Storia dell’Italia liberale 9788842095996

1861-1901: è il quarantennio cruciale della storia d'Italia. "Iniziava da quel momento una nuova storia, in cu

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Storia dell’Italia liberale
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Storia e Società

Fulvio Cammarano

Storia dell’Italia liberale

Editori Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2011 www.laterza.it

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9599-6

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

a mia madre

Prefazione Gli ultimi dieci anni hanno visto il moltiplicarsi degli studi e dell’interesse pubblico per le vicende del Risorgimento italiano. Motivazioni scientifiche e pulsioni polemiche hanno permesso la rivitalizzazione di un periodo storico che rischiava di scivolare sul piano inclinato dell’indifferenza o della irrilevanza. Tale ripresa, accentuata dalla ricorrenza dei 150 anni dell’unificazione nazionale, non ha però scalfito la relativa inerzia che caratterizza da molti anni la ricerca sull’età liberale. Nel volume del 1999 Storia politica dell’Italia liberale, su cui il presente lavoro si basa, lamentavo l’abbandono in cui versava la storiografia sull’Italia postrisorgimentale e segnalavo il rischio di collocare quelle vicende in un ambito «museale», più adatto ai medaglioni e agli elzeviri che allo studio delle dinamiche politiche. Forse oggi quel pericolo è scongiurato anche grazie alle vaste e stimolanti problematiche rilanciate dagli studi sull’Italia preunitaria, benché la ricerca continui ad essere insufficiente in molti ambiti di un periodo, quello dei primi decenni dopo l’unificazione, di cui ancora si fatica a cogliere la centralità nella storia italiana. Si tratta di una fase storica, peraltro ben definibile in termini di storia événementielle, che culturalmente e psicologicamente ha risentito dell’anatema lanciato contro la stagione liberale e le sue istituzioni negli anni del dopoguerra, quando la ricerca delle responsabilità nell’avvento del fascismo finì per trovare un troppo facile, benché non immotivato, capro espiatorio proprio in quella cultura e nelle sue istituzioni. Il periodo 1861-1901 inoltre, a differenza della successiva età giolittiana, non poteva «mettere in vetrina» neppure i grandi temi dell’organizzazione di massa delle correnti ideali popolari. Rimase dunque la percezione diffusa che quegli anni fossero per un verso appendice delle vicende risorgimentali e per l’altro una sorta di sterile regno del paternalismo notabilare. In realtà quel

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Prefazione

quarantennio rappresentò un momento cruciale della nostra storia nazionale, che non può più di tanto farsi trainare dagli studi sul Risorgimento. Se è vero infatti che per anni numerosi protagonisti rimasero gli stessi, è anche vero che dal punto di vista della storia politica quelle due fasi sono separate da un muro molto spesso: l’aspirazione alla nazione italiana si era, con il 1861, trasformata nello Stato italiano. Iniziava dunque da quel momento una nuova storia, in cui lo Stato e le istituzioni, le culture e i protagonisti che li presupponevano si andavano trasformando in moltiplicatori di energie ed eventi sempre più lontani dalle tematiche risorgimentali, soprattutto dopo il completamento dell’unificazione nel 1870. In quegli anni fondativi dunque l’Italia, coerentemente con quanto accadeva sulla scena europea, attraversò l’età del «liberalismo classico», da non intendersi però come periodo in cui prevalse la purezza ideologica del liberalismo: piuttosto come fase storica in cui si mantenne viva la convinzione della classe dirigente di poter operare sul consolidato terreno del rapporto Parlamento/società civile, secondo il «classico» mito del modello britannico. Ciò era plausibile anche perché quel Parlamento rappresentava, nel bene e nel male, l’istituzione in cui i liberali credevano di ravvisare non solo l’organo di rappresentanza, ma anche il motore «legislativo» e «pedagogico» dello sviluppo della società civile, tanto più fondamentale in relazione all’ostile presenzaassenza della Chiesa e dei suoi codici d’integrazione civica. Affrontando gli eventi di questo quarantennio, il lettore avrà modo di imbattersi in sorprendenti analogie con molte vicende della nostra storia più recente e della cronaca attuale. Se siano fuorvianti o meno è difficile dirlo; forse però rappresentano un’ulteriore conferma che la comprensione della storia italiana richiede una qualche conoscenza delle sue fondamenta postunitarie.

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Avvertenza Le note del presente lavoro rinviano esclusivamente alle fonti da cui sono tratti gli interventi dei protagonisti. Non sono presenti invece i riferimenti relativi ai discorsi pronunciati in Parlamento, per i quali si rimanda agli Atti Parlamentari.

I Il nuovo stato Le istituzioni dell’Italia unita All’indomani della proclamazione del Regno d’Italia, il 17 marzo 1861, la nuova nazione si presentava come uno dei maggiori paesi d’Europa per dimensioni territoriali e demografiche. Ben diversa era però la realtà dello sviluppo economico e civile, in cui esisteva un divario rispetto a molti altri paesi che per molti anni non sarebbe stato colmato. Circa il 75% dei suoi 22 milioni di abitanti era analfabeta. Gran parte del reddito (58%) proveniva dalla produzione agricola in cui era impegnato il 70% della popolazione attiva. Le gravi carenze nel settore dei trasporti e delle comunicazioni e le limitate risorse energetiche influivano drasticamente sullo sviluppo manifatturiero, caratterizzato in gran parte da piccoli unità artigianali. Dal punto di vista politico-istituzionale, il quadro appariva fortemente condizionato dai conflitti che avevano caratterizzato le vicende preunitarie. Problemi di ordine giuridico e politico accompagnarono quindi la nascita del nuovo Stato, che il governo guidato da Cavour voleva connotare come semplice estensione territoriale del Regno di Sardegna, così da bloccare, tra le altre cose, ogni aspettativa costituente, di cui pure tutto il Risorgimento si era nutrito. Lo Stato dunque non veniva ad avere nessun’altra legittimazione se non quella derivante dalla sua stessa storia. Il Re di Sardegna Vittorio Emanuele non rinunciò infatti alle numerazioni progressive del vecchio Stato sabaudo, mantenendo per sé il numero dinastico di II e lasciando il numero VIII alla nuova legislatura inaugurata dopo le elezioni del 27 gennaio 1861. La monarchia, nel complesso, era venuta a patti con la realtà dei rapporti di forza che,

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al di là del testo statutario, assegnavano di fatto la responsabilità della guida politica del paese ad un governo in grado di raccogliere attorno a sé il consenso della maggioranza parlamentare. Questa tendenza, però, non deve offuscare il fatto che, molto spesso sino alla fine del secolo, la formazione e soprattutto il regolare funzionamento di un governo privo della «fiducia» del Sovrano sarebbe stata molto difficile nella prassi. In un certo senso, dunque, nelle dinamiche materiali che sovraintendevano alla formazione degli esecutivi si configurava un sistema di «doppia fiducia». L’unico atto statutariamente ammesso, attraverso cui il monarca poteva comunicare con le Camere, era il discorso della Corona all’apertura delle sessioni parlamentari. Vittorio Emanuele seppe comunque ritagliarsi spazi di manovra autonomi, in particolare nel campo della politica estera e di quella militare, e aspirando ad intervenire direttamente nelle decisioni governative, ebbe numerosi contrasti con tutti, o quasi, i capi di gabinetto e i generali che gli furono vicini: più di una volta si rifiutò di firmare leggi e decreti e più di un presidente del Consiglio (Bettino Ricasoli, Urbano Rattazzi, Marco Minghetti) dovette lasciare l’ufficio per ordine del Re. Sembra che, attraverso i conflitti con gli uomini politici, Vittorio Emanuele cercasse prima di tutto di salvaguardare il primato della vecchia tradizione sabauda e di ottenere il riconoscimento della propria suprema autorità nell’opera di edificazione del nuovo regno; era orgoglioso di appartenere alla più antica casa regnante d’Europa, e non sempre seppe accettare pacatamente le restrizioni imposte alla monarchia dalle nuove regole del governo costituzionale. Una rude volontà, quella del Sovrano, che cercò di farsi valere anche in ambito legislativo ed esecutivo, scontrandosi con i fermi intendimenti posti non solo da Cavour e Ricasoli, ma anche da Minghetti, consapevole, peraltro, che «non si poteva trattare con Vittorio Emanuele come con qualsiasi altro Principe che avesse ereditato la corona d’Italia»1. Al Sovrano tuttavia mancarono la costanza e la dedizione necessarie ad imporre con una certa regolarità la propria autorità. Sempre piuttosto attivo era invece il cosiddetto «partito» di corte, cioè quell’insieme di personaggi (per lo più senatori e ufficiali, ma anche alti funzionari e faccendieri di prestigio) che per ragioni isti1   Citato in E. Fabietti, Epilogo, in G. Massari, Vittorio Emanuele II, Barion, Milano 1935 (1878), p. 475.

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tuzionali o ascendenze personali avevano libero accesso presso il Re contribuendo a orientarne le opinioni. Tale entourage, spesso di mediocre levatura intellettuale e di scarsa competenza tecnica, trovava il proprio punto di riferimento all’interno di quel vero e proprio apparato regio che era la corte sabauda. Di fatto al Sovrano fu garantita, almeno sino alle modifiche introdotte nel 1901, la possibilità di organizzare autonomamente la propria corte, senza interferenze da parte del Parlamento e del governo. Questa (benché drasticamente ridimensionata rispetto ai fasti del Regno di Sardegna) nel 1862 contava ancora sulla presenza di 400 funzionari, 90 dignitari e 5 grandi dignitari, «chiamati ad esercitare la superiore direzione della Real Casa: il ministro (che amministrava i beni della Corona), il prefetto di Palazzo gran maestro delle cerimonie, il primo aiutante di campo, il grande scudiero ed il grande cacciatore»2. La (almeno apparente) natura «guerresca» delle vicende risorgimentali illuse i Savoia che la fortuna della monarchia continuasse a reggersi, come nei tempi gloriosi, sulla «spada»: la regina Vittoria aveva ironicamente annotato che Vittorio Emanuele II le appariva come l’ultimo re medievale, sinceramente convinto di dovere i suoi successi al potere delle armi. Di qui la costante sopravvalutazione dell’importanza dell’esercito e della Casa Militare a corte, importanza che non derivava solo dalla paura della «rivoluzione sociale», ma anche dalla convinzione di dover salvaguardare le vere fondamenta del proprio potere. Nel giugno del 1860 il Parlamento aveva approvato una legge che portava la lista civile (l’appannaggio statale di cui godeva la Casa Reale), da quattro a dieci milioni. La presenza di un attivo «partito» di corte, comunque, non assunse mai in questi anni il significato di sfida alle istituzioni rappresentative. La profonda fede di Cavour nel regime parlamentare trovava pratica espressione nelle cautele che circondarono gli esordi istituzionali di questo nuovo, e per molti versi rivoluzionario, soggetto internazionale, a cominciare da una legge elettorale, restrittiva come gran parte delle leggi elettorali europee del periodo, basata sulla legislazione sarda del 1848, che prevedeva un sistema a collegi uninominali a due turni. Venivano considerati eleggibili tutti i cittadini 2  Citato in R. Antonelli, Il Ministero della Real Casa nel primo quarantennio dopo l’Unità, in F. Mazzonis (a c. di), La Monarchia nella Storia d’Italia. Problematiche ed esemplificazioni, in «Cheiron», XIII, 1996, p. 70.

