La cultura di Sparta arcaica. Ricerche [2]

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La cultura di Sparta arcaica. Ricerche [2]

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CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE GRUPPO DI RICERCA PER LA LIRICA GRECA E LA METRICA GRECA E LATINA UNIVERSITÀ DI URBINO

FILOLOGIA E CRITICA COLLANA DIRETTA DA BRUNO GENTILI

7.

PIETRO JANNI

LA CULTURA DI SPARTA ARCAICA RICERCHE II

QUESTO LAVORO È STATO ESEGUITO E PUBBLICATO CON I CONTRIBUTI DEL CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE

E D I Z I ONI

D E L L ’ ATENEO

Indice generale

La poesia epica, l'Odissea e Sparta 9

Copyright © 1970, by Edizioni dell’Ateneo Roma, via Ruggero Bonghi, 1 1 /B Printed in Italy

Introduzione

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II problema della Telemachia. Le atetesi

30

Telemachia e Thaiakis

Al

Questioni preliminari. Le testimonianze su Licurgo. Alcmane, Tirteo e Omero

75

I poemi omerici nelle arti figurative. Pausania e il trono di Apollo amicleo

89

II Taigeto in γ-δ

101

La tradizione mitografica. Agamennone spartano. Ulisse

119

Conferma e riepilogo

127

Stesicoro

137

Precedenti ipotesi di analogo carattere. Conclusione

155

Indici

LA POESIA EPICA, L ’ ODISSEA E SPARTA

Περί, των γενών .. . των τε ηρώων καί των ανθρώπων, καί των κατοικίσεων, ώς τό άρχαΐον έκτίσθησαν αί πόλεις, καί συλ­ λήβδην πάσης τής αρχαιολογίας ήδιστα άκροώνται (se. Λακεδαιμόνιοι), ώστ’ εγωγε δι’ αυτούς ήνάγκασμαι έκμεμαθηκέναι τε καί έκμεμελετηκέναι πάντα τα τοιαϋτα. Hipp. Μα. 285 d-e

Introduzione

In queste pagine si propone una tesi che rischierà di apparire a prima vista troppo avventurosa, e destinata a restare, ben che vada, nel limbo delle ipotesi indimostra­ bili sulla composizione dell 'Iliade e dell’Odissea; dopo la dimostrazione che qui se ne tenta essa correrà forse il peri­ colo opposto, quello di apparire in fondo poco nuova, come una conseguenza che scaturisca quasi automaticamente dal semplice accostamento di risultati già raggiunti da altri, e che sia stata inoltre già presentita più d’una volta. Ma poiché la speranza di raggiungere un punto fermo, nel problema della composizione dei poemi omerici, non si può trascurare, e poiché i pensieri che qui si esporranno sono stati in qualche caso sfiorati dai critici, ma mai hanno trovato veramente un posto riconosciuto nella bibliografia omerica, occorreva pure che qualcuno vi spendesse il suo tempo. La tesi è questa: alcune parti dell’Odissea (precisamente le scene spartane della cosiddetta Telemachia, cioè il quarto libro dall’inizio fino a circa il verso 625, e il quindicesimo, ugualmente dall’inizio fino a circa il verso 181) ci sono pervenute in una redazione che non solo mostra stretti le­ gami con la cultura di Sparta, ma proprio in questa città deve aver ricevuto la sua forma attuale. È riconoscibile la mano di un poeta che è stato guidato da spirito cortigiano, o civico se preferiamo, ma comunque dall’intento di cele­ brare Sparta e il suo passato mitico, e forse di accreditare pretese politiche e dinastiche. Questo ignoto poeta ha ope­ rato nel VII secolo, probabilmente nell’età immediatamente precedente a quella di Alcmane e di Tirteo.

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Introduzione

Abbiamo voluto, come si vede, sottoporre subito queste affermazioni al lettore impreparato, a rischio di un’acco­ glienza non favorevolmente stupefatta, o di una brusca rea­ zione di scetticismo; ora dobbiamo aggiungere che l ’esame dei loro fondamenti richiederà una certa dose di perseve­ ranza, e un esame minuto e paziente. Questo per una serie di circostanze che occorre appena ricordare: prima di tutto, i l . posto da assegnare alle varie parti dei poemi omerici nella storia della loro genesi è cosa tanto infinitamente con­ troversa che nessuno scrupolo nel tentare la solidità del terreno potrà apparire eccessivo; in secondo luogo, la cul­ tura spartana ci è nota attraverso ben scarsi frammenti e testimonianze spesso fuorvianti e preconcette. È necessario applicare quindi all’oggetto della nostra ricerca ogni possi­ bile strumento, sapendo che ognuno di essi non potrà dare più che indizi, la cui forza non verrà tanto dal peso di cia­ scuno, quanto dalla loro concordia. Questo, insomma, vo­ gliamo soprattutto chiedere: che la verosimiglianza di cia­ scuna affermazione contenuta in queste pagine sia valutata tenendo d ’occhio tutte le altre. È opportuna qualche altra parola di premessa e di giu­ stificazione perché i metodi impiegati in questa ricerca non siano giudicati più severamente di quanto meritano. Sotto l ’impressione degli studi di Milman Parry e della sua scuola si è fatta largamente strada l ’idea che l ’opposizione dei due partiti di unitari e analitici (per un secolo e mezzo i natu­ rali contendenti su questo terreno) si sia in una certa mi­ sura vanificata, dopo la comparsa di pensieri del tutto nuovi, e dopo esperienze che promettono ben altra fecondità di risultati. I più entusiasti seguaci dei nuovi metodi saranno forse delusi nel constatare che in questa ricerca si ricorre ancora una volta a uno dei procedimenti preferiti della vec­ chia analisi, cioè l ’identificazione di versus iterati che si adattano meglio a un contesto che a un altro, proprio per dedurne la seriorità (ma già questo termine potrà essere accolto con fastidio) del passo dove il verso entra più for­

Introduzione

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zatamente. Che un verso proveniente da un repertorio aperto a tutti, usato e riusato chissà quante volte, sia stato adat­ tato al contesto con maggiore o minore felicità dimostra ben poco, anzi nulla (si è detto) e la questione non deve nem­ meno interessarci. Ancora: il presupposto in fondo sempre tacitamente ac­ cettato di una più o meno rigida monogenesi ionica nel problema delle origini e della primissima diffusione dell’epica greca sembra anch’esso divenuto problematico. Lo hanno scosso da una parte il deciframento dei testi micenei, con la speranza ch’esso ha portato per molti di poter gettare uno sguardo più lontano nella preistoria della lingua poe­ tica greca ', e dall’altra il forte accento che abbiamo impa­ rato a mettere sulla tradizionalità di uno stile formulare. A qualcuno è parso ormai di intravvedere, nel crepuscolo della storia, una madrepatria greca ricca di canti epici di­ scesi recta via da quelli che gli aedi antichissimi avevano dapprima intonato alle corti dell’età micenea, e largamente indipendenti, nella lingua e nei temi, da quelli che i col­ leghi d’oltre Egeo avevano creato sulla base di una comune eredità2. Agli occhi dei più convinti assertori dei nuovi punti di vista, uno studio come questo, che si fonda sui tradizionali 1 Toni alquanto scettici troviamo a questo proposito presso C. Gallavotti, A tti e memorie del I Congresso internaz. di micenologia, Roma 1968, p. 831 sgg. 2 Fra la bibliografia già vasta merita di essere ricordato un arti­ colo di J. A. Notopoulos, ‘Homer, Hesiod and thè Achaean heritage of orai poetry’, Hesperia 29, 1960, p. 177 sgg., che è stato fra i primi a sviluppare coerentemente e conseguentemente questi punti di vista. Un’importante strada per arricchire e rinnovare questa pro­ blematica è stata indicata da B. Gentili nello studio delle epigrafi letterarie, da non considerarsi soltanto come prodotti di un maldestro ‘omerizzare’ ma come documenti di un’attività poetica a cui ricono­ scere piena autonomia. Le nostre conoscenze sull’epica greca minore sono state recentemente raccolte da G. L. Huxley, Greek epic poetry

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Introduzione

presupposti analitici, che distingue all’interno dei poemi ome­ rici i canti più originali e quelli che da essi dipendono, e riconosce infine imitazioni e riecheggiamenti dell’epos ome­ rico nei poeti lirici più antichi, proprio nella maniera cui siamo abituati da sempre, rischia di apparire costruito su un terreno minato. Non avendo ovviamente agio di entrare in una discus­ sione che si è fatta ormai tanto sottile quanto accanita, né potendo giustificare partitamente i metodi qui seguiti, al­ meno davanti a qualcuna delle varie osservanze in cui la nuova chiesa si è già divisa, formulerò così la mia praeoccupatio : l ’ammirazione per la genialità di Milman Parry e la gratitudine per quanto c’è di buono nella sua eredità non devono impedirci di vedere che molte applicazioni dei suoi metodi e delle sue scoperte sono ancora estremamente discu­ tibili, e che si farebbe torto ai suoi pensieri migliori facen­ done gli articoli di fede di un nuovo dogmatismo, anziché lo stimolo fecondo che essi possono e debbono essere. Il concetto di orai poetry è certamente un acquisto solido e perenne per gli studi di letteratura comparata; ma il suo ingresso nelle ricerche omeriche, anche se legittimo, non ha dato ancora risultati traducibili sul piano storico in con­ clusioni così inevitabili da precludere a priori ogni via di ricerca che non si accordi con la sua applicazione più rigida e intransigente. In altre parole: se l ’osservazione sul testo dei poemi omerici ci porta a concludere che la nostra Iliade e la nostra Odissea si sono formate attraverso processi che non si accordano con un sistema costruito per analogia da chi ha studiato la pratica dei cantastorie iugoslavi, non credo che il frutto delle nostre osservazioni vada taciuto o from Eumelos to Panyassis, London 1969. Un equilibrato resoconto e un saggio dell’applicazione di metodi nuovi all’oggetto di questi studi ha dato R. di Donato, Ann. Scuola Norm. di Pisa 38, 1969, p. 243 sgg. Una vivace reazione polemica contro certi eccessi è quella di B. Marzullo, Il problema omerico, Milano 21970, ρ. 1 sgg.

Introduzione

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condannato solo per questo motivo. Voglio sperare insomma che il lettore passato di persona attraverso le spine della bibliografia omerica giustificherà qualche indugio su que­ stioni e su punti di vista che qualcuno giudicherà irrilevanti e superati. Il problema che affrontiamo qui è tanto vasto, e i frammenti da rimettere insieme sono tanto minuti e sparsi, che mi è parso necessario tentare il terreno lungo ogni possibile via. Per chi non si vuole legare troppo rigi­ damente a un sistema, né ha tanto meno un suo verbo da proclamare, è meglio ammettere francamente che la propria posizione è ancora quella di chi cerca e vuole vedere che aspetto prende l ’oggetto del proprio studio da diversi punti di vista, confidando che questo non sarà giudicato eclettismo o incoerenza di metodo. Mi auguro comunque che al critico imparziale questi avvertimenti preventivi appaiano semplicemente superflui, o buoni al massimo contro gli epigoni più estremi e intran­ sigenti di un pensiero dal quale credo di aver imparato come tutti quelli che non si sono rifiutati di farlo, e cui credo di avere reso piena giustizia.

IL PROBLEMA DELLA TELEMACHIA. LE ATETESI

Il confronto fra le vie percorse rispettivamente dall’ana­ lisi dell’Iliade e da quella dell Odissea è ancora istruttivo, per chi si sia bene o male orientato nella selva a prima vista impenetrabile di una letteratura tanto estesa quanto intricata, e per lo più francamente sgradevole. La ‘questione omerica’, quale è stata intesa da Wolf fino ai nostri tempi, è nata dallo studio à&WIliade, da essa ha fondamentalmente tratto i suoi temi e su di essa ha esercitato i suoi metodi h L ’Odissea è rimasta nell’ombra del poema maggiore forse più di quanto normalmente non si pensi, e ai caratteri che la distinguono àaìl’Iliade, come composizione narrativa, non si è sempre resa pienamente giustizia. L ’impressione molto maggiore di concatenazione e di unità che essa suscita a ogni lettura ha fatto sì che le divergenze nei risultati del­ l ’analisi fossero probabilmente ancora più insanabili che per PIlia d e 12. L ’Odissea, con la sua composizione palesemente più consapevole e sapiente3, ha suscitato e mantenuto in 1 G. Grote, A history of Greece II, London 1846, p. 105, pen­ sava che se fosse rimasta solo l'Odissea non sarebbe mai sorta la questione di una molteplicità di autori. Un altro inglese, R. C. Jebb, pur dichiarando la propria ammirazione per l ’acutezza di Kirchhoff, restava in fondo dello stesso parere (Homer: an introduction to thè Iliad and thè Odyssey, Glasgow 21887, p. 131). 2 E. R. Dodds in Fifty years (and tw elve) of classical scholarship, Oxford 1968, p. 6 sg. 3 W olf si era già espresso eloquentemente (Prolegg. cap. 27): « [Odyssea] cuius admirabilis summa et compages prò praeclarissimo monumento Graeci ingenii habenda est ». I. Bekker avrebbe poi sfer­ rato l ’attacco più iconoclasta contro questa opinione (Homerische Blatter I, Bonn 1863, p. 99 sgg., riproducendo una conferenza del 1841). Ma già G. Hermann, Opuscula V , Lipsiae 1834, diceva di 2

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La poesia epica, /'Odissea e Sparta

vita speranze più confidenti di scoprire le ‘cuciture’, che stavolta dovevano essere molto meno numerose, ma proprio per questo, e per il fatto di tenere insieme una trama più sottile e delicata, tanto più facilmente riconoscibili. La maggiore fra di esse, quella che più spesso si è creduto di aver ravvisato con sicurezza, è appunto la sutura che con­ giunge l ’Odissea vera e propria al racconto del viaggio e del rischio corso da Telemaco, cioè i primi quattro libri e una parte del quindicesimo, quella sezione del poema che si designa comunemente come Telemachia 4. Una storia del problema della Telemachia nella critica omerica equivarrebbe quasi a una completa rassegna di tutto ciò che si è scritto sull Odissea da più di un secolo a questa parte: Panalisi ha sempre visto nello sconcertante doppione delle due assemblee divine che aprono il primo e il quinto canto del poema uno dei punti migliori per applicare le sue leve, e cominciare la sua opera; i critici unitari, volenti o nolenti, hanno dovuto affaticarsi anch’essi intorno a questo punto, per sbarrare la più pericolosa breccia aperta nelle loro difese 5. « sospettare » che la vantata composizione del l ’Odissea risulti dalla meccanica unione di due fili narrativi distinti. Chi si entusiasmava meno per Γanalisi a oltranza ripeteva volentieri le parole di W olf: così D. B. Monro, Homer’s Odyssey. Books X I1I-X X IV , Oxford 19 0 1, p. 323. Un intransigente rappresentante della parte opposta è W illy Theiler, Mus. Helv. 19, 1962, p. 18: chi vuole vedere sa­ pienza di composizione nella trama dell’Odissea dimostra di ragio­ nare secondo una « verquerte Poetik ». 4 Notevoli osservazioni sulla tecnica compositiva dell’Odissea e sulla congiunzione della Telemachia col filone principale del racconto sono sviluppate da B. Marzullo nell’opera cit. sopra, p. 11 n. 2. 5 Un primo orientamento bibliografico danno A. Lesky, Anzeiger fiir Altertumswiss. 5, 1952, col. 15 sgg. ( = Die Homerforschung in der Gegenwart, W ien 1952, p. 63 sgg.), poi s.v. ‘Homeros’, in R.E. Supplbd. XI, 1967, col. 809 sgg., e A. Heubeck, Gymnasium 62, 1955, p. 113 sgg. Bibliografia più antica presso W . Hartel, Zeitschr.

Il problema della Telemachia. Le atetesi

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Le discrepanze e i motivi di perplessità che incontra il lettore attento quando esamina il rapporto fra il filone prin­ cipale della narrazione (Ulisse) e quello minore (Telemaco), che si ricongiungono solo nel quindicesimo libro, sono di diverso ordine, ma ugualmente importanti, e concordi nel suggerire che qui si possa davvero gettare uno sguardo die­ tro le quinte, e vedere un poema omerico costituirsi in unità per addizione di parti, parti che sia ancora possibile riconoscere e delimitare. La critica analitica si è espressa grosso modo così: il tema, di per sé inconcludente, è svolto con maldestrezza e incongruenze assolutamente inaccettabili. In a 269 sgg. è il discorso a Telemaco di Atena-Mente, su cui Kirchhoff ha scritto alcune pagine fra le più classiche di tutta la biblio­ grafia omerica, mostrandone la profonda e insanabile incoe­ renza 6. Il rapporto cronologico fra l ’azione secondaria e f. d. osterr. Gymn. 15, 1864, p. 473 sgg. Da tutte queste rassegne risulta che un’importante linea di demarcazione divide i critici in due gruppi: quelli che attribuiscono alla Telemachia un’origine indipen­ dente, e quelli che la ritengono opera del medesimo autore che diede la forma finale all’Odissea. Il punto sul problema della Telemachia lo fece nel 19 12 E. Belzner, Homerische Probleme II, Leipzig-Berlin 19 12 , p. 204 sgg., in una specie di vasta bibliografia ragionata. S. Bertman, Trans. Proceed. Am. Philol. Assoc. 97, 1966, p. 15 sgg., va alla ricerca di sottilissime simmetrie nella costruzione narrativa del l ’Odissea per dimostrare che la Telemachia ne è parte integrante. Ma nonostante tutti i suoi sforzi e l ’arbitrarietà dei suoi metodi, egli finisce per ammettere che certe parti del racconto si potrebbero anche idealmente togliere, ricostituendo un’altra simmetria: quella che go­ vernava la struttura del poema in una precedente fase della sua esistenza. 6 Adolf Kirchhoff, Die homerische Odyssee, Berlin 1879, p. 238 sgg. Prima di lui già Immanuel Bekker, Hom. Blàtter I, p. 99 sgg. Da ultimo ancora D. L. Page, The Homeric Odyssey, Oxford 1955, p. 52, che cita seguaci e oppositori delle idee esposte da Kirchhoff. Fra gli avversari emerge F. Klingner, ‘Ueber die vier ersten Biicher der Odyssee’, Sitzungsber. Leipz. Akad. 1944, 1 (citato come « an article » senza nome d’autore è invece C. M. Mulvany, ‘The speech

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La poesia epica, /Odissea e Sparta

quella principale è un’altra grave aporia, poiché ci obbliga ad attribuire al soggiorno di Telemaco a Sparta una durata spropositata, che non si comprende in alcun modo e che nessuna parola nel poema giustifica7. Infine, come si è già detto, l ’assemblea divina in a cui dovrà far seguito quella in ε perché si compia ciò che nella prima era già stato decretato dà un’impressione fastidiosa di ‘falsa partenza’, e of Athene-Mentes a 253 sgg.’, Class. Rev. 11, 1897, p. 290 sgg.). Una radicale critica a Page e a tutti gli analitici che hanno infierito su questo passo è in F. M. Combellack, Gnomon, 28, 1956, p. 4 13 sgg. Piena approvazione ha trovato Klingner da parte di W . Schadewaldt, Harv. Stud. Class. Philol. 63, 1958, p. 30 sg. Nella storia dell’analisi di a. troviamo per una volta anche nomi di studiosi ita­ liani: G . De Sanctis, Per la scienza dell’Antichità. Saggi e polemiche, Torino 1909, p. 99 sgg. (polemico contro certe ostinazioni di uni­ tari); A . Ronconi, Studi it. filol. class. 12, 1935, p. 165 sgg.; V. Bartoletti, ibid. 13, 1936, p. 213 sgg. (concordi nel definire a un tardo centone). 7 I dati del problema sono esposti chiaramente da E. Schwartz, Die Odyssee, Miinchen 1924, p. 73 sg.: Telemaco sta a Sparta per tutta la durata del viaggio paterno dall’isola di Calipso a Scheria, più il suo soggiorno colà, cioè tre settimane, dopo aver declinato l ’invito di Menelao a trattenersi presso di lui dodici giorni (δ 587 sgg., 594 sgg.). Impossibile è anche che i pretendenti siano rimasti in agguato per un tempo così lungo. Più propenso a perdonare queste pecche era stato F. Blass, Die Interpolationen in der Odyssee, Halle 1904, p. 19 sg. G. Grote, Hist. of Greece II, p. 105, poco tenero verso l ’analisi di tipo tedesco, si meravigliava piuttosto che questa incongruenza cronologica sia l ’unica nel poema. Un altro difensore di parte unitaria è Alexander Shewan, Class. Journ. 22, 1926 ( = Homeric essays, Oxford 1935, p. 393 sgg.). Non vanno tra­ scurate le giustificazioni di Édouard Delebecque, Télémaque et la structure de l ’Odyssée, Gap 1958, p. 125 sg., che introduce i con­ cetti di « loi de succession » e di « temps morts ». A ltri suoi argomenti valgono soltanto come un singolare esempio di riluttanza a trarre conclusioni analitiche da un’aporia così evidente: non dobbiamo meravigliarci che il giovane Telemaco si trattenga a lungo a Sparta città di belle donne etc. Una spiegazione in chiave ortodossamente analitica è quella di W . Theiler, Deutsche Literaturzeitung 77, 1956, col. 345 sgg.

Il problema della Telemachia. Le atetesi

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costituisce la pecca più grave e inammissibile nella compo­ sizione di tutto il poema. Alla prima obiezione si è tentato di rispondere molte volte: una lunghissima serie di interpretazioni testimonia l’imbarazzo inevitabile dei lettori davanti a un ampliamento apparentemente così sterile dell’azione principale8. Come in altri casi (forse più frequentemente di quanto crediamo) il problema fu avvertito già prima che si concludesse la formazione dei poemi. Almeno un luogo dell’Odissea testi­ monia che 1’ ‘inutilità’ della Tele machia fu notata già allora e che si cercò di giustificarla con una spiegazione non peg­ giore di tante che la critica moderna ha proposto. Quando Atena annuncia brevemente a Ulisse che suo figlio si trova a Sparta, e gli spiega il perché del suo viaggio, l ’eroe ha un moto di sorpresa e quasi di risentimento: “νίπτε τ ’ άρ’ οϋ οί έειπες, ένί φρεσί πάντα ίδυΐα; | ή ϊνα που καί κείνος άλώμενος άλγεα πάσχϊ] | πόντον επ’ άτρύγετον, βίοτον δέ οί άλλοι, εδωσι;” (ν 417-9). La risposta contiene in brevi parole tutto quello che noi potremmo sviluppare in un ampio saggio d’interpretazione: “μή δή τοι κείνος γε λίην ένθύμιος έστω. | αύτή μιν πόμπευον, ϊνα κλέος έσθλόν άροιτο | κεΐσ’ έλθών.” (ibid. 421-3). La funzione di un passo come questo è evidente; il poeta vuole prevenire un’ovvia obie­ zione ( « non c’erano già abbastanza guai in casa di Ulisse 8 Che la Pelemachia sia un’aggiunta (a qualunque età si voglia attribuirla) sarebbe sospettabile per un semplice fatto: Nestore e Menelao spendono molte belle parole per Ulisse, ma non parlano mai di prestare un concreto aiuto a Telemaco e Penelope insidiati dai pretendenti; solo Nestore accenna a qualcosa di simile, indiretta­ mente, in T 2 19 , ma poi non se ne parla più. L’atteggiamento del narratore è quello di chi ha davanti a sé un corso degli eventi già noto e saldamente fissato anche nei particolari. Tutto ciò, natural­ mente, dimostra solo che l ’antichissimo motivo novellistico dello ‘sposo che torna dalla guerra’ è stato svolto senza tenere conto del fatto che Ulisse faceva parte di un vasto ciclo narrativo pieno di molteplici connessioni.

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La poesia epica, /'Odissea e Sparta

perché il figlio dovesse imbarcarsi in un’avventura inutile e pericolosa? » ) , e insieme esprime una perplessità (ten­ tando in pari tempo di risolverla) che si fece col tempo sempre più viva: come conciliare l ’onniscienza e la sapienza degli dèi col loro comportamento nell’epos omerico, col la­ sciarsi ingannare o sorprendere dagli avvenimenti? La ri­ sposta di Atena, cioè del poeta-critico, è proprio quella che possiamo attenderci dal suo tempo: il κλέος è ancora un supremo valore: esso spiega tutto, e per conquistarlo si fa questo e altro 9. La matrice di questo pensiero è ri­ masta feconda per un tempo lunghissimo. I critici moderni, parlando di « introduzione di Telemaco nel mondo del­ l ’epos », o di difesa agli occhi del mondo della causa sua e del padre10, sono rimasti in fondo sulla strada segnata dall’antico rapsodo preoccupato di persuadere il suo pubblico. Un’epoca di mentalità molto diversa vedrà nella Telemachia la Τηλεμάχου παίδευσες e anche questo pensiero avrà una fortuna millenaria, per essere ancora ai nostri giorni respinto risolutamente o difeso con le arti più eleganti dell’inter­ pretazione 11. 9 Atena aveva già annunciato che avrebbe mandato Telemaco in viaggio per informarsi sulla sorte del padre, ήδ’ ΐνα μιν κλέος έσθλόν έν’ άνθρώποισιν έχησιν (α 95). Il verso dovette apparire tanto impor­ tante che una parte della tradizione lo ripete a γ 78. 10 G. M. Calhoun, Rev. ét. gr. 47, 1934, p. 153 sgg., fa molta parte alla preoccupazione del poeta di giustificare moralmente Ulisse. La T'eiemachia serve a questo scopo doppiamente: la vendetta sarà più legittima dopo gli avvertimenti di Telemaco, e il suo viaggio, visto come una missione diplomatica e propagandistica, lo giustifi­ cherà dinanzi agli altri. 11 Porfirio, Quaest. Homericae, ad a. 284. La fortuna di questo pensiero è stata poi, come si è detto, estremamente varia. Wilamowitz, p. es., cambiò a questo proposito idea durante la sua vita: nella Heimkehr des Odysseus, Berlin 1927, p. 106, dichiarò che esso, dopo essergli apparso convincente, non lo soddisfaceva più. In una nuova chiave lo riprese H. W . Clarke, Am. Journ. Philol. 84, 1936, p. 129 sgg., sottolineando soprattutto l’importanza degli aspetti cortigiani e

Il problema della Telemachia. Le atetesi

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In un modo o nell’altro, la stragrande maggioranza dei critici ha finito comunque per convergere su una conclu­ sione: la Telemachia, quale si presenta a noi, ha quasi esclu­ sivamente il valore di un contenente, di una cornice sia pure ricca. Il confronto con una parte non dissimile delYOdissea vera e propria, il soggiorno di Ulisse presso i Feaci, è illuminante: anche là abbiamo una narrazione nel­ l ’altra; ma in quel caso, la cornice non è inferiore agli άπόλογοι stessi per ricchezza di autentici personaggi e di episodi altamente significativi e poetici; qui invece i rac­ conti di Menelao sovrastano grandemente tutto il resto per originalità e vivezza. Nella narrazione principale traspare la preoccupazione di seguire un programma e soprattutto quella di collegarsi alla ‘grande’ materia epica attraverso tutti i possibili accenni e richiami. Qui sarà anche da con­ siderare il maggior dissenso che divide la critica davanti alla Telemachia·, ebbe essa mai un’esistenza indipendente, o fu piuttosto composta come ampliamento àeYTOdisseaì Non tutti sembrano essersi posto il problema nei termini giusti, cioè tenendo lontana la nostra concezione del poema come libro: la Telemachia può essere stata oggetto di recitazioni che con essa si concludevano, ed essere stata composta sepa­ ratamente; ma ciò non significa ancora una sua esistenza davvero indipendente, che il critico debba proporsi di giu­ stificare. Essa faceva comunque parte dell’Odissea·, il suo significato le veniva pur sempre di riflesso 12. L ’analisi, co­ cerimoniosi delle visite a Nestore e Menelao. Molto finemente, ma anche molto soggettivamente, illustrò il maturare di Telemaco nei primi libri àtìYOdissea K. Reinhardt, Voti Werken und Formen, Godesberg 1948, p. 37 sgg. (= Tradition und Geist, Gòttingen 1960, p. 37 sgg.). Un punto di vista suggestivamente nuovo è quello di G. P. Rose, Trans. Proceed. Am. Philol. Assoc. 98, 1967, p. 391 sgg.: la partenza di Telemaco, 1’imboscata e il suo ritorno inaspettato fanno parte di un « revenge-pattern », di cui l ’epos e il mito greco forniscono altri esempi. 12 II canto di Demodoco δ 73 sgg. (renigmatica lite fra Achille

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stretta a riconoscere che la Telemachia da sola, come Kleinepos, non sta in piedi, si è trovata a scegliere fra due vie: o ritenerla nata come ampliamento al poema, ala nuova aggiunta a un edificio già eretto, o tenere fermo all’idea della sua originaria indipendenza, generalmente senza do­ mandarsi abbastanza che cosa significhi davvero ‘indipen­ denza’ in un caso come questo. Nella seconda ipotesi era necessario giustificare la riconosciuta ‘inconcludenza’ della vicenda: il rimedio escogitato dai critici più autorevoli è stato generalmente quello di ampliare l ’estensione dell’ori­ ginaria Telemachia fino a darle una consistenza soddisfacente; così alcuni hanno operato all’esterno, prolungandola fino a comprendervi il ritrovamento del padre e la vendetta com­ piuta in comune. Più ingegnosamente, qualcuno ha invece pensato di arricchirla all’interno, supponendo che in essa fosse contenuto un tempo il racconto in cornice del νόστος di Ulisse, prima che nella composizione definitiva esso fi­ nisse nella Phaiakis. A noi il problema interessa in limitata misura, sia perché lo riteniamo in fondo senza oggetto, sia perché non siamo obbligati a legarci a nessuna di queste ipotesi. Noi non pretendiamo di scegliere fra diverse possi­ bilità, formanti una gamma da cui possiamo estrarre exempli gratta queste tre : 1 ) qualcuno compose un ‘viaggio di Telemaco’ in fun­ zione spartana, accogliendovi materiale di altra origine che conveniva ai suoi intenti (le avventure di Menelao) e arric­ chendolo con episodi che non lo interessavano direttamente (la visita a Nestore). 2) Qualcuno ampliò le scene spartane (o ve le introe Ulisse) non è, preso per sé, meno ‘inconcludente’ della Telemachia. Anche là si racconta un evento che ne preannuncia un altro realmente importante (la caduta di Troia) come nel caso nostro la Telemachia precorre il ritorno di Ulisse e la vendetta. Eppure ciò non impe­ disce che questa οίμη sia universalmente celebrata (v. 74). Anche qui il significato e l ’interesse erano riflessi.

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dusse) in una già esistente Telemachia, legata all ’Odissea nel modo elastico e più ampiamente inteso che abbiamo cercato di definire 13. 3 ) Qualcuno operò su un’Odissea già sostanzialmente costituita, con la Telemachia già incorporata o aggiunta (con tutte le incertezze su quello che significa realmente il ‘costituirsi in unità’ dell O dissea). Molto più importante e utile è per noi osservare l ’in­ trinseco carattere delle parti àeWOdissea che ci interessano, e vedere se può trarsene qualche conclusione sul modo in cui esse sono arrivate alla forma attuale. La prima cosa che colpisce chi esamina criticamente τά έν Λακεδαίμονι14 è la straordinaria incertezza sul numero dei versi attribuibili alla composizione originaria. In 804 versi (5 1-623 + o 1-181) l ’apparato critico di Von der Miihll registra 32 fra atetesi dei critici antichi e omissioni importanti (in codici e pa­ piri) di versi singoli o di gruppi. Per un confronto, notiamo che nella stessa edizione se ne contano non più di 9 per i 586 versi di fr e 10 per i 566 di i. Le moderne espun­ zioni di versi mostrano un rapporto di disuguaglianza an­ cora più clamoroso 15. Piuttosto che ammettere una serie di 13 Una serie di ‘scene itacesi’ poteva esistere anche senza il viaggio. 14 Così chiamerò per brevità, sulla scorta di Eliano, V. hist. XIII 14, le scene spartane deWOdissea (nel seguito τεΛ). ls Sui libri δ e o si sofferma molto a lungo F. Blass, Die Interp. in d. Od. p. 65 sgg. La sua critica è sostanzialmente tradizionalista, ma proprio questo lo costringe a fare un gran numero di atetesi in questi due libri, in cui deve riconoscere molte difficoltà logiche. Qui non interessa seguirlo nelle sue interminabili, minute discussioni; prive di un’idea-guida, esse si riducono a una serie di rappezzi al zop­ picante andamento del racconto. Il libro fu comunque salutato con eutsiasmo da T.W . Alien (Class. Rev. 20, 1906, p. 267 sgg.) e da L. Laurand (A propos d ’Homère. Progrès et recai de la critique, Paris 1913) come opera di un restauratore del buon senso, del sal­ vatore d’Omero dopo i misfatti di Kirchhoff e Wilamovvitz. Ma per il loro gusto ammetteva ancora troppe interpolazioni.

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interpolatori accanitisi in maniera del tutto particolare su questa parte àéd’Odissea, saranno da riconoscere nella sua composizione queste tre caratteristiche: 1 ) Una mancanza di originalità che si rivela nell’alto numero di versi presenti anche altrove in Omero, e quindi particolarmente esposti al sospetto. 2) Uno stile narrativo per vasti tratti notevolmente sle­ gato, che rende possibile la rimozione di versi senza com­ promettere il senso generale. 3) La cosa più interessante: la presenza di notazioni e di interi episodi che danno un’impressione di superfluo, o comunque di singolare, come se qualcuno avesse voluto inzeppare nella composizione una massa di materiale nar­ rativo non ben giustificato. Sul primo e sul secondo punto dovremo tornare ancora; col terzo si dovrebbero considerare anche alcuni problemi che non rientrano strettamente nella categoria delle atetesi, ma che hanno lo stesso significato: vedremo infatti che in alcuni luoghi di δ è stato riconosciuto con fortissima verosi­ miglianza un rimaneggiamento e, in un caso, una soppres­ sione di versi scomparsi senza traccia, ma di contenuto facilmente ricostruibile, almeno nelle grandi linee. Per ora noteremo soltanto tre casi particolarmente esemplari e istrut­ tivi circa la maniera in cui il quarto libro delYOdissea ha preso la forma attuale e sull’impressione che esso ha susci­ tato in lettori antichi e moderni. L ’atetesi più vasta e più celebre è quella del cosiddetto γάμος, cioè del gruppo di versi 3-19 che descrivono il dop­ pio matrimonio celebrato in casa di Menelao mentre arrivano i due giovani ospiti. Esso presenta effettivamente una serie di particolari abbastanza superflui, e di ostacolo al fluire della narrazione in un momento importante. Inoltre, una volta date queste notizie, il poeta sembra dimenticarsene, e non vi accenna più in nessun modo. Ciò era evidentemente

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sufficiente a creare qualche sospetto16; ma con lo stesso diritto che a una pura e semplice aggiunta si può pensare a un poeta cui questa cronaca familiare apparentemente su­ perflua premesse particolarmente. L ’imposizione di un pro­ gramma a un talento probabilmente non molto ricco e ori­ ginale può aver prodotto una narrazione a tratti scarna e frettolosa, ma che non rinuncia a soffermarsi, magari con opportunità discutibile, sui particolari che a qualcuno sta­ vano realmente a cuore. Più avanti troviamo due gruppi di versi uniti da una comune caratteristica: quella di introdurre nel racconto una sorta di doppione, la ripetizione con nuovi particolari di cose già dette subito prima: 1 ) Nel racconto della pericolosa missione di Ulisse, spia travestita dentro Troia, i vv. 246-9, da εύρυάγυιαν a πόλιν sono non solo inutili, ma di troppo. Quando abbiamo già appreso che Ulisse si vestì di stracci e perfino si fustigò 16 Una discussione sull’autenticità del γάμος è in G. M. Bolling (The external evidence for interpolation in Homer, Oxford 1925, p. 226 sgg.), che vorrebbe espungere solo i versi 15-19, contro l ’opinione, p. es., di E. Bethe, Homer II, Leipzig-Berlin 1922, p. 374: « δ 3-19 sind interpoliert, wenn es iiberhaupt Interpolationen g ib t»: questo perché non abbiamo notizia di testi antichi dove mancasse tutto il γάμος, mentre sappiamo di alcuni dove mancavano quei cin­ que versi. Il metodo di Bolling è infatti tanto semplice quanto ri­ gido: poiché tutti i versi genuini erano secondo lui in tutti i testi, ogni volta che qualche verso manca in un manoscritto o papiro Yonus probandi tocca a chi vuole accettarlo nelle edizioni; Bolling non usa mai il termine atetesi, ma parla sempre di « inserzione » da parte degli editori che accettano i versi la cui presenza nel testo non sia testimoniata da un consenso assolutamente unanime. Per ca­ pire quanto sia arbitrario un metodo simile basta pensare alla scar­ sezza e alla casualità della nostra informazione circa i criteri della filologia antica nell’accettare o respingere versi. È ancora istruttivo su quest’argomento A. Ludwich, Aristarchs Homerische Textkritik, Leipzig 1884/85. M olti altri versi di δ e ε sono poco a posto, ευτελείς etc.

