135; 249 n. 12 Shepard, K.: 285 n. 93 Sillitti, G.: 22 n. 18; 33 n. 44; 142 n. 114; 142 n. 115; 146 n. 129; 159 n. 148; 167 n. 171 Souza (de), R.: 50 n. 102 Sperber, D.: 13 sg.; 14 n. 3; 25 n. 22; 34 sgg.; 34 n. 49; 35 n. 51; 35 n. 52; 36 n. 53; 36 n. 54; 37 n. 58; 39 n. Indice degli autori moderni citati

67; 40; 40 n. 68; 40 n. 71; 40 n. 72; 40 n. 73; 41 n. 75; 41 n. 76; 42 sgg.; 42 n. 78; 42 n. 79; 44 n. 82; 44 n. 83; 45 n. 85; 45 n. 86; 47 n. 92; 48 n. 93; 48 n. 94; 48 n. 96; 50 n. 102; 50 n. 103; 51 n. 104; 52 n. 107; 52 n. 108; 53 n. 109; 60; 103 n. 16; 131; 131 n. 80; 143 n. 117; 159 sg.; 159 n. 150; 165 n. 167; 182; 183 n. 19; 194 n. 44; 205 n. 74; 222 n. 121; 248 n. 6; 252 n. 18; 290 n. 115; 305 sg.; 306 n. 10; 308 n. 15 Steier: 18 n. 5; 30 n. 33; 275 n. 77; 279; 279 n. 86 Sterling, B.: 174 n. 7 Tamba-Mecz, I.: 33 n. 45; 87 n. 214; 145 n. 125 Tate, N.: 303 n. 6 Tenn, W.: 302 n. 1 Thibaudet, A.: 49 n. 101 Terian, A.: 262 n. 41 Thom, R.: 115 n. 44 Thompson, C. J. S.: 188 n. 33 Toynbee, J. M. C.: 120 n. 57 Vegetti, M.: 29 n. 31; 31 n. 38; 104 sg.; 105 n. 22; 105 n. 23; 106 n.

Indice degli autori moderni citati

24; 106 n. 25; 117 n. 54; 121 n. 58; 122 n. 60; 124 n. 64; 126; 126 n. 66; 128; 128 n. 70; 142; 142 n. 115; 155 n. 141; 158 n. 146; 162 n. 159; 166 n. 169; 179 sg.; 189 n. 34; 190; 198 n. 51 Vernant, J. P.: 74; 74 n. 174; 74 n. 176; 75 n. 179; 90 n. 226; 91 n. 231 Veyne, P.: 33 n. 45; 87 n. 214; 145 n. 125 Wellmann, M.: 65 n. 146; 251 n. 17 Westrum, R.: 27 n. 28; 133 n. 86; 133 n. 88; 135 n. 96; 144 n. 119 White, T. H.: 44 n. 81; 59 n. 129; 120 n. 57 Wilkins, J.: 17 n. 1 Wilson, N.: 19 n. 6; 46 n. 88; 69 n. 159; 104 n. 19; 274 n. 74 Wittengstein, L.: 22; 22 n. 14 Wolff, F.: 155 n. 141; 157 n. 145 Zadro, A.: 145 n. 121 Zambon, F.: 268 n. 61 Zambrini, A.: 61 n. 134; 62 n. 135; 62 n. 137; 192 n. 39; 243 n. 167 Zirkle, C.: 266 n. 56

