Sulle spalle di un gigante. Isaac Newton 885023872X, 9788850238729

Chi fu, veramente, Isaac Newton? Piergiorgio Odifreddi risponde alla domanda con questo libro strutturato in due parti:

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Sulle spalle di un gigante. Isaac Newton
 885023872X, 9788850238729

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saggistica

Piergiorgio Odifreddi Sulle spalle di un gigante. lsaac Newton Chi fu, veramente, lsaac Newton? Piergiorgio Odifreddi risponde alla domanda con questo libro strutturato in due parti: la prima dedicata all'uomo, con le sue asperità di carattere, dove non mancano i riferimenti alla vasta aneddotica fiorita intorno alla sua figura; la seconda allo scienziato e all'impressionante lavoro da lui compiuto, quasi sempre in perfetta solitudine, nei più svariati campi del sapere. L'autore ce lo presenta quasi fosse un segreto compagno di viaggio, che osservi la sua mente al lavoro da un angolo della stanza al Trinity College, dove Newton visse gran parte della vita. Lo fa sembrare quasi un nostro contemporaneo, con le ossessioni e il metodo implacabile di un genio assoluto, probabilmente il più grande di ogni tempo. E cosl, anche le più ardue equazioni riguardanti le leggi del moto, la gravitazione universale, le orbite dei pianeti e il calcolo infinitesimale parranno al lettore meno impervie.

Piergiorgio Odifreddi (1950) ha studiato Matematica in Italia, negli Stati Uniti e in Unione Sovietica, e ha insegnato Logica pres�o l'Università di Torino e la Cornell University. Collaboratore di «Repubblica», «l'Espresso» e «Le Scienze», ha vinto, tra gli altri, il premio Galileo dell'Unione Matematica Italiana nel 1998, il premio Peano della Mathesis nel 2002 e, nel 2006, il premio.ltalgas per la divulgazione. Tra i suoi libri, apparsi in queste edizioni, ricordiamo Le menzogne

di Ulisse, Il matematico impertinente, Incontri con menti straordinarie e Il matematico impenitente. www.piergiorgioodifreddi.it

Dal catalogo longanesi



In copertina: particolare di un disegno di Tullio Pericoli Grafica Baroni Design Saggistica wwvv. tealibri.it

euro 10,00

ISBN 978-88-502-3872-9

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9 788850 238729

Dello stesso autore in edizione TEA: Le menzogne di U/isse 11 matematico impertinente Incontri con menti straordinarie Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici) 11 matematico impenitente La Via Lattea (con Sergio In principio era Darwin

Valzania)

Piergiorgio Odifreddi

Sulle spalle di un gigante lsaac Newton Il carattere, le idee e i sorprendenti interessi del padre della scienza moderna

Il mio scopo principale, nella ricerca che sto per fare, è di dare a me stesso, e forse a qualche lettore, idee chiare delle leggi primitive della Natura trovate da Newton. Esaminerò fin dove si era arrivati prima di lui, da dove è partito, dove si è fermato, e a volte ciò che si è tro­ vato dopo di lui. [ ...] Si tratterà di mettere questi Elementi alla portata di coloro che non

conoscono, di Newton e della filosofia, che il solo nome. La scienza della Natura è un bene che appartiene a tutti. Tutti vorrebbero cono­ scere il loro bene, ma pochi hanno il tempo o la pazienza di calcolar­ lo. Newton ha calcolato per loro. Qui ci si dovrà accontentare del ri­ sultato di questi calcoli. [. .] .

La filosofia di Newton può sembrare, a molti, incomprensibile quanto quella degli antichi. Ma l'oscurità dei Greci veniva dal fatto che essi non avevano nessuna luce, mentre le tenebre di Newton ven­ gono dal fatto che la sua luce era troppo lontana dai nostri occhi. Egli ha trovato delle verità, ma le ha cercate e riposte in un abisso: biso gna discendervi, e portarle alla luce del Sole. (Voltaire,

Elementi di filosofia newtoniana, 1738)

AL LETTORE

Newton è stato il più grande scienziato della storia. O, almeno, uno dei tre più grandi, insieme ad Archimede e Einstein. Ma cos'abbia fatto veramente, per meritarsi questi titoli, pochi non addetti ai lavori sarebbero in grado di dirlo. Per chi volesse saperlo senza troppo sforzo ho scritto questo libro, che si pro­ pone di descrivere in poche pagine le molte facce del diamante Newton. Il solitario individuo, ad esempio, che rise una sola volta nel­ la sua vita e morì vergine. Il poetico so gnatore, che non vide mai il mare, ma si descrisse come un bambino che cerca con­ chiglie sulla spiaggia. L'ossessionato alchimista, che sperimentò senza sosta e si avvelenò col mercurio. L'eretico teologo, che smascherò il dogma trinitario e pretese di interpretare le profe­ zie. Il paranoico pensatore, che rasentò la pazzia e arrivò alla rissa con molti colleghi. Il profondo filosofo, per il quale la ve­ rità era figlia del silenzio e della meditazione. Ma parlare di Newton senza affrontare, almeno superficial­ mente, le sue scoperte, sarebbe come parlare di Dante o Sha­ kespeare senza leggerne le parole, di Leonardo o Michelangelo senza guardarne le immagini, di Bach o Mozart senza sentirne le note. Con la differenza che, mentre le opere degli artisti so­ no mere sovrastrutture contingenti, inventate per stimolare la fantasia e fornire passatempi, i pensieri di Newton sono vere strutture necessarie, la cui scoperta ha permesso di comprende-

lO

re i l m o ndo n ologia .

attraverso

la scienza e cambiarlo mediante la tec­

em Dedicher o dunque la prima parte del libro a L'uomo, toccando gli asp etti più folcloristici della sua vita, e la seconda a Lo scienziato, affrontando l'impressionante serie delle sue idee ma­ te m a tiche e fisiche: le proprietà della luce, il calcolo infìnitesi­

male, le leggi del moto, la gravitazione universale, le orbite dei i n de l! e c�� ete , la teoria delle maree . . . Brancolare fra le p a eti e s u e realizzaZIOni CI permetterà di curiosare timidamente nella n N ewton , e ci costringerà a riconoscere modestamente m e te d i che di fronte ai Principia e all' Ottica, e al loro autore, si può solo ascoltare e tacere.

L'UOMO

DIO DISSE: «SIA FATTO NEWTON!

»

In fasce Dal Vangelo secondo Giovanni (1, 6-7) apprendiamo che « venne un uomo mandato da Dio », e « venne come testimone per ren­ dere testimonianza alla luce>> . Quell' uomo cambiò la storia dell'Occidente, e nacque il giorno di Natale: ma non dell'anno

O, bensì del 1 642. Quell'uomo aveva un nome biblico, ma non si chiamava Giovanni o Gesù: bensì !sacco, o meglio, Isaac. E quell'uomo nacque il giorno di Natale solo in Inghilterra, dove la riforma del calendario non era ancora stata adottata: nel resto d'Europa si era ormai già al 4 gennaio 1 643. Peccato, perché per pochi giorni si perde una singolare coin­ cidenza con l'anno della morte di Galileo, avvenuta 1'8 gennaio del 1 642. Ma più che l'ideale e impossibile reincarnazione di uno scienziato italiano, stupisce la reale e improbabile incarna­ zione del Salvatore della scienza in una famiglia inglese che già dal cognome Newton (derivato da new town, « civitanova ») tradiva modeste origini da emigrante, e che nel ramo paterno era costituita da letterali analfabeti. Newton non conobbe comunque mai suo padre, che morì tre mesi prima che lui nascesse. Da un lato, questo lo assolse da una vita nei campi. Dall'altro lato, lo condannò all' abban­ dono da parte della madre, quand'ella si risposò nel 1646. Il piccolo Isaac fu dunque allevato dalla nonna in campagna, a

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Woolsthorpe Manor, fino a quando la madre non tornò a casa nel 1653 con altri tre figli, dopo la morte del secondo marito . Già prima dei dieci anni il bambino mostrò di avere un bel caratterino, e lui stesso raccontò di quel periodo: « Ho minac­ ciato di bruciar vivi mio padre e mia madre, e tutta la casa con loro ». E nel resto della vita non si smentì, rimanendo attacca­ brighe e complessato nonostante tutti i suoi successi .

A

scuola

Nel 1655 fu man dato alla scuola secondaria, dove il tempo ve­ niva sostanzialm ente perso a studiare il latino e la Bibbia, e fu immediatamente odiato dai compagni a causa della sua diffi­ coltà caratteriale e della sua facilità intellettuale. Molti anni do­ po, quand'era orm ai famoso, tutti ricordavano ancora le sue stravaganze e la sua abilità nel costruire modellini in legno . Lui stesso raccontò di aver fatto il suo primo esperimento il 3 settembre 1658, giorno della morte di Cromwell, misurando la forza di un uragano con salti a favore e contro vento, e pa­ ragonando le loro lunghezze a quelle dei salti compiuti in un giorno di bonaccia. Già a quell'età il giovane Newton rivelò alcuni degli interessi che lo monopolizzarono in seguito. Per la chimica, ad esempio, osservando l'attività del farmacista dal quale stava a pensione. O per l' astron omia, piazzando meridiane dovunque e studian­ do i movimenti del Sole. Ancora da vecchio, quando gli si chie­ deva l'ora, rispondeva guardando le ombre sui muri, invece di consultare i' orologio . Nel 1659 sua madre lo fece tornare a casa, pensando che avesse orm ai ricevuto abbastanza istruzione, e fosse giunta l'ora

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di rendersi utile andando al pascolo. Naturalmente, il giovane si rese invece dannoso e procurò solo guai. Mentre gli animali mangiavano lui pensava ad altro, e ci sono pervenuti i verbali di tre multe che prese per non aver saputo evitare che le pecore rompessero i paletti, e i maiali sconfinassero nei campi dei vi­ emi.

L'adolescente visse malissimo quel periodo di nove mesi, e in una lista di peccati stilata tre anni dopo ricordò di aver bistic­ ciato con la madre, il fratellastro, le due sorellastre e i servi tori, e di aver « picchiato molta gente ». Lo salvarono dalla pastorizia uno zio prete e un professore della scuola, che convinsero la ma­ dre a mandare un ragazzo così dotato all'università. Newton ar­ rivò a Cambridge il4 giugno 1 660 e il giorno dopo fu ammesso al Trinity College, di cui sarebbe diventato la gloria. Agli inizi vi entrò come semplice subsizar, « studente lavora­ tore », al servizio dei sizar che servivano il master e gli insegnan­ ti anziani. Divenne, cioè, un letterale « servo dei servi », anche se la madre avrebbe benissimo potuto pagargli la retta. Seguen­ do l'antiquato piano di studi che propinava il Collegio, prese a studiare la logica, la fisica e l'etica aristotelica, ma non terminò nessuno dei testi ufficiali che iniziò, abbeverandosi sempre più a fonti alternative: in particolare, le opere di Cartesio e il Dia­ logo di Galileo. Nonostante il suo scarso impegno negli studi curricolari, il 1 8 aprile 1 664 il subsizar fu promosso scholar, « dottorando )) ' ricevendo finalmente una borsa di studio che lo affrancava dal­ l' obbligo di servire, e con la certezza di poter studiare a modo suo per un quadriennio. Puntualmente, da quell'anno i suoi taccuini registrano il momento della svolta: uha serie di Quae­ stiones quaedam Philosophicae (Alcune questioni filosofiche) , coronate dal motto Amicus Plato, amicus Aristoteles, magis ami-

16 ca veritas (Amico Platone, amico Aristotele, maggior amica la verità) . I quarantacinque paragrafi della lista spaziano sugli argo­ menti che diventeranno di lì a poco i centri d'interesse di New­ ton: il tempo, la materia, il moto, la luce, i colori, la visione, via via fino ai quattro titoli conclusivi sui sogni, l'anima, la creazio­ ne e Dio. E le note contengono già vari abbozzi di idee che sa­ ranno compiutamente sviluppate in seguito, dalla teoria etero­ genea dei colori a quella corpuscolare della luce. Come esempio premonitore dell'intensità che avrebbe dedi­ cato al loro studio, una volta fissò alternativamente per ore con un occhio il Sole e il buio, per osservare le immagini retiniche così prodotte. Il risultato fu che, per recuperare l'uso degli oc­ chi, dovette chiudersi in una stanza oscurata per tre giorni, e ancora nel 1 69 1, in una lettera a John Locke, ricorderà il ri­ schio che aveva corso. Che non era l'unico, comunque, visto che un'altra volta si ficcò una stecca fra l'occhio e l'osso per ve­ dere i cerchi colorati prodotti dall'alterazione di curvatura della retina, che nella Questione 1 6 dell' Ottica paragonerà a quelli sulle penne della coda di un pavone. Poco dopo le Quaestiones, a partire dal 1 665, Newton ebbe un'esplosione creativa che lo portò nel giro di una decina d'an­ ni dalle stelle della matematica alle stalle della teologia, passan­ do per la meccanica, l'ottica, la chimica e l'alchimia, in un'in­ calzante serie di tappe che seguiremo individualmente nei pros­ simi capitoli. Agli inizi questo suo fervore intellettuale rimase segreto, e nessuna delle sue scoperte trapelò al Collegio. Nonostante la sua trasparenza agli osservatori, che gli costò la lode, il 2 otto­ bre 1667 Newton divenne comunque fellow, ricercatore » con un assegno di ricerca, e prestò il giuramento di rito: «

17 Farò della teologia l'oggetto dei miei studi e prenderò gli ordini sacri quando verrà il tempo prescritto dagli statuti, o altrimenti lascerò il Collegio.

In cattedra In realtà gli ordini non li prese mai, ma rimase comunque al Trinity per una trentina d'anni, ispirando una lunga serie di aneddoti. Stava quasi sempre rintanato nella sua camera. Le ra­ re volte che si recava a mensa, sedeva da solo, assorto e distrat­ to . Se invitava qualcuno , spesso lo ignorava e continuava a la­ vorare. Non si svagava mai. Quando passeggiava nel giardino, disegnava diagrammi sulla ghiaia. E l'unica volta che rise, fu quando qualcuno gli chiese a che cosa servivano gli

Elementi

di Euclide.

Al di là del folclore, ebbe una capacità di concentrazione leg­ gendaria, confermata per il giovane studente dal suo compagno di stanza al Trinity, e per il vecchio scienziato dai suoi servitori, che lo portava a dimenticarsi di mangiare e dormire per giorni interi , quando stava cercando di risolvere un problema. Egli stesso ammise modestamente, in una lettera a Richard Bentley del l O dicembre 1 692: Se ho reso qualche servigio al pubblico, ciò si deve unica­ mente alla mia operosità e a una paziente abitudine a pensare. Purtroppo per il pubblico, Newton era restio a render noti i servigi resi. Come scrisse, ad esempio, in una lettera del 18 feb­ braio 1 670 a John Collins:

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Non vedo che cosa vi sia di desiderabile nella considerazione altrui, anche se fossi in grado di acquistarla e di mantenerla. Forse aumenterebbe il numero dei miei conoscenti, ma questa è una cosa che io cerco assolutamente di evirare. Persino i suoi fondamentali risultati di matematica degli anni 1665 e 1666 rimasero segreti fino al 1669, quando Isaac Barrow gli mostrò un libro di Mercatore che ne anticipava qualcuno trovato indipendentemente. Per una volta, lo smacco stimolò N ewron a scrivere un saggio riassuntivo delle sue scoperte, che capitò proprio al momento giusto. Barrow stava infatti per dimettersi da professore di matematica per diventare dapprima cappellano del re, e poi master del Trinity College. E una volta visto ciò che l'allievo aveva combinato in silenzio e solitudine, lo propose come suo successore. Jl29 ottobre 1669 Newton salì dunque sulla cattedra di professore lucasiano, istituita nel 1663 grazie a un fondo donato da Henry Lucas, sulla quale l'aveva preceduto Barrow e l'avrebbero seguito, fra gli altri, Charles Babbage, Paul Dirac e Steven Hawking. Ma non riuscì mai a scendere allivello degli studenti. Come testimoniò il suo assistente Humphrey Newton, omonimo ma non parente, « erano così pochi quelli che andavano ad ascoltarlo, e ancor meno quelli che lo capivano, che molto spesso, per mancanza di uditori, teneva lezione ai muri)). Per qualche tempo approfittò dell'obbligo di depositare i resti delle lezioni per scrivere parti di quelli che poi divennero i suoi capolavori: i Principia del 1687 e l'Ottica del 1704. Ma dopo la pubblicazione dei primi non si fece più vedere in aula per quattordici anni, e a Cambridge per cinque, fino a quando si dimise dal T rinity College nel 170 l.

