Bud. Un gigante di papà 9788809904477

Bud Spencer, vero e proprio personaggio di culto, è diventato un mito per tante generazioni di italiani e non solo: la s

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Bud. Un gigante di papà
 9788809904477

Table of contents :
Occhiello
Frontespizio
Colophon
Dedica
Epigrafe
Sommario
«Il futuro è la più interessante delle avventure»
«Mangio ergo sum»
«Il sudamericano è un napoletano felice»
«Vedi di prendermi bene, perché se non lo fai ti prendo io»
«L’unico senso è l’amore»
«Non sono un attore, sono un personaggio»
«Chi sa guardare può trovare poesia ovunque»
«Non c’è cattivo più cattivo di un buono quando diventa cattivo»
«Solo rimanendo umile come un allievo potrai diventare un maestro»
«Io ci vedo poco, ma intanto parto lo stesso»
Appendice
Culinariamente parlando
Biografia
Inserto fotografico

Citation preview

Realizzazione editoriale: studio pym / milano Published by arrangement with Walkabout Literary Agency Per le immagini riprodotte nell’inserto: © Cristiana Pedersoli Grafica di copertina: Cristina Giubaldo / studio pym Foto di copertina: © Micheline Pelletier / Getty Images www.giunti.it © 2020 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia Via G. B. Pirelli 30 – 20124 Milano – Italia ISBN 9788809904477 Prima edizione digitale: giugno 2020

Ai miei figli, Nicolò e Sofia, inesauribili fonti d’amore.

«Tutti gli uomini sognano: ma non allo stesso modo. Coloro che sognano di notte, nei recessi polverosi delle loro menti, si svegliano di giorno per scoprire la vanità di quelle immagini: ma coloro i quali sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché possono mettere in pratica i loro sogni a *

occhi aperti, per renderli possibili».

Thomas Edward Lawrence

* – Thomas Edward Lawrence, I sette pilastri della saggezza, Bompiani 2000.

Sommario

«Il futuro è la più interessante delle avventure» «Mangio ergo sum» «Il sudamericano è un napoletano felice» «Vedi di prendermi bene, perché se non lo fai ti prendo io» «L’unico senso è l’amore» «Non sono un attore, sono un personaggio» «Chi sa guardare può trovare poesia ovunque» «Non c’è cattivo più cattivo di un buono quando diventa cattivo» «Solo rimanendo umile come un allievo potrai diventare un maestro» «Io ci vedo poco, ma intanto parto lo stesso» Appendice Culinariamente parlando Biografia

Caro papà, mi manchi: mai avrei pensato che due parole bastassero per esprimere un vuoto grande come quello che hai lasciato tu, invece… «Mancare» deriva da mancus, «monco, imperfetto». In fondo, è proprio così che la nostalgia di te mi fa sentire: monca e imperfetta, orfana della girandola colorata di emozioni che sapevi far girare, delle tue risate profonde e delle filastrocche napoletane, del caldo abbraccio della tua vociona, del profumo della tua barba. Quando chiudo gli occhi e ti cerco nella memoria le immagini si accavallano una all’altra, come se nella mia mente scorresse una pellicola montata senza logica, se non quella dei miei sentimenti. Il tempo fa strani giochi, scorre per tutti in giorni, mesi e anni, ma la sua percezione è soggettiva: sono quasi quattro anni che non ci sei, ma nella mia mente manchi da pochi giorni, sempre gli stessi – quei pochi che il tempo non riesce a trasformare. In alcuni momenti lo spazio temporale riacquista la sua oggettività, allora realizzo quanto siano cresciuti i miei figli, mi rendo conto che Nicolò ha quasi trent’anni e Sofia è ormai una donna, e prendo consapevolezza una volta di più di quanto tu fossi saggio. «Ama la vita, non aggredirla» mi ripetevi ogni volta che ti manifestavo preoccupazione per loro. «Lascia che seguano il loro cuore e la loro passione: troveranno la loro strada da soli, tu devi solo amarli e supportarli». Quanta intelligenza e quanto equilibrio in queste parole, e quanta verità nel tuo invito a farmi da parte, a mettere in pausa aspettative e speranze, e lasciare che le cose accadessero nei tempi giusti, a modo loro, senza forzare. Mi hai insegnato a essere madre e oggi non posso che essere fiera e orgogliosa dei miei ragazzi. Nicolò, il tuo primo nipote, ha seguito la sua passione e ora ama il suo lavoro, così come tu amavi il tuo. Oggi rivedo in lui tanti aspetti di te che prima non notavo: la sua tenacia, la sua lealtà sono la tua tenacia, la tua lealtà. Sofia è rimasta «bella e misteriosa», come la definivi. Da te ha ereditato quella profondità interiore che rende i cuori sensibili, forti e fragili allo stesso tempo, ma anche lo spirito battagliero: non accetta compromessi e lotta per ciò in cui crede, con un ardore che riconosco come tuo. Avevi ragione anche su di me: per una vita mi hai spronato ad agire, a

scommettere su me stessa, e ora che l’ho fatto so quanto fosse giusto il tuo consiglio. Ho ricominciato dal mio primo amore, la pittura, poi ho allargato lo sguardo a una nuova forma d’arte. Oggi dipingo e creo sculture, e scrivo. Be’, avevi ragione, papà: la vita è bella e affascinante in ogni sua sfaccettatura. Ho imparato a essere meno irruente e ad accogliere ciò che accade in maniera incondizionata. Anche il dolore. Quando lo definivi «maestro» non capivo fino in fondo cosa intendessi dire; oggi invece so che il dolore ci permette di scoprire parti di noi che prima non riuscivamo a vedere. Ogni mattina, davanti allo specchio, mi ripeto le tue parole: «Goditi ogni attimo e vivi il presente… e quel che sarà sarà, e futtetenne!». La tua filosofia di vita e il tuo spirito li porto con me ogni giorno, anche se mi mancano le nostre chiacchierate, i nostri confronti, il tuo vivo esempio. Vorrei dirti mille altre cose ma l’emozione mi bagna gli occhi e mi toglie la concentrazione, costringendomi a mettere per iscritto quello che in questo momento mi passa per la testa: grazie, sei stato il migliore dei padri e sarai sempre un maestro di vita. Il tempo è stato generoso con noi: ti amo con lo stesso cuore candido e incantato che avevo da bambina, ma in più so quanto devo ai tuoi insegnamenti e al tuo esempio – la donna che sono diventata, il modo in cui ho affrontato la vita. Per tutti sei Bud Spencer, per me sei la gioia, un faro da seguire e, soprattutto, il mio tenero papino. Tua, Cri Cri

«Il futuro è la più interessante delle avventure»

Papà aveva un concetto delle dimensioni diverso da quello degli altri, aveva bisogno di grandi spazi. Una volta ritornò dagli Stati Uniti con una roulotte in metallo, l’Airstream, che misurava oltre nove metri. Era talmente lunga che in Italia avrebbe potuto circolare solo con una scorta. Al momento di acquistarla non si era posto il problema, così si ritrovò tra le mani questo titano della strada senza sapere come utilizzarlo né dove sistemarlo. Dopo una permanenza nel giardino della nostra casa di campagna, l’Airstream fu caricata su un camion e trasportata all’aeroporto di Roma-Urbe, dove papà teneva gli aerei della compagnia che aveva fondato, la Mistral Air. Ne fece il suo ufficio. Quando andavo a trovarlo, orgoglioso di quella stravaganza, mi domandava: «Non la trovi fantastica, Cri Cri?». In effetti era bellissima: un surreale siluro d’acciaio e vetro parcheggiato tra i capannoni dell’aeroporto. Sembrava planata lì come per incanto, ma non lo era: a materializzarla era stato mio padre. Avevo quasi vent’anni, ero una giovane donna, ma di fronte a queste sue follie tornavo la bimba bionda con la fascia tra i capelli che sgranava gli occhi di fronte ai racconti delle sue avventure nella foresta amazzonica, che rideva fino a sfinirsi per le pernacchie sulla pancia o per la barzelletta napoletana del topo in lite con il leone. Che era sicura che il suo papà fosse magico. Da piccola mi piaceva giocare di fronte allo specchio. Lo dipingevo con la fantasia, come se fosse un quadro. Lui, generoso e paziente, senza mai annoiarsi, mi restituiva esattamente l’immagine che volevo vedere. Ora ero una fata tra le fate, ora la regina di un regno incantato, ora una diva che calcava i palcoscenici di mezza Europa, e mille altri personaggi di ogni epoca.

A quel tempo la casa era popolata da persone estranee ai miei giochi: ho capito più tardi, a mia volta madre, che gli adulti guardano il mondo dei bimbi senza vederlo davvero. Lo attraversano ignari, non si accorgono degli elfi, degli gnomi e dei folletti che abitano le stesse stanze in cui anche loro vivono e si muovono. Ero circondata da affetto. Ero amata da mia madre di un amore già adulto: la sua saggia presenza permeava ogni cosa e mi sosteneva in ogni momento. Ninòn, la mia tata, mi riempiva di mille attenzioni, sempre pronta ad aiutarmi o a prendersi cura di me. Adoravo mio fratello Giuseppe, che è però più grande di me di qualche anno e allora passava i pomeriggi intento in giochi da maschi con i suoi amici, dai quali io spesso ero esclusa. Diamante, nostra sorella, non era ancora nata. Nessuno, insomma, tranne lo specchio, prestava interesse a ciò che ero. Un giorno, mentre ero intenta a baciare il ranocchio di nome Ciccio, che viveva nello stagno di specchio nel salone di casa, tra le due librerie, vidi l’enorme figura di mio padre stagliarsi alle mie spalle. «Buongiorno principessa, aspetti il tuo principe?» Mi sorrise e aprì le braccia. «Mi dai un bacio? Parto per lavoro, vado ad Almería, in Spagna, ma ti prometto che torno presto da te» mi disse con la sua vociona. Colsi l’invito delle sue braccia tese, gli corsi incontro e lui mi fece volare in alto, leggera, verso il suo viso. Affondai in quella barba scura che sapeva di papà e lo riempii di baci. Quando mi rimise giù, atterrai stupita nella realtà: lui mi aveva visto. Lui sapeva quello che altri non capivano. Mentre era lontano fantasticavo sulla Spagna: di fronte al mio silente compagno di giochi immaginavo di essere una ballerina di flamenco accompagnata solo da una chitarra, che stregava gli spettatori battendo i tacchi su tavoli di legno. Al termine della danza, il figlio di un re d’oltremare mi offriva il suo cuore e l’amore eterno. Papà tornò a sorpresa, prima del previsto, portando con sé una valigia mastodontica, persino per lui. Mamma, Giuseppe e io eravamo felicissimi del suo rientro inaspettato, e ancor di più quando scoprimmo che la valigia era piena di regali. A Giuseppe aveva portato degli stivali da cowboy provenienti dal set. Mentre mio fratello li guardava ammirato, cercavo di intercettare in quel guazzabuglio di vestiti e scarpe il dono che papà aveva scelto per me. D’un tratto le sue manone si immersero nella valigia ed estrassero una scatola

chiusa da un nastro: «Questo è tuo, Cri Cri». La scatola era più grande di me, talmente voluminosa che non sapevo come prenderla. La appoggiai a terra e strappai carta e nastro, con la tipica foga dei bimbi, il loro muto ringraziamento. Dentro c’erano un vestito da ballerina di flamenco, rosso a pois bianchi, scarpe con il tacco (furono le mie prime), nacchere, ventaglio e un grande fermaglio per i capelli. In un attimo realizzai che non mi ero ingannata, avevo ragione: lui poteva vedere nel mio mondo! Lui mi aveva visto danzare il flamenco! Capitava spesso che ci facesse regali strani. Mio fratello una volta ricevette una calamita gigante. Mia madre un’automobile, un Pagodino bellissimo, blu con la capote nera. Peccato che lei guidasse poco e non avesse alcuna passione per le auto. Tornava da viaggi che duravano mesi nei paesi in cui girava i suoi film con strumenti musicali ricavati dai semi del luogo, maschere tribali, cappelli etnici di tutti i colori e di tutte le fogge… Per lo stupore di nostra madre, che trovava quelle scelte strampalate inadatte a due bambini, Giuseppe e io impazzivamo di gioia. Ma mio padre era così, «un bambinone», come diceva lei a volte, forse per questo andavamo tanto d’accordo. Donava solo ciò che gli piaceva, che lo stupiva, che lo colpiva. A me capitò di rimanere un po’ delusa una sola volta, quando mi vidi recapitare un colossale salvadanaio in coccio. La terracotta non ha un colore accattivante per un bambino, e poi la forma era molto classica: almeno fosse stato un maialino! Lui deve avermi letto nel pensiero perché mi domandò: «Io ti regalo un sogno e tu non sai riconoscerlo? Riempilo con le monetine e con il tempo realizzerai un tuo sogno, puoi anche colorarlo a tuo piacimento». Mi spiegò che il salvadanaio è come uno scrigno: custodisce tesori. «È una fabbrica di sogni» disse, «insegna a mettere pian piano da parte ciò che serve per dare corpo a un desiderio che subito non si potrebbe soddisfare.» Quelle parole furono sufficienti per rivedere la mia opinione sul regalo e attribuirgli tutt’altro valore: la mia fantasia vide subito nascosti là dentro carrozze, cavalli, castelli! Ero certa che sarei riuscita ad averli, non poteva essere altrimenti. Il mio papà magico realizzava tutti i suoi sogni: mi sarebbe bastato fare come lui per ottenere altrettanto. Nel tempo ho capito che «fare» non basta. Se c’è uno specchio sul quale ha senso indugiare, per capire di più di sé, quello specchio è la vita: mio padre la amava di un amore smisurato, la onorava, la mangiava a grossi

morsi, come avrebbe fatto con un piatto di polpette al sugo o con il sartù di riso preparato da sua madre, mia nonna Rina, e la vita lo ricambiava con ardore. Gli ha concesso un privilegio riservato a pochi: viverla più volte, nello spazio di una sola. Non c’è libro, biografia, film o documentario che possa contenere le migliaia di esperienze che ha vissuto mio padre: è nato in una famiglia di ricchi industriali che la guerra ha reso migranti, ed è stato campione di nuoto e pallanuoto; dopo aver abbattuto record apparentemente granitici e aver partecipato a due Olimpiadi, è partito alla scoperta di se stesso, facendo la sua parte nella costruzione di una strada gloriosa che taglia in due il Sudamerica; tornato a Roma ha sposato il suo amore, la figlia del produttore della Dolce vita, ha avuto tre figli ed è diventato l’attore italiano più noto in tutto il mondo. Ha pilotato aerei, elicotteri, barche e rimorchiatori. Alla guida di una strepitosa Alfa Romeo Giulietta, ha tagliato per primo il traguardo della Caracas-Maracaibo del 1958. Ha fondato una compagnia di spedizioni. Ha inventato e brevettato oggetti bizzarri. Ha scritto e cantato canzoni. Ha vinto alla lotteria di Pasqua uova di cioccolato alte come me quando avevo dieci anni. Ha giocato e perso al casinò finché mia madre non ha posto un veto invalicabile. Ha mangiato tutto quello che poteva, e anche di più, costruendosi un corpo extralarge che era la metafora esatta del suo modo di stare al mondo. Extralarge per mio padre non era una taglia (quella giusta, peraltro, sarebbe con la tripla X), ma un modo di essere: era extralarge in tutto, perché era inquieto, era curioso, era entusiasta. Finché non è stato costretto a stare seduto a causa dei dolori che lo affliggevano nell’ultimo periodo, la televisione non l’ha mai nemmeno accesa: gli sembrava una perdita di tempo. Era in continuo movimento, sempre con lo sguardo avanti, concentrato su un nuovo obiettivo, una nuova follia, un nuovo sogno. Poche settimane prima che se ne andasse, era ricoverato in ospedale, mi disse: «Appena esco prendo una roulotte e vado in giro per l’Europa a fare concerti». Non sapevo se rispondergli: «Ok, ti accompagno» oppure se cedere alla commozione, perché il mio papino, a ottantasei anni, con due vertebre fratturate, senza vederci praticamente più, continuava imperterrito a proiettarsi verso il futuro. «La mia più interessante avventura», come amava definirlo. Se dovessi scegliere uno solo dei doni che mi ha fatto, sarebbe questo: il suo modo di guardare alla vita, e di viverla, che tuttora mi ispira e permette

a lui di essere ancora ben presente al mio fianco, in barba all’aldilà, ingombrante e protettivo come sempre è stato con me. Credo sia per questo che, anche se ormai da qualche anno non possiamo più sederci alla stessa tavola, mentre lui riposa in pace io sono qui con un quaderno sulle ginocchia, a scrivere a mano queste pagine, per provare a infilarlo in un libro pur sapendo benissimo che troverà il modo di esondare anche da lì. Come dicevo, aveva bisogno di grandi spazi. Dubito che riuscirò a rendergli giustizia, però voglio e sento il bisogno di provarci, per incanalare questa energia che pulsa in me e che riconosco come sua, e definirla. Per provare a fare ciò che mi ha insegnato, a fare come lui: a dare una forma all’amore.

«Mangio ergo sum»

Ciclicamente mio padre si metteva a dieta, ma mai perché gliel’aveva detto il dottore. Le raccomandazioni mediche gli facevano un baffo, e non si poteva nemmeno insistere o dargli torto più di tanto, visto che, a parte un episodio, è sempre stato benissimo. Non ricordo che abbia mai preso medicinali, se non in casi rarissimi, quando proprio non poteva farne a meno. Beveva tutto il giorno acqua e limone, e il suo corpo funzionava perfettamente così com’era, nonostante la mole e le mangiate epiche. Per mio padre il cibo era una goduria, una soddisfazione: amava i sapori decisi, i sughetti libidinosi in cui fare la scarpetta con il pane, le ricette semplici e abbondanti, e amava mangiare con gli altri. Mangiare insieme era per lui un rito sacro. Negli ultimi anni, se non mi vedeva a pranzo mi invitava per cena, e viceversa. Gli piaceva avere ospiti, tant’è che chiedeva sempre a mia madre di buttare un chilo di pasta in più, «caso mai bussasse alla porta qualcuno di inatteso». «Cosa ti costa, Mariucci?» le chiedeva. «Alla peggio si butta, ma vedrai che non avanza. Non risicare, che se arriva qualcuno non abbiamo niente da offrirgli.» Era una bugia bianca affinché in tavola ci fosse un piatto di pasta «abbandonato» da cui pescare, cosa che faceva regolarmente benché la sua porzione fosse già assurda: se tutti avevano una fondina, lui aveva una teglia. Mia madre ogni tanto cercava di fare il contrario, ovvero di limitare la quantità di cibo. Lui se ne accorgeva subito e le spiegava ogni volta che mangiare tanto per lui non era uno sfizio, ma un bisogno che aveva da sempre: «Quando ero neonato mia madre non aveva il coraggio di offrirmi un misero biberon, com’era la regola, ma aveva escogitato un sistema tutto suo per approvvigionarmi della quantità di latte necessaria: ne preparava tre e io mi ci attaccavo fino a sazietà».

Mia nonna, Rina, era la regina dei sapori. Era una bella donna, minuta, elegante, dolcissima. Un ricordo vividissimo che ho di lei la ritrae nella sua cucina, tra pentole e fornelli, mentre ride. Non c’è il suono, è come un fotogramma di un film muto, ma vedo chiaramente la bocca aprirsi in un sorriso e la testa spingersi appena all’indietro. Papà la adorava, ricambiato. La domenica mattina, nella casa ai Parioli dove mio padre era cresciuto, cucinava ore per preparare un sontuoso pranzo per tutta la famiglia. Eravamo tanti: oltre a noi cinque, c’erano ovviamente i nonni e zia Vera con i suoi tre figli. Per l’occasione il tavolo da pranzo rettangolare veniva allungato con due prolunghe di legno e imbandito con una tovaglia bianca e il servizio di piatti riservato alle grandi occasioni. Il profumo che usciva dalla porta della cucina era così inebriante che lo seguivo e mi intrufolavo in quel regno odoroso, con la speranza nemmeno troppo segreta di ottenere un pezzetto di pane da intingere nel sugo mentre ancora sobbolliva sul fuoco. Nonna di solito apriva una scatola di metallo e ne estraeva una zolletta di zucchero, che mi offriva chiedendomi di attendere, come premio per la mia pazienza. Mi piaceva passare del tempo in cucina con lei, seduta su una sedia di legno vicino ai fornelli. Facevo dondolare i piedi, che ancora non toccavano terra, e nel frattempo osservavo i suoi gesti e ascoltavo le sue storie. La nonna mi raccontava che papà da piccolo non avrebbe smesso mai di mangiare, così lei, per paura che stesse male, chiudeva frigorifero e credenza con un lucchetto. Un giorno, avrà avuto un paio d’anni, l’aveva trovato seduto per terra alle prese con una grande scatola di cioccolatini che avevano regalato a suo padre. Quando gli si avvicinò, scoprì che la scatola era vuota: aveva mangiato tutti i cioccolatini! «Come ogni madre» mi disse «temevo che sarebbe stato malissimo. Invece, al contrario, con la pancia così piena il tuo papà dormiva persino meglio, aveva un sonno più profondo.» Un anno, forse era il 1976, decidemmo di passare il Natale in Colombia. I miei genitori volevano rivedere una coppia di cari amici che non frequentavano da un po’, Jacqueline e Salvo Basile, e dopo le feste papà avrebbe cominciato a girare un film proprio a Cartagena. Partimmo carichi di regali e di un colossale panettone da cinque chili, allora introvabile fuori dall’Italia. Sull’aereo papà lo infilò a forza nella cappelliera con gli altri bagagli a mano, tra le occhiatine ironiche dei

passeggeri vicini, che devono aver pensato: «Ecco i migranti italiani, che partono con i dolci in valigia…». Volavamo con Iberia, il nostro volo faceva scalo a Madrid e sarebbe atterrato a Bogotá dopo dieci ore. Quando fummo pronti per ripartire, un’hostess annunciò in varie lingue che, a causa di uno sciopero improvviso, non era stato possibile caricare il vitto sull’aereo. Niente pasto, dunque. La notizia fu accolta inizialmente con una certa superficialità, ma con il passare delle ore la fame si fece sentire. Io e i miei fratelli attaccammo con un lamento infinito. A un certo punto mia madre ebbe un’illuminazione e, raggiante, esclamò: «Ma c’è il panettone!». Non l’avesse mai detto! Mio padre tuonò che il panettone era intoccabile, era un regalo per Jacqueline e Salvo. E poi era impensabile passare un Natale senza, non dovevamo nemmeno pensarci! I Natali con lui erano e sono sempre stati molto tradizionali. Lui si occupava innanzitutto dell’albero, chiaramente di dimensioni esagerate, vero, con le radici e in vaso, in modo da poterlo poi ripiantare nel giardino della casa di campagna, a Morlupo, un piccolo paesino vicino a Roma. Per la nostra famiglia è un luogo molto speciale: abbiamo passato lì i nostri momenti più felici, le feste, i matrimoni, le comunioni e i battesimi dei nostri figli. È il nostro piccolo paradiso. La chiamiamo «Tara», perché mia madre ha per questo posto lo stesso attaccamento che Rossella O’Hara aveva per la sua terra. La casa è immersa in un ampio terreno coltivato, con orti, alberi da frutto e un piccolo vigneto. Noi fratelli all’inizio di dicembre uscivamo al seguito di nostra madre armati di ceste per raccogliere muschio fresco, la base per il presepe: sopra vi posizionavamo con cura specchi per i laghetti, carta crespa per le montagne, carta stellata per il cielo e le statuine. Era tutto bellissimo, ma la festa non sarebbe stata perfetta se, il giorno di Natale, papà non si fosse occupato del lato goliardico: coordinava la cucina, raccontava barzellette con una mimica sorprendente e faceva da mazziere per il mercante in fiera. Quella volta, in aereo, mia madre lo lasciò dire, sicura che, di lì a poco, avrebbe avuto fame anche lui. Cosa che infatti accadde: a quel punto, mio padre finse di non voler più sentire le nostre lagne e ci accordò il permesso di salire sui sedili ed estrarre il magnifico panettone. Moriva dalla voglia di mangiarlo, era evidente, ma faceva l’indifferente. Cominciammo così a scartare quel tesoro sotto gli sguardi famelici degli altri passeggeri. Quando

aprimmo l’involucro, un effluvio delizioso invase tutta la cabina, svegliando anche chi dormiva. A quel punto, tutti ci fissavano. Papà si sentì in obbligo di invitare i vicini ad accettare un assaggio del nostro pranzo improvvisato. E fu così che, strappandolo pezzo dopo pezzo con le mani, mangiammo tutto il panettone. Con lui, scomparve anche il tentativo di mio padre di godere di un pranzo di Natale tradizionale ai Caraibi. In compenso, all’arrivo a Bogotá i passeggeri ci salutarono con un applauso interminabile, rivolto non all’attore, ma al proprietario di un succulento panettone italiano! Non ricordo con esattezza quando papà abbia cominciato a filosofeggiare sul cibo, probabilmente nel momento in cui le ricette che amava di più erano diventate sconsigliate, a causa dell’età e degli acciacchi. È partito dal motto «Mangiare è come respirare» per arrivare a sovvertire quello di Cartesio «Cogito ergo sum», trasformandolo in «Mangio ergo sum». Mettersi in competizione con Cartesio era un divertissement, una boutade da teatro dell’assurdo, ne era ben consapevole e ci si divertiva moltissimo; tuttavia, a volte, fiero della sua arguzia, con una punta di serietà ci chiedeva: «Ma ditemi voi se riuscite a pensare quando siete affamati…». Stare a dieta per lui era contro natura: gli si chiedeva di rinunciare a qualcosa di fondamentale, di avere fame, tutto il giorno e tutta la notte, soffrendo e riuscendo a pensare solo al cibo. Per questo decideva di trattenersi per le due sole ragioni che considerava degne di tale impresa: o perché era troppo grosso per girare o perché era troppo pesante per pilotare l’aereo. Diventava nervoso ancor prima di cominciarla, la dieta. Infatti, appena notavamo che nostra madre aveva preparato meno cibo del solito e lui polemizzava, noi figli alzavamo le antenne e, a turno, lanciavamo il grido d’aiuto: «Presto, dategli un panino!». L’unica dieta che abbia mai seguito con piacere si chiamava Scarsdale. Veniva dagli Stati Uniti ed era nota come dieta miracolosa, visto che prometteva ingenti perdite di peso in un brevissimo periodo di tempo. Inoltre, non era rigida sulle quantità: non richiedeva di pesare gli alimenti, ma anzi concedeva di mangiare in certi giorni cibi «a volontà», a volte la frutta, a volte la verdura, a volte la carne e così via. Papà interpretava quell’«a volontà» alla sua maniera: se era il turno della frutta, per esempio, mangiava magari sei arance, cinque mele, quattro banane e montagne di frutti di bosco. L’apoteosi la raggiungeva quando toccava alla carne: allora

si impadroniva del piatto da portata dove mia madre aveva messo i dieci hamburger che avrebbero dovuto sfamare tutta la famiglia e, se lei tentava di frenarlo, ribatteva: «Leggi qua! Non vedi che c’è scritto “carne a volontà”? Sto seguendo la dieta alla lettera! Se hai fatto pochi hamburger preparane altri per i ragazzi». Era insaziabile, nella realtà come nei film. Ogni tentativo di farlo ragionare cadeva nel vuoto: continuava a ripetere che se il medico che aveva inventato la dieta Scarsdale aveva scritto «a volontà» un motivo ci sarà ben stato, e se non conosceva la sua, di volontà, peggio per lui! Nel 1986 Renato Pozzetto e Carlo Verdone recitarono in un film dedicato al fenomeno emergente delle cliniche dimagranti. Il titolo era Sette chili in sette giorni. Questi luoghi promettevano risultati spettacolari, per di più in contesti parecchio allettanti, e così anche mio padre decise di provare. Per una settimana il suo guru sarebbe stato un dottore tedesco, che assicurava di fargli perdere cinque chili in sette giorni. Si ricoverò (si fa per dire, visto l’ambiente alquanto lussuoso) insieme a un amico fissato con le diete. Al loro arrivo il dottore li sottopose a tutti gli esami di rito e diede loro appuntamento per la sera. Poiché erano arrivati nel pomeriggio e avevano fatto uno spuntino, mio padre giunse senza problemi all’ora di cena. Si sedette nella sala ristorante, così sfarzosa da far dubitare che tutto quel lusso dovesse far dimenticare la scarsità del cibo, e attese che i camerieri servissero anche a lui i piatti coperti da elegantissime cloche che vedeva recapitare agli altri tavoli. Era certo che le cloche celassero una fregatura: quella sera la fregatura era una soglioletta rinsecchita delle dimensioni di un’alice. Papà la lasciò nel piatto e, con una scusa, tornò in camera, uscì dalla finestra e, tecnicamente, evase dalla clinica per raggiungere un ristorantino che aveva adocchiato lungo la strada. Ordinò all’oste tutto il meglio che aveva e pagò un conto esorbitante, del quale andava fierissimo: alla faccia di tutte le diete del mondo! Qualche anno dopo, era il 1993, il commercialista di famiglia aprì una spa superaccessoriata nella campagna umbra, a Melezzole, e invitò i miei genitori, che accettarono con piacere. Al mattino si godettero massaggi e trattamenti, papà sopportò persino l’incontro con un nutrizionista. I problemi sorsero all’ora di pranzo, quando, sotto le consuete raffinatissime cloche d’argento, gli venne servita un’ala di pollo. A mia madre avevano portato una coscia: generosamente lei gli propose di fare uno scambio, ma

lui si era già innervosito. Afferrò il menu, e con un certo conforto scoprì che la pietanza in arrivo era l’aragosta all’arancia. «Bene» pensò «il pesce è dietetico ma l’aragosta è pur sempre prelibata». Così mangiò la sua ala di pollo, in attesa della portata successiva. Quando aprì la cloche sotto la quale avrebbe dovuto trovare un trionfo di crostacei, vide una fetta d’arancia decorata con zampette e una codina intagliate nella buccia: nella mente perversa dello chef, quella era l’aragosta! Senza dire una parola, papà si alzò e si fece condurre da un autista nel miglior ristorante della zona, dove festeggiò il primo giorno della sua vita senza dieta con una sontuosa pasta e fagioli. Aveva una tale stazza che, quando dovette subire un intervento agli occhi, l’anestesista non riuscì ad addormentarlo con le dosi convenzionali di medicine. Doveva operarsi per evitare il distacco della retina. Il chirurgo era un suo amico carissimo, il professor Mario Stirpe. Da preoccupate che eravamo, mamma e io ci trovammo catapultate in una serie di situazioni una più esilarante dell’altra. La suora che doveva prepararlo non riusciva a trovare un camice delle sue dimensioni, ogni tentativo risultava vano. Per nulla presa dallo sconforto, si assentò e dopo poco fece ritorno e, al posto del camice, consegnò a mio padre due lenzuola cucite alla meglio, con due fori sforbiciati per far passare le braccia. Papà si divertì molto e così abbigliato fu condotto in sala operatoria. Mamma e io potevamo assistere all’intervento da una camera attigua, attraverso un monitor. Da lì ci godemmo la scena dell’assistente del chirurgo che lanciò l’allarme: «Professore, il signor Pedersoli non entra nel lettino!». «Mettete una prolunga» rispose ironicamente il chirurgo. Trovato il modo di risolvere quella situazione imbarazzante, quando il chirurgo chiese all’anestesista: «Ha già iniettato il Pentothal?» quello confermò: «Sì, 5 cc!». Il professore annunciò allora l’inizio dell’intervento: «Bene, possiamo cominciare». Dopo pochi istanti si sentì tuonare la voce di mio padre, che spaventò sia l’équipe medica sia noi: «A’ Mario, ma che vuoi incominciare: io sono ancora sveglio!».