351

INDICE DELLE COSE NOTEVOLI

acli: 28; 288 n. 102 Africa (o Libia): 38; 84; 163 sgg.; 212; 214 sgg.; 224; 232 Albania: 76; 76 n. 181 Alessandria d’Egitto: 203; 268 n. 61 alke: 67 n. 153; 287 sgg.; 288 n. 102 ambra: 56; 191 anfisbena (o anfesibena): 21 n. 10 androphyê boukrana: 161; 268 sgg. anepallakta: 150 Angers: 101 animali di confine: 110 sgg.; 111 n. 36; 139 animali monstris similia: 32; 180 sgg.; 193 animali non sanguigni: 57; 138 animali sanguigni: 57; 138 antilope: 142 antropofagia: 69 sgg.; 157 sgg. ape: 136; 196 sg. aquila: 136 Arabia: 116; 139; 139 n. 105; 152; 184; 225; 282 archai: 88 n. 221; 154 sgg. architeutis: 286 Asia: 107; 163; 210 sg. asino: 114; 127; 128; 180 sg.; 270 sg. asino indiano unicorno: 72 n. 167; 86 n. 212; 139 sg.; 140 n. 109; 182 n. 16 Atena: 74 sg.; 74 n. 174; 74 n. 175; 74 n. 176; 90 sg.; 90 n. 226; 91 n. 230 Atlante: 92 n. 234 Australia: 245 sgg. Aztechi: 98 Babilonesi: 291 Battriani: 107 sg. Beozia: 71 bonaso: 141 sgg.; 142 n. 113; 288 n. 101

bougenê androprora: 161; 268 sgg. Bramani: 66; 293; 298 sg. bue: 114; 127; 128; 139; 149; 153 n. 139; 166; 178; 192; 206 (selvatico dell’Aracosia): 141 sgg. (indiano): 181 sg.; 182 n. 16; 202; 240 (a cinque zampe): 273 bufalo: 142 Buto: 139 n. 105 camelopardalis: 206; 206 n. 79; 289 cammello: 106 sgg.; 112 sgg.; 113 n. 41; 117 n. 52; 117 n. 53; 120; 149; 192; 206; 206 n. 79; 225; 231; 287 sg.; 288 n. 101 Campania: 185 sg. cane: 44; 65; 67; 72 n. 167; 83; 85 n. 209; 85 n. 210; 93; 107; 108; 110 n. 34; 112; 141; 149; 152; 161; 166 sg.; 178; 180; 181; 183; 192; 195; 232; 233; 234; 238; 239; 245; 252; 253; 258; 277 n. 78; 302; 308 (di Laconia): 163; 164 (indiano): 211; 277 sg. canguro: 245 sgg. capra: 102 n. 14; 139; 161; 302; 302 n. 2 (occhio di): 73; 77; 77 n. 186 (sangue di): 82 Caspatiro: 107; 108; 109; 111 catalogo: 201 sgg. catoblepa: 21; 21 n. 10; 22; 28; 229 sg.; 230 n. 138 cavallo: 68 n. 156; 71 n. 167; 72; 77 n. 186; 79 n. 192; 86 n. 212; 87; 87 n. 213; 98; 99 n. 10; 107; 108; 127; 128; 141; 143; 149; 161; 178; 181; 183; 192; 206; 229 sg.; 259 n. 26; 277; 280 cavalli alati: (vd. pegasi) 353

cefo: 188 n. 33 Celti: 288 centauri (o ippocentauri): 22; 22 n. 17; 161; 175; 209 n. 86; 218 n. 112; 270 sgg.; 273 n. 70 (dibattito sull’esistenza dei): 161 sgg.; 218 n. 112; 165 n. 168; 219 sgg.; 220 n. 117; 250 n. 15; 270 sgg. cepi: 206 cercopiteco: 180 sg.; 202 cervo: 28; 31; 63; 67; 86 sgg.; 86 n. 212; 87 n. 217; 87 n. 218; 87 n. 219; 88 n. 223; 92; 139; 142; 181; 245; 246; 278; 288 chama: 206 sg. Chandragupta Maurya: 62 n. 135 chauliodonta: 123; 123 n. 61 chimera: 101 sg.; 102 n. 14; 146 n. 129; 175; 219; 220 cicala: 196 sg. Ciclopi: 70; 240 n. 160 Cimbri: 80 cinabro: 80 sgg. cinghiale: 181; 182; 183 Cinocefali: 96; 211; 212; 221 Cirene: 164 civetta: (occhi della): 73 sgg.; 74 n. 176 (voce della): 74 n. 176; 75 n. 178 clima: (vd. anche “determinismo climatico) (delle regioni del nord): 80 (africano e/o etiopico): 72 n. 168; 164 sg.; 215 sgg. (greco): 215 (egiziano): 164 n. 165 (indiano e/o asiatico): 72 n. 168; 108 sgg.; 110 n. 32; 165; 215 sg. (italico): 216 n. 108 coccodrillo: 117 sgg.; 120 n. 57; 122 n. 60; 132; 132 n. 83; 142; 179; 179 n. 14; 227 n. 132 colori nel mondo antico: 73 sgg.; 73 n. 169; 73 n. 170; 74 n. 172; 79 n. 191 condizioni per la riproduzione incrociata: (vd. koinogonia) confini del mondo: (vd. eschatiai tes oikoumenes) 354