19 In parte il suo distacco dall'insegnamento, dopo una ventina d'anni di vita puramente universitaria, fu motivato dal fatto che nel 1 687 Newton era «entrato in politica )), schierandosi apertamente contro il cattolico re Giacomo nel braccio di ferro che questi aveva ingaggiato con l'Università, per cercare di im­ porre la nomina di un professore «papista )) nella roccaforte dell'insegnamento protestante. A dicembre del 1 688 la Rivoluzione inglese depose il sovra­ no, che fu rimpiazzato dal protestante Guglielmo d'Grange. Nel gennaio 1 689 Newton fu nominato rappresentante dell'U­ niversità al Parlamento, dove brillò per il suo assiduo silenzio. Sembra che in un anno di sedute abbia parlato una sola volta, per dire a un usciere di chiudere una finestra da cui entrava uno spiffero d'aria. Fino ad allora Newton sembrava incapace di stabilire legami personali memorabili. Ad esempio, la ventennale coabitazione con l'ex compagno di studi John Wickins non lasciò alcuna traccia, a parte una paginetta di testimonianza postuma del fi­ glio di questi, Nicholas. Ma nel 1 689 lo scienziato incontrò il filosofo John Locke, con cui instaurò un rapporto intellettuale paritetico, e il matematico svizzero Nicolas Fatio de Duillier, al quale lo legò un'impetuosa amicizia e, almeno stando al loro epistolario, forse anche qualcosa di più. Quattro anni dopo, nel l 693, Newton visse il suo annus ter­ ribilis. Ad aprile, ricevette da Fatio la proposta di «trascorrere insieme tutta la vita )). Agli inizi e alla fine di giugno, passò con lui due settimane a Londra. E a settembre riaffìorò da un silen­ zio senza tracce di quattro mesi, con due confuse lettere. Una a Samuel Pepys, in cui diceva di soffrire d'insonnia da un anno e di essere in uno stato confusionale. E l'altra a Locke, in cui chiedeva perdono per avergli augurato di morire, in seguito a

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un supposto attentato del filosofo alla sua morale « con intrighi di donne e altri mezzi». Il29 maggio 1 694 Christiaan Huygens annotò sul suo dia­ rio di aver sentito che Newton avesse avuto un attacco di paz­ zia, e fosse ormai « perso per la scienza». Vari motivi sono stati addotti dagli storici per il crollo, oltre ai possibili turbamenti affettivi. Tra essi, la depressione « post parto» seguita alla pub­ blicazione dei Principia. Lo sforzo mentale per il troppo studio. La perdita di una serie di lavori per un incendio avvenuto nella sua camera, in seguito alla dimenticanza di una candela accesa. E, fast but not least, un avvelenamento cronico da mercurio prodotto dai suoi trentennali esperimenti alchemici, sui quali torneremo ..

Alla Zecca

Sia come sia, sembrò ristabilirsi a partire dal 1694, anche se nei successivi trent'anni si dedicò sempre più al lavoro amministra­ tivo e sempre meno alla ricerca scientifica. N el 1 696 fu infatti nominato governatore della Zecca, e nel 1 699 direttore: un in­ carico che mantenne fino alla morte, e lo portò di nuovo in Parlamento per qualche anno. Come in tutte le imprese in cui si lanciava, anche nel suo nuovo lavoro Newton si distinse per la passione con cui studiò i problemi monetari, l'energia con cui organizzò la coniazione, e il puntiglio con cui perseguì personalmente i falsari nelle ta­ verne e li interrogò nelle prigioni, fino a diventarne l'odiata os­ sessiOne. Dal 1703 fu anche presidente della Royal Society, di cui era divenuto membro già nel 1 672, a soli trent'anni, in seguito alla

21 clamorosa invenzione di un telescopio a riflessione, molto più piccolo di quelli a rifrazione comuni all'epoca, e basato sulla convergenza della luce nel fuoco di uno specchio parabolico. Anche alla Royal Society profuse il suo impegno e mancò tre sole sedute settimanali in vent'anni, fino a quando l'età lo co­ strinse a diradare le presenze. Nel 1 705 la regina lo nominò cavaliere, ma né gli onori, né le frequentazioni di banchieri, nobili e reali riuscirono a scalfire la sua avversione per tutto ciò che poteva esser classificato come nonsense. Andò all'opera una sola volta in tutta la vita, e scappò prima della fine. Di fronte alla famosa collezione di statue del conte di Pembroke, si stupì soltanto che ci si potesse «innamo­ rare di bambole di pietra». Nella sua biblioteca non trovò po­ sto nessun classico della letteratura, da Chaucer a Shakespeare, e della poesia pensò che fosse solo «una sorta di ingegnosa sciocchezza». Da quando si era trasferito a Londra nel 1 696, Newton ave­ va preso con sé l'attraente nipote Catherine Barton, figlia di una sua sorellastra. Dopo aver affascinato Jonathan Swift ed es­ ser stata per una dozzina d'anni l'amante di Charles Montagu, Cancelliere dello Scacchiere e conte di Halifax, a trentott' anni ella sposò nel 1 7 1 7 il ventinovenne John Condui tt, che negli ultimi anni di vita dello scienziato raccolse molti suoi ricordi. Lo stesso fece William Stukeley, un membro della Royal Socie­ ty, e sui loro resoconti si basa l'aneddotica più o meno creativa e agiografica che abbiamo di lui, soprattutto per gli anni pre­ cedenti la sua fama. Il grande scienziato morì il 20 marzo 1 727, rifiutando i sa­ cramenti, ma fu comunque tumulato in pompa magna a Westminster. Al suo funerale era presente Voltaire, che ripor­ tò: «È stato seppellito come un re che avesse fatto del bene ai

moi sudditi>> . Anche se non fu inciso sulla tomba, l' epitaffic :ommissionato da Conduitt ad Alexander Pope divenne co­ munque l'omaggio più appropriato a colui che l'Ode di aper­ tura dei Principia aveva definito «il mortale che più si avvicinò :tgli dèi »: Alt nature and its

laws lay hid in night; God said: Let Newton be!» and al! was light. «

La Natura e le sue leggi giacevano nascoste nella notte;

Dio disse: «Sia fatto Newton! » e la luce fu. Quanto a lui, poco prima di morire aveva altrettanto poeti­ :amente riassunto così la sua vita a Andrew Ramsay: Cosa il mondo penserà di me, non lo so . A me sembra di essere stato solo un fanciullo che gioca sulla riva del mare e si diverte a trovare, ogni tanto, un sassolino un po' più levigato o una conchiglia un po' più graziosa del solito, mentre il grande oceano della verità gli si stende inesplo­ rato dinanzi.

L'ULTIMO MAGO

Dopo i proficui studi di ottica, meccanica e matematica del produttivo quadriennio fra il 1 665 e il 1 669, che affronteremo nella seconda parte del libro, il giovane N ewton non proseguì sulla via intrapresa. Per una quindicina d'anni, benché fosse nel pieno vigore intellettuale, egli abbandonò infatti sostanzial­ mente la ricerca in quei campi. Lo rivelano le sue lettere a Henry Oldenburg, segretario del­ la Royal Society, che ripetono continuamente che egli non ave­ va più né tempo, né voglia, di dedicarsi alla cosiddetta « filoso­ fia naturale » . Quella del 23 giugno 1 673, ad esempio: Non intendo più occuparmi di questioni di filosofia. Spe­ ro perciò che non ve l'avrete a male se mi vedrete sempre opporre un rifiuto alla richiesta di fare qualsiasi cosa in questo campo. O meglio, spero che seconderete la mia decisione impedendo, nella misura in cui potrete farlo convenientemente, l'invio di obiezioni o altre lettere filo­ sofiche che possano riguardarmi. Le polemiche provocate dai suoi scritti sui colori e la luce, sulle quali torneremo, gli impedirono di mantenere il suo pro­ posito, e anche di questo egli si lagnò ripetutamente. Il 1 8 no­ vembre 1 676, ad esempio:

24 Vedo che sono diventato schiavo della filosofia, ma se rie­ sco a liberarmi dell'impaccio son risoluto a farla finita con essa una volta per tutte, ad eccezione di ciò che farò per mia personale soddisfazione e di quello che, per mia volontà, sarà pubblicato dopo la mia morte. Mi accorgo, infatti, che un uomo deve decidersi a non pubblicare niente di nuovo, se non vuoi diventare uno schiavo per dover difendere ciò che ha scritto.

Un archivio segreto

Cosa avesse determinato l'allontanamento di Newton dalla « fi­ losofia)) , e a cosa si fosse invece dedicato, rimase per due secoli un mistero. Quand'egli morì, il suo archivio fu ereditato dalla nipote Catherine Barton. Poi passò al conte di Portsmouth, dopo che egli ne sposò la figlia nel 1 7 40. E fu visionato nel 1777 dal vescovo Samuel Horsley, che secondo John Maynard Keynes « vide con orrore il contenuto e sbatté il coperchio )) . Nel 1 872 le carte furono donate all'Università di Cambrid­ ge. Questa le catalogò nel 1 888, e scoprì che una gran quantità di materiale, ammontante a più di un milione di parole, era de­ dicato ... all'alchimia e alla teologia! Questo materiale esoterico fu definito « di scarso interesse)) e venne restituito ai conti di Portsmouth. Il materiale fu infine venduto all'asta da Sotheby' s nel luglio del 1 936, smembrato in 329 lotti. Una buona parte dei mano­ scritti teologici fu comprata da Abraham Yahuda e finì alla Bi­ blioteca nazionale e universitaria ebraica di Gerusalemme. Una buona parte delle carte alchemiche fu invece rilevata da Keynes e donata al King' s College di Cambridge.

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È su questa base che nel 1 946 l'economista poté dare la sua famosa definizione dello scienziato, nella conferenza L'uomo Newton tenuta alla Royal Society: Newton non fu il primo scienziato dell'Età della ragione. Piuttosto, fu l'ultimo dei maghi, l'ultimo dei Babilonesi e dei Sumeri, l'ultima delle grandi menti che guardarono al mondo visibile e intellettuale con gli stessi occhi di coloro che iniziarono ad accumulare il nostro patrimonio cultu­ rale una decina di migliaia di anni fa. lsaac Newton, figlio postumo nato senza padre il giorno di N atale del 1 642, fu l'ultimo bambino prodigio a cui i re Magi avrebbero po­ tuto porgere un omaggio sincero e appropriato. Purtroppo, la lettura delle carte rese disponibili da Keynes delude completamente le aspettative di qualche redenzione scientifica da parte di Newton dalla ciarlataneria alchemica. In­ vece di partire dai lavori di quelli che egli stesso dubitò essere, in una lettera a Oldenburg del 26 aprile 1 676, « grandi millan­ tatori che vendono fumo », per approdare a esperimenti che prefigurassero in qualche modo la chimica moderna, egli effet­ tuò il percorso inverso, partendo dalla lettura di Robert Boyle e impantanandosi nell'esegesi di testi demenziali che lo occupa­ rono inutilmente per anni.

L'app rendista stregone

Già alla fine del 1 669 Newton aveva comprato a Londra due fornaci, varie sostanze e il grande Theatrum chemicum di Laza­ rus Zetzner, in sei volumi. In seguito, come ricordò a Conduitt

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il31 agost o 1726, > , ma lo costrinse a incominciare a

insegnare qu al cuna delle cose che sapeva. Per il suo primo cor­

so e

da professo re l ucasiano nel 1 670 egli scelse le

Lezioni ottiche,

Barrow lo convinse a prepararle per la stampa l ' anno do p o . N el frattempo, l ' i nvenz ione del telescopio a riflessione l ' ave­

va fatto conosce re anche fuori di Cambridge, ed eleggere alla

R.oyal Sociery. Per festeggiare l'evento , egli inviò il 6 febbraio 1 672 al segre ta r io Oldenburg una lettera contenente un saggio

su Una

nu o va

teoria della luce e i colori,

che fu subito comu ni­

caro alla so cietà. Immediatamente Newton incominciò a speri­ mentare i d ub bi benefici della fama, e a reagirvi secondo il p ro­

p ri o col l erico carattere.

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Primo round, sull'ottica

Il 1 5 febbraio il luminare Hooke attaccò infatti il pivello di Cambridge con una stroncatura buttata giù in tre o quattro ore, come raccontò poi egli stesso, che sentenziava: Tutti gli esperimenti e le osservazioni che io ho fatto sino ad oggi, e gli stessi esperimenti· che lui ha presentato, mi sembrano dimostrare che la luce non sia altro che una vi­ brazione, o un movimento, propagantesi in un mezzo omogeneo, uniforme e trasparente, e che il colore non sia altro che una perturbazione della luce dovuta alla ri­ frazione. Da principio Newton pensò di rispondere con un intero trattato, ma poi decise di limitarsi a una lettera, che inviò 1' 1 1 giugno 1 672. Benché Oldenburg gli avesse chiesto di evi­ tare polemiche personali, il focoso scienziato citò il rivale ven­ ticinque volte nel testo, oltre che in apertura e in chiusura, con questo tono: Il signor Hooke si sente in dovere di rimproverarmi per­ ché avrei accantonato l'idea di migliorare l'ottica studian­ do le rifrazioni. Ma egli sa bene che nessuno può stabilire come gli altri debbano studiare, soprattutto se non capi­ sce i fondamenti di ciò su cui essi lavorano. [ . . ] Le sue osservazioni consistono nell'attribuirmi un' ipo­ tesi che non è mia, nel contrapporvi un'altra ipotesi che non è contraria alla mia, nel confermare la maggior parte del mio discorso, e nel negare alcune cose che sarebbero ri­ sultate evidenti se fossero state verificate sperimentalmente. .

48 La risposta del 1 9 giugno di Hooke dovette essere pesante, se l a Royal Sociery gli impedì di leggerla in pubblico e non la p ubblicò , a differenza di q uel l a di Newton. Nel frattempo scese in campo anche Huygens, che mandò

b e n quattro commenti al saggio in discussione, in un crescendo di cri tiche. Newton tardò m esi a reagire, fino al l ' 8 marzo 1 673,

e p oi si limitò a mandargli a dire che non gli avrebbe risposto in privato, ma solo in pubblico, e con la facoltà di pubblicare lo sca m bio. Anzi, mentre c'era, comunicò a Oldenburg: Signore, desidero che lei faccia in modo che io no n s ia più membro della Royal Sociery. Benché io tenga in grande onore tale consesso, tuttavia, poiché vedo che non potrò essergli di nessuna utilità, né (in ragione della distanza)

p o t rò a mia volta godere dei vantaggi delle sue riunion i ,

è mio desiderio ritirarmi. Oldenburg si affrettò a mediare fra Newton e H uygens, con­ vi ncen do il primo a ritirare le dimissioni, e spiegando al secon­

do il 7 aprile che « il signor Newton è persona di grande cando­ re, e non ha certo la mano leggera nel prese n tare le cose che ha da di re >> . Il l O giugno H uyge n s si ritirò in buon ordine, rispon­ de ndo sostanzialmente che voleva stare alla larga da chi si com­ p ortava come un matto: « Poiché mi accorgo che difende la sua do ttrina con un certo calore, non ho inten zi o ne di pole mizzare con lui ». Le acque rimasero chete un paio d'anni, e sembrava o rmai

che il fuoco delle polemiche si fosse es tin t o . Il 1 8 febbraio

1 675 Ne\\rton prese parte per la prima volta a una riunione del­

la Royal Society, dove fu coccolato e sentì dire che Hooke ave-

49 va accettato la sua teoria dei colori. Si mise dunque al lavoro, e il 7 dicembre presentò il Discorso sulle osservazioni e l'Ipotesi per

la sp iegazione delle proprietà della luce, su cui torneremo, sotto­ lineando che la sua teoria dei colori stava in piedi qualunque fos se la natura della luce: Mi è sembrato opportuno dichiararlo, perché nessuno possa confondere il mio discorso su questa ipotesi con gli altri miei discorsi, o misurare la certezza dell' uno con quella dell'altro, o ritenermi obbligato a rispondere alle obiezioni che potrebbero venir sollevate contro que­ sto scritto . Non desidero, infatti, farmi coinvolgere in pe­ nose e inutili dispute del genere. Hooke era però di altro avviso, e quando l'Ipotesi fu letta alla Royal Society saltò in piedi e, secondo gli atti della seduta, sbottò dicendo che « quanto c'era di sostanziale era già conte­ nuto nella Micrographia, e il signor Newton si era limitato sem­ plicemente ad aggiungervi qualche particolare )) . La replica non tardò ad arrivare, il

lO

gennaio

1 67 6:

Desidero che i l signor Hooke m i dimostri non solo i n ge­ nerale, ma nel dettaglio, che l'Ipotesi da me scritta è tratta dalla sua Micrographia, come lui insinua. E in tal caso, aspetto che dimostri in che cosa essa sarebbe sua.