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per rendersi simile a un servo, ci sentiamo ripetere che egli si celò sotto le spoglie di un mendicante. Le parole κατέδυ πόλιν sono ripetute senza necessità, e confermano definiti­ vamente l ’impressione che qui la stessa cosa è detta due volte in maniera diversa e cambiando solo un particolare 17. 2 ) Un simile ‘doppione con varianti’ ancora più evidente è nei vv. 285-9 ( l ’episodio di Anticlo): Ulisse ha appena trattenuto Menelao e Diomede che follemente stavano per rispondere, dall’interno del cavallo di legno, al richiamo di Elena, quando la situazione si ripete: stavolta è Anticlo che « solo » (οΐος 286) vuole rispondere a Elena; e per la seconda volta: ά λ λ ’ Ό δυσεύς...18 Stavolta l’atetesi è antica e quasi del tutto concorde: uno scolio dice che il personag­ gio di Anticlo non era autenticamente omerico ma ciclico. Questo ci ricorda che Aristotele, fra gli otto possibili argo­ menti di tragedia che si possono estrarre dalla Piccola Iliade nomina uno dopo l ’altro la Πτωχεία e le Λάκαιναι. Sembra quindi che anche nell’altro caso dobbiamo riconoscere un richiamo al Ciclo: la πτωχεία sarà quella di Ulisse trave­ stito, e le « Spartane » Elena e le sue ancelle (Γ 143 sg.19); 17 L ’osservazione è più che secolare: vedi L. Friedlander, Philologus 4, 1849, p. 580 sg. Ma K. Lehrs obiettava (comunicazione orale a Friedlander, ibid.) che il senso si poteva aggiustare leggendo Δέκτη, nome proprio. Έπέχω, concludeva Friedlander. G. W . Nitzsch, Die Sagenpoesie der Griechen, Braunschweig 1852, p. 140 sgg., con­ sidera questo un esempio di « Doppelform einer und derselben Stelle » (e cita Friedlander). Più tardi P. D. Ch. Hennings, Jb. f. klass. Philol. 3. Supplbd., 1857-1860, p. 187, attribuirà a lui il me­ rito di avere scoperto la doppia recensione. Gli scoli a Lycophr. Alex. 780 testimoniano che nella Piccola Iliade era Toante a fusti­ gare Ulisse. 18 Qualcosa come un terzo sviluppo del fortunato tema: « Ulisse trattiene un imprudente che vuole uscire innanzitempo dal cavallo di legno » troviamo in λ 523-32; stavolta l ’incauto è Neottolemo. 19 Per il problema della presenza qui di Aithra madre di Teseo cf. sotto, p. 142 n. 10.

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in δ 250 sgg. si racconta che la felice conclusione dello spio­ naggio di Ulisse si dovette proprio a Elena, il personaggio che tutt’e due le volte è strettamente connesso cogli episodi che il poeta considerava tanto importanti da arricchirne il racconto con tutti i particolari possibili, a costo di creare una narrazione sovraccarica e perfino contraddittoria20. È ovvio che tutto ciò si può spiegare anche in altro modo; ma in tutta la nostra indagine vedremo che quest’in­ terpretazione dei fatti si accorda meglio di ogni altra con l ’immagine dell’autore di τεΛ quale si confermerà sempre più ai nostri occhi: un vero epigono, di non grande capa­ cità, e preoccupato, assai più che di creare un’opera poetica valida per se stessa, di ricollegare il suo racconto alla grande tradizione dei Τρωικά e di dare un quadro più ricco e splen­ dido possibile della vita presente e passata di Elena e Menelao.

20 Giustifica decisamente il presunto doppione J. T. Kakridis, Serta philologica Aenipontana, Innsbruck 1962, p. 27 sgg. Anche Huxley, Gr. epic poetry p. 15 4 non discute affatto il problema, rite­ nendo che la preventiva fustigazione non costituisca un doppione del mascheramento.

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Eppure, 1’ αποδημία di Telemaco a Sparta è un episodio che mostra in parte caratteri indubbiamente nuovi e origi­ nali, a tratti addirittura squisiti. Tanto più forte apparirà perciò il contrasto con la povertà di inventiva che traspare in alcuni luoghi di questa composizione e con lo schiac­ ciante influsso che altre parti ddVOdissea hanno esercitato sul suo autore, fino a farlo apparire spesso come un epi­ gono pedissequo, a volte perfino negligente e frettoloso. Dopo le prime considerazioni, dettate dai problemi testuali, intraprenderemo una lettura sistematica di τεΛ per docu­ mentare il giudizio già espresso e per sottolineare tutti i debiti che l ’autore (o, diciamo meglio, il responsabile del­ l ’attuale versione) ha verso altre parti àùYOdissea, sia nel­ l ’impiego di certi motivi che nella dizione, e che sono causa dell’impressione di « già sentito », che il lettore attento e familiare con tutto il poema prova continuamente. La cesura fra γ e δ è collocata abbastanza razionalmente· dopo la succinta notizia della tappa a Fere, presso Diocle, un gruppo di versi di repertorio (con una delle solite banali incertezze della tradizione) descrive la successiva giornata di viaggio. A ll’imbrunire Telemaco e Pisistrato arrivano a Sparta, e la larghezza dell’introduzione, il taglio ampio delle scene fanno comprendere che siamo all’inizio di un nuovo, importante episodio. La situazione trova subito un parallelo negli άπόλογοι di Ulisse: all’inizio di κ l ’eroe sbarca nell’isola di Eolo, dal quale riceve il celebre magico aiuto. Dopo poche decine di versi il disastro causato dalla curiosità e dalla disobbedienza dei compagni si è compiuto: al v. 60 Ulisse si presenta di nuovo a Eolo. In tutt’e due i casi, alcuni viaggiatori 3

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arrivano presso un potente personaggio, che è in grado di offrire loro splendida ospitalità ed aiuto, e che viene tro­ vato a banchetto (δαίνυντα δ 3, δαίνυντο δ 15; δαινύμενον κ 6 1 ); contemporaneamente il lettore apprende come egli provveda ai matrimoni di figli e figlie (δ 3-10 ~ κ 7 ). Un secondo confronto è in sé meno notevole, ma per noi più importante, poiché mostra per la prima volta non soltanto Telemaco in una situazione analoga a quella vis­ suta da suo padre, ma anche Alcinoo come modello della parte svolta da Menelao h In η 48 sgg. Atena istruisce sotto mentite spoglie Ulisse sulla maniera di presentarsi all’ari­ stocrazia dei Feaci, e gli dice fra l ’altro: σύ δ’ έσω κίε μηδέ τ ι θυμώ | τάρβει. Seguendo il filo delle reminiscenze che ci ha guidati qui, ritorniamo ora alla Telemachia, dove il discorso di Atena-Mentore per incoraggiare Telemaco a interpellare Ne­ store (γ 14-20) contiene motivi simili all’altro protreptico η 48-77: Τηλέμαχ’, ού μέν σε χρή ετ’ αίδοΰς ούδ’ ήβαιόν . .. ά λ λ ’ αγε νΰν ίθύς κίε Νέστορος ΐπποδάμοιο. Secondo una tendenza che vedremo continuamente confermata, lo svol­ gimento che la Telemachia fa del medesimo tema è assai più succinto (o meglio più povero) di quello che ne dà la Thaiakis 12. Basterà confrontare le espressioni banali di γ 19 sg. con quelle che nel passo corrispondente di η com­ piono la stessa funzione: l ’incoraggiamento a rivolgersi ad un personaggio dal quale ci si può attendere un efficace aiuto. Per finire noteremo una coincidenza nel lessico. Il raro imperativo κίε compare in γ 17 come in η 50 (fuori di qui è attestato solo una terza volta in π 150). 1 L ’osservazione è vecchia almeno quanto i Deipnosofisti di Ate­ neo: ά λ λ ’ "Ομηρος ώσπερ άγαδός ζωφράφος ομοιον τώ πατρί τόν Τηλέμαχον παρίστησι. πεποίηκεν γοΰν άμφοτέρους τόν μέν τώ Ά λκινόφ, τόν δέ τώ Μ ενελάψ διά δακρύων γνωριζόμενους (V 182 Α). 2 A parte naturalmente la presenza in η della vasta digressione genealogica che sarebbe stata superflua nel caso di Nestore.

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I vv. 17-9: μετά δέ σφιν έμέλπετο θείος άοιδός [ φορμίζων · δοιώ δέ κυβιστητήρε κατ’ αυτούς j μολπής έξάρχοντες έδίνευον κατά μέσσους, sono uguali a quelli che leggiamo nell’ Όπλοποιία, Σ 604-606; che là siano meglio al loro posto è osservazione antica, di cui troviamo traccia nella strana teoria raccolta nell’opera di Ateneo (V 180 C, 181 C), che li voleva interpolati da Aristarco. Trasferiti in questo contesto, essi servono a introdurvi sbrigativamente vari ele­ menti presenti nella Phaiakis, ove Demodoco è chiamato θείος άοιδός tre volte (θ 43, 47, 87) e dove Alcinoo invita i βητάρμονες tra i Feaci a dare saggio della loro valentia nella danza (θ 250 sgg.). Al v. 43 incontriamo un’espressione del tutto singolare: θείος δόμος detto del palazzo di Menelao, che non ha con­ fronti se non nel χορός θείος dei Feaci (θ 2 6 4). Occorre appena notare che il θείος αγών d i H 2 9 8 e d i X 3 7 6 è tutt’altra cosa: l ’impiego dell’epiteto θείος in δ 43 e θ 264 è assolutamente unico. Subito dopo segue il momento del θαυμάζειν (v. 4 4 ). Il verbo è impiegato qui assolutamente e il poeta si sbriga proseguendo (come vedremo) con versi non originali: in η 43 sgg. la fantasia si dispiega invece nella pittura della prospera talassocrazia dei Feaci. A v. 45 sg., ώς τε γάρ ήελίου αίγλη πέλεν ήέ σελήνης | δώμα καθ’ ύψερεφές Μενελάου κυδαλίμοιο, troviamo uno dei più importanti iterati; i versi tornano in η 84 sg., colla necessaria differenza nel secondo emistichio, che là suona μεγαλήτορος Άλκινόοιο. Stavolta gl’indizi d’imitazione sono di peso molto maggiore. La αίγλη di η 84 è spiegata dai versi che seguono (il γάρ del v. 8 6 ), contenenti un grande numero di aggettivi di materia: tutto nel palazzo di Alcinoo era metallico, ed opera di Efesto. Α ίγλη, termine con riflessi religiosi, è quindi impiegato molto a proposito. In T 362 esso indica lo splendore sovrumano delle armi di Achille, opera ancora di Efesto. Nella Telemachia i due versi fanno effetto di corpo estraneo: il passo successivo che dovrebbe

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spiegarli (δ 71-5) aggrava i sospetti, poiché contiene a sua volta, vedremo presto, una serie di stranezze. Ciò che segue (δ 47 sgg.) ricorda molto il momento analogo della Phaiakis (η 133 sgg.: il visitatore ha saziato la sua ammirata curiosità ed entra nel palazzo), ma il con­ fronto è schiacciante per la Telemachia. Là apprendiamo come Ulisse appaghi la sua curiosità attraverso la lunga, celebre descrizione del palazzo e del giardino di Alcinoo; qui veniamo condotti nella stanza da bagno con un tra­ passo che, anche da chi voglia evitare ogni discussione di gusto e fare la debita parte ai costumi dell’età omerica, alla ‘semplicità’ eroica etc., dovrà chiamarsi perlomeno brusco. Meno importante è il fatto che i versi seguenti (δ 49-50) siano assai simili a θ 454 sg., e che ancora quelli che se­ guono si ritrovino nella Thaiakis e altrove (δ 52-6 = θ 172-6 e δ 52-8 = α 136-42), poiché si tratta di scene tipiche, de­ scritte con versi di repertorio. È invece interessante che al v. 50 (~ 455) ne segua uno: ές ρα θρόνους έζοντο παρ’ Άτρεΐδην Μενέλαον, che ricorda da vicino θ 469 ή ρα καί. ές θρόνον ΐζε παρ’ Αλκίνοον βασιλήα. I momenti salienti dell’accoglienza trovata da Ulisse a Scheria ricompaiono qui puntualmente, tranne naturalmente i passi relativi all’epi­ sodio di Nausicaa. Il procedimento è sempre lo stesso (pos­ siamo ormai spingerci a una formulazione più precisa ) : l’autore della Telemachia, trovandosi di fronte a un tema tanto simile non ha potuto sottrarsi all’influsso della rapso­ dia più antica, forse già veneranda, e l ’ha ricalcata punto per punto, ma abbreviandola grandemente. Fare di Sparta una vera seconda Scheria era probabilmente per lui compito esorbitante; più avanti potremo trarre qualche conclusione sugli intenti del suo poetare, che l ’hanno ulteriormente al­ lontanato dal suo antecessore. L ’antico arazzo amorevol­ mente intessuto ha suggerito le forme di uno schizzo rapido e sciatto, ma utile ad introdurre quello che al poeta premeva davvero.

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I versi 71-5, come abbiamo già accennato, sono un chiaro richiamo ai precedenti 45 sg., e mirano a costituirne una sorta di giustificazione: “φράζεο, Νεστορίδη, τω έμω κεχαρισμένε θυμω, χαλκού τε στεροπήν κατά δώματα ήχήεντα χρυσού τ ’ ήλεκτρου τε καί αργύρου ιηδ’ έλέφαντος. Ζηνός που τοιήδε γ ’ 'Ολυμπίου ένδοθεν αυλή, δσσα τάδ’ άσπετα πολλά · σέβας μ’ έχει είσορόωντα”.

Il significato generale dei versi è piano, ma un esame ap­ pena accurato è fonte di molte perplessità. Χαλκού στεροπή è espressione che compare molte altre volte, ma sempre ove si parli di bronzo delle armi. Da στεροπή deve inoltre dipendere tutta la serie dei genitivi di v. 73, ciò che è ancora più sorprendente. Anche se il secondo di questi ma­ teriali è elettro e non ambra, la στεροπή dell’avorio non sembra comunque un tocco pittorico di autentica tradizione omerica. Singolare è ancora, nel verso seguente, l ’uso di αυλή: τψ τής αυλής όνόματι τα δώματα δηλοΐ annotava già Eustazio. Da Ateneo (V 188 F-189 A ) sappiamo che la nostra lezione è quella di Aristarco. Seleuco aveva sop­ presso la difficoltà correggendo: Ζηνός που τοιαύτα δόμους έν κτήματα κεΐται. Ma si tratta di un evidente arbitrio; quest’espressione è in realtà frutto di un’immaginazione in­ certa, influenzata dal più tardo significato di αυλή e a cui la memoria suggeriva una parola che compare due volte nella raffigurazione di Ulisse ammirante il palazzo di A l­ cinoo (η 112 e 130); non sarà pura coincidenza il fatto che anche là il termine sia preceduto immediatamente da un avverbio in -θεν. I poeti epigoni hanno la memoria piena di queste associazioni, d’idee o semplicemente di suoni. Nella prima metà del v. 75 l ’espressione, anche se com­ prensibile, è comunque dura. Commentatori antichi e mo­ derni vi hanno visto qualcosa di pleonastico o perlomeno di

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impreciso3. Ancora in Ateneo (V 189 B) sentiamo parlare addirittura di solecismo. La conclusione di tutto il discorso è una fortunata formula, qui impiegata in maniera forse un po’ troppo iperbolica, che conduce bene o male in porto un discorsetto dove tutto ciò che non è di seconda mano è, per un verso o per l ’altro, maldestro. Le parole sussurrate da Telemaco a Pisistrato sono intese da Menelao, che si schermisce con luoghi comuni (78 sgg.): τέκνα φ ίλ’, η τοι Ζηνί βροτών ούκ αν τις έρίζοι · | αθάνατοι γάρ τοϋ γε δόμοι καί κτήματ’ έασιν · | άνδρών δ’ η κέν τίς μοι έρίσσεται, ήέ καί ούκί, ] κτήμασιν. Stavolta le parti sono scambiate, ma non così da impedirci di riconoscere l ’originale da cui que­ sta scena deriva: le parole di Ulisse ad Alcinoo, che aveva dubitato di dovere riconoscere in lui un dio (η 208 sgg.): Ά λκίνο’, άλλο τ ί τοι μελέτω φρεσίν · ού γάρ έγώ γε | άθανάτοισιν έοικα, τοί ουρανόν εΰρύν έχουσιν, | ού δέμας ουδέ φυήν, άλλά θνητοΐσι βροτοΐσιν. οΰς τινας υμείς ’ίστε μάλιστ’ όχέοντας όϊζύν | ανθρώπων, τοΐσίν κεν έν άλγεσιν ΐσωσαίμην. Menelao lascia temporaneamente la parte di Alcinoo per quella di Ulisse, ed è naturale: anche lui sta per raccon­ tare i suoi viaggi; la piccola ‘odissea’ di Menelao è prece­ duta da un preludio dove si anticipa l ’argomento, e si fa qualche considerazione rassegnata e pia sulla propria sorte, esattamente come nell’Odissea propriamente d etta4. Come al solito osserviamo che nella Phaiakis c’è un originale sof­ fio di poesia, nel moto umanissimo dell’animo di Ulisse, che si riconosce non uguale a un dio, ma al più sventurato degli uomini; qui troviamo soltanto un’erudizione geografica e una preoccupazione mitografica che hanno già un sapore ciclico. L ’espressione ha anche stavolta qualcosa di strano, in quell’ άθάνατοι detto di cose inanimate, che è un unicum, 3 Per esempio Merry e Riddell: « οσσα roughly equivalent to 8τι τόσα ». 4 Sembra anche evidente la dipendenza di δ 267 sgg. da a 3.

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almeno nei poemi om erici5. Appena Menelao arriva a par­ lare di Ulisse (vv. 107-12) avviene un nuovo scambio di parti fra lui e Telemaco. In pochi versi abbiamo un’antici­ pazione delle due scene famose di θ 83-95 e 521-34. Tele­ maco si copre il volto con la χλαΐνα, ma la causa dobbiamo indovinarla noi; nel caso di Ulisse che si è commosso a sen­ tir cantare di Troia e degli Achei il comportamento si confà perfettamente al personaggio e alla situazione. Là il motivo è talmente poetico ed efficace che il redattore della nostra Odissea non ha saputo rinunciare al doppione; qui tutto è scialbo e affrettato. L ’espressione δάκρυα λείβειν (ο δάκρυον εΐβειν) ripetuta ben quattro volte in θ (86, 93, 531, 5 3 2 ), qui non c’è, ma compare quando Menelao rife­ risce a Elena il comportamento dell’ospite (δ 153). Il νόησε di v. 116 ha rispondenza precisa in θ 94 e 533. In ogni modo, Menelao si avvede della commozione del­ l ’ospite, e viene colto da un dubbio di cui non compren­ diamo tiene l ’oggetto (vv. 117-9): μερμήριξε δ’ έπειτα κατά φρένα καί κατά θυμόν, | ήέ μιν αυτόν πατρός έάσειε μνησθήναι, | ή πρώτ’ έξερέοιτο έκαστά τε πειρήσαιτο. Cosa significa l ’espressione di v. 118, dato che Menelao non conosce an­ cora l’identità del suo convitato? Se, come pare, dobbiamo intendere che il giovanissimo Telemaco si sarebbe verosimil­ mente presentato nominando appunto suo padre, la cosa è espressa poco chiaramente. Altrettanto si può dire se il nar­ ratore vuole accennare al sorgere del primo sospetto nel­ l ’animo di Menelao. E si noti infine che proprio il v. 118 è l’unico costruito originalmente fra due che si trovano anche altrove. Ma in realtà tutto il motivo ààYincognito di Tele­ maco è svolto in maniera poco chiara, poiché esso è una riproduzione poco felice di quello di Ulisse presso Alcinoo. Ma chi legge oggi (come certamente chi udì per la prima 5 Normale sarebbe αφθιτον, detto p. es. a N 22 del palazzo di Posidone. Lo scolio V ad loc. osserva giustamente: τό ά φ θιτα έπί πράγματος, τό αθάνατον έπί θεοΰ.

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volta questa rapsodia) scavalca senz’avvedersene tutte queste difficoltà, poiché, conoscendo da sempre la Phaiakis, prende inconsapevolmente da là ciò che gli è necessario per col­ mare le falle del racconto. La comparsa di Elena (v. 120 sgg.) è accompagnata da un conveniente apparato regale. Poco conveniente è invece il paragone con Artemide, che ha tutta l ’aria di essere un meccanico riecheggiamento da ζ (102 sgg. e 151 sg .), dove esso è applicato molto più appropriatamente a Nausicaa, in un episodio che è fra i più celebri e caratteristici di tutto il poema6. A v. 142 leggiamo di nuovo l ’espressione (qui voltata al femminile) che ci era sembrata eccessivamente iperbolica al v. 75: σέβας μ’ έχει είσορόωσαν, dice Elena riconoscendo Telemaco alla somiglianza col padre. La stessa esclamazione aveva proferito Nestore in un’analoga circo­ stanza (γ 123). In tutt’e due i casi il suo uso è poco comprensibile: può darsi che esso vada giustificato appel­ landosi alla mentalità dell’epoca, ma è altrettanto probabile che esso sia semplicemente suggerito da una reminiscenza di ζ 161, dove l ’esclamazione è perfettamente accettabile, preceduta com’è da una climax efficacissima di espressioni ammirate, e seguita da altre non meno estatiche. Il sospetto si rafforza se consideriamo tutto il contesto: l ’uso parente­ tico di σέβας μ’ έχει είσορόωσαν indebolisce l’intensità del discorso, anziché costituirne il felice culmine come nell’altro passo. Anche la prima metà del verso ουτ’ άνδρ’, οϋτε γυναίκα è là collocata molto più naturalmente. In 174 sgg. Menelao si rammarica per non aver potuto mantenere la promessa fatta a Ulisse di installarlo presso Sparta come suo vicino: καί κέ oì ’Άργεϊ νάσσα πόλιν καί δώματ’ έτευξα, | έξ Ιθάκης άγαγώ ν συν κτήμασι καί τέκεϊ ω [ καί πάσιν λαοΐσι, μίαν 6 Anche Virgilio, che deve tanto alla Phaiakis, imita poco a pro­ posito il paragone con Artemide descrivendo in Aen. I 498 sgg. la comparsa di Didone (v. il commento di Conington e Nettleship ad loc.).

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πόλιν έξαλαπάξας. Alcinoo (η 311 sgg.) si era più semplicemente augurato che egli potesse divenire suo genero e rice­ vere da lui una casa e dei beni. L ’analogia del motivo è evi­ dente; ma ciò che nella Phaiakis è ben comprensibile (la disapprovazione di Aristarco è veramente non più che una questione di gusto) qui è assurdo. Menelao poteva certo darsi poco pensiero di « sgomberare » una città soggetta, ma perché Ulisse avrebbe dovuto lasciare la sua Itaca e trasmi­ grare « con tutte le sue genti » nel Peloponneso? Ma qui stiamo uscendo ormai dalla semplice ricerca di un rapporto di dipendenza, e avvicinandoci invece a quello che di più originale è in questo libro à&Yi’Odissea·. su questi versi do­ vremo tornare ancora e, spero, con miglior frutto. Un esempio di presumibile ‘trasferimento di motivi’ tro­ viamo nel successivo racconto di Elena ( v. 244 sgg. ) : quell’Ulisse che si deturpa e si rende simile a un mendicante deriva probabilmente dallo straccione della τίσις. Dell’epi­ sodio narrato nei versi 285-9 ci siamo già dovuti occupare, per notare il suo carattere di doppione rispetto a ciò che precede. Sul fondamento di una testimonianza antica ( sch. : è ’Ά ντικλος έκ τού κύκλου) qualcuno fra i critici ha consi­ derato questo passo né più né meno che un frammento della Piccola Iliade 7. Esso costituisce comunque un esempio fra i più istruttivi per illustrare quel genere di inoriginalità che qui indaghiamo: ένθ’ άλλοι μέν πάντες άκήν έσαν υΐες Αχαιών, ’Άντικλος δε σέ γ ’ οίος άμείψασθαι έπέεσσιν ήθελεν · ά λ λ ’ Όδυσεύς έπί μάστακα χερσί πίεζε νωλεμέως κρατερησι, σάωσε δέ πάντας Αχαιούς. 7 Bolling, External evidence for interpol, in Homer, p. 233: « Lines 285-9 are a fragment of thè Little Iliad — ό ’Ά ντικ λο ς έκ τοΰ κύκλου (H); lines 280-4 are thè reworking of this story by thè author of thè T'elemachy. The interpolation seems very mechanical ■— thè absorption of a parallel passage written in thè margin ». A ltri sono meno ottimisti.

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Ulisse che salva in extremis una situazione pericolosa chiu­ dendo drasticamente la bocca a un imprudente è un’imma­ gine già nota dalla scena famosa dei Νίπτρα (τ 479 sgg. ); ma ciò che dà valore decisivo al confronto è un’altra cir­ costanza: quando Euriclea narrerà a Penelope come Ulisse le abbia impedito di parlare nel momento della prima agni­ zione ricomparirà la parola μάσταξ, anzi tutto il nesso έπί, μάστακα χερσίν (ψ 7 6 )! E osserviamo che si tratta di un termine talmente raro che nell’unico altro luogo dei poemi omerici dove esso compare (I 324) il suo significato era un problema già per gli antichi. Ancora una volta un motivo è trasmigrato attraverso la letteratura epica portando con sé un brandello della sua prima veste: stavolta la rarità del termine non può lasciarcene ragionevole dubbio 8. Ripetizione della sorta più banale troviamo in 5 302-7: il coricarsi degli ospiti e dei padroni di casa, e il successivo risveglio, sono descritti con quasi le stesse parole di η 344θ 2; Telemaco fa regolarmente la parte di suo padre, Mene­ lao ed Elena quella di Alcinoo e Areta. Con le stesse parole di Alcinoo (η 311 sg.) si esprime Menelao in S 341 sg.; peraltro si distacca subito dal modello e introduce una breve digressione mitografica caratteristica della maniera di questo libro. Poco dopo cominciano gli άπόλογοι di Menelao, e qui non troviamo imitazioni, ma un’originalità e una disin­ voltura che hanno entusiasmato non a torto i critici omerici più sensibili. Osserveremo soltanto che ha un carattere se­ condario la narrazione ai versi 360-3. La sosta forzata per i venti contrari, la fame, e l ’allontanamento del capitano dai suoi uomini che introduce la svolta decisiva della vicenda (qui per il bene, là per la rovina) ricordano le vicende di μ 324 sgg. Più interessante è che al verso 564 si nomini lo ξανθός 'Ραδάμανθυς (ancora in η 323 e in H 322, un passo di 8 V. già A. Romer, Rh. Mus. 61, 1906, p. 342 sg. e cf. sotto p. 123 n. 3.

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carattere genealogico ). Anche questa coincidenza la notiamo solo provvisoriamente, in attesa di servircene come indizio quando torneremo a indagare la Telemachia da un altro punto di vista. Poco dopo lasciamo Sparta9, per tornarvi solo con l ’inizio di o. Là ritroviamo comunque subito l ’imi­ tazione della Phaiakis a cui siamo ormai abituati, o 64-6 sono il solito riassunto incolore di v 38 sgg.: Telemaco chiede commiato a Menelao come suo padre l ’aveva chiesto ad Alcinoo. La risposta di Menelao contiene le stesse sen­ tenze enunciate in un discorso di Alcinoo cui dobbiamo tor­ nare per la terza volta: η 309 sgg. L ’espressione proverbiale άμείνω δ’ αΐσιμα πάντα si ritrova in η 310 come in o 71, e nel secondo dei due luoghi se ne fa identica applicazione: non bisogna trattenere oltre misura l ’ospite. Nella prima parte di o si potrebbe notare ancora un’incongruenza: Atena, quando compare a Telemaco insonne, lo spinge a partire subito con toni abbastanza drammatici (vv. 10-42); non soltanto gli rammenta il pericolo di danni al suo patrimonio, ma gli comunica che nemici potenti hanno organizzato un attentato contro la sua vita. Logicamente, Te­ lemaco viene colto da un’impazienza febbrile e vorrebbe addirittura partire prima dell’alba. Coerente con la dram­ maticità dell’inizio è ancora il gruppo di versi 296-300: Te­ lemaco naviga arditamente nella notte όρμαίνων, ή κεν θάνατον φύγοι ή κεν άλοίη (subito dopo si ha il cambia­ mento di scena, con efficacia narrativa sorprendentemente moderna). Ma che cosa troviamo fra questi due punti fermi? A parte l ’episodio di Teoclimeno, digressione che si colloca per lo meno su uno sfondo di drammaticità e che conserva 9 G li ultimi versi (5 620-4) sono strani e inaspettati. W o lf (Prolegg. cap. 30) li trovava oscuri e per nulla omerici: « Cuius culpae quidem in omni reliqua parte IV. libri aliquammulta vestigia no­ tavi ». Nella lettera ad Heyne (in appendice alla terza ediz. dei Prolegomena, Halle 1884, p. 232) confermava di aver provato sempre la stessa impressione, rileggendo il passo in tempi lontani fra loro.

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una certa tensione al racconto, il resto è costituito da scene ‘cortesi’ identiche a quelle cui ci ha abituato 5: si dipingono con colori splendidi le ricchezze della reggia spartana, la munificenza della coppia regale, e si insiste sui buoni rap­ porti fra Itaca e Sparta (v. 158 sg. ) ; Elena, che in 5 era apparsa come provvida custode di buoni farmaci, ora si mostra abile interprete di un auspicio che aveva imbaraz­ zato Menelao. Telemaco, frattanto, chiede dapprima com­ miato con tre modesti versi (64-6: oltre al contenuto gene­ rico, è segno di povertà il visibile parallelismo del secondo e del terzo); poi, udita da Menelao la curiosa proposta di accompagnarlo come un giovane signore in un grand tour attraverso il continente 10, conferma il suo proposito di par­ tire subito (vv. 87-91) accennando stavolta alle insidie con­ tro i suoi b en i11. A un lettore moderno questo non sembra il comportamento di una persona in serio pericolo di vita, né il poeta ha introdotto nel luogo opportuno queste scene che rallentano per noi insopportabilmente la tensione dram­ matica. Concluderemo per questo che le scene spartane non erano calcolate per questo contesto e che esse ricevettero il loro posto nella struttura attuale solo da un successivo compositore, quello stesso forse che le ha divise in due tron­ coni? Una conclusione del genere non manca di aspetti at­ traenti, ma costituirebbe una ricaduta in quel genere di ana­ lisi che abbiamo detto di voler evitare assolutamente. D’altra parte non sarebbe difficile, neppure stavolta, togliere peso a questi argomenti: Atena, informando Telemaco del peri­ colo, l ’aveva subito dopo tranquillizzato e accertato del­ l ’esito favorevole dell’episodio (v. 34 sg.); ai pretendenti 10 Come questi versi si trovino qui è cosa che non possiamo più accertare; sappiamo però che il ‘giro di visite’ doveva essere un espediente usato certo più d ’una volta per introdurre cataloghi e ras­ segne di eroi e di popoli. Nelle Ciprie Nestore e Menelao facevano un simile giro della Grecia. 11 Anche Γ ολωμαι di v. 90 sarà da intendere in questo senso.

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e alla punizione che seguirà alle loro trame si accenna signi­ ficativamente nei versi 177 sg. Infine (e questa è la consi­ derazione più importante), dobbiamo attribuire al pubblico dell’Odissea le stesse esigenze di un moderno lettore di ro­ manzi d’intreccio? Quando queste leggende hanno preso l ’at­ tuale forma poetica, neppure i bambini ignoravano come la vicenda sarebbe andata a finire... La dimenticanza di questo fatto è l’errore commesso infinite volte da un’analisi che non usciva dall’astratta considerazione del testo 12.

12 W . Diehl, Die wòrtlichen Beziehungen zwischen Ilias und Odyssee, Greifswald 1938, p. 38 sgg., fa notare come i paralleli tra versi di 5 e dell’Iliade siano particolarmente numerosi e in qualche caso sembrino dimostrare una sicura dipendenza. Il suo errore con­ siste nel non considerare le possibili ripetizioni interne dell Odissea. Così nel caso di δ 290-305 ~ η 334-47 egli suppone che tanto l ’uno che l ’altro passo derivino da Ω 643-8, 673-6, trascurando il fatto che i due episodi dell’Odissea proseguono con versi quasi uguali che non si trovano invece nel presunto modello. Obiezioni simili si possono fare a Dietrich Miilder, Hermes 65, 1930, p. 38 sgg., che per dimo­ strare la poca originalità, anzi addirittura Yimpotentia creandi del­ l ’autore di δ esamina tutti i suoi debiti verso l ’Iliade, ma non quelli verso la Phaiakis. Ciò deriva dalla sua strana convinzione che non esistesse una comune lingua epica, ma un’opera poetica del tutto originale, l ’Iliade, che il poeta di δ imita dopo averla accuratamente studiata. Maggior interesse hanno le osservazioni di M. Leumann, Homerische W orter, Basel 1950, p. 331, che dimostra col suo metodo la priorità degli Άπόλογοι rispetto a varie altre parti dell’Odissea·. « Zusammengewachsenes ήδύποτον der Telemachie, β 340 γ 391 ο 507, erwuchs aus zweiwortigem ήδύ ποτόν der Kyklopenszene t 354 ». Imitazioni interne nell’Odissea, trasmigrazione di motivi da un episodio all’altro (ε sarebbe stato modello a κ) indaga Gotz Beck, Philologus 109, 1965, p. 1 sgg.