corocotta: 64; 92; 92 n. 236; 180 sg.; 181 n. 16; 183; 188; 188 n. 33; 227; 232 sgg.; 234 n. 149; 235 n. 150; 236 n. 154; 238 sg. Crannone: 169 sg. criptozoologia: 24 sgg.; 27 n. 27; 27 n. 28; 133 n. 86 Culmout: 137 n. 100 cyberpunk: 174 sg. Damis: 66; 292 sgg.; 292 n. 119 delfino: 287 dentazione maschile (teoria della): 56 n. 119 determinismo climatico: 70 n. 162; 257; 282 sg.; 290 dichalà: 140 Dioniso: 283 sgg.; 289 disco di Newton: 74 documenti televisivi: 88 sg. donnola: 230; 233 n. 143 Dori: 91 n. 230 drago: 43 sgg. dualizers: 167; 167 n. 170 eale: 64; 180 sgg.; 182 n. 16; 240 Egeleo: 91 n. 230 Egipani: 160 sg. Egitto (animali dello): 57; 126; 127; 139; 139 n. 105; 209 Egiziani: 118; 125; 126; 127; 128 elefante: 19; 23; 56; 65; 67; 82 sgg.; 89; 90; 99; 126 Elefantina: 125 Endeavour: 245 enigma: 31 sgg.; 33 n. 45 Eracle: 91 n. 230 eschatiai tes oikoumenes: 32 n. 41; 34; 62 n. 137; 63 n. 139; 64; 67; 70; 70 n. 161; 71 n. 164; 109; 111; 173; 211; 212; 215; 215 n. 106; 216; 222 n. 121; 242; 275 n. 76; 291; 296; 305; 309 Etiopi: 84; 84 n. 199; 176; 206 (dell’India, o dell’Est): 107; 183 (sperma degli): 129 Etiopia: 24; 32; 37 n. 56; 64; 67; 71; 72 n. 167; 72 n. 168; 136; 152; 165; 173; 176; 177 sgg.; 183 n. 21; Indice delle cose notevoli

184; 184 n. 22; 184 n. 23; 185 sgg.; 193; 201; 208; 212; 216 sgg.; 218 n. 112; 222; 224; 227; 228; 236; 239; 282; 294; 296 Eufrate: 62 n. 135 falco: 136 fauno: 233 fenice: 66; 131; 214; 214 n. 101; 296 Filaté: 44 sgg.; 45 n. 85; 45 n. 86 fisiognomica: 68 sgg.; 69 n. 158; 77 n. 184; 78 n. 187; 78 n. 188; 112 n. 39; 154; 233; 233 n. 144 Fiume Gallo: 186 Fiume Ipobaro: 187; 190 foca: 149; 178; 192 Fonte Acidula: 186 Fonte aurifera: 295 Fonte di Sinuessa: 186 Fonte Dimidia: 186 Fonte Rossa: 185 sg. formiche indiane: 37 n. 56; 106 sgg.; 108 n. 28; 108 n. 29; 117; 173; 184; 184 n. 23; 231; 248 sgg.; 249 n. 10; 249 n. 11; 250 n. 14; 296 n. 128; 304 n. 6; 307; 307 n. 11; 309 n. 16 Foro dei prodigi: 204 sgg.; 205 n. 75; 214 fossili: 251; 269 n. 66 freaks of nature: (vd. monstrum) Frigia: 186 Gange: 299 sg. Germani: 80; 80 n. 194 giardino zoologico di Hellabrünn: 30 n. 35 giraffa: 195 gnu: 28 grifone: 266; 266 n. 57; 266 n. 58; 294; 296; 296 n. 127 Huainanzi: 130 n. 77; 146 n. 129 Iarca: 66; 292 sgg.; 306 ibis: 126; 137 n. 99; 139; 139 n. 105; 179 ibridi: (vd. koinogonia) iena: 64; 188; 188 n. 33; 227; 232 Indice delle cose notevoli

