Sulla guerra 9788842073932

La guerra del Golfo, il Kossovo, l'Intifada, il conflitto arabo-israeliano, l'Afghanistan, l'Iraq. Ci son

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Sulla guerra
 9788842073932

Table of contents :
Indice......Page 224
Frontespizio......Page 5
Il Libro......Page 2
L'autore......Page 223
Ringraziamenti
......Page 9
Introduzione
......Page 13
Parte prima. Teoria......Page 23
1. Il trionfo della teoria della guerra giusta (e i pericoli del suo successo) (2002)......Page 25
2. Due tipi di responsabilità militare (1980)......Page 45
3. Etica dell’emergenza (1988)......Page 54
4. Terrorismo: una critica delle scusanti (1988)......Page 72
5. La politica del salvataggio (1994)......Page 87
Parte seconda. Casi......Page 101
6. Giustizia e ingiustizia nella guerra del Golfo (1992)......Page 103
7. Kosovo (1999)......Page 117
8. L’«intifada» e la Linea verde (1988)......Page 122
9. Le quattro guerre tra Israele e Palestina (2002)......Page 131
10. Dopo 1’11 settembre: cinque domande sul terrorismo (2002)......Page 148
Sì agli ispettori, no alla guerra (settembre 2002)......Page 161
Il modo giusto (gennaio 2003)......Page 170
Ciò che potrebbe fare una picco la guerra (marzo 2003)......Page 176
Allora, è una guerra giusta? (marzo 2003)......Page 179
Occupazioni giuste e ingiuste (novembre 2003)......Page 182
Parte terza. Futuri......Page 189
12. Governare il mondo (2000)......Page 191
Indice dei nomi
......Page 221

Citation preview

«Sostengo che la guerra a volte è giustificabile e anche che la condotta della guerra è sempre

soggetta alla critica morale.

La prima proposizione è negata dai pacifisti, per

i quali la guerra è un atto criminale; la seconda è negata dai realisti, per i quali ‘in amore e in guerra tutto è lecito’ : inter arma silent leges (in guerra, le leggi tacciono)».

Michael Walzer è uno dei più autorevoli pensatori contemporanei sul tema della guerra.

I saggi che compongono questo libro sono

divisi in tre sezioni. La prima affronta temi quali la deterrenza nucleare, l’intervento

umanitario, il terrorismo. La seconda analizza alcune delle guerre più importanti degli ultimi

anni, come la prima guerra del Golfo e le guerre

in Kosovo, Afghanistan e Iraq. Nella terza

Walzer immagina un futuro in cui la guerra potrebbe svolgere un ruolo meno rilevante.

i Robinson ! Letture

Di Michael Walzer nelle nostre edizioni:

La libertà e i suoi nemici nell’età della guerra al terrorismo (a cura di Maurizio Molinari)

Sulla tolleranza

Michael Walzer

Sulla guerra Traduzione di Nane Cantatore

Editori Laterza

Titolo dell’edizione originale Argutng ahout war Yale University Press, New Haven & London, 2004

© 2004, Michael Walzer Prima edizione 2004

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Finito di stampare nel settembre 2004 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-7393-5 ISBN 88-420-7393-8

a JBW, per sempre

Ringraziamenti

A dire il vero, la creazione di questo libro si deve interamente al mio amico Otto Kallscheuer, che ha raccolto per primo que­ sti saggi nel volume pubblicato in Germania col titolo Erklàrte Kriege - Kriegserklàrungen (Sabine Groenewold Verlag, Hamburg 2003). In questa edizione ho poi aggiunto un altro paio di saggi e ne ho spostato uno in una sezione nuova, ma ho sostanzialmente conservato rimpianto di fondo che gli aveva dato Kallscheuer. Non avevo pensato di metterli insieme, fin­ ché non mi ha fatto capire come si sarebbe potuto farlo. Il trionfo della teoria della guerra giusta (e i pericoli del suo successo) è stato presentato originariamente in una conferen­ za organizzata da Arien Mack alla New School University nell’aprile 2002, e poi pubblicato nel numero di «Social Re­ search» di quello stesso inverno. Due tipi di responsabilità mi­ litare era una conferenza tenuta nel maggio 1980 all’accade­ mia militare statunitense di West Point e pubblicato in «Parameters» nel marzo 1981. Etica dell’emergenza era la Joseph A. Reich, Sr., Distinguished Lecture tenuta all’Air Force Academy nel novembre 1988 e fu pubblicata la prima volta come saggio a sé dall’accademia stessa. Terrorismo: una critica del­ le scusanti è comparso nella raccolta curata da Steven LuperFoy, Problems of International Justice, Westview Press, Boulder (CO) 1988. La politica del salvataggio è stato scritto per un’altra conferenza organizzata da Arien Mack alla New School e tenutasi nel novembre 1994, per essere pubblicato prima sul numero dell’inverno 1995 di «Dissent» e poi su «Social Research», sempre nello stesso anno. vii

Giustizia e ingiustizia nella guerra del Golfo è la prefazio­ ne alla seconda edizione di Just und Unjust Wars (Basic Books, New York 1992). Qui ho utilizzato una versione leg­ germente differente, apparsa nel volume curato da David E. DeCosse, But Was It Just? Reflections on thè Morality of thè Persian GulfWar, Doubleday, New York 1992. Kosovo è sta­ to scritto per il numero di «Dissent» dell’estate 1999. L’«intifada» e la Linea verde è comparso in «The New Republic» col titolo The Green Line: After thè Uprising, Israel’s New Border nel settembre 1988. Le quattro guerre tra Israele e Pa­ lestina è stato pubblicato nel numero di ottobre 2002 di «Dis­ sent» e Dopo 1’11 settembre: cinque domande sul terrorismo nel numero invernale della medesima rivista. Sì agli ispettori, no alla guerra è apparso su «The New Republic» nel settem­ bre 2002. Il modo giusto è stato pubblicato nel gennaio 2003 su «Le Monde» e sulla «Frankfurter Rundschau»; la versio­ ne che ho utilizzato su questo volume è uscita a marzo sulla «New York Review of Books». Ciò che potrebbe fare una pic­ cola guerra era un editoriale del marzo 2003 sul «New York Times». Allora, è una guerra giusta? è stato pubblicato on li­ ne sul sito Internet di «Dissent» lo stesso mese, il giorno do­ po l’inizio della guerra. Occupazioni giuste e ingiuste è stato scritto appositamente per il presente volume nel novembre 2003 e pubblicato su «Dissent» nel numero dell’inverno 2004. Governare il mondo è il testo della conferenza in onore di Multatuli tenuta all’università di Lovanio nell’aprile 1999; qui si riprende la versione pubblicata su «Dissent» nell’au­ tunno 2000. Sono grato a tutti i curatori e gli editori che hanno forni­ to lo spazio necessario alle mie argomentazioni, in maniera particolare ai miei colleghi nella rivista «Dissent» e a Marty Peretz e Peter Beinert di «The New Republic», i quali hanno pubblicato i miei saggi anche quando erano fortemente in di­ saccordo con le mie posizioni. Debbo ringraziare molte per­ sone per i loro commenti, critiche e incoraggiamenti, tra cui: vili

Joanne Barkan, Gary Bass, Leo Casey, Mitchell Cohen, Mi­ chael Doyle, Jean Bethke Elshtain, Clifford Geertz, Todd Gitlin, Anthony Hartle, Stanley Hauerwas, Brian Hehir, Stan­ ley Hoffmann, James Turner Johnson, Michael Kazin, Ted Koontz, Terry Nardin, Brian Orend, Bart Pattyn, Jim Rule, Henry Shue, Ann Snitow e Malham M. Wakin. Judy Walzer ha letto la maggior parte di questi saggi, in una versione o nell’altra, e ha segnato a margine le frasi di cui mi sarei pen­ tito (e che ho riscritto). Ame Dyckman ha tenuto traccia di tutte le differenti versioni dei saggi qui raccolti e ha raccolto le autorizzazioni necessarie a ristamparli. Con l’occasione vorrei ricordare anche Martin Kessler, il redattore di Basic Books che lavorò con me sul volume Guer­ re giuste e ingiuste, il quale è largamente responsabile di aver­ mi cacciato in questa faccenda. Penso di essermici cacciato da cittadino e attivista politico, ma è stato Martin il primo a sug­ gerirmi di scrivere un libro e a controllare quello che stavo fa­ cendo negli anni trascorsi a scriverlo.

Introduzione

La celebre frase di Clausewitz, per cui la guerra è la prosecu­ zione della politica con altri mezzi, voleva probabilmente es­ sere provocatoria, ma a me sembra un’owietà. E l’afferma­ zione contraria è altrettanto ovvia: la politica è la prosecuzio­ ne della guerra con altri mezzi. Tuttavia, il fatto che i mezzi siano differenti ha una grande importanza. La politica è una forma di contesa pacifica, mentre la guerra è violenza orga­ nizzata. Tutti i partecipanti, gli attivisti e i militanti sopravvi­ vono ad una sconfitta politica (a meno che il vincitore sia un tiranno, e dunque in guerra contro il proprio stesso popolo), mentre molti partecipanti, tanto militari quanto civili, non so­ pravvivono ad una sconfitta militare - e nemmeno ad una vit­ toria. La guerra uccide, ed è per questo che le discussioni sul­ la guerra sono così intense. La teoria della guerra giusta, che ho difeso in Guerre giu­ ste e ingiuste (1977), e che è stata ulteriormente sviluppata ed applicata nei saggi che costituiscono questa raccolta, è, in­ nanzitutto, una tesi sullo statuto morale della guerra in quan­ to attività umana. Si tratta di una tesi duplice: sostengo che la guerra a volte è giustificabile e anche che la condotta della guerra è sempre soggetta alla critica morale. La prima pro­ posizione è negata dai pacifisti, per i quali la guerra è un atto criminale; e la seconda è negata dai realisti, per i quali «in amore e guerra tutto è lecito»: inter arma silent leges (in guer­ ra, le leggi tacciono). Così i teorici della guerra giusta si pon­ gono in opposizione ai pacifisti e ai realisti, che sono in gran numero, anche se alcuni pacifisti sono selettivi nella loro op­ XI