QUESTIONI PRELIMINARI LE TESTIMONIANZE SU LICURGO ALCMANE, TIRTEO E OMERO

Prima di procedere, sarà ora il momento di chiarire la posizione qui assunta circa una serie di questioni contro­ verse, per dissipare, se possibile, la legittima perplessità di chi ha imparato a considerare problematici certi dati a lungo accolti con poca o nessuna critica. L ’espressione ‘poemi omerici’ è usata qui di regola per evidenti ragioni di comodità. Si farebbe torto al lettore av­ veduto dichiarandogli volta per volta quando essa indichi il testo àeìì’Iliade e àe\Y Odissea quale lo leggiamo nelle no­ stre edizioni e quando invece designi una possibile versione poetica delle saghe attorno all’ira di Achille e al ritorno di Ulisse, già sostanzialmente simile a quella a noi nota, ma con eventuali forti divergenze in singoli luoghi, e non ancora necessariamente composta nell’attuale organismo narrativo, anzi forse ben lontana dalla disposizione d e fin itiv a I punti davvero importanti da discutere sono altri: 1 ) Il rapporto fra la composizione orale ( se non dei nostri poemi omerici certo dei loro antecedenti prossimi) e la redazione dei testi a noi noti è stata definita di recente « la questione omerica del nostro tempo », e chiunque scriva oggi di cose omeriche non può disinteressarsene. Natural­ mente non è neppure nostro compito darne qui una vera discussione. Basterà sottolineare che si tratta comunque di un problema ancora aperto e che nessuna soluzione può venirci imposta come regola e correttivo assoluto di conclu­ sioni tratte da un’indagine spregiudicata. Evidentemente non potremo accettare la posizione più estrema, quella di chi vede nel nostro Omero la fissazione scritta, avvenuta una sola volta in un caso eccezionale, di una materia perenne-

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mente e totalmente fluida per definizione, un « Proteo foto­ grafato » secondo la felice formulazione di uno dei capi­ scuola delle nuove idee. Con altri meno dogmatici rappre­ sentanti di esse si accetta qui il principio che il riconoscere ai poemi omerici caratteri fondamentali di oralità non debba far chiudere gli occhi davanti a fatti interpretabili come re­ miniscenze o consapevoli imitazioni, che presuppongano un testo (scritto o mandato a memoria: questo non lo sap­ piamo e non possiamo fissarci su una posizione qualsiasi nell’incertezza assoluta), cioè una composizione diffusa e nota al di là dell’uditorio di un giorno e di un luogo in una forma sostanzialmente stabile. 2) Qui si parlerà della prima diffusione dei poemi ome­ rici, e anche questo problema ha preso negli ultimi anni aspetti alquanto nuovi. Generazioni intere hanno immaginato l ’epica greca come una fiammella accesasi progressivamente in qualche luogo di un’area delimitabile abbastanza bene, per illuminare una tenebra generale coi raggi di una luce splendente senza rivali. Per moltissimo tempo qualunque espressione o tratto di stile incontrato in un poeta greco arcaico e che ricordava qualcosa di simile nell’Iliade o nell’Odissea è stato qualifi­ cato semplicemente di ‘omerismo’, salvo gli sporadici dubbi che un verso di Tirteo o di Esiodo potesse essere più antico di uno omerico somigliante. Oggi è difficile pensare che tutto il resto del mondo greco, completamente digiuno di qualsiasi cosa paragonabile all’epos ionico, si sia fatto irrigare da questa fonte come un terreno assolutamente arido; o (se preferiamo) che la sua poesia fosse solo una nebbiolina naturalmente dissipatasi al levarsi del sole d’Omero. Il deciframento dei testi micenei e una riflessione più evoluta sulla natura dello stile formu­ lare hanno diffuso sempre più la convinzione, fondata su pochi dati precisi ma nondimeno plausibile, che alla poesia omerica corrispondessero nella penisola greca filoni epici

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locali; essi sono stati eclissati, ma con la loro possibile esi­ stenza dobbiamo fare i conti, e non possiamo esimerci dal compito di formarcene un’idea un po’ meno incerta. La parentela fra l ’epos ionico e la perduta poesia della madrepatria doveva essere abbastanza stretta: una comune ascendenza micenea è probabile, né l ’Egeo è un oceano che separi due civiltà diverse e che impedisca qualsiasi influsso vicendevole (che gli aedi fossero grandi viaggiatori è uno degli elementi più plausibili di tutta la tradizione antica). Insomma, oggi si è più che mai diffidenti verso il genere di ricerche che un Otto von Weber pubblicava ancora nel 1955 la diffusione dei poemi omerici si deve imma­ ginare forse come un processo di interazioni e di impacts più complicato di quanto siamo abituati a pensare. Come potremo quindi addurre un frammento di Alcmane o un passo di Tirteo a prova della loro conoscenza dei poemi ome­ rici, e considerarlo una reminiscenza di essi o una vera imitazione? A questo dubbio la presente ricerca dovrebbe, se essa è riuscita quale era negl’intenti, rispondere da sola: il ‘vec­ chio’ metodo di confrontare versi ed emistichi non è stato mai il nostro unico fondamento; i suoi risultati sono stati solo la conferma di ciò che indizi di tutt’altra natura ren­ devano probabile o il punto di partenza per un’indagine ben più vasta e comprensiva. Certo, occorrerà concedere che già nella seconda metà del VII sec. fosse a buon punto, a Sparta, il processo che portò al trionfo quasi incontrastato dei poemi omerici: cioè il loro assurgere a un prestigio senza rivali e a una considerazione unica. Poiché c’è motivo di pensare che Sparta fosse in quell’epoca una delle città letterariamente e artisticamente più progredite, la cosa non ha nulla d’inverosimile. Anche in questo caso certe consi­ derazioni generali, pure se in sé coerenti e plausibili, non 1 O. v. W eber, Die Beziehungen zwiscben Homer und den àlteren griechiscben Lyrikern, diss. Bonn 1955.

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potranno chiuderci gli occhi sui fatti precisi che qui si pro­ pongono. Per spiegarci meglio, l ’ipotesi che gli Spartani conosces­ sero da un’età ben più antica poemi o poemetti epici con caratteri più o meno fortemente locali, e che questa produ­ zione (apparentata a quella ionica) fosse ben viva e nota ancora nell’età precedente quella di Alcmane e Tirteo, non turba, ma semmai sostiene la tesi di questo scritto. La di­ scussione sull’attitudine degli Spartani ad accogliere l ’epos ionico2 si risolverà ancora più decisamente in senso affer­ mativo; e se davvero esisteva una κοινή epica dialettal­ mente più variegata di quanto siamo abituati a credere, e diffusa in un’area più vasta, anche il problema della diffe­ renza di dialetto e dell’intelligibilità per gli Spartani di un'Odissea ionica3 (che qui si postula) avrà fatto un grande passo verso la sua soluzione. 2 V. sotto, p. 145 sg. 3 Questo problema è stato recentemente sollevato a proposito delle elegie di Tirteo, in termini assai precisi: come potevano essere intesi dai concittadini del poeta versi composti in una lingua così diversa da quella parlata?* (Gasi Bruno Gentili in Gnomon 4 1, 1969, p. 5 37; cf. già E. Schwartz in Hermes 34, 1899, p. 4 64 sgg.). Le iscrizioni dimostrano che nella madrepatria greca si poetava secondo moduli che noi chiameremmo omerici, ma in dialetto locale, sempli­ cemente per essere compresi. Le elegie di Tirteo o sono del tutto false o ci sono arrivate in una veste linguistica profondamente rimaneg­ giata, in un vero rifacimento ionico(-attico?). L’obiezione ha il suo peso, e una certa dose di perplessità non si può eliminare del tutto. Essa non è tuttavia a mio parere tale da pesare, da sola, più di tutte le altre considerazioni suggerenti di credere che Tirteo abbia potuto comporre per i suoi concittadini elegie profondamente omerizzanti e che Alcmane abbia conosciuto e riecheggiato un’Odissea in parte coincidente con la nostra e nota al suo pubblico. Dobbiamo riflettere su una serie di fatti: 1) le realtà sonore che si nascondono sotto vesti grafiche molto diverse potevano in qualche caso non essere così irrimediabilmente lontane come si penserebbe. 2) all’atto della recitazione una serie di piccoli e grandi adatta-

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Sgombrato così il terreno, possiamo porre la domanda che ci occuperà ora: che cosa sappiamo circa la conoscenza che dei poemi omerici ebbe Sparta arcaica? Un esame delle testimonianze esterne non ci porta, pur­ troppo, molto lontano: per l’età che abbiamo indicato esse sono scarsissime e problematiche. Se non vogliamo riesami­ nare le notizie sulla persona stessa di Omero, cioè quel tanto di storico che crediamo di poter ricavare dai βίοι, dal Certamen, dagli Inni (e questo non è naturalmente nostro compito), resta solo una categoria di testimonianze rilevanti per il nostro problema, categoria che ha però per noi un particolarissimo interesse: le notizie sull’attività omerica di menti può essere ulteriormente venuta in aiuto di un pubblico di dialetto diverso (i casi analoghi da altre letterature offrirebbero un materiale di studio e di confronto inesauribile). Dobbiamo perfino pensare senza troppo scandalo che anche il metro (quello che siamo abituati a considerare un correttivo infallibile) ne sia uscito qualche volta non perfettamente indenne. C ’è troppa tendenza a considerare l ’attività di un recitatore con lo stesso criterio che quella di un editore moderno. 3) che nonostante tutto qualcosa restasse inteso a metà o nient’affatto, non è cosa tanto inaudita e impensabile. Un certo margine di oscurità non guasta quando la poesia non è diretta a un pubblico di uomini di tavolino (in questo caso, naturalmente, può essere ri­ cercata un’oscurità di tu tt’altro genere). Espressioni solennemente risonanti ma incomprensibili già da età molto antica sono anche nei poemi omerici. La poesia di Alcmane e Tirteo, comunque si vogliano spiegare questi problemi, non era certo un prodotto di mani inesperte e di menti disarmate, come il vero canto popolare. Aristotele non era lontano dal raccomandare perfino una certa dose di deliberata oscurità: διό δει ποιεΐν ξένην τη ν διάλεκτον · θα υμ α σ το ί γ&ρ τω ν άπόντων είσίν, ήδύ δέ τό θαυμαστόν έστιν (Rhet. III 1404 Β 3). Se quello che abbiamo suggerito sotto 2) ha in sé qualche cosa di vero, e naturale che la nostra redazione di Tirteo rappresenti un (ri-)ionizzamento che doveva riuscire assai facile e spontaneo. Le formule e gli emistichi epici, se Tirteo li aveva in qualunque modo adattati alForecchio e alla comprensione dei suoi Spartani, dovevano quasi ‘ritradursi’ da soli sotto le mani di qualsiasi Greco colto che li ci­ tasse, dall’età classica in poi.

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Licurgo. Questa tradizione, tenacemente viva accanto al fi­ lone attico che attribuiva il merito di aver curato (in un modo o nell’altro) la poesia omerica a Solone, Pisistrato o Ipparco, ha fatto nei tempi moderni la parte di Cenerentola accanto alla sorella maggiore. Mentre il problema Omero e Pisistrato’ ha non solo occupato vastamente il campo della questione omerica, ma ha contribuito in buona parte al suo sorgere4, il problema Omero e Licurgo’ è stato sempre trat­ tato in appendice a quello, quando non è stato del tutto igno­ rato 5. Poiché chi studia problemi omerici ha di regola in­ contrato molte volte elenchi delle fonti per la tradizione attico-pisistratea, ma difficilmente uno completo di quelle relative a Licurgo, mi sembra opportuno dare qui una tra­ scrizione dei testimoni. Aelianus, V.h. X III 14 ότι τά 'Ομήρου έπη πρότερον διηρημένα ήδον οί π α λ α ιο ί.. . όψέ δέ Λυκούργος 6 Λακεδαι­ μόνιος άθρόαν πρώτος εις τήυ Ελλάδα έκόμισε τήν Όμηρου ποίησιν. το δέ αγώγιμου τούτο έξ Ιω νίας, ήνίκα άπεδήμησεν, ήγαγεν. ύστερα δέ Πεισίστρατος συναγαγών άπέφηνε τήν Ίλιάδα καί Όδυσσείαν. Aristoteles, fr. 611, 10 Rose Λυκούργος . . . τήν 'Ομήρου ποίησιν παρά τω ν απογόνων Κρεοφύλου λαβών πρώτος διεκόμισεν είς Πελοπόννησον. Clem. Alex. Strom. I 117,3 Α π ο λ λ ό δ ω ρ ο ς (FGrH ist 244 F 63 f) δέ μετά έτη εκατόν τής Ιω νικής άποικίας (scil. φησί φέρεσ&αι 'Όμηρον) Αγησιλάου τού Δορύσσου 4 Istruttivo è per esempio ciò che scriveva già Bentley (Remarks upon a late Discourse of Freethinking, 17 13 , cap. 7) indotto dalle notizie antiche sulla redazione pisistratea a sottolineare la fragilità dei legami fra le diverse parti dei poemi omerici (« loose songs »). 5 Così P. Von der Miihll, che discute le testimonianze sulla rac­ colta fatta da Pisistrato (Kritisches Hypomnetna zur Ilias, Basel 1952, p. 9 sg.) dedica a quelle relative a Licurgo queste semplici parole: « Von den Notizen iiber Lykurg sehen w ir ab » (ibid. p. 9 n. 15).

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Λακεδαιμονίων βασιλεύοντος, ώστε έπιβαλεΐν αΰτώ Λυκούρ­ γον τον νομοθέτην έτι νέον οντα. Dio Chrys. II 44 (Licurgo si sarebbe ispirato a Omero nella sua opera di legislatore) έπεί τοι καί φασιν αυτόν έπαινέτην 'Ομήρου γενέσθαι, καί πρώτον άπό Κρήτης ή τής Ιω νίας κομίσαι τήν ποίησιν είς τήν Ελλάδα, ή τ ή ς Ιω ν ία ς secl. ν. Arnim; defendit W ilam.6

Plut. Lyc. 1 4 Τ ί μ α ι ο ς (FGrH ist 566 F 127) δ’ υπο­ νοεί, δυεΐν εν Σπάρτη γεγονότων Λυκούργων ού κατά τόν αυτόν χρόνον, τώ έτέρω τάς άμφοΐν πράξεις διά τήν δόξαν άνακεΐσ&αι · καί τόν γε πρεσβύτερον ού πόρρω τών 'Ομήρου γεγονέναι χρόνων, ένιοι δέ καί κατ’ όψιν έντυχεΐν Όμήρω. Id. ibid. IV 4-6 έκεΐ δέ [Licurgo in Ionia] καί τοΐς 6 Scrive ancora Dione Crisostomo (ibid.)'. έοικέ (γε) μην κα ι τ α περί κοίτην κα ί τή ν καθ’ ημέραν δ ία ιτα ν ικανός είναι παιδεύειν "Ομη­ ρος ήρωικήν τ ιν α καί βα σιλικήν τώ οντι παίδευσιν, ώς τ ά ς Λακωνικ ά ς έστιάσεις τώ ν φ ιλ ιτίω ν δείπνων μαθόντα παρ’ εκείνου Λυκούργον νομοθετήσαι τοΐς Σ παρτιάταις. La nota critica di von Arnim suona così: « τ ά ς -δ ε ίπ ν ω ν seclusi; τή ν ήρωικήν παίδευσιν, non phiditia ab Hoinero Lycurgus accepit ». Chi scrive così non doveva essersi ricordato di δ 621 sg.: δαιτυμόνες δ’ ές δώ ματ’ ϊσ α ν θείου βασιλήος. / οί δ’ ήγον μέν μ ήλα, φέρον δ’ εύήνορα οίνον. La corrispondenza pre­ cisa fra un costume spartano e un luogo di questo libro e stata notata anche in un altro caso: sch. ad δ 65 sg. (ώς φάτο, καί σφιν νώ τα βοός παρά πίονα θήκεν / δπτ’ έν χερσίν έλών, τ ά ρά οί γέρα πάρθεσαν αύτίο) λέγει δέ κα ί Ηενοφών διμοιρίαν δίδοσθαι τοΐς Λακε­ δαιμονίων βασιλεΰσι. La corrispondenza con il luogo di Senofonte cui qui si allude (Resp. Lac. XV 4) è in realtà ancora più precisa: Licurgo διμοιρίςι γε έπί τώ δείπνψ έτίμησεν [se. τούς βασιλέας], ούχ 'ίνα διπ λάσια καταφάγοιεν, ά λ λ ’ ϊν α κα ί άπό τοϋδε τιμ ή σ α ι έχοιεν ει τ ιν α βούλοιντο. Cf. anche Herod. V I 5 7,1; un’allusione a questo costume è forse ancora nello stesso autore V II 10 3 ,1. Infine bisognerebbe con­ siderare un certo numero di scoli omerici che nominano Licurgo o citano usanze spartane per confrontarle con quelle del mondo eroico. P. es. ad A 534 (Licurgo si sarebbe ispirato a questi versi per isti­ tuire l ’obbligo dei giovani di cedere il posto ai vecchi); v. ancora ad B 53 e 774. Naturalmente non sappiamo quale origine abbiano queste notizie; è chiaro comunque che dev’esserci un rapporto con la tradizione attestata dalle testimonianze sopra trascritte.

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'Ομήρου ποιήμασιν έυτυχών πρώτον, ώς εοικε, παρά τοΐς έκγόνοις τοΐς Κρεοφύλου διατηρούμενους, καί κατιδών έν αύτοΐς τα ϊς πρός ηδονήν καί άκρασίαν διατριβαΐς το πολιτικόν καί παιδευτικόν ούκ έλάττονος άξιον σπουδής άναμεμιγμένον, έγράψατο προ&ύμως καί συνήγαγεν ώς δεΰρο κομιών. ΤΗν γάρ τις ήδη δόξα των έπών άμαυρά παρά τοΐς 'Έλλησιν · έκέκτηντο δ’ οΰ πολλοί μέρη τινά, σποράδην τής ποιήσεως, ώς έτυχε, διαφερομένης · γνωρίμην δ’ αυτήν καί μάλιστα πρώτος έποίησε Λυκούργος. Strab. X 4,19 ( = Ephorus, FGrH ist 70 F 149) έντυχόντα [scil. Λυκούργον] δ’, ώς φασί τινες, καί Όμήριυ διατρίβοντι έν Χίω . . . Come si vede, non è difficile distinguere due tradizioni sostanzialmente divergenti: una sa che Licurgo importò d’oltre mare i poemi omerici, custoditi da Creofilo discen­ dente del poeta e presuppone ovviamente che questi fosse già morto; l ’altra lo fa incontrare con Omero stesso, ma non dice nulla, a quanto pare, sull’importanza di quest’in­ contro per la diffusione della sua poesia. Un’ulteriore diver­ genza, nell’ambito del primo filone, potrebbe vedersi fra le parole del frammento aristotelico: ές Πελοπόννησον, e le altre fonti che parlano di Ε λλάς. Dobbiamo intendere che secondo Aristotele altre parti della Grecia conoscevano già i poemi d’Omero? forse per qualcuno era spiacevole ammettere che Sparta li avesse conosciuti per prima? Questa è comun­ que soltanto una possibilità; più interessante è il problema del rapporto fra le due varianti, innanzitutto quello della rispettiva antichità. Le testimonianze stesse non aiutano, poi­ ché accompagnano fino a due figure quasi contemporanee: Eforo e Aristotele. Criteri generali di verosimiglianza sug­ geriscono però di ritenere più antica la seconda. È difficil­ mente pensabile che uno storico come Eforo abbia accettato una notizia che doveva sapere di leggendario anche al suo tempo, se essa non aveva per sé autorità abbastanza antiche, mentre è molto più naturale che un’epoca accingentesi ad affrontare il problema del testo omerico con nuovo senso

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critico abbia razionalizzato l ’antico aneddoto, appianando insieme le difficoltà cronologiche che testimonia Plutarco. Che cosa si sapesse di Creofilo e con quale criterio lo si scelse perché facesse da congiunzione fra il poeta e il legi­ slatore, è cosa che non possiamo ricostruire. Naturalmente, chi voleva restava libero di giustificare la vecchia tradizione coi computi cronologici di Apollodoro, o sdoppiando la fi­ gura di Licurgo come Timeo, del quale però non possiamo dire con certezza se restasse fedele alla tradizione dell’in­ contro fra i due personaggi. Nell’altra versione, la notizia acquistò comunque una maggiore ‘rispettabilità’ storica, e si associò a pensieri sorprendentemente moderni, come quelli che testimoniano Eliano e Plutarco, e in cui gran parte degli studiosi omerici postwolfiani vedrebbe volentieri (a parte ciò che si riferisce a Licurgo stesso ), una conferma delle pro­ prie opinioni. In ogni modo, arrivati a questo punto, dobbiamo am­ mettere che la tradizione Omero e Licurgo’, presa in blocco, era palesemente destinata a restare nell’ombra di quella su Omero e l ’Attica’: le sue contraddizioni, la superiorità smi­ surata della cultura attica nell’età classica, e particolarmente la sua importanza per la storia del testo omerico, infine e soprattutto i dubbi sulla storicità delle figure di Licurgo e di Omero stesso, tutto ha contribuito a non farla pren­ dere sul serio7. Resta solo da chiedersi se persistendo in questo atteggiamento non pecchiamo contro il buon metodo, avvicinandoci al problema dal lato sbagliato, guardando cioè troppo alla bibliografia moderna e troppo poco alle fonti 7 Un recente esempio di questa sorta di scetticismo è in F. Krafft, Vergleichende Untersuchungen zu Homer und Hesiod, Gottingen 1963, p. 19: Licurgo omerista è solo un doppione concorrente di So­ lone (« Naturlich soli das W erk Solons iibertroffen werden »; cose simili già in Wilamowitz, Homerische Untersuchungen, Berlin 1884, p. 271). Importanti sono le obiezioni di J. A. Davison, Trans. Proceed. Am. Philol. Assoc. 86, 1956, ρ. 1 sgg. (soprattutto contro R. Merkelbach, Rh. Mus. 95, 1952, p. 23 sgg.).

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antiche. Anche i moderni sostenitori della ‘redazione pisistratea’ (per usare la consueta espressione di comodo) non possono in realtà andare molto più in là dell’affermazione che nel VI secolo qualcuno ha svolto ad Atene un’opera decisiva per la storia successiva del testo omerico. Spogliata della veste aneddotica e leggendaria, la tradizione di Li­ curgo omerista si riduce a un dato di portata non molto di­ versa: nel VII secolo (diciamo così in prima approssima­ zione; comunque, prima che Atene si appropriasse in una certa misura Omero) qualcuno fece a Sparta qualcosa di decisivo per la diffusione in Grecia dei poemi om erici8. Messa la cosa in questi termini, a un osservatore spregiudi­ cato verrà il sospetto di essere ingiusto considerando con occhi così diversi la ‘tradizione di Pisistrato’ (su cui si può bene o male discutere) e la ‘leggenda di Licurgo’ (da rele­ gare senz’altro tra le favole), solo perché quest 'ultima ha preso casualmente una forma per noi inaccettabile. In altre parole: se tanto ad Atene che a Sparta sopravviveva un ri­ cordo, convinto anche se incerto nei particolari, di un’impor­ tante iniziativa che si era presa nell’età arcaica per la dif­ fusione o la conservazione dei poemi, non abbiamo il di­ ritto di non prendere sul serio quella delle due tradizioni che ebbe la sfortuna di essere legata a personaggi che la cri­ tica moderna considera, a torto o a ragione, leggendari. Né gli antichi né gli uomini di ogni altra epoca hanno mai amato di lasciare anonime le azioni ricche di conseguenze; e nelle attribuzioni fittizie si regala soltanto ai ricchi. Sarebbe inu­ tile ricordare come a Sparta si attribuissero ugualmente a Licurgo istituzioni sorte in epoche sicuramente diverse, e come l ’Attica facesse altrettanto per Solone. Gli Spartani, 8 W o lf aveva già detto molto bene (Prolegg. cap. 32): « Quare abiectis, quae affid a sunt ad mythicam famam, hoc solum nudum relinquitur, ante Lycurgum Spartanis tantum paucas rhapsodias innotuisse, plures temporibus illius vel ipsius cura additas, poetamque deinde illic in maximo honore fuisse ».

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non avendo molto da scegliere, diedero a Licurgo anche il merito di aver contribuito alla diffusione dei poemi omerici nella madrepatria, mentre gli Ateniesi, in un caso analogo, rimasero sempre un po’ incerti fra varie figure insigni della loro storia. Vennero poi due millenni durante i quali dap­ prima non si volle attribuire alla Sparta di Teopompo un’at­ tività che era impossibile nella Sparta di Agesilao, e poi si negò l’esistenza di Licurgo stesso. Così la credibilità della tradizione subì un colpo mortale. Pure, un riesame obiettivo dei dati obbliga ad ammettere un semplice fatto che non è per nulla più stupefacente o incredibile di tanti altri: una solida tradizione antica attribuiva a Sparta arcaica una pre­ coce conoscenza dell’epos, acquistata attraverso rapporti coi Greci d’Asia. Tutto ciò che abbiamo finora discusso non è che il pre­ liminare a un’indagine da condursi su un terreno più solido; con un procedimento cui dovremo spesso tornare a ricor­ rere, abbiamo dovuto attardarci nell’esame di quelle che possono sembrare mere possibilità; d’altra parte è necessario sgombrare la strada da vecchi pregiudizi e preclusioni, come quelli che abbiamo or ora riconosciuto, e un convergere di indizi, se non è sufficiente a dare una certezza giudiziaria è pur sempre un risultato di cui chi fa opera di storico deve in molti casi accontentarsi. Il « terreno più solido » per chi vuole sapere qualcosa sulla conoscenza di Omero nella Sparta arcaica sono prima di tutto le possibili imitazioni (o riecheggiamenti, o come preferiamo) da parte dei due soli poeti spartani che abbiano per noi qualche consistenza: Tirteo e Alcmane. Apparentata al problema di questo accertamento è l ’altra questione, quella delle prime raffigurazioni di soggetti epici in opere d ’arte. Di quest’altro argomento discuteremo più in là: avvertiamo però fin d ’ora che i problemi di metodo sono in buona parte gli stessi. Il dato di fatto è il seguente: i primissimi poeti greci dei quali si siano conservati frammenti, cioè Archiloco,

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Alcmane e Tirteo, mostrano notevoli coincidenze con la lingua, con lo stile, e in parte cogli argomenti deli’Iliade e dell’Odissea. Il problema è: come dobbiamo ricostruire il processo storico per cui questi elementi si incontrano tanto nei due poemi epici che nei primi poeti lirici? La risposta è ben più difficile di quanto non sembri a prima vista, e di rado è stata affrontata col rigore e cóll’ars nesciendi ne­ cessari quando ci si muove ai margini dell’accertabile. Che la poesia epica abbia raggiunta la forma che noi conosciamo attraverso una lunga evoluzione è una delle pochissime cose su cui tutti siamo d’accordo; che in particolare i cicli leg­ gendari illustrati dall’Iliade e dall’Odissea avessero nel VII o già nell’V III secolo una lunga tradizione dietro di sé è altrettanto certo. In queste condizioni, quando troviamo in un lirico arcaico quello che sembra il riecheggiamento di un passo ‘omerico’ (cioè del nostro Omero), non possiamo supporre senz’altro una dipendenza come quella di Stazio da Virgilio, o di un lirico italiano « del cinque o dell’otto­ cento » dal Petrarca. L ’ultima importante novità negli studi omerici, cioè il concetto di ‘poesia orale’ degli studiosi anglosassoni 9, ha moltiplicato le nostre difficoltà: l ’analisi di tipo ottocentesco, che ebbe per patria la Germania, sezionava ciò che prima era accettato come unità, ma lasciava pur sempre quantità determinate con cui operare; le concezioni nuove disintegrano la composizione (almeno per l ’aspetto che qui interessa) in un pulviscolo inafferrabile. Tutte queste facili considerazioni non sono sempre state sufficienti per indurre alla dovuta cautela scrittori di cose omeriche anche bene informati. Un esempio di conclusioni frettolose tratte da assonanze di non grande significato tro­ viamo ancora nell’ultimo libro di analisi dell Odissea alla vecchia maniera: le Ontersuchungen zur Odyssee di Reinhold 9 Anche il concetto di « libro tradizionale » elaborato da un altro anglosassone, G ilbert Murray (The rise of thè Greek epic, Oxford 31924, p. 93 sgg.), compromette le possibilità su cui implicitamente contava l ’analisi classica.

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Merkelbach. Il caso, per la sua esemplarità, merita di essere documentato qui con una completa trascrizione dei testi: Archiloco 41 D. ( = 55 Tarditi) ά λ λ ’ άλλος άλλω καρδίην ΐαίνεται ξ 228: άλλος γάρ τ ’ άλλο ίσο; άνήρ έπιτέρπεται έργοις. id. 65 D. (= 103 Τ.) οΰ γάρ έσθλά κατθανοΰσι κερτομέειν έπ’ άνδράσιν χ 412: ούχ δσίη κταμένοισιν έπ’ άνδράσιν εΰχετάασθαι id. 67a D. ( = 105 Τ .) θυμέ, θύμ’ άμηχάνοισι κήδεσιν κυκώμενε υ 18: τέτλαθι δή, κραδίη · καί κύντερον άλλο ποτ’ έτλης. Merkelbach dedica a questi confronti esattamente tre li­ nee e mezza di stampa e conclude senza nemmeno un’ombra di dubbio che i tre frammenti di Archiloco consentono di fissare un terminus ante quem per l ’Odissea, cioè più esat­ tamente per il poeta A, uno degli autori del poema che la sua analisi ha identificato 10. Ora, i primi due di questi fram­ menti hanno un carattere genericamente gnomico che toglie quasi ogni valore al confronto con Omero; né l ’enuncia­ zione mostra affinità particolarmente strette 11. Nella terza coppia sono unite due variazioni di una mossa lirica tanto 10 R. Merkelbach, Ontersuchungen zur Odyssee, Miinchen 21969, p. 2 31. In un caso sono già gli scoli omerici ad affermare la dipen­ denza di Archiloco dall Odissea: ad ξ 228 τούτο Αρχίλοχος μετέφρασεν; anche ad χ 4 12 si nomina Archiloco. Ciò ha naturalmente tanto poca importanza che nemmeno Merkelbach cita queste asser­ zioni. Similmente ragiona K rafft, Vergleichende Ontersuchungen p. 24 n. 2. Anche qui il problema non è posto in termini precisi: anzi qualche volta non si sa esattamente in che cosa consista il problema che si discute. 11 II richiamo a B. Snell, Die Entdeckung des Geistes, Hamburg 31955, p. 87, che dà per scontata la dipendenza del fr. 41 da ξ 228 (e anche quella, ancora più improbabile, del fr. 68 da σ 136 sg., cosa che lo stesso Merkelbach preferisce tacere) ha ben scarso valore. A Snell interessa una linea di sviluppo ideale, e il suo discorso non perderebbe assolutamente nulla se invece di una precisa eco egli

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universalmente umana che le reminiscenze da altri autori e da altre letterature si affollano da sole alla mente n. Questo per Archiloco; nel caso di Alcmane e di Tirteo le cose stanno assai diversamente, in primo luogo per il numero straordinariamente alto, in proporzione all’esiguità dei frammenti superstiti, dei presumibili imprestiti omerici. Quelli di Alcmane sono stati elencati e discussi molte volte 13 e, anche se dobbiamo ripetere che nessuno di essi preso per sé ha valore definitivo14, è pure innegabile che la loro stessa frequenza ne accresce la plausibilità, poiché essi si sostengono, per così dire, l ’uno con l ’altro. I frammenti di Tirteo sono ancora più ricchi di assonanze o identità di espressione; qualche volta interi emistichi compaiono nelle elegie come nei poemi omerici: l ’apparato a pie’ di pagina ne\VAnthologia lyrica Graeca ne dà un’immagine eloquente, anche se lontana dall’essere completa 15. dovesse ammettere l ’incontro di due poeti neH’esprimere in maniera vagamente affine un modo di sentire che era nell’aria. 12 Anche un critico acuto come J. A. Davison, che aveva dapprima respinto decisamente un’argomentazione così incauta (Eranos 53, 1955, 138 sg.) si è poi lasciato suggestionare troppo facilmente dai risultati del gioco letterario praticato da un antico predecessore di Merkelbach, che un recente papiro ci ha fatto conoscere (P. Hibeh II 173, dove versi somiglianti di Omero e di Archiloco sono citati alternativamente). Nell’articolo citato (p. 139 η. 1) egli ha infatti sentito il bisogno di fare un’aggiunta per rimandare al nuovo papiro, lasciando intendere che lo stato della questione era cambiato. Ma le considerazioni scettiche che egli stesso aveva fatto rimangono valide: anche qui il carattere dei versi è sentenzioso e la formulazione non è poi così simile. 13 Vedi per esempio O. v. Weber, Beziehungen, cit. 14 Neppure il tanto citato confronto fra I 123 sg. ίππους πηγούς άδλοφόρους e Alcm. fr. 1, 47 sg. 'ίππον παγόν άεθλοφόρον, se diamo ascolto allo scetticismo estremo di Davison (art. cit. alla nota 12, p. 139 sg.). Bisognerà però ammettere che questo è un caso limite. 15 Oggi si può consultare vantaggiosamente l ’edizione di C. Prato, Roma 1968. La dipendenza di Tirteo da Omero in singoli, importanti casi è studiata da B. Snell, Tyrtaios und die Sprache des Epos,

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Piuttosto che intraprendere un ennesimo esame di sin­ goli loci similes, è importante compiere il passo che ritengo metodicamente decisivo, cioè volgersi a una considerazione non di versi isolati ma di intere composizioni. Un’espres­ sione o un singolo verso possono essere giunti indipendente­ mente a due poeti per le vie di una vecchia tradizione let­ teraria; ma se i frammenti di un poeta lirico ricordano ripetutamente una determinata parte delYIliade o dell’OdAsea, l’ipotesi di una dipendenza acquista un grado di pro­ babilità senza paragone più alto. Le piccole quantità di pro­ babilità non sono più, in questo caso, addendi di una som­ ma, ma fattori di una moltiplicazione 16. E proprio questo vediamo che avviene, tanto per Alcmane che per Tirteo: al primo dei due è stato possibile attribuire un epillio, sia pure non bene immaginabile, sul soggiorno di Ulisse tra i Feaci e sul suo incontro con. Nausicaa 17, tanto visibilmente i luoghi omerici che vengono alla mente leggendo i suoi frammenti si concentrano nelle parti corrispondenti àùYOdissea·. fr. 70 (c)

Alcmane σέ γάρ άζομαι

fr. 82 λϋσα ν δ’ άπρακτα νεάνιδες ώ τ’ δρνις /αέρακος ύπερπταμένω. fr. 84 έπ’ άριστερά χηράς έχων

fr. 85 (b) σφέα δέ ποτί να τ α πίπτω

γού-

Odissea ζ 168 ώς σέ, γύνα ι, ά γαμ αι (Ulisse a Nausicaa) ζ 138 τρέσσαν δ’ ά λλυδ ις ά λ λ η (le compagne di Nausicaa) ε 277 έπ’ άριστερά χειρός έχοντα (Ulisse nella sua navigazione da Ogigia a Scheria) η 147 σόν τε πόσιν σά τε γούνα θ’ ίκάνω (Ulisse ad Arete)

Gottingen 1969; la possibilità di riconoscere l ’imprestito tirtaico da precisi luoghi omerici è presupposta convintamente da Snell anche dove molti non sarebbero d ’accordo. Qui ci proponiamo di essere assai meno ottimisti. 16 Vedi Maia 19, 1967, p. 403. Questa che uso per la seconda volta non è soltanto un’immagine ma una realtà nel calcolo delle pro­ babilità. 17 Vedi sotto p. 114 n. 24.

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fr 86 πλή^ριον: secondo Ammonio, 3 91, significa timone di una S i L u tT 9 s T St0 . ‘T i " " ° mer0’ Che Peraltro dice sempre πηδάλιον (ε 255 etc.), destgna l ’imbarcazione che Ulisse si costruì per arrivare alla terra dei Feaci.

Più importante di ogni altra circostanza è il fatto che il ir. 81 sembri contaminare ζ 244 αι γάρ έμοί τοιόσδε πόσις κεκλημένος ειη e η 311 αΐ γάρ, Ζεϋ τε πάτερ καί Άθηναίη και Απ°λ λ ο ν18. Se aggiungiamo che un altro frammen­ to (8 0 ) nomina Ulisse, stavolta accanto a Circe, sarà dif­ ficile non concludere che un’Odissea, se non proprio quella che conosciamo noi, doveva essere nota a Sparta nella se­ conda metà del VII secolo. Parti abbastanza estese dove­ vano essere redatte nella loro forma presente: lo fa credere il fatto che ι due versi verosimilmente contaminati da Alcmane siano lontani fra loro e non uniti da alcun necessario legame. Qualcosa di molto simile si ha nei frammenti di Tirteo; stavolta per un’osservazione di grande interesse ne basta uno solo, quello restituito da un celebre papiro berlinese e pubblicato nel 1918: il fr. 10. Malamente leggibile, esso lascia intravvedere le solite insignificanti reminiscenze di frasario guerriero dell’epica Ma le espressioni omeriche paragonabili a quelle di Tirteo si infittiscono talmente nella Τειχομαχία dell’Ilìade che l ’editore dell Anthologia lyrica Graeca ha potuto scrivere tran­ quillamente in apparato: « carminis archetypon est M ». Decisivo sarebbe il poter leggere con sicurezza νιφάδεσσι al v. 28. Il paragone dei proiettili coi fiocchi di neve è evi­ dentemente originale, e la sua presenza in entrambi le com­ posizioni ne dimostrerebbe quasi irrefutabilmente la parente a , Tl!“ avia non sara cauto servirsi di questo argomento, poiché 1 incerta integrazione è stata suggerita a Bruno Sudi proprio dal confronto con M. 18 L’argomento è lo stesso nei due luoghi: nel primo Nmiaium si augura Ulisse come manto, nel secondo Alcinoo se lo mipma come genero. *

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Tutto il libro ha comunque un carattere ‘tirtaico’ (ciò che naturalmente qui significa: pervaso di un’etica che po­ teva attrarre e ispirare un poeta come Tirteo). Così le con­ siderazioni sul coraggio guerriero, sul rischio, sul patriot­ tismo (la parola s’impone) che leggiamo nei discorsi di Et­ tore (vv. 231 -50 ) e di Sarpedonte (vv. 310 -2 8 ). Il primo contiene il celeberrimo εις οιωνός άριστος, άμύνεσθαι περί πάτρης ( 243 ), che ha avuto una fortuna millenaria, fino ai nostri giorni; nel secondo è un pensiero (la vita umana è cosa effimera e non conviene salvarla a prezzo d ’infamia quando si è in guerra) che ha raccomandato questi versi alla memoria degli uomini anche nei tempi moderni, come mostra l ’aneddoto narrato da Robert Wood e riferito da Walter Leaf nel suo commento 19. Nuova è nel mondo ome­ rico (se ci si può azzardare a osservazioni di un genere così démodé) l ’esortazione dello stesso Sarpedonte al v. 412 ά λ λ ’ έφομαρτεΐτε · πλεόνων δέ τοι εργον άμεινον, col senti­ mento ‘oplitico’ dell’unione che fa la forza. Tirtaica è an­ cora l ’immagine del fuggiasco trafitto nei μετάφρενα ( 428 ); il poeta spartano sembra variare il tema (nel fr. 8 , 17 sgg.), sottolineando l ’aspetto dell’infamia morale. Insomma il poeta di M sembra aver trovato alcune felici formulazioni di sen­ timenti marziali e patriottici, che lo raccomandavano all’imi­ tazione di Tirteo, confermata largamente dall’esame di molti v ersiM. 19 È singolare che lo stesso pensiero fosse stato espresso da Fede­ rico il Grande (proprio nei medesimi anni!) in una variazione meno nobile: « Racker, wollt ihr ewig leben? ». Forse qualcuno può mo­ strare che non si tratta di una semplice coincidenza? 20 Naturalmente è anche molto probabile che N 130 sgg. (φράξαντες δόρυ δουρί, σάκος σάκεϊ προδελύμνω ■ άσπ ίς αρ’ άσπίδ’ ερειδε ... ) sia servito da modello a Tirteo 8,31 sgg. (καί πόδα πάρ ποδί θείς κα ί έπ’ άσπίδος άσπίδ’ έρείσας ...) . Questo è il miglior esempio di quei confronti isolati che qui daremo per noti. La loro raccolta più completa è ora nell’apparato dell’edizione di C. Prato. Per il con­ fronto citato v. Snell, Tyrtaios p. 47 sg.