Sulle spalle dei giganti 11 20 gennaio 1 676

Hooke decise di aggirare l'intermediazione

di Oldenburg e scrisse direttamente a Newton, proponendogli

di l avare i p anni sporchi in famiglia, ed evitare la focosità pub­ bl ica che « non se rve ad altro che ad accendere il carbone

»:

Po sso supporre che i vostri progetti e i m iei mirino en­

trambi alla s tes s a cosa, cioè alla scoperta della verità? E che en t ram b i possiamo accettare di ascoltare obiezioni,

p urché no n in forma di aperta ostilità? E che abbiamo d elle menti ugualmente disposte a cedere di fronte alle p iù se mp l ici deduzioni derivanti dalla sperimentazione?

S e p erci ò vo rrete avere la compiacenza di dare corso a un a corrispondenza su tali argomenti in lettere private,

accogl ierò questa decisione co n molto piacere .

Il 5 fe bb ra io 1 676, nella sua risposta, Newton accettò di di­

scutere con H oo ke lontano dall' attenzione dei

> :

' N on c è n i en te che desidero evitare nelle cose della Filo­

sofia qua nto le contese, e più che mai quelle che avvengo­ no attraverso la stampa: p er ci ò , accolgo con piacere la vo­

stra p ro posta di una corr is pond e nza privata. Quello che si

fa dava n ti a testi m oni raramente si compie sol tanto nel­

l ' i n te resse della verità, ma c i ò che avviene tra amici in pri­

vato d i s ol i to merita i l no me di co nsultazione piuttosto ch e di co ntesa , e così spero che sarà tra voi e me.

Pa ssa ndo poi all a sostanza della disputa, Newton se ne uscì con

u n ' esp ressi one che sarebbe divenuta famosa e celebrata:

Vo i mi mo strate di avere un co ncetto troppo alto delle m i e cap acità di r ic erca i n questa materia. Ciò che ha fatto

51 Cartesio è stato un passo notevole. E voi avete aperto molte altre strade, sop rattutto prendendo in considera­ zione dal punto di vista filosofico i colori delle lamine sotti li. Se io ho visto più lontano, è perché stavo sulle spalle

di giganti. Apparentemente, dunque, Newton affermava che Cartesio e lo stesso Hooke erano due giganti intellettuali. Qualcuno ritie­ ne p erò che I' aforisma nascondesse in realtà una certa perfidia, perché Hooke era fisicamente un nanerottolo. Più precisamen­ te, secondo la descrizione del suo contemporaneo John Aubrey, « di media statura, piuttosto curvo , pallido in viso e con la fac­ cia rivolta in basso, la testa grossa e I' occhio tondo e sporgente, imbambolato e non vivace » . All' archeologia dell'aforisma d i Newto n è dedicato Sulle

spalle dei giganti di Robert Merto n (il Mulino, 1 99 1 ) , che con­ tiene molte informazioni significative sulla sua storia. Prima fra tutte quella che l' aforisma sicuramente non è di Newton, no­ nostante le leggende che glielo attribuiscono, visto che già nel

1 624 Robert Burton ne citava una versione nella sua Anatomia della malinconia: I nostri poeti rubano da Omero : egli vomita, dice Elia­ no, e quelli leccano . I teologi usano ancora verbatim le parole di Agostino, e i nostri narratori fanno altrettanto : quello che arriva ultimo è solitamente il migliore . Seb­ bene ci fossero , ai vecchi tempi, molti giganti in Fisica e in Filosofia, sostengo tuttavia con Didacus Stella: dei

pigmei posti sulle spalle dei giganti vedono più degli stessi giganti.

52 Il libro di Burton fu a lungo popolare nel Seicento, e si può supporre che fosse la fonte di Newton, benché altri avessero ci­ tato l'aforisma dopo il primo e prima del secondo. Ma anche prima del primo: Godfrey Goodman nel l 6 1 1 , ad esempio, che nell'A natomia del mondo sollevava anche « un punto di grande difficoltà sul quale sinora non si è riflettuto », e cioè « in ch e modo far !evitare questi nani e sollevarli sulle spalle dei gigan ­ ti ». E si preoccupava da un lato che i nani « soffrano di capo­ giro », e dall'altro che i giganti « incespichino e cadano », con gravi conseguenze per i loro spallieri. Goodman citava comunque l'aforisma come se fosse un det­ to ben noto. E lo stesso faceva l'eclettico padre Marin Mersen ­ ne, che diede il suo nome ai numeri primi della forma 2n

-

l.

Nelle Questioni armoniche del 1 634 egli diceva infatti : Come si suol dire, è molto facile e anche necessario vede­ re più lontano dei nostri predecessori, una volta che sia­ mo saliti sulle loro spalle, ma questo non toglie che siamo loro debitori . In ogni caso, Burto n si riferiva esplicitamente a Didacus Stella, o Diego de Estella, che aveva citato l'afo risma nel

1 578 nella sua Narrazione del Vangelo di Luca. Ma si può risa­

lire ancora più indietro, perché già quattro anni prima lo sto­ rico ebreo Azariah de' Rossi parlava della « storia del nano a ca­ valcioni del gigante citata dall'autore de I covoni ammucchiati ». Quest'opera di Zedekiah ben Abraham Anav, del 1 280 circa, a sua volta citava la « storia che Isaiah ben M ali di Trani aveva sentito dagli studiosi gentili » :

53 Chi può vedere più lontano, un nano o un gigante? Direi un gigante, perché i suoi occhi si trovano in un posto molto più alto degli occhi del nano. E se il nano stesse a cavalcioni del collo del gigante, chi vedrebbe più lontano? Direi il nano, perché ora gli occhi del nano stanno più alti degli occhi del gigante. Ma il riferimento agli « studiosi gentili » suggerisce che la di­ scesa, ormai arrivata al XI I I secolo, non sia ancora terminata. E infatti, già nel 1 1 5 9 Giovanni di Salisbury aveva scritto nel suo

Metalogicon (m, 4) :

Bernardo d i Chartres diceva che noi siamo dei nani che

stanno sulle spalle dei giganti, perché possiamo vedere di più e più lontano di loro: quindi, non per l'acutezza della nostra vista o per la statura del corpo, ma perché siamo portati in alto e sollevati dalla grandezza dei giganti. Questa testimonianza costituisce una prova circostanziale del fatto che l'aforisma sia attribuibile a Bernardo. A meno che esso non sia invece di Guglielmo di Conches, che più di trent'anni prima di Giovanni parla di nani e giganti nelle sue

Glosse su Prisciano, scritte nel periodo in cui Bernardo era can ­ celliere a Chartres. Ma, visto che G uglielmo fu discepolo di Bernardo e maestro di Giovanni, più probabilmente si limitò ad essere l'anello di trasmissione tra l'iniziatore della scuola di Chartres e il divul ­ gatore delle sue dottrine. Che esso risalga a Bernardo o a G u­ glielmo, l'aforisma è comunque databile alla prima metà del secolo .

XII

54

E già dalla seconda metà del secolo iniziano a fioccare le sue citazioni medievali, enumerate in Nani sulle spalle di giganti di Édouard Jeauneau (Guida, 1 969) . E anche le sue raffigurazio­ ni, visto che una vetrata della cattedrale di Chartres, costruita dopo la morte di Bernardo, rappresenta i quattro evangelisti se­

duti sulle spalle di quattro profeti: Matteo su Isaia, Marco su Daniele, Luca su Geremia e Giovanni su Ezechiele. Altrettanto fanno i bassorilievi scolpiti sul portale della cat­ tedrale di Bamberga, del X I I I secolo, in cui però gli evangelisti stanno in piedi sulle spalle dei profeti. Anche se, in entrambi i casi, è improbabile che si volessero assimilare gli evangelisti a dei « nani ». Piuttosto, si intendevano sottolineare, a un tempo, la continuità del Nuovo Testamento rispetto al Vecchio e la sua superiorità. In ogni caso, la vicenda ci insegna che anche per il suo afo­ risma, oltre che per la teoria della luce e dei colori, Newton si era seduto sulle spalle dei giganti. Ma, come ha notato Freud, non bisogna sminuire la posizione, perché « un nano sulle spal­ le di un gigante vede più lontano di lui, ma un pidocchio sulla testa di un astronomo no ».

Tregua armata Aprendo un canale di comunicazione diretto con Newton, nel 1 676 Hooke riuscì ad arginare la contesa: per il momento i due si calmarono e la disputa sulla luce e i colori finì lì . Ma essi era­ no comunque caratterialmente destinati a scontrarsi. Una nuova occasione d'attrito fu prodotta dal Tentativo di

dimostrare il moto della terra mediante osservazioni che Hooke

55 aveva effettuato nel 1 674, fondando il suo « sistema del mon­ do » su tre supposizioni: In primo luogo, ogni corpo celeste esercita una forza at­ trattiva o gravitazionale verso il proprio centro, con cui at­ trae non soltanto le proprie parti (impedendo loro di di­ sperdersi, come vediamo che fa la Terra) , ma anche ogni altro corpo celeste che stia nella sua sfera di attività. [ . . ] La seconda supposizione è che tutti i corpi in moto semplice e rettilineo continuino a muoversi in linea retta, finché non vengano deviati da qualche altra forza efficace e costretti a descrivere un cerchio, un'ellisse o qualche al­ tra curva più complessa. La terza supposizione è che queste forze siano tanto maggiori, quanto minore è la distanza dei loro centri dal corpo su cui agiscono. Ma a che cosa corrispondano questi diversi gradi di intensità, non l'ho ancora verificato sperimentalmente. .

Il 24 novembre 1 67 9, nella sua qualità di nuovo segretario della Royal Society, Hooke chiese al rivale un parere su questa sua concezione del moto planetario, come perturbazione di un moto rettilineo inerziale da parte di una forza attrattiva gravi­ tazionale: una concezione più avanzata di quella che Newton aveva allora, ancora ferma all'equilibrio tra una forza centrifuga e una centripeta. La risposta del 2 8 novembre si apriva e si chiudeva con due dichiarazioni di rinuncia: Avevo già da qualche anno tentato di distogliermi dalla fi­ losofia per dedicarmi ad altri studi, tanto che ho a lungo

56 rimpianto il tempo trascorso in tale studio, tranne forse quello che, nelle ore d'ozio, serviva da diversivo . Avendo dunque preso congedo dalla filosofia, ed essendo al pre­ sente impegnato in altre faccende, spero che la mia rilut­ tanza a impegnarmi su questi argomenti non sarà conside­ rata una scortesia verso di voi o verso la Royal Society.

[ . .] .

Poiché il mio amore per la filosofia si è ormai esaurito , al punto che io mi interesso di essa tanto poco quanto un commerciante si interessa del lavoro di un altro commer­ ciante, o un contadino si interessa di cultura, debbo di­ chiararmi restio a dedicare a questo tipo di corrisponden­ za quel tempo che credo di poter meglio impiegare in al­ tro modo, con maggio r soddisfazione per me e maggior beneficio per gli altri . Ma nel mezzo Newton commise un doppio errore, diploma­ tico e scientifico: propose un problema per stuzzicare la curio­ sità di Hooke, e ne sbagliò la soluzione. Si domandò infatti qua­ le traiettoria avrebbe seguito un corpo in caduta libera da una torre. E rispose non solo che sarebbe passato a est della torre, come già aveva capito Galileo, ma anche che, in mancanza di impedimenti, sarebbe sceso a spirale verso il centro della Terra. Il 9 dicembre Hooke gli fece notare che invece la traiettoria sarebbe stata ellittica, e Newton ne rimase scioccato . Ancora trent'anni dopo cercò di giustificarsi con Abraham de Moivre, dicendo che Hooke aveva interpretato come una spirale negligente tratto di penna )) . Ma il

13

«

un

dicembre corse ai ripari

e si corresse, pur sostenendo che la cosa

«

non era di grande im­

portanza » . Il

6 gennaio 1680 Hooke rincarò

la dose, rivelando di essere

ormai arrivato estremamente vicino alla scoperta della legge di

57 gravitazione: « la f!I ia supposizione è che l'attrazione sia inver­ sam ente proporzionale al quadrato della distanza dal centro ». 1 E il 1 7 gennaio aggiunse che sarebbe stato interessante sapere, i n tal caso, che tipo di orbita avrebbe seguito un corpo. Newton non rispose a nessuna delle due lettere. Ma, nono­ sta nte tutte le sue dichiarazioni di perduto amore per queste co­ se , si lanciò sul problema capovolgendolo, e riuscendo a esten­ dere, come vedremo, un suo risultato del 1 666. Allora aveva di­ mostrato, con la sola terza legge di Keplero, che le orbite circo­ lari implicano che la gravitazione sia inversamente proporziona­ le al quadrato della distanza. Questa volta dimostrò, con tutte e tre le leggi di Keplero, che la stessa cosa vale anche, pi ù in ge­ nerale, per le orbite ellittiche con il centro di attrazione in uno dei fuochi. Ma si trattava comunque ancora solo di una gravitazione 1

La lettera di Hooke co nteneva anche altre sorprendenti an tici­

pazioni dei Principia, sulle quali torneremo. Anzitutto, della Propo ­ sizione 1 . 74 : « L'attrazione a notevole distanza da u n corpo celeste si può calcolare secondo la proporzione indicata come se fosse esercita­ ta dal centro stesso » .

Poi, della Proposizione r . 7 3 : « Per quanto ri g uarda l a cad u ta d i u n grave all ' interno della Terra, non penso che la le gge di attrazione sia

sempre di q u el tipo fino al centro stesso della Terra. Al contrario, ri ­

ten go che quanto più il corpo sarà vici no al centro, tanto più debole sarà l'attrazione, come avviene per un pendolo o per un corpo che oscilli in una superficie concava, dove la forza diminuisce in mis u ra dell'avvicinamento al punto più basso » .

Infine, i l Corollario l alla Proposizione I . l O dimostra che in tali

condizioni l'orbita è effettivamente ellittica, col centro della Terra nel centro dell'el l isse, come anticipato da Hooke nella citata lettera del

9

dicembre.

58

planetaria, e non universale, come dimostra l' evoluzione del suo pensiero a proposito delle comete apparse nel 1 6 80 e nel 1 682. Nel primo caso, in una lettera a John Flamsteed del 28 febbraio 1 681 egli riteneva ancora che la cometa seguisse un percorso rettilineo . Nel secondo caso, era ormai passato ad applicare anche alle comete la legge di gravitazione, adottan­ do come orbite chiuse le ellissi , e come orbite aperte le parabole o le iperboli.