Il Pentothal non faceva effetto, l’anestesista non credeva ai suoi occhi: la mascherina era troppo piccola e non aderiva al volto di papà. La barba non era certo d’aiuto, ma, insomma, non si trovava un erogatore delle giuste dimensioni. Il professore cominciava a indispettirsi, papà a innervosirsi e il povero anestesista era sempre più nel panico. Mamma e io, nella stanza accanto, eravamo le uniche a sghignazzare. Alla fine sentimmo la voce spazientita del professore: «Intubatelo, non c’è verso di addormentarlo!». A operazione terminata il professor Stirpe ci rassicurò sull’esito positivo dell’intervento e ci confidò che l’anestesista, stupefatto dalla situazione, aveva commentato: «Anestetizzare Pedersoli è stato come cercare di sedare un pachiderma con anestetici per l’uomo!». Fare la spesa con mio padre era un’esperienza ai confini della realtà. Quando lo accompagnavamo a Miami, dove negli anni settanta girava spesso, portava me e i miei fratelli al supermercato, prendeva un carrello (un enorme carrello americano) e ci permetteva di riempirlo con qualsiasi cosa. Noi impazzivamo di gioia e ci divertivamo come matti a pescare buste e scatolette con i junk food più assurdi e fantasiosi, mentre lui sceglieva senza ritegno salse, creme e maionesi aromatizzate. Alla fine dal carrello spuntava una montagna di cose assolutamente inutili, che infilavamo in sacchetti extralarge e consegnavamo a nostra madre, disperata perché non aveva idea di come utilizzare tutta quella roba. Negli ultimi anni aveva preso a fare la spesa anche in Italia (abbondando, naturalmente), cosa che prima gli era capitata piuttosto raramente. Lo faceva se, per esempio, sapeva di aver invitato una dozzina di persone a pranzo senza aver avvisato mia madre: così poteva presentarsi alla porta non solo con il problema (gli ospiti), ma anche con la soluzione (sacchi della spesa contenenti chili e chili di cibo). Un giorno decise di preparare una zuppa di pesce colossale. Acquistò una quantità industriale di pesce e incaricò tutta la famiglia di pulirlo per bene. In quattro dedicammo il pomeriggio a spinare e pulire orate e gamberoni, mentre lui attendeva che finissimo, trionfante alla sola idea di essere lo chef. Certo, il grosso del lavoro era più nostro che suo, ma quando dalla cucina cominciò a spargersi un profumo delizioso ci dicemmo che ne era valsa la pena. I vicini devono aver pensato lo stesso, perché si affacciarono alle finestre chiedendo che cosa stessimo preparando. Papà li invitò tutti,

naturalmente accompagnati. Alla fine, a tavola eravamo dieci in più del previsto. La zuppa fu un grande successo e sancì definitivamente il talento di mio padre come cuoco. D’altra parte, non poteva essere altrimenti: era nato di oltre sei chili.

«Il sudamericano è un napoletano felice»

All’alba del 31 ottobre 1929, in via Generale Orsini 40, a pochi metri dal golfo di Napoli, fu festa grande: dopo molte ore di travaglio nacque un bel bambino di sei chili e mezzo. Come amava dire lui, «ero un Maciste», fatto innegabile al quale mio padre attribuiva il suo passionale rapporto con il cibo. «Mariucci» cercava di spiegare molti anni dopo a mia madre quando lei provava ad abbondare con la verdura e a lesinare su pasta e carne «devi capire che non è colpa mia: sono nato di oltre sei chili, non posso farci niente!» Insieme alla mole, dal ramo paterno della famiglia aveva ereditato l’indole sportiva: suo padre, mio nonno Alessandro, per tutti Sasà, era un ottimo atleta, nella cui libreria spiccavano coppe e medaglie vinte in gioventù. Avendo intuito la passione di mio padre per l’acqua, a otto anni lo iscrisse al Circolo Canottieri Napoli, dandogli modo di sviluppare il suo talento e di apprendere non solo come si nuota, ma anche come si vive: «Lo sport è tutto» amava ripetere mio nonno, «ti insegna quelle regole e quei valori che poi ti ritrovi nella vita». Altissimo (ben 1 metro e 87 centimetri, una rarità per l’epoca), Sasà aveva un fisico statuario e un volto bellissimo, tant’è che capitava che lo scambiassero per l’attore Rodolfo Valentino. Mia nonna Rosa (detta, chissà perché, Rina) non era da meno: viso delicato, occhi color del mare, era di un’eleganza innata. Aveva conosciuto Sasà nel 1927, mentre si trovava a Napoli ospite di una zia: i due cominciarono a frequentarsi e – quando lei ripartì per Chiari, vicino a Brescia, dove viveva – a scambiarsi lettere d’amore e cartoline in bianco e nero che terminavano con «Tua per sempre» o «Il mio amore ti accompagna». Nessuno poteva sospettare che quella donna esile e dolcissima nascondesse una tempra indistruttibile; eppure era proprio così. Le prime

avvisaglie di forza di carattere mia nonna le diede quando decise di trasferirsi armi e bagagli a Napoli per sposare Sasà, ma confermò di essere una donna di polso durante la guerra, quando prese in mano il timone della famiglia a seguito di una gravissima crisi finanziaria. Mio nonno e suo fratello, Giggino, avevano ereditato una fabbrica di mobili in ferro e una rete di negozi di arredo nel centro di Napoli, che avevano gestito con grande abilità. Papà mi raccontò diverse volte che da bambino suo padre lo portava ai Granili, un quartiere vicino al porto, a visitare la fabbrica di famiglia. «Quando sarai grande» gli diceva «dovrai occuparti tu di tutto, insieme a tuo cugino Alessandro.» Era una strada spianata, che mio padre sarebbe stato felice di percorrere. Era orgogliosissimo di far parte di una stirpe di imprenditori e certo che prima o poi sarebbe diventato anche lui un imprenditore bravo e capace, cosa che purtroppo non è accaduta: se dovessi individuare un unico ambito in cui mio padre non aveva fiuto, temo che sarebbe proprio questo. Durante quei pomeriggi degli anni trenta, nessuno avrebbe potuto immaginare che il destino della famiglia – e quello di mio padre – sarebbe stato sconvolto di lì a poco. Napoli è la seconda città italiana per numero di bombardamenti subiti durante la Seconda guerra mondiale. Tra il 1940 e il 1943 i raid aerei sulla città sono stati oltre duecento, molti concentrati sul porto, un obiettivo strategico importantissimo, dal momento che vi era ormeggiata gran parte della flotta militare italiana. La fabbrica di mio nonno venne rasa al suolo dai bombardieri americani un drammatico giorno del 1943. L’obiettivo era una nave militare carica di esplosivi; la fabbrica, che sorgeva lì accanto, fu un danno collaterale. Come il segno profondo che la guerra lasciò nella storia della nostra famiglia. Quelle bombe non rasero al suolo soltanto una nave e degli edifici industriali, ma annientarono anche tutte le energie di mio nonno. Uomo tutto d’un pezzo, onesto e con grandi principi, non si riprese mai del tutto da quegli eventi. La sua unica consolazione era che il bombardamento fosse avvenuto di domenica, e che la fabbrica fosse vuota. Nei mesi successivi, mio nonno e suo fratello si scontrarono con l’impossibilità di sostenersi in una città in cui i generi di prima necessità scarseggiavano e devastata da bombardamenti quasi quotidiani, certo non attrezzata per resistere agli attacchi aerei. La popolazione cominciò a sfruttare come rifugi antiaerei le immense cavità e la fitta rete di cunicoli

che si snodano nel sottosuolo, ma il rischio di venire colpiti rimaneva elevatissimo: al termine del loro passaggio, gli aerei scendevano a bassa quota per colpire la popolazione, il numero delle vittime fu esorbitante. Ancora pochi mesi, e la città sarebbe stata occupata dai nazisti. Giggino decise di trasferirsi con la famiglia a Milano, mentre mio nonno, sollecitato da amici, scelse Roma. In quel momento mia nonna si rivelò il pilastro della famiglia. Avendo perso la fabbrica, mio nonno credeva di aver perso tutto: ciò per cui aveva lottato e lavorato per anni era scomparso in pochi minuti, insieme alla sicurezza di poter mantenere la sua famiglia, al suo ruolo nella società, all’essere un punto di riferimento per le decine di famiglie dei suoi operai, cui non poteva più offrire né lavoro né salario. Era distrutto, incapace di immaginare un futuro. Mia nonna invece ci riusciva. Anche lei, come mio padre, aveva avuto una nascita leggendaria, che l’aveva in qualche modo forgiata: era venuta al mondo prematura, di soli sei mesi, talmente piccola che tutti in famiglia, genitori compresi, erano sicuri che non sarebbe sopravvissuta. Quando fu creduta morta venne messa in una scatola di cartone, ma qualche ora più tardi la sua famiglia si rese conto che quello scricciolo voleva vivere a tutti i costi: respirava ed era vitale. Sua madre accorse, la prese in braccio e cominciò ad allattarla. Innata o no, la grinta di mia nonna fu determinante. In una Roma minacciata dalla guerra, trovò il modo di sbarcare il lunario: si improvvisò sarta, dando vita a una piccola sartoria nel quartiere Parioli. Mise a frutto la sua abilità come ricamatrice, decorando fazzoletti con l’immagine del Colosseo e realizzando con minuzia elaboratissimi abiti di paillettes, ricchi di dettagli preziosi. Benché negli anni successivi mio nonno abbia prima trovato lavoro, poi avviato una sua attività, lei non smise mai di confezionare vestiti da sogno, prima per i suoi clienti, poi per me e mia sorella. Papà andava molto fiero del fatto che la sua mamma, in quegli anni, si fosse adoperata non solo per mantenere lui e sua sorella, Vera, di pochi anni più giovane, ma anche per proteggerli da una situazione drammatica, cercando di preservare una parvenza di normalità. Di quel periodo, nel nostro lessico familiare è entrata di diritto una frase di mia nonna: «A Carlo fatelo lavorare ma non fatelo pensare perché

combina solo guai, troppe idee gli passano per la testa e troppe cose vuole fare». Dato che era impossibile tenerlo fermo, appena arrivati a Roma mia nonna cercò di far sì che mio padre potesse praticare sport. La sua corporatura ormai sviluppata gli aprì diverse porte. Entrò a far parte della Romana Nuoto, con la quale si allenava nella bella stagione nel Tevere, data la mancanza di piscine. D’inverno cominciò a giocare a rugby su richiesta della scuola, l’Istituto San Gabriele, che lo volle in squadra come attaccante: scelta azzeccata, visto che li trascinò alla vittoria del campionato nazionale. Nello stesso periodo cominciò a praticare pugilato, combattendo una decina di incontri, che vinse tutti per Ko dell’avversario. Al suo debutto con la Romana Nuoto divenne campione italiano nei 100 metri a rana per tre anni consecutivi: aveva tredici, quattordici e quindici anni. In quest’ultima occasione, conseguì il suo primo record nazionale. Il 19 luglio 1943 mio padre tornò in treno da Trieste. Erano le dieci e mezza del mattino quando il treno si infilò nella stazione di San Lorenzo e lasciò scendere i passeggeri. Dopo aver cercato invano un mezzo pubblico, papà decise di prendere un taxi: aveva appena vinto il suo primo titolo di campione italiano, non vedeva l’ora di arrivare a casa e di annunciarlo ai suoi genitori. In quello stesso momento uno stormo di bombardieri americani comandato dal generale James Doolittle era in volo sulla città e stava per sganciare il suo prezioso carico: circa quattromila bombe. «Amore mio, la vita è regolata unicamente dal caos, dalla coincidenza e dalla fortuna» affermò mio padre quando mi raccontò che quel giorno non era morto per un soffio. Se il treno avesse tardato di qualche minuto, se l’autobus diretto in città non fosse partito sotto i suoi occhi, se non fosse stato un quattordicenne impaziente, e non avesse deciso di prendere un taxi, sarebbe rimasto sepolto sotto le macerie della stazione di San Lorenzo. Quel bombardamento uccise tremila persone e fece dodicimila feriti. Al suo arrivo a casa, papà trovò il nonno e la nonna che vagavano in strada e, in preda all’angoscia, fermavano tutti i passanti per chiedere informazioni sull’accaduto e se avessero per caso visto un ragazzino molto alto, moro, con le spalle larghe passare da lì. Più tardi uscì nuovamente e, con altri ragazzi, scavò tra le macerie incandescenti per controllare se vi fossero dei sopravvissuti. Riuscirono a

salvare due persone, una donna e un uomo che avevano trovato protezione sotto una trave. Rientrò per cena, sudicio, con la camicia strappata, esausto ma vivo. Non saprei dire con esattezza se fu durante la guerra o subito dopo, fatto sta che in quegli anni la nonna riprese i rapporti con una signora di nome Virginia, amica di un’amica, che aveva conosciuto quando ancora viveva a Napoli. Virginia aveva origini brasiliane e viveva a Recife, nel Nord del paese. Vantava relazioni assai altolocate al consolato italiano locale e a mia nonna raccontava meraviglie: il Brasile era una terra di opportunità, dove avrebbero potuto fare fortuna e godere della sua amicizia, del suo aiuto e della sua ospitalità in una megavilla con tanto di parco. Si sarebbe occupata lei di tutto: dei documenti, di trovare un lavoro a mio nonno, di individuare la casa dove avrebbero potuto sistemarsi. Recife, a quanto pareva, era stupenda: vicino al mare e alle spiagge, dove i ragazzi avrebbero potuto divertirsi, con un clima mite e una natura generosa. Avendo venduto l’appartamento di Napoli e il terreno ai Granili, i nonni avevano messo da parte qualche soldo. Sicura che in Brasile avrebbero potuto trasformare le avversità in opportunità, mia nonna convinse il marito a partire. Fu così che mio padre, dopo essersi iscritto alla facoltà di Chimica a soli diciassette anni (il più giovane studente universitario d’Italia) e aver dato dieci esami, abbandonò gli studi per trasferirsi in Sudamerica. Giunti a destinazione, i nonni scoprirono che Virginia era una mitomane: non possedeva nessuna villa né era in grado di trovare lavoro ad alcuno. Quanto meno, forse mossa dal senso di colpa, condivise generosamente con i nuovi arrivati il poco che aveva, comprese alcune conoscenze che si rivelarono fondamentali. Attraverso alcuni amici, mio nonno trovò effettivamente un impiego presso un’azienda che commercializzava bidoni di nafta. Mio nonno si è interrogato per tutta la vita su quell’esperienza, chiedendosi come aveva potuto mia nonna trascinarli dall’altra parte del mondo, in un paese estraneo e ignoto, basandosi sull’invito di una persona semisconosciuta che, tra l’altro, era una millantatrice. Oggi sarebbe impensabile fare una scelta del genere, ma erano altri tempi: condividere eventi drammatici spinge gli uni verso gli altri, e tutti quanti verso la

speranza. Mia nonna credeva a quanto Virginia le scriveva perché quelle lettere le parevano forse un raggio di luce nel buio fittissimo della loro quotidianità, l’unica strada a portata di mano per ricostruire una vita normale. Di recente ne ho ritrovate alcune tra le carte di mio padre. Raccontano di una disponibilità davvero oltre misura, e spiegano perché mia nonna – con la fiducia nella vita e nel prossimo che era propria di quegli anni – abbia creduto ciecamente in questa signora: Mi sono già interessata presso il rappresentante del console italiano qui, affinché possa preparare tutti i documenti suoi insieme a quelli di suo marito e figlioli per il richiamo in Brasile. Sto provvedendo a tutto con il massimo interessamento e grande gioia perché, cara amica, le voglio bene, quindi desidero vederla felice accanto a me. Riguardo all’ospitalità sua e dei suoi cari, stia tranquilla, penserò io a tutto: la mia casa sarà la sua dimora finché non si sarà sistemata bene. In una lettera successiva, le scrive: Lei potrà venire qui con suo marito e i suoi figli quando le sembrerà opportuno, poiché sarete ricevuti nella mia casa con la massima cordialità, e sarete miei ospiti finché le vostre cose non saranno ammodo. Stia tranquilla e abbia fiducia in me, poiché quanto le dico è l’espressione sincera del mio cuore. Spero che lei stia bene, così i suoi cari, così il suo viaggio, sarà magnifico e i ragazzi godranno in pieno la traversata. L’ultima lettera in mio possesso è datata 18 dicembre 1946 e reca, nel post scriptum, l’indirizzo esatto. La famiglia rimase in Brasile per tre anni, durante i quali mio padre non nuotò mai né praticò alcuno sport, ma si dedicò anima e corpo al lavoro: prima aiutò il nonno, poi venne preso a cottimo come scaricatore di sacchi di farina al porto. Più sacchi significava più soldi, e lui ne sollevava due da sessanta chili ciascuno per volta. Dopo qualche mese il console italiano, un anziano e distinto signore, spinto da compassione o forse travolto dall’energia e dalla determinazione di mia nonna, decise di interessarsi al destino dei Pedersoli. Mise a loro disposizione un piccolo ma decoroso appartamento nel centro della città e

offrì a mio padre un posto da segretario al consolato. Nella nuova casa la nonna svuotò finalmente i bauli che aveva portato dall’Italia, nei quali era stipata, oltre ai ricordi di una vita, biancheria per la casa in quantità. Virginia le aveva assicurato che avrebbe ricavato molti soldi vendendo in Brasile lenzuola e tovaglie ricamate: inutile dire che non vendette nemmeno una federa. Anni dopo regalò tutto a mia zia Vera, come parte del corredo per il matrimonio. Dopo l’impiego al consolato, papà venne assunto alla Dupont, una fabbrica di vernici per rivestimenti in pelle di coccodrillo, per la quale lavorò come rappresentante, visitando tutto il Brasile: da Fortaleza fino a Manaos, in Amazzonia. Gli esami sostenuti alla facoltà di Chimica, peraltro con voti eccellenti, gli valsero un soprannome, El quimico, e la massima considerazione di capi e colleghi. Nonostante la fatica, l’esperienza della guerra e il trauma di aver perso tutto, papà in Brasile si ambientò benissimo. Diceva che il sudamericano è un napoletano felice. Adorava il portoghese, la sua cadenza e la sua musicalità. Aveva imparato a suonare il cavaquinho, una piccola chitarra indispensabile per ogni samba che si rispetti. Il ritmo locale gli metteva allegria e lo accompagnò per tutta la vita: era una sorta di colonna sonora che finiva per permeare ogni cosa, comprese le melodie delle canzoni che ha scritto. Io e i miei fratelli abbiamo assorbito parte di questa magia: quando eravamo piccoli ci incantava raccontandoci che in Brasile le locomotive erano caffettiere, e trasportavano i passeggeri grazie all’energia del caffè, lasciando una scia inconfondibile. Oppure imbracciava una chitarra e cominciava a canticchiare una nenia in portoghese, catalizzando l’attenzione nostra e di chiunque fosse nella stessa stanza. Questo tipo di fascinazione a mio nonno era preclusa, forse per ragioni generazionali, forse per carattere. Diversamente da mio padre, non riusciva a darsi pace e si struggeva per la nostalgia. Ripeteva che aveva girovagato per tutto quel bellissimo continente, ma da nessuna parte riusciva a ritrovare il calore della sua terra. Quando cominciò a non sentirsi bene, la famiglia si trasferì prima in Argentina, quindi decise di fare ritorno in Italia, a Roma. Lì mio nonno recuperò la vitalità e trovò presto un lavoro. E mio padre? Si gettò in un’altra vita.

«Vedi di prendermi bene, perché se non lo fai ti prendo io»

Quando studiavo per il mio primo esame all’università, Psicologia generale, mio padre mi vide alle prese con un tomo di quattrocento pagine e pensò bene di rendere il tutto più interessante: «Dai, studiamocelo stanotte» mi sfidò. Io sollevai gli occhi dal libro e lo osservai esterrefatta. Una parte di me pensava: «Deve essere matto», l’altra era invece ben consapevole che lui considerasse quella proposta del tutto realistica. Aveva una memoria prodigiosa. Per fare un solo esempio, quando doveva sostenere la visita oculistica per il rinnovo del brevetto da aviatore distraeva il medico e, nel frattempo, memorizzava l’intera tavola optometrica. Aveva una miopia fortissima, che con gli anni non faceva che peggiorare: se non fosse ricorso a questo trucco non sarebbe mai stato in grado di leggere le letterine più piccole e guadagnarsi il rinnovo. Sembra incredibile, ma in questo modo è sempre riuscito a cavarsela, e ad avere nel portafoglio il tesserino con un brevetto da pilota in corso di validità. Quella sera, dunque, gli risposi sottolineando l’evidenza: «Papà, in una notte io non riuscirei nemmeno a leggerlo tutto, per studiarlo ho bisogno almeno di un mese». Prima di dormire provai a dedicarmici, ma rimanere sveglia per tentare un’impresa impossibile (e perché, poi?) era fuori discussione. A una cert’ora, quindi, riposi il libro e mi misi a dormire. La mattina dopo, al tavolo della colazione, papà cominciò a farmi qualche domanda mirata. «Non dirmi che l’hai letto tutto!» «Certo! L’ho anche memorizzato.» Morale: io mi ero fermata a pagina 10, lui l’aveva terminato. Mi chiese di interrogarlo, quindi gli feci qualche domanda tenendo il testo davanti e rispose a tutto. Aveva studiato in una notte un libro di Psicologia. Ci prese gusto e si iscrisse anche all’università. Diede due o tre esami

(tutti trenta e lode), poi lasciò. Si vede che la laurea non era nel suo destino. Dopo Chimica (abbandonata per cause di forza maggiore dopo una decina di esami), al ritorno a Roma, nel 1948, si iscrisse a Giurisprudenza, pensando che gli avrebbe lasciato più tempo per gli allenamenti di nuoto, cosa che in effetti per un certo periodo accadde. Come atleta della S.S. Lazio Nuoto partecipò a una serie di gare nello stile libero, nella farfalla e nella staffetta, ed entrò a far parte della squadra di pallanuoto. Il 1950 fu il suo anno d’oro. Conquistò tre titoli italiani (100 metri stile libero, staffetta 3x100 e 4x200) e centrò un record memorabile: nella piscina di Salsomaggiore divenne il primo italiano a scendere sotto il minuto nei 100 metri stile libero. Precisamente, li percorse in 59’’7. Gli allenatori erano così esaltati che si buttarono vestiti nella vasca per abbracciarlo! Allora venne a contatto per la prima volta con la metamorfosi del successo in notorietà. Fu fotografato, intervistato, celebrato, posto al centro dell’attenzione generale. Conservò il titolo per dieci anni, continuando a migliorarlo, e per tutto il resto della vita si interrogò sulla differenza tra il successo sportivo e la fama che deriva dal cinema. «Nello sport il successo è tuo» diceva «se un campione vince nessuno può togliergli quella vittoria. Nel cinema viene da altri, è il pubblico a decretare chi ha successo e chi no, e come l’ha dato può toglierlo in qualsiasi momento. Il successo cinematografico non ci appartiene mai, bisogna essere preparati a fare senza.» Questo tipo di saggezza, che diventò nel tempo una sua caratteristica preponderante, al tempo non era ancora così a fuoco. Parliamo di un ragazzo giovane, prestante, simpatico, che si getta nel mondo con l’entusiasmo dei vent’anni e riceve in cambio tutto ciò che potrebbe desiderare: vittorie sportive, riconoscimenti, l’interesse delle ragazze e degli amici, possibilità che si aprono nel mondo del cinema. All’inizio degli anni cinquanta capitava di frequente che a Roma si installasse qualche megaproduzione americana. Dal momento che le riprese duravano mesi, chi riusciva a ottenere una particina in questi colossal si sarebbe garantito un’entrata che poteva considerarsi quasi una rendita fissa. Grazie al suo fisico, papà riuscì ad accaparrarsi in diverse occasioni ruoli come «generico», qualcosa di più di una comparsa, molto meno di un attore. Il generico è un personaggio che ritorna più volte, ma che non ha

battute, o ne ha giusto un paio, poco significative. So che ha vestito i panni di un pretoriano in Quo vadis e di un carabiniere in Addio alle armi, ma niente di più. Non aveva mai desiderato recitare, non cercava di entrare nel mondo del cinema: per lui quei ruoli erano solo un modo per guadagnare qualche soldo mentre nuotava. Era lì, nel nuoto, che concentrava le sue energie, e infatti è in quel campo che ottenne risultati. Aveva imparato a nuotare nel 1933, a Seiano, una piccola località di mare vicino a Napoli. Glielo insegnò, se questa può essere la parola adatta, Ninuccio Savarese, un marinaio amico di famiglia: Ninuccio lo prese, lo legò a una corda e lo buttò in mare. Mio padre aveva due alternative: restare a galla o andare a fondo. Rimase a galla. Quel tuffo improvviso per lui non fu un trauma, ma una bella sorpresa: cominciò a nuotare a cagnolino e scoprì che il suo elemento naturale non era la terra, ma l’acqua, dove per tutta la vita si è sentito leggero, meravigliosamente libero. Nel 1951 prese parte ai Giochi del Mediterraneo di Alessandria d’Egitto, vincendo due argenti. L’anno successivo fu selezionato per le Olimpiadi di Helsinki del 1952. Gli allenamenti presero uno spazio tale da impedirgli di proseguire gli studi, che interruppe per un breve periodo, pensando: «Vado alle Olimpiadi, torno e riprendo». Così fece, senza immaginare che dopo quella prima Olimpiade ne sarebbe venuta una seconda, a Melbourne. Lasciò l’università a due esami dalla fine. Nei quattro anni che dividono un’Olimpiade dall’altra gli successe di tutto: studiò, partecipò a nuovi film, vinse altre medaglie, segnò un nuovo record nei 100 metri stile libero (58’’2), fu convocato nella nazionale di pallanuoto, dove si distinse per le sue cannonate, al punto da guadagnarsi il soprannome di Bomber. Nel 1949 segnò quaranta reti in nove partite! Ma ancora era niente rispetto alla concentrazione di eventi del 1956. Partecipò alle Olimpiadi di Melbourne. Al ritorno, venne invitato insieme ad Angelo Romani, primatista nei 400 metri stile libero, all’Università di Yale, negli Stati Uniti. Un onore riservato a pochi. Lì passò sei mesi tra allenamenti e gare, assaporando poco l’America e imparando una dozzina di vocaboli di inglese, anche perché divideva la camera con il campione giapponese, che non conosceva nemmeno quelli. Poi partì, per conto suo, e andò a vivere quello che lui considerava il momento davvero mitico della sua storia.