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italiani di sesso maschile che avessero compiuto venticinque anni, escluse particolari incapacità stabilite dalla legge. Il deputato, eletto per cinque anni, dopo aver giurato fedeltà al Re e allo Statuto, diventava un pubblico funzionario non retribuito: si riteneva infatti ovvio che «chi fa gl’interessi della nazione provvede anche ai propri»3. Per quanto riguardava l’elettorato attivo, erano ammessi al voto gli uomini con più di venticinque anni appartenenti a determinate categorie professionali o che pagassero almeno 40 lire di imposte. Con questi criteri, su una popolazione di 22 milioni di abitanti articolata su 4.800.000 famiglie, vale a dire lo stesso numero di maschi adulti capifamiglia, furono individuati 418.696 elettori. Questo significò tagliare fuori circa 4 milioni e mezzo di famiglie da ogni rapporto con i processi di legittimazione attraverso la partecipazione al voto. Nel gennaio 1861, alle urne andarono 239.583 votanti (il 57,2% dell’elettorato) per eleggere 443 deputati4. Il risultato politico fu un indubbio successo per Cavour, sia per il livello di partecipazione, superiore a quella dell’ultima elezione nel Regno sardo (rimarrà il più alto fino al 1876), sia perché oltre 300 dei candidati eletti appartenevano alla maggioranza fedele al governo. Secondo il dettato dello Statuto Albertino, il Senato era di nomina regia controfirmata dal ministro dell’Interno. I requisiti per poter essere nominati senatori (il cui numero venne aumentato da 161 a 212, per adeguarlo alla nuova realtà nazionale) erano l’età non inferiore ai 40 anni e l’appartenenza ad una delle categorie fissate dallo Statuto (ex deputati, magistrati, alti ufficiali, prefetti, cittadini eminenti, ecc). Il coinvolgimento dell’esecutivo nella selezione dei senatori rappresentava una tradizione consolidatasi a partire dal decreto D’Azeglio del 1850. A partire dagli anni ’80, aumentarono considerevolmente le nomine degli ex deputati, cosicché si può dire che il Senato di fine secolo fosse grosso modo diviso fra tre componenti principali: i «maggior censiti», i funzionari pubblici e i «politici di professione». Al Senato era concessa una posizione di sostanziale parità con la Camera, eccezion fatta per le leggi finanziarie e l’approvazione dei bilanci, su cui i deputati avevano la priorità. Al Senato spettava inoltre un’attribuzione giurisdizionale, in quanto poteva costituirsi in Alta Corte.   N. Malvezzi, L’indennità ai deputati, Zanichelli, Bologna 1905, p. 9.  Il numero dei deputati andò aumentando con l’estensione territoriale del Regno: 493 dopo il 1866 e 508 dopo l’ingresso a Roma. 3 4

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L’impianto amministrativo L’apparato pubblico si presentava nel complesso piuttosto esile, con una spesa che corrispondeva all’incirca al 10% del prodotto interno lordo e un numero di dipendenti non superiore a 50.000. L’accesso alla carriera amministrativa dipendeva da criteri discrezionali, cosa che in parte rimase valida anche quando, dal 1871, cominciarono ad essere introdotte, tra molte resistenze, selezioni mediante esami e progressioni di carriera per merito, sul modello della Gran Bretagna. Soggetto all’arbitrio dei vertici amministrativi (in questi anni spesso coincidenti con i vertici politici), schiacciato da una dura disciplina interna e da una ben strutturata scala gerarchica, l’impiegato pubblico, assunto dopo aver prestato giuramento al Re, non godette sino alla fine degli anni ’80 di alcuna garanzia di protezione giuridica per quanto riguardava il trattamento lavorativo, né di un particolare status sociale ed economico. La questione dell’ordinamento amministrativo da dare al paese finì per alimentare il clima di incertezza e diffidenza esistente tra gli apparati statali e la società civile, frammentata e disomogenea. La cultura liberale conteneva in astratto il riconoscimento della funzione emancipatrice esercitata da una più autonoma gestione del potere a livello locale, come dimostrò nel 1859 la decisione di non estendere alla Toscana l’ordinamento amministrativo sardo, percepito come meno avanzato, là dove, pur tra mille malumori, era stato invece imposto alla Lombardia e all’Emilia. Ancora più significativo, in questa direzione, apparve il progetto di riforma presentato in Parlamento dal ministro degli Interni Marco Minghetti il 13 marzo 1861, che rappresentava in qualche modo l’emblema di una fase, iniziata nel 1859, caratterizzata dalla presenza di vivaci, per quanto minoritarie, prospettive di decentramento amministrativo. Il progetto prevedeva il decentramento delle attribuzioni di alcuni ministeri mediante delega a funzionari governativi in loco e parziale attribuzione di tali funzioni ad organi elettivi. Per Minghetti la necessità di restituire alcune funzioni amministrative alle province andava di pari passo con quella di introdurre, a titolo provvisorio e sperimentale, una nuova e più grande aggregazione amministrativa: la regione. Questo vasto e coraggioso progetto di conciliazione delle esigenze statali con quelle delle «varietà locali» era per Minghetti un tentativo di trovare un equilibrio tra «centralità francese» e «indipendenza amministra-

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tiva come quella degli Stati Uniti d’America o della Svizzera»5; un progetto che restava comunque da intendersi solo «come espediente temporaneo, come mezzo di transizione e di trapasso all’unità amministrativa, dalla condizione di paesi che furono soggetti finora a legislazioni, ad ordini ed abitudini diverse»6. Tuttavia esso non riuscì nemmeno ad arrivare al voto in aula, per la manifesta ostilità di gran parte della classe politica e la tiepida accoglienza riservatagli da Cavour, diffidente verso gli eccessi del municipalismo, che gli sembravano contrari alle esigenze di coordinamento delle società moderne. Il sistema accentrato in vigore dal 1859 finì così per imporsi, nei difficili momenti immediatamente successivi all’unificazione, come la soluzione meno impegnativa e rischiosa per chi intendeva proteggere l’unità nazionale dalle «mene delle forze retrive» di stampo borbonico e da quelle dell’estremismo democratico, accusate di alimentare il malcontento delle masse in funzione di una trasformazione dell’assetto istituzionale. La rappresentanza periferica dell’esecutivo venne affidata ai prefetti, che assunsero i poteri precedentemente esercitati dal governatore e dall’intendente generale. Ciò avvenne senza un’effettiva decisione parlamentare, perché, per citare Silvio Spaventa, uno dei più autorevoli esponenti della Destra, nessuna delle tante proposte di organizzazione dell’assetto politico-amministrativo «giunse all’onore di una pubblica discussione, e all’approvazione o disapprovazione aperta di un voto»7. La mancata soluzione parlamentare del problema amministrativo finì per concedere maggiore spazio di manovra al governo nella sua opera di omogeneizzazione dei codici, anche in considerazione del protrarsi dello stato d’emergenza dovuto al mancato completamento dell’unificazione, che costituiva una fonte perenne di agitazioni. L’arroventato clima politico di questo periodo sortì tuttavia l’effetto di accelerare l’impegno dell’esecutivo a porre fine allo stato d’incertezza in cui versava il paese. Nel novembre del 1864 il governo di 5 Citato in G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. V, La costruzione dello Stato unitario (1860-1871), Feltrinelli, Milano 1968, p. 152. 6  Citato in A. Berselli, Il governo della Destra. Italia legale e Italia reale dopo l’Unità, Il Mulino, Bologna 1997, p. 245. 7 S. Spaventa, La politica e l’amministrazione della Destra e l’opera della Sinistra, in Id., La Giustizia nell’amministrazione, Einaudi, Torino 1949, pp. 38-39.

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Alfonso La Marmora richiese di fatto una sorta di delega al fine di trasformare in legge uno straordinario pacchetto di provvedimenti: i lunghi e sterili conflitti in cui si erano dibattuti Camera e Senato, uniti alle difficoltà tecniche della redazione di complicate leggi, facilitarono in questo caso l’esecutivo, e un Parlamento demotivato e stanco approvò le proposte del governo dopo solo tre mesi di discussione. La legge di unificazione amministrativa, composta da sei leggi allegate e destinata a diventare un perno della legislazione italiana, venne promulgata il 20 marzo 1865 con 184 voti a favore e 63 contrari. Il provvedimento, riguardante l’ordinamento comunale e provinciale, confermava l’impianto centralistico e gerarchico della realtà amministrativa locale, con un sindaco di nomina regia e un prefetto detentore di ampi poteri dei quali rispondeva solo al governo. Mentre la legge sulla sicurezza pubblica, che rafforzava le misure di controllo come il domicilio coatto e l’ammonizione, venne non di rado ad assumere caratteri arbitrari e illiberali. La legge sul contenzioso amministrativo conteneva importanti innovazioni, restituendo alla magistratura ordinaria la giurisdizione sul contenzioso in cui fosse coinvolta la pubblica amministrazione ed eliminando così tutti i tribunali speciali sino ad allora competenti in materia. Il 2 aprile 1865 fu, infine, promulgata l’altra importantissima legge che sanzionava l’unificazione legislativa del paese, in seguito alla quale, il 1° gennaio 1866, entravano in vigore il codice civile, il codice di procedura civile, il codice del commercio e quello della marina mercantile. Una delle principali caratteristiche del codice civile, che si richiamava palesemente al codice napoleonico, fu la volontà di imporre un modello di rapporti giuridici incentrati sulla priorità del diritto proprietario, a coronamento di una vittoriosa «rivoluzione borghese» che aveva avuto l’ambizione di mettere fine ai residui «feudali» dell’ancien régime. Tali ristretti ma generali criteri di regolamentazione delle relazioni tra individui garantivano la forma dell’individualismo liberale, senza tuttavia porre limiti ad una possibile crescita ‘politica’ della sfera pubblica. Il mantenimento dell’ordine «rivoluzionario» era garantito dall’impegno a preservare il soggetto giuridico di quest’ordine, l’individuo, e quello naturale, la famiglia, da ogni possibile alterazione dell’universo che li aveva prodotti, quello della proprietà individuale. Significative, da questo punto di vista, le norme che introducevano l’arresto per debiti (abolito nel 1877) e il matrimonio civile, come rafforzamento della tutela

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statale sulla famiglia. Per le donne, coerentemente con l’ispirazione napoleonica, si sancì uno stato di minorità rispetto all’uomo. Per esempio, per ogni atto di gestione patrimoniale la donna coniugata doveva richiedere l’assenso del marito; sino alla fine del 1877, inoltre, la testimonianza della donna non era ammessa nei pubblici dibattimenti, mentre nell’educazione dei figli la madre poteva avere voce in capitolo solo dopo la morte del padre. L’ordinamento giudiziario nel suo complesso non garantiva alla magistratura una vera e propria indipendenza dal potere politico, visto che il governo poteva condizionare l’operato dei giudici attraverso il meccanismo delle promozioni e dei trasferimenti. Sia il codice penale sia quello di procedura penale riflettevano la volontà della classe dirigente di difendere innanzitutto quella «centralità proprietaria» la cui funzione «pedagogica» ed «eversiva» andava preservata, persino a scapito dell’habeas corpus individuale (come dimostrava l’alto numero di detenzioni preventive) e delle più vaste esigenze d’ordine sociale. In generale la prospettiva che si sovrapponeva al disegno dottrinario della classe dirigente postunitaria era quella dell’emergenza di fronte ad avvenimenti politici e militari straordinari. Per diversi anni circolò tra le classi dirigenti la convinzione che il giovane Stato fosse destinato a disintegrarsi sotto la spinta di malumori internazionali e ostilità interne decise a mettere fine ad un’esperienza unitaria in cui la vittoria del progetto monarchico-cavouriano non cancellava l’ingombrante presenza democratica e la naturale avversione nei confronti della Chiesa. In un simile contesto, l’accelerato processo di «piemontizzazione» del sistema, con la conseguente scelta di un profilo istituzionale accentrato, non assumeva l’aspetto del tradimento dei principi del liberalismo ma quelli dell’amara medicina, in grado di far fronte temporaneamente ai conati di rigetto del nuovo organismo appena «trapiantato» e allo stesso tempo capace di avviare l’ammodernamento di una società percepita come sorda e ostile. Le immagini di arretratezza che gli organi decentrati rinviavano continuamente all’amminstrazione centrale finirono per legittimare ulteriormente la scelta accentratrice, per la sua originaria funzione pedagogica e di educazione alla libertà. La domanda di maggiore decentramento veniva d’altronde identificata con la difesa degli interessi delle vecchie élites locali. Le forze della democrazia liberale, escluse dai gangli vitali del potere e prive di un modello di progettualità politica che si

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discostasse dall’azionismo garibaldino, non seppero offrire una reale alternativa, piegandosi il più delle volte alle ragioni dell’emergenza. Lo stesso Francesco Crispi, leader della Sinistra democratica, il 9 febbraio 1865 aderì, in nome della necessità «rivoluzionaria», alla richiesta governativa di promulgare senza discussione il codice civile e quello di procedura civile. Se il signor ministro [...] ci dichiarasse che le necessità dei tempi richieggono che l’Italia abbia unico Codice, che i bisogni del paese impongono siffatta rivoluzione (poiché questa è una rivoluzione né più, né meno; parliamoci chiaro, chiamiamo le cose col loro nome; non vogliate credervi conservatori, mentre siete rivoluzionari); se ci dichiarasse che la posizione in cui si trova il paese è eccezionale, che l’Italia ha bisogno di un solo Codice civile [...], allora risponderei: se l’Italia ha d’uopo di un tale provvedimento, si faccia; ma cotesto è la rivoluzione, non è la legalità.