Secondo round, sulla gravitazione

In ogni caso, la disputa sulla gravitazione si addormentò fino alla primavera del 1 686, quando Edmond Halley presentò alla Royal Society il manoscritto dei Principia per la pubblicazione. In un dopo-ri unione al caffè Hooke rivendicò il merito di aver suggerito a Newton l'espressione della legge di gravitazione, e il 22 maggio Halley comunicò a quest'ultimo: Il signor Hooke avanza qualche pretesa sulla scoperta del­ la legge secondo la quale la gravità decresce in ragione del quadrato della distanza dal centro . Dice che questa idea l'avete avuta da lui, anche se ammette che la dimostrazio­ ne delle curve così generate sia interamente vostra: in che misura questo sia vero, e cosa fare al proposito, lo sapete meglio di me. Il signor Hooke sembra solo aspettarsi che voi facciate qualche menzione di lui nella prefazione che forse apporrete al libro. Sul momento Newton non sembrò prendersela troppo, e dis­ se ad Halley che aveva citato Hooke dove doveva: cioè, nel terzo

59 libro dei Principia. M a i l 20 giugno esplose in una geremiade contro il rivale, tutta su questo tono: Questa è proprio bella! I matematici che scoprono, siste­ mano e fanno tutto il lavoro, dovrebbero accontentarsi di non essere altro che aridi calcolatori e manovali. Quello lì, invece, che non fa che supporre e arraffare ogni cosa, vorrebbe portarsi via tutte le scoperte, sia dei successori che dei predecessori . E io ora dovrei riconoscere per scrit­ to di aver preso tutto da lui, e di non essere altro che uno che macina calcoli e dimostrazioni, e scrive a rimorchio delle invenzioni di questo grand'uomo? [ . . . ] Se un tizio che crede di sapere le cose, e ama ostentarlo impartendo lezioni agli altri e correggendo quello che di­ cono, viene da voi quando avete tanto da fare e, nono­ stante vi scusiate di non poterlo ricevere, vi riempie di di­ scorsi, e con i suoi errori corregge quello che dite, e mol­ tiplica le chiacchiere, e poi approfitta di ciò per vantarsi di avervi insegnato tutto quello di cui ha parlato, e vuoi costringervi ad ammetterlo, e grida all'offesa e all'ingiu­ stizia se non lo fate, io credo che anche voi lo giudichere­ ste un lunatico asociale. Nei brani in cui si degnò di entrare nel merito della questio­ ne, spiegò che il suo errore a proposito della traiettoria di un cor­ po in caduta libera sotto la superficie terrestre era dovuto a un dubbio sul comportamento della legge di gravitazione, che aveva risolto solo di recente. In particolare, dimostrando che effettiva­ mente in quel caso la dipendenza dal quadrato della distanza va modificata: dunque, anche la soluzione di Hooke era sbagliata. Comunque, da quell'infortunio a proposito di ciò che succe-

60

de dentro la Terra non si poteva certo dedurre che non sapesse cosa invece succede nei cieli. E se anche Hooke aveva potuto in­ tuire la forma della legge di gravitazione, lui non solo l'aveva fa t­ to prima, ma era anche riuscito a dimostrarla dalle leggi di Ke­ plero: dunque, avrebbe tolto ogni riferimento a Hooke dal li­ bro. Anche se poi, in realtà, nello ScoFo al Corollario 6 alla Pro­ posizione 111.4 farà di peggio, e lo citerà insieme a Wren e Halley fra coloro che avevano intuito, « ciascuno per proprio conto >>, com'era la legge nel caso particolare dei semplici moti circolari. In una successiva lettera del 27 luglio a Halley, Newton con­ cesse sprezzante un unico debito nei confronti di H ooke: Di avermi sviato dai miei studi per pensare a queste cose, e avermi indotto col suo modo dogmatico di scrivere (co­ me se avesse scoperto lui il moto ellissoidale) ad affronta­ re io stesso il problema, dopo aver capito con quale me­ todo bisognava farlo. Hooke non lo perdonò mai, e continuò a lamentarsi ogni volta che poté. Ad esempio, il 1 5 febbraio 1 6 89 scrisse privata­ mente nel suo diario : Incontrato Newton da Halley. Vanamente rivendicata la sua priorità, ma riconosciuta l'informazione ricevuta da me. L'interesse non ha coscienza: ciò che è stato non si può dedurre da ciò che avrebbe potuto essere (a posse ad esse

non valet consequentia) .

E il 26 febbraio 1 690 illustrò pubblicamente alla Royal So­

ciety il Discorso sulla causa della gravità di Huygens, iniziando con queste parole:

61 La prefazione tratta di quelle proprietà della gravità che io stesso ho scoperto per primo e mostrato a questa Società, e che anni dopo il signor Newton mi ha fatto il favore di stampare e pubblicare come sue invenzioni. La doppia disputa, sulla luce e l a gravitazione, non finì che n el 1 703, alla morte di Hooke. Ed è un vero peccato che abbia in parte offuscato la grandezza di questo eclettico scienziato, che nel 1 660 scoprì la legge dell'elasticità che porta il suo nome ( ut tensio, sic vis, « l'estensione è proporzionale alla forza ») . N el 1 665 pubblicò, con la Micrographia, uno dei capolavori scien­ tifici del XV I I secolo. Dopo i l 1 666 assistette Christopher Wren nella ricostruzione di Londra distrutta dal grande incendio, progettando la cupola della cattedrale di Saint Paul e inventan ­ do le finestre a ghigliottina. N el 1 670 congegnò il meccanismo a molla e bilanciere che permise la costruzione degli orologi da polso (avendo al proposito un'altra disputa di priorità con Huygens) . E, per sua fortuna, non venne mai a sapere che le palline con cui egli dimostrò nel 1 666 le proprietà degli urti elastici oggi si chiamano . . pendolo di Newton. .

GLI ARTIGLI DEL LEONE

Dopo la pubblicazione dei Principia e il raggiungimento della fama, Newton si rivolse principalmente ad attività di altro ge­

nere, dall'amministrazione alla teologia. Egli limitò il suo im­ pegno scientifico alla pubblicazione dell' Ottica, uscita nel

1 704

ma scritta molto tempo prima, e di varie successive edizioni dei suoi due capolavori. In particolare, nel Principia, n el

171 8

1713

la seconda dei

la seconda d eli' Ottica, e nel

1 726

la terza

dei Principia, tutte con impo rtanti correzioni, rifacimenti e ag­ gmnte. Ma dedicò anche un' attenzione e un'energia spropositate a

una sterile disputa con Leibniz a p roposito dell'invenzione del calcolo infinitesimale, sul quale torneremo nella seconda p arte.

Una disputa che fa il paio con quella con Hooke, e compete con essa quanto ad assurdità logica, spreco intellettuale e bas­ sezza umana.

Una corrispo ndenza poco

amorosa

La storia incomincia da lontano , nei primi mesi del

1 673,

quan do il filosofo tedesco visitò Londra e venne eletto membro della Royal Society. Egli mantenne poi i con tatti con Olden­

burg , che quello stesso anno e nel 1 675 gli fece avere due rela­ zioni sullo stato dell' arte della matematica inglese, scritte da

63 John Collins. Vi si riportavano , tra l'altro , alcuni dei risultati ottenuti da Newton sulle serie infinite, ma senza dimostrazioni. Il 2 maggio

1 676 Leibniz mandò una richiesta di spiegazioni

a Oldenburg, e questi riuscì a convincere Newton a scrivere di p ersona un resoconto delle proprie ricerche. La sua Epistola p rio r del

13

giugno si apriva con un omaggio all'alter ego tedesco :

Quantunque Leibniz, negli estratti della lettera che mi avete inviato poco tempo fa, attribuisca modestamente ai nostri connazionali gran parte del merito del calcolo delle serie infinite, di cui è ormai incominciata a diffon­ dersi la fama, non ho nessun dubbio che sia riuscito a tro­ vare non solo, come asserisce, il metodo per ridurre a si­ mili serie qualsiasi quantità, ma anche vari procedimenti simili ai nostri, se non migliori. E continuava enunciando un gran numero di risultati senza dimostrazioni, a partire dal teorema del binomio, pur lasciando intendere che l'elenco era tutt'altro che esaustivo. Era comun­ que più che sufficiente a far esclamare a Leibniz, nella sua ri­ sposta a Oldenburg del 27 agosto: La vostra lettera contiene sull'analisi cose molto più im­ portanti e numerose dei molti grossi volumi pubblicati sull'argomento. Le scoperte di Newton sono degne del suo ingegno, che già rifulse splendido dalle sue esperienze sull'ottica e sul cannocchiale a riflessione. Il suo metodo per trovare le radici delle equazioni e le aree delle figure mediante serie infinite differisce completamente dal mio: è veramente il caso di ammirare la diversità delle vie per le quali si può pervenire a uno stesso risultato.

64 Leibniz passava poi a descrivere il proprio metodo, enun­ ciando in particolare quella che, giustamente orgoglioso, rite­ neva essere

«

la più semplice e sorprendente di tutte le possibili

quadrature mediante serie infinite del cerchio »: 7r - =

4

l l l 1 --+---+ ··· 3 5 7

Si trattava ovviamente di uno scambio alla pari , che nella sua

Epistola posterior del

24

ottobre Newton mostrò di apprezzare:

Il metodo di Leibniz per pervenire alle serie convergenti

è

certamente elegantissimo, e basterebbe da solo a dimo­ strare l'ingegno del suo autore, anche se egli non avesse scritto altro, ma ciò che ha profuso per tutta la sua lettera

è degno

della sua fama e ci fa sperare da lui le cose più

grandi. La diversità dei modi per raggiungere uno stesso scopo mi ha particolarmente sorpreso: mi erano già noti tre metodi per pervenire a simili serie, e ben difficilmente mi sarei aspettato l'annuncio di uno nuovo . Egli passava poi a spiegare come avesse ottenuto il teorema del binomio mediante il metodo di interpolazione di Wallis. Come fosse arrivato alla serie per il logaritmo. E come la serie di Leibniz fosse derivabile dai suoi risultati, così come l'analoga sene:

l = l + -l - -l - - + · · · 3 5 7 2Vl 7r

-

Newton accennò anche a un suo e le sue « interessanti osservazioni ». Ma anche aggiungendo di aver « già da molto tempo trattato più generalmente la materia delle tangenti », spiegando ed esemplificando il suo approccio. E concludendo: « Penso che ciò che Newton ha voluto nascondere del suo metodo per trac­ ciare le tangenti, non sia troppo diverso da quanto ho esposto ». Dal doppio scambio fra i due giganti, oltre che da uno studio dei loro rispettivi modi di affrontare i problemi, si capisce be.. nissimo che essi trovarono e svilupparono il calcolo infinitesi­ male indipendentemente, benché non simultaneamente. New­ ton aveva un vantaggio di una decina d'anni, ma dapprima lo scialacquò colposamente per futili motivi caratteriali, e poi cer­ cò dolosamente di recuperarlo senza seri motivi storiografici. La diatriba successiva fu basata sul fatto che nell'ottobre 1676, dunque più o meno nel periodo in cui Newton scrisse l'Epistola p osterior, Leibniz tornò a Londra per una decina di giorni, e quando visitò Collins questi gli permise di vedere al­ cuni dei lavori di Newton, in particolare il saggio Sull'analisi. Gli appunti di Leibniz sono soprawissuti, e testimoniano che egli non prestò alcun interesse al calcolo delle flussioni, che evi­ dentemente già conosceva per conto suo, soffermandosi invece sulle serie infinite. Rimane il fatto che Collins aveva commesso una scorrettez­ za, e che Leibniz in seguito evitò di menzionarla: due compor­ tamenti che, una volta scoperti, potevano benissimo apparire cospiratori agli occhi di un paranoico: il quale, comunque, si comportò nello stesso modo dei suoi awersari, a proposito del­ le lettere di Hooke sulla gravitazione. In ogni caso, per il mo>

non

è certo ciò che intende

il lettore comune.

A scanso di equivoci, benché i

Principia usino

solo sporadi­

camente le tecniche del calcolo infinitesimale (ad esempio, nelle Proposizioni r.4 1

e 11.34 che abbiamo già citate, e nel Lemma I . 2 e nella P rop osizio ne rr. I O che citeremo) , ne usano comun­ que sistematicam en te le nozioni. In particolare, la Sezione r. l che apre il libro intro duce il « metodo delle p rime e ultime ra­ gio ni mediante cui si dimostra tutto ciò che segue >>. Ad esempio, il Lemm a l enuncia la definizione del limite di Cauchy e Weierstrass oggi comune: ,

Le quantità,

così come i rapporti fra quantità, che costan­

temente tendono all' uguaglianza in un qualsiasi tempo fi­ nito, e prima della fine di quel tempo si approssimano l'una all'altra più di

u na qualsiasi

differenza data, diven­

tano alla fine ugual i . Analogamente, i l

Lemma 2 come in tegrale di Riemann:

enuncia la definizione dell'area

Se in una figura qualsiasi determinata da una curva

e

da

due rette ve rticali viene inscritto un qualsiasi numero di p arallelo gramm i con le basi uguali, e se la larghezza di questi parallelogrammi diminuisce e il loro numero au­ menta all'infinito, dico che le ultime ragioni che hanno

1 87

le figure inscritte e circoscritte, così come la figura curvi­ linea, sono ragioni di uguaglianza.

A

BF C

D

.E

Il Lemma 6 enuncia la definizione della tangente come de­ rivata, cioè come limite delle corde: Se un arco determinato da una data posizione è sotteso da una corda, ed è toccato in un unico punto da una retta prolungata in entrambe le direzioni, e se i punti estremi dell'arco si approssimano l'uno all'altro fino a congiun­ gersi, dico che l'angolo contenuto tra la corda e la tangen­ te diminuisce all'infinito e da ultimo svanisce. Nel conclusivo Scolio al Lemma 1 1, infine, Newton spiega perché abbia scelto questo approccio, basato in ultima analisi sui limiti, e come esso vada correttamente interpretato: Col metodo degli indivisibili si sarebbero rese più brevi le dimostrazioni. Ma poiché l'ipotesi degli indivisibili è più complicata; e quel metodo è ritenuto essere meno geome­ trico, ho preferito ridurre le dimostrazioni alle ultime somme e agli ultimi rapporti di quantità evanescenti e

1 88

ai primi di quelle nascen ti, ossia ai limiti delle somme e dei rappo rti [ ] Questi ultimi rapporti con cui le quantità svaniscono non sono in realtà i rapporti delle ultime quantità, ma i limiti ai quali i rapporti delle quantità decrescenti si avvi­ cinano continuamente , e che essi approssimano per meno di qualunque differenza data, ma che non superano mai, né raggiungono prima che le quantità siano diminuite al­ l'infinito. .

...

,

I Fenomeni

Come ab b iamo già visto, le successive Sezioni 1.2-3 costituisco­ no una versione riveduta e ampliata del saggio Sul moto. E il Libro I I I , a cui Newton consiglia di passare subito dopo, appli­ ca i princìpi generali e mate m atici sviluppati nei primi due libri allo studio di quello che egli chiama, fin dal titolo, Il sistema del mondo. Per poter passare dalla teoria alla pratica, Newton inizia elencando una serie di Feno meni che sintetizzano i fatti speri­ mentali su cui si basa la sua analisi: l.

Il moto dei satelliti di Giove soddisfo la seconda e la terza legge di Keplero. Il motivo per iniziare dai satelliti di Giove, scoperti nel 1 6 1 O da Galileo, è che le loro orbite sono praticamente circo­ lari, e il lo ro moto praticamente uniforme: in tal caso, la legge delle aree è banale. E gli astronomi avevano avuto facile gioco nel co n fermare la propo rzionali tà tra il quadrato del loro tempo di rivoluzione e il cubo del loro raggio.