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Abbiamo così veduto che si può raggiungere un grado di probabilità superiore a quello consueto, per una via che i critici hanno qualche volta implicitamente indicato, ma mai percorsa coerentemente. È ora il momento di chiedersi se non sia possibile compiere un ulteriore passo avanti, attra­ verso un procedimento nuovo (per quanto so ), che po­ trebbe darci una certezza ancora più salda, e insieme aprire la strada a conclusioni più importanti. Il nuovo problema che vogliamo porci è questo: è pos­ sibile identificare parti dell’Iliade o dell’Odissea che siano state imitate, o in qualunque modo tenute a mente, tanto da Alcmane che da Tirteo ? Scoprendole, avremo raggiunto la prova migliore di quello che cerchiamo, e otterremo per di più un risultato che oggi non sarebbe sensazionale come in altri tempi, ma pur sempre interessante: la dimostrazione più sicura dell’autenticità dei relativi frammenti tirtaici; nessuno vorrà seriamente credere a un falsario così diaboli­ camente abile da indagare quali parti dell’epos omerico fos­ sero meglio note nella Sparta del VII secolo, per attingere ad esse e rendere così più convincente la sua frode! Il primo tentativo lo faremo con questo stesso M, la cui conoscenza da parte di Tirteo ci pare di poter conside­ rare dimostrata. Diamo per prima cosa uno specchietto dei dati: 1) M 237 οίωνοϊσι γεσσι

τανυπτερύ-

2) Μ 2 81 sg. κοιμήσας δ’ άνε­ μους χέει έμπεδον, δφρα καλ ύψ η / υψ ηλώ ν όρέων κορυφ ά ς κα ί πρώονας άκρους

Alcm. 89,6 οιωνών . . . τανυπτερύγων -------- 89,1 sg. εϋδουσι δ’ δρέων κορυφαί τε κ α ί φάραγγες / πρώονές τε κα ί χαράδραι

3) Μ 161 μυλάκεσσι 4 ) Μ 380 μαρμάριρ

-------- 1,31 μυλάκρω

5) Μ 388 tip 6) Μ 163 ά λα σ τή σ α ς

-------- 1,30 ίώ

-------- ibid. μαρμάρφ -------- 1,34 sg. ά λ α σ τα . . . ^έργα

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Ed ecco le osservazioni da fare: 1) οιωνοί τανυπτέρυγες s’incontra solo qui in tutto Omero; l ’aggettivo si trova una sola altra volta in T 350 άρπη. . . τανυπτέρυγι. 2) Tre elementi che si incontrano anche altrove in Omero; mai si trova però la loro unione in una sola imma­ gine, che ricompare precisamente in Alcmane: I) l ’espres­ sione όρέων κορυφαί; II) il sostantivo πρώονες; I l i ) l ’im­ magine del ‘sonno della natura’. Inoltre όρέων κορυφάς ha in Omero la stessa posizione metrica dell’espressione cor­ rispondente in Alcmane. 3 ) μυλάκεσσι ( spiegato da uno scolio con τραχέσι λίθοις) significa « pietre grandi come macine da mulino » (usate come arma). La parola è rarissima (solo qui in Omero: i tardi poeti dotti che la usano la conoscono evidentemente da questo luogo); l ’unica espressione paragonabile nell’epica è in H 270 μυλοειδέϊ πέτρω ; μυλάκρω in Alcmane è usato allo stesso modo. 4) μάρμαρος è un’altra parola singolare: in Omero com­ pare solo tre volte; della sua rarità è un segno sicuro l ’in­ certezza dell’uso: qui e in i 499 (emistichio iterato) essa è sostantivo, μαρμάρω όκριόεντι βαλών; in Π 735, agget­ tivo: λάζετο πέτρον j μάρμαρον όκριόεντα. L’artificiosità del­ l ’uso è evidente anche per l ’unione costante con lo stesso aggettivo; la poesia posteriore ha preso (assai raramente) il termine da Omero. 5) Il contesto in Alcmane è lacunoso, ma non tanto da non lasciare intravvedere che la freccia fa in tutt’e due i casi da pendant al macigno usato come arma; la somiglianza fra i due luoghi era stata del resto già osservata. 6) άλαστέω è un altro verbo rarissimo, che ricompare solo in O 21; il composto έπαλαστέω è in a 252. Il suo significato, come quello dell’altra rara parola άλαστος, non

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è del tutto chiaro; come per tante altre parole omeriche una certa insicurezza dovette essere già in chi la usò. Ma tutto questo interessa qui solo indirettamente; importante è che Alcmane abbia usato l ’aggettivo in un contesto non dissimile da quello in cui Omero usa il verbo: άλαστα ρέργα subirono gli Ippocoontidi per la loro ϋβρις temeraria contro gli uomini e gli dei; Γ άλαστήσας è Asio che pronuncia un’invettiva temeraria contro Zeus. Ormai il lettore ha veduto abbastanza per formarsi una propria opinione. Attribuire tutto al caso è, in teoria, sem­ pre possibile, e non c’è modo di costringere a cambiare idea chi volesse restare scettico. Ma credo che chi ha familiari questi testi, e torni a leggerli alla luce delle considerazioni qui esposte, non potrà non convenire in questa conclusione: la Τειχομαχία era una rapsodia omerica ben nota a Sparta, da cui Alcmane e Tirteo hanno attinto motivi ,ed espressioni.

di ogni Greco, che essi abbiano contribuito per la loro parte al formarsi di quel luogo comune. Il parlatore eccellente, il personaggio più ammirato è, accanto a lui, Ulisse (vv. 2162 4 ). Questo doveva essere per il pubblico spartano un altro motivo di interesse, come vedremo meglio e documenteremo in seguito 22. Tutte queste sono considerazioni a priori: vediamo ora che cosa ci dice la lettura di Γ. Già al v. 39 ( = N 769) troviamo qualcosa di assai notevole: l ’interessante composto Δύσπαρις, presente, ugualmente al vocativo, nel fr. 77 di Alcmane. I rimproveri al fratello sono pronunciati da Et­ tore, e in N 769 lo stesso verso apre una simile invettiva. Nello stesso discorso di Ettore il v. 50: πατρί τε σω μέγα πήμα ποληί τε παντί τε δήμω (contaminato con Π 262: νηπίαχοι · ξυνόν δέ κακόν πολέεσσι τιθεϊσι, come osservato già da Diehl) è servito da modello a Tirteo per il fr. 9,15: ξυνόν δ’ έσίΐλόν τούτο πόληι τε παντί τε δήμω23.

Prendiamo ora il terzo libro dell’Iliade, dove il duello fra Paride e Menelao, con la sua ampia cornice, porta alla ribalta il personaggio di Elena che ha ispirato versi famosis­ simi e che domina vaste parti della narrazione. A priori dob­ biamo pensare che per un pubblico (e per un poeta) spar­ tano il canto doveva avere un interesse particolare. Di cose laconiche si parla anche nei vv. 236-44, che narrano della morte di Castore e Polluce e sembrano volerne giustificare l ’assenza dall’armata greca. I vv. 213-5 contengono una ca­ ratterizzazione di Menelao che si adatta curiosamente bene all’immagine classica dello spartano ( ού πολύμυθος · βραχύ­ λογοι γάρ οΐ Λάκωνες άεί osserva ovviamente lo scolio) 21. Naturalmente sarebbe anacronistico supporre che chi ha com­ posto questi versi fosse suggestionato dal luogo comune della ‘laconicità’; non sarà invece esagerato pensare, data l ’incalcolabile importanza dei poemi omerici nell’educazione

Ancora per lo stesso Diehl, come per Prato (li cito come arbitri neutrali), Γ 330-8: κνημΐδας μεν πρώτα περί κνήμησιν έθηκε 330 καλάς, άργυρέοισιν Ιπισφυρίοις άραρυίας · δεύτερον αΰ θώρηκα περί στή&εσσιν έδυνεν οίο κασιγνήτοιο Λυκάονος ■ήρμοσε δ’ αύτω. άμφί δ’ άρ’ ώμοισιν βάλετο ξίφος άργυρόηλον χάλκεον, αύτάρ έπειτα σάκος μέγα τε στιβαρόν τε · 335 κρατί δ’ επ’ ίφθίμω κυνέην εϋτυκτον εθηκεν ΐππουριν · δεινόν δέ λόφος καθύπερθεν ’ένευεν · εϊλετο δ’ άλκιμον έγχος, δ οί παλάμηφιν άρήρει.

21 Ma un altro aggiunge più criticamente: ούχ ώς Δάκων · ούπω γάρ Δωριείς.

sarebbe la fonte di Tirteo 8,23-6: μηρούς τε κνήμας τε κάτω καί στέρνα καί ώμους άσπίδος εύρείης γαστρί καλυψάμενος ' δεξιτερή δ’ εν χειρί τινασσέτω οβριμον έγχος, κινείτω δέ λόφον δεινόν υπέρ κεφαλής. 22 V. sotto ρ. 114 sgg.

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Questioni preliminari

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Il gruppo di nove versi descrive l’armarsi di Paride prima del duello; di Menelao si dice subito dopo che si armò ώς δ’ αΰτως. Sebbene l ’argomento dei due passi sia diffe­ rente (in Omero l ’atto di armarsi, in Tirteo il combatti­ mento stesso) non può evidentemente attribuirsi al caso il perfetto parallelismo nell’elenco delle parti del corpo del guerriero e delle sue armi: le gambe, il petto, le spalle, lo scudo, il cimiero. Stavolta sappiamo però con particolare sicurezza che l ’autore di Γ ha usato un gruppo di versi di repertorio: in A 17-43 li ritroveremo tutti, variati e ampliati da digressioni di varia natura. In Π 131 sgg. e T 369 sgg. essi torneranno ancora, identici salvo natural­ mente per la menzione di Licaone come proprietario della corazza. Siamo dunque in piena tradizione di poesia eroica e i confronti sono del genere che abbiamo definito come meno significativo fra tutti. Proseguendo nella lettura di Γ dobbiamo ricordarci ancora due volte di Tirteo. L’ οβριμον ίίγχος di v. 357 è ricordato dagli editori in nota al fr. 8,25 e l ’intero verso, più il seguente, in nota a 9,26 (c ’è un emistichio uguale: καί διά θώρηκος). Come si vede non usciamo dall’ambito dello stereotipato frasario guerriero; inol­ tre i dubbi sempre vivi sull’autenticità del fr. 9 24 consigliano di servirsene con cautela in un’argomentazione che voglia convincere e non perdersi in questioni estranee al suo scopo. Abbiamo così raggiunto solo una generica verosimiglianza della conoscenza e dell’utilizzazione di Γ da parte di Alcmane e Tirteo; ma l ’allargamento dell’indagine a un altro canto deWIliade imprimerà alla nostra indagine una svolta ina­ spettata e decisiva. Abbiamo già osservato che nel comporre il famoso Δύσπαρις Αίνόπαρις Alcmane doveva aver presente Γ 39 (e/o N 769); ma circostanza ben più significativa è la contaminazione che egli mostra di aver fatto tra questa 23 Vedi ora anche Snell, Tyrtaios p. 21 sg. 24 Per l ’autenticità si sono pronunciati recentemente C. Prato, Tirteo p. 11 6 sgg. e B. Snell, Tyrtaios p. 27.

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ardita formazione da una parte, e la figura linguistica di X 481 dall’altra: δύσμορος αίνόμορον . . . 2345 (sono le celebri e patetiche parole che Andromaca pronuncia nel compianto per la morte di Ettore). Che il verso di Alcmane sia nato attraverso questo procedimento è cosa non solo evidente ma perfettamente spiegabile: la ‘fatalità’ di Paride e il tragico destino di Andromaca sono motivi fortunatissimi delle vi­ cende diadiche, che hanno suscitato una serie infinita di echi nella poesia greca e non greca, come matrici sicure di tragicità e di pathos. La ricerca da parte di Alcmane del­ l ’originale e del nuovo nella forma linguistica, e il suo gusto arcaico di ‘giocare’ con i suoi mezzi di espressione, lo hanno indotto a trarre da due passi così caratteristici e così adatti a imprimersi nella memoria il materiale da fondere in un esametro che supera il modello per novità e fantasiosità di invenzione linguistica. Questa constatazione (per i princìpi su cui abbiamo già riflettuto) dà un risultato di ben altro valore che i soliti confronti isolati, ma non rappresenta ancora il decisivo passo avanti che abbiamo annunciato. Esso è rappresentato piuttosto dall’osservazione che proprio nello stesso libro X, quello che abbiamo ora riconosciuto come fonte sicura di Alcmane, si trova Yunico passo ome­ rico del quale non si può assolutamente negare la relazione assai stretta con Tirteo. Tirteo fr. 7,21 sgg.: Αισχρόν γάρ δή τοΰτο μετά προμάχοισι πεσόντα κεϊσθαι πρόσθε νέων ανδρα παλαιότερον ήδη λευκόν έχοντα κάρη πολιόν τε γένειον θυμόν άποπνείοντ’ αλκιμον έν κονίη, αίματόεντ’ αιδοία φίλαισ’ έν χερσίν εχοντα — αισχρά τά γ ’ όφθαλμοϊς καί νεμεσητόν ίδεϊν —

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25 Nella tradizione è una piccola incertezza che non compromette comunque la validità del confronto.

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καί χρόα γυμνωθέντα · νέοισι δέ πάντ’ έπέοικεν, οφρ’ έρατής ήβης αγλαόν άνθος εχη · άνδράσχ μέν θηητός ίδεΐν, έρατός δέ γυναι,ξί ζωός έών, καλός δ’ έν προμάχοισι πεσών.

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Iliade X 71 sgg.:

“. . . νέω δέ τε πάντ’ έπέοικεν άρηϊκταμένψ, δεδαϊγμένω όξέϊ χαλκω, κεϊσθαι · πάντα δέ καλά θανάντι περ, οττι φα\ήη · ά λ λ ’ δτε δή πολι,όν τε κάρη πολιόν τε γένειον αιδώ τ ’ αίσχύνωσι κύνες κταμένοοο γέροντος, τούτο δή οί'κτιστον πέλεται δειλοϊσι βροτοΐσιν.”

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celebritàM, e costituisse un pezzo di sicuro effetto nel re­ pertorio epico, specialmente presso un pubblico che si allon­ tanava ormai dal gusto per un epos puramente eroico e marziale. A Sparta esso sarà stato oggetto di fortunate reci­ tazioni, e i due maggiori poeti cittadini se ne sono non a caso ricordati nelle loro composizioni. Per la seconda volta un caso che, se consideriamo l ’esiguità dei nostri frammenti, si può chiamare eccezionalmente fortunato, permette di di­ mostrare la celebrità a Sparta, non genericamente della poe­ sia epica, ma di vaste parti dell’Iliade che dovevano essere sostanzialmente identiche a come noi le leggiamo.

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Il rapporto è in questo caso talmente palmare che la di­ scussione ha avuto come tema non la sua esistenza, bensì l ’interpretazione da darne. Accanto alla più ovvia dipendenza di Tirteo dall’Iliade, ha trovato i suoi difensori la tesi del­ l ’anteriorità di Tirteo; né è mancato chi ha preso la sempre aperta terza strada: la dipendenza da un’ignota fonte co­ mune. Poiché un riesame del problema comporterebbe una ripetizione di cose già dette e ridette, basterà rimandare alla bibliografia citata dal Prato, e associarsi alla sua conclusione: VIliade è stata anche qui il modello di Tirteo. Così, per la seconda volta e con un’evidenza ancor mag­ giore, abbiamo raggiunto quel concordare di indizi, quel ‘convergere delle piste’ che, solo, ci può dare la sicurezza che cerchiamo. Il passo che Alcmane certamente conosceva e quello che altrettanto certamente conosceva Tirteo si tro­ vano non solo nello stesso libro (ciò che di per sé significa poco) ma nello stesso contesto: il compianto dei familiari per la morte di Ettore; essi sono legati indissolubilmente dall’identità del tema. È facile immaginare che un brano così patetico dell’Iliade fosse destinato a una particolare

26 Tutta la parte dell’Iliade relativa ai destini di Ettore e delle sue spoglie mortali trovò presto un vivo riflesso nelle arti figurative: vedi il libro di K. Bulas, Les illustrations antiques de l ’Iliade, Lwow 1929.

I POEMI OMERICI NELLE ARTI FIGURATIVE PAUSANIA E IL TRONO DI APOLLO AMICLEO

L ’identificazione di scene omeriche raffigurate in opere artistiche dell’età geometrica e del primo arcaismo incontra problemi assai simili a quelli che abbiamo trattato a propo­ sito di possibili riecheggiamenti e imitazioni dei poemi ome­ rici presso i lirici arcaici. Anche stavolta abbiamo difficoltà d’interpretazione, cioè l ’identificazione precisa dei soggetti raffigurati, e un problema fondamentale, che è sostanzial­ mente il medesimo già incontrato sul terreno letterario. Come allora il comparire in un frammento lirico di un’espres­ sione omerica non dava affatto la prova che il suo autore conoscesse l ’Iliade e l ’Odissea, così una raffigurazione, po­ niamo, dell’accecamento del Ciclope non dimostra che il pittore si sia ispirato a i quale noi lo leggiamo nelle nostre edizioni. Anche in questo caso ritroviamo lo stesso alternarsi di scetticismo (più frequentemente), e in qualche caso di relativa fiducia nella possibilità di affermare l ’origine ome­ rica di certe raffigurazioni mitiche. La prima categoria di problemi è indubbiamente assai antica; possiamo immagi­ nare che soggetti tratti da leggende locali o comunque mal note fossero già enigmatici al tempo di Pausania o anche molto prima; quello che abbiamo chiamato il « problema fondamentale » è invece figlio della moderna critica ome­ rica: un’opera d’arte in cui la vecchia antiquaria si sarebbe accontentata di riconoscere una scena epica, guardandola senz’altro come un’illustrazione ai poemi, è per noi una nuova fonte di interrogativi. La leggenda può essere arrivata indipendentemente a O mero’ e all’artista, per le vie di una tradizione ancora artisticamente informe, o aver trovato ingresso nell’epica molto prima che il relativo passo omerico venisse composto o prendesse la forma a noi nota ed entrasse

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a far parte dell’organismo di uno dei due poemi. Insomma, nella maggior parte dei casi non possiamo essere sicuri che fra un certo gruppo di versi omerici e la scena dipinta su un vaso ci sia un rapporto diretto di filiazione, e che essi non siano piuttosto solamente lontani cugini \ A indagini di questa sorta, più affascinanti che frut­ tuose, è stata dedicata una letteratura molto vasta2; come 1 II caso di una situla da Chiusi mostra quanto sia radicato lo scetticismo in questo genere di ricerche; su di essa sono raffigurati alcuni uomini appesi sotto a montoni, mentre poco lontano una nave sembra attenderli. Ce ne sarebbe d ’avanzo per riconoscervi la conclusione della Κυκλώπεια: eppure il primo editore, Helbig {Ann. d. Inst. 49, 1877, p. 398 sgg.), preferiva credere che la scena fosse d’origine orientale o semitica; la sua opinione trovò, in tempi di ‘orientalismo’ a oltranza, più d’un consenso (cf. J. Charbonneaux, Préhistoire 1 , 1932, p. 236 sg.). 2 Una discussione recente (con bibliografia) è quella di H. v. Steuben, Fruhe Sagendarstellungen in Korinth und Athen, Berlin 1968. La bibliografia anteriore è raccolta assai ampiamente da W . Zschietzschmann, Jahrb. Deutsch. Archaeol. Inst. 46, 19 3 1, p. 45 sgg. Più recente: T. B. L. W ebster, ‘Homer and Attic geo­ metrie vases’ Ann. Brit. School at Athens 50, 1955, p. 38 sgg. R. Hampe, Fruhe griech. Sagenbilder in Bootien, Athen 1936, lar­ gamente citato, è un esempio di ottimismo quando crede di poter senz’altro riconoscere scene tratte dai poemi omerici come li leg­ giamo noi. Inoltre domandarsi se una raffigurazione di età geometrica del cavallo di Troia derivi dall Odissea o dalla Piccola Iliade è al­ meno prematuro, se non si è data prima risposta a ben altri pro­ blemi. G . S. K irk ha buon gioco nell’obiettare che « no certainly identifiable epic scene is known from thè geometrie period which ended c. 700 » (The songs of Homer, Cambridge 1962, p. 284). Un completo catalogo è quello di F. Brommer, Vasenlisten zur grìechischen Heldensage, Marburg 21960. Il più recente giudizio sull’argomento a me noto è di A.M . Snodgrass {Gnomon 42, 1970, p. 166): « Year by year thè number of Geometrie representations of identifiable episodes from saga increases; and if many of them cannot be explicitly related to Homer — for instance, perhaps thè most recent example, thè seal-impression from Pithekoussai showing Ajax with Achilles’ body (Expedition 8,4 (Summer 1966), 11-12) — then this

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prima guida su questo difficile terreno potrà servire un’opera che è insieme assai recente e abbastanza ‘stagionata’ per dare un buon affidamento: il libro The Iliad in early Greek art di K. Friis Johansen, rifatto e ripubblicato dall’autore dopo ben ventinove anni dalla prima edizione senza muta­ menti notevoli nelle conclusioni3. L ’archeologo danese ha seguito, nell’indagare la conoscenza dell’Iliade da parte degli artisti operanti nella madrepatria, un criterio apparentato a quello che anche noi abbiamo riconosciuto come l ’unico fe­ condo: non si è limitato a esaminare genericamente la pro­ babilità di un rapporto fra singole raffigurazioni ed episodi omerici distaccati dal resto del poema, ma ha tenuto d’occhio da una parte tutto il nostro patrimonio archeologico, e dal­ l ’altra l ’Iliade nella sua interezza di organismo narrativo. Egli è così arrivato a risultati di grande interesse che ricapi­ toleremo brevemente: gli artisti del Peloponneso nord-orien­ tale (Corinto e Argo) mostrano un’innegabile conoscenza dell 'Iliade fino dall’ultimo quarto del VII secolo. Con Iliade, nota bene, non s’intende genericamente il ciclo troiano, ma proprio il poema quale sostanzialmente lo conosciamo noi: in una delle più antiche immagini, il rilievo su un tripode da Olimpia, si trova raffigurata l ’ambasceria ad Achille, cioè uno degli episodi più saldamente inseriti nella trama narra­ tiva della nostra Iliade. Per l ’Attica una conoscenza altret­ tanto ampia del poema si può documentare con sicurezza solo mezzo secolo più tardi. Scene derivate sicuramente da esso sono prese a soggetto assai raramente fino a circa il 550. Prima di quest’epoca, inoltre, tutte le raffigurazioni sem­ brano tratte dall’ultimo terzo del poema (Μ-Ω), cioè dal­ l ’intervento di Patroclo in poi, mentre l ’arte peloponnesiaca, should merely confimi how diffuse and highly-developed thè Epic cycle had already become in these years ». 3 Originariamente: Iliaden i tidlig graesk kunst, Copenhagen 1934; l ’edizione in inglese utilizzata (ibid. 1967) è riveduta ed arricchita.

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già molto prima, attinge ispirazione da episodi sparsi ugual­ mente in tutto il poema. Alla fine del VI secolo anche l ’arte attica muta il suo atteggiamento verso VIliade nel senso di una maggiore familiarità. Da questo stato di cose, lo Johansen non trae la conclusione che due terzi dell’Iliade fossero sconosciuti alla cultura attica per diverse generazioni; piut­ tosto è da pensare che l ’ultima e più drammatica parte delPIliade godesse per motivi intrinseci di una maggior cele­ brità. Soggetti tratti dalle leggende troiane non mancano nell’arte attica fin dalla prima metà del VII secolo, ma sono attinti più frequentemente dai poemi del ciclo che dall’ Omero’ genuino. Anche per questa strana disparità lo Johansen cerca un motivo di carattere interno. Dai poemi ciclici, per quanto possiamo saperne, era più facile trarre episodi di trama lineare e di estensione relativamente breve, adatti ad essere recitati e diffusi singolarmente, mentre lo stesso si poteva difficilmente fare con la complessa trama dell "Iliade. La frequenza con cui li ritroviamo nelle raffi­ gurazioni artistiche è il riflesso di questa maggiore popola­ rità. Tutto questo, oltre a costituire un risultato in sé pre­ zioso, rappresenta il frutto di un tentativo intrapreso troppo di rado, e che è invece alla base di queste indagini: quello di accertare quali parti dei poemi omerici erano più celebri in una o in un’altra parte del mondo greco. Non di ogni οϊμη ovviamente, si poteva dire της τότ’ αρα κλέος ουρανόν εύρύν ικανέ; in questo caso l ’archeologo ha cercato di deter­ minare fin dove fosse arrivato questo κλέος; e nella sua ricerca lo hanno aiutato considerazioni dello stesso genere di quelle che hanno soccorso noi. Dobbiamo, per conclu­ dere, prevedere la possibilità di una diffusione ineguale delle diverse parti dei poemi omerici anche dopo la loro forma­ zione definitiva. Affermando che una parte dell’Iliade o del1Odissea era assai più celebre che un’altra in una certa area del mondo greco non ci leghiamo affatto alle incertezze del­ l ’analisi. Questo è importante affermare, anche se dovrebbe

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apparire ovvio a chi rifletta sulle vie e sui modi della dif­ fusione delle opere poetiche nell’età dell’arcaismo. A queste considerazioni introduttive ha offerto il destro un’opera sull’Iliade nell’arte greca. Venendo ora al vero e proprio argomento della nostra ricerca, dobbiamo doman­ darci: 1 ) che cosa sappiamo dell’influsso esercitato dall 'Odis­ sea sulla più antica arte greca; 2) in che misura l ’arte laco­ nica abbia tratto ispirazione dalla poesia epica generalmente, e in particolare dall’Odissea. Johansen, che discute esaurien­ temente le nostre conoscenze solo per il Peloponneso nordorientale e per l ’Attica, dà (per le altre regioni) poco più che un elenco delle figure di possibile derivazione diadica nel succinto ‘Catalogue of representations’ che completa il suo libro4. Quattro di esse sono di provenienza spartana: un pettine di avorio del V II secolo (dal tempio di Artemide Orthia) su cui il Dunbabin ha riconosciuto da un lato Achille trascinante il cadavere di Ettore, e dall’altro r in ­ contro dello stesso Achille con Priamo; un altro avorio ritro­ vato nel medesimo santuario ha fatto pensare a una raffi­ gurazione della πρόθεσις del morto E ttore5; infine la testi­ monianza di Pausania dice che sul ‘trono’ di Amicle erano raffigurati οΐ Τρώες έπιφέροντες χοάς 'Έκτορι (H I 18,16). In tutti questi casi Johansen conclude il suo giudizio con un non liquet : anche l ’espressa testimonianza di Pausania, egli ricorda, è stata più volte messa in dubbio6. D’altra 4 P. 2 44 sgg. 5 T. J. Dunbabin, The Greeks and their eastern neighbours, London 1957, p. 81. Le fotografie in The sanctuary of Artemis Orthia at Sparta, London 1929, tavv. CXXX 2a e 2b e CII 2. Que­ sti oggetti sono di nuovo discussi nell’opera più recente sull’argomento che mi sia nota, quella di Evangelia-Lilia J. Marangon, Lakonische Elfenbein- und Beinschnitzereien, Tiibingen 1969, p. 5 3 ; 102 sgg. Le conclusioni sono piuttosto caute. K. Bulas, Am. Journ. Archaeol. 54, 1950, p. 112 sgg. segnala una raffigurazione del compianto di Ettore fra i ritrovamenti dall’Heraion alla foce del Seie. L ’autore non è nuovo all’argomento; cf. il suo Les ìllustrations antiques de l ’Iliade. 6 P. 279 sgg. 6

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parte la sua ricerca è limitata all’Iliade, mentre un fondato giudizio sulla possibilità che soggetti epici fossero raffigurati sul trono di Amicle dovrà tener conto anche delle scene odissiache che Pausania vi riconosceva, e infine, secondo quanto ci siamo proposti, di tutti g l’indizi, di qualsiasi ge­ nere, che l ’una o l ’altra parte dei poemi omerici fossero noti (e in quale misura popolari) nella Sparta arcaica. L ’esame già compiuto dei documenti letterari suggerisce ora di discu­ tere l ’apporto dell’archeologia, non per soppesare ancora una volta generici prò e contra, ma per cercare una conferma ai fatti, ormai abbastanza precisi, che la nostra ricerca ha riconosciuto. Se generalmente l ’arte di Sparta è nota in maniera molto insoddisfacente, la nostra indagine sarà per di più condotta stavolta su materiale di seconda mano, dovrà cioè fondarsi non sui resti archeologici stessi, ma sul testo letterario che abbiamo già citato: la minuta descrizione lasciata da Pausa­ nia del monumento più insigne dell’arte laconica, il trono di Apollo ad Amicle. Tutto, in questo monumento e nella sua storia, è singolare: la concezione stessa che guidò chi lo eresse, il suo aspetto, difficilmente ricostruibile, ma co­ munque molto dissimile da tutte le forme cui l ’arte greca classica ci ha abituati, la personalità semi-leggendaria del suo autore Baticle di Magnesia, infine il suo destino, quello di diventare, pur completamente perduto, oggetto di tante di­ scussioni. Com’è noto, del monumento (che noi chiamiamo incertamente ‘trono’, ricalcando il θρόνος di Pausania) è ri­ masta solo la descrizione del periegeta; gli scavi hanno ritro­ vato soltanto le possibili fondamenta del santuario e del piedistallo; Baticle stesso è conosciuto solo per questa sua opera. Per lo storico della religione greca l ’interesse di queste notizie è grande; le strane forme architettoniche erette per sostenere l ’arcaico idolo rispecchiano efficacemente il carattere della religione e del culto spartani, che il loro ca­ rattere tenacemente conservatore rende ai nostri occhi (per

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quel tanto che ne sappiamo) così poco ‘classici’. A ll’archeo­ logo le pagine non sempre chiare di Pausania hanno posto il difficile compito di una ricostruzione convincente. Anche per chi, come noi, legge Pausania solo per trovarvi il docu­ mento della diffusione di certi miti, la sua testimonianza offre qualche problema. L ’epoca a cui la creazione del ‘trono’ va attribuita non è determinabile più precisamente oggi di quanto fosse al tempo di Pausania stesso, che non dice né sotto quale re di Sparta Baticle avesse operato, né da quale scuola artistica egli provenisse. Il suo tono è quello di chi non vuole entrare in questioni controverse (III 18,9 τάδε μέν παρίημι), e tali esse sono rimaste fino ad oggi. Le date proposte vanno dagl’inizi del VI secolo a quelli del suc­ cessivo, con un certo convergere su un’età intermedia, at­ torno al 550. Pausania afferma almeno di aver veduto coi propri occhi il trono, e tutto quello che c’è di sorprendente o addirittura d’inesplicabile nella sua descrizione è la mi­ glior conferma della sua buona fede. Quanto ai pretesi ab­ bagli che egli avrebbe preso nel riconoscere le scene che vedeva rappresentate, premetteremo solo un’osservazione pre­ liminare: è metodicamente scorretto attribuire a un autore una serie di errori che lo avrebbero portato, ripetutamente, a dire cose che si accordano tanto bene con quello che argo­ menti di tutt’altro genere fanno ritenere probabile, anzi ragionevolmente prevedibile. Premesso questo, vediamo ciò che Pausania sa raccon­ tare. Amicle sorgeva a circa venti stadi da Sparta, in dire­ zione del mare, ed ospitava santuari particolarmente vene­ rabili, come quello delle due Cariti, Φάεννα e Κλητά, che faceva venire in mente a Pausania stesso un passo a noi sconosciuto di qualche composizione poetica di Alcmane (καθά δή καί Αλκμάν έποίησεν III 18,6 = Alcm. fr. 6 2 ), e soprattutto quello di Apollo, forse il più celebre di tutta la Laconia, secondo le parole di Polibio. Qui, sul luogo della presunta tomba di Giacinto, un’arcaica e rozza statua cui-

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tuale del d io 7 era stata, evidentemente in età successiva, sistemata in un fastoso complesso plastico e architettonico, opera di un artista d ’Asia Minore altrimenti ignoto e della sua scuola. La descrizione di Pausania non consente di im­ maginare esattamente la strana costruzione che egli chiama, come si è detto, θρόνος, ma elenca completamente le raffi­ gurazioni mitologiche di cui essa era coperta. Alcmane è stato nominato poco prima da Pausania, a proposito delle due Cariti il cui santuario sorgeva poco lontano; le loro immagini si ritrovavano sul trono stesso, ancora in numero di due, come le ’Ώραε (18,10). La prima scena mitologica che Pausania descrive è il rapimento, da parte di Zeus e Posidone, delle Pleiadi Taigete e Alcione. Si tratta del­ l ’unica rappresentazione di questo episodio a noi nota dal­ l ’antichità 8; sull’esattezza dell’identificazione nessuno stavolta ha sollevato dubbi. Chi ha trovato poco prima la menzione esplicita di Alcmane a proposito di Faenna e Cleta ricorderà forse le discusse Πεληάδες del Par tento. Se il poeta abbia pen­ sato o no all’equazione Pleiadi:colombe, e come si debba interpretare quell’enigmatico accenno, sono questioni che qui interessano poco; ci contenteremo di notare il ripetuto comparire nell’arte e nella poesia spartane di questi perso­ naggi non fra i più celebrati della mitologia greca. Una raf­ figurazione che metteva in imbarazzo Pausania era quella del Minotauro, non ucciso da Teseo com’era da attendersi, ma legato e condotto via vivo dall’eroe (1 8 ,1 1 ). Stavolta pare proprio che dobbiamo attribuire alla nostra guida un errore: è molto verosimile che il presunto Minotauro fosse in realtà il toro di Maratona; il personaggio di Teseo era ben noto alla poesia di Alcmane (fr. 2 1 ), e la sua tanto più celebre gesta di Creta può aver oscurata l ’altra nella memo­ 7 Άρχαΐον κ α ί ού σύν τέχνη πεποιημένον Paus. III 19,2. 8 Vedi Η. Hitzig e Η. Bliimner nel commento alla loro edizione, voi. I 2, Leipzig 1899, p. 816, e J. Ilberg nel Lexikon mitologico di W . H. Roscher, s.v. ‘Pleiades’.