Non fu dunque casuale che il sistema fosse mantenuto anche superata la fase dell’emergenza, e che resistesse nonostante i diversi tentativi di riforma. Esso finì infatti per rendere consistenti settori di opinione pubblica sensibili alle esigenze di una «rivoluzione» di cui tutte le componenti liberali si sentivano partecipi, disposte a sacrificare convinzioni e ideali in nome di una modernizzazione complessiva che s’identificava con lo Stato sabaudo e con la politica «degli impulsi dal centro». La cultura politica La classe dirigente italiana apparteneva a tutti gli effetti a quella cultura liberale europea la cui fede nell’istituto parlamentare era direttamente proporzionale alla fiducia nella forza di persuasione insita nell’esercizio delle libertà individuali e dell’eguaglianza giuridica. Ragione e tollerante moderazione erano, dunque, i criteri ideali di fondo di una borghesia liberale persuasa che il government by discussion parlamentare, imposto dalla «rivoluzione» risorgimentale, non solo aveva lasciato alle spalle l’assolutismo e i suoi postulati di violenza e coercizione, ma era anche riuscito a garantire il ricongiungimento fra società civile e società politica. Dopo l’unificazione nazionale, ogni tipo di agitazione a sfondo sociale

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divenne per la cultura liberale un pretesto per la destabilizzazione delle istituzioni. Il vostro programma – affermava il deputato Ruggiero Bonghi nel 1871, rivolgendosi agli internazionalisti – suppone una natura umana che non esiste [...]. La disuguaglianza è necessaria; noi abbiamo potuto ottenere che da eguali fatti nascano eguali diritti, e cancellare tutto ciò che nella disuguaglianza di diritto era posticcio. Certo, l’essere riusciti in ciò è stata causa che il vostro programma nascesse con tanta convinzione e forza; se noi non avessimo distrutte le disuguaglianze giuridiche, voi non avreste pensato di proporre la soppressione delle disuguaglianze naturali. Ma noi abbiamo tentato il possibile e il giusto; voi tentate l’impossibile e l’ingiusto8.

Il Parlamento, e in particolare la Camera elettiva, rappresentava dunque il centro legittimante di tale processo e l’unica vera arena nazionale di progettazione politica. Sin dall’epoca preunitaria, la politica cavouriana aveva impresso una forte accelerazione all’ascesa del Parlamento, in quanto istituto che incarnava il principio liberale della mediazione politica tra le forze costituzionali presenti nel paese, operando essenzialmente come centro di compensazione tra interessi regionali conflittuali. Se Cavour nel 1858 aveva affermato che «la sola rappresentazione del popolo si trov[a] in questa Camera [...] sarebbe un errore immenso dire che la vera opinione della nazione non sia qui fedelmente rappresentata», nel 1862 un influente leader della Sinistra storica come Agostino Depretis ribadì che «tutte le forze del paese, le monarchiche come le democratiche, tutte hanno per sola loro rappresentanza il Re e il Parlamento. Il Parlamento [...] questo solo recinto è il terreno dove possono assidersi, dove possono procedere; qui le forze esplicarsi, qui conciliarsi, non altrove». Anche Crispi, negli stessi anni, ribattendo alle accuse di settarismo anti-sistema, confermava dai banchi dell’opposizione l’omogeneità politica della Camera dichiarando: «non ci sono partiti ostili in questo recinto». L’opposizione di Sinistra riteneva inoltre che «la moralizzazione del popolo dipende[sse] più dai deputati che dai ministri»9. 8  R. Bonghi, Il liberalismo, in Id., Programmi politici e partiti, Le Monnier, Firenze 1933, p. 93. 9   Citato in V.G. Pacifici, Francesco Crispi (1861-1867). Il problema del consenso

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Tuttavia il confronto con la realtà del paese impose da subito un adeguamento della cultura politica della classe dirigente, in vista del raggiungimento degli obiettivi previsti da una rivoluzione borghese ancora incompleta. Gran parte della stessa Destra storica, i cui principali esponenti, come il biellese Quintino Sella e il bolognese Minghetti, erano imbevuti delle tradizionali dottrine liberiste e individualiste, si convertì ben presto al dirigismo statalista, acquisendo quell’attitudine «giacobina» che avrebbe finito per accentuare il progetto «mobilitante» e propulsivo del nuovo sistema, esaltando la funzione dell’esecutivo all’interno del sistema parlamentare. Subito dopo l’unificazione del paese, il Parlamento s’identificava politicamente con la grande nebulosa del liberalismo italiano, in cui a grandi linee si riproduceva la divisione politica che aveva caratterizzato le vicende risorgimentali: al governo, una componente di liberalismo moderato che si riconosceva nella politica cavouriana, e all’opposizione una componente democratica che aveva la sua matrice politica nell’azionismo garibaldino e nella cultura mazziniana. Due realtà che, sintetizzate anche in seguito sotto le etichette di Destra e Sinistra storica, finirono per coagulare attorno a sé un insieme eterogeneo di gruppi parlamentari, spesso aggregati sulla base di logiche regionali o della forza d’attrazione di singole personalità politiche. La Destra «toscana», quella «veneta», la Sinistra «meridionale», la Consorteria «emiliana», solo per fare alcuni esempi, rappresentavano la coerente espressione di un universo liberale che non necessitava dell’organizzazione, né tantomeno del partito, per far vivere la sfera di una «politica» il cui senso si esauriva nell’estenuante attività di mediazione dibattimentale nel Parlamento a sostegno o meno del governo. Sulla falsariga del pensiero liberale europeo, d’altronde, anche la classe dirigente italiana considerava estremamente insidiosa ogni prospettiva di partito organizzato. Fuori dal Parlamento, la dimensione ideologico-organizzativa della politica per le forze costituzionali rimase, almeno sino al 1876, una prospettiva decisamente marginale. Ruggiero Bonghi, uno dei liberali più versatili e cosmopoliti, ricordava che «i partiti politici sono essenzialmente partiti che dividono la classe che governa»10. Si ammetteva altresì che «nei allo Stato liberale, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1984, p. 262. 10  R. Bonghi, I partiti politici nel Parlamento italiano, in Id., Programmi, cit., p. 19.

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reggimenti liberi al mutarsi dell’opinione generale della nazione, segu[isse] un alternarsi dei partiti al governo», ma si intendeva il partito come «un’accolta di uomini aventi voce nella cosa pubblica i quali concordano nelle massime fondamentali circa il modo di governare, e cooperano tutti insieme affinché siffatto modo e non altro si tenga»11. Di tale classe indubbiamente la Destra storica si presentava come l’espressione più matura. Politicamente, rappresentava quella ristretta fascia sociale, composta per lo più da proprietari terrieri, per cui merito, operosità, capacità imprenditoriale e cultura fornivano le coordinate borghesi necessarie a garantire l’accesso a un percorso di nobilitazione, suggello visibile del potere sociale di una classe in cui profilo borghese e aristocratico sembravano interagire efficacemente. Si trattava, in larga parte, di ristrette élites dell’Italia centrosettentrionale, pienamente consapevoli della propria funzione di classe dirigente, i cui legami erano stati ulteriormente rinsaldati dalla indiscussa fedeltà al progetto dinastico dei Savoia e dall’adesione alla prospettiva risorgimentale cavouriana, che per cultura e contingenza storica non ponevano all’ordine del giorno questioni relative al problema della democrazia e dell’inserimento politico delle masse all’interno dello Stato. La profondità delle convinzioni e l’aristocratica percezione delle finalità «etiche» della propria azione non annullavano tuttavia l’originaria pluralità di cultura, tradizioni e interessi di queste élites. Secondo il senatore lombardo Stefano Jacini, esponente di primo piano del liberalismo conservatore, «la Destra storica era stata un aggregato di uomini, per temperamento, per antecedenti e per convinzioni, disparatissimi, messi insieme dalle esigenze di un elevato e patriottico opportunismo, negli anni della lotta per l’esistenza nazionale; concordi solo riguardo al modo con cui siffatta lotta si doveva combattere»12. Non a caso, dunque, i gravosi problemi che il gruppo della Destra si trovò ad affrontare dopo l’unificazione finirono per rendere ancora più evidenti le fratture al proprio interno. Destra piemontese e tosco-emiliana (definita dagli avversari «Consorteria») si scambia11  M. Minghetti, Scritti politici, a c. di R. Gherardi, Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1986, p. 633. 12   S. Jacini, Pensieri sulla politica italiana, in «Nuova Antologia», CV, 1889, p. 225.

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vano accuse di ristrettezza di vedute e di volontà egemoniche nella gestione dell’amministrazione pubblica. La stessa «Consorteria», comunque, era attraversata da divergenze di opinione sulla natura dell’impianto amministrativo del paese. Tale rivalità aveva un’immediata ricaduta nei delicati meccanismi di formazione degli esecutivi, su cui il Re finiva per avere un ruolo determinante anche per via della fluidità dei gruppi parlamentari. Dopo la morte di Cavour e la nomina del barone Ricasoli, ad esempio, Vittorio Emanuele cominciò a complottare con l’intento di rovesciare il primo ministro, il quale, da parte sua, non nascondeva le proprie riserve nei confronti di quel Sovrano intrigante e sessualmente troppo disinvolto. Infittitesi le trame dei rattazziani e dei circoli di corte per far cadere il governo, al principio del ’62 la posizione di Ricasoli era diventata insostenibile; malgrado avesse ottenuto alla Camera un voto di fiducia a larga maggioranza, preferì rassegnare le dimissioni, dopo che il Re lo aveva invitato – con un atto che qualcuno in Parlamento definì «colpo di stato regio» – a chiedere nuovamente alla Camera un voto di fiducia. Vittorio Emanuele, tuttavia, riteneva il proprio intervento pienamente legittimo, dal momento che, come confidò all’ambasciatore inglese, Ricasoli aveva commesso l’errore di ritenere che il Sovrano dovesse «regnare, ma non governare» spogliandolo «persino dell’ombra della regalità»13. Con il piemontese Urbano Rattazzi e poi con l’emiliano Luigi Carlo Farini (sostituito pochi mesi dopo, per motivi di salute, da Minghetti) nel 1863, prevalsero le logiche degli schieramenti regionali. Rattazzi introdusse nell’esecutivo alcuni elementi della Sinistra moderata, tra cui Depretis, facendo leva sul blocco piemontese. Rattazzi, per quanto molto gradito al Re, era un uomo su cui si appuntavano le diffidenze di molti, dentro e fuori dal Parlamento: l’ambasciatore inglese lo giudicava «un politicante astuto, intrigante e di sentimenti meschini»14. Il nuovo presidente del Consiglio si trovava comunque a raccogliere un’eredità difficile, e proprio in virtù delle delicate circostanze della sua nomina, volle presentare alla Camera un programma alieno da avventure, soprattutto sulle questioni di Roma e del Veneto. Allontanatosi però ben presto da questa linea, finì per compromettersi irrimediabilmente nella vicenda   Citato in R. Bonghi, I partiti politici, cit., p. 23.   Citato in D. Mack Smith, Storia d’Italia dal 1861 al 1958, Laterza, Bari 1959, p. 102. 13 14

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dell’insurrezione garibaldina per la conquista di Roma, e fu costretto a dimettersi dopo soli nove mesi di governo. In questa prima fase del processo di unificazione nazionale, il progetto eversivo degli assetti istituzionali tradizionali, espressione di un più vasto progetto di emancipazione politica, giuridica e morale, favorì un parziale snaturamento degli originari assunti ideali di questi liberali temperati. Particolarmente emblematica in questo senso la posizione della Destra napoletana, raccolta attorno alla figura di Silvio Spaventa, che aveva pagato con la condanna all’ergastolo la sua opposizione ai Borbone, e di Francesco De Sanctis, critico e storico della letteratura, anch’egli perseguitato dal regime borbonico, approdato nelle file della Sinistra pochi anni dopo l’unificazione. Vi era in questi uomini politici napoletani, che avevano trascorso buona parte degli anni della formazione culturale in esilio, un approccio dottrinario ai problemi del Mezzogiorno in cui lo Stato, percepito come ente morale, doveva divenire esecutore di un processo di trasformazione eticamente orientato. Tali indicazioni giacobine, seppure estranee al pragmatismo del liberalismo centro-settentrionale, divennero di fatto la strumentazione ideologica dominante per una classe dirigente liberale a debole legittimazione sociale. Non a caso un altro napoletano, Bonghi, benché estraneo ad ogni tentazione giacobina, ammise che Il partito moderato e liberale non ha potuto, e talora non ha voluto essere un partito conservatore. Esso ha avuto davanti agli occhi troppo ed unicamente un fine solo, quello di costituire l’Italia; ed ha fatto bene. Nel costituirla, non si può affermare che abbia avuto continuo riguardo ai diritti acquisiti, alle abitudini antiche, agli interessi legittimi, alla coscienza religiosa e concreta d’ogni parte della cittadinanza; dove di proposito deliberato, dove per necessità di cose, ha trascurato tutto quello il cui perpetuo e diligente rispetto è la norma e la forza d’un partito conservatore15.

Gran parte degli eredi di Cavour si mostrava consapevole che «i nostri partiti parlamentari hanno tutti un’origine comune, – l’origine rivoluzionaria»16. Si trattava di una sorta di snaturamento della

  R. Bonghi, Il partito conservatore, in Id., Programmi, cit., p. 216.   R. Bonfadini, I partiti parlamentari in Europa e particolarmente in Italia, in «Nuova Antologia», CXXXIII, 1894, p. 627. 15

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cultura del liberalismo moderato, destinato ad avere molteplici e più ampie implicazioni politiche poiché, a causa vinta, [...] quella Destra, trascinata sempre più dai suoi uomini meno conservatori, a cui cuoceva di non esser ritenuti liberalissimi, perdette, nell’ordine delle idee ogni carattere proprio che la distinguesse collettivamente dalla Sinistra storica, agli occhi delle moltitudini [...]17.