posizione alla guerra e si sono sentiti alcuni realisti, nel pieno della battaglia, esprimere sentimenti morali. Ma la teoria della guerra giusta non è solo una tesi sulla guerra in generale; essa è anche il linguaggio normale nel qua­ le discutiamo su specifiche guerre. E il modo in cui la maggio­ ranza di noi parla quando partecipa a dibattiti politici sull’op­ portunità di combattere e su come farlo. Idee come l’autodi­ fesa e l’aggressione, la guerra come scontro limitato ai com­ battenti, l’immunità per i non combattenti, la dottrina della proporzionalità, le regole della resa, i diritti dei prigionieri tutti questi argomenti costituiscono il nostro retaggio comu­ ne, il prodotto di molti secoli di discussioni sulla guerra. La «guerra giusta» non è nulla più che una versione teorica di tut­ to ciò, elaborata per aiutarci a risolvere, o almeno a pensare chiaramente, i problemi di definizione e applicazione. Voglio affrontare due critiche alla teoria della guerra giu­ sta, perché le ho sentite spesso - specialmente in risposta ad alcuni dei saggi qui raccolti. Secondo la prima, quelli di noi che difendono e applicano la teoria della guerra giusta mora­ lizzerebbero la guerra, rendendo in questo modo più facile il ricorso alla violenza. Rimuoveremmo lo stigma che dovrebbe essere sempre collegato all’uccidere, ossia a ciò che, sempre e necessariamente, è parte costitutiva del fare la guerra. Quando definiamo i criteri con cui possono essere giudicate le guerre e la loro condotta, apriamo la via a giudizi favore­ voli. Molti di questi giudizi saranno ideologici, di parte, o di carattere ipocrita e, pertanto, soggetti alla critica, ma altri, se­ condo la teoria, saranno giusti: alcune guerre e alcuni atti di guerra si riveleranno «giusti». Come può essere, se la guerra è così terribile? Ma «giusto», qui, è un termine di comodo: significa giu­ stificabile, difendibile, persino moralmente necessario (date le alternative) - e non vuol dire altro. Tutti quelli tra noi che sono d’accordo su ciò che è giusto e sbagliato in guerra, con­ cordano sul fatto che la giustizia in senso forte, nel senso che ha nella società civile e nella vita quotidiana, vada perduta XII

non appena iniziano i combattimenti. La guerra è un’area di coercizione radicale, in cui la giustizia è sempre coperta dal­ le nubi. Comunque, a volte abbiamo il diritto di entrare in quest’area. Da persona cresciuta nella seconda guerra mon­ diale, questo mi sembra un altro punto ovvio. Ci sono atti di aggressione e di crudeltà a cui abbiamo il dovere di resistere, se necessario anche con la forza. Pensavo che la nostra espe­ rienza con il nazismo avesse posto fine a questa tesi, ma essa continua a riproporsi - e qui nascono i disaccordi sull’inter­ vento umanitario, che esamino in alcuni di questi saggi. L’uso della forza militare per fermare i massacri in Ruanda sarebbe stato, dal mio punto di vista, un esempio di guerra giusta. E se questo giudizio «moralizza» la forza militare e rende più facile utilizzarla - beh, vorrei che fosse stato più facile usare la forza in Africa, nel 1994. La seconda critica alla teoria della guerra giusta sostiene che essa fornisce un quadro sbagliato delle guerre. Essa indi­ rizzerebbe la nostra attenzione sulle questioni in gioco imme­ diatamente prima che la guerra inizi - nel caso della recente guerra irachena, ad esempio, sulle ispezioni, sul disarmo, sul­ le armi nascoste, e così via - e in seguito sulla condotta della guerra, battaglia per battaglia: così eviterebbe le questioni più ampie, che riguardano le aspirazioni all’impero e la lotta glo­ bale per accaparrarsi potere e risorse. È come se nell’antichità, riguardo al conflitto tra Roma e una qualche altra città-Stato, i cittadini si fossero limitati a considerare soltanto la violazio­ ne o meno di un trattato, sempre tirata in ballo dai Romani pri­ ma di dichiarare una guerra, senza prendere invece mai in con­ siderazione tutta la storia complessiva dell’espansione roma­ na. Ma se i critici possono distinguere tra le false scuse per una guerra e le sue vere ragioni, perché noialtri non possiamo fare altrettanto? La teoria della guerra giusta non ha limiti tempo­ rali prefissati: può servire per analizzare altrettanto bene una lunga catena di eventi o una breve. Anzi, come potrebbe esse­ re criticata la guerra imperiale se non in termini di guerra giu­ sta? Quale altro linguaggio, quale teoria, può essere utilizzata XIII

per una critica di questo tipo? Le guerre di aggressione, le guerre di conquista, le guerre fatte per estendere le sfere d’in­ fluenza e stabilire Stati satellite, le guerre per l’espansione eco­ nomica: sono tutte guerre ingiuste. La teoria della guerra giusta è fatta per essere criticata. Ma ciò non significa che ogni guerra debba essere criticata. Quando ho difeso la recente guerra in Afghanistan, alcuni dei miei critici sostenevano che ero incoerente, dal momento che mi ero opposto alla guerra americana in Vietnam e a molte delle nostre piccole guerre, dirette e per procura, in America centrale. Ma è come dire che un dottore che diagnostica il cancro ad un paziente è obbligato a fare una diagnosi simile per ogni altro paziente. Gli stessi criteri medici forniscono diagnosi diverse, in casi diversi. E gli stessi criteri morali giu­ dizi differenti, in casi diversi. Comunque, i giudizi sono con­ troversi anche quando siamo d’accordo sui criteri: leggete il mio saggio sul Kosovo (capitolo 7), e poi andate a cercarvi un’opinione differente. Non avrete nessuna difficoltà a tro­ varne una in disaccordo con me, e ciò vale anche per tutte le mie altre prese di posizione. Il fatto che non andiamo d’ac­ cordo, però, non rende le guerre giuste diverse da qualsiasi altro concetto morale (o politico). Valutiamo in modo diver­ so le stesse azioni militari, e anche le stesse elezioni. Siamo in disaccordo sulla corruzione, sulla discriminazione e sulla di­ suguaglianza anche quando parliamo di tutte e tre nel lin­ guaggio comune della teoria democratica. I disaccordi non invalidano una teoria; la teoria, se è valida, rende i disaccor­ di più coerenti e comprensibili. I disaccordi in atto, presi assieme al rapido ritmo dei cam­ biamenti politici, a volte richiedono una revisione della teoria. Mi piace pensare che, fin da Guerre giuste e ingiuste, ho espres­ so delle valutazioni abbastanza coerenti. Però ho cambiato idea oppure ho accentuato diversamente le mie tesi, come mi sembra giusto riconoscere qui. Anche solo di fronte alla quan­ tità degli orrori recenti - con massacri e pulizia etnica in Bo­ snia e Kosovo; in Ruanda, Sudan, Sierra Leone, Congo e Li­ XIV

beria; a Timor est (e prima, in Cambogia e Bangladesh) - so­ no pian piano divenuto più propenso a richiedere l’interven­ to militare. Non ho abbandonato l’atteggiamento pregiudi­ ziale contro l’intervento che avevo difeso nel mio libro, ma ho trovato sempre più facile superarlo. E di fronte alla reiterata esperienza del fallimento dei tentativi di intervento dello Sta­ to, alla nuova emergenza di una forma di politica che gli stori­ ci europei chiamano «feudalesimo bastardo», dominato da bande in lotta e presunti leader carismatici, sono più disposto a difendere le occupazioni militari a lungo termine, sotto for­ ma di protettorati e amministrazioni fiduciarie, e a pensare al­ la costruzione delle nazioni come una parte necessaria della politica da attuare una volta conclusa la guerra. Entrambe queste modifiche al mio modo di pensare mi impongono an­ che di riconoscere la necessità di espandere la teoria della guerra giusta. Lojus ad bellum (che riguarda la decisione di en­ trare in guerra) e lo jus in bello (che tratta la conduzione delle battaglie) sono i suoi elementi standard, elaborati per la prima volta da filosofi e giuristi cattolici nel Medioevo. Ora dobbia­ mo aggiungere ad essi una trattazione dello jus post bellum (giustizia dopo la guerra). Ho scritto una sezione sulla giusti­ zia negli accordi in Guerre giuste e ingiuste, ma è troppo bre­ ve e non inizia nemmeno ad affrontare molti dei problemi che sono emersi in posti come il Kosovo e Timor est e, più di re­ cente, l’Iraq. Qui è necessario lavorare ancora, tanto sulla teo­ ria quanto sulla pratica della pacificazione, dell’occupazione militare e della ricostruzione politica. Ho definito queste discussioni sulla guerra «in atto». Di fat­ to, sono probabilmente infinite. C’è stato uno sforzo per abo­ lire la guerra - ha il suo riflesso nella Carta dell’Onu - trattan­ do l’aggressione come un atto criminale e descrivendo qual­ siasi risposta come «azione di polizia». Questo è ciò che i ci­ nesi chiamano, o erano abituati a chiamare, «rettifica dei no­ mi». Ma non possiamo cambiare la realtà semplicemente cam­ biando il modo in cui ne parliamo, come è evidente nel primo caso del genere: l’azione di polizia delle Nazioni Unite nel xv

1950 in Corea è definita, da chiunque se ne sia occupato a li­ vello storico, una guerra. Eppure questa tendenza continua ad aleggiare. Lo vediamo nelle immediate conseguenze dell’11 settembre 2001, quando molte persone negli Stati Uniti e in Europa insistevano a sostenere che l’attacco fosse un crimine e che non dovessimo andare in guerra (come abbiamo fatto su­ bito dopo, con l’Afghanistan), ma che invece dovessimo chia­ mare la polizia. Ho pensato che ciò equivalesse a dire «chia­ mate il 113» per 1’11 settembre, e che sarebbe stato perfetta­ mente sensato se ci fosse stato qualcuno a rispondere al te­ lefono. In uno Stato globale con un monopolio sull’uso legit­ timo della forza, chiamare la polizia sarebbe la risposta giusta alla violenza. Crimine, ricerca del criminale da parte della po­ lizia, processo e condanna- questi passaggi esaurirebbero l’in­ tero spettro d’azione; leggeremmo delle guerre solo nei libri di storia. Ma non è una descrizione del mondo in cui viviamo, e anche se uno Stato globale dovesse essere il nostro obiettivo (nel saggio conclusivo sollevo qualche dubbio a tale riguardo), è un grave errore fingere di esserci già arrivati. E così siamo condannati a continuare le discussioni sulla guerra: è un’attività necessaria da parte dei cittadini democra­ tici. La teoria della guerra giusta ha avuto, negli ultimi anni, una storia accademica, ma non è questa la storia di cui si dà conto in questo libro. Nessuno di questi saggi è stato pubbli­ cato su una normale rivista accademica. Quasi tutti sono stati scritti per riviste di politica, o in occasione di conferenze ri­ volte a cittadini e soldati (due sono state tenute in accademie militari, e altrettante in conferenze universitarie). Sono tutti atti politici, e ciò scusa le occasionali ripetizioni dello stesso punto; ne ho tagliate alcune, ma non tutte. I teorici della poli­ tica mirano all’originalità, ma la politica è un’arte della ripeti­ zione. «Prova, e provaci ancora» non è una massima che ri­ guarda solo gli attivisti, ma anche i pubblicisti: se un’argo­ mentazione non convince abbastanza persone la prima volta che viene proposta, non c’è altro da fare che ripeterla. I saggi compresi nella Parte prima affrontano questioni XVI