I lettori potrebbero obiettare: «Cosa può esserci di più leggendario di vivere due vite, una prima come sportivo di rilevanza nazionale, due volte olimpionico, e una seconda come attore noto in tutto il mondo?». Mio padre risponderebbe che la vera avventura è comprendere se stessi, mettersi alla prova, capire chi si è. Aveva ventisette anni e tutto ciò che poteva desiderare: era un affermato campione di nuoto, un tombeur de femmes, era innamorato, aveva un’automobile americana, amici e feste cui partecipare, la mamma che gli stirava le camicie e un tetto sopra la testa, ma non sapeva chi era. «Così sono andato in Venezuela» raccontava, «un posto dove non ero mai stato, e mi hanno sbattuto in piena giungla amazzonica a costruire strade. Lì fui costretto a capire se ero coraggioso oppure no, se avevo i nervi a posto oppure no. Quella è stata la fase più importante della mia vita, e grazie a questo ho poi deciso tante cose che forse, altrimenti, non avrei mai fatto.» Per un anno e mezzo ha lavorato come capocantiere per l’azienda che lavorava alla Panamericana, una rete di quasi trentamila chilometri di strade che si snodano lungo la costa pacifica del Sudamerica. Le prime notti le ha passate a piangere nella sua baracca, poi ha capito chi era (o forse ha deciso chi voleva essere), ha smesso con le lacrime e ha cominciato a costruire se stesso. Secondo il suo allenatore, Umberto Usmiani, papà avrebbe potuto essere uno dei primi tre al mondo nello stile libero, se solo avesse smesso di fumare e si fosse allenato con maggiore costanza. Ma lui non aveva la benché minima intenzione di fare né l’una né l’altra cosa: riteneva il tempo un bene primario e, in virtù della sua scarsità, non intendeva rinunciare a nessuna delle mille opportunità che la vita gli offriva. I suoi racconti del periodo venezuelano per me erano favole, rese ancora più entusiasmanti dal fatto che il protagonista non fosse un personaggio inventato o uno sconosciuto, ma il mio papà. Era lui che si era spinto ai confini del mondo conosciuto, che aveva fronteggiato uomini armati, che aveva mercanteggiato con gli indigeni, che aveva costruito capanne nella giungla! La mia storia preferita era quella del machete. Come tutti i bambini, anch’io ero abitudinaria e gli chiedevo di ripetermela dieci, venti, trenta volte. Lo facevo anche con la barzelletta del topo e del leone: mi divertivo

talmente che papà accettava di replicarla anche dieci volte di seguito, modulando la voce per meglio interpretare i due personaggi, gonfiandosi quando a parlare era il leone e cercando di rimpicciolirsi quando mimava il topolino. Quando era in vena di storie, con pazienza, sorrideva e attaccava: «Mi trovo nella giungla amazzonica, devo costruire una strada per congiungere alcuni villaggi rimasti isolati e privi di servizi. Durante il sopralluogo per decidere il percorso, senza creare troppi danni all’ambiente, ci ritroviamo in un villaggio non segnato sulla carta. Più che un vero e proprio villaggio è un agglomerato di baracche lungo una strada di fango. Gli unici esseri viventi sono animali da cortile e un cane macilento, che scappa via appena vede arrivare il nostro camion. Spento il motore, io e un mio collega cerchiamo qualcuno con cui parlare. Volevamo capire dove fossimo e, magari, bere qualcosa: avevamo finito l’acqua e l’umidità era insopportabile. Ai margini del villaggio, vicino alla giungla, vediamo una specie di taverna, una bettola da quattro soldi che stava in piedi per miracolo. Decidiamo di provare lì. Tocco la porta e questa scricchiola sotto il peso della mia spinta. Non si vede quasi niente: la luce filtra attraverso una finestra semichiusa. Di fronte a me c’è un bancone di legno, lungo tutta la parete; dietro, scaffali impolverati carichi di bottiglie mezze vuote. Fortissimo, l’odore di chicha». Ormai sapevo perfettamente cosa fosse, ma ogni volta rimanevo fedele al nostro rito e gli chiedevo: «Cos’è la chicha?». «La chicha è una bevanda alcolica che si ottiene masticando il mais e sputandolo in vasi di terracotta dove fermenta, prima di essere bevuta.» Urlavo disgustata per quella che consideravo una vera schifezza, minacciando di vomitare all’istante. Poi papà riprendeva il racconto. «Be’, chiedo da bere. Poco più in là, se ne stava appoggiato al bancone, a bere per conto suo, un tizio con un cappellaccio dalla falda larga, una specie di sombrero, calato sugli occhi. Quando sente la mia voce, solleva lentamente il cappello con l’indice e comincia a fissarmi. Il suo sguardo non lascia dubbi: sta cercando un pretesto per attaccar briga. Farfuglia qualcosa in una lingua che non conosco, l’uomo dietro il bancone se la svigna nel retro senza servirci da bere e rimane a sbirciare la situazione da dietro uno stipite. “Señor, mi state disturbando” attacca. “Siete uno sporco europeo. Gli

europei sono vigliacchi, assassini, distruggono ogni cosa, fate i prepotenti solo con chi non può difendersi… Non è vero, señor?” Lo lascio parlare e, nel frattempo, gli vedo scivolare in mano, spuntato dal nulla, un lungo, affilato machete, di quelli che si usano per aprirsi una strada nella giungla. Continuo a osservarlo in silenzio, attento a ogni suo gesto. L’uomo si scosta dal bancone, ha il machete nella mano destra, il braccio che pende lungo il fianco. Comincia ad avanzare lentamente verso di noi, e riprende a parlare: “Voi siete uno sporco bianco, di quelli che frustano la gente, ma io sono pronto a battermi. Non ho paura di voi, vi farò pentire di tutto ciò che avete fatto alla mia gente”. Il tizio è ormai vicino a me, così vicino che sento il suo alito puzzare di alcol. Da un momento all’altro potrebbe scattare, ma non voglio fare la prima mossa, non spetta a me. Sono pronto, ma non intendo affrontare un uomo in quelle condizioni, per di più armato di un machete. Non ho mai portato armi né volevo che le portassero i miei uomini. Così, senza perdere il contatto visivo, gli tuono in faccia: “Voi avete un machete, ma non mi fate paura. A voi serve un’arma per uccidermi, io posso fare lo stesso usando solo la mia forza. Avete un solo colpo: se lo sbagliate, sappiate che non avrete scampo”. Il tizio non si aspettava che reagissi con le parole, quindi rimane interdetto, dandomi il tempo per urlare al barista di venir subito fuori e di portare da bere per me e per lui. E fu così che la mia sicurezza intaccò la sua e, grazie a quell’offerta di pace, mi sentii dire che ero un bianco diverso dagli altri e bevemmo insieme. A fine giornata fece in tempo a regalarmi il machete prima di finire disteso sotto il bancone, ormai completamente ubriaco». È accaduto veramente? Non ne ho idea, però una volta, in occasione di una di quelle discussioni che nascono in mezzo alla strada, mio padre ha accostato la macchina dietro quella dell’altro automobilista, che è sceso e ha cominciato a camminare verso di noi armato di cric. Al che è sceso anche papà, rivelando la sua enorme mole, e l’ha avvisato: «Vedi di prendermi bene, perché se non lo fai ti prendo io, e non so come va a finire». L’automobilista, capito con chi aveva a che fare, ha immediatamente fatto marcia indietro, balbettando: «No, scusi, un malinteso, non volevo…» e si è defilato alla velocità della luce. In un’altra occasione, era presente mia sorella Diamante, papà stava per

attraversare la strada a piedi, con lei, alcuni suoi amici e Giorgio, il suo autista. Sfrecciò loro davanti un giovane motociclista che per poco non investì Giorgio. In risposta, lui gli fece segno con le mani di rallentare. Il motociclista a quel punto inchiodò, tornò indietro e si avvicinò al loro gruppetto. Smontò dalla sella e prese a insultare l’incolpevole Giorgio, che nulla aveva fatto tranne rischiare di essere travolto. Papà inizialmente rimase in disparte, poi si avviò verso il motociclista, che sbraitava e si agitava. Quando lo raggiunse, gli prese il casco e lo lanciò lontano, come a dire «lascia perdere». Il ragazzo, sulle prime spavaldo e irrispettoso, si paralizzò non appena vide una gigantesca mano afferrarlo per la giacca, sollevarlo e spostarlo un po’ più in là, e rimase di stucco quando realizzò chi era il proprietario della mano, uno che di risse era sicuramente più esperto di lui. Deve essere sembrata una scena dei film di papà, perché scoppiarono tutti a ridere fragorosamente; meno allegro era il ragazzo che, senza accorgersene, aveva rischiato di cominciare una scazzottata con Bud Spencer. A parte questi due casi, mio padre preferiva ricorrere alle parole, anche con le persone molto arrabbiate. Considerava sensato usare le mani solo se la persona finiva i vocaboli e lo aggrediva, esattamente ciò che accadeva nei suoi film: i cowboy erano notoriamente gente di poche parole, incapace di esprimersi compiutamente, quindi finivano per forza con il menare le mani… Un’altra volta, sempre in Amazzonia, ha rischiato di venire trafitto da una freccia. «Stavamo costruendo un sistema per raccogliere e incanalare l’acqua piovana lungo quello che sarebbe stato il tracciato della strada» mi raccontò. «Per farlo ci servivamo di enormi tubi di cemento, che trasportavamo con i camion e depositavamo man mano dove la strada sarebbe passata. Ero con tre o quattro compagni, stavamo scaricando in piena giungla, quando, improvvisamente, ci trovammo circondati dagli indios. Erano usciti dal nulla e armati di archi con frecce lunghissime. Li tenevano puntati verso di noi, le facce e il corpo dipinti, i capelli agghindati con piume. Alcuni avevano il naso forato da lunghi ossicini, altri i lobi delle orecchie deformati da ornamenti rotondi, altri ancora portavano braccialetti colorati attorno ai bicipiti, stretti come lacci. Tutti erano nudi o quasi. Urlavano come dannati, avanzando lentamente con le frecce incoccate:

decisamente, non eravamo i benvenuti. A un certo punto, così come erano apparsi, svanirono. Noi riprendemmo il lavoro, increduli, ma di lì a pochi istanti si scatenò un acquazzone torrenziale. Per non rimanere impantanati con i camion decidemmo di abbandonare la zona e di lasciare i tubi dove li avevamo scaricati. Quando smise di piovere, tornammo al cantiere e… che cosa trovammo?» «Che cosa, papà, che cosa?!» Non stavo nella pelle, friggevo per la curiosità. «Gli indios non erano scomparsi nel nulla: l’acquazzone aveva distrutto le loro capanne, così avevano pensato di trasformare i nostri tubi nelle loro case. Ci si erano sistemati con le famiglie: vi avevano trasportato i giacigli per dormire e tutte le loro suppellettili. Avevamo un bel problema: gli indios non volevano saperne di andarsene e di restituirci i tubi-capanna. Anzi, quando capirono che non avevamo nessuna intenzione di mollare i tubi, tesero gli archi e incoccarono le frecce. In fondo stavano difendendo le loro famiglie, e per questo sarebbero stati capaci di uccidere. Tentammo di allontanarli, ma fummo costretti ad arrenderci: se avessimo continuato ci avrebbero mandati via loro, ma al Creatore! Per conquistare la loro fiducia decidemmo momentaneamente di non insistere con la richiesta e di donargli parte delle nostre scorte di vivande, per lo più scatolame. La cosa fu assai gradita perché i cacciatori, a causa della pioggia, non avevano potuto procacciare cibo. Quando gli animi si furono calmati, regalammo loro piccoli attrezzi da lavoro e orpelli luccicanti. Li gradirono, ma la situazione si risolse definitivamente solo quando li aiutammo a ricostruire le loro capanne, al riparo della giungla.» Controbattere all’universale linguaggio delle armi con il linguaggio universale del cibo era molto da mio padre. A pancia piena per lui era tutto più facile, sia il perdersi in dilemmi filosofici sia il trovare una soluzione alle dispute.

«L’unico senso è l’amore»

Mio padre usciva la mattina e tornava la sera. Il pensiero di comunicare dove andasse o a che ora tornasse non lo sfiorava nemmeno. Un giorno non è rientrato per cena, ma nemmeno più tardi. Mia madre ha messo a letto noi bambini e l’ha aspettato. Di solito, quanto meno, si premurava di avvisare, anche in modi creativi. Ero poco più che neonata quando tardò a causa di un naufragio e convinse due sconosciuti a recarsi a Casal Palocco, una zona residenziale alla periferia di Roma, dove vivevamo allora, per avvertire mia madre. Era andato a prendere lo schifazzo trapanese di un suo amico (una sorta di peschereccio) e sarebbe dovuto tornare l’indomani. A notte fonda, verso le due, bussarono insistentemente alla porta e suonarono il campanello. Mia madre, stranamente non spaventata (erano gli anni sessanta, un altro mondo), chiese chi fosse. Alla risposta: «Amici di suo marito!» aprì la porta – oggi non lo farebbe mai – e si trovò di fronte due fidanzatini che avevano un messaggio da parte di papà. Lo avevano incontrato su una spiaggia del Tirreno e lui li aveva pregati di dirle che era naufragato, ma che poteva stare tranquilla, andava tutto bene, anche se non sarebbe rientrato presto come si aspettava. Quella sera, invece, non inviò alcun ambasciatore. Allora non c’erano i telefonini, non c’era modo di contattarlo. Alle tre di notte, in preda all’ansia, mia madre era ancora in piedi alla finestra, a scrutare i fari delle rare macchine che passavano sotto casa e che poi proseguivano oltre. Alle tre e mezza, sfinita, crollò a letto, sperando che papà apparisse presto. Dopo cinque minuti rientrò, allegro e felice, come se niente fosse, per nulla preoccupato dal non aver dato sue notizie. Mia madre e mio padre sono sempre stati diversissimi, ma complementari, come il giorno e la notte, il buio e la luce. Hanno battibeccato tutta la vita,

per qualunque cosa: il cibo («Sei troppo grasso, Carlo, ti verrà un infarto!» E lui: «Sto benissimo così Maria, oggi non ho mangiato nulla a pranzo, non posso mica morire di fame!»), il peso (lei portava in tavola un passato di verdure, lui imprecava e si lamentava finché lei cedeva dicendo: «Fai come credi, mangia quello che vuoi, la salute è tua!»), ma anche il gioco o i bagagli. Papà amava le emozioni forti, tutto ciò che comportava qualche forma di rischio, compreso il gioco: gli piaceva puntare a poker, a chemin de fer, alla roulette. Molto spesso perdeva, anche perché non ci si impegnava veramente, si limitava ad assecondare la sua curiosità: andava a vedere qualsiasi giocata, che avesse o meno punteggi sensati in mano. Una sera mamma lo minacciò: «Carlo, se esci da quella porta per andare a giocare al ritorno non mi troverai più!». Le rispose: «Ciao Marì, ci vediamo dopo!» ma poi smise di andare al casinò. Abituato al cinema, dove tutto si può realizzare in velocità, non riusciva ad accettare che la vita reale non potesse scorrere allo stesso ritmo. Così, se desiderava partire, si aspettava che tutta la famiglia fosse pronta in un batter d’occhio, minimizzando la preparazione dei bagagli per cinque persone. Le valigie d’altra parte non erano affar suo: lui viaggiava con un porta-abiti e una borsa a mano, il resto lo comprava sul posto. Era un’abitudine che aveva preso da quando frequentava spesso Miami. Là c’era un’ampia scelta di XXXL, che invece in Italia non si trovava così facilmente; così, quando partiva per gli Stati Uniti, coglieva l’occasione per fare shopping per tutto l’anno. Non è mai stato un vanitoso, gli abiti non gli interessavano tanto. A parte le scarpe: aveva una marea di scarpe numero 47, che occupavano uno spazio ai confini della realtà. In compenso, faceva man bassa di orologi, macchine fotografiche, cineprese, cappellini, magliette o camicie divertenti. Si potrebbe pensare che mia madre, dopo aver fatto le valigie con cura per sé e per noi, in viaggio non acquistasse praticamente niente: errore! Aveva frequentato troppi set per subirne ancora la magia, quindi mentre papà girava e noi figli assistevamo alle riprese, vagava alla ricerca di oggetti caratteristici, senza porsi limiti né di grandezza né di peso. Dalla Cina, per esempio, fece arrivare in Italia persino dei mobili e delle grosse ceste, che rientrarono nei container della casa di produzione. Spedizioni straordinarie a parte, a ogni ritorno eravamo carichi come ciuchi, cosa che faceva irritare mio padre: «Maria, non è possibile che dobbiamo sempre

viaggiare come degli sfollati!» le diceva, ricevendo in cambio lo stesso sorriso con cui lui ignorava i suoi rimbrotti. Mamma aveva respirato cinema da quando era nata grazie a suo padre, Giuseppe Amato, detto Peppino, una figura centrale del cinema italiano. Fu lui a offrire la prima occasione ai fratelli De Filippo e a produrre il primo film di Vittorio De Sica, Rose scarlatte. Mio nonno, un uomo di grande intuito e indubbio fascino, si era avvicinato al cinema negli anni venti, prima come tuttofare poi come attore e regista. Fu abilissimo nel cavalcare l’onda di novità portata dall’avvento del sonoro nel cinema: in quel periodo fece un viaggio in America, dove conobbe Walt Disney, che divenne un suo amico e con il quale sviluppò alcuni progetti, lavorò con Rossellini, Ingrid Bergman e Sophia Loren. Ancora oggi viene ricordato per la produzione di pellicole di notevole spessore culturale, come per esempio La dolce vita, Ladri di biciclette, Umberto D. e Roma città aperta. Quando ha conosciuto papà, mamma era la giovanissima rampolla di una famiglia molto in vista nell’ambiente cinematografico. Era una splendida ragazza mora, brillante e colta: diplomata alla scuola interpreti in lingua russa, amava la letteratura (tra i suoi preferiti ci sono Tolstoj, Hemingway, Steinbeck) e si era da poco iscritta a Lettere. Nel novembre del 1954 mio padre accettò l’invito di un amico ad accompagnarlo a casa Amato: Peppino aveva acquistato per le figlie un apparecchio musicale Grundig di ultima generazione, e loro avevano chiamato alcuni amici a provarlo. Papà aveva già partecipato all’Olimpiade di Helsinki, era imponente, emanava sicurezza. In più, aveva ancora addosso i ritmi sudamericani: imbracciava la chitarra e cominciava a cantare con una voce calda, armoniosa e profonda, trasportando chi l’ascoltava dall’altra parte del mondo. La notò subito per il suo sguardo: diversamente dalle altre, intente a socializzare, lei era seduta in disparte e osservava ogni cosa con attenzione, come per carpirne l’essenza. Improvvisamente, si sentì inadeguato: realizzò di non avere gli abiti adatti, di non conoscere nessun altro. Ma era troppo attratto da quella ragazza per non rompere gli indugi: si presentò e parlò con lei tutta la sera, affascinato dalla sua semplicità e dalla sua arguzia. La fece ridere, sfoderò il suo sorriso e il suo spirito napoletano. Mamma aveva diversi corteggiatori ma non si era mai decisa a

impegnarsi, non si era innamorata. Con papà fu diverso, forse perché non lo considerò subito un pretendente, quindi le sue difese non si allertarono, dandogli il tempo di farsi conoscere e di conquistarla. O forse era pronta per un grande amore, di quelli che si raccontano nei libri e su cui si scrivono le canzoni. Si rese conto che lui era diventato il centro del suo interesse un giorno al Foro Italico: lui l’aveva invitata ad assistere a una gara di nuoto, e lei lo vide nuotare e arrivare primo davanti a un pubblico in delirio. Papà è stato per sessantadue anni la cosa più importante della sua vita. Si sono frequentati per la bellezza di otto anni prima che lui si decidesse a chiedere la sua mano. I primi tempi il loro amore si è nutrito di lontananza: i nonni materni, come si usava allora, contingentavano le uscite di mamma, e papà era spesso in viaggio o in ritiro per lo sport, così saltarono quei rituali tipici dei fidanzati, come litigare e far pace perché a uno piace andare al cinema e all’altro alla partita di calcio. Mia madre sorride ancora all’idea che sia partito per il Venezuela non per scoprire se stesso, ma per fuggire da lei e, soprattutto, da suo padre. Un giorno mio nonno lo convocò e gli chiese che intenzioni avesse con la figlia. Preso alla sprovvista, convinto di non avere ancora una posizione sociale adeguata e un po’ imbarazzato per questo (l’incontro con mio nonno era avvenuto all’Excelsior di via Veneto, dove lui aveva il suo ufficio), papà rassicurò il nonno ma prese tempo e si defilò. Di lì a poco, decise di partire per il Sudamerica. In un’intervista mia madre raccontò: «Lui dice che doveva capire chi era, ma mi sa che è anche un po’ scappato da me, perché si sentiva accerchiato». Probabilmente, come spesso accade nella vita, è cambiato tutto insieme. La carriera sportiva aveva raggiunto il suo apice e volgeva alla sua naturale conclusione. Papà doveva decidere a cosa dedicarsi: aveva lavorato nel cinema, ma solo per sbarcare il lunario, non immaginava di poterne fare un lavoro. Era ancora convinto, forse, del fatto che sarebbe diventato un imprenditore, come era stato suo padre prima di lui, ma non aveva un progetto definito, una possibilità concreta. Solo idee. Idee poco nitide, peraltro, perché – per l’appunto – non sapeva chi era. E se non sai prima chi sei, che senso ha prendere decisioni? Partì per scoprire che uomo fosse e, di conseguenza, che mestiere avrebbe fatto, se Maria Amato fosse la donna della sua vita.

Al suo ritorno, cercò subito mio nonno per chiedergli la mano della figlia. Peppino, però, era alle prese con la produzione della Dolce vita e, sfinito dalle continue discussioni con Fellini e Mastroianni, aveva deciso di prendersi una pausa e di partire con le sue ragazze per un viaggio all’estero. Papà non ha mai amato le attese, ma quella volta ha aspettato, più di un mese! Appena mio nonno e mia mamma rientrarono, si presentò alla porta di casa loro con un grande mazzo di rose rosse. Si sposarono il 25 febbraio 1960, nella chiesa di San Giovanni a Porta Latina. Tra gli invitati, stelle del cinema e produttori di rilevanza internazionale. Il testimone di mamma era Angelo Rizzoli, socio di mio nonno. Il nonno era tesissimo mentre l’accompagnava all’altare, così mia madre gli chiese di sorridere e di immaginare di essere alla prima di un suo film. Tanto bastò per rilassarlo e permettergli di avanzare deciso e orgoglioso lungo la navata, in barba alla gelosia. Per mamma non deve essere stato semplice stare vicino a mio padre. Era inafferrabile, troppo libero per qualsiasi routine, per qualsiasi matrimonio tradizionale. Se sono rimasti insieme per oltre sessant’anni, cinquantasei da sposati, è stato sì grazie all’amore, ma anche all’intelligenza di mia madre, che non ha mai provato a fermarlo. Sono certa che papà non si sarebbe affermato, nella completezza della sua straordinaria vita, se lei non avesse accettato di sacrificarsi per lui. È sempre stata la colonna portante della nostra famiglia, e il filo che tratteneva lui a terra, impedendogli di volare via, come un palloncino: lui era curioso, divertente, sempre in movimento, capace di rendere concreta qualsiasi follia gli passasse per la testa; lei è pacata, silenziosa, paziente, riflessiva, molto responsabile. Sapeva accettare le sue stravaganze con un sorriso, e si occupava di tutto il resto affinché lui potesse uscire di casa e realizzare se stesso e i suoi sogni. Burbero lo sembrava soltanto. È sempre stato tenero: per una vita ci ha chiamato con i nomi per intero solo quando era infastidito o se doveva redarguirci. Mamma era la sua «Mariucci», io «Cri Cri», mia sorella Diamante, la più piccola, «Didda», e Giuseppe «Peppotto». Aveva respirato questo modo di fare in famiglia: mia zia Vera, sua sorella, lo chiamò «Lallo» fino in tarda età, per il gran divertimento di tutti noi.

Negli ultimi anni riempiva mia madre di carinerie e lei sdrammatizzava, come aveva sempre fatto. «Maria, quanto sei bella!» le diceva lui. E lei, ridendo: «Lo dici solo perché non ci vedi!». Oppure: «Maria, non sai quanto ti amo! Sempre di più, sempre di più!». E mia madre: «Adesso?! Ti prenderei a schiaffi!». Aveva passato la sua gioventù a inseguirlo da un set all’altro, da un capo del mondo all’altro, in aereo, in elicottero, in barca… Era perennemente in moto: quando eravamo in vacanza al mare nuotava, se non nuotava navigava, se non navigava era fuori a comprare qualcosa, a salutare qualcuno, a esplorare qualche posto. E noi figli dietro. Mio nonno lo chiamava «cul e’ malassiett», un modo di dire napoletano che significa, a grandi linee, «un sedere che non riesce a stare seduto comodo da nessuna parte». È che «stazionare» non faceva parte del suo vocabolario. Giusto negli ultimi anni è riuscito a stare seduto insieme a lei per un’oretta di seguito davanti al televisore senza friggere di impazienza, ma solo perché era costretto dai malanni. Prima non sarebbe mai accaduto: era talmente affamato di vita che stare fermo nello stesso posto senza essere al centro dell’azione l’avrebbe considerato una perdita di tempo. Non per niente, allo stare davanti allo schermo preferiva starci dentro.