Al di là dei contrasti interni alla classe politica, quello che accomunava gran parte dei liberali italiani era una sorta di distacco nei confronti di un «paese reale», legato a forme di cultura, linguaggi, riti antropologici a cui essi si sentivano estranei. Il popolo era percepito o come preda di un colossale ritardo storico, che lo avvicinava a popolazioni «primitive» non europee, o soffocato da proprie forme culturali; fossero quelle delle varie derivazioni cattoliche (che il Vaticano andava ristrutturando e riunificando con mano ferrea nella nuova ortodossia romana) o quelle sopravvissute dagli antichi retaggi corporativi del sistema urbano medievale-moderno, da cui di lì a poco avrebbe attinto ampiamente la nuova cultura socialistica dei «rossi». La difficoltà nell’immaginare una legittimazione popolare conduceva la classe politica ad un sempre più diffidente arroccamento: la «mitica» Inghilterra a cui molti liberali italiani, di ogni gradazione politica, rivolgevano reverenti lo sguardo non poteva apparire più lontana. Poche migliaia di persone si trovarono dunque costrette a difendere dall’indifferenza, se non ostilità, del paese alcune imprescindibili conquiste: quella della ancora fragile rivoluzione nazionale, quella per la scelta illuminista di «civiltà» contro una religione percepita come forza di retroguardia, quella dell’immagine dell’Italia come «ultima delle grandi potenze» in relazione al mito di uno Stato al cui centro si ergeva Roma, «capitale» del mondo. Tutto questo, in definitiva, impedì lo sviluppo di una reale dialettica conflittuale fra forze politiche, divise dal significato di fondo da attribuire al corso degli eventi, ma non ostacolò la pressoché infinita suddivisione in nuances della stessa ideologia di fondo. Quindi non fu strano che, mentre da una parte si moltiplica  S. Jacini, Pensieri, cit., p. 225.

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vano i raggruppamenti politici, tanto che «con pochissimo sforzo potremmo trovare almeno una dozzina di Destre e una mezza dozzina di Sinistre nel nostro Parlamento. Senza contare i Centri [...]»18, dall’altra cominciava, in modo sempre più evidente dopo il 1870, un processo di allentamento delle barriere ideologiche tra i due schieramenti tradizionali, sino a quel momento ben visibili, come si evince dalla non infrequente polarizzazione del voto dei deputati: «Gli uomini più eminenti di Destra e di Sinistra, della maggioranza e dell’opposizione si trovano ora in condizioni tali che davvero sarebbe poco agevole il definire il confine che separa gli uni dagli altri in fatto di principi»19. Come la Destra anche la Sinistra non brillava per compattezza. L’impressione era che «se l’opposizione fosse stata compatta, l’indomani della pubblicazione della legge delle guarentigie, avrebbe potuto aspirare al governo»20. Il raggruppamento parlamentare di opposizione, in seguito definito con il nome di Sinistra storica, era di fatto composto da elementi eterogenei; in particolare dalla Sinistra del Parlamento subalpino, capeggiata da Agostino Depretis, e dai democratici di derivazione mazziniana e garibaldina, tra cui spiccavano Francesco Crispi, Giovanni Nicotera, Benedetto Cairoli, Agostino Bertani, che dopo l’unificazione avevano rinunciato più o meno esplicitamente alla pregiudiziale repubblicana. A questi nuclei si collegò una parte consistente della deputazione meridionale, benché tale adesione indicasse soprattutto un’avversione alla politica della Destra più che un’affinità culturale. La generica prospettiva di un liberalismo progressista non era sufficiente d’altronde a definire i connotati politici della Sinistra, che in gran parte, fino alla prima metà degli anni ’60, si era identificata nel mito della partecipazione popolare al completamento dell’unificazione territoriale del paese. Dopo la sconfitta del progetto garibaldino di occupare Roma nel 1867, si aprì per l’opposizione una nuova fase, nella quale – scrisse Agostino Bertani – «finito il garibaldinismo, ognuno deve agire secondo le proprie convinzioni»21. E   Destra, Sinistra e Centri, in «La Nazione», 8-11-1872.   Un nuovo partito, in «L’Opinione», 9-12-1871. 20  D. Zanichelli, Introduzione storica allo studio del sistema parlamentare italiano, in «Studi Senesi», 1898, p. 86. 21  F. Crispi, Carteggi politici inediti di Francesco Crispi (1860-1900), a c. di T. Palamenghi-Crispi, L’Universelle, Roma 1912, p. 330. 18 19

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le convinzioni erano evidentemente molteplici, se nel 1867 all’opposizione si potevano distinguere il Centro-sinistra di Rattazzi, il Terzo partito di Antonio Mordini, la Sinistra di Crispi. Le generiche esigenze di rinnovamento e di apertura verso le istanze popolari, esaurita la fase delle discriminanti risorgimentali, divennero infatti un’occasione d’incontro per i numerosi settori della classe politica insoddisfatti della Destra. In questo senso una parte della Sinistra, prendendo coscienza della propria subalternità al sistema politico imposto dagli avversari, scelse di operare sul terreno della ricerca di più solide maggioranze parlamentari in funzione di un cauto riformismo amministrativo e tributario, che non lasciava spazio alcuno alla grande progettualità ma era in grado di aprire maggiori varchi nell’egemonia parlamentare della Destra. Su tale base, ad esempio, cominciò a raccogliersi in Parlamento attorno a De Sanctis una Sinistra meridionale, mentre con l’ingresso italiano a Roma Rattazzi e lo stesso De Sanctis divennero gli ispiratori di una Sinistra «giovane» che prendeva le distanze da quella «storica» proprio per l’abbandono della pregiudiziale delle grandi riforme politiche. Tale opposizione trovava nel Mezzogiorno un terreno di coltura privilegiato presso larghi settori dei ceti medi e della borghesia agraria, i quali videro nella Sinistra, più che uno strumento di maggiore democrazia, un indispensabile canale di ridefinizione dei rapporti di forza tra le varie componenti regionali presenti in Parlamento. Si trattava di attenuare i drastici vincoli imposti dalla Destra in tema di spesa pubblica, giudicati punitivi dalla maggior parte della realtà meridionale. Divisa tra il risentimento conservatore del notabilato «escluso» dal potere e il piglio del decisionismo garibaldino, la Sinistra meridionale rappresentò la più concreta espressione della rinuncia dell’opposizione costituzionale a trovare, al di fuori della transazione parlamentare, una propria identità politica sulla base di un programma alternativo a quello della Destra. «Signori – disse nel 1874 De Sanctis alla Camera – io credo che in questioni di riforme e di finanze non si possa e non si debba stare sempre sul no, unicamente perché le proposte vengono da avversari politici»22. In nome di un sempre più generico appello al progresso e alle riforme «finanziarie 22  F. De Sanctis, I partiti e l’educazione della nuova Italia, Einaudi, Torino 1970, p. 43.

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ed amministrative», la Sinistra trovò nella moderata guida di Depretis lo strumento per convogliare la propria eterogenea base sociale all’interno delle istituzioni, mettendo tuttavia a tacere nel contempo le prospettive più genuinamente democratiche del programma. Dal punto di vista sociale Destra e Sinistra, semplificando, rappresentavano entrambe gli interessi della borghesia nazionale. Se la Destra aveva i suoi punti di forza in alcuni settori della borghesia agraria del Centro-Nord, la Sinistra trovava consensi tra la piccola e media borghesia, oltre che nella borghesia agraria del Sud. Per la Destra storica è tuttavia possibile individuare una forte omogeneità sociale e culturale tra rappresentati e rappresentanti, basata su una sostanziale identificazione tra élite politica e detentori del potere nella società civile. Una connessione decisamente coerente con una concezione «aristocratica» della politica come «arte di governo», riservata a chi aveva i mezzi per esercitarla: La classe politica – disse Bonghi – è bene che non sia campata in aria; voglio dire, è bene che abbia per ogni modo radice ed eserciti azione nel paese. Chi si vuole occupare di politica, non ne deve campare. L’uomo politico deve essere un signore, che è sempre il migliore mestiere, o un professore o un avvocato, o un medico, o un commerciante, o uno scienziato, o un uomo di lettere; e quella classe politica è migliore, che più si trova fornita da ciascuna di queste posizioni sociali in quelle proporzioni d’influenza che ciascheduna ha nel paese. [...] Il pericolo maggiore, che sia possibile correre, è in ciò: che dalla vita politica s’allontanino con nausea tutti quelli che hanno e che sanno23.

Per certi versi la divisione fra Destra e Sinistra ricalcava la distinzione fra i ceti di governo tradizionali nelle varie realtà preunitarie e le nuove élites venute alla ribalta con la rivoluzione nazionale. Questo spiega perché non di rado la Destra fosse più avanzata della Sinistra nel rapporto con la cultura del «progresso» economico e politico, mentre la Sinistra percepiva maggiormente l’esigenza di estendere la compartecipazione al potere alle classi emergenti che quel «progresso» avevano contribuito a creare. La Destra era in generale maggiormente legata al fenomeno del 23  Citato in A. Salvestrini, I moderati toscani e la classe dirigente italiana (18591876), Olschki, Firenze 1965, pp. 75-76.

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«notabilato sociale», caratteristico delle aree politico-sociali in cui si articolava il nuovo Regno: essa esprimeva infatti le élites dirigenti della trasformazione socio-economica, ma anche, di conseguenza, la preminenza della «società civile», di cui il potere politico non era altro se non lo specchio e la camera di compensazione. Tale originaria prospettiva ideale era destinata a mutare sin dai primi anni successivi all’unificazione, di fronte ai problemi contingenti della gestione della sfera pubblica, come dimostrerà il costante incremento dello «statalismo» pedagogico della Destra. Si trattò di una prospettiva favorita dalla presenza di una componente sensibile al tema dello Stato etico, cioè quel kultur Staat cui spettava il compito di sostenere il progresso della società. La Sinistra era invece espressione non tanto di una società civile, quanto delle nuove classi emergenti che si erano conquistate il loro «posto al sole» correndo il rischio della partecipazione all’avventura del nuovo Stato nazionale. Avevano della politica un’idea «interventista» e di gestione, nel senso che dovevano alla politica un maggiore protagonismo sociale e la conquista di migliori «posizioni» nella vita pubblica; ed era anche grazie ad essa che progettavano programmi di rinnovamento, destinati magari a modificare gli equilibri preesistenti (ad esempio nella riforma della scuola). La rappresentanza parlamentare La composizione sociale del Parlamento negli anni della Destra mostra come l’ossatura della classe politica parlamentare fosse rappresentata dalla proprietà terriera e dalla categoria dei dottori in legge. Quest’ultima, con poco meno della metà del totale dei deputati per legislatura (circa il 47% prima della riforma elettorale del 1882), si apprestava a diventare la categoria della mediazione politica per definizione nell’Italia liberale. Immediatamente prima della riforma del 1882, nei 508 collegi in cui era diviso il Regno contavano 369.627 elettori (su 621.896 votanti e una popolazione di circa 29 milioni di abitanti). Fino alla XIV legislatura erano sufficienti mediamente 500 preferenze per accedere alla deputazione, e ciò causava un frequente ricorso ai ballottaggi. Era comunque significativo che, in una realtà priva di identificazione comunitaria e in un periodo di debole legittimazione politica, «un terzo circa dei votanti non riuscivano a mandare alla Ca-

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mera il candidato che preferivano»24. La riforma elettorale del 1882, con l’introduzione dello scrutinio di lista, divideva il Regno in 135 collegi ognuno dei quali avrebbe eletto dai 2 ai 5 deputati, rendendo in tal modo, nell’opinione dello stesso Depretis, «molto più facili le transazioni». La parallela estensione del suffragio dovuta, come vedremo, all’ingresso di nuove categorie di aventi diritto portò l’elettorato a oltre 2 milioni di votanti, cosicché i voti necessari per ottenere la deputazione passarono a circa 4.800. Per quanto riguarda la carriera parlamentare, significativo appariva il fatto che dal 1861 al 1880 il 53% dei deputati conservasse il proprio seggio per tre o quattro legislature e il 17% per cinque o sei. La riforma elettorale del 1882 provocò invece un notevole ricambio della classe parlamentare (nell’ordine del 40%), al quale tuttavia seguì un fenomeno di assestamento, tanto che il 48% di coloro che erano deputati nel 1882 lo era ancora nel 1892. Sino alla riforma del 1882, era la ristrettezza del suffragio a favorire il fenomeno della continuità del mandato e a premiare il meccanismo notabilare del rapporto diretto tra candidato ed elettori, rendendo superflua la dimensione organizzativa e in gran parte anche quella politico-ideologica. D’altro canto, la realtà notabilare, in quanto rito di trasposizione della tradizionale gerarchia sociale in campo politico, garantiva a livelli più ampi il funzionamento del rapporto di obbligazione politica essenziale per la legittimazione del sistema, al di là delle modalità di selezione del personale parlamentare. Il sistema notabilare evidenziava altresì il complesso rapporto intrattenuto dal «mondo di savi» con il liberalismo: da una parte ne esaltava le componenti relative alla saggia amministrazione, all’autonomia della società civile e alle virtù comunitarie, dall’altra non poteva fare a meno di accettarne la dimensione politica, cosmopolita e conflittuale che aveva caratterizzato la lotta all’assolutismo. Proprio per questo il notabile doveva essere in grado di parlare la «lingua» alta della cultura liberale: perché era sempre in nome di quei valori che si esprimeva. Si trattava solitamente di una personalità che godeva di prestigio, «da notare», per lo più facoltosa, snodo tra il centro e una periferia che spesso si presentava come una comunità ristretta e poco dinamica a cui il notabile si offriva come interpre24  Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Statistica elettorale politica. Elezioni generali politiche 29 ottobre e 5 novembre 1882, Tipografia Elzeviriana, Roma 1883, p. 9.