1 89 2. Idem per il moto dei satelliti di Saturno. Un primo satellite di Saturno era stato scoperto nel l 65 5 da Huygens, e altri quattro tra il 1 671 e il 1 684 da Giando­ menico Cassini. Per questo il relativo Fenomeno non com­ pariva ancora nella prima edizione dei Principia, e fu inseri­ to solo a partire dalla seconda edizione nel 1 7 1 3 . 3. I pianeti girano attorno al Sole. Anzitutto, che i pianeti non brillino di luce propria, bensì di luce riflessa, si deduce dal fatto che quando i satelliti di Giove o di Saturno passano loro davanti, se ne possono os­ servare le ombre sul pianeta. Che i pianeti interni, cioè Mercurio e Venere, girino at­ torno al Sole discende allora dalle fasi che essi mostrano, analoghe a quelle della Luna, osservate per la prima volta da Galileo nel 1 6 1 O per Venere. Che anche i pianeti esterni, cioè Marte, Giove e Saturno, girino attorno al Sole discende invece dal fatto che appaiono pieni quando sono in congiunzione col Sole, e dunque gli stanno dietro rispetto alla Terra, mentre sono falciformi in quadratura, e dunque gli stanno davanti. 4. Il moto dei pianeti attorno al Sole, e della Terra attorno al Sole o viceversa, soddisfo la terza legge di Keplero. Questa è, ovviamente, la grande scoperta annunciata dal­ l'Armonia del mondo di Keplero nel 1 6 1 9, e vale sia nel siste­ ma copernicano (in cui i pianeti e la Terra girano tutti attor­ no al Sole) che in quello tychonico (in cui i pianeti girano attorno al Sole, ma questo gira attorno alla Terra) . Le di­ stanze e i tempi di rivoluzione sono infatti gli stessi, sia nel moto reale della Terra attorno al Sole, sia nel moto ap­ parente del Sole attorno alla Terra.

1 90 5 . Il moto dei pianeti attorno al Sole soddisfo la seconda legge di

Keplero. Questa è invece la grande scoperta annunciata dall'Astro­ nomia nova di Keplero nel 1 609, e vale sia nel sistema coper­ nicano che in quello tychonico, ma non in quello tolemaico. Nel loro moto apparente attorno alla Terra, infatti, i pianeti non vanno nemmeno sempre nella stessa direzione. 6. Il moto della Luna attorno alla Terra soddisfo la seconda legge di Keplero.

Questo si può intuire misurando direttamente gli angoli percorsi in tempi uguali, e deducendo indirettamente le di­ stanze dai diametri apparenti della Luna, senza bisogno di determinarne esattamente l'orbita. Si tratta di un problema difficile, al quale Newton dedicherà molta attenzione nelle varie edizioni dei Principia. Come si vede, Newton non inserisce tra i Fenomeni la pri­ ma legge di Keplero per il moto dei pianeti . Ai suoi tempi la cosa non era ancora completamente confermata, perché la qua­ si circolarità delle orbite planetarie non permetteva di dedurre in maniera convincente l' ellitticità dalle osservazioni. 1 4 E come si vedrà, Newton procederà nel seguito dagli effetti 14

In prima approssimazione, Newton considerò semplicemente le orbi te planetarie come quasi circolari . In seconda approssimazio­ ne, comb inò un settimo Fenomeno, relativo all assenza di precessione degli absidi, con la Proposizione r.45, relativa alla presenza di una tale Jrecessione in orbite quasi circolari prodotte da forze non inversa­ nente proporzionali al quadrato della distanza. Il che richiese una ;p iegazion e separata della forte precessione degli absidi della Luna, n term ini di perturbazione della sua orbita da parte del Sole. '

191 alle cause, per arrivare alla legge di gravitazione universale. Ma lo farà non induttivamente, alla maniera sperimentale del

No­

vum Organum di Francesco Bacone, bensì deduttivamente, alla maniera teorica dei propri Principi matematici dellafilosofia na­ turale. E sarà appunto questa deduzione che porterà poi a sua difesa, per scagionarsi dall'accusa di aver introdotto con la gra­ vità una « causa occulta », o una « forza inspiegata ».

La legge di gravitazione universale Avendo ormai a disposizione tutti gli elementi teorici e speri­ mentali necessari, le Proposizioni

m. l -3 incominciano a disve­

lare la struttura del mondo. Anzitutto, per la seconda legge di

il Sole attira a sé i pianeti, così come Giove e Satumo i propri satelliti e la Terra la Luna. Inoltre, per la terza legge di Keplero e la quasi circolarità delle orbite, la forza esercitata dal Sole sui pianeti, così come da Giove e Saturno sui propri satel­ liti, è inversamente proporzionale al quadrato della distanza. Keplero,

Naturalmente, non si può invocare la terza legge di Keplero

la forza che la Terra esercita sulla Luna è inversamente proporzionale al quadrato della distan­ za, perché occorrerebbe almeno un altro satellite come parago­ ne. Ma la Proposizione m.4 lo deduce indirettamente, identi­ per dedurre direttamente che anche

ficando quella forza con la gravità terrestre, responsabile della caduta delle mele e di tutto il resto, e confrontando la sua azio­ ne sulla superficie terrestre e sulla Luna nella maniera che New­ ton aveva scoperto fin dall' estate del

1666, ma con

dati più ac­

curati di allora. Anzi, i più accurati a disposizione. Egli era conscio di compiere un piccolo passo per uno scien­ ziato, ma un passo da gigante per la filosofia, affermando:

1 92 «

poiché la forza che tiene la Luna in orbita è

uguale alla forza di

gravità, essa è la forza di gravità ». Non a caso, si era premunito inserendo agli inizi del Libro

III

quattro Regole sul Filosofare

che lo giustificassero, dell e quali abbiamo già parlato. In parti­

non si dovrebbero ammettere più cause naturali di quante siano necessarie a spiegare i fenomeni, perché l a Natura è semplice e non indulge a cose superflue. E che a effetti analoghi si dovrebbero assegnare cause analoghe. co lare, affermando che

Basandosi su queste stes se regole, la Proposizione m . S e i

suoi Corollari compiono un ulteriore passo avanti e deducono

è sempre in azione la stes­ sa forza, ma anche che tutti i corpi celesti esercitano l'uno sull'al­ tro una forza di gravità inversamente proporzionale al quadrato della distanza. Si può du nque intuire che Giove e Saturno per­ no n solo che in tutti i casi precedenti

turbino reciprocamente le proprie orbite attorno al Sole. Che il

Sole perturbi l'orbita della Luna attorno alla T erra.

E che il So­

le e la Luna perturbi no le acque terrestri con effetti di marea. Fino a questo punto, però, non

è ancora stato stabilito in che

mo do siano legati i co rpi alla gravità che essi producono e su­

La Proposizione m . 6 introduce la distinzione tra mas­ sa gravitazionale (che reagisce all 'attrazione e si manifesta attra­ verso il peso) e massa inerzia/e (che reagisce ai cambiamenti del biscon o .

m oto

rettilineo e si manifesta attraverso il pendolo) . E prova

la massa gravitazionale e la massa inerzia/e di un corpo sono uguali.

che

Per la gravitazione terrest re , questo segue dagli esperimenti

di Galileo coi piani inclinati e i pendoli, perché i tempi di ca­ duta sui pri mi, e i perio d i di oscillazione dei secondi, sono in­ di p endenti dalle masse. Per la gravitazione planetaria o solare, vedremo tra breve che questo segue invece dalla regolarità dei

1 93

moti dei satelliti e dei pianeti, in particolare dalla terza legge di Keplero. La coincidenza delle masse gravitazionale e inerziale permet­ te di parlare semplicemente di « massa », senza ulteriori agget­ tivi. E stabilisce che la forza gravitazionale che agisce su un cor­ po che la subisce è appunto direttamente proporzionale alla sua massa, visto che tutti i corpi cadono nel vuoto con la stessa ve­ locità. Per la simmetria stipulata dal principio di azione e rea­ zione, sul quale torneremo tra poco, essa deve anche essere di­ rettamente proporzionale alla massa del corpo che la produce. E poiché sappiamo già come la forza dipende dalla distanza, la Proposizione m.? riassume il tutto stabilendo che la gravità che agisce mutuamente su due corpi di masse M ed m è proporzio­ nale a entrambe, e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza r. Chiamando G la costante di proporzionalità, oggi noi esprimiamo il tutto nella famosa formula:

Inutile dire che sia la formula sia la costante portano, appro­ priatamente, il nome di Newton. E che la forza descritta si chiama, altrettanto appropriatamente, gravitazione universale, anche se proprio la sua universalità sollevò un nuovo problema da risolvere, come racconta la Proposizione m . 8 : Dopo aver trovato che la gravità di un pianeta origina ed è composta dalla gravità delle sue parti, e che in ciascuna parte essa è inversamente proporzionale al quadrato della sua distanza, mi venne il dubbio se questa proporziona­ lità valesse esattamente per la forza totale composta delle forze parziali, o solo approssimativamente. Perché poteva

1 94 succedere che la p roporzionalità valesse quasi esattamen­ te a grandi distanze, ma fosse poi notevolmente scorretta vicino alla superficie del pianeta, a causa di una non uni­ forme distribuzione delle particelle. Ma alla fine, me­ diante le Proposizioni 1 . 7 5-76 e i loro Corollari, compre­ si la ve rità. citate sono la conclusione di un tour de force matematico che inizia nella Proposizione I . 7 1, e termina dimos trando una specie di miracolo: gli effetti cumulativi del­ l'attrazione delle particelle che compongono due sfere agiscono su di esse come se le loro masse fossero concentrate nei loro centri (una proprietà che le Prop o s izi on i I . 77-78 estendono anche al caso del moto armonico). 1 5 Le due proposizioni

15

Le di mostrazioni sono so stanzialmente basate su princìpi di simmetria. Anzitutto, data una sfera S e un punto P fuori di essa, si suddivide S in i nfinite superfici sferiche concentriche, come gli stra­ ti di una cipolla. Poi, si suddivide ciascuna superficie in infinite sezio­ ni circolari perpendicolari all'asse individuato da P e dal centro di S, come gli onion rings serviti nei ristoranti americani. Infine, si suddi­ vide ciascuna sezione circolare nei suoi infiniti punti, che risultano tutti alla stessa distanza da P, per come sono state fatte le sezioni. L'osservazione cruciale consiste nel notare che, per ciascuna sezio­ ne circolare, l'attrazione di ciascun punto si può scomporre in due componenti: una perpendicolare all'asse, che si annulla con quella del punto opposto, e una assiale, il cui effetto cumulativo sul punto P è sempre inversamente proporzionale al quadrato della sua distanza dal centro della sfera S, indipendentemente dalla sezione circolare! Sommando all'indietro, sia l'effetto di ciascuna superficie, che l' effet­ to dell'intera sfera, sono allora tutti inversamente proporzionali al quadrato della distanza di P dal centro di S.

1 95 Questa è la « verità >> che Newton comprese: una verità, in verità, già anticipata da Hooke nella sua lettera del 6 gennaio 1 680. Ed è l'unico punto di tutti i Principia sul quale egli si permise di dare un soddisfatto apprezzamento: nello Scolio alla Proposizione 1 . 78 dichiarò infatti che il tutto era notatu di­ g;num, « degno di nota )). Quasi quarant'anni dopo, nel 1 726, un ritratto di John Van­ derbank riprodusse Newton con una copia dei Principia aperta a una pagina della sezione dedicata a questo risultato, che costi­ tuisce il coronamento del percorso intellettuale verso la scoperta della legge di gravitazione universale. Da qui in avanti, per lui e per gli altri non rimaneva che dedurne le innumerevoli conse­ guenze, su alcune delle quali torneremo in seguito.

Date ora due sfere, l'effetto della prima su un punto P della secon­ da è inversamente proporzionale al quadrato della distanza di P dal centro della prima sfera. Sommando in maniera analoga gli effetti della prima sfera su tutti i punti della seconda, si ottiene che l'effetto totale è inversamente prpporzionale al quadrato della distanza dei lo­ ro centri.

LA MECCANICA

CELESTE

Principia fu grande nella filosofia, come abbiamo visto nella prima parte del libro, ma semplice­ mente immenso nella fisica. Il calcolo infinitesimale da un la­ to, e le le ggi del moto e della gravitazione dall'altro, fornirono infatti un arsenale di strumenti te cnici per affrontare e risolve­ re questioni che fino ad allora non sembravano essere alla portata dello spirito umano come disse Voltaire nelle Lettere filosofiche. L'influsso di Newton e dei

«

»,

Che peso hanno i pianeti I primi esempi li diede Newton stesso nel suo capolavoro, a co­ minciare dai Corollari della Proposizione m . 8 , alla quale l'ave­ vamo lasciato alla fine del capitolo precedente. Usando la formula del mo to circolare, egli confrontò fra lo­ ro le accelerazioni gravitazionali del Sole e dei pianeti con satel­ liti. Seco ndo i dati moderni, sulla superficie di Saturno si pesa poco meno che sulla superficie della Terra, su Giove poco più del doppio, e sul Sole quasi 30 volte di più. Usando la formula per la gravità, egli confrontò poi le masse degli stessi corpi S empre secondo i dati moderni, Saturno ha una massa pari a circa l 00 volte quella della Terra, Giove circa 300 volte, e il Sole più di 300. 000 volte. Paragonando la massa alle dimensioni, infine, Newton dedusse che Giove e il Sole han.

1 97

no una densità circa doppia di Saturno, e la Terra 8 volte mag­ gzore. Poiché Giove è il più grande, la massa di qualunque pianeta è almeno l 000 volte più piccola di quella del Sole, e in prima approssimazione la si può trascurare. A determinare il moto del pianeta è allora una forza inversamente proporzionale al qua­ drato della distanza dal Sole, che produce un'orbita ellittica con il Sole in uno dei fuochi. Volendo essere pignoli, però, bisogna tenere conto dell' azio­ ne reciproca. In tal caso, il Corollario 2 alla Proposizione 1.58 mostra che il Sole e un pianeta si muovono entrambi su orbite el­ littiche, con il baricentro del sistema in un jùoco comune a en­ trambe. Quanto alla terza legge di Keplero, in prima approssimazio­ ne la si può derivare uguagliando la formula 47r2 rl t2 per l' ac­ celerazione centripeta del moto circolare, e la formula GM l r2 per l'accelerazione di gravità prodotta dalla massa M del Sole. Se ne ricava un rapporto fra t2 e r3 pari a 47r2 / GM, che deter­ mina teoricamente la costante di proporzionalità. Volendo essere di nuovo pignoli, però, si deve tener conto anche della massa m del pianeta, oltre che del raggio medio del­ l' orbita ellittica. In tal caso la Proposizione 1.60 mostra che la proporzionalità fra t2 e r3 è uguale a 47r2 l G(M + m) . Poiché questa non è più una costante, ma dipende dalla massa del pia­ neta, si scopre che la terza legge di Keplero non è valida esatta­ mente, ma solo approssimativamente. Inoltre, i singoli pianeti non agiscono indipendentemente uno dall'altro, bensì ciascuno di essi agisce simultaneamente sul Sole e sugli altri pianeti. Il risultato è che le loro orbite non sono né perfettamente ellittiche, né necessariamente chiu-

198 se. Dunque, anche la prima legge di Keplero non è valida esatta­

mente, ma solo approssimativamente.

E poiché il Sistema Solare è costituito, oltre che dal Sole e dai nove pianeti maggiori, da un numero imprecisato di satel­ liti, comete e asteroidi, il problema del suo moto non è per niente ovvio, né di facile soluzione. E non lo è già nel caso spe­ ciale del problema dei tre corpi, di cui Newton considerò due casi particolarmente interessanti: il sistema formato dal Sole, Giove e Saturno, e quello formato dal Sole, la Terra e la Luna.

Al primo egli alluse soltanto, affermando nella Proposizione 11.13 che «a ogni congiunzione di Saturno con Giove c'è una perturbazione percettibile della sua orbita, di cui non si può non tener com pletamente conto, e che ha messo in difficoltà gli astronomi». Questa era una professione di fede nella validi­

tà della legge di gravitazione universale, più che una vera osser­ vazione sperimentale, visto che in realtà l'effetto è così piccolo da non risultare osservabi le con gli strumenti dell'epoca.

Il vero volto della Luna Il sistema formato dal Sole, la Terra e la Luna fu invece affron­ tato di petto, nelle Proposizio ni m.25-35, e divenne uno dei banchi di prova dell'abilità matematica e della testardaggine ca­ ratteriale di Newton. Egli non ne venne mai completamente a capo, e dovette an­ che aggiustare i calcoli qua e là, per farli concordare con le os­ servazioni. Ma i metodi che introdusse, e i risultati che ottenne, cambiarono per sempre lo studio dei moti lunari, e gli merita­ rono il plauso unanime degli astronomi contemporanei e suc­ cessivi.