«Non sono un attore, sono un personaggio»

Papà era selettivo con le amicizie. Aveva pochi amici, e quei pochi erano sacri. Roberta e Silvano, amici d’infanzia: lui era stato uno dei ragazzi più belli di Roma, raccontava papà, lei era stata compagna di quinta elementare di mia madre, ed è la mia adorata madrina. Poi c’era Nino, simpaticissimo, che trascinò mio padre alla serata a casa Amato in cui conobbe la sua futura moglie. Prima, erano stati compagni di avventure galanti, se così si può dire: entrambi alle feste suonavano la chitarra e facevano stragi di cuori. Paolo Marinelli era stato suo alleato in mille imprese. Spesso frequentavano Marisa, piena di vita e di energia, e Mario, che papà chiamava «il professore». Era uno degli oculisti più stimati al mondo, e soprattutto da papà, che ripeteva spesso: «Meno male che c’è Mario a prendersi cura dei miei occhi, altrimenti sarei fottuto». A volte i miei uscivano con Ugo Tognazzi e la moglie Franca, con i quali condividevano la passione per la buona cucina e i ragionamenti svelti e arguti. Poi c’era Mario Girotti, ovvero Terence Hill. Una sera, in un cassetto di casa ho trovato una lettera che mio padre gli ha scritto nel 2008. Avrebbe voluto inserirla nel suo primo libro ma poi, forse per la sua estrema riservatezza, è rimasta nel cassetto. Caro Terence, noi non ci siamo mai scritti una lettera. E perché avremmo dovuto scriverci? Che ci dovevamo dire? Che ci stimiamo? Ma questo già lo sappiamo. Io ti stimo come persona e come attore e spero che tu pensi lo stesso di me. Abbiamo traversato gli anni facendo un lavoro che abbiamo amato, e che ci ha dato tante soddisfazioni. Cosa sarebbe successo se non ci avessero messi insieme? Cosa sarebbe successo se l’indimenticabile Giuseppe Colizzi non avesse puntato tutte le

sue energie anche finanziarie in quel filmetto che ha battuto tutti gli incassi di quegli anni: Dio perdona… io no!, un titolo che ancora oggi dopo quarant’anni la gente usa correntemente nel suo parlare, come peraltro è per … altrimenti ci arrabbiamo!. È vero che il grande successo della coppia l’abbiamo avuto con i due Trinità, ma la coppia è nata con Dio perdona… io no!. L’inspiegabile fusione di due tipi autentici come siamo noi è ancora per me inspiegabile. È vero che di coppie celebri ce ne sono state altre, ma appartengono al passato, ora non ci siamo che noi, anche se fare ancora un film della coppia è praticamente impossibile. E poi perché riscaldare una minestra quando noi, belli (si fa per dire per quello che mi riguarda) e giovani, ci siamo affacciati prepotentemente sullo schermo televisivo divertendo molte generazioni? Siamo alla terza o alla quarta? Perché resistiamo così a lungo? Se tu lo sai dimmelo! Io sono felice di averti incontrato e credo che la nostra amicizia, anche se le nostre frequentazioni non sono state così intense, traspaia dallo schermo. È forse questo che attrae tanti giovani, che hanno perso la gioia dei buoni sentimenti e si complicano la vita con desideri impossibili da raggiungere. Noi rappresentiamo la semplicità della vita, forse è per questo che ci amano e noi amiamo loro. Ma ora basta scrivere, ti aspetto con Lori per quegli spaghetti che ti piacciono tanto. Venite presto, tuo B.S. Per mio padre gli spaghetti, prima di essere western, erano quelli al sugo che cucinava mia madre, detti per l’appunto «spaghetti alla Maria», da lui molto apprezzati anche nella versione con le linguine. Il segreto del piatto era il tempo: i pomodorini, conditi con olio d’oliva, qualche spicchio d’aglio e peperoncino, devono cuocere a fuoco lento per almeno un’ora. Terence ne andava matto. Quando passava per Roma, ci avvisava e organizzavamo subito una cenetta, proprio per deliziarlo con questo piatto. Quando io, i miei fratelli e nostra madre abbiamo realizzato una mostra multimediale su papà, ho inviato a Terence un messaggio per chiedergli un suo ricordo. Stava rientrando dalla Germania, ma rispose velocemente con

queste righe, che furono poi inserite nel catalogo, e che guarda caso parlano di spaghetti: Miami (Florida), ore 11.00 La potente voce di Bud: «Idaaa!» Lei è la sarta, corre trafelata da Bud. Lui le dà un bigliettino. Lei legge: «Spaghetti al pomodoro, come sempre». Bud: «Sì, ma porzione doppia». Terence: «Come sempre». Il lavoro sul set si è fermato; è il rito giornaliero. La troupe sorniona riprende a lavorare, anche Bud e io. Siamo di buon umore perché tutti abbiamo la certezza che all’una in punto ci sarà pausa. Bud infatti non transige. Alle 12.55 si avvia verso la sua roulotte, seguito a pochi passi da me. Ci sediamo al piccolo tavolo della roulotte. Silenzio, aspettiamo. Io in genere sono di poche parole mentre a Bud non va di parlare quando aspetta gli spaghetti. Guarda l’orologio… mancano due minuti lunghissimi, ma alle 13.00 in punto si apre la porta, si vede prima una scodella fumante colma di spaghetti, poi Ida che poggia la scodella sul tavolo insieme al parmigiano. Bud: «È Reggiano?». Ida: «Non lo so». Io stuzzico la situazione: «Sarà Padano». Bud si rabbuia subito. Ida, incerta, dice: «No, no, sono sicura che sia Reggiano». Bud con un sospiro tira a sé la ciotola e si serve. Il piatto è stracolmo. Io faccio lo stesso. Niente vino, solo acqua. Nella roulotte c’era un letto a una piazza e mezza. A pancia piena ci sdraiavamo uno accanto all’altro e dormivamo di un sonno sereno finché non bussavano alla porta e urlavano: «Pausa pranzo finita…!». Ogni anno, quando tornavamo sul set per girare un nuovo film, Bud diceva sempre: «È come tornare a scuola». Credo che in quelle parole volesse anche dire «e rivedere il mio migliore amico». Si erano conosciuti nel 1967. Allora avevo cinque anni, ancora non andavo a scuola. Avevo un fratello di un anno più grande, una mamma che faceva la casalinga e un papà che produceva documentari e campagne pubblicitarie per la televisione. Un giorno squilla il telefono. È la moglie di Giuseppe Colizzi, un amico di mamma. La chiamata però non è per lei, è per papà. Colizzi è regista, sta cercando il protagonista del suo prossimo film sui cowboy e non riesce a trovare un attore abbastanza grosso per il ruolo. Papà aveva già frequentato il set (prima come generico, poi con ruoli di secondo piano), quindi aveva un minimo d’esperienza, ma più che altro aveva la stazza: 1,94 per 120

chili. Inizialmente mio padre rifiutò: uno spaghetti western? Non gli sembrava roba per lui. Però aveva bisogno di soldi, così dopo una breve trattativa accettò. Per non rovinarsi la reputazione si fece crescere la barba e celò la sua identità dietro un nome d’arte inventato di sana pianta, combinando il nome della sua birra preferita con quello di un attore che apprezzava, Spencer Tracy. Dio perdona… io no! uscì nel 1967 e fu un successo immediato. Senza volerlo, mio padre e Terence si sono ritrovati protagonisti di un nuovo genere, il western comico. Papà non era un comico, come nessuno dei suoi coprotagonisti, tuttavia usufruiva di una comicità gestuale, che era stata fino ad allora tipica del cinema muto. Basti pensare a Stanlio e Ollio: facevano ridere non per quello che dicevano, ma per le situazioni che si creavano. Il western era sempre stato di una serietà assoluta: i cowboy non parlano granché, si guardano a lungo, cavalcano senza sosta. Velocemente fanno una sola cosa: mettere mano alla pistola. I western americani, ma anche quelli italianissimi di Sergio Leone o di Sergio Corbucci, usavano le regole narrative del mito e raccontavano le storie di personaggi minimalisti, posti in situazioni critiche, piene di violenza. Giuseppe Colizzi prima ed Enzo Barboni poi (con lo pseudonimo E.B. Clucher) sdrammatizzarono un genere con codici granitici e riuscirono a creare una cinematografia pulita, in grado di coinvolgere grandi e piccini. Da una parte c’era il bene, dall’altra il male, che veniva ridicolizzato. Nonostante i soprusi, tutti sono sempre nemici/amici, la violenza che usano non fa mai male, è una sorta di gioco. I cattivi prendono anche trenta o quaranta pugni, ma poi si rialzano e, magari, la rissa finisce con una pacca sulla spalla. In questo mio padre recitava il ruolo dell’uomo forte, ma certo non quello di un eroe in senso classico: i suoi personaggi erano sì invincibili, ma anche poco intelligenti e molto buoni. Il pubblico lo apprezzava e riusciva a immedesimarsi in lui proprio per la sua imperfezione: credo che fosse una sorta di catarsi, pensare che tutto sommato anche loro un giorno avrebbero potuto alzarsi e risolvere i problemi che la vita aveva posto loro davanti, come faceva Bud nei suoi film.

Insieme funzionavano proprio perché erano diversi. Uno biondo, atletico, regolato e responsabile; l’altro moro, debordante, godereccio e casinaro. Uno amante della carne (che mangiava smodatamente), l’altro vegetariano, moderato anche con le verdure. Uno adorava il mare, l’altro la montagna; uno impazziva per aerei ed elicotteri, l’altro per motociclette e bici. In comune avevano la serietà, l’amore per il proprio lavoro e la capacità di divertirsi nel farlo. Terence spesso diceva che tra loro si creava una sorta di alchimia ogni volta che entravano in scena: era come se si trasformassero, e questa metamorfosi inconsapevole era la sorgente di una gioia e un’energia che arrivavano poi allo spettatore. Vidi per la prima volta Terence Hill quando ancora si chiamava Mario Girotti, sul set del primo film che girò con mio padre. Avrò avuto circa sei anni e un giorno mi portarono tra le scenografie allestite vicino al fiume Volturno, nei pressi di Venafro, per il mio battesimo del set. La scena che stavano girando prevedeva che papà attraversasse il fiume con Terence sulle spalle. La ripeterono svariate volte, sempre più bagnati e infangati. Il budget non prevedeva costumi doppi, per cambiarsi da un ciak all’altro, così il costumista ricopriva gli indumenti con la terra e gli attori ripartivano da capo. In quelle condizioni mi sarebbe stato impossibile capire chi avevo davanti: sembravano due cowboy che non si lavavano da qualche anno… Così a Terence non feci molto caso, anche perché volevo solo correre da papà e abbracciarlo, nonostante il fango e la sporcizia. Soltanto qualche anno dopo, durante le riprese di … continuavano a chiamarlo Trinità, cominciai a rimanere incantata alla vista del coprotagonista di mio padre. Avevo circa dieci anni e per la prima volta mi soffermai sui suoi occhi: erano così intensi, limpidi e profondi. Due calamite straordinarie. Terence aveva come al solito i capelli scompigliati e polverosi, ma un volto etereo, un fisico atletico, abbronzato dal sole e dal trucco. Se ne stava spesso in disparte, concentrato a ripetere le sue battute: con accento caldo e preciso faceva sgorgare dalla bocca fiumi di parole che sembravano rubate a un libro, poi rimaneva di nuovo in silenzio. Mentre studiava la parte alzava un muro impenetrabile tra sé e il mondo. Si estraniava completamente dal contesto, poi ogni tanto alzava gli occhi, intercettava i miei e accennava un dolce sorriso. Era molto gentile ed estremamente bello.

Un’altra delle differenze tra lui e papà: Terence era un attore professionista. Aveva recitato da quando era bambino, e con i più grandi (da Dino Risi a Gillo Pontecorvo). Voleva fare quello e aveva studiato per riuscirci. Mio padre no. Era un talento naturale, ma non si poteva dirglielo, perché preferiva continuare a sentirsi un dilettante. Un pensiero che gli permetteva di non prendersi troppo sul serio e di continuare a fare ciò che veramente gli interessava, ovvero godersi la vita. Nel caso specifico, divertirsi lavorando. Forse per l’età che avevo, i primi set per me erano magia pura. Mi guardavo intorno con lo stesso stupore che provavo quando papà mi affascinava con uno dei suoi trucchetti. Per esempio, quando fumava riusciva a nascondersi la sigaretta in bocca: un giorno, mentre facevo i capricci, mi si avvicinò, la brace emise una densa nuvola di fumo e poi di colpo si fece sparire la sigaretta in bocca. Io rimasi sbalordita e smisi all’istante di piangere. Dopo qualche secondo, con una mossa repentina delle labbra e della lingua, fece uscire la cicca, ancora incandescente. Oppure, se dovevo fare una puntura, mi distraeva con un trucco elementare, che a me pareva straordinario. «Guarda!» esclamava per catturare la mia attenzione, e mi mostrava entrambe le mani vuote; poi faceva schioccare le dita vicino al mio orecchio e tirava fuori una monetina, un altro schiocco e un’altra monetina. Alla fine, mentre ero frastornata e con il sedere ancora dolorante, si congratulava con me e mi diceva che ero stata coraggiosa. Rimanevo a bocca aperta davanti alle scenografie, non mi capacitavo di come i film non si girassero in luoghi reali. Era tutta una ricostruzione, e che ricostruzione! Crescendo ho scoperto che si tratta di un grande lavoro di squadra: gli scenografi lavorano ai bozzetti a stretto contatto con il regista e il direttore della fotografia, fino a restituire location così realistiche da sembrare, a volte, assolutamente abitabili. Per noi bambini passeggiare per le strade di villaggi del West, nel luna park di … altrimenti ci arrabbiamo o, più tardi, tra le tende sulla spiaggia del Soldato di ventura era un sogno a occhi aperti. Oggi credo che il set sia un luogo dove gli adulti possono prolungare il gioco dell’infanzia. Forse è per questo che mio padre si trovava così a suo agio sul set e riusciva così bene recitare, anche se non aveva frequentato alcuna scuola di recitazione.

Continuò a dire di sé «Non sono un attore, sono un personaggio» anche dopo aver recitato per Ermanno Olmi, in Cantando dietro i paraventi. Interpretava il Capitano andorrano. A suggerirlo per la parte fu mia cugina Gaia, per la prima volta in quell’occasione aiutoregista del maestro. Dopo settimane di provini andati male, trovò il coraggio di fare il nome dello zio: «Maestro, ho l’attore perfetto». «Dimmi.» E lei, lottando con la timidezza e temendo il licenziamento: «Bud Spencer!». Mai si sarebbe aspettata la reazione di gioia assoluta da parte di Olmi: si illuminò e le raccontò che, in occasione di un lungo ricovero, gli unici momenti spensierati erano quelli in cui poteva guardare in televisione i film di Bud. Mio padre venne quindi arruolato per la parte. Era agitato al pensiero di lavorare con Olmi, in più le riprese prevedevano alcune sfide logistiche: avrebbero girato in Montenegro da agosto a dicembre, su alcune navi costruite appositamente. Faceva freddo e a lui facevano già male le gambe. Una mattina Olmi consegnò a Gaia una scena di dialogo lunga due pagine, con la richiesta per mio padre di impararla immediatamente. Gaia raggiunse lo zio al trucco, il quale le rispose che mai e poi mai avrebbe potuto imparare quel complicatissimo dialogo in così poco tempo. Lei cercò di convincerlo, ma siccome lui teneva il punto lo minacciò: «Va bene, vado da Olmi e gli dico che non vuoi imparare le battute». Al che lui si ricordò che aveva una memoria di prim’ordine e, con il suo bel vocione, la richiamò indietro: «No, no, dove vai? Va bene, le imparo!». Per il divertimento di tutti noi, Gaia raccontava a volte che, verso la fine delle riprese, mio padre ed Ermanno Olmi erano entrambi esausti. Il primo non si muoveva e non ci vedeva, il secondo non ci sentiva. Morale, si chiamavano con nomi sbagliati: il Capitano poteva diventare il Comandante o il Sergente, Ermanno mutava in Armando. Un giorno mio padre si rivolse a Olmi dalla nave, urlando: «Arma’, io non gliela faccio più!». «Benissimo Comandante» gli risponde l’altro «la rifacciamo!» Mio padre fece una smorfia che si vede anche nei suoi film, quando sbuffa spazientito, incredulo guardò Gaia e le chiese conferma: «Che ha detto?».

«Che ne devi fare un’altra!» Un attimo di silenzio, poi papà scoppiò a ridere e continuarono a girare. Quando Roberto Benigni vinse l’Oscar con La vita è bella la rivista americana Time lanciò un sondaggio per individuare l’attore italiano più famoso nel mondo. Venne fuori che quell’attore era Bud Spencer. A mio padre non capitava spesso di rimanere stupito, ma quella volta fu proprio così. Era incuriosito dal fatto che così tanta gente nel mondo avesse fatto il suo nome, non se lo spiegava. Più di recente l’ho accompagnato in Germania in occasione di una presentazione di un libro. Sapevamo che, fuori dall’aeroporto, ci sarebbe stata una macchina ad attenderci, ma non avevamo idea che, al posto dell’autista, ci sarebbero stati due colossali bodyguard vestiti di nero, che non ci hanno più abbandonato. Abbiamo pensato a un eccesso di zelo dell’editore, un’esagerazione, poi siamo arrivati in albergo. Siamo entrati da un accesso secondario, siamo saliti in camera e abbiamo sentito rumoreggiare in strada. Papà si è affacciato e ha visto una folla pazzesca: fotografi, persone accalcate dappertutto. Dice il proverbio che «due indizi fanno una prova», ma papà trovava talmente incredibile l’ipotesi che una folla intera si mobilitasse per lui che si è girato verso di me, mi ha invitato alla finestra a guardare e mi ha detto: «Deve esserci un capo di Stato in questo albergo, guarda quanta gente…». Erano tutti lì per lui. Dalla strada quella moltitudine è defluita verso il cinema dove è stato presentato il libro. C’era gente dappertutto: accalcata in piedi sui gradini della sala, nell’ingresso… La via di fronte era occupata da un serpentone chilometrico di persone, che attendevano pazientemente con la copia in mano il loro turno per entrare e impossessarsi di un suo autografo. Una volta atterrammo a Torino con un notevole ritardo. Papà era atteso a una riunione importante. Non sopportava di far tardi, quindi si precipitò di corsa all’esterno, mettendo fretta a me e ai mei fratelli: fuori ci attendeva una macchina con autista ed era ansioso di salirci. Per fortuna, appena uscì dall’aeroporto vide una macchina blu con un uomo accanto. Trafelato (e noi peggio di lui, faticavamo a tenere il suo passo) aprì la portiera e, mentre ci infilava sui sedili posteriori, incitò l’autista: «Presto, presto che sono in ritardo». Questi si sedette rapidamente al posto di guida, papà di fianco,

chiese dove dovessimo andare e partì. I due conversarono per tutto il tragitto. Giunti a destinazione, dopo aver ringraziato, papà chiese quanto doveva per la corsa. A quel punto il conducente rivelò di non essere un autista: era un avvocato, aveva accompagnato la famiglia all’aeroporto e stava tornando al lavoro, ma avendo visto papà così preoccupato per il suo ritardo e avendolo riconosciuto, non aveva avuto il coraggio di contraddirlo. Da intontiti che eravamo, io e i miei fratelli scoppiammo a ridere, insieme all’avvocato. Papà non sapeva come ringraziarlo, così nei giorni successivi gli spedì una foto autografata, con parole di grande amicizia. Negli anni del grande successo, tanto era amato dal pubblico, quanto era snobbato dalla critica. Aveva spettatori in Sudamerica e in Estremo Oriente, girato oltre cento film, spesso dagli incassi stellari, ma qualsiasi sua apparizione cinematografica era considerata di serie B. Per la verità, non l’ho mai visto soffrire per questo, però nemmeno gli faceva piacere. Forse è questo il motivo del sorrisetto sornione che gli spunta dalla barba mentre Tullio Solenghi consegna a lui e a Terence Hill il David di Donatello alla carriera, leggendo come motivazione una lettera proprio di Ermanno Olmi: Cari Bud Spencer e Terence Hill, è da un po’ di tempo che ho in mente di scrivervi una lettera di scuse. Quand’ero giovanotto, ovvero tanti anni fa, mi volevo convincere che il cinema doveva essere soprattutto quello che già allora veniva classificato con asterischi e palline, distinguendo tra cinema «di qualità», una sciocca definizione, e l’altro cinema cosiddetto «di consumo», e mi pare stupidamente presuntuoso. Adesso, giunto a quell’età dove si può sostare quietamente sulla sponda del buon senso, mi sono fatto l’idea che a salvare il mondo non sarà soltanto la cultura, e neppure la bellezza, che pure è una piacevolissima opportunità, ma che potremmo davvero scampare al declino di civiltà se sapremo praticare la strada maestra della gioia. Gioia come condivisione di sentimenti di pace, poiché una bella, raffinata e onesta risata è anch’essa a pieno titolo opera d’arte e fa bene allo spirito, alla cultura e anche alla salute. Sono felice di vedere assegnare il David di Donatello alla carriera 2010 a Bud Spencer e Terence Hill, magnifici attori e amabilissimi galantuomini, indimenticabili eroi di tante fantastiche avventure, di giocosa

ironia e sano divertimento. Resteranno per sempre nel nostro affetto e nella storia di un cinema di qualità senza asterischi. Ermanno Olmi

«Chi sa guardare può trovare poesia ovunque»

In via Generale Orsini a Napoli, i dirimpettai della famiglia Pedersoli erano i De Crescenzo, il cui figlio Luciano aveva appena un anno più di papà. I due erano amici e passavano spesso i pomeriggi insieme. In quell’età in cui l’infanzia comincia a tingersi di adolescenza capitava che nascessero dei diverbi con gli altri ragazzi del quartiere. De Crescenzo era molto sveglio, provocatore, salace, ma gracile, e spesso e volentieri avrebbe rischiato di essere malmenato se non fosse stato per l’amico grande e grosso che si portava appresso, che mostrava i muscoli e lo difendeva dai bulletti del Pallonetto di Santa Lucia. Nel mondo bianco e nero dei bambini, ai miei occhi papà era tutto bianco. Non andavo nemmeno a scuola quando cominciò a girare i suoi film: senza barba non me lo ricordo. Per me è sempre stato il supereroe che prendeva a schiaffoni i cattivi, senza fare mai seriamente male a nessuno. Non andava mai Ko: i suoi nemici gli spaccavano sulla schiena sedie, tavoli, pietre, ma invano, perché lui si girava, stringeva gli occhi, apriva la bocca in un ghigno di disappunto, assumeva un’espressione da finto burbero e, con le mani gigantesche che così ben conoscevo, faceva letteralmente volare chi voleva ferirlo o disturbarlo mentre trangugiava fagioli e polpette in quantità. Difendeva sempre i più deboli: le donne, i bambini, oltre naturalmente a Luciano De Crescenzo. Al ritorno da uno dei suoi viaggi, chiamò me e mio fratello, che allora avevamo circa cinque e sette anni, e ci ordinò di chiudere gli occhi. Mi accarezzò i capelli – come sempre, quando lo faceva, la sua mano mi abbracciava tutta la testa – e mi invitò a pensare a qualcosa di bello: se l’avessi fatto, di lì a poco avrei ricevuto una sorpresa fantastica! Quando aprimmo gli occhi, ci trovammo di fronte due pulcini bellissimi, uno tutto rosa e l’altro azzurro. Li prendemmo tra le mani con la

massima cura, terrorizzati al pensiero di far loro del male, e scegliemmo per loro dei nomi: Clotilde il mio, Pia quello di Giuseppe. Poi papà ci fece sedere sulle ginocchia e ci spiegò da dove veniva quello strano regalo. «Il mondo è perfetto» disse «se lo sai guardare puoi trovare poesia ovunque. Modificare questi equilibri spesso è un errore, come in questo caso. Un uomo cattivo, per divertire la gente, ha dipinto i pulcini di tanti colori, ma questi piccoli amano il giallo del sole, si sentono ridicoli con quelle piume colorate. Io passavo lì per caso e ho sentito i pulcini lamentarsi del loro destino: “Non ti riconosco più, Pia, così dipinta d’azzurro”. E Pia rispondeva a Clotilde: “Tu sei ridicola, tutta rosa”. Mi sono arrabbiato con quell’uomo, che non ha rispettato ciò che Dio ha creato, e ho liberato quei pulcini. Ve li ho portati non per farvi gioire del loro colore speciale, ma per restituire loro la dignità del loro colore.» Quei pulcini ben presto riacquistarono il loro piumaggio naturale e con il tempo diventarono due belle galline che razzolavano indisturbate nel nostro giardino e deponevano le uova nella loro casetta. Con papà mi sentivo sempre al sicuro: qualsiasi cosa mi fosse capitata, sapevo che si sarebbe precipitato a salvarmi superando ogni ostacolo, in sella a un destriero, a bordo di un aereo o di un tappeto volante. Il mio primo ricordo riguarda proprio una sorta di suo «salvataggio». Avrò avuto un anno e mezzo o due, ero seduta nel box, al centro del salone di casa. Lo identificai dai passi, poi sentii la voce, poi lo vidi, gigantesco, a pochi centimetri da me: mi sollevò con le sue manone, liberandomi in un colpo solo della solitudine e della noia, e io cercai di aggrappai a lui con tutto quello che avevo, per paura che mi lasciasse di nuovo. Lui rideva e mi diceva: «Sei tutta bocca!», poi cominciammo la gara di baci: vinceva chi ne dava di più. A quell’altezza vertiginosa, ero al massimo della felicità, serena e protetta. Anni dopo, quando passavano i suoi film in televisione, durante le scene delle scazzottate lo «aiutavo» a sconfiggere i cattivi saltellando per la stanza, prendendo a pugni il divano e sferzando l’aria con i miei colpi. L’immagine di me che pesto e maciullo i cuscini del salotto mi torna in mente quando mi capita di sentirmi triste o abbattuta: allora scelgo uno dei film di papà e mi prendo il tempo per guardarlo; ascoltando il suono della sua voce ritrovo la pace interiore e ho l’impressione di poter tornare a essere quella minuscola bambina combattente, che non aveva paura di

nulla. Mio padre era quasi cieco, un po’ a causa della genetica, un po’ del cloro delle piscine e dei fari del set, che avevano irrimediabilmente leso le sue cornee fino a renderlo miope come una talpa. Portava occhiali con lenti spesse quanto fondi di bottiglia, che per girare sostituiva con lenti a contatto. Allora stringeva gli occhi nel tentativo di mettere meglio a fuoco la situazione, per questo non si vedono quasi mai, in nessuna fotografia e in nessuna ripresa. È un peccato, perché aveva occhi bellissimi, tra il verde e l’azzurro. Quanto meno, li ha passati a entrambi i miei figli, riscattando così il fatto di aver trasmesso a me tutta una serie di spiacevoli difetti di vista. Un altro ne avrebbe sofferto, lui ripeteva fiero di essere l’unico attore divenuto famoso senza mostrare gli occhi (un paradosso, se si pensa che lavorava al fianco di Terence Hill). A un certo punto anche le lenti risultarono insufficienti. Quando ha girato gli ultimi film non ci vedeva quasi più. Appena lo vedevano togliersi gli occhiali prima di entrare in scena, gli stuntman cominciavano a tremare. Non si sa come, anche in quelle condizioni riusciva a seminare i migliori professionisti di inseguimenti con le automobili e nelle scazzottate azzeccava tutte le mosse. Le scazzottate erano più simili a una danza che a una rissa. Per girarle era necessario essere allenati: gli stuntman si esibiscono in evoluzioni degne del Cirque du Soleil, a una lentezza tale da permettere agli attori di far volare ovunque cose e pezzi di cose, dando l’impressione di danni potenzialmente incalcolabili. La preparazione era molto accurata: il maestro d’armi studiava la scena nei minimi dettagli, quindi dirigeva i suoi uomini come se fossero un corpo di ballo. Il risultato era una sincronia armoniosa, in cui il movimento di uno fluiva nella reazione dell’altro. Succedeva, anche se raramente, che qualcuno inciampasse: allora l’incastro perfetto di salti e cazzotti si inceppava e qualcuno degli stuntman rimediava un pugno vero. A quel punto scoppiavano chiaramente tutti a ridere, per poi ripartire poco dopo. Una volta, a Hong Kong, durante le riprese di Piedone a Hong Kong, papà salvò gli stuntman cinesi. Durante una scena di combattimento in mare, gli

acrobati cominciarono ad affondare: i costumi erano diventati troppo pesanti a contatto con l’acqua, impedendo loro ogni tipo di movimento. Mio padre si lanciò in acqua e li riportò in salvo uno alla volta. Una leggerezza e una disinvoltura tali da ricordare come l’acqua fosse il suo ambiente naturale. Quando girò Piedone a Hong Kong ci trasferimmo in Cina per circa due mesi. Avevo tredici anni, mio fratello quindici. Diamante rimase a Roma con mia nonna perché era ancora troppo piccola. Mi colpì il contrasto tra la vita frenetica nelle città, i quartieri americanizzati pieni di grattacieli, le abbaglianti luci notturne, e le antiche tradizioni di un popolo dalla cultura millenaria, che invece continuavano a scorrere al ritmo pacifico dei sampan, lunghe imbarcazioni con cui i cinesi pescavano o trasportavano merci. Saliti su un promontorio con una funivia ultramoderna per l’epoca, con un’inclinazione di 45 gradi, ammirammo un paesaggio ambivalente: bastava girarsi perché l’impatto umano, evidentissimo in una porzione di territorio, diventasse quasi trascurabile. Da lassù ciò che si vedeva era una baia turchese, abbracciata e protetta da terre sinuose e punteggiata di isolotti verdi. Dalla penisola di Kowloon, a bordo di un’imbarcazione tradizionale, visitammo alcuni isolotti dell’arcipelago. Ricordo l’incontro con alcuni bambini sporchi, vestiti di stracci, che camminavano a piedi nudi nelle strade fangose del loro villaggio. Ognuno di loro portava sulle spalle un cagnolino, infilato in una sorta di marsupio ricavato legando un fazzoletto. Avrei pensato che quei bambini fossero disperati, invece ci sorrisero e ci guardarono con curiosità e interesse. Mio padre li avvicinò sorridendo e iniziò a giocare con loro e con i cagnolini, e ci esortò a fare lo stesso. Nonostante le sue dimensioni e malgrado il barbone, che lo rendeva abbastanza minaccioso, non ebbero paura di lui, anzi: ne furono attratti. Quando arrivò il momento di andar via si mostrarono dispiaciuti, allora papà ci propose di lasciar loro le nostre merende per rendere il distacco più dolce. Ho passato molto tempo della mia vita sui set dei film di papà, dai cinque o sei anni. Posso dire di essere cresciuta lì, e in fondo non ci sarebbe molta differenza con quanto accade nelle famiglie numerose: ogni set è come una grande famiglia unita, con giorni sì e giorni no, pronta a condividere tutto

ciò che accade, le cose belle come quelle brutte. Oggi il cinema marcia a velocità doppia, se non tripla, ma in quegli anni girare un film significava dedicare allo stesso progetto almeno due o tre mesi, alzandosi alle cinque del mattino e terminando la sera. Scuole permettendo, lo seguivamo: magari stavamo venti giorni nel posto dove girava, per poi fare ritorno a Roma e aspettare il suo rientro. I primi tempi i budget erano molto risicati: durante le riprese di Dio perdona… io no! o dei Quattro dell’Ave Maria, per esempio, papà e Terence non avevano una roulotte per riposarsi tra una scena e l’altra, ma un pulmino dal quale erano stati divelti i sedili: al loro posto erano stati posizionati dei materassi sui quali potevano sonnecchiare finché qualcuno della produzione, urlando, non avesse bussato esigendo i materassi, che servivano agli acrobati per proteggersi dalle cadute. Quando poteva «slegarci», nostro padre lo faceva senza problemi. Sul set di … altrimenti ci arrabbiamo, a Madrid, mio fratello e io abbiamo avuto a disposizione per una settimana un luna park intero: passammo giorni e giorni rimbalzando da un’attrazione all’altra. Il nostro divertimento preferito, però, era tuffarci dalla balaustra del locale del boss, in cui papà e Terence prendono a cazzotti almeno una ventina di nemici: lui ci prendeva per mano e ci lanciava, e noi atterravamo sui palloncini colorati che si vedono nella scena del film. In tutti gli altri casi, dovevamo seguire regole ferree. «Prima regola: sul set devi trovarti una postazione e non lasciarla quasi mai, altrimenti potresti scatenare le ire generali» mi spiegava. «È un girone dantesco, una microsocietà: ci sono tutti i personaggi che potrà mai capitarti di incontrare nella vita: il capo, il maleducato, il nullafacente, l’arrogante, l’intellettuale, l’ammaliatrice, il latin lover, l’amicona e il cretino. Devi imparare a interagire con tutto questo.» E ancora: «Seconda regola: devi essere invisibile. Il set è puro caos, se vuoi rimanere devi imparare a navigare sottotraccia. In ogni caso devi essere reattiva e concentrata, perché in qualsiasi momento possono avvenire repentini cambiamenti. Prima durante e dopo una ripresa devi rimanere immobile, altrimenti avrai tutti gli occhi su di te… e non è piacevole. Se hai bisogno di andare in bagno o aspetti il momento giusto e ti muovi velocemente (ma non correre mai) oppure devi aspettare la fine delle riprese».