generali come il deterrente nucleare, il terrorismo e l’inter­ vento umanitario; sono in parte tentativi di chiarimento teo­ rico, ma sono anche, ciò che è più importante, atti di impe­ gno politico. Scrivendoli, mi ricongiungevo idealmente ad al­ tre discussioni in corso. Ciò è ancora più vero per i saggi del­ la Parte seconda, scritti tutti in risposta a conflitti specifici. Sono stati pubblicati prima, durante e dopo gli scontri, ma sempre come parte di un dibattito pubblico su un momento e un luogo specifici, e su un insieme altrettanto specifico di linee di condotta politiche o militari. Il saggio conclusivo è il mio sforzo di immaginare un futuro in cui la guerra possa gio­ care un ruolo meno significativo nelle nostre vite. Non è una trattazione utopistica della società internazionale, ma soltan­ to la descrizione di una situazione un po’ migliore di quella odierna. Di fatto, questo è l’obiettivo di molte delle prese di posizione assunte dai teorici della guerra giusta: possiamo opporci al «realismo» ma siamo realistici, come spero dimo­ strino questi saggi. Il motivo per cui si cerca la giustizia an­ che in mezzo alle nubi della guerra è quello di evitare i disa­ stri. Se puntiamo più in alto, e dovremmo farlo, occorre far­ ci guidare da altre teorie politiche. Oltre a tagliare (alcune) ripetizioni, ho anche aggiunto, sempre tra parentesi, alcune annotazioni ai saggi più vecchi o più recenti raccolti qui. Nei casi in cui uno di essi sia stato pub­ blicato in versioni diverse su riviste americane ed europee, o prima su una rivista e poi in un libro, mi sono preso la libertà di scegliere la versione che si facesse leggere meglio oggi. Ho tagliato alcune annotazioni parentetiche, così come alcuni ri­ ferimenti a situazioni locali e contingenti, oggi superati. Un certo numero di articoli presenta un apparato di note, altri no: non ho cercato di fornire un sistema di citazione uniforme. In alcuni punti, ho ripristinato parole o frasi tagliate o cambiate dai redattori. Per il resto, non ho fatto revisioni: lascio i bene­ fici del senno di poi ai miei lettori e ai miei critici.

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Parte terza

Futuri

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Governare il mondo (2000)

Immaginiamo le possibili forme politiche della società inter­ nazionale come se fossero poste lungo un segmento continuo, definito in base al grado di centralizzazione. Ovviamente, ci sono definizioni alternative: anche il riconoscimento e la rea­ lizzazione dei diritti umani potrebbero essere misurati ri­ spetto a un continuum, come potrebbero esserlo la demo­ cratizzazione, lo Stato sociale, il pluralismo e così via. Ma concentrarsi sulla centralizzazione è il modo più rapido per toccare le questioni cruciali dal punto di vista politico e mo­ rale, e soprattutto la classica domanda: qual è il regime mi­ gliore, o il migliore tra quelli possibili? Quali obiettivi costi­ tuzionali ci dobbiamo porre nell’era della globalizzazione? Vorrei presentare sette possibili regimi, costituzioni o for­ me politiche. Lo farò in modo discorsivo, senza elencarli in anticipo; ma voglio elencare i criteri secondo cui verranno va­ lutate queste diverse soluzioni: la capacità di promuovere la pace, la giustizia distributiva, il pluralismo culturale e la li­ bertà individuale. Nell’ambito di questo saggio, dovrò limi­ tarmi a trattare sommariamente alcune forme e criteri; dato che essi si rivelano incoerenti - o almeno in tensione - tra lo­ ro, la mia discussione sarà complicata, ma potrebbe, e senz’altro dovrebbe, esserlo molto di più. E meglio iniziare dai due estremi di questo continuum, in modo da renderne immediatamente visibile l’estensione. Da un lato, diciamo a sinistra (anche se penso che più avanti ci sarà qualche dubbio su questa definizione), si trova uno Sta­ to globale unificato, simile alla «repubblica mondiale» di 171

Kant, con un unico gruppo di cittadini, identico a quello de­ gli esseri umani, tutti dotati degli stessi diritti e doveri. E la forma che prenderebbe la massima centralizzazione: ciascun individuo, ogni persona al mondo, sarebbe collegata direttamente al centro. Un Impero globale, in cui una singola na­ zione dominerebbe su tutte le altre, opererebbe anch’essa a partire da unico centro, ma nella misura in cui i suoi gover­ nanti facessero differenze tra la nazione dominante e le altre, e magari anche tra esse, ciò rappresenterebbe un elemento qualificante del suo carattere centralizzato. La centralizza­ zione dello Stato globale, per contro, non è qualificata. Se­ guendo la tesi di Hobbes nel Leviatano, vorrei dire che que­ sto Stato potrebbe essere una monarchia, un’oligarchia o una democrazia: il suo carattere politico non incide sull’unità. Per contro, su essa incide certamente qualsiasi divisione razziale, religiosa o etnica, sia essa di natura gerarchica, come nel ca­ so imperiale, tanto da stabilire significative disuguaglianze tra i diversi gruppi, o meramente funzionale o regionale. Qual­ siasi realizzazione politica di queste differenze ci sposta a de­ stra lungo il continuum che sto descrivendo. All’estrema destra si trova quel regime, o quell’assenza di regime, che i teorici politici chiamano «anarchia internazio­ nale»; la formula descrive quello che, di fatto, è un mondo al­ tamente organizzato, ma radicalmente decentrato. Le orga­ nizzazioni sono singoli Stati sovrani, e non esiste una legge ef­ fettiva che li leghi. Non esistono autorità o procedimenti glo­ bali per la determinazione delle politiche o nessuna giurisdi­ zione legale generale per sovrani o cittadini. Non solo (dato che cerco di descrivere una condizione estrema): non ci sono gruppi più piccoli di Stati che abbiano accettato una legge co­ mune e che abbiano incaricato agenzie internazionali di farla valere; non esistono organizzazioni stabili di Stati che lavori­ no per mettere in opera politiche comuni che riguardino, ad esempio, le questioni ambientali, il controllo degli armamen­ ti, i movimenti di capitale o qualsiasi altro tema di interesse generale. Gli Stati sovrani negoziano tra loro sulla base dei lo172

ro «interessi nazionali», raggiungono accordi e firmano trat­ tati, ma il loro rispetto non è soggetto al controllo di terze parti. I leader degli Stati si guardano con nervosismo e ri­ spondono alle rispettive politiche ma, da ogni altro punto di vista, i centri decisionali sono indipendenti: ogni Stato agisce per conto suo. Questa non è una rappresentazione della no­ stra situazione corrente: non sto descrivendo il mondo del 2000. Ma siamo certamente più vicini alla destra che alla si­ nistra del continuum. La strategia di questo saggio sarà quella di muoversi a par­ tire dai due lati. Mi muoverò verso il centro, ma da direzioni opposte, in modo da chiarire che non sto descrivendo una storia di sviluppo o di progresso. I diversi regimi o forme so­ no tipi ideali, non esempi storici. E non do anticipatamente per scontato che il regime migliore si trovi al centro, ma solo che non è agli estremi. Anche questo presupposto deve esse­ re giustificato, e così sarà meglio che affronti direttamente le due domande speculari: che c’è di male nella centralizzazio­ ne radicale? e che c’è di male nell’anarchia? La seconda do­ manda è più facile, dato che è la più vicina alla nostra espe­ rienza. L’anarchia conduce regolarmente alla guerra - e la guerra alla conquista, la conquista all’impero, l’impero all’op­ pressione, l’oppressione alla ribellione e alla secessione, quest’ultima a sua volta riporta all’anarchia e quindi di nuovo al­ la guerra. La natura viziosa di questo circolo viene continuamente rafforzata dalle disuguaglianze di ricchezza e potere tra gli Stati coinvolti e dal carattere altalenante di queste di­ suguaglianze (che dipende dalle rotte commerciali, dallo svi­ luppo tecnologico, dalle alleanze militari e così via). Tutto ciò genera insicurezza e paura non solo tra i governanti degli Sta­ ti ma anche tra i loro normali abitanti e l’insicurezza e la pau­ ra sono, come sosteneva Hobbes, le principali cause della guerra. Ma una società internazionale, per quanto anarchica, in cui tutti gli Stati costituenti fossero repubbliche, verrebbe trascinata nello stesso circolo? Kant argomentava che i citta­ 173

dini repubblicani sarebbero stati molto meno disposti ad ac­ cettare i rischi della guerra rispetto ai re che dovevano im­ porre questi rischi ai loro sudditi - e pertanto sarebbero sta­ ti una minaccia minore per i loro vicini1. Vediamo certamen­ te una prova di questa scarsa disponibilità nelle democrazie odierne, anche se non è sempre stata così forte. Allo stesso tempo, essa oggi è qualificata dalla disponibilità ad usare le tecnologie militari più avanzate - che, certo, non fanno cor­ rere grandi rischi a chi le usa, ma che impongono prezzi mol­ to alti ai loro bersagli. Così può darsi, come suggerisce l’esempio della guerra del Kosovo, che le moderne democra­ zie non soddisfino le aspettative pacifiste di Kant: sono di­ sposte a combattere, purché non a terra. Una tesi abbastanza diversa è stata avanzata da alcuni stu­ diosi contemporanei di politica: almeno nei tempi moderni, le repubbliche democratiche non si combattono tra loro. Ma se le cose stanno così, ciò è in parte dovuto al fatto che han­ no nemici comuni e che hanno stabilito forme multilaterali di cooperazione e coordinamento, alleanze per la sicurezza re­ ciproca, che mitigano l’anarchia delle loro relazioni. Si sono spostate, per così dire, sulla sinistra del continuum. Ma non voglio liquidare l’anarchia internazionale senza aver detto qualcosa dei suoi vantaggi. A dispetto dei pericoli di disuguaglianza e di guerra, la sovranità nazionale è un mo­ do di proteggere culture storiche distinte, di carattere a vol­ te nazionale e a volte etnico o religioso. La passione con cui le nazioni senza Stato perseguono la condizione statale e il ca­ rattere che ne deriva dei movimenti di liberazione nazionale riflettono le cupe realtà del Ventesimo secolo, dalle quali è necessario trarre le conclusioni morali e politiche per il Ven­ tunesimo. La sovranità è un mezzo di autodifesa, ed è molto pericoloso esserne privati. Così, la massima forma morale di decentramento dovrebbe essere quella di una società globale in cui ogni gruppo nazionale o etnico-religioso che abbia bi­ sogno di protezione goda effettivamente di sovranità. Ma, per ragioni ben note a tutti, che hanno a che fare con la necessa­ 174