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ria di Pausania. Se aggiungiamo che la lotta di Teseo col Minotauro era, a quanto dice Pausania stesso (1 8 ,1 6 ), raf­ figurata in tutt’altra parte del monumento, la conclusione che qui abbiamo a che fare con un altro episodio apparirà quasi inevitabile. La probabilità di un errore in questo caso è importante per l’interpretazione della notizia che viene subito dopo e che ha ben altro interesse: καί Φαιάκων χορός έστιν έπί τώ θρόνω και ςίδων è Δημόδοκος. Su quest’af­ fermazione di Pausania si è accanita particolarmente l ’iper­ critica dei moderni: la scelta del soggetto è inaudita, quindi è preferibile (così si è detto) pensare che si trattasse del coro di Arianna, e che il suonatore di cetra fosse Teseo stesso; questa raffigurazione farebbe seguito molto più ap­ propriatamente a quella della cattura del Minotauro. Qui la bilancia degli argomenti si capovolge però a favore di Pau­ sania. A parte la grande improbabilità che il toro raffigu­ rato fosse veramente quello di Minosse, l ’errore sarebbe stavolta di un genere poco plausibile. Scambiare il meno celebre toro di Maratona col Minotauro è una ‘banalizza­ zione’ spiegabilissima, mentre il credere di ravvisare in luogo di un episodio abbastanza famoso una scena effettivamente ignota a tutta l ’arte greca che conosciamo e (ciò che non è meno importante) così poco caratteristica, sarebbe la dimo­ strazione di una fantasiosità che difficilmente attribuiremo a Pausania. Hitzig e Blumner9 pensano ragionevolmente alla possibilità di un’iscrizione che avrà fatto riconoscere a Pau­ sania il soggetto; Terrore che abbiamo dovuto attribuirgli nel caso precedente non osta a questa supposizione, poiché una ‘didascalia’ sarebbe consistita certo nel semplice nome Θησεύς. Quale sarà stato dunque il motivo di questa scelta eccentrica? Evidentemente una particolare notorietà a Sparta della Phaiakis 10; se ripensiamo alla familiarità che Alcmane 9 Nel commento citato ad loc. 10 « Die Darstellung des singenden Demodokos und des Phaiakenchores auf einem Bilde des amyklaiischen Thrones in Sparta ist ohne

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dimostra con essa, vedremo finalmente un dato archeologico concordare in maniera perfettamente convincente con le con­ clusioni che avevamo già tratto dall’esame dei testi n. Ma c’è di più: se ora andiamo a rileggere la corrispondente scena dell Odissea troviamo che in essa (θ 265) compare per l ’unica volta in Omero la parola μαρμαρυγαί che si legge con sicurezza in un papiro alcmaneo ( P . Oxy. 2390,2 col. II 26-27 = fr. 5 ), anche se in un contesto irriconoscibile. Nell’espressione omerica μαρμαρυγάς ποδών scorgiamo co­ munque un gusto pittorico che può aver attratto Alcmane a servirsene in qualche maniera che non sappiamo. Si tratta solo di una possibilità; ma il valore di queste coincidenze verbali potrà misurarsi solo alla fine, tenendole d’occhio tutte insieme. Ancora nel mondo della poesia alcmanea ci porta la lotta di Tindaro contro l ’Ippocoontide Eurito (fr. 1,9), effigiata fra il ratto delle Leucippidi e (forse) la lotta di Eracle col gigante Turio (1 8 ,1 1 ). Anche stavolta si è cercato senza un preciso motivo di togliere valore alla testimonianza di Pausania e di supporre un’altra distribu­ zione e un altro significato delle figure. Qualcuno di questi scettici a tutti i costi si è ben stranamente dimenticato delEurito alcmaneo, non riconoscendo un legame così ovvio fra la poesia e l ’arte laconica. L ’introduzione di Eracle fra gli dèi ricorda (questo lo diremo per non tacere nessuna possibilità) un paio di frammenti alcmanei che già da paKenntnis der Odyssee wohl schlechthin undenkbar », Zschietzschmann nell’art. cit. sopra p. 78 n. 2. Aveva già visto bene T. Bergk, Griechische Literaturgeschichte I, Berlin 1872, p. 4 83; osservando che i soggetti raffigurati sul trono di Amicle derivano in buona parte dai poemi ciclici, trascurano singolarmente Ylliade e solo in due casi si rifanno all’Odissea, egli scriveva: « Gerade hier aber ist die Beziehung auf ein bestimmtes Dichterwerk vollkommen gesichert ». 11 Che valore abbiano, in questo contesto, le notizie singolar­ mente precise su un poeta spartano di nome Demodoco che ci dà uno scolio aìYOdissea, γ 267 (risalirebbe a Demetrio del Falero) è difficile dire. Cf. Epicorum Graec. fragni, ed. Kinkel, p. 212 sg.

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recchi decenni si sono voluti riportare allo stesso argo­ mento, da critici che non pensavano davvero a questa con­ ferma archeologica (fr. 15 = 10 + 11 Bergk), mentre le immagini dei due figli di Menelao, Megapente e Nicostrato (18,13), ricordano rispettivamente le scene spartane delYOdissea (δ 11, dov’è nominato il primo) e una testimo­ nianza sulla poesia di Cinetone 12, che parlava del secondo. Il rapimento di Elena ad opera di Piritoo e Teseo (18,15), saga cui toccò inevitabilmente la sorte di essere messa in ombra dall’altro rapimento tanto più famoso, è un altro soggetto di celebrità locale che ispirò sia l ’arte di Baticle che la poesia di Alcmane (il già citato fr. 21 ) 13. Ma l ’informazione forse più preziosa di tutte Pausania la dà alla fine della sua relazione; la forma è sbrigativa, ma chiara e senza ombra di dubbio: sul trono erano raffigurate τα ές Μενέλαον καί τον Αιγύπτιον Πρωτέα έν Όδυσσείςι (18,16). Anche stavolta una critica troppo diffidente ha preferito pensare a un errore: la didascalia avrà contenuto sempli­ cemente un’indicazione come αλιος γέρων, e l ’eroe lottante col demone (si è detto) sarà stato piuttosto Eracle. Noi ripeteremo che proprio la rarità del tema (non compare al­ trove in tutta l ’arte greca a noi nota) induce a prestare fede a Pausania. Ritrovare qui un episodio tratto dal ‘libro spartano’ dell’Odissea non è poi tanto sorprendente; questa considerazione così facile ci conforta a seguire il parere degl’interpreti che hanno accettato la notizia di Pausania 14. La scelta dei soggetti da parte di un artista ope­ rante per incarico ufficiale nella Sparta delle generazioni 12 Fr. 3 Kinkel. Già Wilamowitz, Hom. Untersuchungen p. 175, notava che la figura di Megapente in δ ha l ’aria di essere stata in­ trodotta maldestramente (« herzlich ungeschickt »); quindi, ribadiamo noi, la sua presenza era imposta dal programma. 13 Questo soggetto compare anche nell’altro grande monumento dell’arte peloponnesiaca arcaica: l ’arca di Cipselo (Paus. V 17,3). 14 Ancora Hitzig e Bliimner nel loro commento ad loc.

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successive a quelle che avevano costituito il pubblico di Alcmane è apparsa così altamente significativa. Da una parte essa ricorda spesso i temi che erano stati toccati dal poeta (e questo era prevedibile, anche se gli archeologhi hanno spesso trascurato certe concordanze evidenti); dal­ l ’altra essa attinge all’Odissea, e proprio dalle sue parti che abbiamo riconosciuto più celebri a Sparta: dalla Phaiakis, modello di Alcmane e dell’autore di δ, e da δ stesso. In tutt’e due i casi la scelta è apparsa, a critici che seguivano criteri generici di verosimiglianza, tanto poco credibile da spingerli a negare fede all’autore che ne dà notizia15. Il loro scetticismo aveva raccolto pochi consensi; esso servirà tuttavia a confermare la validità dei nostri criteri, alla cui luce diventa plausibilissimo, anzi prevedibile, ciò che di per sé apparirebbe così poco ovvio, o addirittura assurdo.

15 Una posizione alquanto scettica è ancora quella di K. F. Johansen, The II. in early Gr. art p. 38, che ricorda anche un rilievo dell’Acropoli di Atene dove Schuchhardt e Shefold, Athen. Mitt. 60/61, 1933/36, p. 89 n. 2, hanno voluto riconoscere la scena odissiaca di Menelao e Proteo. L’ipotesi non persuade Johansen: ma nel caso di un’opera d ’arte ateniese non abbiamo tutte le conferme let­ terarie e mitografiche che si possono far valere nel caso di Sparta. Poco convinto della testimonianza di Pausania era Johannes Bolte, De monumentis ad Odysseam pertinentihus capita selecta, Berlin 1882, p. 36. Un rappresentante ancora anteriore di questo scetticismo più ostinato che giustificato era J. Overbeck, Gallerie heroischer Bildwerke, Braunschweig 1853, p. 778.

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È il momento di chiedersi quanto sia grande, da un punto di vista genericamente storico, la probabilità che l ’autore di τεΛ abbia operato a Sparta e di esaminare alcune circostanze che sono state addotte per negarla. Più esatta­ mente, l ’ipotesi dell’origine spartana di una parte àtWOdissea non è stata mai combattuta per il semplice motivo che essa non è stata mai seriamente avanzata. Sono state soltanto formulate alcune osservazioni, fuggevoli ma categoriche, per negare la possibilità che il poeta di 5 appartenesse in qual­ che modo all’ambiente laconico, o più generalmente pelopon­ nesiaco. Così, seguendo un ordine logico e cercando di dis­ sipare per prime le perplessità che più facilmente potranno presentarsi al lettore, dovremo occuparci subito di una vec­ chia questione, toccata moltissime volte dagli studiosi delYOdissea, più di rado trattata con qualche completezza, e assurgente ora a un’importanza considerevole. Nell’opera recente sxAYOdissea di Reinhold Merkelbach, da cui abbiamo già più d’una volta preso le mosse per trarne suggerimenti o esemplificazioni utili, troviamo alcune supposizioni sulla patria del poeta della Telemachia. Dopo essersi pronunciato, sulla base di argomenti generici, per un’origine ionica, l ’autore conclude sbrigativamente che « co­ munque » il poeta tutto sarà stato fuori che peloponnesiaco, poiché fa viaggiare tranquillamente sul carro Telemaco e Pisistrato da Fere a Sparta senza curarsi del formidabile ostacolo del Taigeto l. Dietro a queste poche righe si cela, 1 R. Merkelbach, Untersuch. z. Od. p. 56: « ... und jedenfalls kann der Dichter kein Peloponnesier gewesen sein, der den Landweg von Pharai nach Sparta als fahrbar betrachtete, ohne an den Taygetos zu denken ».

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come si è detto, un vecchio problema; nella bibliografia relativa troviamo nomi illustri, e una sua breve rassegna può offrire motivi di interesse e perfino di divertimento. Essa fornirà ottimi esempi della testarda pedanteria con cui hanno operato molti studiosi di cose omeriche e soprattutto (ciò che conta di più ai fini di una critica costruttiva) del­ l’accettazione passiva di opinioni speciose o legate a un nome autorevole. Come spesso accade, anche nella storia di questo pro­ blema le opinioni più equilibrate sono state espresse all’ini­ zio, in un’atmosfera non ancora intorbidata da discussioni troppo accanite. Il vecchio e benemerito commentatore delΓOdissea, G.W. Nitzsch, si esprimeva pacatamente e sen­ satamente notando soltanto che « il passaggio del monte dovrebbe [corsivo mio] essere indicato più chiaramente. Il cantore avrà conosciuto la posizione della celebre Sparta e generalmente le distanze dei luoghi » 2. Da tutto il passo appare che l ’autore propende per negare al poeta di 5 co­ noscenza de visu della Laconia, ma senza metterci la mano sul fuoco, e riconoscendo d’altra parte che all’inizio del canto non mancano cenni topografici singolarmente precisi. Soltanto in seguito il « problema del Taigeto » prese un’ur­ genza drammatica. Così per Karl Sittl (188 2) è evidente che il poeta della Telemachia conosce il Peloponneso solo per sentito dire. Non solo, ma il fatto che egli ignori il Taigeto permette anche di dare un terminus ante quem alla sua opera. La Telemachia deve risalire a un’età precedente la prima guerra messenica, conflitto che rese certamente ce­ lebre nel mondo greco il teatro delle operazioni come la guerra russo-turca rese celebri i Balcani in Europa 3! 2 G. W . Nitzsch, Erklàrende Anmerkungen zu Homer’s Odyssee I, Hannover 1826, p. 226: « Der Durchgang durch das Gebirge musste deutlicher angegeben sein ». 3 K. Sittl, Die Wiederholungen in der Odyssee. Ein Beitrag zur homerischen Frage, Munchen 1882, p. 90.

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Otto Seeck (1887) costruisce anche lui sull’evidente ignoranza dell’autore di γ e 5 in fatto di orografia del Pe­ loponneso meridionale. Il fatto che egli collochi correttamente il luogo di tappa a Fere, cioè giusto a metà strada fra Pilo e Sparta, crea nel critico tedesco qualche imbarazzo; egli se ne libera però brillantemente supponendo che il poeta conoscesse i luoghi non da autopsia, ma da una carta geo­ grafica (forse, è facile supporre, quella di Anassimandro), che era evidentemente già disegnata in scala ma non re­ cava l’indicazione del rilievo, ancora da inventare4. Pensieri non di questa sorta, ma pur sempre fantastici si trovano ancora in un’opera del nostro secolo, il libro di H.L. Lorimer su Homer and thè monuments. In un contesto che mescola considerazioni acute e utili ad idee che si avvi­ cinano pericolosamente alle famigerate ricostruzioni dei viag­ gi di Ulisse sulla carta geografica, la studiosa propone una soluzione di compromesso: al poeta è noto il Peloponneso ma soltanto, per così dire, dall’esterno; egli ha raccolto le sue conoscenze di seconda mano nei porti e su questa incerta base ha costruito la sua immagine dell’entroterra. Infatti si può (« why not? ») ricostruire un viaggio com­ piuto dall’autore (unico) àeTTOdissea nei mari dell’Occi­ dente greco « forse proprio per conoscere la patria del suo eroe, o per spirito di avventura e desiderio di conoscenza » e tc .5. Questi tre esempi saranno bastati a dare un’idea di molta produzione ‘critica’ sull’argomento, e a mettere in 4 O. Seeck, Die Quellen der Odyssee, Berlin 1887, p. 344 sg. Il π ίνα ξ di Anassimandro fece senza dubbio sensazione e può aver influenzato la produzione poetica del tempo, per esempio il Catalogo delle navi (ibid.)l 5 H. L. Lorimer, Homer and thè monuments, London 1930, p. 502 sgg. Stranamente la Lorimer non cita la vita pseudo-erodotea e il racconto del viaggio di Melesigene a Itaca. Accettabili sono le con­ siderazioni (p. 5 03 sgg.) sulla generica inverosimiglianza di un simile viaggio in carro, e sull’imbarazzo in cui dovette trovarsi il poeta davanti a un tema così inconsueto.

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guardia da quello che può accadere quando lo « spirito di avventura » pervade non solo il poeta ma anche i suoi studiosi. Altre opinioni meritano di essere discusse più attenta­ mente. Wilamowitz tornò per esempio due volte sull’argo­ mento. Nelle Homerische TJntersuchungen, dopo aver affer­ mato nella sua maniera un po’ autoritaria che la Telemachia è un poema d’Asia Minore, si sofferma a ricostruire le cono­ scenze geografiche dell’autore. Ancora una volta l ’assenza del Taigeto nell’itinerario di Telemaco e Pisistrato è l ’argo­ mento principale per negare che egli fosse mai stato in Laconia. Anche altri segni mostrerebbero che l’azione di que­ sta parte del poema si svolge in uno « spazio ideale »: Pilo stessa non è precisamente localizzata e Fere è tolta di peso àalYIliade 6. Nella Heimkehr des Odysseus troviamo che dopo 43 anni l ’autore ha cambiato idea: la Telemachia è nata « senza dubbio » nella madrepatria, verosimilmente nel « Kulturkreis » di Corinto 7 ( nel libro giovanile sull’Odissea aveva attribuito all’ambiente corinzio o euboico solo la rielaborazione definitiva di tutto il poema). Che la geografia messenica e laconica potesse tutto sommato non essere ignota all’autore Wilamowitz ammette solo a mezza bocca. Il poeta ha narrato il tanto discusso viaggio « sbrigativamente », « non si è preoccupato » della topografia; ha considerata piana una via che non lo era « senza molto riflettere » 8. Il Peloponneso del Sud gli è noto da una navigazione; pur se meno fantasticamente della Lorimer, Wilamowitz pensa anche lui che il poeta (non l ’autore àelYOdissea ) sia an­ dato per mare a vedere Itaca coi suoi occhi9. 6 7 sotto 8 gung 9

U. v. Wilamowitz, Hom. Untersuchungen, p. 26 sg. U. v. Wilamowitz, Die Heimkehr des Odysseus, p. 18 2 ; cf. p. 140. Ibid. p. I l i sg.: « ganziich unbekiimmert », « ohne vid e Uberle», etc. Ibid. p. I l i : « ... nur die Kiisten bis Ithaka hat er befahren ».

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Nel frattempo c’era stata una critica molto energica al­ l ’opinione corrente: Wilhelm Dorpfeld aveva nel 1913 10 attaccato con la massima decisione il « dogma » che il poeta del viaggio di Telemaco non conoscesse i luoghi dove aveva collocato l ’azione del suo racconto. I meriti e i demeriti del personaggio sono noti, com’è nota la parziale damnatio memoriae decretatagli dalla filologia più ortodossa, e la critica severissima esercitata su tante sue tesi originali o strava­ ganti. La sua soluzione del « Taygetos-Problem » era colle­ gata alla celebre identificazione della Itaca omerica con la Leucade odierna, e della Pilo di Nestore con la città di Trifilia e non con l ’omonima di Messenia u. Le indicazioni omeriche sulla durata del viaggio di Telemaco si compon­ gono infatti convincentemente in una ricostruzione che, spo­ stando a Nord la città di Nestore, trasferisce Fere dalla costa del golfo di Messenia all’alta valle dell’Alfeo e conduce a Sparta il carro dei due giovani principi per vie che si pos­ sono almeno immaginare praticabili, aggirando da Nord l’estrema falda del Taigeto. Stavolta la tesi dell’ ‘eretico’ s’impose: anche un critico cauto come Paul Cauer accolse senza esitare una ricostruzione che accordava l ’opinione di Strabone 12, i risultati degli scavi archeologici e illuminava in maniera convincente un difficile passo dell’Iliade 13. Lo scet­ ticismo di Wilamowitz restava come espressione più di un ostinato malumore che di una convinzione realmente fon10 Ath. Mitt. 38, 19 13 , p. 97 sgg. Per la conoscenza del Pelopon­ neso da parte di Omero soprattutto p. 118. 11 Ma v. già K. O. Miiller, Orchomenos und die Minyer, Breslau 21844, p. 357. 12 V. soprattutto V i l i 14, ma anche altrove; in tutta la descri­ zione del Peloponneso occidentale Strabone ricorda continuamente il viaggio di Telemaco: certe pagine sembrano niente più che un com­ mento geografico alla Telemachia. 13 P. Cauer, Grundjragen der Homerkritik, Leipzig 31923, p. 222 n. 26 e p. 294. Uno stretto seguace di Dorpfeld è Heinrich Riiter, Zeit und Heimat der Homerischen Epen, Berlin 1937, p. 77.

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data u. A Dorpfeld si accodava poi Felix Bolte 145, non sol­ tanto per l ’identificazione dei luoghi, ma anche per la pos­ sibilità di ricostruire un verosimile viaggio di Pisistrato e Telemaco: 120 chilometri percorsi in due giorni con un pernottamento a metà strada, lungo il normale itinerario da Olimpia a Sparta testimoniato da Senofonte, Anab. V 3,11. Anche lo studioso inglese dello sfondo storico nei poemi omerici, W alter Leaf, aveva portato già nel 1915 nuovi argomenti, tratti dalla tradizione mitografica, per la colloca­ zione della Fere di Γ sull’alto corso dell’Alfeo, e per una soluzione diciamo ‘topografica’ del problema del Taigeto 16. Da ultimo è tornato sull’argomento Ernst Meyer, riba­ dendo felicemente l’identificazione ddrpfeldiana della Pilo omerica con Kakovatos, contro la tesi di Blegen che la col­ locava presso Ano-Englianos17. Insomma, una soluzione di questo genere, con carta geo­ grafica alla mano, e computo di ore di viaggio, di chilo­ metri di distanza e di praticabilità delle vie, è possibilis­ sima 18: non è ammissibile ripetere oggi il vecchio argomento 14 Die Ilias und Homer, Berlin 19 16 , p. 208. 15 F. Bolte, ‘Phara’, ‘Pharai’, in R.E. XIX 2, 1938, col. 1796 sgg. 16 W . Leaf, Homer and history, London 19 15 , p. 362 sgg. 17 Mus. Helv. 8, 1951, p. 119 sgg. Ivi ricca bibliografia. G li ar­ gomenti di Franz Kiechle, Lakonien und Sparta, Miinchen-Berlin 1963, p. 4 1 sgg., 4 8, che vuole tenere fermo alla localizzazione della sede di Nestore in Messenia, si inquadrano in una sua vasta ricostru­ zione storica che si accorda con la nostra in qualche punto e ne dif­ ferisce in altri (fra cui il più importante, la possibilità di un’origine laconica della Telemachia). Qui non possiamo discuterla, ma solo attendere che gli altri la giudichino più o meno plausibile della nostra. V. anche p. I l i n. 18. 18 « There are a number of feasible routes from thè Triphylian Pylos to Sparta which do not involve thè climb over Taygetos »: così A. S. Cooley, Class. Journ. 4 1, 1945/46, p. 316. Quest’autore è peraltro un ritardatario, poiché ha conosciuto la memoria di Dorpfeld del 19 13 soltanto dopo la stesura del suo articolo (già conferenza del 1940). Qualche suo contributo è comunque non disprezzabile.

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per dimostrare un’origine non peloponnesiaca della Telema­ chia. A queste conclusioni vorremmo aggiungere qualche considerazione che valga a correggere l’interpretazione in chiave eccessivamente storica e archeologica che i poemi omerici hanno tanto spesso dovuto subire. La strada giusta ce la indicano, pure se un po’ a loro malgrado, le espres­ sioni di Wilamowitz che abbiamo citato sopra dal libro della sua vecchiaia sull’ Odissea, e che spostano il centro della questione à&Wignoranza dei luoghi da parte del poeta alla sua noncuranza per la precisione topografica. Un lettore delVOdissea sensibile come Erich Bethe si esprime in maniera non dissimile 19: il viaggio sul carro in due giorni da Pilo a Sparta sembra testimoniare in chi l ’ha concepito un’incerta conoscenza dei luoghi; d’altra parte (egli ammette a propo­ sito di tutti i problemi di questo genere) un poeta può an­ che non curarsi molto della geografia, almeno (aggiungiamo noi) nella maniera rigida che hanno preteso i suoi critici. Qualcosa di simile doveva avere in mente Nilsson quando scriveva che sul viaggio di Telemaco si è semplicemente di­ scusso troppo 20. Ma proviamo ad avvicinarci al problema più concreta­ mente, non con quella falsa concretezza che consiste nel pretendere un preciso realismo da chi non ha affatto inten­ zione di darcelo, ma considerando piuttosto le circostanze e i modi del nascere dell’opera; vediamo cioè che cosa ci si poteva attendere dal poeta posto dinanzi a un tema come questo. Se la Telemachia è davvero soltanto pretesto, cor­ nice narrativa per introdurre i grandi episodi delle visite alle due corti regali e dell’attentato, il poeta si sarebbe vo­ lentieri impacciato a fare i conti con un valico montano? E chi vorrà immaginare un poeta che, pur volendo intro19 E. Bethe, Homer II, p. 271. 20 Μ. P. Nilsson, The Mycenaean origin of Greek mythology, Cambridge 1932, p. 83: « I think that too much importance has been attached to it ».

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durre una visita a Sparta dopo quella a Pilo, sarebbe stato disposto a rinunciarvi, o almeno a complicare grandemente il suo racconto, solo per non scontentare i futuri pedanti? Ma in realtà tutto il viaggio dei due giovani principi è in sé inverosimile come certe cavalcate degli eroi carolingi per luoghi assolutamente impervi. E proviamo a immaginarci sul serio un’Odissea recitata, e non ancora scritta e raccolta in volume. Un poeta che nella recitazione precedente aveva lasciato i suoi eroi in viaggio e li riprendeva ora mentre arrivavano alla meta poteva temere che qualcuno dei suoi uditori andasse ad accostare la fine della puntata vecchia con l ’inizio della nuova e gli rimproverasse di essersi di­ menticato di qualche cosa? Se come unità prendiamo non l ’Odissea e neppure una sua vasta parte come la Telemachia, ma un singolo ‘canto’ come τεΛ (e in questo caso il suo inizio, se non la sua fine, coincide con inizio di libro), vedremo che all’interno di esso le poche notazioni sull’aspetto dei luoghi non contrastano affatto con la topografia, h anno anzi un certo sapore realistico. L’attributo di κητώεσσα in S 1 è di difficile spiegazione, ma quello di κοίλη è ovvia­ mente suggerito dalla posizione di Sparta fra le due catene parallele del Parnone e del Taigeto 21. Chi volesse stare al gioco e usare i criteri pedanteschi di cui si sono serviti altri potrebbe rivendicare la necessaria conoscenza del Taigeto al poeta che ha usato quelPaggettivo 22! Il poeta parla ancora 21 Questo pensiero non sembra essersi presentato ad A . Thar, Philologus 29, 1870, p. 602, che non sapeva darsi ragione dei due aggettivi. 22 Così già lo scolio ad B 5 81: κοίλην Λ ακεδαίμονα- οτι περιέχετ α ι ύπό Ταυγέτου κ α ί Παρθενίου. Il verso così commentato è nel Catalogo delle navi: o't δ' εϊχον κοίλην Λακεδαίμονα κητώεσσαν. Dato il carattere tutto particolare del brano di cui fa parte esso non può certo servire a dimostrare che questo epiteto avesse radici molto profonde nella tradizione. Λακεδαίμων indica evidentemente il territorio della πόλις: la città è Σπάρτη (v. 10). Nitzsch, Anmerkungen p. 228, esagera ritenendo che l ’espressione di δ 2 πρός δ’ άρα

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della « vasta piana » su cui regna Menelao ( δ 602 sgg. ) e nomina non meno di cinque piante che vi crescono. È una vegetazione dipinta con colori sobri che sta a indicare la prosperità agricola e l ’attitudine del paese all’equitazione; non c’è affatto l ’incanto fiabesco della selva di Calipso (ε 63 sg.) o del giardino di Alcinoo (η 112 sg g .)23. Per chi non abbia voglia di perdere altro tempo a prolungare questa secolare discussione possiamo infine osservare come la parte che noi riteniamo nata o per lo meno profonda­ mente rielaborata a Sparta cominci con δ 1, cioè nettamente dopo il preteso, fatale errore di geografia; di esso è respon­ sabile semmai l ’autore di γ , cioè, verosimilmente, il poeta che ebbe la feconda idea di collegare all’azione principale àeW’Odissea il viaggio di Telemaco quale comoda cornice per attraenti episodi. Se la sutura fra un ‘canto’ e l’altro poteva ben consentire un’omissione come quella denunciata così clamorosamente e fare che passasse inosservata, tanto meno si vorrà pretendere che il nostro ampliatore o rifaci­ tore spartano si prendesse la pena di correggere l’opera di chi l’aveva preceduto, per non scandalizzare un pubblico che dovremmo ritenere inverosimilmente esigente 24. Tutto questo è servito a rimuovere dalla via della noδώματ’ ελών Μενελάου κυδαλίμοιο ci costringa ad ammettere che Λακεδαίμων nel verso precedente indichi la città. Le speculazioni di Kiechle, Lak. u. Sparta p. 40 sgg., non possono essere valutate qui, né hanno per noi molta importanza. 23 Ricorderemo che già C. Fries, in un articolo per altri aspetti poco convincente, Rh. Mus. 75, 1926, p. 288, notava come le descri­ zioni in δ facciano un effetto meno tipico del solito così da far pensare che celino qualcosa di storico. 24 I critici che sollevarono la questione ragionavano forse da figli del loro tempo, cioè da contemporanei di quel Flaubert il cui scru­ polo di precisione arrivò a fargli riscrivere alcune pagine àell’Éducation sentimentale dopo aver scoperto che non esisteva la linea fer­ roviaria Fontainebleau-Parigi, su cui egli aveva fatto incautamente viaggiare i suoi personaggi! V. la Correspondance V , p. 409.

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stra argomentazione un ostacolo probabilmente indegno che ce ne preoccupassimo tanto, se non fossero state le discus­ sioni cui esso aveva dato luogo25 e il perdurante ‘dogma’ del suo significato decisivo. Più costruttivo sarà un esame, non puramente polemico e negativo, degli elementi mitici e narrativi che sembrano introdotti in questa parte Adi'O dis­ sea con l ’intento di illustrare il passato leggendario di Sparta e di adattare tendenziosamente la tradizione epica.

25 Qualcosa di molto analogo è avvenuto fra gli studiosi di un’altra illustre composizione epica: la Chanson de Roland. Per deci­ dere se l ’ignoto autore conoscesse de visti Roncisvalle sembrò decisiva la ‘questione del pino’: esistono o esistevano davvero in questa parte dei Pirenei pini come quello sotto cui, nel racconto del poeta, Orlando si ritrasse prima di morire? Già Gaston Paris rideva garba­ tamente delle ingenue ispezioni in loco, con consulenza di botanici ecc. (Revue de Paris 15-9-1901 = Légendes du Moyen Age, Paris 1903, p. 48). Ma i filologi classici prendono le cose più sul serio.

L A TRADIZIONE M ITOGRAFICA AGAMENNONE SPARTANO. ULISSE

Toccò a Eduard Schwartz, nel 1901 ‘, di additare una di quelle incoerenze della narrazione omerica dinanzi a cui generazioni di lettori erano passate distrattamente, fino al punto che ormai solo un’osservazione eccezionalmente acuta poteva superare la forza dell’abitudine e la pigrizia ere­ ditaria. Nel vaticinio di Proteo a Menelao sperduto in Egitto sulla via del ritorno ( δ 462 sgg. ) hanno gran parte i νόστοι degli altri capi achei, soprattutto, com’è naturale, quello di Agamennone. Di lui si parla subito dopo il racconto della sorte di Aiace d’Oileo; molti Achei si sono infatti perduti nel ritorno, ma soltanto due principi: Aiace, il bestemmia­ tore temerario, annientato dagli dèi (vv. 499-510), e Aga­ mennone, che dopo essere sfuggito a rischi terribili non è scampato alla perfidia degli uomini. Converrà trascrivere il passo decisivo: σός δέ που έπφυγε κήρας άδελφεός ήδ’ ύπάλυξεν έν νηυσί γλαφυρήσι · σάωσε δέ πότνια 'Ήρη. ά λλ’ δτε δή τάχ’ έμελλε Μαλειάων όρος αίπύ ΐξεσθαι, τότε δή μιν άναρπάξασα θύελλα 515 πόντου έπ’ ίχθυόεντα φέρεν βαρέα στενάχοντα, άγροϋ έπ’ έσχατιήν, όθι δώματα ναΐε Θυέστης1 1 In Strassburger Festschrift tu r 46. Versammlung deutscher Philologen und Schulmànner, Strassburg 19 0 1, p. 23 sgg. Come « semidimenticato predecessore » è citato da K. Kunst (cit. sotto n. 17, p. 19 n. 1) T. Vogt, De A trei et Thyestae fabula, Diss. Halle 1886, che elenca a sua volta bibliografia precedente. Più brevemente, ed eliminando (per sua dichiarazione) ciò che non aveva resistito a un nuovo esame, lo stesso è ripetuto in Die Odyssee, Mùnchen 1924, p. 75 sgg.

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τό πριν, άταρ τότ’ εναιε Θυεστιάδης Αΐγισθος. ά λ λ ’ δτε δή καί κεΐθεν έφαίνετο νόστος άπήμων, αψ δέ θεοί ούρον στρέψαν, καί, οϊκαδ’ ϊκοντο, ή τοι ο μέν χαίρων έπεβήσετο πατρίδος αϊης, καί, κύνει άπτόμενος ήν πατρίδα.

La tradizione mitografica. Agamennone spartano. Ulisse

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Fra tutte le oscurità e le contraddizioni che troviamo negli sparsi accenni al ritorno di Agamennone e al suo assas­ sinio, una cosa emerge chiaramente: « se Agamennone vo­ leva doppiare il capo Malea, la sua meta non era l ’Argolide » 2. Qualcuno, in una fase della composizione dell’OdAsea, ha introdotto qui un elemento mitografico in flagrante contrasto con l ’Iliade e con tutta la più diffusa tradizione. A ll’attuale confusa versione si è arrivati attraverso rima­ neggiamenti che hanno cercato di rimettere le cose in re­ gola; gli spostamenti di versi e le atetesi dei critici moderni 2 Die Odyssee cit. p. 76. Accolte da altri con favore, le conclu­ sioni di Schwartz parvero « iperlogiche » ad Arnaldo Momigliano, Studi it. filol. class, n.s. 8, 1930, p. 317 sgg. ( — Quarto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1969, p. 503 sgg.): la tempesta attorno al Capo Malea sarebbe solo un « luogo comune » dei Νόστοι da non prendere troppo in parola (cf. γ 286 sgg., i 80 sgg., τ 186 sgg.; nonché Eur. Cycl. 18 sgg. A questi esempi addotti da Momigliano stesso si potrebbe aggiungere Herod. IV 179, dove il protagonista del dirottamento è Giasone, e Dio Halic. I 72,3 = Aristot. fr. 609 Rose). P. Von der Miihll, R.E. Suppl. V II, 1940, col. 708, pende incerto tra Schwartz e Momigliano. M. Nilsson, The Mycen. origin of Gr. mythol., p. 70 sgg., met­ te la discrepanza geografica nel conto delle incoerenze che è lecito attendersi da un poeta che lavori alla maniera di chi ha com­ posto l ’Odissea. Centra Kiechle, Lak. u. Sparta, p. 4 1. Eppure, anche se il Capo Malea rappresentava davvero, nella leggenda, una specie di Capo Horn dell’antico Mediterraneo, sembra difficile che un poeta lo introducesse nel suo racconto del tutto a sproposito. È noto che l ’Odissea, finché si rimane nell’ambito dell’Egeo e non si sconfina nel favoloso, è singolarmente precisa in fatto di geografia e di nautica; vedi p. es. r 169 sgg. Sulla reale pericolosità del capo Malea v. Strab. V i l i 6,20.

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hanno continuato ad operare in fondo nello stesso senso, e con lo stesso risultato, quello di peggiorare la confusione. La spiegazione di Schwartz ricostruisce invece la genesi di questo testo, non elimina da esso con la forza ciò che non si comprende. La navigazione di Agamennone attorno al capo Malea era un grosso inciampo: per rimuoverlo sono stati inseriti i vv. 519-20, che raccontano sbrigativamente il ritorno di Agamennone dal « luogo solitario » dov’era il palazzo avito di Egisto « a casa sua ». Il rimedio ha peg­ giorato il male: dal seguito del racconto appare chiaramente che l ’uccisione fu compiuta nello stesso paese dove viveva Egisto; che egli e Agamennone fossero vicini è presupposto dalla storia della seduzione di Clitennestra (γ 263-72). La conclusione necessaria, deduce Schwartz, è di ammettere che qualcosa è stato cancellato fra i vv. 516 e 517 (dove la versione ‘aberrante’ veniva probabilmente sviluppata e le­ gata saldamente al resto del racconto). Tutto ciò diventa comprensibile se ci ricordiamo della tradizione, diffusasi nel VI secolo e viva ancora nel se­ guente, che spostava la reggia di Agamennone ad Amicle e faceva di Oreste un « Lacone » 3. Diventano chiare, allora, la navigazione attorno al capo Malea, la parte svolta da Egisto, residente anche lui in Laconia e si spiega meglio il colloquio fra Telemaco e Nestore in γ 249 sgg.: « Ma dov’era Menelao? » aveva chiesto il giovane sentendo nar­ rare Tassassimo di Agamennone. E Nestore aveva risposto: « Se rimpatriando avesse trovato il colpevole, allora avrebbe vendicato il fratello ». Anche questo è indubbiamente più naturale se tutt’e tre i personaggi abitavano vicino4*lo . 3 Pind. Pyth. XI 16, Nem. XI 34. 4 La topografia di questa parte dell’Odissea non cessò mai di suscitare difficoltà. Sintomatico è quello che leggiamo in Strabone V i l i 5,5: il primato degli Achei nel Peloponneso fece sì che il nome di Α χαϊκόν 'Άργος fu dato a tutta la penisola e in particolare alla Laconia: τό γοΰν τοΰ ποιητοϋ, “ποΰ Μενέλαος έην; η ούκ ’Άργεος ήεν Ά χ α ιικ ο ΰ ;” [ γ 249-51] δέχονται τινες ούτω ς- ή ούκ ήν έν τή

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Con ciò abbiamo guadagnato un’importantissima cono­ scenza: la tradizione di Agamennone spartano non era ac­ colta soltanto da Stesicoro, Simonide e Pindaro, come già sapevamo 5, ma anche da uno degli autori dell’Odissea. An­ che a questo sconosciuto, quindi, potremo applicare legitti­ mamente le considerazioni che sono state fatte, soprattutto a proposito di Stesicoro, sulle circostanze politiche e sto­ riche che dovettero suggerire l ’adozione di una versione mitica diversa da quella già radicata6. Schwartz propone al­ cune considerazioni abbastanza ovvie, e molto adatte a soste­ nere la tesi che sta prendendo forma in queste pagine 7; il fatto che l ’appropriamento di Agamennone da parte degli Spartani comportasse necessariamente quello di Oreste avrà già richiamato alla mente di chi legge un episodio celeber­ rimo narrato da Erodoto, che viene a buon diritto citato spesso per il suo grande valore esemplificativo: il trafuga­ mento e il trasporto a Sparta da Tegea delle ossa di Oreste, che assicurarono alla città la prevalenza sui suoi nemici; « e già gran parte del Peloponneso era sottomessa a loro », conclude il racconto erodoteo (V 67 sg.). La pagina di stoΛ ακω νική; In Eschilo i due Atridi abitano di nuovo sotto lo stesso tetto, stavolta ad Argo. Di nuovo le esigenze del racconto e soprat­ tutto della politica hanno fatto sì che venisse modificato il mito: v. P. Mazon nella sua introduzione all’Orestea della collezione Bude, Paris 719 6 1, ρ. XI. Lo stesso Mazon dà ivi una limpida discussione del problema di Agamennone nell’Odissea, concludendo in maniera perfettamente consona alla nostra. 5 Sch. Eur. Or. 46 "Ομηρος δέ έν Μ υκήναις φησί τ α βασίλεια Άγαμέμνονος, Στησίχορος δέ καί Σιμωνίδης έν Λακεδαίμονι. Per Pin­ daro ν. sopra, n. 3. 6 Ma forse non tanto fortemente: i luoghi dei poemi omerici che collocano esplicitamente Agamennone a Micene non sono poi molti. Paul Cauer in Grundfragen, p. 275: « ... ihr [dei Pelopidi] ganzer Aufenthalt dort hat etwas Schattenhaftes ». Il poeta dell 'Iliade ha « fatto posto » per gli A tridi ad Argo ma non ha saputo fare di Agamennone come re di Micene una figura reale e salda. 7 Die Odyssee, p. 77 n. 1.