Nel tempo avevo imparato a muovermi come un felino: a inizio giornata qualcuno mi indicava lo spazio dal quale non avrei dovuto muovermi, ma riuscivo a districarmi per raggiungere postazioni il più possibile vicino alla scena che girava papà. Per fortuna la troupe era sempre la stessa ed era diventata una famiglia, nessuno si arrabbiava più di tanto, a parte mio padre: mentre Terence faceva finta di non vedermi passare e mi osservava divertito, papà mi lanciava occhiate di fuoco se mi scopriva accovacciata sotto la macchina da presa! Spesso accadevano scene esilaranti. Una di queste mi è tornata in mente di recente, quando ho rivisto I quattro dell’Ave Maria: ho telefonato a mio fratello e abbiamo riso insieme dell’unica volta in cui nostro padre non è riuscito a costruire un rapporto con un animale. Il suo cavallo, El Cordobés, per giorni aveva cercato di disarcionarlo. Lui si era aggrappato saldamente al pomo della sella e aveva resistito, ma a un certo punto non ce la faceva più e aveva cominciato a lamentarsi con Giuseppe Colizzi e con Terence, dicendo che il cavallo non voleva lavorare con lui. Nessuno della troupe gli credeva, alcuni lo prendevano anche in giro. Il giorno dopo era prevista un’importante scena a cavallo. Tutti pronti, Colizzi disse «ciak» e, appena papà mise il piede nella staffa, El Cordobés girò il muso verso di lui, lo guardò fisso negli occhi e si buttò per terra. Fu inutile qualsiasi sforzo per farlo rialzare: non voleva che papà gli salisse in groppa. Una volta chiaro che non c’era possibilità di convincere El Cordobés a cambiare idea, il cavallo fu sostituito. Trovando inconcepibile che un animale avesse potuto resistergli, papà raccontava questa storia del cavallo che non aveva voluto lavorare con lui come se tra loro ci fosse stata una profonda comunicazione sin dai primi istanti. Andava fierissimo del fatto di essere una sorta di uomo che sussurrava agli animali. Li adorava e in cambio loro lo amavano e lo rispettavano. Era sempre andata così, a partire dai cagnolini che aveva avuto da bambino fino ai cani e ai pennuti che erano transitati da casa nostra. Parecchi, nonostante il veto di nostra madre, che riteneva tre figli già sufficientemente impegnativi. Il primo cane a mettere le sue zampe in casa fu Krassin, un Boxer che

mio padre prese con la scusa che gli avrebbe tenuto compagnia in ufficio. A Krassin seguì una cucciola, sempre di Boxer, che chiamammo Rina. Era talmente bella e noi bambini talmente felici ed eccitati che la mamma acconsentì a tenerla. Quell’estate ci trasferimmo in campagna e un bel giorno Krassin e Rina sfuggirono alla nostra sorveglianza e si accoppiarono. Il frutto di quella svista furono tredici meravigliosi cuccioli, una vera e propria carica di Boxer, dei quali papà si innamorò perdutamente impedendo ogni tentativo di mamma di regalarne qualcuno. I canucci erano furbi e impararono presto astuzie di ogni genere per farsi amare, soprattutto da mio padre e da mia madre, che accettò di tenerli tutti. Scegliere i nomi fu un’operazione complessa, oggetto di grandi discussioni. Per prima cosa abbiamo dovuto decidere se scegliere nomi tedeschi, come quello del padre, o italiani, come quello della madre. Alla fine optammo per una via di mezzo: Diamante scelse Giada per la cucciola più minuta, io Stella per quella che aveva una macchia bianca al centro del petto. Giuseppe chiamò il suo Leopoldo e papà diede il nome Arturo al suo preferito, che ovviamente era il più grosso della cucciolata. Mamma non si occupò dei nomi ma fece costruire e recintare varie casette di legno accanto alla nostra per ospitarli tutti. Veder crescere quei cagnolini fu un’esperienza indimenticabile: la casa era invasa da cuccioli, ne sbucava uno a ogni angolo. Si nascondevano sotto i divani, dentro i letti, nelle siepi, fra le poltrone del salotto. Con i loro dentini da latte mordevano e smangiucchiavano ogni cosa: le gambe delle sedie, dei tavoli, dei mobili, ma in special modo le scarpe di mio padre. Per noi era un gran divertimento vederli scappare in due o tre con una scarpa molto più grande di loro, che si contendevano come se fosse un osso. Soltanto il vocione di papà riusciva a porre fine alle loro scorribande. Anche mamma cercava di placarle, ma ogni suo tentativo era vano, non le badavano. Infatti, quando papà tornò dopo essere stato lontano per un po’, dovette ricomprarsi tutte le scarpe. Per qualche tempo li portammo avanti e indietro con noi, tra Roma, la casa in campagna e la casa al mare, ma quando diventarono troppo grandi perché questo bailamme risultasse gestibile, decidemmo di lasciarli in campagna. Per loro fu la massima gioia: erano liberi di scorrazzare tutto il giorno nel giardino, giocando, rosicchiando legnetti, stendendosi al sole e scavando grandi buche nel terreno, per la gioia di Gigi, il custode del giardino e di tutta la proprietà.

Conoscendo la passione di papà per gli animali, un anno la zia Marina ci regalò Loreto, un magnifico pappagallo amazzone che detestava le donne, soprattutto le bionde, e che cercava di beccarle appena gli si presentava l’occasione. Questa sua avversione per me era un serio problema: ce la misi tutta per conquistare la sua fiducia e riuscire ad accarezzargli la testolina, ma per tutto il tempo in cui è rimasto in casa non sono mai riuscita nemmeno ad avvicinarlo. In compenso, Loreto amava incondizionatamente papà: appena lo vedeva inclinava il capo per farsi accarezzare! Quando papà gli concedeva un po’ di attenzione, diventava euforico e inscenava un piccolo spettacolo: cominciava a muoversi avanti e indietro sul trespolo, accompagnando questa specie di danza con movimenti ritmici della testa e con parole e suoni. Da quando Loreto viveva con noi avevamo cominciato ad attendere con ansia che qualcuno suonasse il campanello. Allora il pappagallo, imitando il tono di voce di papà, chiedeva: «Chi è?», e le persone rispondevano con il proprio nome, rimanendo in attesa che la porta di aprisse, mentre tutto ciò che ricevevano era un altro «Chi è?», sempre con il tono di voce di papà. Gli ospiti allora rispondevano di nuovo, alzando il volume della voce, pensando che forse mio padre non avesse sentito, e Loreto proseguiva imperterrito a porre loro la stessa domanda. Dopo un po’ eravamo costretti ad aprire perché le risate si sentivano oltre la porta, svelando la nostra presenza. Una volta anche papà prese parte al gioco, ma dietro la porta quel giorno c’era il nostro portiere, Paolo, che conosceva bene questo scherzo. Così, quando Loreto domandò: «Chi è?», cominciò ad apostrofarlo con una sequela di invettive. Al che papà si alzò dalla poltrona e andò ad aprire la porta, fingendo di essere stato lui a porre la domanda. Paolo si scusò imbarazzato, mentre noi sghignazzavamo nascosti dietro il divano. L’avvenimento più simpatico che riguarda il pappagallo, però, fu un altro: quando papà ritornò da un viaggio, Loreto esclamò tutto felice: «Che bello! Che bello! Che bello!». Papà era in estasi e da quel momento in poi, tutte le volte che raccontò quell’episodio, ripeteva sempre che nessuno lo aveva mai accolto al suo rientro con tanto calore e tanta gioia.

«Non c’è cattivo più cattivo di un buono quando diventa cattivo»

Negli anni settanta mio padre passava così tanto tempo a Miami che avevamo comprato casa: noi ci godevamo il sole e il mare, lui lavorava. Paradossalmente, una routine quasi normale, solo dall’altra parte del mondo. Quando eravamo a Roma non posso proprio dire che sia stato un padre presente nel senso tradizionale del termine: non usciva al mattino per andare in ufficio e tornare la sera, trascorrendo la domenica in famiglia. Non so con certezza come abbiano vissuto questo aspetto mia madre o i miei fratelli, ma nel mio caso le sue frequenti assenze non facevano che fomentare il desiderio di rivederlo e di riprendere i nostri riti. Quando ero piccola, per esempio, dopo pranzo mi prendeva e mi portava in camera con sé, dove ci addormentavamo entrambi: lui a letto e io a pelle di leone sulla sua panciona. Mi piaceva talmente tanto starmene lì sopra che cercavo di prolungare la veglia il più possibile, poi il suo respiro cadenzato, la penombra e la quiete cominciavano a pesarmi sulle palpebre e finivo per abbandonarmi tranquilla al sonno. Più avanti, capitava che mi invitasse a ballare. Gli piaceva intrattenere gli ospiti, o anche solo noi di famiglia: tirava fuori tutto il suo armamentario di strumenti esotici e si metteva a cantare accompagnandosi con il cavaquinho, il banjo, il tamburello, le maracas, i bongos (che aveva portato a casa nei container della produzione insieme ad altri ammennicoli, al rientro dalle riprese di un film ai Caraibi), o strumenti senza nome che aveva recuperato a Cartagena. Ricordo delle percussioni ricavate da zucche essiccate, alcune avevano dei sassolini all’interno, altre erano ricoperte da una rete intessuta con i semi, altre ancora erano incise e si suonavano strofinando nei solchi un bastoncino di legno. Spesso delegava a noi figli il compito di suonare le zucche, facendoci sentire parte integrante di una

piccola orchestra. Io suonavo le zucche, canticchiavo le sue canzoni (che ormai conoscevo, come tutti, a memoria), in attesa che lui dicesse: «Balliamo, Cri Cri?». Quando ballava il suo corpo sembrava diventare privo di peso: si muoveva leggero come se scivolasse sull’acqua, i passi al ritmo della musica. Adoravo essere al centro della sua attenzione, anche perché, appena metteva piede in casa, diventava lui il centro dell’attenzione di tutti. Era una specie di calamita, di pianeta attorno al quale l’intera famiglia si trovava di colpo a orbitare. La cosa non ci sconcertava né ci infastidiva: ci veniva naturale, e non avrebbe potuto essere altrimenti. Da che ho memoria, abbiamo avuto una barca. Prima un catamarano, poi il Papaya: una navetta di venticinque metri, in legno, con scafo olandese De Vries e motori Rolls-Royce. Era ormeggiata a Porto Santo Stefano. Spesso la notte, alla fonda in qualche cala, mio padre si infilava in cabina per uscirne armato di telescopio, con cui scrutava il cielo per indicarci le stelle, le galassie e i pianeti. Non saprei dire quanti anni avevo, ero piccola abbastanza da essermi dimenticata i nomi di tutti quegli ammassi luminosi, ma grande abbastanza affinché mi sia rimasto impresso l’incanto che provavo in quei momenti. A volte ci domandava se credevamo possibile che Dio, quando aveva creato l’universo, avesse dato la vita solo alla Terra. Noi (ovviamente) non avevamo opinioni in merito, e ci limitavamo ad ascoltare rapiti i suoi racconti su pianeti così lontani da non essere ancora stati scoperti e a sforzarci al massimo per individuare attraverso l’oculare le tracce di qualche lontana civiltà. Andare a dormire era il nostro ultimo pensiero: resistevamo stoici alle lusinghe del sonno finché gli occhi non ci si chiudevano da soli, contro la nostra volontà. Allora papà ci guardava e ci dava la risposta che attendevamo: «L’universo è troppo grande per pensare di essere soli. Ora andate a dormire». Mi avvicinavo per dargli un bacio, lui mi accarezzava la testa, mi schioccava un bacione sulla fronte e mi sussurrava all’orecchio: «Se vedo o scopro qualcosa ti chiamo». Correvamo nelle nostre cabine fantasticando ognuno a suo modo. Al buio mi addormentavo felice del mio piccolo segreto: se avesse visto o scoperto qualcosa, papà mi avrebbe chiamata.

Ci ha insegnato a nuotare. Un po’ come aveva fatto con lui Ninuccio Savarese, ci prese e ci lanciò in acqua, rimanendo ovviamente lì vicino. Una volta imparato, entravamo in mare tutti insieme e noi bambini lo utilizzavamo come boa: gli nuotavamo intorno e ci attaccavamo a lui quando eravamo troppo stanchi per continuare a immergerci e risalire. Con i nipoti, forse ammorbidito dall’essere nonno e non padre, fu più tenero: lo ricordo mentre sosteneva mio figlio Nicolò in acqua quando ancora era più piccolo della sua mano, incoraggiandolo a sgambettare e rassicurandolo sul fatto che sarebbe rimasto a galla. Una di quelle notti alla fonda eravamo particolarmente irrequieti: il giorno dopo papà sarebbe partito per lavoro e noi saremmo rimasti con mamma sul Papaya, lontani dalla spiaggia e dai divertimenti. Cominciammo a lagnarci e a fare i capricci, così lui ci ammaliò con una rivelazione che non avremmo dovuto mai condividere con nessuno. «Durante uno dei miei viaggi, non posso dirvi quale (né il luogo né come venni avvicinato), è una questione di sicurezza, fui contattato da alcuni extraterrestri…» Non riuscì a finire la frase che cominciammo a sovrapporci per porgli delle domande. Eravamo esaltati: io e Giuseppe avevamo finalmente la risposta che attendavamo sulla vita nell’universo, Diamante era così piccola che non capiva cosa stesse accadendo, ma era contagiata dalla nostra euforia. Dell’incontro di papà con gli extraterrestri avremmo parlato per giorni e giorni, non ci saremmo annoiati mai! Quando ci calmammo papà poté riprendere: «Erano sulla terra come osservatori. Mi hanno detto di aver visto l’uomo crescere, creare ma anche distruggere. Avevano bisogno del mio aiuto perché, attraverso la mia professione di attore, li aiutassi a diffondere messaggi positivi, a trasmettere che la parte buona che è in ognuno di noi può trionfare, se solo lo vogliamo. Mi portarono in un luogo segreto, fuori dal tempo e da ogni rotta conosciuta, ed è lì che li raggiungo, ogni volta che finisco di girare un film». Ecco perché la mattina dopo avrebbe dovuto assentarsi! Ecco perché partiva spesso! Doveva portare a termine il compito che gli era stato assegnato e noi dovevamo aiutarlo comportandoci bene. Questa favola rendeva le sue assenze più accettabili, ci abbiamo creduto per anni. O forse era vero?

A volte, ero sulla spiaggia delle Cannelle all’Argentario, di fronte a casa, lui si avvicinava con l’elicottero e si sbracciava per salutarmi, spruzzando d’acqua e di sabbia tutte le persone che stavano facendo il bagno. Aveva preso il brevetto per pilotare elicotteri dopo che un suo amico pilota, Paolo, un giorno gli disse ridendo: «Va bene, Carlo, hai preso il brevetto da aviatore, ma prendere in poco tempo quello da elicotterista è impossibile». Mai dire a mio padre che qualcosa è impossibile. Negli anni quaranta il suo primo allenatore di nuoto aveva pronosticato: «Con questo fisico non potrà mai nuotare seriamente», perché lo riteneva troppo gracilino e lungo per una carriera da professionista. E papà divenne un atleta olimpionico. Quella volta prese il brevetto da elicotterista a tempo di record e cominciò subito a organizzare giretti con gli amici e le persone di famiglia. In questo ci assomigliamo: proprio come lui, sono molto pigra in tutto ciò che non mi interessa e una scheggia se invece mi appassiono. L’onore del primo volo spettò ai suoi genitori e a mia madre: li portò sulla costa ligure, puntando verso il basso perché potessero vedere bene le insenature. Con gli stomaci in subbuglio, e un po’ spaventati, i tre cercarono di gratificarlo. Rimase famosa la frase di mia nonna che, rivolgendosi al marito, disse: «Sasà, ma in fondo cosa c’è di più bello alla nostra età che morire insieme a nostro figlio!». Incoraggiò anche me a prendere il brevetto da pilota di aereo. L’idea mi intrigava parecchio, ma vinse la pigrizia: evidentemente non mi interessava abbastanza. Oggi ne sono pentita: penso a tutte le emozioni e le esperienze che mi sono persa e mi dispiace un po’ non aver seguito il suo consiglio. Nessuno di noi figli lo seguì in questa passione; in compenso lo fecero i miei cugini, i figli di sua sorella, Alessandro e Nicola, che non solo prese il brevetto, ma diventò anche comandante di aerei di linea. Era talmente ossessionato dal volo che di notte, per la gioia di mia madre, dormiva con una radiolina sul comodino, sintonizzata sulle frequenze aeronautiche. Più avanti ha smesso di ascoltare quella sequenza continua di decolli e atterraggi, ma, essendosi ormai abituato a dormire con un sottofondo, teneva comunque la radio accesa, su altri canali. Nel 1981 arrivò a fondare una compagnia di spedizioni aeree, la Mistral

Air, la prima compagnia aerea privata di trasporto merci. Era talmente esplosivo che non c’era limite alle sue iniziative. L’idea era ottima (tant’è che poi la Mistral Air fu acquisita da Poste Italiane), però avrebbe funzionato meglio se papà fosse riuscito a focalizzarsi solo su di essa, cosa che per lui era impossibile: mia madre l’aveva soprannominato il Marziano, non perché fosse stato rapito dagli extraterrestri, ma perché ci stupiva continuamente, realizzando imprese che a volte per noi non erano nemmeno comprensibili. Nel 1980 aveva già quattro piccoli aerei, che mobilitò tutti per consegnare beni di prima necessità ai terremotati dell’Irpinia. Io avevo diciotto anni e, insieme ad altri, aiutavo a preparare il carico, impacchettando coperte, medicinali, bottiglie d’acqua, latte in polvere e cibo in scatola. Lo ricordo andare e tornare, frustrato dal fatto di non possedere elicotteri, che gli avrebbero consentito di essere più chirurgico nelle consegne. Con gli aerei poteva solo sorvolare la zona a duecento chilometri all’ora, scaricando i pacchi in modo che giungessero il più vicino possibile ai paesini montani, ma spesso finivano tra le macerie. Notando che a Bari il carico risultava irraggiungibile, ne consegnò uno nuovo di zecca a me e a Giuseppe, ci mise su un camion e ci indicò esattamente dove portarlo, in modo da essere certo che i terremotati ricevessero ciò di cui avevano bisogno. Negli anni ottanta cominciò a covare il sogno di comprarsi un rimorchiatore. Mia madre era quanto meno scettica: un rimorchiatore non è la barchetta da diporto che ci si aspetterebbe da un appassionato di navigazione, ma una vera e propria nave, una nave possente, in grado di uscire in mare anche con un uragano e di soccorrere qualsiasi imbarcazione in avaria. Tant’è che necessita di un equipaggio: comandante, capo macchinista e marinai. Le dimensioni sono, ovviamente, enormi: trentacinque metri di lunghezza per nove di larghezza. A che cosa ci sarebbe mai servito tanto spazio? Poi i rimorchiatori sono spartani, giustamente adatti alle esigenze di chi deve svolgere azioni di recupero, non a quelle di una famiglia in vacanza. In più, non ci serviva un’altra barca: avevamo già il Papaya! Era tutto vero, ma mio padre si era innamorato dell’idea di possedere un rimorchiatore: vagheggiava di riadattarne gli interni per farne una sorta di

casa galleggiante e si immaginava già capitano di una vera nave, con un vero equipaggio, nell’atto di salvare qualche imbarcazione in difficoltà. Era talmente sicuro che sarebbe riuscito a realizzare questo suo sogno che ben prima di individuare la barca cominciò a studiare le migliori soluzioni per renderla vivibile, lavorando con un modellista per sondare la fattibilità delle modifiche che desiderava apportare. Ci vollero alcuni anni, ma finalmente, nel 1990, scovò ad Ancona un vecchio rimorchiatore in disuso, una carcassa arrugginita che però poteva ancora galleggiare e non temeva le condizioni atmosferiche. In un batter d’occhio vendette il Papaya, contro il parere di tutto il resto della famiglia, e rivoluzionò il rimorchiatore, il Sant’Andrea, fino a renderlo ancora più raffinato e funzionale del progetto originario, realizzato da un ingegnere seguendo le sue indicazioni. Le sei cabine erano sontuose, con letti da una piazza e mezza. La sala macchine, sempre pulita e senza una macchia d’olio, conteneva un generatore di corrente che sarebbe stato in grado, come diceva lui, di dare energia all’intera isola di Ponza e a due desalinatori, per utilizzare l’acqua del mare senza far scorte. È superfluo dire che un’imbarcazione come quella sarebbe stata inutile se chi la governava non avesse conosciuto l’arte di navigare. Lui ce l’aveva in pieno. Conosceva la strumentazione alla perfezione e si orientava con le stelle, per lo stupore del comandante. Con il rimorchiatore diede sfogo alla sua irrequietezza: finalmente, poteva essere sempre in movimento! Con il Sant’Andrea abbiamo circumnavigato gran parte dell’Italia, visitando le Eolie, la Sardegna, la Costiera Amalfitana e l’Argentario, dove avevamo casa. Le traversate avvenivano di notte: nonostante avesse creato una cabina armatoriale degna delle sue dimensioni, durante la navigazione papà amava stare in plancia di comando. Mia madre avrebbe preferito fare qualche sosta in più, ma la barca pescava molto in profondità e non ci permetteva di avvicinarci troppo alla costa o di entrare nei porti. Per scendere bisognava nuotare oppure usare un tender. Spesso, quindi, rimanevamo al largo: a volte papà lasciava in funzione gli idranti (pompe per spegnere gli incendi che il rimorchiatore prevedeva, essendo in origine un’imbarcazione di soccorso), e noi prendevamo di mira gli amici che venivano a salutarci con i loro gommoni. La sera gustavamo le cene luculliane preparate da Cesare, marinaio di professione, cuoco per passione. Con il pesce era un fenomeno e papà

amava condividere la sua abilità con noi di famiglia e con gli amici. Abbiamo passato innumerevoli serate sulla coperta del rimorchiatore, a tavola, terrorizzati all’idea di doverci alzare. Indipendentemente dal motivo dell’assenza, infatti, vigeva una regola ferrea: «Chi si alza non trova più nulla». Per esperienza personale posso confermare che era vero: una volta mi sono assentata per tre minuti e in un battibaleno dal piatto mi è sparita ogni cosa. Dopo qualche tempo mia madre ebbe la meglio e tornammo a passare le vacanze nella casa in riva al mare, all’Argentario. Mio padre, come si addice a un comandante, non abbandonò mai la sua nave: il rimorchiatore venne ormeggiato tra i pescherecci al molo di Porto Santo Stefano, era come avere una casa galleggiante. Anni dopo mi è capitato varie volte di ritrovarmi armatrice di quella barca: se mio padre doveva assentarsi all’improvviso per lavoro, e mia madre lo seguiva, io invitavo un numero illimitato di amici e con loro proseguivo la vacanza. Il divertimento era assicurato. All’inizio degli anni novanta papà aveva ormai tremila ore di volo in aereo e millecinquecento in elicottero. Come un bambino farebbe con le figurine, scambiò il rimorchiatore con un King Air 90 della Beechcraft Corporation, che lui chiamava «la vecchia signora»: voleva fare una trasvolata oceanica. Ricordo il suo rientro a casa: era entusiasta, come un bimbo che aveva barattato un giocattolo con un altro. Partì con un copilota e altri due comandanti dal piazzale dell’Aeroclub di Roma. Uno dei due era mio cugino Alessandro, con cui papà volava abitualmente. Per sicurezza avevano installato un serbatoio ausiliario, che avrebbe garantito loro più ore di autonomia, e, insieme al bagaglio personale e alla borsa da pilota, imbarcarono tute di sopravvivenza, zattera autogonfiabile e tutte quelle cose che si spera di non utilizzare mai ma che fanno viaggiare più sereni. Lo scopo del viaggio, formalmente, era consegnare l’aereo a un acquirente americano. Toccarono otto tappe, che amava ripetere come se fossero state un mantra: Italia, Copenaghen (Danimarca), Glasgow (Scozia), Reikjavík (Islanda), Narsarsuaq (Groenlandia), Goose Bay (Canada), Wichita (Kansas) e Miami (Florida). L’atterraggio in Islanda lo fecero al buio, poi ripartirono e rimasero a

galla nel nulla per un migliaio di chilometri, che misero a dura prova la sua pazienza. Ma la parte peggiore, raccontava, era stato l’avvicinamento alla Groenlandia, in mezzo alle nubi, al ghiaccio e alla pioggia: un ostacolo molto difficile da superare che, però, era valso loro l’indimenticabile spettacolo dei fiordi costellati di iceberg. A missione compiuta avevano volato per più di quarantasei ore, percorrendo oltre diecimila chilometri, in soli sei giorni. Quando era ricoverato mi confessò che considerava quella trasvolata l’esperienza più significativa della sua vita. Diceva che era stata una grande esperienza sportiva, oltre che spirituale. Credo anche che fosse molto gratificato dall’aver vinto l’ennesimo confronto con se stesso: aveva posizionato l’asticella davvero molto in alto, quella volta, ed era comunque riuscito a saltarla. In quei giorni d’ospedale, feci a mio padre una breve intervista. Per tutta la vita aveva ricevuto le visite di giornalisti e fan che, armati di videocamera, registratore o taccuino, gli ponevano le domande più varie, cui lui rispondeva sempre con piacere. Volevo divertirlo, intrattenerlo (le ore in clinica sono lunghe e poco spassose), ma volevo anche raccogliere una testimonianza intima di quel momento. Erano giornate di saggezza e serenità. Profondo mio padre lo era sempre stato, ma allora era come se stesse già sbirciando su una nuova dimensione dell’esistenza. Era tranquillo, si sentiva in armonia con le leggi morali, che considerava l’unico sensato motivo di turbamento. Aveva vissuto una vita piena e si gustava l’amore delle persone vicine. Ogni giorno andavamo a trovarlo e ogni giorno parlavamo, forse come non ci era mai capitato. Mi raccontava della sua infanzia, del periodo della guerra, degli eventi che avevano segnato la sua vita e, al contempo, rafforzato la fiducia in se stesso. Con i nipoti più sportivi, Carlo e Sebastiano, rievocava i suoi successi nel nuoto e nello sport, che riteneva il vero metro del suo successo. Lo sport gli aveva insegnato che si può vincere e si può perdere, ma che ciò che conta è rimanere fedeli a se stessi, perché dopo una grande vittoria, come dopo una grande sconfitta, bisogna comunque ricominciare da capo, rimettersi di nuovo a lottare. «Mai sentirsi migliori degli altri» sottolineava, invitandoli a seguire il suo esempio: lui si era sempre considerato un dilettante, nello sport come nel cinema e in tutti gli altri ambiti che gli era capitato di frequentare nella vita, lo riteneva una

ricchezza, «perché sentirsi dilettanti ci rende consapevoli dei nostri limiti». Quando mi presentai con un bloc-notes e una penna per intervistarlo, stette al gioco e accettò di rispondere a tutte le domande che avevo preparato. Erano le classiche grandi domande che ciascuno di noi prima o poi finisce per porsi: con una punta di arroganza, credevo di conoscerlo così bene da sapere già le risposte, ma non ero certa di avere ragione. Volevo «la versione di Bud», la più sincera possibile. Eccola. Clinica, interno giorno. Papà è a letto, seduto, con un pigiama blu che si intona con i suoi occhi. Io gli siedo accanto, su una di quelle seggioline da ospedale che nessuna imbottitura riesce a rendere comode. CRISTIANA Buongiorno papino! Arrivato alla veneranda età di ottantasei anni, c’è qualcosa che avresti voluto fare e non hai fatto? PAPÀ Sì, sarei voluto andare sulla Luna! Per il resto sono soddisfatto della mia vita, ho fatto talmente tante cose che non riesco a capacitarmi di averle fatte tutte, e comunque ho ancora tanti progetti da realizzare. CRISTIANA Hai dei rimorsi o dei rimpianti? PAPÀ Nessuno! CRISTIANA Tra le tante esperienze che hai vissuto, ce n’è una che consideri la più significativa della tua vita? PAPÀ La trasvolata oceanica con il mio piccolo aereo, King Air 90 della Beechcraft Corporation. Volare mi ha sempre dato un grande senso di libertà e vedere il mondo attraverso le nuvole una pace immensa. Poi sono state straordinarie tutte le mie esperienze sportive. CRISTIANA Se oggi dovessi guidare un giovane, o un tuo nipote, nel trovare la sua strada, che consiglio gli daresti? PAPÀ Non gli darei nessun consiglio, semmai potrei suggerirgli di seguire sempre il suo cuore e la sua passione senza fermarsi, superando di volta in volta gli ostacoli che si presentano: gli ostacoli non sono nemici, contribuiscono a definire il nostro percorso, per questo dedicarsi alla sua passione e affrontare le difficoltà non potrà che portarlo sulla strada giusta. CRISTIANA Hai mai pensato di non farcela a raggiungere un obiettivo?