1 99 Fin dall'antichità, infatti, la vicinanza della Luna alla Terra aveva permesso di notare che essa si muove in maniera estrema­ mente complicata, e che il suo moto presenta quattro anomalie o « disuguaglianze » principali. •





La prima, scoperta da Ipparco, è la cosiddetta precessione degli absidi: una rotazione di circa 40 gradi all'anno dell'or­ bita ellittica, che dunque non è chiusa. La seconda, descritta da Tolomeo, è un doppio movimento dell'orbita: la sua lunghezza si mantiene invariata, ma la sua larghezza varia mensilmente, e il suo piano bascula quindi­ cinalmente. La terza e la quarta, osservate da Tycho Brahe, sono una va­ riazione quindicinale e una annuale della velocità.

Newton riuscì a determinare le variazioni orarie dell'area spazzata, del raggio e dell'inclinazione dell'orbita della Luna, e a spiegare perché essa presenta sempre la stessa faccia alla Ter­ ra. In tal modo, mantenne quasi del tutto la promessa fatta nel­ la Proposizione m .22, di « dedurre dai princìpi tutti i moti del­ la Luna e le loro disuguaglianze ». Ma, nonostante calcoli « troppo complicati, appesantiti da approssimazioni e imprecisi » per poter essere inclusi nei Prin­ cipia, e rimasti inediti fino alla seconda metà del Novecento, non riuscì a calcolare esattamente il moto degli absidi. Ci riu­ scirà Alexis Clairaut nel 1 749, dopo aver inizialmente dubitato dell'esattezza della legge di gravitazione: la soluzione richiede la considerazione dei quadrati e dei cubi dell'eccentricità, mentre Newton si era limitato ai termini lineari. Il problema dell'azione congiunta della Terra e del Sole sulla Luna era analogo a quello dell'azione congiunta della Luna e

200 del Sole sulle acque terrestri. Anche qui i metodi di Newton gli permisero di sviluppare, nelle-Proposizioni m.24 e m.36-37, wna teoria delle maree abbastanza precisa. Ancora una volta il suo apporto fu pionieristico, se si pensa che la teoria lunare era stata avversata da Galileo, e lo era anco­ ra

da Huygens. Di passaggio, Newton spiegò le strane maree

nel porto di Basha, nel golfo del Tonchino, introducendo per la prima volta il principio di interferenza delle onde. Ironica­ mente, proprio su di esso Thomas Young baserà nel 180 l la La «dimostrazione» della teoria ondulatoria della luce, che in­ vece Newton avversava in favore della teoria corpuscolare. Nel Corollario 4 alla Proposizione m.37 egli usò la teoria delle maree per calcolare la massa della Luna, ma la sovrastimò clamorosamente due volte. Nella prima edizione dei Principia la valutò infatti l l 26 di quella terrestre, con un errore circa del )0% rispetto al valore corretto di l l 81.16 Poiché il calcolo as­ segnava alla Luna una densità pari a 915 di qt.Jella della Terra,

nel 1692 Halley ne dedusse imperterrito che allora si poteva supporre che i 4/9 della Terra (cioè, circa metà) fossero vuoti! Nella seconda edizione dei Principia la massa lunare fu inve­ ce valutata l l 40 di quella terrestre, con un errore circa del )0%, e la densità lunare 1119 di quella terrestre. 16

Se dr e dL sono le distanze dei centri della Terra e della Luna

dal comune baricentro del loro sistema, e M T e Mr le loro masse, dLML e allora drMr =

4.670 -------

384.400 - 4.670



l --

81 '

dove 384.400 chilometri è la distanza fra i centri della Terra e della Luna, e 4.670 chilometri quella fra il centro della Terra e il baricen­ tro

del sistema.

20 1

Il problema dei tre corpi Le

difficoltà incontrate da Newton nello studio della teoria lu­ nare sono ovviamente legate alle complicazioni del problema dei tre corpi. E oggi sappiamo che queste complicazioni sono in parte intrattabili, perché il problema generale non ammette soluzioni esatte. Soluzioni approssimate si possono ottenere risolvendo dap­ prima il problema per due corpi, e perturbando poi la soluzione in modo da tener conto dell'influsso del terzo corpo. Questo è appunto il metodo usato da Newton per calcolare la perturba­ zione prodotta dal Sole sul moto della Luna attorno alla Terra. Soluzioni esatte di casi speciali vennero trovate da Lagrange nel Saggio sul problema dei tre corpi del 1 772. Ad esempio, egli provò che è possibile avere tre corpi che si muovono in tre or­ bite ellittiche, con il baricentro del sistema in un fuoco comune. Oppure, che se tre corpi si trovano sui vertici di un triangolo equilatero, il triangolo ruota attorno al baricentro del sistema, e i corpi rimangono ancorati ai vertici. Nel 1 906 si scoprì che questo caso è realizzato dal sistema costituito dal Sole, da Giove e dall'asteroide Achille. 17 1 7 Più in generale, nell'orbita di un pianeta attorno al Sole, o di un satellite attorno a un pianeta, ci sono due punti lagrangiani che lo precedono o lo seguono di 60° . Ciascuno di essi costituisce la possi­ bile disposizione di un corpo troiano (così chiamato in riferimento al­ la mitologia dell'Iliade) , che costituisce con i due principali un sistema di tre corpi in reciproco equilibrio perpetuo. Tali disposizioni sono effettivamente occupate da asteroidi nelle orbite dei pianeti Marte, Giove e Nettuno. E anche nelle orbite dei satelliti Teti e Dione di Saturno.

202

Ma il passo cruciale fu compiuto nel 1786 da Laplace nella ponderosa Teoria di Giove e Saturno, in cui egli spiegò le pecu­ liarità dei moti dei due pianeti. Già Keplero aveva infatti nota­ to che i valori medi dei loro anni planetari, rispettivamente di

11,87 anni terrestri per Giove e 29,48 per Saturno, non si con­ ciliavano con le osservazioni. Confrontando le tavole astronomiche da Tolomeo a Tycho Brahe, risultava infatti che Giove aveva sistematicamente acce­ leratO rispetto alle previsioni, e Saturno sistematicamente ral­ lentato. Questo faceva supporre che l'orbita del primo stesse contraendosi, e quella del secondo espandendosi. Sembrava dunque che, alla fine, Giove sarebbe caduto nel Sole, e Sa�urno avrebbe abbandonato il Sistema Solare. Laplace si accorse che l'anomalia era legata al fatto che il rap­ porto fra gli anni planetari di Saturno e Giove è quasi uguale a

5/2, che è un numero razionale. Il che fa sì che circa ogni 10 anni i due pianeti si ritrovino nelle stesse posizioni, e le loro perturbazioni reciproche possano amplificarsi per risonanza. L'essenza della questione fu isolata nel problema dei piccoli

divisori. Risultò, cioè, che potenze della piccola quantità é

2

5 =

29,48

-

11,87

�o 0011

'

comparivano a denominatore nei coefficienti delle serie che ri­ solvevano le equazioni del moto. Esse provocavano dunque grandi contributi, che sfociavano in una Grande Disuguaglian­ za periodica di l/ é � 900 anni. Una volta spiegate le perturbazioni di lungo periodo del mo­ to di Giove e Saturno, Laplace identificò vari altri rapporti qua­ l i razionali fra i periodi dei pianeti. E mostrò come la teoria

203 della gravitazione fosse in grado di risolvere nei dettagli il pro­ blema del moto del Sistema Solare. Il risultato furono i cinque volumi della Meccanica celeste, pubblicati fra il 1 799 e il 1 825, che costituirono una versione moderna dei Principia, e il coronamento di un secolo e mezzo di scoperte. Così come l'Esposizione del sistema del mondo, del 1 796, ne costituisce una versione preliminare divulgativa, ana­ loga al Sistema del mondo di Newton sia nel titolo sia nello stile e nell'impianto. In particolare, i lavori di Laplace ispirarono la famosa visio­ ne da lui enunciata nel Saggio filosofico sulle probabilità del 1 8 1 4: Possiamo considerare lo stato attuale dell'universo come l'effetto del suo passato e la causa del suo futuro. Un in­ telletto che a un determinato istante dovesse conoscere tutte le forze che mettono in moto la Natura, e tutte le posizioni di tutti gli oggetti di cui la Natura è composta, e che fosse inoltre sufficientemente abile da sottoporre questi dati ad analisi, saprebbe racchiudere in un'unica formula sia i movimenti dei più grandi corpi dell'univer­ so, sia quelli dei più piccoli atomi. Per un tale intelletto nulla sarebbe incerto, e sia il futuro che il passato risulte­ rebbero evidenti ai suoi occhi. L'applicazione più spettacolare di questa visione fu senza dubbio la scoperta di Nettuno nel 1 846, sulla base di uno studio delle perturbazioni del moto di Urano, che era stato a sua volta scoperto nel 1 78 1 da William Herschel. Fin dal 1 82 1 Alexis Bouvard aveva suggerito che le discre­ panze fra il calcolo teorico dell'orbita di Urano e le sue rileva-

204 zioni astronomiche si potessero imputare alle perturbazioni di un pianeta sconosciuto. Ma solo nel 1 843 e nel 1 845 John Adams e U rbain Le Verrier riuscirono a calcolare indipenden­ temente l'orbita del pianeta fantasma. Il 23 settembre 1 846 l'Osservatorio di Berlino lo avvistò consciamente per la prima volta, esattamente dove i calcoli pre­ vedevano che fosse. Inconsciamente, cioè senza capire che si trattava di un pianeta e scambiandolo per una stella, l'aveva in­ vece già visto e registrato per ben due volte Galileo, il 28 di­ cembre 1 6 1 2 e il 27 gennaio 1 6 13. Altrettanto spettacolare, benché meno nota, è stata la scoper­ ta dei satelliti di Urano il 24 gennaio 1 986 da parte della sonda Voyager-2. Le loro esatte posizioni erano state previste un anno prima da Nikolai Gorkavyi e Alexei Fridman, in un articolo si­ gnificativamente intitolato Sul carattere di risonanza degli anelli di Urano, determinato dai suoi satelliti non ancora scoperti. Gli anelli erano stati scoperti il lO marzo 1977 da un osser­ vatorio volante, che stava in realtà studiando l' occultazione di una stella da parte del pianeta. Il legame tra le lacune degli anel­ li e i satelliti era stato invece notato per la prima volta già nel 1 866 da Daniel Kirkwood, nell'analogo contesto delle lacune nelle fasce di asteroidi tra Marre e Giove causate dalle risonanze coi pianeti. Ed era poi stato applicato alle lacune degli anelli di Saturno causate dalle risonanze con i suoi satelliti.

Comete ed equinozi

Prima della scoperta di Urano, il più popolare successo della teoria della gravitazione era stato lo studio delle comete. Le Pro­ posizioni m.40-42 che concludevano i Principia mostravano,

205 infatti, che l'influsso della gravitazione si estendeva oltre_ le pro­ paggini del sistema planetario, e forse anche del Sistema Solare. Per quello che considerò un problema difficilissimo », Newton si aiutò con un grafico gigante e riuscì a calcolare l'or­ bita della grande cometa del 1 680, raggiungendo per interpo­ lazioni successive una precisione pari a quella moderna. Un'im­ presa non facile, visto che dovette dedurre una conica di cui non conosceva né il tipo, né la posizione del piano orbitale nel­ lo spazio, a partire da tre osservazioni fatte da una Terra in mo­ vimento su un'orbita ellittica. Nel Sistema del mondo (79) commentò: «

Determinando con questo metodo le traiettorie delle co­ mete, si può anche sapere con più precisione quali regioni percorrano questi corpi, quali siano le loro velocità, che tipo di traiettoria descrivano, e quali siano le reali forme e dimensioni delle code, secondo le diverse distanze delle teste dal Sole. Si può sperare inoltre che con questo metodo si giunga a scoprire se le comete ritornano nella loro orbita in de­ terminati tempi, e con quali intervalli di tempo si com­ piono le rivoluzioni di ciascuna. Puntualmente, nel 1 705 Halley dimostrò che le comete del 1 53 1, 1 607 e 1 682 erano la stessa, che oggi porta il suo nome. Egli ne calcolò l'orbita, e previde che sarebbe dovuta ritornare verso il 1 757 o 1 758. In realtà Giove e Saturno ne provocarono un ritardo, che Clairaut calcolò in 5 1 8 giorni per il primo e l 00 per il secondo, sbagliando di poco. La cometa passò infatti nel punto più vici-

206

no al Sole il 13 marzo 1759, invece che il 13 aprile, com'egli aveva calcolato. Qualche anno prima, nel 1743, lo stesso Clairaut aveva cal­ colato esattamente la forma ellissoidale della Terra, che Newton aveva solo approssimato nella Proposizione m.19 dei Principia. E nel 1749 Jean-Baptiste d'Alembert e Leonhard Euler ave­

vano calcolato esattamente il moto di rotazione della Terra el­ lissoidale, di nuovo approssimato da Newton nella Proposizio­ ne m.39. Essi riuscirono a ricavarne non solo, come lui, la pre­

cessione degli equinozi di circa 25.800 anni scoperta da Ipparco nell'antichità, ma anche la nutazione di 18 anni scoperta da James Bradley nel 1728. La precessione, «avanzamento)), è una rotazione conica del­ l' asse terrestre attorno alla perpendicolare al piano dell'orbita passante per il centro. La nutazione, « annuimento

»,

è un'oscil­

lazione aggiuntiva dell'asse, che produce un'ondulazione del cono. Entrambi i movimenti sono causati dalla forma non per­ fettamente sferica della Terra, e dall'effetto gravitazionale del Sole e della Luna sul suo rigonfiamento equatoriale. George Bernard Shaw fa spiegare la precessione in questo modo dallo stesso Newton, in Ai tempi d'oro del buon re Carlo:

È una cosa semplicissima, e anche un bambino può capir­ la. I due giorni dell'anno in cui giorno e notte sono di uguale durata sono gli equinozi. In ogni anno siderale che si sussegue, questi giorni hanno luogo con anticipo. Comprenderete subito che ciò involve un moto retrogra­ do dei punti equinoziali lungo l'eclittica. Questo è ciò che chiamiamo la precessione degli equinozi.

207

La stabilità del Sistema Solare

Nonostante i successi e il conseguente ottimismo, rimanevano comunque aperti due problemi fondamentali per la meccanica celeste. Da un lato, la soluzione esatta del caso generale del pro­ blema di tre o più corpi. Dall'altro lato, la questione della sta­ bilità delle soluzioni: per esempio, se piccole perturbazioni del moto di un pianeta possano soltanto produrre piccole variazio­ ni della sua orbita, o siano invece in grado di mandarlo com­ pletamente alla deriva. In particolare, non era noto se l'effetto cumulativo delle per­ turbazioni reciproche dei vari pianeti sarebbe stato sufficiente a sbalzarne qualcuno fuori orbita, ed eventualmente fuori dal Si­ stema Solare, o se invece essi si sarebbero mantenuti sostanzial­ mente nella situazione attuale. Il problema della stabilità del Sistema Solare arrivò fino alle orecchie del re di Svezia, Oscar n, che istituì nel 1 885 un pre­ mio speciale per risolverlo. Il premio fu assegnato nel 1 889 a Henri Poincaré, che non riuscì a decidere se il Sistema Solare fosse stabile o no, ma fece fare un salto di qualità allo studio dei sistemi dinamici. Egli introdusse quelli che lui stesso chiamò, nel titolo di una trilogia uscita fra il 1 892 e i 1 899, I nuovi metodi della mecca­ nica celeste. In particolare, lo studio topologico delle equazioni differenziali non lineari, che fino ad allora erano state accanto­ nate per la loro difficoltà, e l'apparente comportamento caotico delle loro soluzioni. Dal lavoro di Poincaré risultò che la distinzione fra orbite stabili e instabili è strettamente collegata a problemi di teoria dei numeri, come d'altronde la Grande Disuguaglianza di La­ piace lasciava intuire. In particolare, il lavoro di 270 pagine con

208

cui Poincaré vinse il «premio Oscar» sembrava indicare che l'effetto dei piccoli divisori, e dei relativi grandi coefficienti, fosse effettivamente quello di far diventare le serie in questione infinite, e dunque che le orbite non fossero stabili. Il problema fu ripreso nel 1954 da Andrej Kolmogorov, che indicò le linee per una sua soluzione. Il suo programma fu por­ tato a termine da Vladimir Arno!'d e Jtirgen Moser nel 1962, da un lavoro che viene globalmente chiamato teorema KAM, dal­ le iniziali dei tre autori. La soluzione è che, per perturbazioni piccole, quasi tutte le orbite sono stabili. Cioè, non sono esattamente periodiche, ma si mantengono vicine alle orbite periodiche del sistema non perturbato, e per questo vengono dette «quasi-periodiche». L'essenza matematica del teorema

KAM

è che il problema dei

piccoli divisori si presenta quando ci si trova di fronte a periodi razionali, o bene approssimabili da razionali (cioè mediante frazioni a denominatore relativamente piccolo), ma non si pre­ senta altrimenti. E poiché la maggioranza dei numeri reali è ap­ punto costituita da numeri non bene approssimabili da razio­ nali, il problema non si presenta nella maggioranza dei casi. Questo finalmente din:wstra ciò che Newton aveva enuncia­ to concisamente, e annunciato prematuramente, nella Proposi­ zione

m.

l O dei Principia:

Il moto dei pianeti nei cieli si può mantenere molto a lungo.