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ria politica e culturale spartana che questa notizia fa intravvedere è stata già scritta parecchie volte, anche se i risultati non sono mai stati applicati conseguentemente allo studio di questa parte dell’Odissea 8. Ciò che riconosciamo subito è la conscia aspirazione spartana ad accogliere le tradizioni achee, ad identificare il proprio passato leggendario con un altro tanto più illustre e tanto celebrato nella poesia 9. Nella stessa opera di Erodoto se ne trovano ancora due tracce im­ portantissime: il re Cleomene replicò alla sacerdotessa ate­ niese che lo voleva scacciare dal tempio, rinnegando la pro­ pria origine dorica e rivendicando quella achea ( oO Δωριεύς εΐμι ά λλ’ Αχαιός V 72,3) 10; ancora al tempo delle guerre 8 Un’ulteriore connessione fra il culto spartano di Oreste e la narrazione del poema è stata riconosciuta da Schwartz nel difficile e tormentato verso γ 307 : α ψ απ’ Ά&ηναίης, κ α τά δ’ έκτανε πατροφονήα (così la lezione di Aristarco). Atena, che ha protetto Oreste e lo ha poi incitato a vendicare il padre sarebbe la Atena Alea di Tegea, che esercitò dapprima quel patrocinio divino assunto successi­ vamente dall’Apollo di Delfi (il testo tradito dice invece α ψ άπ’ Ά θηνάω ν). Nell’Odyssee ρ. 78 di tutto questo è rimasta solo una cauta fedeltà alla lezione aristarchea. Anche Von der Muhll, che la mette in apparato, non la esclude: « fortasse recte ». Il resto è sol­ tanto una suggestiva possibilità. L. Radermacher (Das Jenseits im Mythos der Hellenen, Bonn 1903, p. 13 1) aveva invece pensato che il primo patrono divino di Oreste fosse stato l ’Apollo di Amicle, naturalmente nella versione laconizzante. Centra A. Lesky, ‘Orestes’ in R.E. X V III 1, 1939, col. 977. Su questi trasferimenti spartani di sacre ossa (Oreste e Tisameno) in relazione con la pretesa dei re di Sparta di ricollegarsi alla tradizione achea, vedi anche F. Pfister, Der Reliquienkult im Altertum I, Giessen 1909, p. 75 sgg., 196 sg. 9 G. L. Huxley ha mostrato come a Corinto si fece qualcosa di molto simile; in questo caso possiamo dare un nome all’autore del tendenzioso rimaneggiamento del mito: quello di Eumelo (G r. epic poetry, p. 61 sgg.). Anche stavolta un eroe viaggiatore servì da comodo anello di congiunzione: Giasone. 10 Huxley, Gr. epic poetry, p. 87 vede in Tirteo il portavoce di un patriottismo spartano che preferiva richiamarsi al passato dorico ed eraclidico in un momento di mobilitazione morale quale la seconda

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persiane lo spartano Siagrio ricordava con rimpianto Aga­ mennone, che avrebbe appreso con dolore che i ‘suoi’ Spar­ tani dovevano accettare la supremazia di Siracusa (ή κε μέγ’ οΐμώξειε ο Πελοπίδης Αγαμέμνων πυθόμενος Σπαρτιήτας την ήγεμονίην άπαραιρήσθαι ύπά Γέλωνός τε καί Συρηκοσίων VII 159) u. Non meno celebre è il sacrificio celebrato ad Aulide da Agesilao nel consapevole intento di emulare Aga­ mennone in una circostanza simile, come testimoniano con­ cordemente le fonti n. guerra messenica. Subito dopo, nell’età che fu forse quella di Cinetone, il ricordo delle tradizioni achee tornò in onore. 11 Siagrio esordisce citando evidentemente una composizione esametrica; una prova di più che per uno spartano i ricordi della storia patria potevano rivestirsi di forme epiche. Su questo passo si po­ trebbero fondare speculazioni seducenti; per esempio si potrebbe restaurare un esametro completo sostituendo a Π ελοπίδης la lectio difficilior Π λεισθενίδης, e recuperare così un frammento anonimo di epos spartano. Il posto di Plistene nella genealogia dei Pelopidi dovette essere alquanto incerto; è invece sicuro che una maggiore importanza gli fu attribuita nel mito spartano. 12 Xen. Hell. I l i 4, 3-4; Plut. Ages. V I 4 sgg.; Paus. I l i 9, 3-4. In questo caso si può pensare che il richiamo leggendario poteva venire in mente a qualsiasi comandante greco che per ragioni di pro­ paganda volesse presentarsi come un rinnovatore della grande spedi­ zione nazionale contro l ’Asia. Pausania sembra smentire un’interpre­ tazione dell’episodio in chiave specificamente spartana con un par­ ticolare: Agesilao avrebbe pregato gli dèi di farlo regnare su una città più fortunata di quella che era toccata ad Agamennone. Ma è facile pensare che questo particolare di precisione in sé sospetta sia un fronzolo aggiunto alla storia da chi non aveva probabilmente nella memoria una versione del mito ormai sopraffatta completamente, e pensava piuttosto alle atrocità che la poesia classica aveva legato al nome dei Pelopidi. Anche se l ’obiezione principale è valida, l ’epi­ sodio, che come si è visto non è affatto isolato, merita di essere ricordato. Fra tutti gli episodi che dimostrano l ’attaccamento degli Spartani al loro passato mitico e la tenacia di certe loro tradizioni assai antiche, è molto indicativo quello narrato in Thuc. V 16: Plistoanatte fu richiamato dall’esilio e riinsediato το ϊς όμοίοις χοροΐς κ α ί δ υ σ ία ις . . . ώσπερ

οτε το

πρώτον Λ α κεδαίμο να

κ τίζ ο ν τ ε ς

το ύς

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L ’interpretazione che gli storici moderni danno di queste testimonianze è concorde, e sarà inutile stare a citare tutti i contributi di autorità grandi e piccole; certo è per noi che Sparta volle darsi un blasone mitico inserendosi di forza nel grande filone dell’epos per eccellenza: quello troiano. Roma, secoli più tardi, non si comporterà diversamente, an­ che se su scala tanto più vasta e con ben altro impiego di mezzi. Tornando ora all’Odissea, citeremo opportunamente, dopo la scoperta fondamentale di Schwartz, le osservazioni di Georg Finsler, non così originali, ma componenti attorno ad essa la cornice meglio adatta a darle il giusto significato: per l ’Iliade Agamennone, Menelao ed Elena sono argivi; l ’unica significativa eccezione è quella della Τειχοσκοπία nel terzo libro, dove si parla esplicitamente del ratto di Elena da Sparta, e si nominano come suoi fratelli i Dioscuri. Nel1Odissea, invece, non soltanto Menelao risiede a Sparta, ma anche Agamennone dev’essere considerato un re spartano: « Domina una doppia monarchia come nella Sparta dorica dei tempi storici ». N ell’Iliade ce n’è solo una traccia: le città offerte da Agamennone per placare Achille (I 149 sgg.) sono tutte situate sul golfo di Messenia, ed il disporne così liberamente e dispoticamente si confà proprio ad un re di Sparta. Come Schwartz, Finsler pensa che il racconto di Nestore nella Telemachia, dove Egisto dopo l ’uccisione di Agamennone regna su Micene e non su Sparta (γ 305), sia stato rimaneggiato da chi cercava di adattare questo rac­ conto ai presupposti dell’Iliade 13. Lo stesso pensiero e ri­ badito nella constatazione che l ’epos, pur non parlando della migrazione dorica, rispecchia per parecchi aspetti ( « mehrfac h ») le condizioni della Sparta storica14. Venendo a par­ lare della monarchia omerica l ’autore si spiega più partiβασιλέας καδίσταντο. Sparta è sempre ή μ ά λ ισ τα τ ά π α λ α ιά διασφζουσα (Isocrate, Hel. 63)! 13 G. Finsler, Homer I 1, Leipzig-Berlin 31924, p. 7. 14 Ibid. p. 29.

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tamente. Conoscenza della monarchia spartana nei suoi ca­ ratteri peculiari appare nell’Iliade e soprattutto nell’Odissea. I famosi versi che concludono le scene spartane in 5 (621623) dipingono i φιδίτια, le mense comunitarie degli Spartani15. Insomma, chi legge finisce per avere l ’impressione che per una buona parte la tesi proposta in queste pagine fosse nell’aria già parecchi decenni fa. L’enorme lavoro della cri­ tica omerica non poteva non avvertire una serie di tracce così chiare, anche se respinte in secondo piano. È mancato solo quel tanto di spregiudicatezza necessario a trarne le debite conseguenze circa la storia della composizione dei poemi omerici, che pure si indagava con tanto accanimento e con metodi così raffinati16. Un anno dopo la contemporanea pubblicazione del libro sull ’Odissea di Schwartz e della terza edizione dell ’Homer di Finsler, altri due studiosi tornavano ad occuparsi più o meno direttamente del problema: I. Harrie a proposito di ‘Zeus Agamemnon in Sparta’ e K. Kunst in una ricerca sulla saga della morte di Agamennone e sul suo sviluppo nella letteratura greca 17. Soprattutto l ’articolo di Harrie segnava un passo avanti verso lo svolgimento del compito che qui cerchiamo di affrontare più risolutamente dei nostri pre­ decessori: mettere questo genere di ricerche al servizio di un’analisi che non si limiti troppo timidamente a ricono­ scere le manipolazioni di singoli luoghi, ma che tenti di dare una fisionomia, e se possibile una patria e un’età, a qual­ cuno fra gli autori dei poemi omerici. Le conclusioni che abbiamo già additato uscivano infatti, da queste ricerche, ancora rafforzate. Harrie, accettando convintamente una spie­ 15 Homer I 2, p. 147. 16 Ancora Von der Miihll si contenta di osservare genericamente l ’« anacronismo » di δ 621-4, in R.E. Supplbd. V II, 1940, col. 709. 17 Rispettivamente: in A rch ’tv f. Religionswiss. 23, 1925, p. 359 sgg. e in Wien. Stud. 44, 1924/5, p. 18 sgg. e 143 sgg.

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gazione ormai corrente, poteva citare come suoi sostenitori Wilamowitz, Farnell e Nilsson, e ripetere la chiara formu­ lazione di quest’ultimo: « Quando Sparta divenne la po­ tenza dorica egemone nel Peloponneso, rivendicò a sé il più celebre re della saga » 18. Dando per evidente che questa versione porta l ’impronta « della giovane potenza spartana », Harrie si mostrava però restio a imboccare la strada che qui cerchiamo invece di percorrere fino in fondo, e merita anche per questo di essere citato, come rappresentante di una dif­ fusa riluttanza. Attribuire un’innovazione così palesemente filo-spartana all’autore di τεΛ significava fare il più impor­ tante passo. Accettando invece l ’estrema (e poco fortunata) datazione tarda di Bethe per la formazione definitiva del1Odissea, egli preferiva pensare che la ‘versione amiclea’ 18 Wilamowitz, Aischylos, Orestie II, Berlin 1896, p. 2 5 1; L. R. Farnell, Greek hero cults and ideas of immortality, Oxford 1921, p. 322; Nilsson, Rh. Mus. 60, 1905, p. 172 η. 1. Wilamowitz confermò la sua fedeltà a questo pensiero nella Heimkehr d. Odysseus, p. 12 1 sg.: « Die Annexion der Atreidcn... durch Sparta ist hochwichtig ». Così pure Nilsson tornò sull’argomento, confermando e sviluppando le sue conclusioni, in un’opera della sua maturità: The Myc. origin of Gr. mythol., p. 72. Per ora solo Kiechle, Lak. u. Sparta, p. 47 sgg., nega tutto questo e vuole spiegare l ’annessione di Agamennone alla Laconia con l ’esistenza di un regno acheo nel Sud del Peloponneso quando già Argo era dorizzata. Anche chi ri­ spetti la sua originalità e la correttezza del suo metodo dovrà am­ mettere che un’ipotesi del genere difficilmente acquisterà mai un grado di plausibilità paragonabile a quello dell’altra, che noi ac­ cettiamo. Sarebbe anche interessante poter pensare, con J. M. Cook, Ann. Brit. School at Athens 48, 1953, p. 33, che il culto di Agamen­ none a Micene istituito alla fine dell’V III sec. contemporaneamente a quello di Menelao ed Elena a Terapne sia il sintomo, insieme con una serie di altri fatti, dell’« arrivo » dell’Iliade nella madrepatria greca. Naturalmente si tratta di una possibilità a dir poco indimostra­ bile. Così pure è troppo fiduciosa la conclusione dello stesso autore che le opere d ’arte dimostrino la conoscenza dell’Iliade in Grecia già prima della fine dell’V III sec. (Γέρας Α ντω νίου Κεραμοπουλλου, Α θ η να ι 1953, ρ. 112 sgg.).

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della morte di Agamennone fosse nata nella lirica corale, naturalmente laconizzante. Il fatto che tale versione sia te­ stimoniata per Stesicoro e Simonide e sopravviva ancora in Pindaro gli prestava naturalmente un comodo appoggio 19. A questa tesi, già molto debole, il nuovo papiro stesicoreo ha dato il colpo di grazia: la dipendenza del poeta lirico da o (cioè dall’altro troncone di τεΛ) sembra ormai mani­ festa 20. Il primo a introdurre nella poesia la versione mi­ tica, non disinteressata, che portava Agamennone da Micene a Sparta fu dunque un poeta epico che attraverso la Tele­ machia cercò, riuscendovi in buona parte, di legare la sua celebrazione di Sparta a uno dei due grandi cicli intorno a cui si stava raccogliendo e cristallizzando la materia già fluida dell’epos greco21. La scelta naturalmente non era casuale. Un poeta posto davanti al compito di celebrare Sparta con una composi­ zione da inserire nel ciclo troiano doveva, fra l 'Iliade e YOdissea, rivolgersi piuttosto a quest’ultima per molte ra­ gioni. Per una parte esse sono intuibili a priori e varreb­ bero ugualmente nel caso di un’altra città, altre invece ci portano precisamente all’ambiente spartano, alle tradizioni e alle predilezioni di quel pubblico. 19 Così anche C. Robert, Bild und Lied, Berlin 18 8 1, p. 149 sgg. (citato anche da Harrie). 20 V . sotto p. 130 sgg. 21 L ’articolo di Kunst muoveva soprattutto dallo scritto di Schwartz del 19 0 1 e poteva tener conto dell’Odyssee soltanto per un’insignificante aggiunta sulle bozze. Per questo motivo e per il disinteresse verso i problemi storici che pure la sua analisi solleva esso ha pochissimo interesse per noi e non intacca comunque la convinzione che uno ‘strato’ (Kunst parla di tre « Schichten ») della Telemacbia faceva Agamennone spartano. Troppo comoda è la spie­ gazione di Schmid-Stahlin, Gesch. d. griech. Liter. I 1, Miinchen 1929, p. 123 n. 3: la « confusione » nelle indicazioni di luogo rela­ tive all’assassinio di Agamennone è messa sul conto dell’ignoranza dimostrata dal poeta circa la geografia del Peloponneso. Anche il viaggio di Telemaco sul carro è considerato un assurdo.

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L ’Iliade si era costituita rispettando una rigida unità di luogo che nessuno avrebbe potuto più incrinare; al gusto nuovo piaceva, invece, di arricchire la materia tradizionale, 0 di stabilire nuove connessioni per comporre sempre me­ glio il grande ciclo, attraverso il comodo espediente del viaggio 22. Così la successiva straordinaria fortuna del perso­ naggio di Ulisse si dovette non da ultimo al fatto che la figura del grande viaggiatore si prestava a sviluppi del mito che lo portassero qua e là per il mondo greco ( e non greco ). Qualcosa di questo suo carattere si trasmise ai figli: viag­ giatori furono tanto Telemaco che Telegono, e le vicissi­ tudini di quest’ultimo ebbero come principio il suo viaggio alla ricerca del padre a lui sconosciuto. La Telemachia of­ friva un comodo appiglio, per introdurre con poca fatica e senza bisogno di troppa inventiva descrizioni di luoghi e personaggi in un poema non secondo per popolarità a nes­ sun altro. Ulisse stesso doveva tornare, dal paese della fiaba, direttamente in patria, e l ’impresa di accrescere il numero delle sue avventure sarebbe stata comunque troppo impegnativa; con Telemaco ci si poteva invece prendere qualche confidenza. Un tentativo di aggiungere Creta alle tappe del suo viaggio fu certamente compiuto, anche se non sappiamo assolutamente da chi e quando. Tracce sicure ne sono rimaste negli scolli ad a 93, γ 313 e 5 702, e vi si è scorta con buona ragione l ’opera di una mano appunto cretese, intesa alla gloria del proprio paese e di Idomeneo 23. 1 Cretesi fallirono dove riuscirono invece gli Spartani; ma la stessa critica che è ben disposta a riconoscere le tracce di un tentativo fallito non ha mai considerato seriamente 22 Strabone, V I 1, 14, notava con un certo scetticismo il moltipli­ carsi delle localizzazioni di un episodio della diaspora troiana. Anche in questo caso un celebre viaggio offriva buon gioco al campanilismo di chiunque volesse conferire un titolo di nobiltà epica alle tradi­ zioni del suo paese. 23 V . Bérard, L’Odyssée (ediz.), Paris 1924, p. xxv.

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il risultato di un altro intervento, del tutto analogo e tanto più evidente. Gli altri motivi per cui ci si rivolse aWOdissea hanno, come si è detto, un carattere più preciso e meritano un più lungo discorso. La particolare popolarità della figura di Ulisse a Sparta è stata notata da gran tempo, e si può documentare molto sicuramente. Un secolo fa Theodor Bergk aveva già colto nel segno, pur nella formulazione approssimativa, notando che « come traspare da tutto, l ’Odis­ sea era particolarmente apprezzata dagli Spartani dell’età dopo Licurgo »; più precisamente « i rimaneggiamenti delΓOdissea indirizzano, per molti aspetti, alla Laconia » 24. L ’esame più completo e originale dei rapporti fra la fi­ gura di Ulisse e le tradizioni poetiche e mitiche di Sparta è forse negli Studies in thè Odyssey di J.A.K. Thomson (Oxford 1914, p. 109 sgg.). Le sue speculazioni suH’origine della leggenda di Ulisse possono essere giudicate semplicemente non migliori né peggiori di tante altre ipotesi; nel corso della sua argomentazione lo sentiamo tuttavia confer­ mare con ottimi fondamenti i pensieri già espressi da altri. La Telegonia di Eugammone di Cirene (colonia spartana 24 T. Bergk, Griech. Lìteraturgesch. I, p. 109 sgg. Quest’opinione guidò Bergk anche nella sua opera di editore della lirica, facendogli ricostruire un « Phaiaker-Kleinepos » (vedi queste Ricerche I p. 69 n. 13) dove Alcmane avrebbe « tradotto nella maniera lirica » l ’epi­ sodio di Nausicaa. L’ipotesi non ha avuto fortuna ma il pensiero da cui essa scaturiva rimane valido. Vedi Wilamowitz, Hom. Untersuchungen p. 230 (« einhaltloser Einfall ») e E. Hiller, Bursians Jahresb. 1888, p. 169. Favorevoli si erano mostrati invece J. Sitzler, Festschrift der badischen Gymnasìen, Karlsruhe 1886, p. 58 sg., e J. Schmidt, Beri. Stud. f. class. Philol u. Arch. 2, 1885, p. 399 sgg., che nomina come autore dell’ipotesi, oltre a Bergk, W elcker (forse interpretando erroneamente una sua asserzione in Kleine Schriften I, Bonn 1844, p. 240). Non sarà forse un caso che l ’idea sia nata nella mente di uno studioso tedesco, cioè di uno che più facilmente po­ teva essere suggestionato dal ricordo dei progetti di Goethe per una tragedia su Nausicaa.

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attraverso Tera!) dovette avere fra le sue fonti una più antica Telegonia di Cinetone (Euseb. Chron. ad ΟΙ. IV 2: Cinaethon Lacedaemonius poeta qui Telegoniam scripsit agnoscitur). Le intense relazioni fra Cirene e Sparta sono ben note: « Si è pensato che il titolo Telegonia nel Chronicon

di Eusebio sia corrotto. Le testimonianze sono invece in favore della sua autenticità, poiché la tradizione associò molto presto Ulisse, o almeno Penelope, con Sparta: ricor­ diamo che essi avevano un heroon in quella città ». « ... In ogni caso possiamo considerare la Telegonia di Cinetone (del quale non possiamo dire nulla se non che era ‘di Sparta’, cioè che egli scrisse di cose spartane, senza dubbio consapevolmente per la gloria di Sparta) in parte come un tentativo per rivendicare a Sparta quanto più egli poteva della leggenda di Ulisse ». Il personaggio principale, nei suc­ cessivi sviluppi della leggenda con cui si volle costruire ed ampliare per i propri fini l ’albero genealogico dei discen­ denti dell’eroe non dovette essere Telemaco ma Arcesilao. « Ora, questo Arcesilao doveva essere uno Spartano, o al­ meno i suoi discendenti erano spartani, poiché gli Arcesilai di Cirene discendevano dallo spartano Theras. Non c’è modo ragionevole di collegare Arcesilao, figlio di Ulisse, con The­ ras se non facendo anche del primo uno spartano, o almeno collegandolo con Sparta ». Non sarà forse un caso che in età storica il nome Arcesilao compaia frequentemente a Sparta. Insomma è probabile che Eugammone trovasse la figura di Arcesilao già nella vecchia Telegonia spartana e che la sua opera sia stata soltanto quella di sottolinearne l ’importanza. L ’interesse per la figura di Ulisse dovette ri­ manere dunque vivo per parecchie generazioni e l ’aspira­ zione ad annettersela si manifestò nell’elaborazione rinnovata e arricchita dei temi leggendari più adatti. L ’attribuzione eusebiana di una Telegonia a Cinetone trovò ugualmente attenzione presso l’operoso indagatore della leggenda di Ulisse, A. Hartmann, preceduto in un punto importante da Wilamowitz. Se il poema potè essere

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comunque attribuito a un autore spartano, il suo contenuto sarà stato evidentemente tale da suggerire questa possibi­ lità. Cose spartane, forse genealogie, dovevano avere nella Telegonia una parte considerevole. È facile supporre che attraverso Arcesilao i Battiadi venissero collegati ad una genealogia laconica rimontante a Penelope e al padre Ica­ rio 25. Pur divergendo da Thomson nella conclusione (egli finisce infatti per respingere la notizia eusebiana), Hart­ mann è ancora un utile testimone della convinzione che si è fatta strada in tutti gli studiosi delle più antiche tradizioni mitiche spartane: cioè che Ulisse e la sua discendenza do­ vettero avervi una grande parte26. Il tenace attaccamento ad esse e il loro sempre maggiore arricchimento traspaiono da indizi di diverso genere: in Pausania (III 20,10) leg­ giamo che la tradizione locale attribuiva l ’erezione di una statua di Αιδώς, a trenta stadi da Sparta, ad Icario. Dopo aver accordato a Ulisse la mano di sua figlia, egli propose al genero di stabilirsi in Laconia (έπειρατο μέν κατοικίσαι καί αυτόν Όδυσσέα έν Λακεδαίμονι, proprio come Menelao nella Telemachia, δ 174 sgg.! L’ideale per gli Spartani sa­ rebbe stato evidentemente quello di riuscire a fare di Ulisse un loro vicino; e almeno volevano mostrare che i loro ante­ nati avevano fatto tutto il possibile); quando il suo invito fu respinto, Icario pregò la figlia di restare con lui. Ulisse invitò la sposa a decidere, e questa accennò con garbo alla sua volontà di seguirlo velandosi pudicamente. La statua di 25 Quest’ultimo personaggio è completamente ignoto a ogni parte dell’Odissea-, più tardi (cf. più sotto, la notizia di Pausania), troviamo che egli ha un posto nelle saghe spartane. Sulla parte che egli vi svolse le notizie sono singolarmente contraddittorie: secondo Apollodoro III 10,5 egli sarebbe stato scacciato da Sparta insieme con Tindaro per opera di Ippocoonte; Pausania III 1,4, lo scolio ad Eur. Or. 457 e quello a B 5 8 1 raccontano che egli stette dalla parte degli Ippocoontidi. Nei resti del primo Par temo alcmaneo il suo nome non si legge. 26 A. Hartmann, Untersuchungen ùber die Sagen votn Tod des Odysseus, Munchen 19 17 , p. 78 e 82.

La tradizione mitografica. Agamennone spartano. Ulisse

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Αίδώς doveva commemorare l ’episodio sul luogo stesso dove si era svolto. Dal completo silenzio della Telemachia, anzi di tutta l ’Odissea, è manifesto che la localizzazione di Icario a Sparta non si era ancora avuta all’epoca della sua compo­ sizione 27. Il racconto riferito da Pausania porta chiarissimi i segni della sua ascendenza: l ’antiquaria locale e lo zelo ‘odissiaco’ degli Spartani. Un autore recente che scrive di tutt’altro (R. Goossens) nota anche lui che di contro all’av­ vilimento della figura di Ulisse nella tragedia ateniese sta un certo interesse « peloponnesiaco » ad annetterselo. La sua nascita da Sisifo sarebbe per esempio un’evidente inven­ zione corinzia per accampare pretese su Leucade 28. La pessima fortuna di Ulisse nella poesia attica non dev’essere un caso, notiamo nella scia di Goossens, e inco­ raggiati dalla sua ricchissima documentazione. Proprio l’au­ tore della più bruciante invettiva antispartana di tutta l ’an­ tichità (Euripide nell’Andromaca 445 sgg.) presenta Ulisse in una luce particolarmente sfavorevole. Il confronto fra τεΛ e le Troiane rivela un contrasto tanto stridente da non poter essere senza significato: Ulisse è il solito scellerato (non manca neppure una punta di ironia a proposito della fedeltà di Penelope, v. 423); Menelao è fermamente deciso a far giustiziare Elena dai Greci che hanno perduto parenti nella guerra (v. 876 sgg.); Ecuba accusa Elena di essere venuta a Troia attratta dal lusso che a casa sua non poteva trovare (v. 993 sgg.). Come non vedere in tutto questo una sorta di correzione paradossale e dispettosa? Ma torniamo ormai a quei libri δ e o da cui siamo par­ titi, e cerchiamo di ricapitolare ciò che vi abbiamo trovato. Le sfortunate vicende coniugali sono ignorate o vi si ac­ cenna con la massima leggerezza di tocco possibile in una simile distretta. L ’interesse del poeta (che si preoccupa, con­ tro un’altra tradizione, di negare esplicitamente una discen27 Per gli scoli ciò costituiva un’ απορία. Vedi la discussione ad δ 1. 28 R. Goossens, Euripide et Athènes, Bruxelles 1962, p. 82 sgg.

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denza maschile legittima a Menelao, δ 12 sg g.)29 è rivolto assai di più al ‘dopo’, al futuro della famiglia reale di Sparta. Su questa linea è il vaticinio della beatitudine di Menelao (δ 561-569 ) 30, connesso debolmente col contorno, cioè col racconto delle avventure in Egitto, che costituiscono palese­ mente un brano più antico e giustamente apprezzato, inca­ stonato come una gemma in un episodio per il resto piut­ tosto grigio. Elena incantatrice (8 220 sgg.) e profetessa (o 171 sgg.) porta la traccia, come in nessun altro luogo dei poemi omerici, anzi di tutta la letteratura greca, del suo originario carattere eroico e divino, quel carattere che a Sparta le rimase indelebilmente31. Gli accenni precisi a cose spartane non mancano 32, e il tono è costantemente di glorificazione, senza ombre né macchie. Tornando a leggere δ e o dopo tutte le considerazioni svolte qui ci si può meravigliare solo di una cosa: che la nostra tesi non sia stata avanzata, se non accolta, già da molto tempo. 29 È quasi incredibile che questo semplice fatto non sia bastato a fare riflettere su ben altri problemi tutti quelli che si sono gingil­ lati (ci si passi la parola) con l ’atetesi o la difesa del γάμος. Sem­ brerebbe addirittura ovvio pensare che questa correzione del mito è stata dettata da un intento ‘legittimistico’, di chi voleva giustificare il succedere degli Eraclidi agli Achei. Correzioni « apertamente pro­ pagandistiche » apportate da parte corinzia alla storia mitica della dinastia reale di Sparta indaga Huxley, Gr. epic poetry, p. 74. 30 Un’ipotesi completamente diversa sul processo di formazione che ha dato al vaticinio il suo attuale posto nell Odissea è avanzata da O. Kern, Neue Jahrb. f. d. klass. Altertum 51, 1923, p. 64 (ricol­ legandosi a E. Bethe, Homer II p. 258 sgg.). 31 L ’osservazione è già di J. Burckhardt, Griech. Kulturgeschichte IV, Berlin-Stuttgart 3[ 19 0 2 ], p. 51. 32 Per chi sa quale straordinario museo di survivals cultuali sia la religione spartana è interessante notare che il discusso γάμος di δ ha attratto l ’attenzione di un folklorista, W . Crook (Folk-lore 9, 1898, p. 104) che vi ha notato tracce di costumi molto arcaici, come « thè very primitive custom of celebrating several marriages simultaneously, which has been considered to imply a primitive pairing time ».

CONFERMA E RIEPILOGO

Un’altra osservazione, nuova solo a metà ma comunque mai utilizzata in un’indagine come la presente, viene oppor­ tunamente a gettare una nuova luce sui legami fra l ’epos e la poesia spartana del VII sec.: nel secondo dei due tron­ coni fra cui è diviso il racconto della visita di Telemaco a Sparta incontriamo un gruppo di versi quasi identici a quelli (Z 289 sgg.) che un commentatore di Alcmane 1 aveva già invocato per spiegare un difficile passo del Vartenio (vv. 60-3): τα ί Πεληάδες γάρ άμιν Όρθίςι φάρος φεροίσαις νύκτα δι’ άμβροσίαν άτε σήριον άστρον άυηρομέναι μάχονται. E nell Odissea (ο 105-9): ενθ’ έσαν οΐ πέπλοι παμποίκιλοι, οϋς πάμεν αυτή, των εν’ άειραμένη Ελένη φέρε, δία γυναικών, δς κάλλιστος έην ποικίλμασιν ήδέ μέγιστος, άστήρ δ’ ώς άπέλαμπεν . . . La legittimità del confronto (fra il Vartenio e l ’Iliade, come si è detto; dell Odissea stranamente nessuno si è ricordato) è stata successivamente messa in dubbio2; ma il ritrovare questi versi identici, stavolta con Elena come soggetto in luogo di Ecuba, rafforza grandemente la validità del pen­ siero. L ’eroina nazionale come donatrice di un drappo pre1 Antonio Garzya, Alcmane. I frammenti, Napoli 1954, p. 54 sg. 2 A. E. Harvey, Gnomon 28, 1956, p. 91.

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zioso era il migliore e più ovvio paradigma mitico per le fanciulle spartane che compivano la rituale offerta del φάρος a Orthia. Se riesaminiamo la possibilità di un rapporto fra i due passi in questa nuova luce (cioè considerando i versi omerici nella versione ‘spartana’ e non in quella ‘troiana’), le coincidenze nell’espressione appariranno come conferma di una cosa in sé estremamente verosimile. Possiamo dire tranquillamente che si tratta di un caso? Questo sarebbe certo il miglior partito se non ci fossero un’infinità di altri fattori da considerare, cioè (semplicemente) se si trattasse di una parte qualunque dei poemi ome­ rici. Ma qui siamo a Sparta; e ciò che speriamo di accer­ tare è una cosa ben poco sorprendente: la parentela fra l’opera di un poeta lirico spartano del VII secolo e una composizione epica quasi coeva che celebra un re leggen­ dario della sua città 3. 3 Da confinare in nota, come di per sé non probante, ma comun­ que tale da non potersi tacere, è un fatto singolare: la presenza nei frammenti alcmanei di tre elementi lessicali che incontriamo anche nelle scene spartane di δ, e al di fuori di esse mai altrove in tutto Omero. 1) δ 36 δοινηδήναι ~ Alcm. 98 δοίναις; né il verbo, né il sostan­ tivo, né alcun’altra parola della famiglia s’incontrano altrove nelΓIliade e neWOdissea. 2) δ 4 17 sg. δσσ’ έπί γα ΐα ν / ερπετά γ ίγ νο υτα ι ~ Alcm. 89 υλ α δ’ ερπετά δ’ δσσα τρέφει μέλαινα γα ΐα (ϋλ α Pfeiffer, Hermes, 1959, 1 sgg. φ ύλ α cod.). έρπετόν in funzione di aggettivo, come dobbiamo intendere accettando la lezione tràdita, sarebbe senz’altri esempi. Meglio accettare la correzione di Pfeiffer, che in questo confronto trova un’altra conferma, έρπετόν è di nuovo solo qui in Omero. 3) δ 493 sg. ουδέ σέ φημι / δήν ά κλαυτον εσεσδαι, έπεί κ’ έυ π ά ντα πύδηαι (« non potrai trattenere il pianto ») ~ Alcm. 1,37 sgg. ò δ’ όλβιός, δστις είίφρων / άμέραν [δι]απλέκει / άκλαυτος. άκλαυτος con valore attivo è una particolarità del lessico alcmaneo notata sempre come eccezionale dai commentatori. In Omero il luogo citato è ugualmente un unicum; l ’estrema rarità di quest’uso è del resto

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Dare ragione di questi fatti è cosa oggi più ardua e spi­ nosa che mai; il rinnovamento degli studi omerici che stiamo vivendo accresce (ammesso che ce ne fosse bisogno per le persone sensate) la nostra diffidenza verso ogni forma di dogmatismo in questioni di questo genere. Azzardandoci a offrire un abbozzo di possibile ricostruzione, vogliamo sot­ tolineare per primi la sua provvisorietà: ci basterà che i fatti osservati non siano giudicati futili; comprendiamo an­ che che altri potrà darne interpretazioni altrettanto possibili, muovendo da altri presupposti o seguendo vie che in futuro saranno meglio esplorate. Prima della metà del VII secolo, possiamo dunque im­ maginare, Sparta aveva già conosciuto qualche prodotto del­ l ’epos ionico. Su un terreno a ciò preparato dalla diffusione che certamente vi aveva una più antica, locale produzione epica, parti di quelli che poi sarebbero stati i poemi omerici penetrarono in maniera progressiva e diseguale. Come questa migrazione delle composizioni epiche fra le varie parti del mondo greco si componga e s’intrecci con l ’altro cammino percorso, dalla composizione puramente orale al ‘libro’ fis­ sato e scritto, è un problema che dobbiamo lasciare aperto, per cautela e per onestà. Comunque, composizioni che poi ritroveremo nell’Iliade e nell’Odissea dovevano aver rag­ giunto un certo grado di stabilità e una certa fama, poiché ci è parso di trovarle probabilmente riecheggiate dai due poeti spartani: fra queste fu la Phaiakis. Nell’età immediata­ mente precedente quella di Alcmane un poeta epico che confermata da tutta la letteratura greca. Come luoghi che presentano un impiego similmente attivo dell’aggettivo verbale saprei indicare solamente A.P. V II 716,4 (Dionisio di Rodi) e Aesch. Se. 696. Il rarissimo μ ά στα ξ compare infine tanto in δ 287 che in Alcmane fr. 79 (K. Sittl, Beri, philol. SVochenschr. 7, 1887, p. 881 sgg., voleva cambiare μ άστακας, nel frammento alcmaneo, in μ ύστακας con un’argomentazione incomprensibile — tale anche per E. Hiller, Bursians Jahresb. 54, 1888, p. 167 sgg.).