PAPÀ Sì, mi è accaduto tante volte di dubitare del risultato che avrei ottenuto, ma poi ho deciso di mettere da parte i timori e la paura e di andare avanti lo stesso, e sono successe cose straordinarie. CRISTIANA In questi giorni mi parli spesso della mamma e del suo enorme valore. Qual è secondo te il suo pregio più grande? PAPÀ La mia Mariucci è un carro armato! È minuta, riservata, timida, ma è molto, molto forte, e in più è una persona perbene. CRISTIANA E il mio? PAPÀ Tu sei uguale a me, tesoro mio, devi capire qualche cosa ma vedo che sei sulla strada giusta. Credo che il fatto di essere donna e madre ti limiti, in qualche modo, impedendoti di prendere decisioni che assomigliano di più alle mie. CRISTIANA Indicami il tuo peggior difetto e il tuo maggior pregio.

E qui papà mi stupì: PAPÀ I difetti sono tanti. Potrei dirti che sono pigro, un futtetenne, come dicono a Napoli, uno che non si sofferma sulle cose e guarda sempre avanti. Il più grande pregio, sicuramente la decenza.

Ero convinta che considerasse l’essere un futtetenne un pregio, e uno dei maggiori! In fondo, aveva sempre detto che una sana dose di egoismo sarebbe un bene per il mondo intero perché, se tutti fossimo un po’ più concentrati su noi stessi, avremmo meno aspettative, andremmo meno in cerca di conferme e vivremmo più sereni. Pur non riuscendo a praticare questa filosofia, la condividevo appieno: ecco perché la sua risposta mi incuriosì. Avrei voluto chiedergli chiarimenti, ma era un po’ affaticato e decisi di andare avanti con le domande. A posteriori credo che fosse sempre stato consapevole di essersi potuto permettere determinate scelte grazie alla presenza silenziosa e solidissima di mia madre, ma che allora quella consapevolezza si fosse fatta più acuta e concreta, e contribuisse a rafforzare ancora il loro amore. CRISTIANA Hai vissuto tante esperienze mistiche: qual è stata la più intensa?

PAPÀ Hai ragione, ce ne sono state molte. Quelle che mi sono rimaste più impresse sono gli incontri con gli sciamani in Sudamerica: nonostante le abbia raccontate e ripercorse centinaia di volte, continuo a sentire di non essere mai riuscito a descriverle come davvero meriterebbero. C’è qualcosa che non riesco a comunicare di quei momenti, forse perché non è possibile. CRISTIANA Se potessi vedere e camminare bene in questo momento, quale sarebbe il sogno nel cassetto che ancora non hai coronato e che ti piacerebbe realizzare? PAPÀ Comprerei una roulotte enorme e girerei tutta l’Europa per fare dei concerti con le mie canzoni, che ancora non tutti conoscono. Poi mi ricomprerei un aereo. CRISTIANA Il tuo dolore più grande? PAPÀ La perdita di mio nipote Alessandro, non passa giorno che non ci pensi.

Lo immaginavo, ma non lo sapevo. Quando fece il nome di Alessandro mi salirono istintivamente le lacrime agli occhi: papà non parlava di lui da anni, il dolore era troppo forte. Alessandro, il figlio di sua sorella con cui più condivideva la passione del volo, il copilota che aveva preso sotto la sua ala e di cui aveva la massima fiducia, morì a causa di un incidente aereo, lasciando un enorme vuoto nella vita di papà, e in quelle di tutti noi, compresa la mia. CRISTIANA Cosa ti piacerebbe che si dicesse di te? PAPÀ Mi prendi alla sprovvista, non saprei cosa risponderti… Posso dirti cosa vorrei che non si dicesse: «È morto perché mangiava troppo». CRISTIANA Che cosa non sopporti al punto che ti fa infuriare? PAPÀ Le guerre, la violenza e i soprusi sui bambini, sulle donne e sugli animali. CRISTIANA Che cosa, invece, ti rende subito allegro? PAPÀ La musica, in particolare la musica brasiliana. CRISTIANA

Cos’è la felicità, papà?

Sapevo, con questa domanda, di dargli una gioia. Mio padre era un grande esperto di felicità e amava avere l’occasione di ispirare gli altri in questo senso. PAPÀ La felicità, innanzitutto, non è un fine: è un mezzo con il quale condurre la propria vita. Capito questo, è dietro l’angolo. In concreto, per me sono felici quegli attimi in cui riusciamo a realizzare ciò che ci piace fare. Nel mio caso, per esempio, quando volo. CRISTIANA Credi nella fortuna o nella sfortuna? PAPÀ Come tutti i napoletani, da giovane ero superstizioso, poi con il tempo ho capito che tutto dipende da noi, che la vita è una stronzata e non va mai presa troppo sul serio. Credo nell’andare avanti nonostante tutto e nell’accettare tutto ciò che ci viene offerto, nel bene e nel male. Poi, certo, ci vuole anche molto culo, ma quello, si sa, aiuta sempre gli audaci. CRISTIANA Cosa c’è dopo la morte? PAPÀ Io credo che cominci tutto in quel momento: sono convinto che ciò che chiamiamo «morte» non sia altro che un passaggio di stato. L’anima secondo me è assolutamente e indubbiamente immortale, e continua a vivere anche dopo aver lasciato la Terra. Sai una cosa, tesoro? Sono proprio curioso di sbirciare oltre per scoprire cosa mi aspetta. Se non succede niente mi incazzo! CRISTIANA Qual è il senso della vita, secondo te? PAPÀ La vita non ha senso, l’unico senso è nell’amore e nei legami. Credere in Dio è ciò che mi salva. Mi rendo conto sempre più di come siano nulla tutte quelle cose a cui davo valore: lo sport con le sue affermazioni personali e la popolarità. Chi si inorgoglisce per queste cose, chi insegue solo il successo e la fama è un idiota. CRISTIANA Se avessi la tua secondogenita davanti a te, cosa ti piacerebbe dirle? PAPÀ Che sei bellissima, una delle donne più belle che abbia mai visto, e che ho fatto un gran bel lavoro perché sei anche una donna perbene.

Se avessi mio padre davanti e potessi aggiungere qualcosa a questa intervista, avrei tanta voglia di dirgli grazie: grazie, papà, per i tuoi insegnamenti di vita, per non avermi mai mostrato cosa siano rabbia,

invidia e rancore, e per avermi colmato il cuore con la tua semplicità, la tua gioia di vivere e la tua serenità interiore.

«Solo rimanendo umile come un allievo potrai diventare un maestro»

Aveva cominciato a volare nel 1972, durante le riprese di … più forte ragazzi!. Nel film interpretava un pilota d’aereo, Salud, che si guadagnava da vivere trasportando aerei da una parte all’altra del Sudamerica insieme al collega Plata (Terence). Per giorni rimase alla cloche di comando, fece rullare i motori per poi essere sostituito da un vero pilota travestito da lui, che faceva decollare l’aereo. Nelle pause tra le riprese rimaneva nella cabina di pilotaggio, interrogava il pilota sul momento del decollo, gli chiedeva cosa bisognava fare, dove guardare… Osservava ogni sua mossa, memorizzava le sequenze e l’uso della strumentazione. I giorni passavano e cominciò a covare l’idea di provare a decollare: «Mi chiedevo se sarei stato in grado di pilotarlo» raccontava «in fondo non doveva essere così difficile: bastava seguire le procedure e controllare la strumentazione!». Così un giorno non aspettò la sostituzione: «Ero alla cloche, avevo fatto rullare i motori e avviai le procedure per il decollo che ormai conoscevo. Dopo una corsa sulla pista mi staccai dal suolo: fu uno dei momenti più belli della mia vita, adrenalina ed emozione a mille. Mi sentii libero, tranquillo come quando nuotavo, in pace con il mondo, vicino a Dio. La macchina da presa aveva continuato a riprendere, così fui immortalato nel mio battesimo del volo, di cui vado fiero anche se per tutti fu una bravata senza senso». L’atterraggio, invece, fu il peggiore della sua carriera di pilota, ma non poteva che essere così: «Avevo sottovalutato la complessità di percepire le distanze» raccontava «e non mi affidai totalmente alla strumentazione. L’aereo rimbalzò sulla pista sbattendo da una parte all’altra, sembravo una quaglia, ma per fortuna si fermò senza danni». Al produttore erano venuti i capelli bianchi, mia madre era su tutte le furie, ma lui era felice. Tanto gli piaceva stare in acqua, galleggiare senza peso, quanto adorava gli spazi infiniti del cielo: diceva che stare in alto

regalava una nuova prospettiva. La terra era così lontana, così bella, e ogni cosa – persone, case, oggetti – così minuscola! Stare lassù lo aiutava a ridimensionare pensieri e problemi, a prendere consapevolezza del fatto che tutti siamo piccoli, e della grandezza di Dio. Mio padre aveva ricevuto un’educazione cattolica tradizionale ma era un rivoluzionario anche nel rapporto con Dio. Aveva con lui un dialogo diretto e intimo, al di fuori di ogni canone o rito. Nell’ultimo periodo la sua spiritualità si era fatta più profonda, sfaccettata. Non potendo più muoversi liberamente, dedicava parecchio tempo a indagare il senso della vita studiando testi filosofici e religiosi. In un’esistenza che ai suoi occhi era caos puro, «credere in Dio è ciò che mi salva» diceva. Era come se avesse bisogno di credere, perché sapeva che la fede sarebbe stata un punto fermo, qualcosa cui aggrapparsi nei momenti difficili. Mi parlava spesso del suo grande amore per mia madre, che era cresciuto con il passare degli anni ed era diventato più maturo, quindi più solido. Mi parlava anche dell’amore per me e per i miei fratelli: diceva che l’amore per i figli è il più puro che possa esistere, perché è incondizionato, e senza di esso si sarebbe sentito perso. Gli facevo continue domande. Un giorno gli chiesi di ripercorrere ancora una volta per me l’incontro, in Amazzonia, con una tribù di indios e il loro sciamano. Era una storia che mi raccontava quando ero bambina, non la sentivo da molto tempo, così gliela richiesi. Avvicinai la mia sedia alla sua, mi appoggiai alla sua spalla e lui tirò fuori la vociona di un tempo. Forse gli avevo fatto ripetere questi episodi così tante volte che li aveva imparati a memoria, perché scelse esattamente le stesse parole: «Quando ero nella giungla ho conosciuto alcune tribù che vivevano lì da sempre. Una volta ho fatto amicizia con una Mama, una capotribù. Sosteneva di avere centocinquant’anni. Forse ne aveva sessanta o settanta ma, non sapendo quando fosse nata, si attribuiva quella veneranda età. Aveva il viso segnato da così tante rughe che non si capiva se fosse un uomo o una donna. I capelli erano tagliati corti alla maniera degli indios, ancora neri nonostante l’età, con rare ciocche bianche. Il naso era attraversato da un bastoncino bianco, e altri tre bastoncini le uscivano dalla pelle ai lati e al centro del labbro inferiore. I lobi delle orecchie erano adornati con ciuffi di piume bianche. La Mama mi chiamava quasi tutti i giorni per ripetermi la stessa

storia: «Vedi, se non ci fossi io a far addormentare il sole la sera e a svegliarlo la mattina, voi non potreste fare niente, qua. Spariva tra gli alberi prima dell’alba e si dirigeva decisa in un punto che non mi rivelò mai. Non capivo come facesse a vederci nell’oscurità impenetrabile della giungla: l’intrico dei rami in certi tratti è così fitto da coprire persino il cielo. Al sorgere del sole ricompariva, raggiante e sicura del suo operato, e intonava un canto rituale. All’imbrunire si infilava di nuovo nella foresta, per riapparire solo quando la notte aveva avvolto ogni cosa nel suo mantello. Allora si sedeva a terra e bucava il silenzio della notte con la sua nenia. Pareva che tutto il mondo si fermasse ad ascoltarla: tutta la tribù, gli animali, ogni entità taceva. Allora potevo sentire il respiro della giungla, come se fosse un’unica creatura vivente di cui anch’io in quel momento facevo parte. Difficile non credere al potere della Mama. La sicurezza e la precisione con cui svolgeva il suo rituale lo rendevano magico anche ai miei occhi. E poi quel silenzio mi entrava dentro, mi faceva sentire piccolo piccolo, come se di colpo mi fossi trovato alla presenza di Dio. Si andava a dormire solo quando la Mama aveva finito di cantare. La mattina erano di nuovo le sue parole a darci il buongiorno: solo grazie a quelle tutto prendeva vita e colore. La ringrazio ancora oggi, per avermi mostrato la grandezza del Creato». Un altro racconto che papà era spesso costretto a ripeterci si riferiva agli anni settanta, precisamente al 1974, quando aveva girato in Colombia Porgi l’altra guancia. Aveva sentito parlare di un popolo, gli arawak, che in età precolombiana era diffuso dai Caraibi all’Argentina. Si narra che siano loro i nativi che Cristoforo Colombo incontrò al suo arrivo a Guanahani, l’isola delle Bahamas che per prima lo accolse. Curiosissimo, mio padre decise di visitare il loro villaggio: conquistato dai loro usi, andava a trovarli spesso, per conoscerli meglio. Gli arawak, a loro volta, erano molto interessati a un uomo così insolito, grosso e barbuto, molto diverso da loro, e gli accordarono il permesso di rimanere. Il villaggio sorgeva sulle rive di un fiume. Papà raccontava che non poté resistere a lungo al richiamo dell’acqua: «Il mio primo tuffo incuriosì i bambini: per loro era impensabile che con la mia mole potessi galleggiare. Le loro grida gioiose attirarono gli adulti e fu allora che, per la prima volta, vidi quel piccolo indio che avrebbe cambiato la mia maniera di guardare le cose. Aveva un’età indefinibile, il volto scavato e solcato da rughe. Era un

vecchio! Il viso era dipinto di nero fino agli zigomi, a parte la punta del naso. Dagli angoli della bocca partivano due strisce di un pigmento rosso, che attraversavano le guance in diagonale, fino alle orecchie. Gli occhi rilucevano come quelli di un animale che scruta l’altro nel buio. I lobi erano perforati e abbracciavano enormi ornamenti rotondi. Sulla testa l’indio portava un copricapo adorno di piume verdi di pappagallo, poste a cerchio, come se fossero un’aureola. A dispetto dell’età, aveva un corpo magro e scattante, che incuteva il rispetto delle belve feroci, mentre lo sguardo trasmetteva un senso di pace. Non osai rivolgermi direttamente a lui e, nei giorni successivi, non lo rividi più. Quando entrai in confidenza con altri indios, furono loro a parlarmi dello sciamano». «Cos’è uno sciamano?» gli chiesi quasi in automatico, ripercorrendo il rito di una volta. «Lo sciamano è una specie di mago, un dottore» mi rispose lui sorridendo e stando al gioco. «Su quello specifico sciamano si raccontavano storie incredibili: era un giaguaro, la foresta non aveva segreti per lui; tutto ciò che la componeva e la abitava – alberi, rocce, piante e animali – comunicava con lui. Lo sciamano viaggiava nel buio e riportava le energie a chi le aveva perse. Friggevo per conoscerlo e feci di tutto per incontrarlo, ma sembrava sparito. Un giorno, tra una pausa e l’altra di una ripresa, vagando tra le capanne mi trovai, non so come, in una parte del villaggio che non avevo mai notato e tanto meno visitato, una parte che si inoltrava leggermente nella foresta, quasi nascosta da essa. Mi sentii calamitato verso una capanna, come se mi stessero chiamando. Dall’interno proveniva il suono di due legnetti che sbattono uno sull’altro con una cadenza ritmica che mi pareva di aver già udito, come se fosse un atavico richiamo. Gli altri rumori, quelli provenienti dalle attività del villaggio e della foresta, si attenuarono di colpo, lasciando emergere dentro di me quella sequenza di colpi. Entrato nella capanna, vidi il piccolo indio, gli stessi colori sul volto ma senza il copricapo di piume, intento a battere i due legnetti che avevo sentito. Non erano però solo loro a generare quel suono, ma tutta una serie di ornamenti che portava sul corpo: braccialetti e collane con ninnoli fatti di semi, denti d’animale e piccole ossa. Lo sciamano non sembrò prestare attenzione alcuna alla mia presenza: il suo corpo era lì ma era come se lui non ci fosse. Continuava a percuotere i legni con gesti delicati, quasi impercettibili, come se fosse pervaso da un leggero tremore.

Mi sedetti a terra e mi abbandonai a quel suono. Prima fu la testa a diventare pesante, poi le braccia. Mi sembravano due macigni, avevo l’impressione che non sarei mai riuscito a sollevarle ma ero tranquillo, la sensazione era piacevole. Qualche attimo dopo sentii pesare allo stesso modo tutto il corpo. Al contrario, la mia mente volava: era distaccata da esso al punto che la mia percezione del luogo si andava alterando. Non ero più nella capanna, ma in uno stato di quiete totale, la stessa che provo quando nuoto e mi estranio dal mondo, con una differenza: mi sentivo carico di vitalità, come se stessi accumulando energia. Persi il controllo del tempo. Quando la voce del piccolo indio mi riportò alla sua capanna pensavo fosse trascorsa un’eternità: “A ti no te digo nada, sabes ya todo”, mi disse. Non ti spiego niente, sai già tutto. “Ma ti aspetto: da quando ti ho visto sulla riva del fiume la foresta mi ha parlato di te, gli animali di potere mi hanno parlato di te: tu hai il potere di vedere con il cuore, torna da me quando vuoi, devo insegnarti una strada.” Ero stato invitato a tornare per imparare il cammino verso le vibrazioni positive. Mentre rientravo al lavoro, rinvigorito come dopo un lungo sonno, cercavo di immaginare come raccontare alla troupe la verità senza passare per un bugiardo, ma mi resi conto che non ce n’era bisogno: erano passati solo pochi minuti!» Quando, per l’ennesima volta, ripeté le parole «A ti no te digo nada, sabes ya todo» assunse l’espressione di orgoglio che così bene avevo imparato a conoscere. Era fierissimo di quel riconoscimento delle sue qualità umane avvenuto da parte di un indio incontrato nella foresta, un indio «magico», uno sciamano, del tutto indifferente ai suoi record sportivi o alle sue imprese cinematografiche. Non saprei dire chi fu di noi due, al termine della storia, a rievocare un altro colpo di genio di mio padre. Da quel viaggio era tornato con una canoa lunga circa otto metri, scavata in un tronco d’albero, acquistata dagli arawak. L’aveva pagata uno sproposito, e uno sproposito ne era costato il trasporto, ma a suo dire era stato anche il modo migliore per ringraziare gli arawak della loro ospitalità senza offenderli con doni inadeguati. La canoa venne scaricata nella nostra casa al mare, di fronte agli occhi esterrefatti di mia madre. Ci vollero sei persone per trasportarla in spiaggia. Era pesantissima, tutta nera, con il bordo dipinto in maniera irregolare di giallo e rosso. Io e i miei fratelli insistemmo per metterla in acqua e provammo a

salirci, senza riuscire a mantenere l’equilibrio per più di un secondo. Papà, che aveva visto come la usavano gli indios, si prodigava in consigli. Alla fine decise di darci una dimostrazione pratica, così salì deciso sulla canoa e la spinse verso il largo, remando. Eravamo tutti stupiti, ma di lì a pochi attimi il nostro stupore si trasformò in una fragorosa risata: la canoa si cappottò e le sue risa si confusero con le nostre. Alla fine della vacanza desistemmo dai nostri intenti e la canoa prima fu un gioco per noi bambini, che facevamo a gara a chi riusciva a mantenere l’equilibrio più a lungo, poi venne trasformata in fioriera, tornando in qualche modo alla terra. Ho assistito tante volte a momenti in cui papà si estraniava per qualche attimo, chiudendo gli occhi; quando li riapriva, era rigenerato. Sembrava dormisse, in realtà entrava in uno stato di autoipnosi. Lo chiamava «il dono dello sciamano» oppure «il dono della foresta», come se fosse stata la natura stessa a metterlo a parte di uno dei suoi più preziosi misteri. Lo fece anche quel giorno: «Adesso mi autoipnotizzo» e chiuse gli occhi. Mio padre amava invitare me e i miei fratelli prima, e i suoi nipoti poi, a ricordarci che nella vita bisogna avere sempre l’umiltà dell’allievo: solo così si può diventare maestri. Ci esortava a imparare da coloro che incontravamo sulla nostra strada e a trarre lezioni da tutto ciò che accade, perché «la saggezza risiede nell’apprendere da tutte le cose». Anche se non ho mai capito come autoipnotizzarmi (ma sono ancora in tempo), posso dire di aver imparato da lui a percepire l’energia che permea tutto il Creato. Uno sciamano indio non l’ho incontrato mai, ma mio padre, attraverso le sue storie e il suo esempio, mi ha insegnato il potere di un cuore pieno di fiducia, la certezza che la bellezza si manifesta in ogni forma e a ogni età, e che basta saper osservare per coglierla, e io gli ho creduto. A quanto pare, aveva ragione. E anch’io. Rischia di suonare assurdo, ma quello del funerale di mio padre è stato uno dei giorni più belli della mia vita. Folle, vero? Muore tuo padre, dovresti essere distrutta… Invece, per quella sorta di cortocircuito emotivo che sospende per qualche tempo gli eventi così dirompenti, generando il dubbio che non siano realmente accaduti, o forse, più banalmente, perché c’era molto da fare, non ho fatto subito i conti con la consapevolezza della sua assenza. Così, mi sono comportata esattamente come lui avrebbe voluto: ho sorriso.

«Non voglio facce tristi» diceva sempre. «Nessuno deve piangere.» Ci siamo vestiti tutti di bianco, perché lui non avrebbe voluto saperci vestiti «da funerale», siamo andati in chiesa e là c’era tanto di quell’amore! Era come se la sua anima rasserenasse l’atmosfera. C’era gente dappertutto: sul sagrato, nelle navate, in ogni anfratto, su ogni gradino. I miei figli, Nicolò e Sofia, insieme ai cugini stringevano mani e ricambiavano centinaia di sorrisi, stupefatti da quella moltitudine, grati per tanto affetto e orgogliosi del nonno. Alla camera ardente ho incontrato un signore in tuta e scarpe da ginnastica, tutto sudato: nel gran viavai l’avevo notato perché sembrava fuori posto. Dopo aver salutato papà si era avvicinato e mi aveva raccontato: «Sono venuto da Napoli in bicicletta», facendomi rendere conto una volta di più di quanto poco conti l’apparenza. La cosa davvero assurda, di fronte a simili manifestazioni d’affetto, sarebbe stata piangere. Disperarmi. Centinaia di persone erano lì per salutarlo e per rendergli omaggio, celebrando la vita bellissima, unica e appassionata che aveva saputo crearsi e sottolineando questo suo ulteriore passaggio. Un passaggio triste, ma comunque parte di quella stessa straordinaria esistenza e, in quanto tale, necessario, più che inevitabile. Un cambiamento, più che una condanna. Nel 2016 mio padre ricevette la visita di due fans: Marcus e Jorgo. Marcus aveva militato nelle forze speciali tedesche, in un reparto addestrato per svolgere le missioni a più alto rischio. Durante un’azione si è rotto due vertebre cervicali ed è stato costretto per un anno a letto, con l’incubo di non poter più tornare a camminare. Durante quell’interminabile periodo, aveva passato ore e ore a guardare in televisione i film di mio padre e di Terence Hill: Marcus sosteneva che l’energia e la forza dei loro personaggi gli avevano trasmesso la motivazione giusta per riuscire, come poi accadde, a guarire. Jorgo invece i loro film li aveva ascoltati: cieco dalla nascita, aveva imparato a suonare le canzoni delle colonne sonore e conosceva interi dialoghi a memoria. Quando cercarono mio padre, gli raccontarono che stavano girando un documentario su di lui, per rendergli omaggio ed esprimergli la loro riconoscenza per ciò che, seppur inconsapevolmente, aveva fatto per loro. Il documentario (Lo chiamavano Bud Spencer, Epo-film, 2017) ripercorre la

sua carriera sportiva, quella cinematografica, e si concentra in particolar modo sui film con Terence. Mio padre appare nell’ultima scena, in cui i due protagonisti riescono a incontrarlo al termine del viaggio che li porta dal loro paese d’origine proprio a casa sua, dove gli doneranno una marionetta che lo raffigura. Come sempre in simili casi, mio padre si commosse e si imbarazzò. Non si capacitava di poter essere importante per qualcuno al punto da spingerlo a compiere un simile tragitto solo per incontrarlo, stringergli la mano e portargli un regalo. Chissà cosa avrebbe detto della statua che gli hanno dedicato a Budapest! Ad assistere all’inaugurazione c’era una folla oceanica: per dar modo alle autorità, alla scultrice e a noi figlie di dire due parole era stato allestito un piccolo palco, altrimenti la stragrande maggioranza delle persone non ci avrebbe né visto né sentito. Quando la statua fu scoperta io e Diamante ci siamo commosse all’unisono nel vedere una versione appena più alta di nostro padre giovane e forte, come tuttora è nel nostro immaginario: la statua lo raffigura nel ruolo di Bambino, che ha interpretato in Lo chiamavano Trinità…, con una sella in spalla e un revolver nella fondina. Ho assorbito l’amore di cui è stato circondato per osmosi mentre era in vita, e oggi per riflesso: in qualità di figlia, sono io (insieme ai miei fratelli e a nostra madre) a ricevere l’affetto, la gratitudine, le strette di mano, i sorrisi e le centinaia di messaggi che sarebbero destinati a lui. Come accadeva a mio padre, anch’io mi commuovo e mi imbarazzo, ma per altri motivi. A differenza sua, riesco a intuire perché abbia potuto essere così importante per gli altri: il suo modo di interpretare l’esistenza era magnetico e traspariva in qualsiasi progetto perseguisse, in ogni impresa tentasse. È vero che era un gigante buono, come viene spesso definito, ma era anche un grande saggio.

«Io ci vedo poco, ma intanto parto lo stesso»

A volte, se ci trovavamo in mezzo alla gente e mi avvicinavo per salutarlo, mi dava la mano dicendo: «Buonasera signora». «Papà! Sono io, Cri Cri» gli spiegavo. E lui, senza scomporsi, rispondeva: «Certo, lo so! Non sono mica scemo, stavo solo scherzando!». Era una bugia colossale. Nessuno lo riteneva scemo, ovviamente, ma tutti sapevamo benissimo che non ci vedeva quasi per niente. Negli anni avevamo assistito a episodi esilaranti. Una volta si diresse verso un distributore automatico di bibite e premette un pulsante, sicuro di essere in ascensore. In occasione della consegna dei Telegatti 1989, mentre eravamo dietro le quinte Maria Teresa Ruta approfittò per venire a scambiare due parole: lui, pensando fosse un’ammiratrice sconosciuta, le chiese: «Ciao, come ti chiami?». Gli sussurrai all’orecchio chi aveva davanti, e lui, sornione: «Maria Teresa, mi sorprendi ogni volta che ti incontro», e continuò a conversare con lei come se nulla fosse. Mia madre ricorda che talvolta, quando era dispiaciuta o arrabbiata, lui reagiva in modo inaspettato. Qualche volta ci era rimasta male, poi aveva capito: non era noncuranza o scarsa considerazione, semplicemente non vedeva bene le sue espressioni! In età avanzata non c’era più lente che potesse correggere quel suo difetto, ma lui non se ne preoccupava. Diceva che il mondo visto da un miope è un mondo più bello. «Non vale per tutti, sia chiaro: solo per quelli come me che hanno un cuore leggero.» Non credo di averlo mai visto arrabbiato, nella vita reale. Odiava sentirsi così. La sua filosofia era vincente: «Futtetenne! Non vale la pena arrabbiarsi per i mille futili motivi che la vita ci scodella ogni giorno, è tempo sprecato. Bisogna vivere con leggerezza il dono che ci è stato fatto da Dio».