DIO DISSE: « SIA RIFATTO NEWTON!

»

I due problemi fondazionali della fisica che N ewton aveva la­ sciati aperti riguardavano, rispettivamente, la natura della gra­ vità e della luce. Sulla prima egli aveva evitato di pronunciarsi pubblicamente nei Principia, preferendo « non fingere ipote­ si » . Ma sulla seconda aveva apertamente preso posizione nel­ l' Ottica, professando la teoria corpuscolare.

Onde di acqua e di luce

La teoria corpuscolare fu però archiviata nel 1 80 l, quando Thomas Young fece passare la luce attraverso due fenditure, e scoprì che il risultato era un'interferenza dello stesso tipo di quella anticipata da Newton nella Proposizione m . 24 dei Prin­ cipia per le maree di Basha: Immaginiamo che due maree uguali arrivino da luoghi diversi a uno stesso porto, e che la prima preceda la secon­ da di sei ore, e cada alla terza ora dall'impulso della Luna sul meridiano del porto . Se la Luna si trova all'Equatore durante questo impul­ so sul meridiano, allora ogni sei ore si verificheranno flus­ si uguali che si incontreranno con corrispondenti riflussi uguali e li bilanceranno, causando durante il corso del giorno un ristagno dell'acqua.

21 1

ghe per produrre una sensazione di rosso scuro, e i diversi tipi intermedi di raggi vibrazioni delle diverse grandezze intermedie, per produrre sensazioni dei diversi colori in­ termedi?

Quanti e fotoni Nel 1 8 87 Heinrich Hertz scoprì però un fenomeno imbaraz­ zante, detto effetto fotoelettrico. Se viene irradiata da luce ultra­ violetta, una superficie di metallo elettricamente carica fa scin­ tille (perde elettroni) e si scarica, tanto più velocemente quanto più la luce è intensa. Ma niente del genere succede se la luce è infrarossa, qualunque sia la sua intensità. L'imbarazzo stava nel fatto che la teoria ondulatoria preve­ deva che l'energia di un'onda dipendesse dalla sua intensità, ma non dalla sua lunghezza. Dunque, la luce infrarossa avrebbe dovuto avere gli stessi effetti di quella ultravioletta. La soluzione al problema venne data dal ventiseienne Albert Einstein nel saggio Su un punto di vista euristico relativo alla

produzione e trasformazione della Luce. Il saggio era solo uno dei cinque contributi che il giovane Einstein ottenne nel suo

annus mirabilis

1 905, analogo al biennio

1 664- 1 666 del giova­

ne Newton. E la soluzione rispondeva positivamente alla Que­ stione

29 dell' Ottica:

I raggi di luce non sono corpuscoli minuti, emessi da so­ stanze luminose? [ . ] Nient'altro è richiesto per spingere i . .

raggi di luce in impulsi di semplice riflessione e di sem­ plice trasmissione, se non che essi siano corpuscoli che,

212

mediante la loro forza di attrazione, o qualche altra forza, eccitino vibrazioni in ciò su cui essi agiscono. Einstein suppose appunto che esistessero dei quanti di luce (oggi chiamati fotoni, « lucioni )) da phos, « luce ))) , aventi un'e­ ' nergia E hf proporzionale alla frequenza f. Questa stessa re­ lazione era già stata proposta nel 1 900 da Max Planck, per ri­ solvere un altro problema. Se la frequenza è sufficientemente grande, come nel caso dell'ultravioletto, allora un fotone ha abbastanza energia per ri­ muovere un elettrone dalla superficie del metallo, e l'intensità della luce determina la quantità degli elettroni rimossi. Altri­ menti, come nel caso dell'infrarosso, non c'è abbastanza ener­ gia, e di conseguenza nessuna rimozione, qualunque sia l'in­ tensità. Oltre a risolvere il problema dell'effetto fotoelettrico, la so­ luzione di Einstein riesumava la teoria corpuscolare di N ewton. E dava una risposta positiva alla Questione 5 dell' Ottica: =

I corpi e la luce non agiscono mutuamente uno sull'altro? Cioè, i corpi sulla luce durante l'emissione, la riflessione, la rifrazione e l'inflessione di essa, e la luce sui corpi al fi­ ne di riscaldarli, stimolando in essi il moto vibratorio di cui consiste il calore? Poiché però non sembrava sensato abbandonare la vitale teoria ondulatoria, che spiegava così tanti fenomeni, in favore della rivitalizzata teoria corpuscolare, che ne spiegava uno solo, agli inizi Einstein non fu seguito quasi da nessuno. Anzi, Robert Millikan effettuò tra il 1 9 1 2 e il 1 9 1 5 una serie

213 di esperimenti che intendevano mostrare la falsità della formu­ la trovata da Einstein per l'effetto fotoelettrico. Ma a malincuo­ re dovette accettare il fatto che le cose andavano come questi aveva previsto, e che la formula era corretta.

La doppia natura della Natura

La conferma sperimentale mise i fisici di fronte al dilemma di dover scegliere tra due teorie contrapposte, ciascuna delle quali spiegava proprietà diverse della luce. Ma nel 1 9 1 7 Einstein ebbe un altro colpo di genio: invece di scegliere fra le due teorie, egli propose di accettarle entrambe! Sostenne, cioè, che non era necessario dover decidere se la luce fosse fatta di particelle oppure di onde. Bastava riconoscere che fosse fatta di particelle e di onde, simultaneamente, così come d'altronde anche l'acqua del mare è fatta simultaneamente di gocce e di onde. Questo modo di pensare, che in seguito verrà detto comple­ mentare o duale, fu esteso nel 1 924 dal principe Louis de Bro­ glie, che propose di associare a ogni onda una particella con proprietà analoghe ai quanti di luce di Einstein. E a ogni par­ ticella un'onda con proprietà simmetriche. Il suo lavoro fu su­ bito considerato fondamentale, e Einstein dichiarò nella sua suggestiva maniera oracolare che era stato sollevato un lembo del grande velo » . Anche questa volta gli esperimenti diedero presto ragione a entrambi. N el 1 923 Arthur Compton misurò le proprietà cor­ puscolari dei quanti di luce previste da Einstein. E nel 1 937 Clinton Davisson e George Thomson fecero lo stesso per le proprietà ondulatorie dell'elettrone previste da de Broglie. «

214 Nel giro di pochi anni tutti i protagonisti vinsero il premio Nobel: Einstein nel 1921, Millikan nel 1923, Compton nel

1927, de Broglie nel 1929, e Davisson e Thomson nel 1937 . E l'approccio di Einstein e de Broglie fu incorporato pochi anni dopo nella meccanica quantistica di Niels Bohr, Werner Heisen­ berg, Erwin Schrodinger e Paul Dirac, che vinsero anch'essi tutti il Nobel: i primi due nel192 2 e 1932, e gli ultimi due nel 1933.

[a velocità della luce Agli inizi del Novecento le proprietà corpuscolari erano una scoperta recente. Il fatto che la velocità della luce fosse grande, ma finita, era invece noto da molto tempo. Cartesio e Keplero la consideravano ancora infinita. Ma già nel 1638 Galileo aveva riportato, nei Discorsi sopra due nuove

scienze, un esperimento volto a determinarla. lnl!-tile dire che i risultati erano stati inconcludenti, visto che il metodo consi­ steva nel valutare a occhio il ritardo tra l'andata e il ritorno del­ la luce su un percorso di qualche chilometro, scoprendo una lanterna a un estremo non appena si fosse percepita la luce di una lanterna scoperta all'altro estremo. Più realisticamente, nel 1676 Ole R0mer notò che quando Giove era in opposizione al Sole rispetto alla Terra (vedi le po­ sizioni G2 e T2 nella figura a pagina seguente), l'orologio co­ smico costituito dal «battere» del suo satellite più interno era in ritardo di 22 minuti, rispetto a quando il pianeta era in congiunzione (le posizioni Gt e T1). Poiché nel primo caso la distanza di Giove dalla Terra è più lunga di una quantità pari al diametro dell'orbita terrestre, co­ me mostra la figura, R0mer dedusse che il ritardo era dovuto al

215

tempo che la luce impiega a percorrere questo diametro. E ne calcolò la velocità in 220.000 chilometri al secondo: un errore di circa un quarto rispetto al valore corretto di circa 300.000 chilometri al secondo.18

Come al solito, il risultato andava a scalfire uno dei pregiu­ dizi dell'epoca, e sollevò dunque molte discussioni, ma fu subi­ to accettato da Huygens e Newton. Quest'ultimo, in particola1 8 Poiché il ritardo effettivo dell'orologio satellitare è di circa 1 7 minuti, pari a circa l 000 secondi, e il diametro dell'orbita terrestre è di circa 300 milioni di chilometri, la velocità che ne risulta è di circa 300.000 chilometri al secondo. La prima anticipazione di questo valore corretto risale a metà del Trecento, in un famoso commento di Sayana al quarto verso dell'Inno al Sole dei Rig Veda { 1 . 50) : « Veloce e meraviglioso sei tu, o Surya, sor­ gente di luce, che illumini il cielo radioso ». Il commento recita: « O Sole, mi inchino a te, che attraversi 2202 yohana in metà nimesa ». Poiché una yohana corrisponde a circa 1 4 chilometri e mezzo, e una nimesa a 1 6/75 secondi, la velocità in questione risulta essere di circa 300.000 chilometri al secondo. Benché sicuramente fortuno­ so, il risultato è altrettanto sicuramente basato su dati non comple­ tamente casuali, come dimostra l'occorrenza del numero 2202.

216 re, nella Questione 2 1 dell' Ottica ridusse a 7 o 8 minuti il tempo che la luce del Sole impiega per raggiungere la Terra, che R0 mer aveva calcolato in 1 1 minuti, e che è esattamente di 8 minuti e 1 9 secondi. Dopo essere stata confermata sperimentalmente in molti modi, in particolare dalla scoperta dell'aberrazione stellare da parte di James B rad ley nel 1 728, la finitezza della velocità della luce fu infine anche dimostrata teoricamente. Nel 1 8 64 essa comparì infatti in maniera naturale nelle equazion i di Maxwell, che r egolano il comportamento del cam­ po elettro magnetico. E risultò essere legata alle costanti elettri­ ca e magnetica, che comparivano nelle precedenti leggi di Cou­ lomb e di A mpère: più precisamente, come inverso della radice del loro p rodotto. Ma nel 1887 Albert Michelson e Edward Morley scoprirono un altro fenomeno imbarazzante: misurando la velocità della luce sia nella stessa direzione del moto della Terra sia in quella contraria, si otteneva esattamente lo stesso risultato! Questa vo lta l'imbarazzo era dovuto al fatto che, secondo la meccanica newtoniana, le due velocità finite si sarebbero dovu­ te somm are o sottrarre normalmente. Risultando invece essere insensibile a somme o sottrazioni di altre velocità finite, la ve­ locità della luce si comportava come se fosse stata infinita. «

»

Una nuova meccanica

La soluzi one al problema venne di nuovo data dal ventiseienne Albert Einstein nel saggio Sull'elettrodinamica dei corpi in mo­ vimento : un altro, e il più importante, dei cinque contributi ot­ tenuti nel suo ann us mirabilis 1 905.

217 Questa volta egli partì dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo. E riesumò il principio di relatività esem­ plificato dal famoso brano che mostrava come non fosse possi­ bile, mediante soli esperimenti meccanici, accorgersi del moto uniforme di una nave stando sotto coperta. Generalizzando il principio a qualunque sistema in moto ret­ tilineo uniforme rispetto a un altro, e unendo lo con l'assunto sperimentale della costanza della velocità c della luce, Einstein ricavò una semplice formula per sommare due velocità u e v. La stessa formula era stata ottenuta, indipendentemente e si­ multaneamente, anche da Poincaré nel saggio Sulla dinamica dell'elettrone: u+v uv I +­ c2 In altre parole, la somma algebrica delle velocità va divisa per una quantità maggiore di uno, che la rende più piccola. Per velocità di molto inferiori a quelle della luce, l'effetto è tra­ scurabile e la somma algebrica non viene praticamente modifi­ cata. Man mano che almeno una delle velocità si avvicina a quella della luce, l'effetto diventa sempre più consistente e la somma algebrica viene notevolmente ridimensionata. Nel caso che una delle velocità sia uguale a quella della luce, il fattore di divisione annulla completamente il contributo del­ l' altra. E fa sì che, quando si somma c a qualunque altra velo­ cità v, il risultato rimanga sempre uguale a c. Detto altrimenti, la velocità della luce costituisce un limite invalicabile, che si può avv1cmare ma non superare. Come si può immaginare dal fatto che la velocità è data dal rapporto fra lo spazio e il tempo, se cambiano le regole per la

218

velocità devono

cam

biare anche quelle per lo spazio o il tempo.

Perché si possa abbassare la velocità u +v, infatti, lo spazio do­ vrebbe contrarsi, oppure il tempo dovrebbe dilatarsi. Come aveva già anticipato euristicamente nel 1889 Hendrik Lorentz, da cui prendono il nome queste trasformazioni, Ein­ stein e Poincaré scoprirono che in realtà succedono entrambe le cose: una contrazione delle lunghezze e una dilatazione dei tempi. E gli effetti sono sempre maggiori, al crescere delle velocità. In

particolare, alla velocità della luce lo spazio svanisce e il tempo si ferma. -Naturalmente, questo rende sia lo spazio che il tempo rela­ tivi alla velocità v con cui ci si muove, e va contro l'assolutezza che Newton postulava per entrambi nei Principia. Di qui il no­ me di teoria della relatività, che però non significa affatto che tutto sia relativo! Ad esempio, benché le distanze spaziali e le durate temporali lo siano, una loro combinazione di distanza-durata spazio-tem­

porale rimane assoluta. Allo stesso modo, in un triangolo ret­ tangolo inscritto in una semicirconferenza i cateti possono va­ riare di lunghezza, ma l'ipotenusa rimane fissa: dunque, i qua­ drati dei cateti variano, ma la loro somma no.19 Tutto questo non significa, però, che la meccanica newto­ niana fosse sbagliata e sia da buttare. Infatti, quando la velocità è piccola rispetto a quella della luce, il fattore v/ c che com­

pare nelle trasformazioni di Lorentz è trascurabile e non produ­ ce effetti osservabili. Irt altre parole, la meccanica newtoniana è un'approssimazione 19

L'analogia è solo parziale, perché nella relatività non si usa la

geometria del cerchio, ma dell'iperbole: dunque, non è una somma dei cateti a non variare, ma una loro differenza.