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te del funzionamento «tecnico» dei meccanismi impersonali della nuova modernità e come latore di istanze presso l’amministrazione, altrimenti destinate a non essere neppure formulate. Un tipo di relazione, quella notabilare, che molte volte prescindeva dalle distinzioni politiche, geografiche e dalla stessa tendenza al puro e semplice voto di «scambio»; tanto che, ad esempio, per quanto riguardava Silvio Spaventa, integerrimo leader della Destra, «non c’era un galantuomo del circondario che non l’avesse mai scritto o che non fosse andato di persona a fargli visita», mentre De Sanctis riteneva che come rappresentante degli interessi del Collegio [...] debbo sentir tutti, rispondere a tutti, elettori contrari o favorevoli, poco importa, e dove posso, e dove mi par giusto, aiutarli con l’opera mia. Queste non sono relazioni che io mi abbia con tale o tale, ma è adempimento del mio dovere25.

Una simile percezione del «dovere» veniva manifestata anche da chi non doveva «curare» collegi, come il veneto Fedele Lampertico, senatore e dunque estraneo al problema dei consensi elettorali. In questo caso, esemplificativo di una percezione molto diffusa del ruolo della classe politica, il sistema notabilare dimostrava con ancora maggiore evidenza la complessità del rapporto tra obbligazione sociale e legittimazione politica. Lampertico, in virtù del proprio peso politico e del prestigio sociale, si proponeva infatti come punto di riferimento di una vastissima rete di relazioni interpersonali e di gruppo. Figura chiave nella società europea ottocentesca, il notabile costituiva una reale mediazione fra la sua comunità e i nuovi obblighi del «mondo moderno», e solo chi garantiva il possesso di una «scienza» in grado di misurarsi con le nuove complessità (dalla compilazione di complicati atti formali ai rapporti con i vari gradi dell’autorità statale) poteva proporsi come mediatore nei confronti del nuovo universo del potere spersonalizzato dello Stato nazionale. La ragnatela di relazioni personali e notabilari a cui la Destra prima e la Sinistra poi affidavano il proprio predominio elettora25  Citato in L. Musella, Individui, amici, clienti. Relazioni personali e circuiti politici in Italia meridionale tra Otto e Novecento, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 46-47 e 61.

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le era comunque strettamente connessa al massiccio utilizzo delle istituzioni pubbliche. Prefetti, magistrati e funzionari, nominati e promossi sulla base di meriti politici, non mancarono di assicurare il loro determinante appoggio ai candidati del «partito di governo», secondo le logiche «amicali» e di gruppo esistenti all’interno della frammentata galassia delle formazioni politiche. La figura chiave di tale sistema rimaneva dunque, anche dopo la riforma del 1882, quella del grande elettore, attorno a cui si concentravano le speranze dei deputati e le irritazioni di chi cominciava ad avvertire che la politica richiedeva una buona dose di manipolazione. Come si fanno le liste? – si domandava Bonghi [...]. Non sono liste che escono dal cuore degli elettori e salgono da essi ai comitati; sono liste che scendono dai calcoli dei comitati e vanno sino agli elettori. Ma i comitati da chi sono formati? Sono i grandi elettori che costituiscono i comitati, che s’intromettono tra i candidati e gli elettori [...]. Come allora il deputato è forzato a farsi mezzano di favori ai grandi elettori presso i ministri, così i grandi elettori si fanno mezzani dei favori del deputato agli altri elettori del collegio.

Secondo Ettore D’Orazio, allievo di De Sanctis, nella maggior parte dei casi queste figure, presenti «quasi in ciascuna delle sessantanove provincie italiane», avevano le fattezze di un self made man che si è imposto all’ossequio e all’obbedienza, soprattutto per la sua capacità di elargire favori e garantire protezione. [...]. Ma il prefetto della provincia [...] è un balocco fra le sue mani; e il governo deve fare i conti con lui, se vuole che i deputati del luogo arino diritto26.

In tal modo, per il deputato Rocco De Zerbi, il piccolo elettore votò per la promessa o per la minaccia del grande elettore. Il grande elettore fu tale per professione, poiché ne cavò l’appalto o la concessione o altro beneficio simile. L’amministrazione fu un accozzo di gente, che facendosi pagare di vanità, lasciò pagare l’appoggio che le davano i grandi elettori col pubblico denaro, e di gente che corruppe e fu corrotta in tutta l’estensione del vocabolo. Il consigliere, per avere i  Citato in L. Musella, Individui, cit., p. 200.

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favori della giunta, le lasciò libere le mani; la giunta, per non avere opposizioni dal sindaco in certe cose, chiuse gli occhi su certe altre. Il partito promise onori, protezioni, impunità agli elettori più operosi per averli amici; e questi scambiarono l’agitazione elettorale come un mezzo per far quattrini, per aver l’impiego o la croce27.

Disincanto, cinismo e indignazione, più o meno interessati, cominciarono a decantare tra fine anni ’70 e inizio ’80, trasformandosi in un primo abbozzo di analisi del funzionamento del sistema parlamentare e amministrativo, che intrecciava osservazione scientifica e polemica politica28. Il contrasto tra una realtà parlamentare non di rado caratterizzata da sedute in difesa di interessi di parte, «ove non si tratta[va]no che affari di campanile»29, e il principio liberale, che considerava il Parlamento un’assemblea degli interessi «generali», era comunque ben presente nel dibattito politico alla Camera, dove si tentò più volte di introdurre leggi che vietavano il voto a quei membri legati ad amministrazioni di società la cui attività fosse collegata all’approvazione di un determinato provvedimento. Il sistema elettorale italiano, d’altronde, ricalcando il criterio dell’«uniformità» proveniente dalla rivoluzione francese, tendeva a contrapporsi dal punto di vista dottrinario alla cultura del particolarismo e del paternalismo municipalista. Allo stesso tempo, tuttavia, tale sistema incarnava pragmaticamente la scarsa determinazione della classe dirigente a istituzionalizzare un sistema di potere politico autonomo, svincolato dalle pressioni di gruppi sociali la cui forza «cetuale» testimoniava efficacemente della molteplicità dei «poteri di fatto» ancora presenti nella società civile. Rigettato il fondamento naturale-municipalistico della rappresentanza, la legge teneva però per ferma la dimensione corale, collettiva, del corpo elettorale diviso in collegi, che doveva riunirsi in forme appunto collegiali e separate, in ambiente chiuso, e votare contestualmente, per   Ivi, p. 206.   La sistematizzazione di una parte di tali riflessioni spettò a Gaetano Mosca, che con il suo Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare (Tipografia dello Statuto, Palermo 1884), fornì il primo contributo scientifico allo studio della classe politica. 29  F. Petruccelli della Gattina, I moribondi del Palazzo Carignano, Rizzoli, Milano 1982 (1862), p. 62. 27 28

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chiamata alfabetica ripetuta due volte, la seconda delle quali «ad un’ora dopo il mezzodì»30.

Le operazioni elettorali non miravano alla costruzione di processi di identificazione comunitaria, tanto è vero che venivano espressamente vietate la presenza di estranei «nel luogo dell’adunanza» ed ogni genere di manifestazioni «d’approvazione o di disapprovazione»31 da parte dei presenti alle votazioni. La preferenza accordata al voto segreto rispetto al modello palese, in vigore ad esempio anche in Gran Bretagna sino al 1872, era un’ulteriore testimonianza della volontà di definire in senso individualistico il criterio elettorale, senza per questo intaccare quell’universo di identità sociali collettive che caratterizzava la soglia elettorale in Italia. Le liste degli elettori, cui spettava l’onere dell’iscrizione mediante presentazione dei titoli necessari, potevano essere annualmente modificate, con inclusioni o cancellazioni, sulla base di eventuali verifiche sollecitate dai cittadini o dalle autorità. Tale sistema mirava ad estendere la mobilitazione delle élites, e per tale motivo la legge suggeriva anche di prescindere dalla domanda d’iscrizione nei casi di coloro che notoriamente possedevano «i requisiti voluti per essere elettori», invitando le autorità comunali a procedere d’ufficio. Non potevano essere eletti gli ecclesiastici, i funzionari statali (tranne poche eccezioni) e coloro che non avevano compiuto trent’anni. L’organizzazione dei lavori parlamentari era affidata ai regolamenti della Camera e del Senato compilati dal governo nel 1848. L’esame dei progetti di legge, sino al 1868 e poi di nuovo dopo il 1873, prevedeva la divisione dei deputati, per estrazione a sorte, in nove uffici, rinnovati ogni due mesi. Ciascun ufficio esaminava i progetti di legge secondo l’ordine indicato dalla Camera, e dopo tale esame nominava per ogni progetto un proprio relatore che doveva presentare alla Camera un rapporto da discutere nella seduta pubblica. Tra il 1868 e il 1873 s’impose invece il sistema di provenienza britannica delle «tre letture», che prevedeva, dopo un primo esame di tutta la Camera, la formazione di un Comitato privato a cui parte30  Citato in R. Romanelli, Le regole del gioco. Note sull’impianto del sistema elettorale in Italia (1848-1895), in «Quaderni storici», 69, 1988, p. 688. 31  Manuale ad uso dei senatori del Regno e dei deputati, Botta, Torino 1860, p. 44.

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cipavano tutti gli interessati e che avrebbe presentato una proposta finale all’assemblea. Dal 1888 i due sistemi poterono formalmente coesistere, anche se quello degli uffici fu di gran lunga prevalente. Per quanto atteneva alle votazioni in aula dal 1868, la Camera si esprimeva per alzata e seduta, tranne per il voto finale sulle leggi, che si faceva sempre a scrutinio segreto, e per i casi in cui erano gli stessi membri a chiedere che la votazione si svolgesse diversamente: occorreva la richiesta da parte di dieci deputati per la votazione per divisione, quindici per la votazione per appello nominale, venti per la votazione a scrutinio segreto. Naturalmente ogni membro della Camera aveva il diritto di presentare emendamenti ad un progetto di legge, oltre che di farsene egli stesso promotore. Anche il Senato si divideva in uffici, cinque, formati per estrazione a sorte, e nominava commissioni permanenti, tra le quali la più importante era la Commissione Finanze. L’iniziativa nella presentazione di progetti di legge partiva in misura preponderante dai banchi del governo, come si deduce dal computo dei progetti di legge iniziati alla Camera tra l’VIII e la XVI legislatura (1861-1890): in quell’arco di tempo l’esecutivo presentò in aula 3.499 disegni di legge, a fronte degli 892 avanzati dai deputati. Al Senato, a conferma del limitato peso politico della Camera alta, il governo introdusse nello stesso periodo solamente 333 progetti contro i 15 dei senatori. La quasi totale assenza dei partiti costituzionali fuori dal Parlamento aveva delle ricadute anche nella limitata dinamica politica delle amministrazioni comunali e provinciali. Queste, sino alla riforma crispina del 1888, si definivano istituzionalmente solo all’interno di una logica di tipo patrimoniale ed erano spesso prive, nel momento del voto a livello locale, dei contrasti ideali tipici delle elezioni politiche. L’elettorato amministrativo, sino al 1883 circa doppio rispetto a quello politico, era infatti formato dai cittadini di sesso maschile che avessero compiuto ventuno anni (a fronte dei venticinque necessari per l’elettorato politico) e che pagassero annualmente al comune un’imposta, definita dalla legge, variabile in proporzione al numero degli abitanti del comune stesso. A differenza della legge elettorale politica, mancava ogni tipo di riferimento al grado di alfabetizzazione, mentre erano previste speciali categorie di elettori notabili o benemeriti. Le vedove o le separate che rientravano nei criteri censitari previsti potevano designare un figlio o un genero,