ria estensione territoriale della sovranità, la commistione del­ le popolazioni sul territorio e la distribuzione disomogenea delle risorse sopra e sotto il suolo, dividere il mondo in que­ sto modo sarebbe (come è stato) una faccenda piuttosto san­ guinosa. E una volta cominciate le guerre, le divisioni che ne risultano difficilmente sono giuste o stabili. All’altro estremo del continuum, i problemi sono diversi. La guerra convenzionale sarebbe impossibile in uno Stato glo­ bale radicalmente centralizzato, dato che i suoi attori sareb­ bero scomparsi e non sarebbe più valido nessuno dei motivi per fare guerra: le differenze etniche e religiose e gli interessi nazionali, anzi, ogni tipo di interesse particolare, avrebbero perso la loro rilevanza politica. La diversità sarebbe stata ra­ dicalmente privatizzata. Almeno in linea di principio, lo Sta­ to globale sarebbe costituito solo e unicamente da individui autonomi, liberi, entro i limiti del diritto penale, di scegliere le proprie vite. In pratica, però, è radicalmente improbabile che questo principio costitutivo possa prevalere, e i tipi ideali non do­ vrebbero essere tipi funzionali: devono adattarsi a una realtà immaginabile. Non è plausibile che i cittadini di uno Stato globale siano davvero, tranne che per le loro libere scelte, esattamente uguali tra loro, facendo scomparire nel processo di formazione statale tutte quelle differenze collettive ed ere­ ditarie che oggi generano rivalità e sfiducia. Sicuramente per­ sisterebbero concezioni diverse su come si dovrebbe vivere, ed esse continuerebbero a trovare espressione in stili di vita, culture storiche e religioni, che imporrebbero un forte senso di lealtà e cercherebbero un’espressione pubblica. A questo punto vorrei descrivere di nuovo lo Stato globale: gruppi molti diversi continuerebbero a definire le vite dei loro mem­ bri sotto aspetti significativi, ma la loro esistenza verrebbe ampiamente ignorata dalle autorità centrali; gli interessi par­ ticolaristici verrebbero scavalcati e le richieste di espressione pubblica delle divergenze culturali sarebbero respinte. 175

Non è facile spiegare le ragioni di questo rifiuto: lo Stato globale sarebbe molto simile agli Stati di oggi, solo su una sca­ la molto più grande. Se deve preservarsi nel tempo, anch’esso deve imporre la lealtà ai suoi cittadini e dare espressione ad una cultura politica distintamente propria. Dovrebbe ap­ parire legittimo a tutto il mondo. Data questa necessità, non vedo in che modo ciò possa accogliere in tutta la sua ampiez­ za la gamma delle religioni e delle culture che oggi vediamo intorno a noi. Persino uno Stato globale fortemente impe­ gnato alla tolleranza avrebbe poteri di compromesso limitati dal suo precedente impegno per il «globalismo», ossia il go­ verno centralizzato sul mondo. Dato che alcune culture e le religioni più ortodosse possono sopravvivere solo se gli si consentono gradi di separazione incompatibili con il globali­ smo, la sopravvivenza di questi gruppi sarebbe a rischio: se­ condo le regole dello Stato globale, essi non sarebbero in gra­ do di mantenere e tramandare il loro stile di vita. Questo è il significato che darei all’avvertimento di Kant, per cui una co­ stituzione cosmopolita potrebbe portare a un «terribile di­ spotismo»2 - il pericolo non riguarda tanto gli individui quanto i gruppi. Un regime più autentico di tolleranza glo­ bale dovrebbe fare spazio alle autonomie religiose e cultura­ li, ma ciò comporterebbe uno spostamento verso destra lun­ go il continuum. Ancora una volta, però, voglio riconoscere i vantaggi del lato sinistro, anche se in questo caso sono più ipotetici che reali, dato che abbiamo meno esperienza della centralizza­ zione che dell’anarchia. Ma possiamo generalizzare partendo dalla storia degli Stati centralizzati e supporre che la giustizia distributiva globale possa essere servita meglio da un gover­ no forte, capace di stabilire standard lavorativi e sociali uni­ versali e di spostare le risorse dai Paesi più ricchi a quelli più poveri. Certamente, la volontà di avviare riforme egualitarie potrebbe anche essere assente nella repubblica mondiale proprio come nella maggior parte degli Stati sovrani di oggi. Ma, almeno, ne esisterebbe la capacità: la Comunità europea 176

fornisce alcuni esempi modesti ma non certo insignificanti della ridistribuzione resa possibile dalla centralizzazione del potere. Allo stesso tempo, tuttavia, la forza del centro unico porta con sé la minaccia della tirannide. Spostiamoci ora di un passo dal limite sinistro del continuum, verso un regime globale, con la forma della pax romana, cen­ tralizzato dall’egemonia di una singola grande potenza su tut­ te quelle minori all’interno della società internazionale. Que­ sta egemonia sostiene la pace mondiale, anche se ci sono ri­ bellioni intermittenti, e lo fa pur permettendo un certo gra­ do di indipendenza culturale - magari in una forma simile a quella dei millet ottomani, che garantivano una parziale au­ tonomia legale ai gruppi religiosi. L’autonomia non è sicura, perché il centro è sempre in grado di cancellarla, né essa as­ sumerà necessariamente la forma più desiderabile per ogni specifico gruppo; non è il frutto di un negoziato tra eguali ma viene concessa dal potente ai deboli. Eppure, soluzioni di questo tipo rappresentano il regime di tolleranza più stabile che si conosca nella storia. I governanti dell’impero ricono­ scono il valore (almeno in termini prudenziali) dell’autono­ mia dei gruppi, e questo riconoscimento ha funzionato con grande efficacia per la sopravvivenza dei gruppi. Ma i gover­ nanti, ovviamente, non riconoscono i singoli cittadini in quanto partecipi del governo dell’impero, non li proteggono contro i loro stessi gruppi e non mirano ad un’equa distri­ buzione delle risorse tra i gruppi e gli individui. L’egemonia imperiale è una forma di disuguaglianza politica che solita­ mente produce altre forme di disuguaglianza nella sfera eco­ nomica e in quella sociale in genere. Devo stare attento quando scrivo del potere imperiale, da­ to che sono cittadino del solo Stato al mondo che oggi possa aspirarvi; non è ciò che desidero per il mio Paese, né penso che sia realmente possibile, ma non voglio fingere di credere che la pax americana, per quanto non desiderabile, sia il peg­ gio che possa accadere al mondo oggi (può, invece, esserlo 177

per l’America), e ho invocato un ruolo politico e militare più attivo per l’America in posti come Ruanda e Kosovo. Ma un ruolo di questo tipo è ancora lontano dall’egemonia imperia­ le che, anche se può essere apprezzata per la pace che ha pro­ dotto (o almeno per i massacri a cui può porre fine), non è certo uno dei regimi preferiti. Essa ridurrebbe alcuni dei ri­ schi propri di uno Stato globale, ma non in modo stabile, da­ to che il potere imperiale è spesso arbitrario e capriccioso. E anche se un impero in particolare proteggesse l’autonomia delle comunità, ciò non avrebbe nessuna utilità per gli indi­ vidui intrappolati in comunità oppressive. Muoviamoci ora a partire dall’estremo destro: a un passo dall’anarchia si trova qualcosa di simile alla forma attuale del­ la società internazionale (e che dunque costituisce il meno idealizzato tra i miei tipi ideali). Vediamo oggi nel mondo una serie di organizzazioni globali di tipo politico, economico e giudiziario - le Nazioni Unite, la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale (Fmi), l’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto), il Tribunale mondiale, e così via che servono a modificare la sovranità degli Stati. Nessuno Stato possiede quella sovranità assoluta descritta dai primi teorici politici moderni, che costituiva l’anarchia nel suo sen­ so più forte. D’altra parte, le organizzazioni globali sono de­ boli, i loro meccanismi decisionali sono incerti e lenti, i loro poteri di intervento sono difficili da mettere in atto e, nel mi­ gliore dei casi, hanno un’efficacia soltanto parziale. Le guer­ re tra Stati hanno subito una riduzione, ma non la violenza complessiva. Nel mondo di oggi ci sono molti Stati deboli, di­ visi e instabili, e il regime globale non è riuscito a prevenire guerre civili, interventi militari, repressioni selvagge dei ne­ mici politici, massacri e «pulizie etniche» rivolte contro mi­ noranze della popolazione, né è stata ridotta la disuguaglian­ za globale, anche se i movimenti di capitali attraverso i con­ fini (e anche la mobilità del lavoro, penso) sono più facili che mai - e, secondo i teorici del libero mercato, ciò dovrebbe mi­ gliorare la situazione. Tutto sommato, non si può essere sod­ 178

disfatti dell’attuale stato del mondo, anzi, la combinazione di (molti) Stati deboli e di deboli organizzazioni globali reca svantaggi da entrambe le parti: la protezione delle differenze etniche e religiose è inadeguata e lo è anche quella dei diritti individuali e la promozione dell’eguaglianza.

Dobbiamo allora avvicinarci ancora di più alla centralizza­ zione. Il passo successivo non ci porta, per dire, a un’Onu con esercito e polizia propri, o a una Banca mondiale con una mo­ neta unica. In termini di strategia intellettuale, raggiunge­ remmo meglio questo tipo di dispositivi se partissimo dall’al­ tro lato. Consideriamo invece le stesse forme «costituziona­ li» che abbiamo adesso, rafforzate da una società civile inter­ nazionale molto più forte. I teorici politici contemporanei af­ fermano che la società civile è spesso servita a rafforzare lo Stato democratico; certo, le associazioni che coinvolgono, formano e danno potere agli uomini e alle donne comuni, ser­ vono la democrazia meglio di altri regimi, ma esse probabil­ mente rafforzano ogni Stato che incoraggi invece di soppri­ mere la vita associata. Rafforzerebbero anche le organizza­ zioni internazionali semigovernative che esistono oggi? Sono incline a pensare che, in forme più modeste, lo stiano già fa­ cendo, e che possano fare molto di più in questo senso. Immaginiamo un’ampia serie di associazioni civili - di mu­ tuo soccorso, per la tutela dei diritti umani, la protezione del­ le minoranze, il raggiungimento delle pari opportunità, la di­ fesa dell’ambiente, il progresso sociale - organizzate su una scala molto più vasta rispetto a oggi. Tutti questi gruppi avrebbero centri distinti da quelli dei singoli Stati, operereb­ bero trasversalmente rispetto ai confini nazionali e raccoglie­ rebbero attivisti e sostenitori senza far riferimento alla nazio­ nalità. E tutte sarebbero impegnate in attività di tipo simile a quelle in cui si dovrebbero impegnare anche i governi - e in cui l’opera dello Stato è più efficace se viene sostenuta (o per­ sino iniziata) da cittadini volontari. Una volta che i volontari fossero abbastanza numerosi, farebbero pressione su singoli 179