sgg.; 233 n. 143; 235 n. 150; 236 n. 154; 238 sg.; 302 n. 2 incrocio: (vd. koinogonia) India: 19; 29; 37 n. 56; 43 n. 80; 56 sgg.; 61 n. 133; 61 n. 134; 62 n. 135; 66; 72; 72 n. 168; 106 sgg.; 108 n. 28; 110 n. 32; 131; 152; 165; 168; 183; 183 n. 21; 187 sgg.; 201; 207 sg.; 210 sgg.; 214; 218 n. 112; 222; 224; 238 sgg.; 243 n. 167; 248; 257 sg.; 278 sg.; 278 n. 83; 289 n. 104; 291 sgg.; 291 n. 118; 294 n. 125 Indiani: 48; 57; 58; 63; 65; 82; 106 sgg.; 152; 183; 191; 231; 249; 249 n. 10; 255; 258; 276 sgg.; 309 Indo: 62 n. 135 insetti: 136; 196 sg.; 197 n. 49 intelligenza animale: 262 sg. Ioni: 124 sg. ippelafo: 141 sgg.; 142 n. 114 ippocentauro: (vd. centauri) ippopotamo: 127 sg.; 127 n. 69; 132; 179 n. 14; 182 Ircania: 279 sg. ircocervo: 22; 22 n. 18; 33; 33 n. 44; 33 n. 47; 96; 96 n. 3; 98 n. 8; 159; 159 n. 148; 167 Ittiofagi: 107 Jenny Haniver: 134; 134 n. 92; 285 karcharodonta: 123; 150 keratophora: 140 koinogonia: 160 sgg.; 214 sgg.; 268 sgg. Lamassu: 43; 43 n. 80; 59; 59 n. 129; 98; 98 n. 8 lattazione maschile (teoria della): 56 n. 119 leone: 28 sg.; 65; 71 n. 167; 72; 83 sgg.; 84 n. 197; 85 n. 209; 87; 128 n. 71; 141; 149; 152; 178 n. 13; 182; 192; 201; 217; 217 n. 111; 224; 227; 227 n. 132; 233; 234; 239; 256; 278; 308; 308 n. 12 355

leontofono: 28 sg.; 28 n. 30; 38; 227 n. 132 leucrocota: 180 sg.; 202; 234; 234 n. 149; 240 Libia (o Africa): 64; 163 sgg.; 164 n. 165; 282; 286 lince: 180 sg.; 181 n. 16; 193; 202 lupo: 111 n. 35; 126; 164; 181; 183; 206 lupi mannari: (vd. versipelles) maggiolino: 136 maiale: 32 n. 41; 56 sg.; 119; 120; 122; 127; 141; 142; 147 n. 130; 149; 160 sg.; 182 n. 17 mantica: 32 manticora: 9 sg.; 11 sgg.; 23; 30 sgg.; 36 sgg.; 95 sgg.; 301 sgg. (assenza - o asparizione - del): 168 sgg.; 295; 299 sg. (comportamenti interspecifici del): 224 sgg. (imitazione della voce umana del): 232 sgg. (in Aristotele): 63 sg.; 148 sgg. (in Ctesia) 55 sgg.; 245 sgg. (in A. Davidson): 301 sg. (in Eliano): 65; 251 sgg. (in Eusebio di Cesarea): 66; 297 sgg. (in Filostrato): 65 sg.; 293 sgg. (in G. Flaubert): 49; 49 n. 101; 51; 303 (in Fozio): 18 sg. (in Giuba): 64 (in Pausania): 64; 275 sgg. (in Plinio): 64; 83; 176 sgg. (in Solino): 238 sgg. (in Tarkus degli Emerson Lake & Palmer): 171 sgg. (maniera di muoversi): 86 sgg. (migrazione in Etiopia del): 177 sgg. (nel Medio Evo): 24 n. 21 (occhi glauchi del): 73 sgg. (tratti del): 66 sgg. (verso del): 88 sgg. (viso del): 153 sgg. Marco Polo: 145 margini del mondo: (vd. eschatiai tes oikoumenes) 356