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così come un padre poteva delegare il voto ad un proprio figlio. Erano eleggibili tutti gli iscritti nelle liste elettorali amministrative fatta eccezione per gli ecclesiastici, i funzionari del governo incaricati di controllare l’amministrazione comunale e coloro che ricevevano uno stipendio dalle amministrazioni locali. Escluse dall’elettorato attivo e passivo erano invece, oltre agli interdetti, ai falliti e a coloro che avevano ricevuto condanne penali, anche le donne (nonostante le proprietarie lombarde e toscane, prima dell’Unità, avessero goduto della funzione elettorale amministrativa). Più in generale, il mondo femminile era relegato ad un universo «privato» che, in funzione della classe sociale di appartenenza, poteva esaurirsi nel ruolo più o meno idealizzato di sposa e madre o estendersi a quello di lavoratrice, nel migliore dei casi nel settore educativo–assistenziale (maestra e infermiera), ma più spesso come forza-lavoro sottopagata rispetto all’uomo. Negli anni ’70 tra i quasi 400.000 addetti alla produzione artigianale e industriale, poco meno della metà era rappresentato dalle donne. Nel 1888, chi visitava alcuni paesi della Liguria poteva imbattersi in una quotidianità fatta di donne che addirittura sostituivano le bestie nel trasporto delle merci. «A trent’anni – scrisse il pubblicista Dario Papa – [la donna] ne dimostra cinquanta, è rugosa e generalmente sdentata; non vi dico poi dello sviluppo intellettuale»32. Nel campo dell’istruzione, soprattutto quella superiore, a parità di ceto sociale esistevano abissali differenze. Nel 1890, su oltre 8.000 iscritti ai corsi liceali si potevano contare meno di 50 studentesse, mentre dieci anni dopo in tutta Italia solo 257 donne risultavano laureate. L’evidente sperequazione non cancellava comunque il fatto, per nulla scontato nell’Europa ottocentesca, che le donne italiane avessero libero accesso agli studi universitari. Nell’ultimo decennio del XIX secolo l’insoddisfazione per tale stato di cose si tramutò in consapevolezza politica, che nella prima fase assunse il volto di ristrette leghe femminili per l’emancipazione economica e sociale. Inoltre, sull’onda del movimento anglosassone delle suffragette, nuclei di attiviste, tra cui si distinse Anna Maria Mozzoni, posero il problema dei diritti politici delle donne da inserire in un più generale contesto di emancipazione giuridica e sociale. Sul problema del «voto alle donne»   D. Papa, Confessioni e battaglie, Sem, Milano 1903, p. 140.

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si dichiararono contrari, con maggiore o minore sufficienza, quasi tutti gli schieramenti politici, compresi molti settori socialisti e l’intero mondo cattolico. Anche chi si mostrava disponibile non poteva non far trapelare quella diffusa cultura profondamente imbevuta di pregiudizi che l’ideologia poteva solo velare, non scalzare. Alla fine degli anni ’70 il manifesto di un circolo socialista romagnolo rivendicava in questi termini il diritto all’eguaglianza tra i sessi: «Noi vogliamo l’emancipazione della donna: invano si allega a suo disfavore una pretesa inferiorità intellettuale. Fosse anche vero, che monta? Forse i negri d’Africa non hanno diritto alla libertà perché la loro intelligenza è inferiore a quella degli uomini bianchi?»33. Prevaleva infatti il pregiudizio negativo dell’incapacità fisiologica della donna, tutta istinto e sentimento, di affrontare questioni politiche; e più in generale, aveva la meglio la convinzione che la donna fosse mentalmente inferiore all’uomo e dunque non in grado di discernere tra il bene ed il male nella sfera degli affari pubblici. In tale condizione di subalternità le donne italiane, non diversamente peraltro da quanto accadeva in altri paesi, furono oggetto, nel periodo compreso tra l’unificazione ed i primi anni del nuovo secolo, di una grande rimozione politica. Questo non escludeva però il ruolo determinante giocato da molte singole donne socialmente «in vista». In effetti specie quelle delle classi alte usavano spesso le armi della seduzione e dell’intrigo, ritenute proprie del loro sesso, per svolgere un’azione di influenza sulle vicende politiche del tempo. Il successo e l’insuccesso di numerose carriere, come si evince anche dalla memorialistica dell’epoca, fu non di rado agevolato da relazioni, strategie, passioni che avevano nei salotti mondani un insostituibile punto di riferimento. Al centro di ogni salotto influente si ergeva sempre una donna, il più delle volte dotata di grande fascino intellettuale e intelligenza politica unite a caparbia lungimiranza. Non è dunque irrilevante ricordare che alcune grandi dame, in particolare vedove di statisti (come ad esempio Amalia Depretis e Laura Minghetti), aristocratiche (soprattutto le amanti dei sovrani) e ambiziose consorti, ebbero modo di partecipare, sia pure ellitticamente, al complesso meccanismo della formazione della decisione politica.

33  Ministero di Grazia e Giustizia, Direzione generale affari penali, Archivio Centrale dello Stato, Miscellanea, busta 52, fasc. 615.

II Completare l’unificazione (1861-1870) Garibaldi fu ferito Mentre il Regno muoveva i suoi primi passi istituzionali, l’esercito completava l’opera di liberazione del Mezzogiorno dalle ultime resistenze borboniche. Proprio l’esercito divenne il primo serio problema con cui si misurò la classe dirigente italiana, un problema che emblematizzava i diversi nodi irrisolti del Risorgimento e in particolare il completamento dell’unificazione, l’omogeneizzazione politica ed amministrativa del Mezzogiorno e il ruolo del garibaldinismo e della democrazia all’interno del nuovo Stato. Il progetto di un esercito popolare fu un sintomo dell’insoddisfazione con cui un’importante componente delle élites di matrice risorgimentale, e segnatamente gli esponenti della democrazia meridionale e del radicalismo mazziniano e garibaldino, reagirono all’egemonia politica della Destra: quest’ultima ovviamente riteneva tale corpo una possibile fonte di contagio rivoluzionario. La decisione dell’esecutivo di sciogliere l’esercito meridionale comandato dall’«eroe dei due mondi» provocò un aspro conflitto parlamentare, che vide Garibaldi chiedere inutilmente la formazione di una Guardia nazionale mobile, da affiancare all’esercito nel caso di eventi bellici. Esaurito il tentativo dei democratici di modificare in senso popolare la struttura militare sabauda plasmata da La Marmora nel 1854, non venne comunque meno tra le forze radicali il desiderio di costituire reparti di volontari, con l’intento di forzare la mano al governo in vista di un completamento dell’unificazione nazionale. Dalle ceneri dei Comitati di soccorso a Garibaldi per Napoli e la Sicilia nacquero infatti i Comitati di provvedimento per Roma

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e Venezia, che si trasformarono nel marzo 1862 nell’Associazione emancipatrice italiana, presieduta da Garibaldi e a cui aderirono numerosi esponenti della Sinistra radicale. Fu in questo clima di forte eccitazione patriottica che maturò il tentativo di Garibaldi di conquistare Roma alla testa di circa 2.000 volontari. Quando, passando in rassegna la Guardia nazionale di Palermo nel luglio ’62, Garibaldi udì tra la folla sovreccitata il grido «o Roma o morte», decise di fare di quel motto il proprio grido di guerra e il proprio programma politico. Vi erano in quel momento circa sessanta battaglioni di fanteria stanziati al Sud ma, per quanto le intenzioni del condottiero fossero oramai note a tutti, nessuna misura fu ordinata dal governo Rattazzi per impedirgli di reclutare e addestrare volontari. L’opinione pubblica moderata, spaventata dalla nuova iniziativa garibaldina, chiese lo scioglimento dell’Associazione emancipatrice, ma la Camera, sensibile al problema della libertà d’associazione, non fu disposta a seguire il presidente del Consiglio su questo provvedimento. Rattazzi tuttavia, ottenuto il parere favorevole del Consiglio di Stato sulla facoltà del governo di sciogliere associazioni considerate pericolose per l’ordine pubblico, mise fuori legge l’Emancipatrice dando inizio all’opera di contenimento dell’azione garibaldina, e soprattutto disintegrando sul nascere un possibile e coerente «partito» in grado di rappresentare la democrazia risorgimentale all’interno del nuovo Stato. Il tema della libertà di associazione si confermava al centro del dibattito politico iniziato negli ultimi mesi prima dell’unificazione e proseguito sino al 1863. Prese corpo in questi mesi l’idea di utilizzare il timore della sovversione antimonarchica e antiunitaria come emergenza, a cui sacrificare la costruzione di un effettivo sistema di rappresentazione delle diverse istanze unitarie presenti nel paese e lo sviluppo delle emergenti forme associative. Nella scelta operata da Rattazzi è possibile individuare una tendenza illiberale e poco sensibile alle esigenze del conflitto politico parlamentare, che trovava non poche adesioni anche nell’ambito della Sinistra «militare» interessata a rinverdire la stagione dei colpi di mano dei volontari, in accordo, palese o occulto, con il Sovrano. Il Re, infatti, non appariva del tutto estraneo al tentativo garibaldino di conquistare Roma, benché fosse incapace di controllarne le pericolose ricadute a livello internazionale. Quando dunque Garibaldi sbarcò con le sue truppe in Calabria, il capo del governo, privo di autorevole copertura, dovette

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suo malgrado optare per la repressione dell’iniziativa. Il 29 agosto 1862, le truppe del generale Enrico Cialdini dispersero i volontari garibaldini sull’altopiano dell’Aspromonte, dopo un breve scontro a fuoco che causò morti e feriti da entrambe le parti. Garibaldi, ferito, venne fatto prigioniero. Circa 2.000 garibaldini furono processati sommariamente e condannati. Il fallimento del tentativo garibaldino, che aveva provocato grande emozione presso l’opinione pubblica di tutta Europa e una violenta ondata di proteste in Italia, culminata in numerosi incidenti con migliaia di arresti, favorì la ripresa dell’iniziativa diplomatica da parte del governo. Nel 1864, il ministero Minghetti riuscì a far allontanare le truppe francesi dallo Stato pontificio, dove erano acquartierate sin dall’epoca della sconfitta della Repubblica romana nel 1849: a seguito della Convenzione stipulata il 15 settembre 1864, l’esercito di Napoleone III abbandonava il suolo pontificio in cambio dell’impegno del governo italiano a trasferire la capitale e a non attaccare o far attaccare il territorio papale. Al di là del Tronto Se la questione di Roma e Venezia proiettava nel futuro, sia pure polemicamente, il dualismo tra «realtà monarchica» e «prospettiva democratica», la complessa dimensione meridionale si proponeva invece come terreno propizio ad una resa dei conti tra le due componenti del Risorgimento italiano. Nel settembre 1860 Garibaldi aveva chiesto a Vittorio Emanuele di liberarsi di Cavour, in quanto ostile al processo rivoluzionario di annessione del Mezzogiorno; un mese dopo il primo ministro aveva confermato tale ostilità, imponendo come prioritaria su ogni altra iniziativa l’eliminazione dell’influenza garibaldina: «Ristabilire l’ordine a Napoli prima, domare il Re (Francesco II) dopo. Guai se si invertisse il modo di procedere»1. Tale strategia si contrapponeva a quella profondamente eversiva con cui Garibaldi, durante la sua dittatura, cercò per prima cosa di intaccare i vecchi poteri. «Garibaldi – confidò Bertani alla Camera

1  Cavour a Farini in La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d’Italia. Carteggi di C. Cavour, vol. III, Zanichelli, Bologna 1949, p. 38.

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nel 1861 – ad ogni proposta di nomina che io gli recava, dicevami concitato: sbarazziamo dapprima il terreno dei nostri nemici in armi ed in toga e poi edificheremo con uomini che vogliano la giustizia, l’unità, la libertà della patria». Per l’uomo politico radicale, «la dittatura aveva lasciato quelle province concordi, pressoché tutte tranquille, entusiaste al grido d’Italia una ed indivisibile con Vittorio Emanuele II suo Re e Roma capitale», ma il sistema inaugurato dai «moderati» aveva finito per inaridire tale entusiasmo. L’ostilità nei confronti della «potenza creatrice» di una rivoluzione era individuata dalla Sinistra come la causa principale della paralisi delle province meridionali e del conseguente fenomeno del brigantaggio. Drasticamente opposta era la diagnosi della Destra, la quale, per bocca di Silvio Spaventa, imputava le maggiori responsabilità di tale situazione alle componenti più radicali, «poiché l’elemento rivoluzionario non è rientrato nel suo letto, le popolazioni sono state mantenute in uno stato di eccitabilità, d’irritazione, d’incertezza, che le ha fatte diventare facile preda a tutte le suggestioni, a tutti gl’istigamenti dei partiti ostili al governo». A Napoli – scrisse Massimo D’Azeglio nel 1861 – noi abbiamo altresì cacciato il Sovrano per stabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono, e sembra che ciò non basti per contenere il regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti e non briganti, niuno vuol saperne. Ma si dirà: e il suffragio universale? Io non so nulla di suffragio; ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni, e che al di là sono necessari. [...] Bisogna sapere dai Napoletani un’altra volta per tutte, se ci vogliono, sì o no2.