Aveva intitolato Futtetenne una delle sue canzoni, quella che più spesso negli ultimi anni canticchiava e faceva ascoltare a noi e ai nipoti. Riteneva la musica il mezzo migliore per comunicare: sosteneva che fosse il vero «esperanto», l’unica lingua davvero universale, in grado di essere compresa da chiunque, in tutto il mondo. Adorava ascoltare musica, suonarla e scriverla. Diceva che era la sublimazione dell’umano, perché gli animali possono fare di tutto, ma non la musica. Non conoscere la scrittura musicale: se dovessi indicare un suo rammarico credo sarebbe questo, infatti ha fatto prendere lezioni di pianoforte e chitarra a tutti, in famiglia, figli e nipoti. Avrebbe voluto poter ordinare al suo cervello di creare questo o quel motivo per trasmettere questa o quella sensazione, ma non sapeva comporre. La musica gli usciva come una magia, all’improvviso, con accordi elementari. Anche in questo, era un talento naturale: ha scritto testi per Ornella Vanoni e Nico Fidenco, fra gli altri; alcuni li ha interpretati lui stesso e sono entrati nelle colonne sonore dei suoi film. Altri ancora li ha incisi e tenuti per sé. È il caso di alcune canzoni d’amore che ha dedicato a mia madre, o della stessa Futtetenne: Se t’hanno rubbato o’ core E stai murenn’ d’ammore Perché se ne gghiut’ cu n’at’ E t’à lasciato sulo Futtetenne Sient’ a mme, futtetenne Futtetenne Sient’ a mme, futtetenne Se pe’ impegna ’o capitale Te’ si’ mise in affar’ E gli amici più cari T’hanno fottuto e’ denari Futtetenne Sient’ a mme, futtetenne Futtetenne Sient’ a mme, futtetenne

Se qualcosa va male Poi qualcosa va bene Facimm ’o totale pe’ truva’ a parità Io sogno ’o munn’ quadrato E ’a luna senza colore Pensa solo a ’na cosa pensa solo a l’ammore Se te guard ’o specchi’ E si’ diventat’ vecchio Falle ’nu pernacchio E rid’, rid’, rid’ Rid’ rid’, rid’ e rid’ E futtetenne Penso di aver litigato con lui due sole volte. Una a tavola, nemmeno ricordo perché. Rimase imbronciato cinque minuti, poi mi raccontò una barzelletta. La seconda volta mi è rimasta maggiormente impressa perché l’oggetto del contendere era l’organizzazione del mio diciottesimo compleanno, nel 1978. Eravamo tutti a Il Cairo per le riprese di Piedone d’Egitto e io insistevo per tornare a Roma, per festeggiare con gli amici. Farmi rientrare mentre tutta la famiglia rimaneva in Egitto era fuori discussione. Nella mia visione adolescente del mondo, quello era un dramma: ero intrappolata là, avrei passato la giornata più importante della mia vita con mamma e papà invece che con gli amici. Finito di discutere, uscii dalla stanza furibonda, sbattendo la porta, e corsi a rinchiudermi in camera mia, dalla quale mi rifiutai di uscire per vari giorni. Lasciavo entrare solo Diamante, che tentava in mille modi di consolarmi. Il 28 ottobre, il giorno X, papà venne a chiamarmi dicendosi dispiaciuto per non avermi potuto accontentare ma annunciando una sorpresa. Detestavo essere in lite con lui tanto quanto lui detestava esserlo con me, ma questo non alleviava il mio malessere, anzi: più le ore passavano, più l’evidenza che avrei passato la serata in famiglia si faceva concreta, più diventavo triste. Nel tardo pomeriggio papà insistette perché mi preparassi e uscissi. Venne a prendermi, mi invitò a salire in macchina e mi fece bendare gli occhi da Diamante, che sghignazzava divertita. Quando arrivammo a destinazione mi accompagnò per mano per un tratto, poi mi liberò gli occhi e gridò: «Halla haiala! Avanti i cavalli!». Non riuscivo a credere a quello che vedevo: aveva fatto allestire nel deserto

una gigantesca tenda berbera, decine di cavalieri in costume tradizionale galoppavano intorno a me in sella a cavalli e cammelli, facendo turbinare la sabbia. Ero stata catapultata in una delle novelle delle Mille e una notte! La tenda, rivestita di tappeti e arazzi di tutti i colori, profumava di incenso. Dentro accadeva di tutto: c’erano musicisti, danzatrici, acrobati, mangiafuoco e giocolieri. Entrai con l’applauso di tutta la troupe. Inutile dire che fu il compleanno più bello della mia vita. In altre occasioni avevamo delle schermaglie, come capita tra padre e figlia ma anche tra due Scorpioni nati a tre giorni di distanza (io il 28 ottobre, lui il 31). Lui le chiamava «nuvole», e ha dedicato loro una canzone: «Quando sono con te, tutto il mondo è per me, ma la felicità qualche volta va via, perché qualche parola, forse, mette alla prova l’intesa d’amore che c’è fra noi… Nuvole, nuvole che volteggiano leggere su nel cielo e velano attimi d’amor. Nuvole, nuvole si rincorrono e si fondono, ombre lievi creano sul nostro amor… Ma tutto d’un tratto i tuoi occhi bellissimi accendono i raggi del sol, mi copri di baci e sussurri per me parole di sogno e d’amor. Nuvole, nuvole si disperdono nel ciel che torna tutto limpido come il nostro amor». Per anni non sono riuscita a capire perché dicesse che non sarebbe mai riuscito a essere quello che è stato se non fosse nato a Napoli. Poi abbiamo organizzato una mostra intitolata a mio padre proprio lì, e ho cominciato a frequentare la città, a scoprirne l’anima. Prima l’avevo visitata superficialmente, avevo mangiato la pizza da Ciro e avevo accompagnato papà a ritirare la medaglia della città, nel 2015, non abbastanza per carpirne la magia. Ora ho scoperto, invece, che quella città è un concentrato di energia: la gente ha un’identità fortissima, è orgogliosa delle proprie radici, della propria storia, del cibo e del paesaggio. Nei vicoli, sul porto, sul lungomare si respira il sole: papà diceva che non avrebbe potuto essere diverso da com’era, «essendo nato in un posto dove il sole splende ventiquattro ore al giorno…». Era un’esagerazione, ma anche questo modo di raccontare le cose è molto napoletano: forse i napoletani sentono il sole addosso ventiquattro ore al giorno, cosa che al resto d’Italia è preclusa; forse la vicinanza al Vesuvio, che al contempo ammalia e minaccia, e al mare, che nutre e spaventa, ha insegnato loro a scovare la gioia anche dove apparentemente non c’è. E, se proprio non c’è, a inventarla. Credo sia questo il segreto della loro abilità nella recitazione, che papà ha poi portato

con sé sul set. Mio padre e io ci assomigliamo per tanti versi, ma a me purtroppo manca la capacità di farmi scivolare tutto addosso. Diversamente da lui, sono permalosa e un po’ troppo sensibile. Per questo mi esortava di continuo a non arrabbiarmi: «A che serve arrabbiarsi se non c’è la soluzione?» mi domandava. «Vai oltre! È inutile crucciarsi su ciò che non puoi cambiare: meglio agire con energia su ciò che dipende da te.» Cosa che a lui riusciva benissimo, a me un po’ meno, ma ho ancora tempo per migliorare. Un esempio. Al termine della sua trasvolata oceanica la Florida venne colpita da un uragano, che distrusse completamente il bimotore con cui mio padre aveva volato. Siccome non era assicurato per quel genere di danni, non ricevette alcun risarcimento. Non ne fu felice, ma dopo poco tempo già rideva e scherzava sull’accaduto dicendo: «Questa è la vita!». Se fosse successo a me starei ancora strepitando a distanza di anni. Spesso combattiamo la vita, ci sentiamo feriti, come in balia di qualcosa di più grande di noi (il destino, la sorte o forse Dio) che ci invia prove difficili da superare. Lui invece aveva capito che il segreto per vivere bene sta nell’accettazione. Aveva dell’esistenza una concezione quasi buddhista: dava al presente il giusto valore e prendeva ciò che arrivava senza macerarsi nel rancore o nella rabbia. Siccome era un animo gentile e gioioso, l’ha affrontata con positività, e questa modalità si è rivelata vincente: se la vita è uno specchio, evidentemente chi dà positività ne riceve indietro. Nel suo caso è andata proprio così: ha avuto problemi e difficoltà, come tutti, ma grazie a questo approccio li ha superati splendidamente. Mi piacerebbe imparare di più da lui ad affrontare la vita. Io mi arrovello, mi arrabbio per le ingiustizie o per le mancanze; a lui non succedeva perché non aveva aspettative. Era totalmente concentrato su di sé, sulle sue forze, sul suo ruolo nelle situazioni: non si soffermava su ciò che avrebbe potuto o dovuto ricevere dagli altri. Quando mi vedeva soffrire per qualcosa mentre, a suo avviso, avrei dovuto pensare «futtetenne» e dimenticarmene, mi spiegava che stavo sprecando un sacco di energie, che avrei potuto invece utilizzare utilmente per mettere da parte le mie paure, sedermi, individuare la soluzione migliore al problema e darmi da fare per saltare l’ostacolo. Alla fine è caduto e si è rotto due vertebre. Se non fosse successo sarebbe

ancora qua. Nonostante la prospettiva non proprio allettante, più di tutto era curioso. Aveva fatto così tante esperienze che si stupiva di essere riuscito a viverle tutte. Era soddisfatto. Diceva: «Posso anche andarmene via domani, ho fatto talmente tante cose che va bene così». Un giorno – era in ospedale – mi disse che era orgoglioso di avermi creato. Io mi commossi e lui, immaginando che fossi in pena per la sua salute, mi disse: «Cri Cri, ho raggiunto gli ottantasei anni: lasciatemi passare. Sto attraversando la mia vita, lunga e fortunata e molto spesso felice. Alla mia memoria si presentano avvenimenti, ricordi e persone che ormai non mi appartengono più, non mi interessano più, perché io sono proiettato verso il futuro. Come canta Facundo Cabral, Ser feliz es mi color de identidad». Era curioso di ciò che sarebbe venuto dopo. La nonna mi aveva raccontato una volta che, da piccolo, stava fermo solo quando riceveva un nuovo giocattolo. Non perché ci si divertisse, ma perché lo smontava nell’arco di poche ore. Mio nonno si arrabbiava, gli sembrava che rompesse tutto. Secondo la nonna, però, lui non intendeva rompere le cose, ma solo comprendere come erano costruite, capirle. Così è rimasto sempre: indagava sui grandi misteri della vita, si faceva domande e cercava le risposte, anche se erano difficili da trovare. Non si accontentava dell’apparenza: voleva vedere o scoprire cosa c’era dietro e dentro. Se è vero che tutti – e più di chiunque altro i genitori – sono maestri grazie al loro esempio, mio padre era un grande maestro. La sua capacità di non abbattersi, di non piangersi addosso, di non perdere un istante del suo tempo per cedere al vittimismo o per compiangersi, anche in quella situazione, è il più grande insegnamento che potesse darmi. Guardare sempre avanti, non fermarsi mai: forse era questo il suo segreto. Se il medico mi prescrive le analisi del sangue, io mi butto a letto e lì rimango finché non mi sono ripresa dal pensiero di ciò che potrebbe esserci di negativo nei risultati (e ancora non ho fatto nemmeno il prelievo). Quando ero bambina, a lui diagnosticarono un tumore alla prostata: stava girando un film e dovette rientrare in Italia di corsa per operarsi; rimase in ospedale il minimo indispensabile (pochi giorni), quindi tornò sul set e ricominciò a lavorare, come se niente fosse.

Non si fermava mai. Appena realizzava un progetto, un sogno, un’ambizione, passava ad altro. Era fortunato perché in tutto aveva una qualche forma di talento, o forse aveva talento nel vivere, e tutto il resto veniva di conseguenza. Ciò non significa che fosse superficiale, affatto. Era però capace di navigare. Sapeva molto bene di avere un oceano dentro di sé, ma anche che se si fosse fermato sarebbe affondato, che sarebbe riuscito ad attraversarlo solo rimanendo sulla sua superficie. Spiegando le vele e lasciando fare al vento. Caro papà, sto per scrivere le ultime pagine di questo libro e sono incredula. Ho dovuto faticare, e non poco, per rimettere ordine tra le mie emozioni e i ricordi che ci legano, ma una volta vinta la paura della pagina bianca sono stata accompagnata da una sorta di ebbrezza, un friccicore, al pensiero di ritrovarmi per qualche verso ancora una volta in viaggio insieme a te. Le righe più difficili, allora, sono probabilmente quelle che ancora non ho scritto, ma che voglio dire, che devo dire, pena un’incompletezza che non potrei perdonarmi. Ho sempre saputo che eri padrone del tuo destino, ma non immaginavo che lo fossi al punto da decidere tu come e quando andartene. Eppure, sono sicura che sia andata proprio così, che tu abbia scelto di lasciarti andare quando hai capito che un domani non troppo lontano i dolori ti avrebbero impedito di stare seduto, costringendoti a letto. Allora, hai individuato il momento. Siamo una grande famiglia. Ciascuno di noi lavora e ha impegni, in certi casi in città diverse da Roma (mia sorella addirittura vive negli Stati Uniti), quindi non capita spesso che ci troviamo nello stesso posto. Credo sia stato il fato a riunirci tutti quanti, compresa Gaia, con cui spesso hai lavorato, non solo nella stessa casa, ma proprio nella stessa stanza, il 27 giugno 2016, alle 10.30 del mattino. Stavi mangiando una pastina. Eri affaticato, così ho preso piatto e cucchiaio e ho cominciato a imboccarti. Mio fratello era poco distante e stava prodigandosi per te in un modo che non ricordo, quando gli hai detto: «Grazie». Pensai che stessi ringraziando me o Giuseppe, invece stavi ringraziando Dio o forse la vita stessa per l’amore, i dolori, i viaggi, le

avventure, le passioni, il volo e il mare, le polpette e i fagioli, le Olimpiadi, i film e tutto il divertimento. Qualche minuto dopo, hai chiuso gli occhi. Non sai che in pochi attimi io, Diamante e Giuseppe ti siamo volati addosso (chi ti praticava un massaggio cardiaco, chi la respirazione bocca a bocca, chi provava a sollevarti la testa), stretti a te in uno strano intreccio di braccia e di cuori, macchinoso eppure fluido e naturalissimo – come quando, da bambini, ci sollevavi tutti e tre contemporaneamente e non avremmo più saputo dire a chi appartenessero le varie braccia e gambe che spuntavano qua e là da quell’ammasso di padre e figli. Gli istanti successivi sono molto confusi nella mia memoria. Penso sia stata la prima volta che non ti ho creduto. Non potevi essere morto! Ho continuato a massaggiarti il petto anche quando è stato evidente che non c’era più nulla da fare, perché, contro ogni logica e ogni raziocinio, ai miei occhi eri immortale. Tutti noi credevamo che stessi guarendo: eri tornato a casa dall’ospedale, sapevamo che il percorso di recupero sarebbe stato lungo, ma che morissi era fuori discussione. Inconcepibile. Cosa sia accaduto poi non lo saprei ricostruire; non con precisione, almeno. Infatti non ho un vero e proprio ricordo di una coincidenza romantica e delicata, che però ti voglio raccontare. Sai che il tuo primo incontro con Terence è avvenuto nel deserto di Tibernas, in Spagna, sul set del vostro primo film. Assomiglia tanto a un segno del destino che Terence, quando mio fratello lo chiamò per annunciargli che non eri più con noi, si trovasse esattamente lì, dove vi eravate conosciuti. Glielo disse, e aggiunse: «Nulla avviene per caso, la vita è eterna e Bud lo sapeva, per questo l’ha vissuta con gioia». Ogni tanto vado al cimitero con la mamma o i miei fratelli. Puliamo la cappella, portiamo i fiori… ci teniamo che sia tutto in ordine, pur nella consapevolezza che non sei lì. Tu sei qui: dentro di me, nel sorriso di Giuseppe e nel senso di libertà di Diamante. So di essere fortunata: ho ereditato il tuo temperamento agitato e il tuo carattere, quello strano miscuglio di dolcezza ed egoismo e, grazie alla tua filosofia di vita e al tuo spirito, continuano a germogliare nuovi insegnamenti, continuo a vedere ovunque bellezza e poesia. Una volta, stavo scaricando alcuni dei miei quadri dall’automobile che usavi nell’ultimo periodo, e ho sentito il tuo profumo, fortissimo, come se avessi aperto la boccetta in quel momento a un centimetro dal mio naso. Eau d’Orange Verte di Hermès, inconfondibile.

Un’altra volta, uno dei tuoi fan, Filippo, mi ha scritto di aver ricevuto un messaggio da te. Per quanto ne sapevo, eri nell’aldilà: un messaggio? Figuriamoci! Dato che sono curiosa, ho comunque continuato a leggere: «A casa tua c’è una credenza in radica, con uno specchio e una ribaltina. Aprila e, dentro, troverai quattro cassetti, due a destra e due a sinistra. Quando l’avrai individuata, scrivimi e ti dirò dove guardare. Mi raccomando, cercala: è importante». Ho ripassato mentalmente tutti i mobili di casa, mia e tua, e ho concluso che una credenza del genere non c’era. Ho risposto a Filippo spiegandogli che tutto questo era impossibile, visto che la credenza non esisteva. Non mi aspettavo che insistesse, ma l’ha fatto, talmente tanto che un giorno ho cominciato a girare per le stanze osservando con cura tutto il mobilio. Alla fine, sono entrata in camera tua e di mamma e lì, seminascosta dietro una porta, che cosa vedo? Una scrivanietta in radica, con specchio e ribaltina. Apro la ribaltina: quattro cassetti! Ho scritto immediatamente a Filippo, «L’ho trovata», friggendo nell’attesa della sua risposta. Che è arrivata dopo poco: «Apri il secondo cassetto a destra. Dentro ci sono delle lettere legate insieme con un nastro. Lì troverai un messaggio di tuo padre». Sono volata alla scrivania, ho sfilato tutti i cassetti, e le lettere non c’erano: c’erano dei bigliettini legati con uno spago, ma con frasi che non capivo. Superato il primo momento di cocente delusione – per un attimo ci avevo creduto! – ho visto davanti al secondo cassetto una scatola blu. L’ho aperta e, dentro, c’era una fotografia di te abbracciato alla tua mamma. Ho ripensato a quanto la adoravi, alle volte in cui mi raccontavi che lei, quando hai rischiato di rimanere ucciso nel bombardamento della stazione di San Lorenzo, passò le notti successive seduta accanto al tuo letto, a osservarti dormire, facendoti sentire vegliato e accarezzato dal suo sguardo. Con quella fotografia tra le mani sono scoppiata a piangere, senza riuscire a fermarmi. Era un tuo messaggio, papà? Una risposta non ce l’ho. Però è quello che ho visto in questa catena di eventi. Secondo me, mi stavi dicendo: «Sto bene, sono con la mia mamma». Ed è così che mi piace pensarti, oggi: con la stessa innocenza e la stessa luce negli occhi dei bambini, felice, sereno, abbracciato alla tua mamma. Con tutto l’amore del mondo, Cri Cri

APPENDICE

Culinariamente parlando

Il sugo: odoroso, denso quanto basta, era una delle passioni più sconfinate di mio padre. La stragrande maggioranza dei suoi piatti preferiti prevedeva un intingolo inebriante, semplicissimo, i cui ingredienti principali erano la calma e la cura. Chi stava ai fornelli, a suo parere, era un artista: un direttore d’orchestra capace di «trasformare una moltitudine d’ingredienti in un’armonia di sapori e di profumi», come amava dire. Un libro che parla di lui non può non contenere almeno alcune delle sue ricette preferite: ho scelto i suoi piatti più famosi, ma anche alcune ricette della sua infanzia e un suo indiscusso cavallo di battaglia. Buon appetito!

GLI SPAGHETTI ALLA MARIA In assoluto, il piatto preferito di mio padre. Li considerava praticamente un antipasto (un hors-d’oeuvre, come direbbero i francesi), dal momento che riusciva a placare ogni ansia e a disporre pienamente di tutte le sue capacità solo dopo aver ingurgitato una quantità dignitosa di spaghetti, o di linguine, che a volte prediligeva per la loro capacità di assorbire meglio il sugo. Essendo un ottimo cuoco ne preparava in mille modi, deliziando così il suo e i nostri palati, ma i suoi preferiti sono quelli cucinati da mia madre, appunto «alla Maria». Ingredienti per 4 persone: ½ kg di spaghettini o di linguine 1 kg di pomodorini olio extravergine d’oliva a volontà 2-3 spicchi d’aglio sale q.b. peperoncino q.b.

Prendete una quantità esagerata di pomodorini della miglior qualità, tagliateli a metà o anche in quattro pezzi e metteteli in una larga padella, nella quale avrete già messo abbondante olio extravergine d’oliva, due cucchiaini di sale e degli spicchi d’aglio che non farete soffriggere, ma che cuoceranno insieme al pomodoro. Mettete la padella sul fuoco moderato per circa un’ora. Cuocete gli spaghetti in acqua salata (2 cucchiai), scolandoli un minuto prima del tempo di cottura suggerito (per mio padre la pasta doveva essere al dente!), riversateli nella padella con il sugo e mescolate per condirli al meglio. Se la padella è di buona fattura e siete tra amici, portatela a tavola così com’è e, se lo gradite, spolverizzate con un po’ di peperoncino: vedrete che gli amici vorranno tornare. A questa ricetta semplice ma gustosissima (parola di papà), si possono aggiungere dei capperi (non sott’aceto ma sotto sale, precedentemente sciacquati), delle olive nere tagliate a pezzetti, dei pinoli, o tutti questi ingredienti insieme.

FAGIOLI ALLA BUD Per esigenze cinematografiche papà si era ritrovato a dover mangiare una quantità industriale di fagioli. La cosa non lo addolorava affatto, anzi, soprattutto perché aveva perfezionato una ricetta saporita e appetitosa cui si dedicava religiosamente tra un ciak e l’altro, per renderla sempre più sublime. La persona incaricata di preparare i fagioli alla Bud, rigorosamente a ridosso della scena, era Ida, la sua sarta, che in cucina era un fenomeno. La scelta stessa di affidare questo importante compito a lei era stata molto curata: immaginate di dover mangiare chili di fagioli per esigenze di copione, preparati da un pessimo cuoco! Per mio padre sarebbe stato inaccettabile, gli avrebbe rovinato la giornata. Ingredienti per 4 persone: 500 g di fagioli cannellini 450 g di passata di pomodoro ½ carota ½ cipolla 1 costa di sedano olio extravergine d’oliva q.b. sale q.b. peperoncino q.b. Per prima cosa, occupatevi dei fagioli: se li avete secchi dovrete prima lasciarli in ammollo e poi lessarli in acqua salata per circa due ore. Quando saranno cotti (o se li avete già pronti), passate alle altre fasi della ricetta. Se avete una padella di terracotta, è il momento di utilizzarla: renderà il piatto strepitoso. Tritate finemente gli odori e fateli soffriggere in abbondante olio extravergine d’oliva. Quando saranno dorati aggiungete la passata di pomodoro e coprite con il coperchio. Lasciate cuocere per circa 10 minuti.

Versate i fagioli nel sugo caldo, mescolate bene e lasciate cuocere per altri cinque minuti. Aggiungete il peperoncino a piacere e servite.

IL SARTÙ DI RISO Il sartù di mia nonna Rina era un classico dei nostri pranzi della domenica, proprio perché papà lo adorava. Per questa ragione abbiamo continuato negli anni a cucinarlo sotto precise direttive di papà che, mentre verificava che rispettassimo alla lettera la ricetta originale, ci raccontava l’origine del piatto, utilizzando sempre le stesse parole: «Nel periodo murattiano il dialetto napoletano acquisì molte parole francesi: fu così che monsieur (il titolo spettante al cuoco di palazzo) divenne monsù, che gateau (dolce) divenne gatò e che surtout, il più importante di tutti, quello che sta sopra a tutti, divenne sartù». Ingredienti per 4 persone: 500 g di riso Carnaroli pangrattato q.b. sale q.b. Per il sugo 350 g di carne macinata di vitello 1,6 kg di pelati 1 cipolla 1 bicchiere di vino bianco 1/2 bicchiere di olio extravergine d’oliva Per le polpette 600 g di carne macinata (200 g di vitello, 200 g di maiale, 200 g di vitellone) 3 uova 150 g di pane raffermo 50 g di Parmigiano Reggiano sale q.b. pepe nero q.b. pangrattato q.b. 500 ml di olio di semi per friggere Per il ripieno 300 g di salsiccia luganega 400 g di pisellini 400 g di funghi 300 g di provola affumicata a dadini 125 g di mozzarella a dadini

1 cipolla sale q.b. olio extravergine d’oliva q.b. Per preparare il sartù dovete innanzitutto armarvi di entusiasmo e di pazienza, visto che la ricetta prevede diverse fasi ed è abbastanza lunga e complessa. Prima di tutto, occupatevi del sugo: fate soffriggere la cipolla tritata nell’olio fino a doratura. Unite i 350 grammi di macinato di vitello: quando sarà rosolato, sfumate con il vino bianco. Aggiungete i pelati e cuocete a fuoco lento per almeno tre ore. Quindi, dedicatevi alle polpette: mettete tutta la carne macinata in una ciotola, aggiungete le uova, il sale, il pane inumidito con acqua o latte e sbriciolato. Unite anche il Parmigiano (3 cucchiai) e un pizzico di pepe. Amalgamate il composto fino a ottenere un impasto omogeneo. Formate delle polpettine molto piccole (circa 1 cm di diametro) passatele nel pangrattato e friggetele in olio abbondante. Preparate ora i pisellini e i funghi: fate soffriggere un’altra cipolla tritata, quando è dorata unite pisellini e funghi e coprite con acqua. Portate a cottura e salate secondo il vostro gusto. Scottate la salsiccia in acqua per qualche minuto. Infine, lessate il riso in acqua salata per otto minuti e conditelo con il sugo. Siete ora pronti per assemblare il sartù: prendete una teglia dai bordi alti e foderatela con il pangrattato. Dovrete riempirla alternando strati di riso, di ripieno (mozzarella, salsiccia, provola, funghi e pisellini) e di polpette, iniziando e finendo con il riso. Dovrete realizzare almeno 3-5 strati, a seconda dell’altezza della teglia. Infornate per 30 minuti a 200° C. Spegnete il forno e aspettate che il sartù si raffeddi e si compatti prima di servire.

IL SUPPLÌ Un’altra vera passione di mio padre: veniva preparato – come vuole la storia – con gli avanzi del sartù. Papà ci raccontava che la ricetta del supplì è nata per riciclare proprio quegli avanzi: i servi e i cuochi dei signori preparavano per il loro pasto delle pallette di riso con brandelli di mozzarella e li friggevano, finché un giorno, scoperti, dovettero condividere i supplì con i «piani alti». I signori ne rimasero deliziati e non smisero di richiederli, e fu così che il supplì soppiantò nella quotidianità il sartù, che è molto più complicato da realizzare. Ingredienti per 4 persone: 200 g di riso Carnaroli 150 g di passata di pomodoro 125 g di mozzarella 2 uova pangrattato q.b. olio di semi per friggere sale q.b. pepe nero q.b.

Parmigiano Reggiano q.b. I supplì generalmente si preparano con il riso al sugo avanzato dal pasto precedente. Se invece dovete prepararlo, unite al sugo di pomodoro il riso e un bicchiere d’acqua, portate a ebollizione e fate cuocere a fiamma lenta, aggiungendo acqua o brodo se si dovesse asciugare eccessivamente. Quando il riso ha assorbito tutto il sugo, salate (due cucchiaini), aggiungete un pizzico di pepe e mantecate con 2 cucchiai di parmigiano prima di lasciarlo intiepidire. Sbattete le uova e tagliate a dadini la mozzarella. Prendete una manciata di riso con le mani e adagiate al centro un pochino di mozzarella, chiudendo poi il tutto in modo tale da avere una polpetta dalla forma ovale. Passate quindi il supplì prima nell’uovo sbattuto e poi nel pangrattato. Scaldate l’olio e friggete i supplì fino a quando non risultano dorati, quindi scolateli, asciugateli dall’olio in eccesso con della carta assorbente e serviteli a tavola.