Stati perché collaborassero tra loro e con le agenzie globali, e il loro stesso lavoro aumenterebbe l’efficacia della coopera­ zione. Ma queste associazioni di volontariato coesistono, nella società civile internazionale, con aziende multinazionali che dispongono di eserciti di professionisti e manager ben paga­ ti e che minacciano di soverchiare tutti gli altri attori globali. E solo una minaccia, e non ancora una realtà - le multinazio­ nali non sono ancora del tutto sfuggite al controllo degli Sta­ ti nazionali - ma non è certo una minaccia immaginaria. E posso descrivere solo un insieme immaginario di forze che la possano contrastare in una società civile ampliata: sindacati multinazionali, ad esempio, e partiti che operino attraverso le frontiere nazionali. Ovviamente, in uno Stato globale o in un Impero mondiale, le multinazionali verrebbero istantaneamente «addomesticate», dato che non vi sarebbe spazio per la loro espansione, né confini da attraversare. Ma questa non è automaticamente una soluzione ai problemi che esse crea­ no: in una società nazionale, proprio come in quella interna­ zionale, esse sfidano il potere di regolamentazione e distri­ buzione delle autorità politiche. C’è bisogno di una risposta pratica e politica, e la società civile internazionale fornisce il miglior luogo possibile per lo sviluppo di queste politiche. Il migliore possibile, ma non necessariamente all’altezza del compito: una caratteristica delle associazioni della società civile è il loro inseguire i problemi: reagiscono alle crisi, ma la loro capacità di prevedere, pianificare e prevenire resta di gran lunga al di sotto di quella dello Stato. E più probabile che i loro attivisti curino con eroismo le vittime di un’epide­ mia, piuttosto che mettere in atto misure sanitarie per la pre­ venzione. Arrivano in zona di guerra appena in tempo per as­ sistere i feriti e dare rifugio ai profughi; lottano per organiz­ zare scioperi contro i salari bassi e le condizioni di lavoro bru­ tali, ma non sono capaci di indirizzare l’economia. Protesta­ no contro catastrofi ambientali che hanno già avuto effetti di­ sastrosi. Anche quando prevedono i problemi futuri, hanno 180

troppo poca forza istituzionale per agire con efficacia; non sono responsabili dello Stato nel suo complesso, e i loro al­ larmi vengono spesso ignorati proprio perché sono conside­ rati irresponsabili. Per quanto riguarda i problemi struttura­ li e a lungo termine della società internazionale - in primo luogo, l’insicurezza e le disuguaglianze - le associazioni civi­ li sono, nel migliore dei casi, dei palliativi: i loro attivisti pos­ sono fare molte buone cose, ma non sono in grado di porta­ re la pace in un Paese lacerato dalla guerra civile o di ridi­ stribuire le risorse ad un livello significativo.

Voglio fare un altro passo partendo dalla sinistra, ma prima riassumerò quelli che abbiamo fatto sin qui. Dato che questo, e quello successivo, ci porteranno verso le possibilità che mi sembrano più promettenti, ho bisogno di caratterizzare, e forse cercare di nominare, quelle meno promettenti che sono già state tratteggiate. Notiamo per prima cosa che il lato de­ stro del continuum è il regno del pluralismo e quello sinistro il regno dell’unità. Non sono soddisfatto di questa descrizio­ ne della destra e della sinistra: ci sono sempre state tendenze pluraliste a sinistra, e sono quelle con cui io mi identifico. Co­ munque, è probabilmente vero che l’unità è stata l’ambizio­ ne dominante dei partiti e dei movimenti di sinistra, e non ha dunque molto senso, almeno in questo caso, baloccarsi con la giustezza della qualifica di destra o sinistra rispetto a que­ sto continuum. Comunque, cominciando da destra, ho escluso tre soluzio­ ni, muovendomi verso il centro; ma, paradossalmente, l’ho fat­ to aumentando il pluralismo degli agenti. Per prima cosa, c’è l’anarchia degli Stati, in cui non esistono agenti efficaci ad ec­ cezione dei governi che agiscono in nome della sovranità na­ zionale. In seguito, ho aggiunto a questi governi una pluralità di organizzazioni politiche e finanziarie internazionali, dotate di un’autorità che limita ma non abolisce la sovranità; e poi, anche una pluralità di associazioni internazionali che agisco­ no attraverso i confini e servono a rafforzare i limiti all’attività 181

degli Stati. In questo modo, abbiamo l’anarchia internaziona­ le e poi due gradi di pluralismo globale. A sinistra, finora ho escluso solo due soluzioni, muoven­ domi nella direzione di una maggiore divisione ma mante­ nendo l’idea di un centro unico. La prima è lo Stato globale, il meno diviso tra i regimi immaginabili, i cui membri sono i singoli uomini e le singole donne. La seconda è l’impero glo­ bale, i cui membri sono le nazioni soggette. L’egemonia del­ la nazione imperiale la separa dalle altre, senza però abolirle. Il passo successivo a partire da sinistra porta con sé la fine della sudditanza: questa nuova soluzione è una confedera­ zione di Stati nazionali, una sorta di Stati Uniti del mondo. La forza del centro, del governo federale, dipenderà in que­ sto caso dai diritti liberamente ceduti ad esso dagli Stati membri e dal carattere diretto o indiretto della sua giurisdi­ zione sui singoli cittadini. I difensori di quelli che gli ameri­ cani chiamano «diritti degli Stati» si pronunceranno per una giurisdizione mediata, con la cessione di meno diritti al cen­ tro. Ovviamente, maggiore sarà il ruolo di mediazione degli Stati membri, più questa soluzione si sposterà verso il limite destro; se la mediazione scomparisse del tutto, ci troverem­ mo di nuovo all’estremo sinistro, allo Stato globale. Per tro­ vare un posto al regime federale, dobbiamo immaginare la ri­ nuncia alla sovranità da parte degli Stati membri e poi una di­ visione funzionale dei poteri garantita costituzionalmente, ta­ le che agli Stati rimangano responsabilità significative e i mez­ zi per assolverle - insomma, una versione internazionale del sistema americano. Un’Onu notevolmente rafforzata, che as­ sorba la Banca mondiale e il Tribunale mondiale, potrebbe avvicinarsi a questo modello, se avesse poteri costrittivi sugli Stati membri che si rifiutassero di obbedire alle sue risolu­ zioni e ai suoi verdetti. Se l’Onu mantenesse la sua struttura attuale, con il Consiglio di sicurezza costituito come ora, la federazione globale sarebbe un’oligarchia o forse, dato che l’Assemblea generale rappresenta una sorta di democrazia, 182

un regime misto. Non è facile immaginare altri tipi di federa­ zione, date le attuali disuguaglianze di forza e ricchezza tra gli Stati. Gli oligarchi non cederanno le loro posizioni, e ogni re­ gime federale efficace dovrebbe adeguarvisi (anche se po­ trebbe, nel lungo periodo, indebolirne il potere). Probabilmente, queste disuguaglianze sono più difficili da superare di qualsiasi differenza politica tra gli Stati. Anche se tutti gli Stati fossero repubbliche, come sperava Kant, la fe­ derazione sarebbe sempre oligarchica, in tutto o in parte, fi­ no a che non cambiasse la distribuzione delle risorse. E in questo caso, oligarchia significa divisione: essa specifica in modo netto il potere del centro. Per contro, il carattere poli­ tico degli Stati membri tenderebbe a divenire sempre più si­ mile: in questo caso, vi sarebbe un movimento verso l’unità o, almeno, verso l’uniformità. Perché tutti gli Stati sarebbero compresi nella stessa struttura costituzionale, tenuti, ad esem­ pio, al rispetto degli stessi codici dei diritti sociali e politici e molto meno in grado di ignorarli rispetto ad oggi. I cittadini che pensassero di essere oppressi si appellerebbero ai tribu­ nali federali, e probabilmente troverebbero una rapida sod­ disfazione. Anche se gli Stati membri non fossero fin dall’ini­ zio delle democrazie, diventerebbero, nel tempo, uniformemente democratici. Da democratico, dovrei trovare questa soluzione più au­ spicabile di quanto non faccia; il problema è che è più pro­ babile che venga raggiunta attraverso la pressione dal centro che non per l’attivismo democratico (per spostare la mia me­ tafora) della base. Una qualche combinazione dei due fattori potrebbe funzionare abbastanza bene. Ma voglio sottolinea­ re che la mia preferenza per la democrazia non arriva a farmi credere che questa preferenza debba essere uniformemente imposta ad ogni comunità politica. La democrazia dev’esse­ re raggiunta attraverso un processo politico che, per sua na­ tura, può produrre risultati diversi. Ogni volta che questi ri­ sultati minacciano la vita e la libertà, è necessario un qualche tipo di intervento, ma non sempre succede, e quando non 183

succede alle diverse forme politiche che emergono deve es­ sere data la possibilità di svilupparsi (e di cambiare). Ma una federazione globale sarebbe in grado di convivere con il plu­ ralismo politico? È molto più probabile che possa farlo con la disugua­ glianza materiale. Un regime federale, probabilmente, ridi­ stribuirebbe le risorse, ma soltanto entro i limiti fissati dai suoi oligarchi (ancora una volta, la Comunità europea forni­ sce dei buoni esempi in questo senso). Quanto maggiori fos­ sero i poteri acquisiti dal governo centrale, tanto maggiore sa­ rebbe la probabilità della ridistribuzione. Ma questo tipo di potere sarebbe pericoloso per tutti gli Stati membri, e non so­ lo per i più ricchi. Non è chiaro come si possa raggiungere l’equilibrio; presumibilmente, questo sarebbe uno dei temi centrali nella politica interna della federazione (e non ci sa­ rebbero altre politiche visto che, per definizione, non ci sa­ rebbe nulla al di fuori di essa). Le garanzie costituzionali avrebbero la funzione di pro­ teggere i gruppi nazionali ed etnico-religiosi. Sembra il pre­ supposto di Kant: «[...] in una lega di popoli [...] ogni Stato, anche il più piccolo, possa aspettarsi sicurezza e diritti [,..]»3. Di fatto, però, soltanto i gruppi che abbiano raggiunto la so­ vranità prima della formazione della federazione avrebbero un posto sicuro al suo interno. E così ci vorrebbero delle pro­ cedure per riconoscere e assicurare i diritti dei nuovi gruppi, come un codice dei diritti per gli individui, indipendente­ mente dalla loro appartenenza. Si può pensare che il regime federale si riveli un protettore dei gruppi e degli individui ec­ centrici - come negli Stati Uniti, ad esempio, in cui minoran­ ze battagliere e individui stravaganti si appellano solitamen­ te al governo federale quando vengono bistrattati dalle auto­ rità locali. Quando quest’appello non funziona, però, gli americani dispongono di opzioni che sarebbero possibili ai cittadini di un’unione globale: possono rivolgersi all’Onu, al Tribunale mondiale o possono andare in un altro Paese. Di­ visioni e pluralismo hanno ancora delle frecce al loro arco. 184