Per la Destra non era in discussione il carattere rivoluzionario del processo in corso, ma la natura che questo doveva assumere: la cultura illiberale che nutriva i «mali» del Mezzogiorno sarebbe stata sconfitta solo dall’autorità della forza legittima delle istituzioni statali, a cui l’elemento democratico poteva unicamente subordinarsi, non certo affiancarsi. Lo scioglimento dell’esercito meridionale garibaldino aveva messo fine alla debole ma significativa connessione che si era creata, dopo 2  Citato in D. Mack Smith, Storia d’Italia dal 1861 al 1958, Laterza, Bari 1959, p. 116.

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Teano, tra lo Stato italiano e le «province napoletane», chiudendo la fase della compenetrazione tra rivoluzione democratica e istituzioni. Senza questa struttura, che aveva mostrato notevoli capacità di controllo e repressione delle masse meridionali, il problema dell’omogeneizzazione giuridica e politica del Mezzogiorno si aggravava ulteriormente. L’imposizione delle nuove istituzioni del liberalismo condusse infatti ad un immediato conflitto con gli istituti e le consuetudini che sino ad allora avevano funzionato da ammortizzatori sociali, e provocò un profondo malcontento soprattutto nelle campagne, in cui i nuovi rapporti economici e giuridici, improntati all’eliminazione delle vecchie strutture feudali, causarono un subitaneo peggioramento delle condizioni dei contadini. Pertanto l’endemico fenomeno del banditismo, che aveva caratterizzato anche in epoca preunitaria alcune zone del Mezzogiorno continentale, si trasformò tra il 1861 e il 1865 in una sorta di insorgenza sociale; essa, nei primi mesi, ebbe anche obiettivi di restaurazione delle istituzioni preunitarie, almeno fino a quando la crisi definitiva delle aspettative legittimiste tornò a relegare il fenomeno nell’ambito della protesta contadina. Il brigantaggio, diffuso in quasi tutte le regioni del Mezzogiorno continentale e specialmente in Basilicata, operava per bande di varie dimensioni (da poche unità a centinaia di elementi) che agivano su base locale e potevano contare su un’estesa complicità anche tra gli strati intermedi della società meridionale. Il fenomeno si tramutò rapidamente in una forma di resistenza antisistema, in cui venivano rappresentati il rancore per la nuova e dispotica forma di potere, il malcontento sociale e il lealismo borbonico. La legislazione eccezionale, introdotta in questi anni e culminata nella pratica di un prolungato stato d’assedio, riuscì a mettere fine alla fase del «grande brigantaggio» (1861-1864), durante la quale non di rado bande brigantesche avevano imposto vere e proprie forme di contro-potere territoriale. Il problema del Mezzogiorno, di cui il brigantaggio si presentava come la manifestazione più cruenta, era legato soprattutto a fattori economici e sociali che avrebbero richiesto soluzioni a lunga scadenza; come infatti dimostrò anche la relazione della commissione parlamentare che nel 1863 svolse un’ampia inchiesta sulle regioni meridionali, il brigantaggio era più debole là dove le condizioni di lavoro e i rapporti tra lavoratori e proprietari erano migliori, oppure nelle aree in cui vigeva il sistema della mezzadria e i contadini non erano

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costretti al nomadismo. La relazione suggeriva una serie di provvedimenti (come il miglioramento dell’istruzione e del sistema scolastico, l’equa distribuzione dei terreni demaniali, un piano di lavori pubblici, un’efficiente amministrazione pubblica) che avrebbero dovuto mostrare alle popolazioni locali gli indubbi vantaggi dell’unificazione e della libertà, togliendo loro quell’attrattiva alla ribellione la quale non era altro che «la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche secolari ingiustizie». Ma si trattava ovviamente di misure a lunga scadenza che non potevano risolvere il problema nella sua immediata gravità e fu così, pertanto, che con la legge Pica (dal nome del deputato promotore) del 1863 si introdusse la giurisdizione militare nelle province dichiarate in «stato di brigantaggio», allo scopo di dare un nuovo impulso ad una lotta che segnava il passo. In base a questa legge veniva autorizzato l’arresto domiciliare nei confronti dei vagabondi e si stabiliva che tutte le bande armate di più di tre persone sarebbero state giudicate da una corte marziale. Il governo Farini-Minghetti cercò anche di rinvigorire la ormai flebile legittimazione politica necessaria a sostenere quella vera e propria guerra civile, fatta di massacri, devastazioni, fucilazioni e terrore da ambo le parti, in cui lo Stato, nonostante l’impegno e i mezzi profusi, non riusciva a prevalere. A questo scopo fu abrogata la dittatura militare e vennero riorganizzati gli organi repressivi statali sulla base teorica di una più coerente legalità unitamente alla concessione di poteri straordinari agli organi di polizia. Si riuscì così, tra il 1863 e il 1864, ad infliggere duri colpi alle organizzazioni brigantesche; non si riuscì invece a placare l’ondata di proteste della Sinistra meridionale che, soprattutto in occasione dell’estensione della legge Pica alla Sicilia (dove «il flagello del brigantaggio non si è mai sviluppato e nessuna relazione è tra i malfattori dell’isola e i briganti delle province napoletane»), denunciò l’impatto politico di questa strategia repressiva il cui obiettivo, come sostenne Crispi, era quello «di tormentare i patrioti». I dati ufficiali confermarono la violenza del conflitto. I soldati impiegati nelle operazioni aumentarono progressivamente sino a raggiungere, nel 1864, le 116.000 unità. Tra il 1861 e il 1865 morirono 5.212 briganti e quasi altrettanti ne furono arrestati, mentre 3.600 furono quelli che si costituirono; altre ricostruzioni relative allo stesso periodo, però, forniscono cifre che oscillano tra i 20 e i 50 mila morti. Dopo l’approvazione delle leggi speciali, si celebrarono

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3.600 processi con oltre 10.000 imputati. Nel 1865, se il fenomeno del brigantaggio poteva ritenersi avviato ad esaurimento nonostante alcuni sussulti negli anni successivi, non così poteva dirsi per l’avversione del Mezzogiorno nei confronti dei governi di Destra, la quale finì per far confluire nell’opposizione della Sinistra componenti molto eterogenee della società civile meridionale, non di rado spinte a questa scelta da rancori municipalistici e interessi frustrati, più che da profonde convinzioni liberali. Terza guerra d’indipendenza o prima guerra dell’Italia unita Con lo spostamento effettivo della capitale a Firenze nel 1865, la risoluzione della questione romana entrava in una fase di stallo, mentre l’evoluzione del quadro internazionale riportava in primo piano il problema del Veneto. Falliti alcuni tentativi diplomatici per sondare l’imperatore austriaco in merito alle province «irredente» del Veneto, Vittorio Emanuele si convinse dell’impossibilità di ottenerle senza una guerra; tanto più che anche Napoleone III sembrava incoraggiare l’Italia in questa direzione, sperando di ottenere da un conflitto europeo ampliamenti territoriali e il rafforzamento del «semiprotettorato» francese sulla penisola. I contatti con la Prussia per un’alleanza in funzione antiaustriaca si concretizzarono nell’aprile 1866, in un trattato con cui l’Italia s’impegnava ad intervenire accanto alla Prussia qualora questa avesse attaccato l’Austria. In cambio l’Italia avrebbe ottenuto la parte del Lombardo-Veneto ancora in possesso degli Asburgo; inutili si rivelarono invece i tentativi d’includere nei compensi territoriali anche il Trentino. Il 17 giugno la Prussia dichiarò quindi guerra all’Austria, seguita tre giorni più tardi dall’Italia. La conduzione della prima guerra italiana si rivelò disastrosa, a causa della mancanza di unità di comando e delle strutturali debolezze dell’organizzazione militare italiana. La Marmora e Cialdini, privi di un preciso piano di guerra, sembravano concordi solo nel limitare il ruolo di Garibaldi e impedire un’insurrezione popolare in Veneto. Per tale ragione Garibaldi, coi suoi 38.000 volontari, fu trattenuto sul fronte secondario del Tirolo meridionale, lontano dalla zona principale delle operazioni. Il radicale Bertani, che accusava i governi di Destra di voler «reprimere i moti, i palpiti, perfin la voce della rivoluzione», invitò La Marmora

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a «chiamare per prima e non per estrema misura tutte le forze vive della nazione a concorrere alla guerra». La poderosa offensiva dell’esercito prussiano aveva nel frattempo sbaragliato l’esercito austriaco, tanto, tramite Napoleone III, che Vienna offrì il Veneto all’Italia in cambio del suo ritiro dal conflitto. Anche di fronte ad un esito della guerra ormai scontato, le armi italiane non riuscirono ad ottenere quella vittoria che, in attesa dell’imminente firma dell’armistizio, avrebbe garantito al governo di Firenze una posizione più forte al tavolo delle trattative. Dopo l’iniziale rovescio di Custoza, si rivelò fallimentare anche l’impiego della flotta, come si vide il 20 luglio con la sconfitta al largo dell’isola dalmata di Lissa. Le uniche note positive per l’Italia vennero dai volontari garibaldini i quali, vincitori a Bezzecca il 21 luglio, continuarono ad avanzare in Trentino. L’armistizio tra Prussia e Austria mise però fine alle speranze di rivincita militare e a quelle di una possibile occupazione del Trentino, costringendo l’Italia, il 3 ottobre 1866, ad una pace umiliante in cui l’imperatore austriaco, pur riconoscendo formalmente il Regno d’Italia, cedeva il Veneto e la provincia mantovana solo attraverso la mediazione francese. Anche per il Veneto l’annessione fu sottoposta a plebiscito (21 ottobre): su quasi 650 mila votanti, si contarono 69 voti contrari. Benché contrassegnata da sconfortanti esiti militari, quella che è stata definita come la terza guerra d’indipendenza aveva comunque permesso la risoluzione del problema del Veneto e, grazie al riconoscimento austriaco, rafforzato la posizione dell’Italia nello scenario diplomatico internazionale. La guerra era stata impostata sul modello cavouriano: un centro monarchico-moderato pronto ad approfittare di autorevoli alleanze sorte dai frequenti assestamenti degli equilibri europei per ottenere i propri obiettivi, anche grazie a prudenti campagne militari condotte subordinando la collaborazione politica e militare dei democratici. In questa occasione, tuttavia, i pur cospicui risultati raggiunti non riuscirono ad evitare l’impressione che il fallimento dell’impresa militare fosse dipeso non solo dalle contraddizioni e dall’impreparazione dello Stato maggiore, ma soprattutto dall’ambiguità di una classe dirigente che, orfana dell’intui­to di Cavour, sembrava asserragliata nel paese più che alla sua testa, insicura persino della propria capacità di incanalare l’entusiasmo patriottico nell’alveo del sistema politico appena instaurato. Strascichi polemici

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lasciarono un segno duraturo soprattutto sull’immagine della casta militare, tanto più che fu chiamato a rispondere di imperizia solo l’ammiraglio Carlo Pellion di Persano; tale epurazione limitata non dovette convincere l’opinione pubblica dell’epoca, se è vero che Cattaneo affermò: «il Senato non può esigere il rendiconto di Lissa senza esigere il rendiconto di Custoza»3. Ai danni morali per il paese si aggiunsero quelli materiali causati dalle ingenti spese militari, che contribuirono tra l’altro ad acuire il dissesto finanziario in atto. L’insurrezione popolare scoppiata a Palermo il 16 settembre 1866 e repressa a fatica rappresentò la manifestazione più clamorosa del disagio delle classi popolari, che non si era certo attenuato con l’unificazione e su cui non mancarono di fare leva le principali forze anti-sistema presenti nell’isola. Una questione capitale Alla Convenzione di settembre (1864) il governo Minghetti era giunto dopo trattative non facili, soprattutto per l’opposizione dei deputati piemontesi i quali, sostenuti dal Re, non accettavano di perdere i notevoli vantaggi derivanti dal fatto che Torino fosse la sede del governo. La scelta cadde necessariamente su Firenze e Minghetti, rendendosi conto della gravità e della delicatezza degli impegni che stava assumendo, fece in modo che dal testo della Convenzione fosse esclusa ogni parola o frase che potesse implicare la rinuncia italiana a Roma. Tuttavia, la notizia del trasferimento della capitale suscitò l’immediata protesta dei deputati subalpini e del Re il quale, anche a causa delle imponenti manifestazioni di piazza, invitò l’intero gabinetto a dimettersi. Il nuovo capo del governo La Marmora, per quanto ostile allo spostamento della capitale, lo effettuò rapidamente, convinto che fosse prioritario non offendere la Francia e liberare Roma dalla guarnigione francese. Mentre a Roma Pio IX esprimeva sconcerto per la partenza del contingente francese, a Torino la divulgazione anticipata della decisione provocò violenti tumulti, a cui parteciparono tutti gli strati sociali della popolazione, e diversi morti. Il trasferimento

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  C. Cattaneo, Epistolario, vol. IV, Barbera, Firenze 19562, p. 426.