LE POLPETTE Mio padre non era un grande amante della carne, ma l’istinto ancestrale dell’onnivoro tornava a galla alla vista di un prime rib, un arrosto come lo servono nei ristoranti americani, o di una bistecca fiorentina. Nella quotidianità, la carne per papà doveva essere più lavorata, elaborata. Come piace ai bambini, insomma: era un fan delle salsiccette, dei sugosi arrosticini, delle cotolette, delle polpette, tutto inderogabilmente accompagnato da patate fritte, verso le quali aveva un rispetto reverenziale, dato che gli procuravano autentiche visioni mistiche. Parlando di polpette, non posso non tornare a quando vedevo papà trangugiarne in quantità sorprendenti, durante le pause di lavoro, al ristorante degli studi cinematografici Safa Palatino, poi diventati Mediaset. Un giorno lui e Italo Zingarelli si sfidarono: mangiarono circa un’ottantina di polpette a testa, ma non ricordo chi vinse la gara! I proprietari le preparavano a getto continuo e mantennero il segreto della ricetta, che poi svelarono solo a lui. Ingredienti per 4 persone: 600 g di carne macinata (200 g di vitello, 200 g di maiale, 200 g di vitellone) 3 uova 150 g di pane raffermo 50 g di Parmigiano Reggiano sale q.b. pepe nero q.b. pangrattato q.b. olio di semi per friggere

Mettete tutta la carne macinata in una ciotola, aggiungete le uova, il sale, il pane inumidito con acqua o latte e sbriciolato, il Parmigiano e il pepe. Amalgamate il composto fino a ottenere un impasto omogeneo. Formate delle polpettine molto piccole (circa 1 cm di diametro) e friggetele in abbondante olio. Una volta dorate, asciugatele dall’olio in eccesso e servitele.

LA ZUPPA DI PESCE Mangiare il pesce per mio padre era un rito, che prevedeva certe regole. Innanzitutto, si doveva mangiare vicino al mare: nelle estati calde o, ancora meglio, negli inverni burrascosi, nei ristorantini che si approvvigionavano direttamente dai pescatori. Amava ricordare quando, in gioventù, andava in vacanza con gli amici sulla Costiera Amalfitana e cuoceva sulla brace i pesci del golfo, sorseggiando un vino meraviglioso, il Caruso. Molti anni dopo, quando comprò il rimorchiatore, la zuppa di pesce divenne uno dei piatti forti di mio padre. Se volete preparare una zuppa di pesce come Bud comanda, sappiate che dovete tenervi liberi per un giorno e mezzo, come faceva lui: altrimenti la zuppa non vale nulla. Se, invece, siete disponibili, chiamate i vostri più cari amici e invitateli a cucinare, come facevamo noi durante le nostre estati all’Argentario. La sera prima si ordinava il pesce: scorfani, gallinelle, palombi, pesce San Pietro, cicale di mare, seppie… Certo che un’aragostina non ci stava male! Il pomeriggio del giorno dopo (quindi niente siesta), controllavamo il pesce, perfezionavamo il lavoro del pescivendolo spinandolo, squamandolo e tagliando a pezzi piccoli i pesci interi. Affinché il lavoro fosse fatto a regola d’arte, tutti eravamo all’opera: mia madre, noi fratelli, i nostri cugini e gli amici. A metà pomeriggio facevamo una pausa per prendere un caffè e fare un bagno in mare. A quel punto, era papà a prendere in mano la situazione. Mentre noi completavamo i preparativi apparecchiando la tavola, tostando il pane e mettendo a raffreddare il vino, lui si occupava della cottura: il profumo della zuppa si diffondeva in tutto il giardino, richiamando i vicini, ai quali era difficile non allargare l’invito. Quando, finalmente, potevamo gustare il piatto, noi ragazzi eravamo già sazi dagli assaggi e ubriachi dagli odori. Ingredienti per 4 persone: 2 kg di pesce misto a piacere (crostacei, scorfano rosso, gallinella, palombo, cicale di mare, seppie, cernia, rana pescatrice e pesce San Pietro) 2 spicchi d’aglio

1 carota ½ cipolla 1 sedano 300 g di passata di pomodoro 25 ml d’acqua 1 bicchiere di vino bianco olio extravergine d’oliva q.b. sale q.b. peperoncino q.b. prezzemolo q.b. Tritate finemente la carota, la cipolla, il sedano e il prezzemolo, quindi mettete tutto a soffriggere in olio extravergine d’oliva. Unite al soffritto la passata di pomodoro e gli spicchi d’aglio, due cucchiaini di sale e peperoncino a piacere. Aggiungete poi il pesce e il vino, alzando un pochino il fuoco. Se dovesse asciugarsi troppo, unite l’acqua. A cottura avvenuta, dopo circa 20 minuti, servite in tavola.

I DOLCI In fondo alla lista, ma certamente non ultimi, ecco i dolci. Non ho ricette di papà da condividere (sosteneva di non essere un bravo pasticciere perché la precisione non era tra le sue doti), ma in compenso i dolci gli piacevano molto. Ricordo che spesso diceva che a descriverli bastava la parola: «Dolce è la primavera, dolce è il sorriso di un bambino, dolce è la dolce metà. Non vi dirò “la dolce vita” perché è un’espressione inflazionata, e poi la vita è tutto fuorché dolce. Ma i dolci, come osservava Monsieur de Lapalisse, sono dolci e tanto vale gustarli». I suoi preferiti erano due classici napoletani: la pastiera e il babà. Sono felice che al Gambrinus di Napoli, oltre a un caffè sopraffino, abbiano dedicato a mio padre un babà speciale: il «babà Bud». Si tratta del classico babà ricoperto da una colata di cioccolato. È squisito, raramente ho assaggiato qualcosa di così buono, e sono certa che papà (a parte mangiarne come minimo dieci) sarebbe orgoglioso di aver dato il nome a qualcosa di così prelibato.

Biografia

Carlo Pedersoli nacque da Rosa, detta Rina, e Alessandro, detto Sasà, il 31 ottobre 1929 a Napoli, in via Generale Orsini 40, nel Pallonetto di Santa Lucia. Era dello Scorpione, con ascendente Scorpione, come anche le figlie Cristiana e Diamante. Il padre aveva ereditato insieme al fratello Giggino una fabbrica di mobili in ferro e una rete di negozi di arredo nel centro di Napoli. La fabbrica sorgeva ai Granili, un quartiere vicino al porto che, purtroppo, durante la guerra venne più volte bombardato. Nel 1943, una bomba rase al suolo l’azienda, spingendo i Pedersoli a lasciare la città. Giggino migrò alla volta di Milano, mentre Sasà scelse Roma. Il giovane Carlo, che aveva già dato dimostrazione di avere una particolare attitudine per il nuoto (a otto anni era iscritto al Circolo Canottieri di Napoli), cominciò a praticare diversi sport: combatté una decina di incontri di pugilato, vincendoli tutti per Ko dell’avversario; su richiesta della sua scuola, l’Istituto San Gabriele, entrò nella squadra di rugby, che quell’anno vinse il campionato nazionale; e infine proseguì con il nuoto, entrando nella Romana Nuoto, con la quale si allenava in primavera e in estate nel Tevere, data la mancanza di piscine. Al suo debutto con la Romana Nuoto divenne campione italiano nei 100 metri a rana per tre anni consecutivi: aveva tredici, quattordici e quindici anni. In quest’ultima occasione, conseguì il suo primo record nazionale: 200 metri rana in 3’21’’3, che lo rese visibile ai tecnici dei club più noti. Nel frattempo, Carlo proseguì gli studi, diplomandosi e iscrivendosi all’università, facoltà di Chimica, nel 1946: aveva appena diciassette anni. L’anno successivo, dopo una decina di esami sostenuti con profitto, si trasferì in Brasile al seguito della famiglia: i suoi genitori speravano di migliorare così le loro condizioni economiche e di poter quindi offrire ai figli migliori possibilità. In Sudamerica sperimentò diversi mestieri

(scaricatore di porto, segretario al consolato italiano, rappresentante alla Dupont, una fabbrica di vernici per rivestimenti in pelle di coccodrillo, operaio in catena di montaggio e bibliotecario), imparando perfettamente il portoghese e lo spagnolo e integrandosi a meraviglia nel tessuto sociale locale. Dopo tre anni, rendendosi conto che le loro speranze non si erano realizzate, i Pedersoli decisero di fare ritorno a Roma. In Italia Carlo riprese gli allenamenti di nuoto sotto l’egida della S.S. Lazio Nuoto, gareggiando nello stile libero e nella farfalla, ed entrando a far parte della squadra di pallanuoto. Al suo debutto in squadra sostituì Aldo Ghira e stupì segnando ben quattro goal, che gli valsero il soprannome Bomber. Nel frattempo si iscrisse nuovamente all’università, Giurisprudenza, credendo di riuscire a conciliare sport ed esami, cosa che si rivelerà impossibile: man mano che la carriera sportiva decollerà, infatti, dovrà accantonare gli studi.

LA CARRIERA SPORTIVA Le prime vittorie importanti risalgono al 1949, quando Carlo partecipò agli Assoluti di Roma, vincendo nello stile libero e nella staffetta. Nel 1950, a Genova, conquistò tre titoli (100 metri stile libero, staffetta 3x100 e 4x100) mentre a Vienna, ai Campionati europei, chiuse quinto nei 100 metri stile libero e quarto con la staffetta 4x200. Nello stesso anno, nuotando nella piscina di Salsomaggiore, segnò un record che rimase imbattuto per oltre dieci anni: fu il primo italiano a scendere sotto il minuto nei 100 metri stile libero. Precisamente, percorse la distanza in 59’’7. Il record inizialmente non fu registrato a causa della mancanza di giudici ufficiali: a Carlo venne quindi chiesto di ripetere la prova e lui riuscì a migliorarsi, concludendo in 59’’5. Nel 1951 partecipò ai Giochi del Mediterraneo ad Alessandria d’Egitto, vincendo due medaglie d’argento, nei 100 metri stile libero e nella staffetta mista 3x100. Nel 1952 prese parte alle Olimpiadi di Helsinki, ma il suo tempo (58’’9) non gli valse la finale nella sua specialità. In compenso, al ritorno in Italia, si classificò terzo nella graduatoria dei cannonieri di pallanuoto, con la

bellezza di ventisette reti, risultato che gli permise di essere convocato, nel 1953, in nazionale. Con il Settebello Carlo si distinse segnando sin dalle prime partite, ma dopo qualche tempo un infortunio lo costrinse a un periodo di pausa. Riprese l’attività sportiva nel 1955, aggiudicandosi con la squadra il primo posto al Giochi del Mediterraneo di Barcellona. L’anno successivo partecipò alle Olimpiadi di Melbourne, finendo undicesimo nella sua specialità e guadagnandosi, insieme ad Angelo Romani, primatista nei 400 metri stile libero, un periodo di residency alla Yale University, negli Stati Uniti, un onore offerto ai migliori atleti. Lì, continuerà a migliorare i suoi tempi, portando il suo record fino a 57’’7. Nel frattempo, grazie alla notorietà che gli deriva dalle vittorie sportive e all’indubbia prestanza fisica, a partire dal 1950 Carlo comincerà a frequentare i set cinematografici come generico, interpretando personaggi con ruoli minimi, che però recitano qualche battuta. In questo modo prenderà parte ad alcune delle maggiori produzioni americane del periodo (come Quo vadis o Addio alle armi). Nel 1957, in coincidenza con il declino della carriera sportiva, cominciò a vendere automobili sportive americane, una sua grande passione insieme a barche e aerei. Mosso dal desiderio di scoprire chi era, e forse bisognoso di vivere una vita più piena e avventurosa, decise di ritornare per un periodo in Sudamerica: partì da solo alla volta del Venezuela (incappando nella defenestrazione del tiranno Marcos Peréz Jiménez), dove lavorò per un anno e mezzo alla costruzione di una strada di collegamento tra Panama e Buenos Aires, la cosiddetta Panamericana. Risalgono a questo periodo i primi incontri con gli indios arawak e i loro sciamani, che lo mettono in contatto con una spiritualità primordiale e purissima, che lo accompagnerà per tutta la vita. Al ritorno dal Venezuela chiese in sposa la fidanzata, Maria Amato, figlia del celebre produttore Giuseppe, detto Peppino, figura centrale del cinema italiano: fu lui a offrire la prima occasione ai fratelli De Filippo e a produrre il primo film di Vittorio De Sica, Rose scarlatte. Amato lavorò con i maggiori nomi del cinema della seconda metà del Novecento: da Walt Disney a Roberto Rossellini, da Ingrid Bergman a Sophia Loren. Fra gli altri, produsse La dolce vita, Ladri di biciclette, Umberto D e Roma città aperta. Carlo e Maria rimasero uno accanto all’altra per oltre cinquant’anni e diedero alla luce tre figli: Giuseppe (1961), sceneggiatore e produttore;

Cristiana (1962), pittrice e scultrice; e Diamante (1972), architetto e interior designer. Da loro nasceranno cinque fantastici nipoti: Nicolò, manager; Alessandro, designer; Carlo, campione di arti marziali miste, Sebastiano, attore; e Sofia, studentessa. Fino al 1964 Carlo lavorò per la società discografica Rca, scrivendo testi per importanti artisti della canzone italiana, come Nico Fidenco e Ornella Vanoni, e interpretandone alcuni, sotto il nome d’arte Carlo Poli (Two Lovers e Je suis nerveux). In quell’anno fondò una sua società di produzione, che realizzò documentari e pubblicità per la televisione.

LA CARRIERA CINEMATOGRAFICA Mentre stava allestendo un ufficio negli studi che allora si chiamavano Safa Palatino, venne contattato dal regista Giuseppe Colizzi, che lo cercò per un film nel quale aveva investito tutta la sua genialità e anche tutti i suoi soldi. Era il 1967 e il film era Dio perdona… io no! Colizzi cercava un attore grande, grosso e atletico. Carlo inizialmente rifiutò, ma dopo una breve trattativa decise di accettare, visto che aveva bisogno di soldi. Sul set di quel film, in Spagna, Carlo conobbe Mario Girotti, con il quale creerà una coppia cinematografica inossidabile, che accompagnerà (per ora) tre generazioni. Secondo la moda del momento, i due americanizzarono i loro nomi in Bud Spencer e Terence Hill. Dio perdona… io no! ebbe un tale successo che la coppia venne immediatamente arruolata per due sequel: I quattro dell’Ave Maria (1968) e La collina degli stivali (1969). Oltre alle pellicole di Colizzi, Bud e Terence vagliarono innumerevoli altre proposte di lavoro e, per fortuna, o per fiuto, accettarono un copione dal titolo Lo chiamavano Trinità…, per la regia di E.B. Clucher (pseudonimo di Enzo Barboni), che scrisse anche il soggetto. Il film uscì nel 1970, consacrandoli a livello internazionale, e l’anno successivo venne proposto il sequel, … continuavano a chiamarlo Trinità. Negli anni successivi recitarono insieme in altri film campioni d’incasso (tra i quali … più forte ragazzi!, … altrimenti ci arrabbiamo!, Porgi l’altra guancia e I due superpiedi quasi piatti) e, a tratti, lavorarono per conto proprio, spinti dal desiderio di esplorarsi in progetti individuali. Carlo realizzò la serie del commissario Piedone insieme a Enzo Cannavale, grande interprete napoletano e grande amico, e girò con Giuliano Gemma

Anche gli angeli mangiano fagioli. Inoltre, in due occasioni, interpretò uno sceriffo extraterrestre (Uno sceriffo extraterrestre… poco extra e molto terrestre, del 1979, e Chissà perché… capitano tutte a me, 1980), produzioni che per questioni d’agenda resero difficile la realizzazione con Terence di un progetto condiviso, che vedrà la luce solo nel 1994, con Botte di Natale. La passione per la musica lo portò a dilettarsi con il sax in Detective Extralarge e a scrivere e interpretare alcuni dei più celebri brani delle colonne sonore dei suoi film, come El indio chaparral (in Lo chiamavano Bulldozer), Grau Grau Grau (in Io sto con gli ippopotami), La la la la la la (in … altrimenti ci arrabbiamo!) e Banana Joe per l’omonimo film. La carriera cinematografica proseguì a gonfie vele fino agli anni duemila, all’inizio dei quali fu coronata dalla partecipazione in Cantando dietro i paraventi di Ermanno Olmi, al quale la nipote di Carlo, Gaia Gorrini, lavorò come aiutoregista. Questo ultimo film fu un’esperienza di cui Carlo è andato sempre fiero e che l’ha condotto a vincere, nel 2010, il David di Donatello alla carriera. Nel 1972, durante le riprese di … più forte ragazzi! si innamorò dell’aereo dipinto di rosa che avrebbe dovuto pilotare per finta e che, invece, pilotò per davvero. La passione per il volo lo accompagnò fino a quando, per limiti di età, non è stato costretto a rimanere a terra. Prese prima il brevetto di pilota di aerei jet, quindi la licenza per pilotare elicotteri in Italia, Svizzera e Stati Uniti. Nel 1981 fondò la Mistral Air, la prima compagnia di charter e di trasporto merci e posta aerea in Italia, che fu poi venduta a Poste Italiane: si trattò della sua seconda esperienza imprenditoriale dopo la Baltro Italiana (1976), con la quale produsse una linea d’abbigliamento per bambini disegnata da lui. Dopo una vita vissuta al massimo ed esplorata in tutte le sue innumerevoli sfaccettature, Carlo Pedersoli è mancato il 27 giugno 2016, a ottantasei anni. Il 29 giugno, in Campidoglio, è stata allestita la camera ardente, che ha ricevuto la visita di centinaia di persone desiderose di salutarlo e ringraziarlo per aver lasciato un segno positivo nelle loro vite. Il funerale si è tenuto il 30 giugno nella chiesa degli Artisti: all’uscita dalla chiesa, il feretro è stato salutato con una canzone, Dune Buggy, la colonna sonora di … altrimenti ci arrabbiamo!

PALMARÈS DA NUOTATORE Giochi olimpici 1952, Helsinki: 100 metri stile libero: eliminato in semifinale (58’’9) staffetta 4x200: eliminato in batteria (9’17’’9; frazione: 2’17’’5) 1956, Melbourne: 100 metri stile libero: eliminato in semifinale (59’’) Campionati europei 1950, Vienna: 100 metri stile libero: quinto (1’01’’2) staffetta 4x200: quarto (9’33’’5) Giochi del Mediterraneo 1951, Alessandria d’Egitto: 100 metri stile libero: argento (59’’9) staffetta 4x200: argento (3’23’’) Campionati italiani 1949: 100 metri stile libero: oro staffetta mista 3x100: oro 1950: 100 metri stile libero: oro staffetta mista 3x100: oro stile libero 4x200: oro

1951: 100 metri stile libero: oro 1952: 100 metri stile libero: oro staffetta mista 3x100: argento 1953: 100 metri stile libero: oro staffetta mista 4x100: oro 1955: 100 metri stile libero: argento stile libero 4x100: argento staffetta mista 4x100: argento 1956: 100 metri stile libero: oro (sia agli estivi sia ai primaverili) stile libero 4x200: bronzo staffetta mista 4x100: bronzo 1957: 100 metri stile libero: argento

PALMARÈS DA PALLANUOTISTA Giochi del Mediterraneo 1955, Barcellona: oro (3 vittorie, 0 sconfitte)

FILMOGRAFIA COME CARLO PEDERSOLI

Quel fantasma di mio marito, di Camillo Mastrocinque (1950) – non accreditato Quo vadis, di Mervyn Le Roy (1951) – non accreditato Siluri umani, di Antonio Leonviola (1954) Un eroe dei nostri tempi, di Mario Monicelli (1955) Il cocco di mamma, di Mauro Morassi (1957) Addio alle armi, di Charles Vidor (1957) – non accreditato Annibale, di Carlo Ludovico Bragaglia e Edgar G. Ulmer (1959) COME BUD SPENCER SENZA TERENCE HILL

Oggi a te, domani a me, di Tonino Cervi (1968) Al di là della legge, di Giorgio Stegani (1968) Un esercito di cinque uomini, di Don Taylor (1969) Dio è con noi, di Giuliano Montaldo (1969) Quattro mosche di velluto grigio, di Dario Argento (1971) Una ragione per vivere e una per morire, di Tonino Valeri (1972) Si può fare… amigo, di Maurizio Lucidi (1972) Torino nera, di Carlo Lizzani (1972) Piedone lo sbirro, di Steno (1973) Anche gli angeli mangiano fagioli, di E.B.Clucher (1973) Piedone a Hong Kong, di Steno (1975) Il soldato di ventura, di Pasquale Festa Campanile (1976) Charleston, di Marcello Fondato (1977) Piedone l’africano, di Steno (1978) Lo chiamavano Bulldozer, di Michele Lupo (1978) Uno sceriffo extraterrestre… poco extra e molto terrestre, di Michele Lupo (1979) Piedone d’Egitto, di Steno (1980) Chissà perché… capitano tutte a me, di Michele Lupo (1980) Occhio alla penna, di Michele Lupo (1980) Banana Joe, di Steno (1982)

Bomber, di Michele Lupo (1982) Cane e gatto, di Bruno Corbucci (1982) Superfantagenio, di Bruno Corbucci (1986) Big Man, di Steno (1988-89), serie televisiva Un piede in paradiso, di E.B. Clucher (1991) Detective Extralarge, di Enzo Castellari (1990-91), Alessandro Capone (1993), serie televisiva Noi siamo angeli, di Ruggero Deodato (1997), serie televisiva Fuochi d’artificio, di Leonardo Pieraccioni (1997) Al limite, di Eduardo Campoy (1997) Hijos del viento, di José Miguel Juárez (2000) Tre per sempre, di Franco di Chiera (2002), film per la televisione Cantando dietro i paraventi, di Ermanno Olmi (2003) Padre Speranza, di Ruggero Deodato (2005), film per la televisione Uccidere è il mio mestiere, di Sebastian Neimann (2009) I delitti del cuoco, di Alessandro Capone (2010), serie televisiva COME BUD SPENCER CON TERENCE HILL

Dio perdona… io no!, di Giuseppe Colizzi (1967) I quattro dell’Ave Maria, di Giuseppe Colizzi (1968) La collina degli stivali, di Giuseppe Colizzi (1969) Lo chiamavano Trinità…, di E.B. Clucher (1970) Il corsaro nero, di Lorenzo Gicca Palli (1971) … continuavano a chiamarlo Trinità, di E.B. Clucher (1971) … più forte ragazzi!, di Giuseppe Colizzi (1972) … altrimenti ci arrabbiamo!, di Marcello Fondato ( 1974) Porgi l’altra guancia, di Franco Rossi (1974) I due superpiedi quasi piatti, di E.B. Clucher (1977) Pari e dispari, di Sergio Corbucci (1978) Io sto con gli ippopotami, di Italo Zingarelli (1979) Chi trova un amico trova un tesoro, di Sergio Corbucci (1981) Nati con la camicia, di E.B. Clucher (1983) Non c’è due senza quattro, di E.B. Clucher (1984) Miami Supercops, di Bruno Corbucci (1985) Botte di Natale, di Terence Hill (1994)

DISCOGRAFIA Album Futtetenne, 2016 Singoli In una nuvola / Ciuf ciuf cia, 1961 Cock a Doodle Doo / My Name Is Zulu (con gli Oliver Onions), 1978 Grau Grau Grau / Freedom (con l’Orchestra Walter Rizzati), 1979 Cara Caravan (con gli Oliver Onions), 1979 Guardian Angels (con l’Orchestra Enrico Riccardi), 1996 Futtetenne, 2003 Canzoni scritte per altri interpreti Cleopatra (testo di Carlo Pedersoli; musica di Alex North); interpretata da Nico Fidenco nell’album Per noi due, 1963 Non mi chiedi mai (testo e musica di Carlo Pedersoli); interpretata da Nico Fidenco nell’album Per noi due, 1963 Ogni sera (testo di Carlo Pedersoli; musica di Carlo Rustichelli); interpretata da Ornella Vanoni nell’album Le canzoni di Ornella Vanoni, 1963 Flying through the Air (testo di Susan Duncan-Smith; musica di Guido e Maurizio De Angelis e Carlo Pedersoli); interpretata dagli Oliver Onions, 1973 Angels and Beans (testo di Susan Duncan-Smith, Cesare De Natale e Carlo Pedersoli; musica di Guido e Maurizio De Angelis); interpretata da Kathy and Gulliver, 1973 Across the Fields (musica di Guido e Maurizio De Angelis, Dandylion, Carlo Pedersoli e Marcello Fondato); interpretata dagli Oliver Onions, 1974

PREMI E RICONOSCIMENTI Premi cinematografici 1973 – premio Goldene Leinwand per … continuavano a chiamarlo Trinità 1974 – premio Goldene Leinwand per Anche gli angeli mangiano fagioli 1975 – premio Bambi per … altrimenti ci arrabbiamo! e Porgi l’altra guancia (insieme a Terence Hill) 1975 – premio Goldene Leinwand per … altrimenti ci arrabbiamo! 1976 – premio Goldene Leinwand per Porgi l’altra guancia 1979 – premio Goldene Leinwand per Lo chiamavano Bulldozer 1979 – premio Jupiter come miglior attore protagonista per Lo chiamavano Bulldozer 1980 – premio Goldene Leinwand per Uno sceriffo extraterrestre… poco extra e molto terrestre e per Io sto con gli ippopotami 1980 – premio Jupiter come miglior attore protagonista per Io sto con gli ippopotami 1989 – Telegatto per il miglior telefilm italiano per Big Man 1990 – premio François Truffaut del Giffoni Film Festival 1992 – Telegatto per il miglior telefilm italiano per Detective Extralarge 1992 – Telegatto, premio speciale per il cinema italiano in televisione (insieme a Terence Hill) 1996 – premio François Truffaut del Giffoni Film Festival 2004 – Globo d’oro Speciale della Giuria 2005 – premio Charlot alla carriera 2010 - David di Donatello alla carriera (insieme a Terence Hill) 2012 – premio Ioma (Italian Online Movie Awards) alla carriera (insieme a Terence Hill) Onorificenze 2008 – Ambasciatore Unesco nel mondo per la difesa dei diritti umani 2008 – Grande ufficiale Ordine al merito della Repubblica italiana

2015 – Cittadinanza onoraria della città di Napoli Altri riconoscimenti 1997 Dall’omonima serie viene tratto il videogioco Noi siamo angeli, il cui personaggio principale è ispirato a Bud Spencer. 2001 Il regista Marco Ponti dedica il suo film Santa Maradona a Bud Spencer e Terence Hill. 2011 La piscina all’aperto a Schwäbisch Gmünd in Germania è ribattezzata «Bud Spencer Bad» (volevano dedicargli un tunnel ma lui ha preferito la piscina). 2016 A Budapest è inaugurato il Bud Spencer Park. Le Isole Salomone in Oceania emettono quattro francobolli dedicati a Bud Spencer. 2017 Le poste tedesche emettono dieci francobolli con l’immagine di Bud Spencer. È inaugurata nell’VIII quartiere di Budapest (Corvin Promenade) una statua alta oltre due metri dedicata a Carlo Pedersoli. Nel villaggio western all’italiana della Miniature Wonderland di Amburgo è posizionata una statuina di Bud Spencer, come icona dell’Italia. Una società bavarese mette in commercio delle statue alte quaranta centimetri raffiguranti Bud Spencer nel ruolo di Bambino, in Lo chiamavano Trinità…

Nello stadio Sports Arena di Budapest un concerto degli Oliver Onions in onore di Bud Spencer richiama oltre dodicimila persone. Viene messo in commercio Bud Spencer & Terence Hill: Slaps and Beans, il primo videogioco ufficiale di Bud Spencer e Terence Hill. In Germania esce un documentario sulla vita di Carlo Pedersoli/Bud Spencer, Lo chiamavano Bud Spencer, di Karl Martin Pold. 2018 La Fondazione Italia-Usa attribuisce a Bud Spencer il premio America alla memoria. La nuova Dune Buggy dedicata a Bud Spencer viene denominata «Bud Spencer Buggy». 2019 A Napoli si tiene una mostra monografica dedicata a Bud Spencer, intitolata Le molte vite del gigante gentile. Sul lungomare di Livorno viene inaugurata una statua a grandezza naturale di Bud Spencer nel personaggio di Bulldozer. A Fontevivo (Parma) una strada viene intitolata a Carlo Pedersoli. In Ungheria esce un documentario sulla vita di Carlo Pedersoli/Bud Spencer, Sulle tracce di Piedone, diretto da Kiraly Levente. E infine… In Germania dal 2001, in Italia dal 2005 e in Ungheria dal 2007 si celebrano annualmente i Bud Spencer Festival. In Venezuela un attore si è cambiato il nome in Bud Spencer Perez. In Germania e Ungheria sono stati aperti ristoranti intitolati a Bud Spencer, i cui menu e allestimenti sono ispirati ai film di cui Bud è stato protagonista. Numerose band musicali hanno preso il nome di Bud Spencer e suonano le musiche dei suoi film: ce ne sono in Germania (Bud Spenzer Heart Chor), in Italia (Bulldozer Band, Dune Buggy Band) e in Ungheria (Spencer Hill Magic Band). Una birra ungherese riporta sull’etichetta un’immagine di Bud tratta dal film Pari e dispari.

In Germania è stata creata la marmellata «Puffin Jam», dal film Chi trova un amico trova un tesoro. In Ungheria Bonduelle commercializza i «Piedone Beans».

Ringraziamenti Ringrazio mia madre per l’amore che mi ha donato durante il mio percorso di vita e per l’attenzione che con me ha dedicato alla stesura di questo libro. Ringrazio Manlio Denaro, senza il quale non avrei mai cominciato a scrivere questo racconto di ricordi.