Facciamo ora un altro passo partendo da destra e cerchia­ mo di immaginarci una forma coerente di divisione. Sto pen­ sando alla ben nota anarchia degli Stati, mitigata e controlla­ ta da un triplo strato di agenti non statali: organizzazioni co­ me l’Onu, associazioni della società civile internazionale e unioni regionali come la Comunità europea. E il terzo grado di pluralismo globale e, nella sua versione completamente sviluppata (ideale), offre il maggior numero di opportunità di azione politica per la giustizia, le differenze culturali e i dirit­ ti individuali; allo stesso tempo, presenta il rischio minore di tirannia globale. Ovviamente, le opportunità di azione non sono null’altro di più: non offrono nessuna garanzia, ed è si­ curo che possano sorgere conflitti tra uomini e donne che perseguono valori diversi. Immagino che questo regime pos­ sa fornire contenuti alla politica, nel senso più pieno, e per la più ampia partecipazione dei cittadini comuni. IL CONTINUUM da sinistra: UNITÀ Stato globale/Impero multinazionale/federazione ------------------------------------------------------ ►

da destra: DIVISIONE terzo/secondo/primo grado di pluralismo globale/anarchia

Consideriamo di nuovo le caratteristiche preoccupanti dei primi cinque, e forse dei primi sei regimi: in alcuni di essi a minacciare i nostri valori sono il mondo decentrato e gli Sta­ ti particolaristici che lo abitano (siano essi forti o deboli), in altri il pericolo è costituito dal potenziale di tirannide del nuovo centro. Il problema, allora, è quello di superare il de­ centramento radicale degli Stati sovrani senza creare un sin­ golo regime centrale onnipotente. E la soluzione che voglio difendere, il terzo grado di pluralismo globale, funziona più o meno così: si crea un insieme di centri alternativi e una re­ 185

te sempre più vasta di legami sociali che attraversano i confi­ ni degli Stati, La soluzione è quella di far progredire le strut­ ture sociali esistenti, o che stanno lentamente iniziando a esi­ stere, e di rafforzarle tutte, anche se sono in competizione tra loro. Così, il terzo grado di pluralismo globale ha bisogno di un’Onu con una propria forza militare capace di effettuare interventi umanitari e missioni di pace, anche in una versio­ ne rafforzata - ma pur sempre una forza che possa essere usa­ ta solo con l’approvazione del Consiglio di sicurezza o di una maggioranza molto ampia nell’Assemblea generale. Ha biso­ gno, poi, di una Banca mondiale e di un Fmi abbastanza for­ ti da regolare i flussi di capitale e le forme di investimento in­ ternazionale e di un Wto capace di imporre standard lavora­ tivi e ambientali allo stesso modo degli accordi commerciali - tutte queste istituzioni, però, devono essere amministrate in modo indipendente, e non in stretto coordinamento con l’Onu. C’è bisogno anche di un Tribunale mondiale che ab­ bia il potere di effettuare arresti per conto proprio, ma che debba cercare l’appoggio dell’Onu di fronte all’opposizione di qualsiasi Stato (semi-sovrano) che faccia parte della società internazionale. Aggiungiamo a queste organizzazioni un nu­ mero molto grande di associazioni civili che operino a livello internazionale, compresi partiti politici che presentino can­ didati alle elezioni di diversi Paesi e sindacati che realizzino i loro vecchi obiettivi di solidarietà internazionali, oltre ai più abituali movimenti dediti a singoli obiettivi. Più sarà ampia la partecipazione a queste associazioni e più sarà vasta la loro estensione attraverso i confini nazionali, più saranno capaci di tessere insieme la politica della società globale. Ma esse non costituiranno mai un unico centro, e rappresenteranno sempre molteplici fonti di energia politica: avranno sempre diversi punti di riferimento. Aggiungiamo a tutto ciò un nuovo strato di organizzazio­ ni governative - le federazioni regionali, per le quali il solo modello possibile è la Comunità europea. E necessario im­ 186

maginare strutture sia più coese sia più lasche, distribuite su tutto il globo, forse anche a partecipazione incrociata: unio­ ni federali costituite in modo diverso in diverse parti del mondo. Ciò porterebbe molti dei vantaggi della federazione globale ma con rischi decisamente minori di tirannia da par­ te del centro, perché una caratteristica essenziale del regio­ nalismo è che ci sarebbero molti centri. Per apprezzare la bellezza di questa soluzione pluralistica, si deve dare più valore alle possibilità politiche, e all’attivismo che producono, che alla certezza del successo. Per me, la cer­ tezza è sempre un sogno, ma non voglio negare che si perda qualcosa quando si rinuncia alle versioni più unitarie del glo­ balismo. Quello che si perde è la speranza di creare un modo più egualitario con un tratto di penna - un singolo atto legi­ slativo da parte di un singolo centro, e la speranza di rag­ giungere la pace perpetua, la fine dei conflitti e della violen­ za, ovunque e per sempre. E la speranza di una singola citta­ dinanza e una singola identità per tutti gli esseri umani - co­ sì che possano essere uomini e donne completamente auto­ nomi, e nient’altro. Devo affrettarmi a negare quello che le mie tesi possono aver finora suggerito a molti lettori: non voglio sacrificare tut­ te queste speranze soltanto per amore del «comunitarismo» - ossia, delle differenze culturali e religiose. Si tratta di valo­ ri importanti, che sono senza dubbio ben serviti dal terzo li­ vello di pluralismo (anzi, i diversi livelli di governo fornisco­ no nuove opportunità di espressione e autonomia ai gruppi minoritari finora subordinati allo Stato nazionale). Ma la dif­ ferenza come valore esiste solo assieme alla pace, all’ugua­ glianza e all’autonomia, e non va oltre esse. La mia tesi è che tutti questi valori siano perseguiti politicamente nel modo migliore in circostanze in cui ci siano molte vie aperte e mol­ ti agenti. Il sogno di un singolo agente - il despota illumina­ to, l’impero civilizzatore, l’avanguardia comunista, lo Stato globale - è un’illusione. Abbiamo bisogno di molti agenti, molti campi di attività e decisione. I valori politici devono es­ 187

sere difesi in posti diversi, in modo che il fallimento da una parte possa innescare l’azione in un’altra, e il successo da una parte possa fungere da modello in un’altra. Ma ci sarebbero fallimenti e successi e, prima di concludere, mi devo preoccupare di tre possibili fallimenti - in modo da sottolineare che tutte le soluzioni, anche quella che preferi­ sco, presentano pericoli e svantaggi. Il primo è il possibile fal­ limento delle missioni di pace che, oggi, significa anche la mancata protezione per le minoranze etniche o religiose. Le guerre tra gli Stati sarebbero rare in una società internazio­ nale fortemente connessa, ma lo stesso successo della politi­ ca delle differenze rende possibili conflitti interni che a volte raggiungono il livello della «pulizia etnica» e persino della guerra civile e del genocidio. Ogni regime fortemente cen­ tralizzato afferma che fermerebbe questo tipo di cose, ma il possibile prezzo per poterlo fare, e per mantenere la capacità di farlo, è quello di una tirannia senza confini, un regime più «totale» di quanto abbia mai auspicato la teoria del totalita­ rismo. Il pericolo di tutti i regimi decentrati e multicentrici è che nessuno potrebbe fermare queste atrocità. Il terzo grado di pluralismo massimizza il numero di agenti che potrebbero bloccarne gli effetti, o almeno mitigarli: singoli Stati che agi­ scano unilateralmente (come i vietnamiti, quando hanno chiuso i campi di sterminio in Cambogia), alleanze e unioni di Stati (come la Nato nella guerra del Kosovo), organizza­ zioni globali (come l’Onu) e i volontari della società civile in­ ternazionale (come i Medici senza frontiere). Ma non ci sono agenti deputati, né responsabilità specifiche: ogni cosa deve attendere dibattiti e decisioni politiche - e molto spesso si de­ ve attendere per troppo tempo. Il secondo possibile fallimento riguarda la promozione dell’eguaglianza. Anche in questo caso, il terzo grado di plu­ ralismo fornisce molte opportunità per le riforme egualitarie, e ci saranno di certo molti esperimenti in diverse società o a di­ versi livelli amministrativi (come i kibbutz israeliani, lo Stato 188

sociale scandinavo, gli sforzi ridistributivi della Comunità eu­ ropea o la proposta di una «Tobin tax» sulle transazioni di va­ luta estera). Ma le forze che si oppongono all’eguaglianza non dovranno mai affrontare le forze unificate dei diseredati del globo, perché non esisterà un’arena globale in cui queste for­ ze si possano unire. Invece, molte organizzazioni cercheranno di mobilitare i diseredati e di esprimere le loro aspirazioni, a volte cooperando tra loro, altre volte in competizione. Il terzo possibile fallimento è nella difesa delle libertà in­ dividuali. Ancora una volta, il pluralismo di Stati, culture e religioni - anche se non esiste più da nessuna parte una pie­ na sovranità - significa che gli individui di diversi ambienti avranno diversi diritti e tutele. Possiamo (e dobbiamo) di­ fendere una concezione minimale dei diritti umani e cercar­ ne la realizzazione universale, ma questa realizzazione, nel terzo grado di pluralismo, dovrà necessariamente coinvolge­ re molti agenti, il che causerà molte discussioni e decisioni, i cui risultati sono destinati a non essere uniformi. Può un regime esposto a questi fallimenti essere il più giu­ sto? Voglio solo dire che esso è la soluzione politica che faci­ lita maggiormente il perseguimento quotidiano della giusti­ zia in condizioni meno pericolose per la causa della giustizia in generale. Tutti gli altri regimi sono peggiori, compreso quello che si trova all’estrema sinistra del continuum, che ha suscitato le maggiori speranze. Perché è un errore immagi­ narsi la Ragione al potere in uno Stato globale - un errore del­ le stesse dimensioni (e dello stesso tipo) di quello di immagi­ nare il futuro ordine mondiale come un regno millenario in cui Dio è il re. I governanti di cui questi regimi hanno biso­ gno non esistono o, se esistono, non fanno politica. Per con­ tro, il movimento verso il pluralismo si adatta a persone co­ me noi, fin troppo reali e non sempre ragionevoli, per cui la politica è un’attività «naturale». Infine, il movimento verso il terzo grado di pluralismo è davvero un movimento. Non ci siamo ancora arrivati;.dob­ biamo fare «ancora molte miglia prima di poter riposare». Il 189

tipo di agenzie governative di cui c’è bisogno nell’età della globalizzazione non è ancora stato realizzato, il livello di par­ tecipazione nella società civile internazionale è decisamente troppo basso e le federazioni regionali stanno ancora muo­ vendo i loro primi passi. In queste aree istituzionali, tuttavia, non si cerca di realizzare delle riforme per se stesse: a ben po­ che persone interessa abbastanza. Rafforzeremo il pluralismo globale soltanto utilizzandolo, cogliendo le opportunità che offre. Non ci saranno progressi a livello istituzionale se non nel contesto di una campagna o, meglio, di una serie di cam­ pagne a favore di una maggiore sicurezza ed eguaglianza per i gruppi e gli individui in tutto il mondo.