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operò a Sparta (di origine ionica4 o nativo) si propose di dare a questa città una funzione e un posto nella poesia epica maggiori di quelli, alquanto secondari, che fino allora essa vi aveva trovato. Assecondando i gusti del suo pub­ blico e le aspirazioni dei suoi protettori e committenti, egli introdusse notevoli mutamenti nella saga più comunemente accettata, cercando di dare nuova dignità poetica alle versioni locali e trasferendo nella materia epica credenze e culti spar­ tani. Le doti poetiche e la padronanza del mestiere che egli mise al servizio della sua città (adottiva o natale) erano modeste; probabilmente era ormai in atto una generale de­ cadenza della produzione epica nel suo tempo. Egli svolse comunque il suo compito con una certa abilità di composi­ tore, con quella destrezza ‘rapsodica’ che era il frutto di un’esperienza secolare e che era sopravvissuta all’autentica capacità creativa. Il destro gliel’offerse la Telemachia, che per sua natura si prestava ad essere ampliata fino ad acco­ gliere quasi tutto ciò che si poteva desiderare 5. È forse im­ possibile dire se nel più antico racconto del viaggio di Tele­ maco egli trovasse già una visita a Sparta di estensione molto più modesta (paragonabile all’episodio di Nestore) o se vi 4 A proposito della Naupaktia, Huxley ha potuto ben pensare, sul fondamento di testimonianze antiche, che un poeta viaggiatore di origine milesia abbia recitato, a Naupatto stessa, un poema di argo­ mento locale (Gr. epic poetry p. 69). 5 Sarà questo il luogo più opportuno a introdurre un’osserva­ zione che ha perlomeno interesse come curiosità storico-letteraria, e che può offrire lo spunto a qualche pensiero non inutile. M olti secoli più tardi il tema narrativo ‘Telemachia’ subì un nuovo, colossale ampliamento, reso facile dal suo carattere di viaggio avventuroso, nell’opera di Fénelon, Les aventures de Télémaque (1699). Telemaco è condotto in giro per il mondo da Atena-Mente e si incontra con una quantità di personaggi dell’epos troiano. È curioso notare che anche questa moderna Lelemachia si comprende solo sullo sfondo della storia politica del tempo; salvo che stavolta il fine non è enco­ miastico: al contrario le allusioni alle cattive condizioni della Francia sotto Luigi XIV costarono all’autore la disgrazia in corte.

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abbia introdotto quest’episodio di sana pianta; la forma attuale, col suo largo impianto narrativo ben più ricco di quello della corrispondente visita a Pilo, dev’essere comunque essenzialmente sua opera. Da vero ‘cucitore’ egli non si peritò di far suo ciò che di buono trovava nella produzione epica contemporanea, orientata verso un gusto ormai pittorico e romanzesco; così adattò interi gruppi di versi e incorporò un intero, fortunato episodio (le avventure di Menelao in Egitto) che almeno per tre quarti non dev’essere farina del suo sacco. Per la parte che egli doveva bene o male inven­ tare, si aiutò con reminiscenze della Vhaiakis, adattandone o sciupandone diversi tratti già celebri. Il risultato delle sue fatiche incontrò comunque un favore molto superiore ai meriti. Sparta aveva fatto il suo ingresso nel mondo del­ l ’epos, e non era disposta a rinunciare a un così vistoso blasone di nobiltà. L ’attaccamento insistente al nuovo, unico canto omerico che illustrava davvero la storia nazionale e in cui Menelao non era il μαλθακός αίχμητής né Elena sol­ tanto l ’adultera déT Ilia d e6 è testimoniato dal fatto che un poeta di statura indubbiamente superiore come Alcmane se ne sia ricordato, e che anche Stesicoro l ’abbia rielaborato alla sua m aniera7. U n’Odissea senza Elena e Menelao non 6 La presentazione di Elena in Γ, cioè nell’unica parte dell Iliade dove il personaggio è mostrato da vicino, è in realtà apparso abba­ stanza favorevole da far supporre anche qui tendenziosità da parte del poeta (v. sotto p. 142 e n. 10). La differenza di tono è comunque notevole, anche se Elena si dà contritamente della κυνώ πις tanto in Γ 180 che in δ 145. In τεΛ non si riesce a immaginare che qualcuno formuli su Elena un giudizio come quello implicito nell’augurio di Γ 159 sg.: « È bella ma se ne vada e non sia causa della nostra rovina ». Così pure tu tt’altro tono troviamo in λ 436 sgg. (Elena altrettanto colpevole che Clitennestra) e in ξ 68 sgg. (maledizione contro la fatale Elena). Il diverso trattamento della figura di Elena in parti diverse dei poemi omerici è stato argomento per la critica analitica fino dai tempi dei χωρίζοντες. Cf. gli scoli ad B 356. 7 V. immediatamente sotto.

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era più pensabile; le successive rielaborazioni poterono sol­ tanto spezzare in due l ’episodio per adattarlo a fini compo­ sitivi di più ampio respiro, e compiere qualche trasparente correzione di minor conto per eliminare le più crasse con­ traddizioni con l ’Iliade. Come si vede siamo ben lontani dal supporre una ‘redazione spartana’ dell’Odissea. Per l ’epoca in cui Sparta si interessò ‘attivamente’ all’epos parlare di redazione sarebbe forse ancora anacronistico. La nostra con­ clusione è più modesta: ci fu una redazione (quella che ha prevalso) che non potè ignorare il contributo spartano al ciclo epico. Solo questa è la capacità di irraggiamento che rivendichiamo alla cultura spartana nel momento del suo apogeo.

STESICORO

I papiri di Ossirinco hanno restituito di recente un sor­ prendente frammento stesicoreo, che per certi aspetti ha confermato (addirittura al di là delPimmaginabile) antichi e celebri giudizi su questo poeta, per altri ha posto problemi nuovi e inattesi. Esso è stato pubblicato dapprima da E. Lobel ', poi, con qualche nuova lettura e integrazione, da W . P eek12, infine da D.L. Page nei Poetae melici Graeci, riproducendo scrupolosamente il testo òàYeditio princeps: col. I de[ì]ov έ[ξ]αίφνας τέρας ίδοΐσα νύμφα ωδε δε[..]. 'Ελένα φωνάι ποτ[ί] παίδ’ Όδύσει,ο[ν · Τηλέμαχ[. ,]τις δδ’ άμίν αγγελ[ο]ς ώρανόθεν δι,’ αίθέρο[ς άτίρυγέτας κατέπαλτο βαδ[ 5

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].ε φοιναο κεκλαγγω[ ]. . ,ς ύμετέρους δόμους προφα.[............ ]υς ]........ αν.υς άνήρ βο]υλαΐς Άθάνας ].ηις αυτα λακέρυζα κορώνα ].μ’ ούδ’ έγώ σ’ έρύ[ξ]ω Παν]ελόπα σ’ ΐδοϊσα φίλου πατ[ρ]ός υιόν ]σο.[.]τ..ς έσθλ[ ].[.]θειθν μ[

1 The Oxyrhynchus Papyri XXIII, p. 15 sgg. 2 Pbilologus 102, 1958, p. 169 sgg.

9

London

1956,

n.

2360,

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col. II

5

άργυρέαν τεπ[ χρυσώι υπερώε [ έκ Δαρδανώ..[ Πλεισθενίδας.[ καί τά μέν ευ.[ συνθ χρυσ[

L ’attribuzione a Stesicoro è stata accettata concordemen­ te, mentre l ’assegnazione ai Νόστοι, proposta come dubbia da Lobel, è rimasta tale. Page stampa il frammento, senza esitazioni, di seguito a un altro che dai Νόστοι sicuramente deriva, ma Hugh Lloyd-Jones ha pensato, forse con altret­ tanto diritto, aÌYOrestea 3. Si tratta di un frammento che illustra nel modo migliore le testimonianze che sull’arte di Stesicoro hanno lasciato l ’autore del Sublime e Quintiliano4: riconosciamo infatti un rifacimento sorprendentemente fedele della scena di com­ miato fra Telemaco e i suoi ospiti spartani nel quindicesimo libro àùYOdissea. In o 160 sgg. un’aquila, recante fra gli artigli un’oca, appare alla destra dei quattro personaggi (Telemaco, Pisistrato, Elena e Menelao) che stanno per se­ pararsi. L’auspicio suscita in essi un moto di gioia e Pisi­ strato domanda a Menelao il suo parere. Il silenzio pensie­ roso di quest’ultimo è interrotto da Elena, che interpreta di sua iniziativa il presagio, come un segno sicuro del prossimo, o già avvenuto, ritorno di Ulisse e della punizione dei pre­ tendenti. Telemaco si augura l’avveramento della profezia e promette per questo caso gratitudine e onori straordinari 3 Class. Rev. 72, 1958, p. 17. 4 Ricordiamo anche Dio Chrys. LV 7: τοΰτό γε άπαντές φασιν oi "Ελληνες, Στησίχορον 'Ομήρου ζη λω τή ν γενέσδαι κ α ί σφόδρα έοικέναι κ α τ ά τ ή ν ιτοίησιν.

Stesicoro

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a Elena (ν. 181): τώ κέν τοι καί κεΐθι θεφ ώς εύχετοφμην. I versi superstiti di Stesicoro cominciano subito dopo l ’ap­ parizione dell’auspicio e contengono (per tutta la prima co­ lonna) le parole di Elena a Telemaco; nella seconda sembra che compaia Menelao (1. 4 Πλεισθενίδας), e che l ’argomento sia il vero e proprio commiato (άργυρέαν di 1. 1 e χρυσφ di 1. 2 fanno pensare ai doni ospitali su cui si sofferma ri­ petutamente il racconto di δ (614 sgg.) e o (114 sgg.). Il paragone fra la narrazione epica e quella stesicorea non è solo un compito per noi estremamente interessante, ma an­ che un’occasione quasi unica di osservare da vicino, attra­ verso un cospicuo esempio, una svolta della storia letteraria greca: chi parla di questo frammento non può esimersi da spendervi qualche parola. Un confronto sistematico è stato condotto, per quanto mi risulta, dal solo Peek, che è andato qualche volta troppo in là, costruendo su congetture non abbastanza solide. Nonostante una maggiore prolissità (come osserva il Peek stesso, a sette versi nel discorso di Elena in Omero corrispondono in Stesicoro almeno d ieci5), il rac­ conto di Stesicoro è indubbiamente, com’è logico aspettarsi, più raccolto, più vivace e nervoso. Il rallentamento prodotto nella narrazione dalla domanda di Pisistrato a Menelao e dal silenzio dubbioso di quest’ultimo è soppresso. Elena apo­ strofa Telemaco, a quanto pare, subito dopo l ’apparizione del presagio (col. I 1. 1 θειον έξαίφνας τέρας ΐδοΐσα νύμφα) e nelle sue parole si concentra quello che nùYOdissea è distribuito in vari luoghi. Questo è certo per 1’ ούδ’ έγώ σ’ έρύξω di 1. 10 che corrisponde precisamente a ου τ ί σ’ έγώ γε πολύν χρόνον ένθάδ’ έρύξω posto nt\Y Odissea assai lon­ tano dalla scena del commiato (o 68) e detto da Menelao. 'Υμετέρους δόμους di 1. 6 e βουλαΐς Άθάνας di 1. 8 fanno intuire che la decisione suggerita a Telemaco, di tornare a Itaca {ntWOdissea all’inizio del libro, dopo la comparsa in 5 Anche questo sembra confermare un’osservazione di Quintiliano, Inst. X 1,62: Stesichorus redundat atque effunditur.

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Stesicoro

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sogno di Atena), doveva essere qui in qualche modo fusa col presagio, anche se le relative integrazioni di Lobel e Page hanno un valore solo esemplificativo. Anche gli άποφόρητα di Menelao, come si è detto, erano con ogni proba­ bilità descritti subito dopo, sicché al posto dell’apparente prolissità abbiamo riconosciuto un taglio narrativo molto più agile. È comunque evidente che Stesicoro ha davvero « tradotto nella maniera lirica » un episodio del ciclo odissiaco: re si­ stenza di un’ipotesi che attribuiva qualcosa di simile ad Alcmane6 ci fa ricordare i rapporti singolarmente stretti, anche se non bene precisati, che la tradizione antica lascia intravvedere, fra il poeta siciliano da una parte, e Sparta e Alcmane dall’altra. La concatenazione che i cronografi an­ tichi stabilivano fra la datazione di Alcmane e quella di Stesicoro traspare dalla Suda·. Στησίχορος ην τοΐς χρόνοις νεώτερος Άλκμανος e ha fatto pensare che qualcuno abbia voluto far coincidere la morte del più vecchio con la nascita del più giovane. C’è naturalmente da domandarsi se per questo non vi fossero motivi più precisi che una parentela generica fra l ’opera poetica dell’uno e quella dell’altro. La notizia di una visita di Stesicoro in Grecia fu dapprima re­ spinta come una favola che avrebbe avuto origine dalla con­ fusione con un omonimo vissuto in tempi più recenti7. Ora un recentissimo papiro ossirinchita8 è venuto a confermarne la probabilità9*. D’altra parte anche un critico negatore del

presunto viaggio di Stesicoro nella madrepatria greca, il Vùrtheim, aveva scritto a questo proposito cose che non potremmo desiderare più convincenti e meglio adatte alla nostra tesi: Stesicoro fu il primo fra i lirici a trasportare la sede degli Atridi da Micene a Sparta per « dare una base storica alle pretese egemoniche dei Dori ». E ancora: « Poeta e stato servono la stessa politica; l ’oracolo delfico era d’ac­ cordo »; « YOrestea di Stesicoro riflette la situazione poli­ tica contemporanea nel Peloponneso... Il poeta lascia la tra­ dizione omerica e si inserisce nella realtà » 11. Le concordanze fra Stesicoro e le tradizioni peloponne­ siache, o più precisamente spartane, in materia mitografica, sono state notate da gran tempo; e nell’opera di diversi indagatori di questo problema i nomi di Stesicoro e di Alcmane si trovano spesso affiancati. In Stesicoro si leg­ geva il racconto del primo rapimento di Elena a opera di Teseo e della sua liberazione da parte dei Dioscuri, mentre Alcmane raccontava come i Dioscuri avessero preso Atene e rapito la madre di Teseo, Aithra 12. Una scena raffigurata sulla Tabula Iliaca mostrava infine i due Teseidi, Demo­ fonte ed Acamante che portavano via da Troia l ’ava pa­ terna. Sembra insomma che il filo di una stessa leggenda corresse attraverso l ’opera dei due poeti, una leggenda colo­ rata di tradizioni e di interessi laconici. Abbiamo già avuto occasione di ricordare la fonte antica che testimonia l’inno­ vazione operata da Stesicoro nel collocare l’azione delYOrestea non a Micene ma in Laconia, « versione sorta

6 Vedi sopra p. 114 n. 24. 7 « Die Ansicht, dass die Oresteia des Stesichoros in und fiir Sparta gedichtet sei, hat in der letzten Zeit Boden gewonnen », poteva però scrivere A. Lesky nel 1939 (‘Orestes’, in R.E. XVIII 1, col. 978), citando a sostegno W ilamowitz e Bowra. 8 The Oxyrhynchus Papyri XXXV, London 1965, n. 2735. 9 Pur se è esagerato l ’ottimismo di un critico: « W e learn several exciting things from thè new text... W e learn that he stayed at Sparta and sang before a Spartan prince, and we are granted a new and vivid glimpse of thè place in thè period between Alcman

and Pindar. » Così M. L. W est, Zeitschr. f. Papyrol. u. Epigr. 4, 1969, p. 148. 10 J. Vùrtheim, Stesichoros’ Pragmente und Biographie, Leiden 19 19 , p. 105. 11 Ibid. p. 50. 12 Rispettivamente frr. 191 e 21. Ritroveremo poi Aithra come ancella di Elena a Troia in Γ 144 (il terzo libro dell’Iliade è l ’unico in tutto Omero dove si parli dei Dioscuri); cf. sotto p. 142 n. 10.

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per influsso delle tradizioni della predominante Lacedemo­ ne » constatava un altro studioso di Stesicoro, Umberto Mancuso, già nel 1912 13. Lo studio più aggiornato e completo dell’argomento è ora nella seconda edizione della Greek lyric poetry di C.M. Bowra (Oxford 1961, p. 110 sgg.). A ll’ovvia constatazione che una palinodia a giustificazione di irriverenze verso il personaggio di Elena « è appropriata a Sparta e a quasi nessun altro luogo nel mondo greco », Bowra aggiunge altri indizi di un particolare rapporto fra Stesicoro e Sparta, tratti da quello che sappiamo della sua Orestea. Il primo è naturalmente rappresentato dal fatto che egli abbia spostato a Sparta la residenza di Agamennone: « Dicendo così Stesicoro avallava e sosteneva la propaganda spartana del suo tempo » 14. Il secondo è la presenza, nella leggenda da lui narrata, di una nutrice di Oreste chiamata Laodamia. Da Pausania (X 9,5) sappiamo che una Laodamia era figlia di Amicla, re di Sparta, e madre di Trifilo, l ’eponimo della Trifilia che Sparta si annette nel VII secolo: « La tradizione che diede a Trifilo Amicla come nonno di­ mostra che gli Spartani rivendicavano la Trifilia sul fonda­ mento di una parentela di sangue, e il fatto che gli sia stata attribuita una madre Laodamia, di cui non si sa quasi nulla, fa pensare che essa sia apparsa a Stesicoro come una figura della storia nazionale adatta a salvare dalla morte Oreste bambino ». Infine il fatto che Stesicoro chiami ripetutamente ‘Plistenidi’ quelli che noi siamo piuttosto abituati a chiamare Atridi, si spiega nello stesso modo: « Atreo non era solo un 13 U. Mancuso, La lirica classica greca in Sicilia e nella Magna Grecia, Pisa 19 12 , p. 208. 14 Sulle presumibili innovazioni portate da Stesicoro nella saga di Oreste v. C. Robert, Bild u. Lied p. 149 sgg. I. Harrie, Archiv f. Religionswiss. 23, 1925, p. 367, va però troppo in là quando parla di una teoria di Robert secondo cui la ‘versione amiclea’ della morte di Agamennone risalirebbe a Stesicoro.

Stesicoro

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antenato screditato; per lui non c’era posto a Sparta, e la sua tomba era a Micene. Se gli interessi spartani richiede­ vano una glorificazione di Agamennone, bisognava trovargli qualche altro padre che non fosse Atreo, e Plistene andava bene ». Siamo così di nuovo nel pieno di quel genere di ricerche mitografiche già svolte con risultati che sono apparsi, credo, molto eloquenti. Di nuovo appare evidente che Sparta ha saputo con fortuna mettere al servizio del proprio prestigio e della propria politica l ’inventiva dei poeti e suggerire loro le manipolazioni del mito che meglio le convenivano. Stesicoro operò come emulo dello sconosciuto autore di τεΛ, e un caso fortunato, restituendoci il frammento, ha comple­ tato inaspettatamente la storia della fortuna di un tema leg­ gendario e poetico. È perlomeno estremamente verosimile che la popolarità di τεΛ persistesse a Sparta ancora al tempo di Stesicoro, e che la vecchia composizione epica apparisse come un adeguato punto di partenza per una nuova celebra­ zione poetica del passato mitico della città.

PRECEDENTI IPOTESI DI ANALOGO CARATTERE CONCLUSIONE

Il tentativo di assegnare un luogo di origine a parti dei poemi omerici non è certo nuovo, anche se per lo più si è forzatamente rimasti nel generico o ci si è limitati a con­ siderare parti di piccola estensione, non ben delimitabili e tali da poter essere designate, quasi tranquillamente, col discutibile termine di ‘interpolazioni’. Fin qui abbiamo se­ guito il principio di far parlare il più possibile gli altri, per mostrare che il nostro risultato discenderà quasi necessaria­ mente da cose in gran parte già osservate, se solo le acco­ steremo e ne trarremo coerentemente le conseguenze. Anche stavolta esamineremo brevemente ciò che altri hanno già scritto, per dimostrare (spero) il cattivo fondamento di certe vecchie preclusioni e per fare infine alcune considerazioni su una sorta di strana parzialità che quasi tutti gli studiosi di cose omeriche hanno mostrata. Che i poemi omerici abbiano ricevuto l ’ultima mano o la redazione definitiva nella madrepatria e non in quella Ionia che ne aveva veduto nascere la massima parte, è idea assai vecchia; tradizioni ugualmente antiche e ben note par­ lano di interpolazioni tendenziose della sorta di quella che crediamo di avere riconosciuto. Da questo punto di vista la nostra tesi non ha nulla di eccentrico né di temerario. Varrà soltanto la pena di ricordare alcune ipotesi avanzate nei tempi moderni, adatte a introdurre nel genere di pen­ sieri che abbiamo qui svolto, e a mostrare che non ci siamo poi inoltrati in una terra tanto incognita, o in cui sia co­ munque temerario avventurarsi. Nel 1920, Adolf Lorcher pensò per esempio che l ’Iliade avesse ricevuto la forma attuale nel Peloponneso, e più pre­ cisamente ad Olimpia. Le poche allusioni a Eracle che s’in-

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contrano nel poema, segno di quest’ultima tappa del suo divenire, costituirebbero un’eredità antichissima come og­ getto di mitologia, ma un’aggiunta recente alla composi­ zione k Un’ipotesi simile non poteva evidentemente aver seguito, ed oggi è certamente superata nei suoi stessi pre­ supposti fondamentali. Cose notevolmente più interessanti troviamo però avvicinandoci all’oggetto vero e proprio della nostra ricerca: Friedrich Blass riteneva che l ’autore del fi­ nale àeìYOdissea, cioè di quella che sarebbe una vera e pro­ pria continuazione del poema più antico, da Ψ 297 in poi, fosse probabilmente di Corinto o di una colonia corinzia; dal ‘vero Omero’ lo distinguerebbero anche le sue più estese conoscenze geografiche12. A Corinto, o meglio più generica­ mente al suo « Kulturkreis » pensava anche Wilamowitz, stavolta a proposito della Telemachia, quella stessa che egli aveva dapprima ritenuto opera ionica e che ora attribuiva « sicuramente » alla madrepatria3. Dell’opinione di Bergk, che l ’ultima elaborazione dell Odissea porti un’impronta la­ conica, abbiamo già detto 4. Otto Seeck sosteneva invece che la Telemachia è di origine attica, ma con argomenti che non hanno davvero resistito al tempo. Attribuendole un’esten­ sione arbitrariamente vasta, egli vi comprendeva tutto ciò che gli potesse tornare comodo; quanto alle difficoltà di vario genere che gli si presentavano, le risolveva con un espe­ diente davvero memorabile nella storia della critica omerica: supponendo cioè che l ’attuale Telemachia sia frutto della trascrizione approssimativa fatta da uno smemorato che 1 Citato presso Cauer, Grundfragen p. 247 n. 22. 2 F. Blass, Die Interpol, in d. Od. p. 2 18 sgg. 3 U. v. Wilamowitz, Die Heimkehr des Odysseus (cfr. sopra p. 94) p. 182: « ...die Telemachie ist bereits ohne Frage im Mutterlande, wahrscheinlich im korinthischen Kulturkreise verfasst ». L’aveva fatto ricredere, fra l ’altro, il comportamento di Elena in δ e in o, ispirato a una disinvoltura « poco ateniese e, stando ad Erodoto, poco ionica ». 4 V . sopra p. 114.

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avrebbe sciupato una vigorosa opera di poesia (di qui la concezione felice, realizzata in cattivi versi)5. Cercando allu­ sioni precise alla storia attica della metà del VI secolo, Seeck cadeva nel fantasioso e almeno in un caso nel grot­ tesco: quando immaginava che il giaciglio comune di Tele­ maco e Pisistrato nel palazzo di Menelao dovesse alludere poeticamente a un matrimonio fra i loro pretesi discendenti, celebrato al tempo del poeta6. Ancora l ’Attica e Pisistrato sono il punto d’arrivo nella storia àùYOdissea come la ri­ costruiva Ludwig Adam. Un « Nachdichter » (identificato alla fine con Cineto) rimaneggiò l ’Odissea per celebrare Pi­ sistrato e la sua famiglia: « e perciò Ipparco introdusse forzosamente la nuova versione del poema » 7. Ben maggiore attenzione merita un successivo erede di questa tesi: E. Bethe. Il nome del figlio di Nestore è anche per lui l ’in­ dizio che qui è stata all’opera una mano ateniese: l ’ultimo Bearbeiter della nostra Odissea ha voluto « in piena consa­ pevolezza, rendere un servizio al tiranno » 8: tutto questo era per Bethe un sostegno fra gli altri della sua sfortunata da­ tazione estremamente bassa dei poemi omerici; e ad essa evi­ dentemente non sopravviverà la tesi, di per sé assai debole, di un’origine ‘pisistratea’ della Telemachia. Pensieri più validi e che ci interessano più da vicino tro­ viamo nel libro di Adolph Romer sulle atetesi omeriche attribuite ad Aristarco, anche se dobbiamo cercarli fra intem­ peranze di linguaggio e affermazioni ipotetiche che l ’autore pretende di imporre alzando la voce9. Una delle idee cui egli è più fedele, anche se non la sviluppa mai ampiamente, 5 O. Seeck, Die Quellen der Odyssee p. 143 sg. 6 Ibid. p. 341 sgg. 7 L. Adam, Der Aufbau der Odyssee durch Homer den ersten Rhapsoden und tragischen Dichter, Wiesbaden 19 11, p. 141. 8 E. Bethe, Homer II p. 339. 9 A. Romer, Aristarchs Athetesen in der Homerkritik (wirkliche und angebliche). Eine kritische Untersuchung, Leipzig-Berlin 1912.

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è quella delle « interpolazioni doriche », come egli dice, dis­ seminate nei poemi omerici, e riconoscibili senz’ombra di dubbio: esempi λ 301-4, Γ 396-418, ψ 218-24 (a discolpa di Elena), δ 280 sgg. (in lode di M enelao)1012. Particolarmente interessante per noi è la giusta difesa di δ 17-9 (il γάμος di Sparta) contro la testimonianza di chi pretendeva strana­ mente di attribuirli all’ ‘interpolatore’ (?) Aristarco: « S i vide in questi versi un peccato mortale contro la Λακώνων παιδεία e la σωφροσύνη del re come se in Omero potesse essere questione di cose simili! »; « Questa sfacciata falsità trova il suo giusto posto accanto alle interpolazioni doriche già osservate » (ma allora si tratterebbe stavolta di una ‘atetesi dorica’? Ròmer non lo dice chiaramente; è giusta co­ munque l ’osservazione che l ’espunzione del γάμος non è giustificata dal fatto che nel seguito non se ne parli più: questo episodio di contorno ha fatto la sua parte e scompare nello sfondo per lasciare posto ai protagonisti) n. Per ultimo dobbiamo nominare il precursore più impor­ tante, l ’unico che abbia enunciato, sia pure dubitosamente, la stessa nostra idea: « Il poeta della Telemachia era forse, possiamo immaginare, spartano » (« Der Dichter der Tele­ machie durfen wir uns vielleicht als Lakonen denken »); così scrisse August Fick nel 1912, proseguendo in maniera consona alle nostre opinioni: « In ogni caso gli Achei della Laconia hanno coltivato la poesia epica (« an der Pflege des Epos teilgenommen »), di questo è prova Cinetone lo spartano, che deve avere svolto un’attività estremamente fe­ conda » u. Il precursore più diretto è però anche il più 10 P. 109 sg., 4 13 sg. La presenza di Aithra, madre di Teseo, fra le serve di Elena in Γ 144 è spiegabile solo attraverso una leg­ genda che dobbiamo credere, secondo ogni probabilità, laconica; cf. sopra p. 133. 11 P. 451 sgg. 12 A. Fick, Die Entstehung der Odyssee und die Versabzàhlung in den griechischen Epen, Gottingen 19 10 , p. 110 sg.

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scomodo: l ’opera di Fick non è stata tale da aprire una nuova strada, ma piuttosto da chiuderla e da scoraggiare chiunque altro volesse intraprenderla 13. I suoi pensieri giu­ sti erano infatti accompagnati e connessi con altri tanto pa­ radossali e fantastici da esserne completamente soverchiati. Il libro in cui essi erano presentati fu dimenticato subito, con tutto vantaggio per la memoria dell’autore 14. La « Ent­ stehung der Odyssee » come se l ’immagina Fick non è più inverosimile di tante altre proposte prima e dopo di lui; ma la vera ‘originalità’ del lavoro doveva consistere, pur­ troppo, nelle incredibili speculazioni numeriche che lo empi­ vano da un capo all’altro e che costituivano il fondamento principale di tutto quanto in esso si sosteneva. Per Fick, il numero dei versi nell’epopea greca era regolato da sottili leggi, rimaste fino allora occulte, dietro a cui si celavano evidentemente profondi significati. Questa rigida numera­ zione dei versi (nei vari canti di cui si composero i poemi omerici) rappresenterebbe, una volta scoperta, la chiave più sicura della loro analisi e della loro storia. Chi riflette su certe inclinazioni assai forti nella cultura europea di quegli anni comprende subito che questa fede nel numero ne è soltanto un pallido riflesso; l’ansia dell’occulto a tutti i costi si rifrangeva in una quantità di aspetti; questa sua varia­ zione pedantesca può far sorridere ma è anch’essa signifi­ cativa 15. Nell’opera di Fick si mescolano in maniera singo13 In anni recenti un archeologo (che non cita Fick) ha comun­ que sfiorato di nuovo la sua tesi: K. Schefold (Mus. Helv. 12, 1955, p. 13 2 sgg.) riteneva la Telemachia composta all’inizio del V I sec. (ma poi nel corso dell’articolo dice spesso « attorno al 600 »), in una città del Peloponneso. Naturalmente non pensa a Sparta ma a Corinto; le sue considerazioni sullo stile non sono da trascurare. 14 Esso non è citato neppure in un libro di tempi più recenti, il cui contenuto ha molti punti di contatto con l ’opera di Fick: G. Germain, Homère et la mystique des nombres, Paris 1954. 15 Esempi di questa specie di rinata mistica del numero sono citati nella recensione a Fick di N. Festa nella Cultura 30, 19 11 ,

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larissima i pensieri sensati a quelli del tutto aberranti. Il matrimonio di Ermione con Pirro-Neottolemo alPinizio di δ è ritenuto da lui invenzione originale del poeta della Tele­ machia, e spiegato in maniera ragionevole coi miti e le tra­ dizioni laconiche. I famigerati computi numerici ricompaiono invece quando Fick vuole dare un significato storico al numero 4.500 in γ 7-9 (i Pilli che assistono Nestore nel suo sacrificio) attraverso una serie di trasposizioni storiche fan­ tastiche e di operazioni aritmetiche non meno sconcertanti16. Dubitosamente si riaffaccia 1 ipotesi che il poeta di questi versi, ripartendo la popolazione pilia in nove gruppi di cin­ quecento, fosse suggestionato dagli ordinamenti politici di Sparta, e quindi che avesse stretti rapporti con quella città 17. col. 477 sg. Un anno dopo nello stesso periodico (31, 19 12 , col. 13 sg.) Festa recensiva, riferendo quasi senza commento una serie di affer­ mazioni particolarmente grottesche, un manuale scolastico (!) di metrica classica: E. Cézard, Métrique sacrée des Grecs et des Romains, Paris 1 9 1 1 , il cui posto non è veramente fra quelli che siamo abituati a considerare trattati di metrica, ma piuttosto accanto ai libri di Schuré e compagni. 16 P. 11 4 sgg. 17 Alla stravaganza del libro corrispondono i suoi singolari destini nella critica. Nel 19 11 usciva nella Class. Rev. (25, 19 11 , p. 20 sgg.) una recensione favorevole, anche se dissenziente, di T. W . Alien (« In thè Homeric Question Fick’s place comes after that of W o lf »), che sembrava non aver visto, del libro, né il frontespizio né l ’introdu­ zione. infatti ne attribuiva la pubblicazione a Teubner (era invece di Vandenhoeck e Ruprecht) e lo presentava come un « reprint » della vecchia ‘ricostruzione’ dell’Odissea proposta da Fick già nel 1883. In realtà lo stesso autore avvertiva subito che il nuovo libro era solo in parte una rielaborazione del vecchio; infatti tutta la parte più importante, quella diciamo ‘cabalistica’, è del tutto nuova. Nella Class. Philol. dello stesso anno (6, 19 1 1 , p. 236 sgg.) J. A. Scott lasciava parlare Fick stesso attraverso opportune citazioni per dimo­ strare poco meno che la sua follia, ma commettendo un’incredibile infedeltà nel riferire il contenuto del libro: in esso, stando al recen­ sore, si sarebbe sostenuto che uno degli atti fondamentali nella fo r­ mazione dell’Odissea, la fusione in una sola narrazione di un Nostos

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Questo è tutto quello che si è fatto prima di noi, sulla strada qui seguita! Fra gli ostacoli che hanno impedito di andare più oltre, cioè di spendere anche sul tema Omero e Sparta’ un po’ di quell’immaginazione profusa con tanto spreco negli studi omerici, il primo posto spetta certamente ai vecchi preconcetti che negli ultimi decenni tutti hanno fatto a gara per smascherare ma che seguitano a farsi sen­ tire, per esempio in questa specie di cecità che la ricerca si è volontariamente imposta. Parlo naturalmente dell’ana­ cronismo di pensare ad Atene come alla patria naturale delle arti già nel VII secolo, mentre Sparta viene a malapena considerata. Non è ora il caso di riaprire un discorso già fatto da molti, e che somiglierebbe ormai a un insaevire in mortuum, mostrando ancora una volta la genesi e l ’in­ fondatezza di certi preconcetti18. Varrà però la pena, limi­ tandosi strettamente all’oggetto della nostra ricerca, di citare alcuni esempi più illustri o caratteristici. Senza cercare lon­ tano, ne troviamo subito uno nel più usato manuale di letteratura greca: la Geschichte der griechischen Literatur di Schmid e Stàhlin. Nell’edizione del 1929, dove pure si ammette sensatamente la possibilità che i poemi omerici si siano diffusi assai per tempo in terre doriche, si parla tran­ quillamente e più volte di « una certa antipatia dorica per Omero » {I 1, p. 158), della repulsione che i Greci di stirpe dorico-eolica avrebbero « sempre » avvertito per lo spirito ionico (degenerato poi non per nulla nella άβρότης! ibid. p. 80,2), per Γ ‘insincerità’ della narrazione epica etc. e di un Gegennostos (Fick si esprime effettivamente così), fu opera di Alcmane. Di questo almeno l ’autore era innocente: egli aveva attribuito ad Alcmane solo la composizione di un poemetto odissiaco che contaminava due diverse fonti: era in fondo poco più che la vecchia idea di Bergk. 18 Un moto di reazione, che tende a ridurre la portata delle sco­ perte archeologiche dimostranti un fiorire artistico di Sparta arcaica è rappresentato da Μ. I. Finley in Problèmes de la guerre en Grèce ancienne, Paris-La Haye 1968, p. 143 sgg.