martora: 181 Menismini: 212 Meride: 125 minio: 81 sg. minotauri: 160 sg. Monocoli: 187; 221 monstrum: 31 sgg.; 31 n. 38; 182 sg.; 285 mostri marini: 27; 27 n. 28; 133 n. 86; 134; 135 n. 96; 143 sgg.; 144 n. 119 mostro di Loch Ness: 27; 30; 133 n. 88; 134; 135 mulo: 126; 141; 165 myrmekes indiani: (vd. formiche indiane) nabu: 206 sg. onocentauro: 86 n. 212; 266; 266 n. 57; 266 n. 58; 270 sgg. ootoka: 123; 125 orige: 139 sg. ornitorinco: 145 sg. orso: 169 Padei: 70; 70 n. 161; 107 pangenesi: 162; 162 n. 158 pantarba: 296; 296 n. 127 paradossografia: 34; 46 n. 88; 48 n. 93; 66; 168 sgg.; 185 n. 25; 201; 203 sgg.; 203 n. 68; 204 n. 71; 207; 211; 219; 243 n. 168; 259 sgg.; 259 n. 27; 263 n. 45; 272; 278 n. 83; 288; 292 sg.; 297 n. 130; 298 pardalis: 149; 178; 178 n. 13; 288 pardion: (vd. pardo) pardo: 141 sg.; 142 n. 115; 178 n. 13; 206; 217; 227 n. 132 Pattica: 108 pavone: 142; 142 n. 116 pecora: 102 n. 14; 113 n. 40; 167 (androcefala): 166 (con tre o quattro corna): 273 (selvatica): (vd. camalopardalis) (taurocefala): 166 pegasi: 181; 181 n. 16; 202; 269 n. 66 Indice delle cose notevoli

pernice: 261 sgg.; 266 n. 55 Persepoli: 113 n. 41 Persiani: 32; 57; 63; 88; 106; 247; 256; 276 pesci: 107; 122; 123; 149; 153 n. 139; 178; 192 piante: 72 n. 168; 197; 204; 230; 261 n. 36; 268 n. 61; 295 Pigmei: 295 sg.; 296 n. 127; 299 pipistrello: 136 polytoka: 166 n. 169 prosopon: 69; 69 n. 160; 75; 153 sgg.; 153 n. 139 psitthacora: 190 sg. pterodattilo: 137 n. 100 pterotà: 136 sg. ptilotà: 136 sg. rinoceronte: 140 n. 107; 145; 288 n. 101; 289; 289 n. 109 riproduzione incrociata: (vedi koinogonia) rock progressivo: 171 sgg. rufio: 206 Saci: 65; 88; 88 n. 222; 253; 254; 267 salpinx: 88 sgg. satiri: 92; 92 n. 233; 92 n. 234; 269 n. 66 Sciapodi: 295 sg.; 296 n. 127; 299 Sciti: 70; 88 scolopendra: 258 scorpione: 88 n. 220 scorpioni alati: 282 sg. Secretariat de la Faune et de la Flore: 226 Seleuco I: 62 n. 135; 135 n. 94; 243 n. 167 Semiramide: 59; 186; 187 serpente con testa umana: 209 n. 86 serpenti: 76; 76 n. 183; 180; 229 (alati): 57; 131; 136 sgg.; 137 n. 99; 137 n. 100; 139 n. 105; 146; 148; 151; 152; 281 sgg. (d’acqua): 137 (indiani o giganti): 82; 214; 227 n. 132 (marini): 132 sgg.; 133 n. 86; 135 n. 93 Indice delle cose notevoli