Note e fonti dei saggi

Si esprime grata riconoscenza per l’autorizzazione a riprodurre i vari sag­ gi che formano il presente volume, la fonte originale di ciascuno dei quali è riportata qui di seguito, prima di eventuali note.

1. Il trionfo della teoria della guerra giusta

(e i pericoli del suo successo) Questo saggio è stato pubblicato originariamente in «Social Research», 69 (inverno 2002) 4, pp. 925-944 (© «Social Research»), 1 Le tesi di sant’Agostino sulla giusta guerra si possono trovare in Henry Paolucci (a cura di), The Politicai Writings ofSt. Augustine, Henry Regnery, Chicago 1962, pp. 162-183; i lettori di oggi possono aver bisogno di un com­ mento: si veda Herbert A. Dean, The Politicai and Social Ideas of St. Augu­ stine, Columbia University Press, New York 1963, pp. 134-171. 2 Si veda Francisco de Vitoria, Politicai Writings, a cura di Anthony Pagden e Jeremy Lawrance, Cambridge University Press, Cambridge 1991, pp. 302-304 e, per un commento, James Turner Johnson, Ideology, Reason, and thè Limitation ofWar: Religious and Secular Concepts, 1200-1740, Princeton University Press, Princeton 1975, pp. 150-171. 3 Si veda James Boswell, Life ofSamuel Johnson LL. D., a cura di Robert Maynard Hutchins, Encyclopaedia Britannica, Chicago 1952, p. 129, che ci­ ta il dottor Johnson: «“Amo l’Università di Salamanca, perché quando gli Spagnoli erano in dubbio sulla legalità della conquista dell’America, l’uni­ versità ha espresso la sua opinione che non fosse legale” - lo disse con gran­ de emozione» [trad. it. di A. Prospero, Vita di SamuelJohnson, Garzanti, Mi­ lano 1982, voi. I, p. 356], 4 Con una certa esitazione, cito la mia discussione sulla necessità morale (e i riferimenti che vi faccio a trattazioni più congeniali): Michael Walzer, Ju­ st and Unjust Wars: A Moral Argument with Historical Illustrations, Basic Books, New York 1977, pp. 144-151, 239-242, 251-255 [trad. it. di F. Armao, Guerre giuste e ingiuste: un discorso morale con esemplificazioni stori­ che, Liguori, Napoli 1990, pp. 175-183, 297-301,307-318], 5 La migliore disamina dei realisti è quella fatta da Michael Joseph Smith, Realist Thought from Weber to Kissinger, State University Press, Baton Rouge (LA) 1986; il capitolo 6, su Hans Morgenthau, è particolarmente signifi­ cativo per le mie tesi su questo aspetto. 6 Uno di questi veterani è Anthony E. Hartle, che ha scritto anche un suo libro sull’etica della guerra: Moral Issues in Military Decision Making, Uni­ versity Press of Kansas, Lawrence 1989.

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7 Si vedano i documenti raccolti in Micah L. Sifry e Cristopher Cerf (a cura di), The GulfWar: History, Documenti, Opinions, Times Books, New York 1991, pp. 197-352, e tra essi i discorsi di Bush e una raccolta di inter­ venti che riflettono un’ampia gamma di opinioni. 8 Ho avanzato obiezioni contro gli attacchi alle infrastrutture subito do­ po la guerra (ma altri l’avevano già fatto prima) in David E. DeCosse (a cu­ ra di), But Was It Just? Reflections on thè Morality of thè Persian GulfWar, Doubleday, New York 1992, pp. 12-13. 9L’editoriale di Stanley Fish sul «New York Times» del 15 ottobre 2001 fornisce un esempio dell’argomento postmodernista, nella sua versione più intelligente. 10 Questa tesi è stata avanzata da numerosi partecipanti ad una confe­ renza sull’intervento umanitario al Zentrum ftir Interdisziplinare Forschung dell’università di Bielefeld, nel gennaio del 2002. 11 «Una vita si paga con un’altra vita, e da questi due sacrifici sboccia la promessa di un valore»; Albert Camus, L’uomo in rivolta, trad. it. di L. Ma­ grini, Bompiani, Milano 1981 (ed. or. 1951), p. 189. Si vedano anche le tesi esposte nel primo atto de I giusti (ed. or. 1950), in Id., Tutto il teatro, Bom­ piani, Milano 1988. 12 Per alcuni argomenti a favore dell’utilizzo di forze di terra in Kosovo, si veda William Joseph Buckley (a cura di), Kosovo: Contending Voices on Balkan lntervention, William B. Eerdmans, Grand Rapids (MI) 2000, pp. 333-335,342,393-394. 13 Le dichiarazioni di Bush sull’arresto dell’avanzata americana e la sua dichiarazione di vittoria si possono reperire in Sifry e Cerf (a cura di), The GulfWar, cit., pp. 449-451; tesi a favore e contro questa decisione sono in DeCosse (a cura di), But Was It Just? cit., pp. 13-14, 29-32. 14 Artem Borovik, The Hidden War: A Russian Journalist’s Account ofthe Soviet War in Afghanistan, Faber and Faber, London 1990 [trad. it. di B. Osimo e I. Sibaldi, Afghanistan: la guerra nascosta, Leonardo, Milano 1991] fornisce un resoconto utile, per quanto estremamente personale, della guer­ ra russa in Afghanistan; per una storia in senso accademico, si veda Larry P. Goodson, Afghanistan'sEndless War: State Failure, RegionalPolitics, and thè Rise ofthe Taliban, University of Washington Press, Seattle 2001.

2. Due tipi di responsabilità militare Questo saggio è stato pubblicato originariamente in «Parameters: Jour­ nal of thè US Army War College», 11 (marzo 1981), pp. 2-46.

3. Etica dell’emergenza Questo saggio è stato pubblicato originariamente come «The Joseph A. Reich, Sr., Distinguished Lecture on War, Morality, and thè Military Pro-

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fession», n. 1 (21 novembre 1988), da una conferenza tenuta alla U.S. Air Force Academy del Colorado. 1 Winston S. Churchill, The Gathering Storm, Bantam Books, New York 1961, p. 488 [trad. it. di O. Ceretti Borsini, La seconda guerra mondiale: Par­ te I. L’addensarsi della tempesta. 1919-1940. Voi. I. Da guerra a guerra. 19191939, Mondadori, Milano 1948]. 2 Michael Walzer, Just and Unjust Wars: A Mora! Argument with Historical lllustrations, Basic Books, New York 1977, capitolo 16 [trad. it. di F. Armao, Guerre giuste e ingiuste: un discorso morale con esemplificazioni sto­ riche, Liguori, Napoli 1990, pp. 329-351]. 3 Churchill, per conto suo, era del tutto sincero: si veda nel suo libro The Hinge ofFate, Bantam Books, New York 1962, dove afferma che lo scopo dei bombardamenti era di «creare condizioni intollerabili per la gran massa della popolazione tedesca» (p. 770); sono parole tratte da una nota del luglio 1942 [trad. it. di A. Barone, La svolta fatale, Mondadori, Milano 19669]. 4 Per uno sforzo di sfuggire alle contraddizioni (utilizzando esempi trat­ ti dalla società civile piuttosto che dalla guerra), si veda Alan Donagan, The Theory ofMorality, University of Chicago Press, Chicago 1977, pp. 184-189. 5 Queste posizioni sono sostenute in due testi che sono quasi dei classi­ ci, War and Massacre di Thomas Nagel e Utilitarianism and thè Rules ofWar di R.B. Brandt, pubblicati assieme in «Philosophy and Public Affairs», 1 (in­ verno 1972) 2, pp. 123-165. 6 Si veda, ad esempio, Ronald Dworkin, Taking Rigbts Seriously, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1977 [trad. it. parziale di F. Oriana, dell’ed. or. ingl. del 1978,1 diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna 1982]. 7 Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio [15131519], 1,9, in Id., Tutte le opere, a cura diM. Martelli, Sansoni, Firenze 1971, p. 90. 8 Ma si veda Telford Taylor, Nuremberg and Vietnam: An American Tragedy, Quadrangle Books, Chicago 1970, p. 36 [trad. it. di M.E. Zuppelli Morin, Norimberga e Vietnam: una tragedia americana, Garzanti, Milano 1971]. 9 In una recensione critica al mio Guerre giuste e ingiuste, Kenneth Brown scrive che «in tutto il suo lavoro, Walzer identifica le massime aspi­ razioni umane con la supremazia dello Stato nazionale» {‘Supreme Emergency’: A Critique of Michael Walzer s Moral Justification for Allied Obliteration Bomhing in World War II, «Journal of World Peace», I [primavera 1984] 1). No, non sono affatto a favore della «supremazia» dello Stato na­ zionale, ma soltanto della sua esistenza e solo nella misura in cui la sua esi­ stenza è al servizio degli scopi comuni che ho descritto in questo saggio. 10 E. Burke, Reflections on thè Revolution in France, J.M. Dent, London 1910, p. 93 [trad. it. di M. Respinti, Riflessioni sulla rivoluzione in Francia, Ideazione, Roma 1998 (ed. or. ingl. 1790), p. 119]. 11 Sullo stato neutrale si veda Ronald Dworkin, Liberalism, in Stuart Hampshire (a cura di), Public and Private Morality, Cambridge University Press, Cambridge 1978. 12 Si veda la discussione di T. Hobbes sul servizio militare nel suo Levia­

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tano, II, 21 [ed. it. a cura di A. Pacchi, Laterza, Roma-Bari 20049, pp. 182 sgg. (ed. or. ingl. 1651)] e il mio commento, The Obligation to Die for thè State, in Obligations; essays on disobedience, war, and citizenship, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1970. 15 A. Camus, 1 giusti (ed. or. 1950), trad. it. in Id., Tutto il teatro, Bom­ piani, Milano 1988. 14 Si veda il mio Politicai Action: The Problem ofDirty Hands, in «Philosophy and Public Affairs», 2 (inverno 1973) 2, pp. 160-180.