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{ibid. p. 1 2 9 ,4 )19. Come testimoni sono invocati tutti gli scrittori che capitano, Erodoto, Platone, Plutarco, fino alla glossa laconica in Esichio : όμηρίδδειν · ψεύδεσθαι e alla reto­ rica di Massimo Tirio (XVII 5): όψέ μέν γάρ ή Σπάρτη ραψωδεΐ, όψέ δέ καί ή Κρήτη, όψέ δέ καί, τό Δωρικόν έν Λιβύη γένος. Forse è più cauto limitarsi a vedere nel modo di dire testimoniato da Esichio l ’espressione di un atteggia­ mento che Omero non è stato certo l ’unico a subire fra i poeti narratori (« Messer Lodovico, dove avete preso tutte queste corbellerie? »), e nell’affermazione di Massimo sol­ tanto un luogo comune atteggiato retoricamente: invece tutto ciò dovrebbe servire a dimostrare una consapevole opposi­ zione di stirpe e una sentita ostilità già in un’epoca così remota! Eppure già nel secolo scorso F.G. Welcker, par­ lando proprio di poesia epica, aveva denunciato lucidamente 1 errore di attribuire a Sparta arcaica ignoranza o preme­ ditato oscurantismo e aveva negato l ’esistenza di un anta­ gonismo ionico-dorico nell’età più antica, negando credito giusto al passo di Massimo che abbiamo visto citato nello Schmid-Stàhlin, e polemizzando a questo proposito anche con studiosi suoi contemporanei. Certe sue parole, se tutta la nostra indagine non è stata vana, appariranno ora come frutto di un acutissima intuizione: i Dori non avevano mo­ tivo di essere ostili alla poesia epica: « proprio essi erano gli eredi delle glorie guerriere achee, c o l l a t e r r a e i s u o i d e i » 20. D’altro canto, fra Welcker e il 1929 si w Dietro a tutto questo si affaccia, in minima misura ma incon­ fondibilmente, la predisposizione inguaribile della cultura tedesca a ritrovare nell’opposizione Ioni : Dori una prefigurazione al contrasto fra spirito mediterraneo e nordico, come si presenta oggi o almeno come a molti piace di immaginarlo. F. G. W elcker, Der epische Cyclus oder die Homerischen Dichter I, Bonn 21865, p. 230. Un atteggiamento simile non è af­ fatto contraddetto dalla loro preoccupazione (che ci è parso di poter fondatamente riconoscere, sopra p. 11 8 n. 29) di propagare l ’idea che la discendenza di Menelao si era estinta e che gli Eraclidi avevano

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era fatto un indubbio passo indietro, col rinvigorirsi della vecchia immagine di Sparta, destinata anche a servire da compiacente specchio al nazionalismo tedesco. Nelle Homerische Ontersuchungen del 1884 Wilamowitz ne aveva dato una prova davvero memorabile, col lungo capitolo ‘Lykurgos’, ricco di pensieri interessanti ma più interessante an­ cora come esempio di un modo preconcetto di fare la sto­ ria. Pure ammettendo che Sparta fosse la capitale culturale nel Peloponneso nel VII secolo, e importante già nell’V III, Wilamowitz non vuole assolutamente concedere che essa abbia davvero coltivato l ’epica. La gloria di Sparta fu quella di essersi appropriata la lirica eolica; la lirica celebra le leggende di Sparta in forma adatta al suo Volksgeist: « Alle mense degli Spartiati non risuonava la molle recitazione... del rapsodo ionico: ragazzi e ragazze che tornavano dalla palestra danzavano cantando nel dialetto proprio le lodi degli dèi e degli eroi patrii. Lo stile era senz’arte e i versi derivavano non sempre armoniosamente da ritmi lesbici: ma la creazione era originale » 21. Se si vuole sentire la stessa musica in un’altra chiave, non c’è che da prendere il brano di Rousseau che abbiamo trascritto altrove22! L ’errore (an­ che noi, senza nostro merito, ci possiamo permettere oggi di chiamarlo così) consisteva nel collocare l ’inizio dell’evopreso legittimamente il loro posto sul trono di Sparta. Cf. ancora Huxley, Gr. epic poetry p. 68 sg. Anche se l ’atteggiamento degli spartani verso il loro passato mitico potè mutare in epoche diverse, il patriottismo ‘eraclidico’ poteva benissimo coesistere con la riven­ dicazione dell’eredità e delle glorie acEee. Se vogliamo divertirci a cercare un parallelo nell’età contemporanea possiamo pensare alla storiografia sovietica che celebra la Rivoluzione e contemporanea­ mente esalta le figure e le imprese dei grandi zar. Il nome Menelao compare nell’onomastica regale spartana (P. Poralla, Prosopographie der Lakedaimonier, Breslau 19 13 , p. 93), mentre una famiglia di araldi pretendeva di discendere dal Taltibio omerico (Herod. V II 134). 21 P. 269. 22 In queste Ricerche I p. 20. io*

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luzione tutta particolare della cultura spartana all’inizio dell ’V III secolo. Preconcetta è inoltre l ’idea che gli Spartani sentissero estranea la poesia epica e il mondo che essa raf­ figura (compresi i canti δ e o dell’Odissea? ! ). Se d isten e di Sicione espulse la poesia epica per odio contro Argo, non è questo un motivo sufficiente per ritenere che qualcosa di simile debba esserci stato nella Sparta del V II secolo. Se poi si ammette, come pare necessario, che gli Spartani cercarono di spostare la sede di Agamennone da Micene al loro paese, gran parte degli argomenti di Wilamowitz si capovolgono. Così siamo arrivati a quella che più sopra ho chiamato la « parzialità » dei critici. Se davvero non vogliamo usare due pesi e due misure, dobbiamo concedere a Sparta arcaica il diritto di essere trattata come ogni altra parte del mondo greco. Questo, invece, non è accaduto: la nostra ipotesi di un intervento spartano nella costituzione dtWOdissea è pra­ ticamente del tutto nuova, mentre molto meno è bastato a far supporre da parte autorevole, e fra approvazioni qual­ che volta vaste, che altre città e terre greche abbiano messo mano a inserire o a rimaneggiare versi, nei luoghi dove appaia qualche cosa che può sembrare frutto di tendenza campanilistica. Anche mettendo da parte la ricerca delle in­ terpolazioni attiche, che ha una storia lunga e illustre, e di cui non vogliamo parlare perché esse costituiscono forse un caso davvero particolare, l ’elenco rimane lungo. Quasi ovvio sarebbe pensare, come si è fatto più d’una volta, che il Catalogo delle navi sia opera d’un Beota, che tradisce la sua origine con la parte sproporzionata fatta al proprio paese. Lo stesso Catalogo è stato attribuito da M.P. Nilsson, in un articolo giovanile23, a un poeta rodio animato da ten­ denze ‘doriche’, che non ha nominato i Messeni (nell’età eroica essi sarebbero dovuti essere indipendenti) per ri­ 23 Rh. Mus. 60, 1905, p. 16 1 sgg.

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guardo verso l ’« orgoglio e le pretese di Sparta » 24. Ten­ denziosità beotica ha riconosciuto anche W alter Leaf nel racconto del raduno degli Achei a Calcide25. Cari Robert ha supposto con buona verosimiglianza che la cospicua parte svolta n e ìY llia d e dagli Antenoridi e dai Pantoidi sia il frutto dello zelo encomiastico di rapsodi che ampliarono il poema già celebre per ricambiare le buone accoglienze di due ca­ sate principesche, magnificando il più possibile i loro pretesi antenati.26. Lo stesso studioso riconosceva interpolazioni do­ riche nelle parti recenti d e ll’I lia d e , soprattutto in gloria di Eracle27. La vastità e la ricchezza del racconto nell’undicesimo libro dell’Iliade, dove si parla di Nestore, del suo paese e delle sue gesta, ha fatto pensare a Wilamowitz che questa parte del poema sia stata composta per i Colofoni, originari da P ilo 28. Ancora meglio fondata è un’idea di Erich Bethe: Tlepolemo di Rodi e Sarpedone il licio sono personaggi in ori­ gine sicuramente estranei al ciclo troiano; il loro duello (E 628 sgg.) aveva originariamente per sfondo i tentativi dei Rodii di attestarsi sul continente; il poema che lo nar­ rava fu « composto in lode di principi licii — o rodii — e cantato nelle loro sale » 29. 24 Un esempio istruttivo di preconcetto: si possono anche ammet­ tere poeti filo-spartani, ma non a Sparta stessa! Nilsson, art. cit. p. 173, dice espressamente che Sparta non avrebbe mai potuto im­ porre un suo testo omerico, per non essere mai stata un centro di commercio librario come Atene; naturalmente, servirsi di questa obiezione contro la nostra tesi sarebbe doppiamente anacronistico. 25 W . Leaf, Homer and history, London 19 15 , p. 99, 104, 4 14 sg. 20 C. Robert, Studien zur Ilias, Berlin 19 0 1, p. 386 sgg. 27 Bild u. Lied p. 188: « Lange vor Agamemnon hat schon Herakles Troia erobert; die stolze Herrin des goldreichen Mykene, die Schutzerin der Atriden, Herakles hat sie verwundet ». 28 Ilias u. Homer p. 207: « Von Pylos stammten die Kolophonier; es liegt sehr nahe, das Gedicht dort entstanden zu denken ». 29 Neue Jahrb. f. d. klass. Altertum 7, 19 0 1, p. 657 sgg. Biblio­ grafia in F. Hampl, Serta philologica Aenipontana, Innsbruck 1962,

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La più illustre e la più fortunata in questo genere di osservazioni, ripetuta da molti e sempre confermata, è stata fatta a proposito del ventesimo libro dell’Iliade. Il duello di Enea e Achille (Y 79 sgg.) dove i due avversari appaiono, sorprendentemente, di valore non del tutto dissimile, e l’inno omerico ad Afrodite, con la storia degli amori fra la dea ed Anchise, sarebbero composizioni nate alla corte della dinastia di Eneadi che regnava ancora secoli più tardi a Scepsi30 e che, animata da precoce filellenismo, vide volen­ tieri la figura del suo mitico capostipite magnificata nella narrazione di un rapsodo31. Indizio decisivo ne sarebbero, in entrambe le composizioni, le preoccupazioni genealogiche p. 43 e n. 6; aggiungere: L. Malten, Hermes 79, 1944, p. 1 sgg. e W . Schadewaldt, Von Homers W elt und W erk, Stuttgart 31959, p. 103. Più curiosa che convincente è un ’ipotesi di G. Scheibner (Wiss. Zeitschrift der F.-Schiller-Univ. Jena, Gesellschafts- u. Sprachwissenschaftliche Reihe 14, 1965, p. 94). Questo autore parla come di cosa certa di una composizione e prima recitazione dell Odissea a Itaca; i versi o 533 sg. sarebbero stati composti in onore dei Telemachidi che là esistevano ancora al tempo di Aristotele (fr. 504 Rose = Plut. quaest. Gr. 14). Veramente in Plutarco si parla solo di Coliadi e Bucolidi (lezioni incerte) pretesi discendenti di Eumeo e Filetio. Di Telemachidi al tempo di Aristotele si tace e Yargumentum ex silentio sembra cogente, poiché se fossero esistiti essi sarebbero stati, in un modo o nell’altro, più importanti degli altri. Ma la cosa è comunque troppo incerta; cf. il commento di W . R. Halliday alle Quaestiones Grecae, Oxford 1928, p. 82. In considerazione dell’autorità di chi l ’ha scritta, ricorderemo anche la dissertazione di PI. Usener, De Iliadis carmine quodam Phocaico, Bonn 1875: una parte di Λ sarebbe stata composta « molto probabilmente » a Focea. 30 Demetrio di Scepsi ap. Strab. XIII 607. 31 Anche Cornelio Nepote, Datames 2, racconta di una famiglia di dinasti della Paflagonia che ancora nel IV sec. a.C. vantavano la propria discendenza da un eroe omerico: il Pilemene ucciso da Et­ tore E 576. Un caso simile è quello di città e popoli che vantavano un οικιστής figlio di Ettore (chiamato Scamandrio): Strab. XIII 607, XIV 680; sch. Eur. Andr. 10. Cf. Wilamowitz, Sitzungsber. Beri Akad. 1925, p. 239 n. 3.

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e soprattutto le profezie (poste in bocca a personaggi di­ vini) sulla futura grandezza dei discendenti di Enea, domina­ tori designati della Troade (Y 307 sg. e hymn. Ven. 200 sg.). Quest’idea ha avuto una lunga fortuna, è stata accolta da C. Robert da W ilam owitz33, Felix Jacoby34, Ludolf Malten 35 poi è stata ulteriormente sviluppata da Karl Reinh ard t36 con l ’identificazione in una sola persona dei due ‘poeti degli Eneadi’ che ancora Wilamowitz aveva postulato, e ha dato il suo ultimo frutto in un libro recente di Ernst Heitsch che muove pur sempre da essa37; ogni rilettura del­ l ’episodio diadico, rilevato nettamente sul contesto narrativo (in cui non ha alcuna funzione) e distinto da caratteri assai particolari, sembra effettivamente confermarne la verosimi­ glianza e giustificare la sicurezza con cui Wilamowitz la ri32 C. Robert, Stud. z. llias p. 224 sg. 33 U. v. Wilamowitz, llias u. Homer p. 83 sg., 293; Der Glaube der Hellenen, Basel-Stuttgart 31959, p. 315. 34 Hermes 68, 1933, p. 40 sgg ( = Kl. Schr. I, Berlin 19 6 1, p. 43 sgg.). 35 Archiv f. Religionswìss. 29, 19 3 1, p. 33 sgg. W . Kullmann (Goti. gel. Anz. 217, 1965, p. 31 sg.) pur non opponendosi all’ipo­ tesi che qui si discute, nota che la figura di Enea era comunque ben radicata nella saga troiana, sicché non sarebbe veramente necessario pensare all’opera di un poeta cortigiano. Ma la sua fiducia nei poco attendibili riassunti di Proclo è forse incauta. Da ultimo si possono aggiungere G . Jachmann, Der homerische Schiffskatalog und die llias, Koln u. Opladen 1958, p. 259 sgg., e A. Lesky, R.E. Supplbd. XI, 1967, col. 691 sg. 36 ‘Zum homerischen Aphroditehymnus’ in Festschrift B. Snell, Hamburg 1956, p. 1 sgg.; poi Die llias und ihr Dichter, Gottingen 19 6 1, p. 450 sgg., 507 sgg. 37 E. Heitsch, Aphroditehymnos, Aeneas und Homer, Gottingen 1965. Meno plausibile è Gerhard Scheibner, Der Aufbau des 20. und 21. Buches der llias, Borna 1939, p. 124 sgg., che parla tranquil­ lamente di Omero come di una figura storica, e ricostruisce le sue varie fortune presso le diverse corti d’Asia Minore. Contro Heitsch è una severissima critica di H. Erbse in Rh. Mus. 110 , 1967, p. 1 sgg.

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La poesia epica, /'Odissea e Sparta

propose (« Es ist gar nicht anders denkbar... » ) 3*38. Un con­ fronto fra questo ‘ampliamento cortigiano’ già individuato e quello simile che crediamo di avere riconosciuto in τεΛ scopre una serie di interessanti paralleli; alcuni sono deter­ minati dall’affinità del compito che gli autori si sarebbero posti, nell’uno e nell’altro caso (in ogni tempo e in ogni civiltà letteraria, un poeta che si fosse trovato in questa cir­ costanza difficilmente avrebbe potuto fare a meno di certi espedienti: anche il caso di Ruggero e della genealogia leg­ gendaria degli Estensi nell Orlando furioso mostra aspetti simili), altri invece sono legati a certi caratteri di quella cultura e ci interessano di più. In tutt’e due i casi, per co­ minciare con l ’osservazione più ovvia, vengono attribuite a un personaggio un’importanza e una grandezza cui non siamo abituati; anche il suo passato viene volentieri rievo­ cato con nuovi particolari e nuovi significati; si insiste poi sulla sua parentela cogli dèi che gli assicura la loro speciale benevolenza: Apollo incita Enea a non temere Achille, che è figlio di una dea di rango inferiore ad Afrodite (Y 105 sgg.)Proteo vaticina a Menelao l ’immortalità, poiché egli è genero di Zeus (5 569); comune ai due passi è la preoccupazione di dare notizie di parentele e vicende familiari non altri­ menti note dai poemi omerici: il doppio matrimonio in casa di Menelao e la sterilità di Elena dopo la nascita di Ermione 3S L ’unica voce di oppositore è stata quella di E. Howald, Mus. Helv. 4, 1947, p. 69 sgg., che però si è limitato quasi soltanto a constatare Γ« indimostrabilità » dell’ipotesi. Obiezioni al suo scetti­ cismo sono in P. Von der Miihll, Krit. Hypomn. z. llias p. 304 n. 36, che cita altra bibliografia sull’argomento. G. L. Huxley, Gr. epic poetry p. 154, propone un’ipotesi suggestiva: se davvero Aretino dif­ fuse una versione del mito secondo la quale Ulisse e Diomede non avrebbero veramente rubato il Palladio ma solo una sua copia (così Dio Halic. Ant. Rom. I 68-69) il suo intento può essere stato quello di avallare le ambizioni dei signori di Scepsi che potevano così pre­ tendere l ’eredità di Priamo rivendicando il possesso dell’autentico simulacro.

Precedenti ipotesi di analogo carattere. Conclusione

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all’inizio di δ, e l ’albero genealogico dei Dardanidi in Y 215 sgg. In tutt’e due i casi gli autori hanno l ’occhio soprattutto al futuro: in Y 307 sgg. è l ’esplicita, solenne profezia della signoria degli Eneadi; ma anche il poeta che si è preoccupato di negare espressamente un erede a Me­ nelao pensava alle conseguenze. Un punto di contatto appa­ rentemente secondario, ma forse tanto più significativo, per­ ché meno ovvio degli altri, è nel fatto che i personaggi mi­ tici da celebrare si distinguono in entrambi i casi come pos­ sessori di cavalli: quelli di Erittonio meritano una speciale digressione (Y 221 sgg.); ma anche Menelao vuole offrire a Telemaco un regalo dalle sue stalle (δ 590 sgg.): il gio­ vane lo rifiuta giustificandosi col fatto che a Itaca non si possono allevare cavalli con la stessa fortuna del suo ospite di Sparta (δ 601 sgg.). Se pensiamo all’enorme importanza del cavallo come segno di aristocrazia nella Grecia arcaica, apparirà abbastanza naturale che chi ascoltava compiaciuto la celebrazione poetica dei propri antecessori mitici non la trovasse davvero completa senza un accenno alle loro straor­ dinarie scuderie.

Con questo abbiamo davvero concluso; e l ’ultimo pen­ siero a cui vogliamo invitare il lettore emerge spontanea­ mente da questa rassegna di ipotesi più o meno fondate e fortunate: Sparta ha davvero meno diritto che i Rodii o gli Eneadi a essere considerata come un possibile fattore di storia della cultura, atto a influenzare il divenire dei poemi omerici? Chi plaude all’ipotesi di un fortunato mece­ natismo degli Eneadi dovrà poi riconoscere che la nostra ha per sé tutto ciò che si può dire a sostegno di quella, e molti elementi di vantaggio. Gl’indizi di rifacimento o am­ pliamento tendenzioso non sono certo meno forti nel caso di τεΛ che in quello del duello fra Enea e Achille; d’altra parte si vorrà concedere che Sparta ha ben altra consistenza sto­ rica, come centro di cultura nell’età che vide il configurarsi

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La poesia epica, /Odissea e Sparta

definitivo dell ’Iliade e dell’Odissea, che non il principato degli Eneadi. Se ammettiamo che l ’epos fosse penetrato in una corte asiatica semiellenizzata, tanto più potremo imma­ ginare che esso fosse familiare alla città di Alcmane e Tirteo. Il fatto che l ’idea difesa qui non sia stata proposta già da un pezzo è un esempio flagrante della potenza di certi pregiudizi. Proviamoci a ‘tradurre’ idealmente τ ε Λ met­ tendo al posto di Sparta, con l ’identico ruolo, una qualun­ que altra città greca: da quanto tempo, c’è da immaginare, si sarebbe gridato all’interpolazione e se ne sarebbero sma­ scherati i modi e g l’intenti? Ma, ripetiamo, la storia degli studi omerici dimostra che a far nascere una letteratura sul­ l ’argomento sarebbe bastato molto meno. Che cosa sarebbe accaduto, per esempio, se anziché la beatitudine di Menelao si vaticinasse nell'Odissea quella di un eroe legato solo lon­ tanamente a un’altra città? Lasciamo che ognuno risponda da sé, e terminiamo pre­ gando il lettore di vedere in questa ricerca, se non altro, il tentativo di prendere sul serio, più di quanto non si sia mai fatto, l’immagine nuova di Sparta, detersa dalle sovrap­ posizioni che abbiamo da gran tempo riconosciute come tali. Da più di un secolo la scoperta del Partenio alcmaneo, e poi gli scavi archeologici, ci hanno fatto almeno intravvedere il volto dell’ ‘altra Sparta’. Forse era ora che anche l ’analisi omerica riconoscesse il contributo della città al più antico e grandioso monumento della poesia greca.

INDICI

Indice dei luoghi citati

Alcmane Frammenti·. 1,9: 8 6; 1,30: 66; 1,31: ibid.; 1,34 sg.: ibid.; 1,37 sgg.: 122 n. 3; 1,47 sg.: 62 n. 14 ; 1,60: 8 4; 1,60-3: 12 1 sg.; 5: 8 6; 15: 8 7; 2 1: 84, 87, 133 n. 12 ; 62: 83; 70 (c): 63; 77: 69; 79: 12 3 ». 3; 80: 6 4; 8 1: ibid.; 82: 63; 84: ibid.; 85 (b): ibid.; 86: 64; 89,1 sg.: 66; 89,3: 122 n. 3; 89,6: 66; 98: 122 n. 3; 19 1: 13 3 n. 12 Ammonio 3 91: 64 Anthol. Palai. V II 7 16 , 4: 12 3 n. 3 Apollodoro FGrHist 244 F 63 f: 54 sg. Apollodoro (ps.) Bibl. I l i 10,5: 1 1 6 n. 25 Archiloco fr. 55 (Tarditi): 6 1; fr. 103: ibid.; 105: ibid.; 107 ( = 68 D.): ibid. n. 11 Aristotele Rhet. I l i 1404 b 3: 53 ». 3 fr. 504 (Rose): 150 ». 2 9 ; fr. 609: 104 ». 2; fr. 6 1 1 ,1 0 : 54 Ateneo V 180 c, 181 c: 35; V 182 a: 34 ». 1 ; V 188 f-189 a: 37; V 189 b: 38 Cinetone fr. 3 Kinkel: 87 Clemente Alessandrino Strom. I 117,3: 54 sg. Cornelio Nepote Datames 2: 15 0 n. 31

Dionisio d’Alicarnasso Ant. Rom. I 68-9: 15 2 ». 38; I 72,3: 10 4 ». 2 Dione Crisostomo II 44: 55; LV 7: 13 0 ». 4 Eforo FGrHist 70 F 149: 56 Ebano V ». 5; 130 sgg.: 65 ». 2 0 ; 769: 69 ig. 322: 42 sg. 2 1 : 67 13 1 sgg.: 7 0; 262: 69; 735: 67 Σ 376: 35; 604-6: z£zd. T 350: 67; 3 62: 35; 369 sgg.: 70 Y 79 sgg.: 15 0 sgg.; 105 sgg.: 15 2 ; 215 sgg.: 153; 2 21 sgg.: ibid.; 307 sg.: 15 1, 153 X 7 1 sgg.: 72; 4 81: 71 Ω 643-8: 45 n. 12-, 673-6: z'£zW. a 3: 3 8 n. 4; 95: 22 ». 9; 13642: 3 6; 252: 67; 269 sgg.: 19 γ 7-9: 14 4 ; 14-20: 34; 78: 22 n. 9 ; 123: 4 0 ; 169 sgg.: 10 4 n. 2; 2 19 : 21 ». 8; 249 sgg.: 10 5 ; 263-72: z'èzd.; 286 sgg.: 104 ». 2; 305: 109; 307: 10 7 n. 8 δ 1: 98; 2: ibid. n. 2 2; 3-19: 26 rg., 33 sg., 35, 1 1 8 ». 3 2; 10: 98 ». 22; 11 : 87; 12 sgg.: 11 8 ; 17-9: 35, 142; 36: 12 2 ». 3; 43 sgg.: 35 sg.; 11-5 : 36 sg., 40; 78 sgg.: 3 8; 107-12: 3 9; 116 : ibid.; 1179: z&z'd.; 12 0 sgg.: 4 0; 142: zèz'd.; 145: 12 5 ». 6; 153: 3 9; 174 sgg.: 40 sg., 1 1 6 ; 220 sgg.: 1 1 8 ; 244 sgg.: 4 1 ; 246-9: 27 jg.; 250 sgg.: 2 9;

Indice dei luoghi citati

Z Μ O 1=1

267 sgg.: 38 ». 4 ; 280 sgg.: 14 2 ; 285-9: 28 jg., 41 sg.; 287: 123 ». 3; 290-305: 45 ». 12 ; 302-7: 4 2 ; 341 sg.: M ; 360-3: 42; 4 1 7 sg.: 122 ». 3 ; 455: 36; 4 62 sgg.: 103 sgg.; 493 sg.: 12 2 ». 3; 519 sg.: 105; 561-9: 118 , 152; 564: 4 2; 590 sgg.: 153; 601 sgg.: lèzi.; 602 sgg.: 99; 6 14 sgg.: 13 1 ; 620-4: 43 ». 9, 55 ». 6, 1 1 0 ε 63 sg.: 99; 255: 64; 277: 63 ζ 102 sgg.: 40; 13 8 : 63; 15 1 sg.: 40; 168: 6 3 ; 244: 64 η 43 sgg.: 3 5 ; 48 sgg.: 34; 84 sg.: 35; 11 2 sgg.: 37, 99; 130: 37; 133 sgg.: 36; 147: 63; 208 sgg.: 3 8 ; 309 sgg.: 4 3 ; 3 11 sgg.: 4 1 sg., 64; 323: 4 2; 334-47: 45 ». 12 ; 344 sgg.: 42 θ 43: 35; 47: ibid.; 73 sgg.: 23 ». 12 ; 83-95: 3 9 ; 87: 35; 172-6: 3 6 ; 250 sgg.: 35; 264: ibid.; 265: 86; 4 54 sg.: 3 6; 469: 521-34: 39 i 80 sgg.: 104 ». 2 ; 499: 67 % 1 sgg.: 33 ig. λ 301-4: 14 2 ; 523-32: 28 ». 18 ; 436 sgg.: 12 5 ». 6 μ 324 sgg.: 42 v 38 sgg.: 43; 417-23: 21 rg. ξ 68 sgg.: 12 5 ». 6; 228: 61 o 10-42: 43; 34 sg.: 44; 64-6: 43 jg.; 68: 1 3 1 ; 7 1: 4 3; 87-91: 4 4 ; 105-9: 121 rg.; 11 4 sgg.: 1 3 1 ; 158 sg.: 4 4; 160 sgg.: 13 0 rg.; 171 sgg.: 1 1 8 ; 177 sg.: 4 5 ; 296-300: 4 3; 533 sg.: 150 ». 29 π 150: 34 σ 136 sg.: 61 ». 11 τ 186 sgg.: 10 4 ». 2 ; 479 sgg.: 42 υ 18: 61

χ 4 12 : z7>zd. Ψ 76: 42; 218-24: 142 hymn. Yen. 200 sg.: 151 Scoli ad Omero A 534: 55 ». 6; B 53: z£zd.; B 356: 12 5 ». 6; B 5 8 1: 98 ». 22, 1 1 6 ». 2 5; B 774: 55 ». 6; Γ 213-5: 68 ». 2 1 ; N 22: 39 ». 5 ; a 93: 1 1 3 ; γ 267: 86 ». 1 1 ; γ 313: 1 1 3 ; δ 1: 1 1 7 ». 27; δ 65 sg.: 5 5 ». 6; δ 702: 11 3 ; ξ 228: 61 ». 10; κ 4 12 : ibid. Isocrate Hel. 63: 10 9 ». 12 Massimo Tirio XVII 5: 14 6 Oxyrhynchus Papyri 2360: 129 rgg. 2390: 86 2735: 132 Pausatila III 1,4: 1 1 6 ». 25; III 9,3-4: 10 8 n. 12 ; III 10,5: 1 1 6 ». 25; III 18,6: 83; III 18,9: ibid.; I l i 18 ,10: 84; III 1 8 ,1 1: 8 4 ,8 6 ; III 18 ,13: 87; III 18,15: ibid.; I l i 18 ,16: 8 1, 85, 87; III 19,2: 84 ». 7; III 2 0,10: 1 1 6 ; V 17,3: 87 ». 13 ; X 9,5: 134 Pindaro Pyth. X I 16: 10 5 ». 3 ; Ne»z. XI 34: ibid.

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Plutarco Lyc. 1 4 : 55; Lyc. IV 4-6: ibid. sg.; Ages. V I 4 sgg.: 108 ». 12 ; Quaest. Gr. 14: 150 ». 29 Porfirio Quaest. Hot». a 284: 22 ». 11 Quintiliano I» rl. X 1, 62: 13 1 ». 5 Senofonte ZL«a£. V 3 ,11: 9 6; Meli. I l i 4,3-4: 108 ». 12 ; Rerp. Lzzc. XV 4: 55 ». 6 Strabone V I 1,14 : 11 3 ». 2 2; V i l i 5,5,: 10 5 ». 4; V i l i 6,20: 104 ». 2; X 4,19: 5 6; XIII 607: 15 0 »». 30, 3 1 ; XIV 680: 15 0 ». 31 Suda s.v. Στησίχορος 132 Timeo FGrHist 566 F 127: 55 Tirteo Frammenti 7,21 sgg.: 71 rg.; 8,17 sgg.: 65; 8,23-6: zèzd. rg.; 8,25: 70; 8,31 sgg.: 6 5 » . 2 0; 9,15: 69; 9,26: 70; 10: 64 Tucidide V 16: 108 ». 12 Virgilio Ae». I 498 sgg.: 40 ». 6

Indice degli autori moderni

A dam , L. 141 A llen, T.W. 25 n. 15, 144 n. 17 A rnim ( von), H. 55 n. 6 Bartoletti, V . 20 n. 6 Beck, G. 45 n. 12 Bekker, I. 17 n. 3, 19 n. 6 Belzner, E. 19 n. 5 Bentley, R. 54 n. 4 Bérard, V. 11 3 n. 23 Bergk, T. 86 n. 10, 114 , 140, 145 n. 17 Bertman , S. 19 n. 5 Bethe, E. 27 n. 16, 97, 1 1 1 , 118 n. 30, 141, 149 B l a s s , F. 20 n. 7, 25 n. 15, 140 B lOmner, H. 84 n. 8, 85, 87 n. 14 Bolling, G.M. 27 n. 16, 4 1 n. 7 Bòlte, F. 96 Bolte, J. 88 n. 15 Bowra, C.M. 132 n. 7, 134 sg. Brommer , F. 78 n. 2 Bu l a s , K. 73 n. 26, 8 1 n. 5 Burckhardt, J. 11 8 n. 31 C alhoun, G.M. 22 n. 10 Cauer, P. 95, 106 n. 6, 140 η. 1 C ézard, E. 144 n. 15 C harbonneaux, J. 78 η. 1 C larke, H .W . 22 n. 11 COMBELLACK, F.M. 20 D. 6 Conington, J. 40 n. 6 Cook, J.M . I l i n. 18 Cooley, A.S. 96 n. 18 C rook, W . 118 n. 32 D avison , J.A. 57 n. 7, 62 nn. 12, 14

D elebecque, E. 20 n. 7 D e S anctis, G. 20 n. 6 Di E>onato, R. 11 n. 2 D iehl, E. 69 D iehl, W . 45 n. 12 Dodds, E.R. 17 n. 2 D orpfeld, W . 95 sg. Dunbabin, T.J. 81 n. 5 E r b se , H. 15 1 n. 37

Farnell, L.R. I l i F ick , A. 142 sgg. F inley, M.I. 145 n. 18 Finsler , G. 109 Friedlànder, L. 28 n. 17 Fr ie s , C. 99 n. 23 G allavotti, C. 11 η. 1 G arzya , A. 12 1 η. 1 G entili, B. 11 n. 2, 52 n. 3 G ermain , G. 143 n. 14 G oossens, R. 117 G rote, G. 17 η, 1, 20 n. 7 Halliday , W .R. 150 n. 24 JI am pe , R. 78 n. 2 Ha m p l , F. 149 n. 29 H arrie , L 11 0 sgg., 112 n. 134 n. 14 Hartel , W . 18 n. 5 H artmann, A. 11 5 sg. H arvey , Α.Ε. 12 1 n. 2 Heitsch , E. 151 Helbig, W . 78 η. 1 Hennings, P.D.C. 28 n. 17 Hermann, G. 17 n. 3 H eubeck , A. 18 n. 5

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Indice degli autori moderni

H eyne , C.G. 43 n. 9 H ille r , E. 1 1 4 n. 24, 123 n. 3 H itzig , H. 84 n. 8, 83, 87 n. 14 flowALD, E. 152 n. 38 H u x l e y , G.L. 11 n. 2, 29 n. 20, 107 n. 10, 118 n. 29, 124 n. 4, 147 n. 20, 152 n. 38

I lberg, J. 84 n. 8 J achmann , G. 15 1 n. 35 J acoby , F. 151 J ebb , R.C. 17 η. 1 J ohansen , K.F. 79 sgg., 8 8 n. 15 K a k r id is , J.T. 29 n. 20 K ern, O. 118 n. 30 K iechle , F. 96 n. 17, 99 n. 22,

104 n. 2 K irchhoff , A. 17 η. 1, 19 n. 6,

25 n. 15 K irk , G.S. 78 n. 2 K lingner, F. 19 n. 6 K r a fft , F. 57 n. 7, 6 1 n. 10 K ullm an n , W . 151 n. 35 K u n st , K. 103 η. 1, 110, 11 2 n. 21 Laurand, L. 25 n. 15 Leaf , W . 65, 96, 149 Lehrs, K. 28 n. 17 Le sk y , A. 18 n. 5, 107 n. 8, 132 n. 7, 15 1 n. 35 Leumann, M. 45 n. 12 L loyd-J ones, H. 130 Lobel, E. 129 sg., 132 Lorcher, A. 139 sg. Lorimer, H.L. 93 Ludwich, A. 27 n. 16 M alten, L. 150 n. 29, 151 M ancuso , U. 134 M arangon, E.L.J. 81 n. 5 M arzullo , B. 12 n. 2, 18 n. 4 M azon, P. 106 n. 4 M erkelbach, R. 57 n. 7, 60 sg., Merry, W .W . 61 n. 10, 91

M eyer, Ernst 96 M omigliano, A. 104 n. 2 M onro, D.B. 18 n. 3 MOlder, D. 45 n. 12 M uller , K.O. 95 n. 11 M ulvany , C.M. 19 n. 6 M urray , G. 60 n. 9 Nettleship , H. 40 n. 6 Nilsson , M.P. 97, 104 n. 2, 111, 148 sg. Nitzsch , G .W . 28 n. 17, 92, 98 n. 22 Notopoulos, J.A . 11 n. 2 O verbeck, J. 88 n. 15 P age, D.L. 19 n. 6, 129 sg., 132 25 n .15, 57 n. 7, 87 n. 12, 94 P a r is , G. 100 n. 25 P arry , M. 10, 12 P eek, W . 129, 131 P feiffer , R. 122 n. 3 P fister , F. 107 n. 8 P oralla, P. 147 n. 20 P rato, C. 62 n. 14, 65 n. 20, 69, 70 n. 24 R adermacher, L. 107 n. 8 Reinhardt, K. 23 n. 11, 151 R iddell, J. Robert, C. 11 2 n. 19, 134 n. 14, 149, 151 Ròmer, A. 42 n. 8, 141 sg. R onconi, A. 20 n. 6 Rose , G.P. 23 n. 11 Ro usseau , J.J. 147 ROter, H. 95 n. 13 Schadewaldt, W . 20 n. 6, 150 n. 29 Schefold, K. 88 11. 15, 143 n. 13 Scheibner, G. 150 n. 29, 151 n. 37 Schmid, W . 11 2 n. 2 1, 145 S chmidt, J. 1 1 4 n. 24 S chuchhardt, K. 88 n. 15 Schwartz, E. 20 n. 7, 52 n .3, 103 sgg., 109 sg.

Indice degli autori moderni S cott , J.A . 14 4 n. 17 S eeck , O. 93, 140 sg. S hewan , A. 20 n. 7 S ittl , K. 92, 123 n. 3 S itzler , J. 11 4 n. 24 S nell , B. 61 n. 11, 62 n. 15, 64,

n. 20, 70 nn. 23, 24 S nodgrass , A.M . 78 n. 2 S tahlin , O. 1 1 2 n. 2 1, 145 S teuben (V on), H. 78 n. 2 Tiiar, A . 98 n. 21 Theiler, W . 18 n. 3, 20 n. 7 Thomson, J.A .K . 114 sgg. U sener, H. 150 n. 99

163

V on der M iìhll , P. 2 5, 54 n. 5,

104 n. 2, 107 n. 8, 11 0 n. 16, 152 n. 38 VlÌRTHEIM, J. 133 W eber (V on), O. 51 η. 1, 62

n. 13 W e bst er , T.B.L. 78 n. 2 W elcker , F.G. 11 4 n. 24, 146 W e s t , M.L. 133 n. 9 W ilam o w it z (V on), U. 22 n. 11 ,

sgg., I l i , 11 4 n. 24, 115, n. 7, 140, 147 sg., 149, 15 0 n. 3 1, 151 W o l f , F.A. 17, 17 n. 3, 43 n. 9, 58 n. 8 W ood, R. 65 Z schietzschmann , W . 78 n. 2,

V ogt, T. 103 η. 1

86 n. 10

Finito di stampare nel dicembre 1970 da visigalli-pasetti arti grafiche - roma