219 di quella einsteiniana. E la s i riottiene da questa quando s i con­ sidera il piccolo rapporto v/ c come se fosse uguale a zero. O, equivalentemente, la grande velocità c come se fosse infinita. La conseguenza più nota e sorprendente della teoria della re­ latività fu tratta da Einstein in un altro, e il più famoso, dei suoi contributi del 1 905, il cui titolo poneva una domanda: L'iner­ zia di un corpo dipende dal suo contenuto di energia? La risposta, ovviamente positiva, era contenuta nella sempli­ ce e notissima formula E mc2 , che mostrava come il fattore di dipendenza fosse quell'enorme velocità della luce al quadra­ to, pari a circa 90 miliardi di chilometri quadrati al secondo quadrato. Oltre che alla domanda del titolo del lavoro di Einstein, la formula rispondeva positivamente anche all'avveniristica Que­ stione 30 dell' Ottica di Newton: =

I corpi macroscopici e la luce non sono convertibili a vi­ cenda? [ . . . ] Infatti il mutamento dei corpi in luce e della luce in corpi è strettamente conforme al corso della Na­ tura, che sembra prediligere le trasformazioni. L'equivalenza tra massa ed energia derivava in realtà da una semplice applicazione del teorema del binomio di Newton alla formula che Einstein aveva trovato per la dilatazione delle mas­ se, analoga a quella dei tempi. Questa dilatazione era necessaria per mantenere la validità della seconda legge di Newton, che altrimenti avrebbe permes­ so il raggiungimento di velocità illimitate mediante l'applica­ zione di una forza, e dunque di un'accelerazione, costante. L'aumento della massa, invece, fa sì che al crescere della velo­ cità l'effetto di una forza costante diminuisca sempre più.

220

Una nuova gravitazione Tutto ciò permise di adattare in maniera abbastanza indolore la meccanica newtoniana alla teoria della relatività, ma lasciava aperto il problema di fare lo stesso anche con la legge di gravi­ tazione. In particolare, di sostituire l'attrazione istantanea con una forza che si trasmettesse a velocità non superiori a quella limite della luce. Che ci fossero problemi nella gravitazione newtoniana l'ave­ va comunque già capito fin dal 1859 Le Verrier, lo scopritore di Urano. L'orbita di Mercurio non era chiusa, infatti, ma solo il 99% della precessione del suo perielio si poteva spiegare con la meccanica celeste, mentre il rimanente l% rimaneva miste­ riosamente inspiegato. Tra ill907 e ill915 Einstein riformulò l'intera teoria della gravitazione a partire da due osservazioni. La prima fu che, co­ me un corpo in caduta libera non percepisce l'effetto di attra­ zione della gravità, così un corpo accelerato percepisce un effet­ to di trazione simile alla gravità. In altre parole, si può imma­ ginare che un'accelerazione provochi un cambiamento non di­ rettamente nella velocità di un corpo, ma indirettamente nel campo gravitazionale nel quale esso si trova. Più in generale, e in base alle Regole del Filosofare che già N ewton aveva invocato in un analogo frangente, Einstein de­

dusse che

«

poiché l'effetto dell'accelerazione è uguale alle ma­

nifestazioni del campo gravitazionale, l'accelerazione è la gravi­ tazione}} . La seconda 'osservazione fu che ciò che accade durante le ma­ ree si può pensare non come la deformazione del corpo terre­ stre che si trova all'interno di uno spazio immutabile, ma come la deformazione dello spazio all'interno del quale si trova il cor-

22 1

po terrestre. In altre parole, si può immaginare che le attrazioni lunare e solare provochino un cambiamento non direttamente nella forma della Terra stessa, ma indirettamente nella geome­ tria dello spazio in cui essa si trova. Più in generale, e sempre in base alle Regole del Filosofare, Einstein dedusse che « poiché l'effetto della gravitazione è ugua­ le ai cambiamenti della geometria dello spazio-tempo, la gravi­ tazione è la geometria dello spazio-tempo ». Combinando le due osservazioni, Einstein fu in grado di an­ dare in due passi dall'accelerazione alla geometria, passando at­ traverso la gravitazione. E di introdurre un nuovo paradigma, secondo il quale leforze sono deformazioni dello spazio-tempo, e i moti accelerati sono percorsi inerzia/i secondo linee di minima di­ stanza, che sono l'analogo per lo spazio-tempo curvo einstei­ niano delle rette per lo spazio piatto newtoniano. La traduzione di questo paradigma in equazioni costituì la nuova teoria della relatività generale, così chiamata appunto perché estendeva quella « speciale » del 1 905 anche ai sistemi accelerati. Ma Newton avrebbe semplicemente continuato a chiamarla meccanica razionale, visto che nella Prefazione ai Principia affermava lungimirante che « anche le descrizioni del­ le linee rette e dei cerchi, sui quali la geometria è fondata, ap­ partengono alla meccanica ». Una volta fatti i calcoli, Einstein si accorse che la sua teoria rendeva perfettamente conto del moto del perielio di Mercu­ rio, compreso l' l o/o che quella di Newton lasciava da spiegare. Questa era una conferma della relatività generale, ma non troppo sorprendente. In fondo, già nel 1 898 Paul Gerber ave­ va anticipato i calcoli di Einstein per l'orbita di Mercurio, im­ ponendo artificialmente alla gravitazione newtoniana l'unica

222

restrizione di propagarsi non istantaneamente, ma alla velocità della luce. Più spettacolare fu invece la conferma che venne dalla devia­ zione subìta dalla luce di una stella che passa vicino al Sole du­ rante un'eclisse totale. I primi calcoli al riguardo erano stati fat­ ti da Henry Cavendish nel 1784 e J ohann von Soldner nel

1801, sulla base della teoria della gravitazione newtoniana, e prevedevano una deviazione di 0,87 secondi.

I calcoli effettuati nel 1915 da Einstein sulla base della teoria della relatività generale davano invece un valore doppio di 1,84 secondi. E assumevano dunque le prerogative di quello che N ewton chiamava un experimentum crucis.

Già nel 1912 una prima spedizione si era recata in Brasile per misurare la deflessione della luce durante un'eclisse, ma aveva dovuto rinunciare per il cattivo tempo. Un'altra spedi­ zione era andata in Crimea nel 1914 , ma era stata fermata que­ sta volta dallo scoppio della Prima guerra mondiale. Una nuo­ va opportunità si era presentata con l'eclisse del 1916 in Vene­ zuela, ma non fu sfruttata a causa del perdurare della guerra. Finalmente, l'eclisse del 29 maggio 1919 offrì l'occasione sperata, e due spedizioni si recarono a Sobral in Brasile e all'i­ sola di Principe nel golfo di Guinea per osservarla. Il 6 novem­ bre i risultati furono presentati a una sessione congiunta della Royal Society e della Royal Astronomical Society. Essi confer­ marono le previsioni di Einstein, e risposero positivamente alla Questione l dell'Ottica: I corpi non agiscono a distanza sulla luce, e per effetto

della loro azione non incurvano i raggi di essa? E questa azione non è, a parità di tutto il resto, massimamente for­ te alla minima distanza?

223

Il 7 novembre il Times di Londra titolò: �� Rivoluzione nella scienza. N uova teoria dell'universo. Le idee newtoniane depo­ ste ». E due giorni più tardi il New York Times gli fece eco: « L'eclisse ha dimostrato una modificazione della gravità. Si ammette che la deviazione dei raggi di luce intacca i princìpi di Newton ». Da quel momento nell'immaginario popolare Einstein di­ venne un « secondo Newton ». Ma non avrebbe potuto diven­ tarlo se non ci fosse appunto stato un « primo Newton », alla cui grandezza il suo successore rese questo omaggio nel 1 927, in occasione del bicentenario della morte: Il suo spirito brillante ha indicato, come nessun altro pri­ ma o dopo, il cammino al pensiero occidentale, alla ricer­ ca e alla tecnologia. Ma Newton non è stato soltanto un geniale inventore di metodi: ha anche mostrato una sin­ golare padronanza della conoscenza empirica dei suoi tempi, ed esibito una meravigliosa ingegnosità nelle di­ mostrazioni matematiche e fisiche. Per tutte queste ragio­ ni, merita la nostra più profonda venerazione.

CRONOLOGIA SCIENTIFICA NEWTONIANA

1664 •

Alcune questioni filosofiche, cor le osservazioni stimolate dal­ le letture effettuate da studente.

1665-66 •











Trattato sulle flussioni, incompiuto compendio dei risultati degli anni giovanili sulle derivate e gli integrali, poi conflui­ to in Sui metodi delle serie e delle flussioni del 1 67 1 . Come trovare le velocità dei corpi per mezzo delle curve che essi descrivono, con la definizione della velocità come derivata. Sulle riflessioni, con la formula dell'accelerazione per il moto circolare. Sul moto circolare, con l'analisi della terza legge di Keplero per le orbite circolari. Dei colori, con gli esperimenti sui prismi e i risultati sulla ri­ frazione. Degli anelli colorati fra due lenti contigue, con le osservazioni sugli « anelli di Newton e i risultati sulla diffrazione. »

1 668 •

Sull'enumerazione delle curve del terz'ordine, con un primo abbozzo della classificazione delle cubiche, poi confluito nel saggio omonimo del 1 695.

226 1669

Sull'analisi per mezzo di equazioni con un numero infinito di termini, compendio dei risultati sulle serie degli anni giova­ nili, pubblicato in appendice all'Ottica del 1704. 1670

Lezioni di ottica, poi confluite nel Libro Primo dell'Ottica del 1704.

Lezioni di geometria algebrica e analitica, con vari risultati al­ gebrici e geometrici, puri e misti, poi pubblicate anonime come Aritmetica universale nel 1707. 1671

Sui metodi delle serie e delle flussioni, incompiuta espansione del Trattato sulle flussioni del 1666, pubblicata postuma nel 1736. 1672

Una nuova teoria della luce e dei colori, con l'esposizione della teoria della rifrazione derivante dagli esperimenti sui prismi.

Lettera a fohn Collins dellO dicembre, con un riassunto dei risultati matematici giovanili, poi pubblicata nel Commercio

epistolare del dottor fohn Collins e altri sui progressi dell'analisi del 1713. 1675

Discorso sulle osserv azioni, poi confluito nel Libro Secondo dell'Ottica del 1704.

Un'ipotesi per la spiegazione delle proprietà della luce di cui ho parlato in vari miei scritti, con l'esposizione della teoria cor­ puscolare della luce.

227 1 676 •



Epistola prior del 1 3 giugno a Leibniz, pubblicata nel 1 699 nel terzo volume delle Opere matematiche di John Wallis, e nel 1 7 1 3 nel Commercio epistolare del dOttor fohn Collins e altri sui progressi dell'analisi. Epistola posterior del 24 ottobre a Leibniz, idem.

1 680 •

Geometria curoilinea, con un abbozzo di fondazione geome­ trica dell'analisi.

1 684 •

Sul moto dei corpi in orbita, con la via breve alla prima leg­ ge di Keplero, poi confluito nelle Lezioni sul moto del 1 685 e nel Libro Primo dei Princìpi matematici della filosofia natu­ rale del 1 687. «

»

1 685 •

Lezioni sul moto, espansioni del saggio Sul moto dei corpi in orbita del 1 684, poi confluite nel Libro Primo dei Princìpi matematici della filosofia naturale del 1 687.

1 686 •

Il sistema del mondo, versione preliminare e divulgativa del Libro Terzo dei Princìpi matematici della filosofia naturale, pubblicata postuma nel 1728.

1 687 •

Princìpi matematici della filosofia naturale, il capolavoro con l'esposizione della teoria della gravitazione universale.

229 1707 •

Aritmetica universale, con le Lezioni di geometria algebrica e analitica del 1 670.

1713 •



Seconda edizione dei Princìpi matematici della filosofia natu­ rale del 1 687, curata da Richard Bentley e Roger Cotes, con la « via lunga » e la « terza via » alla prima legge di Keplero, e lo Scolio Generale. Commercio epistolare del dottorfohn Collins e altri sui progres­ si dell'analisi, che riporta come prove a favore di Newton nella disputa di priorità con Leibniz la Lettera a fohn Collins del 1 672, le Epistolae prior et posterior del 1 676 e vari altri documenti.

1718 •

Seconda edizione dell' Ottica del 1 704, con le nuove Que­ stioni 17-24.

1726 •

Terza edizione dei Princìpi matematici della filosofia naturale del 1 687, con la cancellazione di ogni riferimento a Leibniz.

RINGRAZIAMENTI

Sono grato a Elena Cussino per aver pazientemente ascoltato le mie (non sempre opportune) meditazioni newtoniane in vari tempi e luoghi, dalle colline cuneesi alle spiagge hawaiiane.

E agli amici Andrea Frova e Niccolò Guicciardini per aver generosamente offerto suggerimenti e correzioni di vario tipo. Naturalmente, ogni altro errore rimasto è colpa loro...

BIBLIOGRAFIA

I fatti

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Le storie

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La fisica

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4 . matematica

on Socrates Bardi, The calculus wars. Newton, Leibniz, and the greatest mathematical clash of ali times (Basic Books, 2007) . anfranco Cantelli, La disputa Leibniz-Newton sull'analisi. Scelta di documenti degli anni 1 672-1716, 1 958 (Bollati Bo­ ringhieri, 2006) . tarles Edwards, The historical development ofcalculus (Sprin­ ger Verlag, 1 979) . ccolò Guicciardini, Isaac Newton. On mathematical certainty and method (Mit Press, 2009) . i-ed Rupert Hall, Filosofi in guerra. La polemica tra Newton e Leibniz, 1 980 (il Mulino, 1 988) .

�i approfondUnenti

mcesco Algarotti, Newtonianesimo per le dame. Dialoghi so­ pra la luce, i colori e l'attrazione, 1 737 (Nabu Press, 20 1 1 ) . ldimir Arnol' d , Huygem & Barrow, Newton & Hooke, 1 990 (Bollati Bo ringhi eri, 1 996). mco Giudice, Lo spettro di Newton. La rivelazione della luce e dei colori (Donzelli, 2009) . :xandre Koyré, Scritti newtoniani, 1 965 (Einaudi, 1 983) . cio Russo, Flussi e riflussi. Indagine sull'origine di una teoria rcientifica (Feltrinelli, 2003) . ltaire, Lettere filosofiche, 1 734 (Barbera Editore, 2007) . ltaire, Éléments de la philosophie de Newton, 1 738 (Voltaire Foundation, 1 992) .

INDICE

Al lettore

9

L'UOMO

11

Dio disse: « Sia fatto Newton! »

13 13 14 17 20

In fasce A scuola In cattedra Alla Zecca

L'ultimo mago Un archivio segreto L 'apprendista stregone Altre forze dalla Natura

Corruzioni delle Scritture La truffa della Trinità Il significato delle profezie Il Papa e la Bestia C'è del metodo nella follia

Il momento del Giudizio

Due dispute con un nano Primo round, sull'ottica Sulle spalle dei giganti Tregua armata Secondo round, sulla gravitazione

23 24 25 29 33 33 36 38 41 44 46 47 49 54 58

236 Gli artigli del leone

62

Una corrispondenza poco amorosa Cartelli di disfida Guerra su tutti i fronti Non fingo ipotesi

67 70 78

Le Leggi del Moto Ipotesi non finte: ((sapere che» Le Regole del Filosofare Ipotesi finte: «sapere perché» Deus ex machina Kantata spaziosa e

62

a

tempo

L'inglese Locke Il francese Voltaire Il tedesco Kant La Prima Antinomia Spazio e tempo

78 82 85 87 93 98 98 101 103 106 108

LO SCIENZIATO

111

Prismi di luce

113

Esperimenti cruciali sulla rifrazione Pesci in faccia a Goethe La natura della luce Riflessioni sulla riflessione L'Ottica La mela della concordia

Mele vere e presunte Il moto circolare La forza centrifoga della Terra La caduta libera della Luna Razzi e satelliti Pensieri sul Big Bang

114 117 118 120 121 123 123 126 129 130 132 135

237 Una fontana fluente Un matematico autodidatta Il teorema fondamentale del calcolo Il metodo delle serie infinite: primo ingrediente Il metodo delle serie infinite: secondo ingrediente Terzo grado alle curve Geometria algebrica o analitica? Risultati a getto continuo

Una scommessa da quaranta scellini La presunzione dell'attrazione L 'enigma �i Keplero svelato La regola del parallelogramma La seconda legge di Keplero La terza legge di Keplero per le orbite circolari La

> alla prima legge di Keplero

La

> alla prima legge di Keplero

Il mistero del Corollario mancante Altre forze e altre orbite La