sfinge: 33 n. 47; 159 n. 148; 161; 181 sileni: 92 siptachora: (vd. psittachora) sirena del Capitano Eades: 133 n. 87; 134; 135 n. 93 sirene: 24 n. 21; 132 sgg.; 135; 135 n. 95; 234 Siria: 135 n. 94; 186 sorgenti del Nilo: 187 n. 32 Soricidi: 28 sperma (degli elefanti): 56; 56 n. 119; 56 n. 120 (degli Etiopi): 107; 129 spugna: 167 n. 170 Stabia: 186 supertopo: 101; 101 n. 13 syrinx: 88 sgg. Tanagra: 283 sgg.; 289 Taprobane: 34; 34 n. 48; 207 sg.; 272 Tarkus: 171 sgg.; 171 n. 1 Tauro: 186 Teano Sidicino: 186 Tebe: 125 Temeno: 91 n. 230 teras: (vd. monstrum) Tessaglia: 169; 218 n. 112 tetrapoda: 123; 123 n. 61; 125; 153 n. 139 Teucri: 87 n. 217 Teutoni: 80 tigre: 18 n. 5; 28; 28 n. 29; 29 sg.; 64; 86; 86 n. 212; 87; 135 n. 94; 164; 234 n. 149; 275 sgg.; 277 n. 78; 277 n. 80; 277 n. 82; 278 n. 85; 280 n. 87; 290; 291; 306; 308 Tirseno: 91 n. 230 topo: 101 n. 13; 164; 245 tordo: 236 toro (carnivoro dell’Etiopia): 26; 70 sgg.; 71 n. 167; 76; 76 n. 182; 81; 81 n. 195; 87; 142 n. 112; 181; 181 n. 16; 228; 289; 289 n. 109; 290 (dell’Aracosia): (vd. bue selvaggio dell’Aracosia) 357

(frigio): 72 n. 167 (indiano): (vd. bue indiano) tritone: 26; 70 sgg.; 71 n. 164; 112; 157; 208; 250 n. 15; 281; 283 sgg.; 285 n. 93; 285 n. 94; 286 n. 97; 286 n. 100 trochilo: 119 sgg. Trogloditi: 72 n. 167 uccelli: 72 n. 168; 75 n. 178; 119; 161; 180; 203 n. 68; 208; 234 sgg.; 234 n. 148; 258 uccelli giganti: 272 unicorno: (vd. asino indiano unicorno) uri: 30 n. 35

358

usignolo: 236 Venafro: 186 Vergilius magus: 302 versipelles: 214 sg. vitello a cinque zampe: 273 volpe: 77; 108; 110 n. 34; 112; 164; 224 volpe volante: 136 Yeti: 27; 30 zoogonia (in Empedocle): 161 sg.; 268 sgg. (in Platone): 156 sgg.

Indice delle cose notevoli

APPENDICE

Immagini e figure

Figura 1: fascia decorativa a mosaico con scena nilotica (part.), II-I sec. a.C., Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Figura 2: miniatura da un Bestiario inglese del XIII sec. d.C. raffigurante un coccodrillo nell’atto di divorare un essere umano (in T. H. White, The Book of Beasts, Johnatan Cape, London 19692).

Appendice

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Figura 3: rappresentazione schematica delle categorie universali di classificazione folk secondo lo schema di Scott Atran (Cognitive Foundations of Natural History, Cambridge University Press, Cambridge 1996).

UB = Unique beginner IF = life form mg = monogeneric life form g = generic specieme fs = folkspecific fv = folkvarietal

Figura 4: miniatura da un’Apocalisse francese del XIV sec. d.C., New York, The Metropolitan Museum of Art, Cloister Collection.

362

Appendice

Figura 5: incisione settecentesca raffigurante un manticora alato, ricoperto di squame e munito di corna (E. Lehner e J. Lehner, A fantastic bestiary, beasts and monsters in myth and folklore, Tudor Pub. Co., New York 1969).

Figura 6: Lamassu assiro in pietra risalente al IX sec. a.C., New York, The Metropolitan Museum of Art, John D. Rockefeller Jr. Donation.

Appendice

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Figura 7: miniatura da un Bestiario inglese del XIII sec. d. C. raffigurante un manticora (in T. H. White, The Book of Beasts, Johnatan Cape, London 19692).

Figura 8: illustrazione tratta da E. Topsell, The History of Four-Footed Beasts and Serpents and Insects, Da Capo Press, New York 1967.

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Appendice