4. Terrorismo: una critica delle scusanti Questo saggio è stato pubblicato originariamente in Steven Luper-Foy (a cura di), Problems of International Justice, Westview Press, Boulder (CO) 1988, pp. 237-247. 1 Non posso resistere alla tentazione di fornire un paio di esempi: Edward Said, The Terrorist Scam, «The Nation», 14 giugno 1986 e (più in­ telligente e circospetto) Richard Falk, Thinking about Terrorism, «The Na­ tion», 28 giugno 1986. 2 Cfr. il capitolo precedente. 3 Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio [15131519], I, 9, in Id., Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Sansoni, Firenze 1971, p. 90. Finora, però, non ci sono stati risultati che possano costituire una scu­ sante in senso machiavelliano. 4 Si veda, ad esempio, Daniel Goleman, The Roots of Terrorism Are Found in Brutality of Shattered Childhood, «The New York Times», 2 set­ tembre 1986, Cl, 8. Goleman discute la storia sociale e psicologica di singo­ li terroristi, non le radici del terrorismo. 5 La posizione neoconservatrice è rappresentata, anche se non nel modo così esplicito che ho definito in queste pagine, in Benjamin Netanyahu (a cu­ ra di), Terrorism: How thè West Can Win, Farrar, Strauss & Giroux, New York 1986. 6 La ragione per cui la strategia terroristica, per quanto immorale in sé, non può essere utile a nessuna finalità politica morale, è che ogni finalità mo­ rale deve in qualche modo soddisfare le persone prese di mira dal terrori­ smo, e il terrorismo esprime proprio il rifiuto di una simile soddisfazione, è la radicale svalutazione dell’Altro. Si veda la mia tesi in Just and Unyust Wars: A Moral Argument with Historical Illustrations, Basic Books, New York 1977 [trad. it. di F. Armao, Guerre giuste e ingiuste: un discorso morale con esemplificazioni storiche, Liguori, Napoli 1990]. 7 Aristotele, Politica, V (E), 11 = 1313 a-1314 a [ed. it. a cura di R. Lau­ renti, Laterza, Roma-Bari 20026, pp. 189 sgg.].

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5. La politica del salvataggio Questo saggio è stato pubblicato originariamente in «Dissent», inverno 1995, pp. 35-41.

6. Giustizia e ingiustizia nella guerra del Golfo Questo saggio è stato pubblicato originariamente nella nuova edizione di Michael Walzer, Just and Unjust Wars: A Moral Argument with Historical Illustrations (Basic Books, New York 1992, pp. xi-xxiii), col titolo Preface to thè Second Edition: After thè Gulf.

7. Kosovo Questo saggio è stato pubblicato originariamente in «Dissent», estate 1999, pp. 5-7.

8. L’«intifada» e la Linea verde Questo saggio è stato pubblicato originariamente in «The New Republic», 199 (5 settembre 1988), pp. 22-24, col titolo The Green Line: After thè Gprising, Israel’s New Border.

9. Le quattro guerre tra Israele e Palestina Questo saggio è stato pubblicato originariamente in «Dissent», ottobre 2002, pp. 26-33. 1T. Hobbes, Leviatano, 1,13 [ed. it. a cura di A. Pacchi, Laterza, RomaBari20049, p. 101 (ed. or. ingl. 1651)] (N.d.T.).

10. Dopo 1’11 settembre: cinque domande sul terrorismo Questo saggio è stato pubblicato originariamente in «Dissent», inverno 2002, pp. 5-16.

11. Cinque saggi sull’Iraq Si riportano qui di seguito le fonti di pubblicazione originali di ciascun saggio. Sì agli ispettori, no alla guerra: «The New Republic», 227 (30 settem­ bre 2002), pp. 19-22, col titolo No Strikes: lnspectors Yes, War No; Il modo giusto: «The New York Review of Books», L4 (13 marzo 2003), p. 4 (©2003

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NYREV, Ine.); Ciò che potrebbe fare una piccola guerra-, «The New York Ti­ mes», A27 (7 marzo 2003 - © 2003 The New York Times Company); Allo­ ra, è una guerra giusta?-. «Dissent», pubblicato in esclusiva sul web il 20 mar­ zo 2003; Occupazioni giuste e ingiuste è stato scritto appositamente per il pre­ sente volume.

12.

Governare il mondo

Questo saggio è stato pubblicato originariamente in «Dissent», ottobre 2000, pp. 44-51. 11. Kant, Per la pace perpetua [17951, «Primo articolo definitivo» [trad. it. in I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 20023, pp. 169 sgg.]. 2 Id., Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi [1793], «III. Del rapporto della teoria con la prassi nel diritto delle genti. Considerato da un punto di vista universale-filantropico, ossia co­ smopolitico» [trad. it. cit., p. 156]. 5 Id., Idea per una storia universale dalpunto divista cosmopolitico [1784], «Settima tesi» [trad. it. cit., p. 37],

Indici

Indice dei nomi

Clausewitz, Karl von, XI. Clinton, William Jefferson (Bill), 72, 143.

Agostino, santo, 5-6, 193. Alessandro Magno, 48. Amin, Idi, 21, 70, 91, 101. Arafat, Yasser, 107-108, 113, 115, 118-122. Arendt, Hannah, 74. Aristide, Jean-Bertrand, 77. Aristotele, 64, 196. Armao, Fabio, 193, 195-196.

Dean, Herbert A., 193. DeCosse, David E., 194. Donagan, Alan, 195. Dworkin, Ronald, 195. Falk, Richard, 196. Fish, Stanley, 194.

Barak, Ehud, 116-117, 120-121. Barone, Arturo, 195. Begin, Menachem, 103, 107, 114. Ben Gurion, David, 107. Bentham, Jeremy, 39. Bin Laden, Osama, 131, 139. Borovik, Artem, 194. Boswell, James, 193. Brandt, R.B., 195. Brown, Kenneth, 195. Buckley, William Joseph, 194. Burke, Edmund, 43, 195. Bush, George, 12-13, 96,494. Bush, George W., 141, 143-144, 146-150, 154-157, 160-161, 165167.

Gandhi, Mohandas, 132. Goleman, Daniel, 196. Gonnelli, Filippo, 198. Goodson, Larry P., 194. Grozio, Ugo, 7. Hampshire, Stuart, 195. Hartle, Anthony E., 193. Hitler, Adolph, 137. Hobbes, Thomas, 45, 57, 70, 111, 172-173, 195,197. Hussein, re di Giordania, 105, 109. Hussein, Saddam, 20, 87-88, 141144,146-147,150-160. Hutchins, Robert Maynard, 193.

Camus, Albert, 18-19, 46, 99, 194, 196. Ceretti Borsini, Olga, 195. Cerf, Cristopher, 194. Cheney, Richard, 143. Chirac, Jacques, 148, 156-157. Churchill, Winston S., 34, 195.

Johnson, James Turner, 193. Johnson, Samuel, 193. Kant, Immanuel, 172-174, 176,183184, 198. Kropotkin, Pètr A., 70.

201

Laurenti, Renato, 196. Lawrance, Jeremy, 193. Luper-Foy, Steven, 196. MacArthur, Douglas, 33. Machiavelli, Niccolò, 7-8, 195-196. Magrini, Liliana, 194. Mandela, Nelson, 127. Martelli, Mario, 195-196. Milosevic, Slobodan, 97-98, 100. Morgenthau, Hans, 193.

Nagel, Thomas, 195. Napoleone I Bonaparte, 48. Netanyahu, Benjamin, 196. Nuseibeh, Sari, 119. Oriana, Federico, 195. Osimo, Bruno, 194.

Pacchi, Arrigo, 196-197. Pagden, Anthony, 193. Paolucci, Henry, 193. Pascal, Blaise, 11. Poi Pot, 70, 80,91, 101. Prospero, Ada, 193. Pufendorf, Samuel, 7. Rabin, Yitzhak, 104, 117.

Respinti, Marco, 195. Rousseau, Jean-Jacques, 77. al-Sabah, famiglia, 91. Sadat, Anwar, 107-108, 122. Said, Edward, 196. Schroeder, Gerhard, 148. Selassiè I, Hailè (Tafari Makonnen), 91. Shamir, Yitzhak, 103, 106, 108. Sharif, Abu, 108. Sharon, Ariel, 116-117, 120-121, 123. Sibaldi, Igor, 194. Sifry, Micah L., 194. Smith, Michael Joseph, 193.

Taylor, Telford, 195. Tito (pseud. J/Josip Broz), 100. Tommaso, santo, 6. Truman, Harry, 30. Vitoria, Francisco de, 6, 193.

Wright, Richard, 60. Yamashita, Tomoyuki, 33. Zuppelli Morin, Maria Eugenia, 195.

Michael Walzer è un protagonista del dibattito

pubblico in America e in Europa. Dopo essere stato professore di Scienze sociali nelle

Università di Princeton e Harvard, dal 1980 insegna all’lnstitute for Advanced Study di

Princeton (New Jersey). È autore di studi fondamentali tradotti in tutto il mondo su

guerra ed etica, come Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplificazioni storiche (Napoli 1990), e sulla teoria politica e la critica

sociale. Dirige la rivista “Dissent”. Per i nostri

tipi ha pubblicato Sulla tolleranza (20 033) e La libertà e i suoi nemici nell’età della guerra al terrorismo (a cura di M. Molinari, 2003).

Progetto grafico

Raffaella Ottaviani

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Frontespizio

Il Libro

L'autore

Ringraziamenti Introduzione

Parte prima. Teoria 1. Il trionfo della teoria della guerra giusta (e i pericoli del suo successo) (2002) 2. Due tipi di responsabilità militare (1980) 3. Etica dell’emergenza (1988) 4. Terrorismo: una critica delle scusanti (1988) 5. La politica del salvataggio (1994) Parte seconda. Casi 6. Giustizia e ingiustizia nella guerra del Golfo (1992) 7. Kosovo (1999) 8. L’«intifada» e la Linea verde (1988) 9. Le quattro guerre tra Israele e Palestina (2002) 10. Dopo 1’11 settembre: cinque domande sul terrorismo (2002) 11. Cinque saggi sull’Iraq Sì agli ispettori, no alla guerra (settembre 2002) Il modo giusto (gennaio 2003) Ciò che potrebbe fare una picco la guerra (marzo 2003) Allora, è una guerra giusta? (marzo 2003) Occupazioni giuste e ingiuste (novembre 2003) Parte terza. Futuri 12. Governare il mondo (2000) Indice dei nomi

5 2

223 9

13

23 25 45 54 72 87 101 103 117 122 131 148 161 161 170 176 179 182 189 191 221