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della capitale, tuttavia, lasciando impregiudicate le possibilità italiane di entrare a Roma, favoriva un processo di «spiemontizzazione» del paese gradito all’opinione pubblica e a larga parte dei deputati di Sinistra. Apparve chiaro quasi subito che la Convenzione del ’64 non avrebbe potuto risolvere la questione romana; nel paese e in Parlamento, infatti, molte voci si alzarono per ribadire che l’Italia senza Roma non sarebbe stata una vera nazione, sollecitate anche da un Bismarck desideroso di allontanare l’Italia dalla Francia e dall’Austria cattoliche. L’annessione del Veneto quindi non placò, ma al contrario accentuò, il dissidio nella classe politica sui mezzi più idonei per completare l’unificazione del paese. Il ritorno di Rattazzi al governo nell’aprile 1867 sembrò indicare una volontà di ripresa dell’ambiguità politica che aveva condotto ai fatti dell’Aspromonte, cioè la prospettiva di occupare Roma mediante un tacito accordo tra governo e garibaldini, che avrebbe garantito a questi ultimi una parziale libertà d’azione a fronte della possibilità sempre aperta, per il primo, di ricusarlo nell’eventualità di proteste francesi. Ne seguì la solita commedia degli equivoci, in cui il Re preferiva temporeggiare e Rattazzi, in contrasto con molti esponenti della Destra, sperava in un’ipotetica insurrezione patriottica a Roma (eventualità non prevista nelle clausole della Convenzione) che avrebbe fornito il pretesto per un intervento italiano. Garibaldi intanto, che da marzo aveva assunto la direzione dei moti per la liberazione di Roma, cominciò su incarico del Comitato d’insurrezione romano un’attiva propaganda: «o con me o senza di me, a Roma andrete ugualmente, questo è ora una necessità politica che si svolge da sé medesima»4. Nel frattempo si intensificavano i contatti tra il Sovrano e il Comitato rivoluzionario romano; è quasi certo, addirittura, che il presidente del Consiglio avesse consegnato due o tre milioni di lire all’agente di Garibaldi, Francesco Crispi, e che una parte di questo denaro dovesse servire per finanziare l’insurrezione «spontanea» dei romani e per corrompere gli ufficiali papalini. Fra tanti elementi d’ambiguità l’unica certezza era costituita dalla ferma opposizione di Napoleone III ad ogni compromesso sulla questione romana; tanto più che la presenza a Roma della legione d’Antibes, formata di volontari cattolici francesi, aveva dato luo-

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  Citato in F. Cognasso, Vittorio Emanuele II, Utet, Torino 1942, p. 335.

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go a proteste da parte della stampa democratica e a numerose interpellanze parlamentari, perché la si riteneva una violazione della Convenzione di settembre. Rattazzi comunque preferì, nonostante le sollecitazioni, agire con cautela per non guastare i rapporti con l’Imperatore, e rassicurò il governo francese garantendo che la marcia su Roma di Garibaldi non sarebbe mai stata permessa. A metà settembre però, non essendo più possibile nascondere l’assembramento di truppe irregolari ai confini dello Stato della Chiesa, Rattazzi, con l’approvazione del Re, decise di far arrestare il generale conducendolo a Caprera. Si trattò, a dire il vero, di una mezza misura destinata solo ad ingannare temporaneamente i diplomatici stranieri, in quanto Garibaldi, non sottoposto a stretta sorveglianza, non ebbe difficoltà a fuggire dall’isola. Nel frattempo, avendo il governo francese deciso l’intervento militare perché quello italiano sembrava «impotente ad impedire l’invasione del territorio pontificio», Rattazzi si era dimesso. Il 22 ottobre 1867 Garibaldi attraversò senza ostacoli la frontiera dello Stato pontificio, ma la mancata insurrezione di Roma e l’energica difesa della città da parte di truppe di volontari francesi in stretto contatto con l’esercito transalpino impedirono la penetrazione dei circa 7.000 garibaldini che, male armati, dopo essersi attestati a Monterotondo furono sconfitti il 3 novembre a Mentana dai francopapalini, in possesso dei nuovi micidiali fucili Chassepot. Al suo rientro nel territorio italiano, Garibaldi venne arrestato e condotto a Caprera, mentre i francesi riportavano un proprio contingente militare a Roma e a Civitavecchia; le truppe italiane, inviate nello Stato pontificio con la speranza di un’occupazione congiunta, dovettero ritirarsi dopo l’ultimatum di Parigi. Per Crispi e per la Sinistra Roma era «necessaria all’Italia [...] come la testa al corpo. Roma è a noi necessaria perché è divenuta il covo della reazione, e finché noi non l’avremo, l’Italia non potrà essere tranquilla, non è possibile che cessi l’agitazione dei partiti». L’agitazione a cui si riferiva Crispi andava al di là del problema dell’occupazione del suolo pontificio e metteva in risalto le differenze politiche degli schieramenti in campo. I liberali moderati si riconoscevano in larga maggioranza nel separatismo di stampo cavouriano, che riconduceva la questione romana ad una paziente ma irrinunciabile opera di mediazione, attraverso cui spingere un papato isolato diplomaticamente alla volontaria rinuncia del potere temporale in

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cambio della garanzia di un’assoluta autonomia in campo religioso. Questa prospettiva conteneva la tacita speranza che il rinnovamento spirituale del cattolicesimo avrebbe favorito il ricongiungimento dei vari settori del liberalismo, divisi dai dissidi sul potere temporale. Scettica, se non ostile, di fronte alla possibilità di lavorare per un incontro tra liberalismo e cattolicesimo, appariva invece la gran parte delle forze democratiche, come anche alcuni settori della Destra, i quali non nascondevano il proprio anticlericalismo ammantato di venature scientiste o stataliste. La conquista di Roma doveva, per questi ambienti, preludere a un conflitto tra ragione e fede in grado d’imporre una nuova rete di valori etico-politici, più rispondenti ai «moderni» criteri della «civilizzazione». Bertani, ad esempio, alla vigilia dell’ingresso italiano a Roma non esitò ad accusare il governo di avere volutamente alterato i termini del dibattito: Voi ci mistificaste per dieci anni col bisticcio della libera Chiesa in libero Stato, che è un paradosso in Italia e in questi tempi. E noi che conosciamo quanto voi e quanto i preti che il dogma cattolico non ammette il pensiero nazionale [...] non concederemo diritti politici a sudditi di due poteri.

Naturalmente non mancavano settori del liberalismo conservatore sensibili all’influsso del cattolicesimo, poco inclini alla retorica della «terza Roma» (dopo quella imperiale e papale) e sostanzialmente contrari a fare di Roma la capitale del paese. Per uomini come Jacini bisognava orientarsi verso soluzioni di più basso profilo, che salvaguardassero il primato papale dall’inevitabile conflitto politicoreligioso che avrebbe distrutto l’ultimo grande scudo morale della civiltà. La corrente «antiromana» si alimentava anche della non troppo velata polemica regionalista, che paventava un processo di «meridionalizzazione» del paese. Una diffidenza nei confronti di Roma capitale d’Italia a cui si associava parte dell’opinione pubblica internazionale, inquieta circa i destini della Città Eterna e per nulla convinta del suo ruolo di capitale di uno Stato non apparso all’altezza dei valori universali rappresentati da Roma. Su posizioni estreme si collocava ovviamente l’intransigentismo cattolico, secondo cui il mantenimento del potere temporale del Pontefice non aveva alternative. Il Papa era infatti ritenuto detentore di un legittimo potere sovrano e non poteva essere privato dell’at-

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tributo territoriale senza perdere, anche sul piano internazionale, il peso politico che derivava da tale sovranità. In questo senso, l’indipendenza garantita dal governo italiano al Papa nell’esercizio del suo magistero non avrebbe ridotto la mutilazione patita dalla Chiesa, intesa come societas perfecta, nel campo del diritto internazionale. Lo stesso «sbarramento» dottrinale affidato nel 1864 all’enciclica Quanta cura e al Sillabo (elenco di 80 proposizioni, sintesi dei più comuni «errori» dei tempi moderni), rimarcava, subito dopo la Convenzione di settembre, l’indisponibilità politica a soluzioni di compromesso; posizione questa peraltro confermata dal Concilio Vaticano I, aperto da Pio IX l’8 dicembre 1869, in cui venne proclamato il dogma dell’infallibilità del Papa in materia di fede e di morale. Tali prese di posizione finirono di deteriorare i rapporti tra lo Stato italiano e quello pontificio, già seriamente compromessi dalla legge del luglio 1866, con cui si requisivano a favore del demanio i beni di proprietà delle congregazioni e degli ordini religiosi, privati altresì di ogni riconoscimento giuridico, e da quella dell’agosto 1867, che sopprimeva gli enti ecclesiastici liquidandone il patrimonio a favore dello Stato. Da Mentana a Porta Pia Dopo Mentana le trattative diplomatiche si arenarono e la situazione internazionale rimase in fase di stallo fino all’estate del 1870, mentre importanti cambiamenti avvenivano all’interno del quadro politico italiano. Quando, nel maggio 1869, Menabrea presentò alla Camera il suo terzo governo definendolo un «ministero della conciliazione», il fronte dell’opposizione di Destra si profilava ben nutrito e abbastanza compatto; oltre a Bonghi, ostili al nuovo ministero apparvero subito anche gli uomini della Destra piemontese, in primo luogo Giovanni Lanza, Quintino Sella e Alfonso La Marmora. Il motivo di tale generalizzato malcontento risaliva ad un provvedimento finanziario proposto nell’estate del ’68 dal ministro Luigi Cambrai-Digny, consistente nella cessione per 15 anni del Monopolio dei tabacchi, dietro il pagamento di un consistente anticipo, alla società anonima Credito Mobiliare, riservando tuttavia allo Stato una partecipazione agli utili. Diffusasi immediatamente la notizia, fomentata dalla stampa di sinistra e radicale, di commistioni fra banche e pubblica finanza che avrebbero coinvolto una sessan-

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tina di deputati (secondo voci attendibili anche il Re aveva ottenuto benefici dall’operazione), si costituì una commissione d’inchiesta, la quale però concluse i propri lavori con un verdetto piuttosto vago di «non indegnità» che lasciò tutti insoddisfatti. La chiusura della sessione parlamentare non placò le tensioni, tanto che alla riapertura dei lavori il governo Menabrea non ottenne la fiducia e si dimise, costringendo il Sovrano a rivolgersi a Sella, che a sua volta preferì affidare la presidenza del governo a Lanza, tenendo per sé solo il dicastero delle Finanze. Il ministero Lanza-Sella, per la prima volta dopo il 1864 espressione diretta di una maggioranza parlamentare, costituì una tappa fondamentale nell’affermazione del sistema rappresentativo e Vittorio Emanuele cominciò ad accettare l’idea di perdere talune sue prerogative (come la nomina dei senatori e la scelta del periodo delle elezioni); è anche vero, tuttavia, che il Re continuò segretamente ad impegnarsi nella preparazione di una nuova guerra europea e a condurre una propria personale politica estera alle spalle del nuovo ministro Visconti Venosta. Aveva infatti avuto con l’Imperatore francese segreti scambi epistolari in cui, dichiarandosi «moralmente» impegnato a unirsi a lui in caso di guerra europea, profilava una possibile alleanza offensiva tra Italia, Austria e Francia una volta ritirata la guarnigione francese da Roma. Solo il 9 luglio 1870, quando ormai era giunta la notizia della candidatura di Leopoldo di Hohenzollern al trono di Spagna e Vittorio Emanuele aveva nuovamente confermato alla Francia il proprio impegno di sostenerla nella guerra contro la Prussia, i ministri italiani furono informati delle «promesse» private fatte a Napoleone III. Quando, il 19 luglio, la Francia mosse guerra alla Prussia, l’Italia, come del resto l’Austria, l’Inghilterra e la Russia, dichiarò immediatamente la propria neutralità; ma all’interno le opinioni sul da farsi erano profondamente discordi. Mentre il Re e la maggior parte dello Stato maggiore propendevano per l’intervento a fianco dei francesi, gli ambienti politici tanto di Destra quanto di Sinistra erano favorevoli, pur con varie sfumature, alla conservazione della neutralità. Mentre il Re sembrava pronto a tutto pur di entrare in guerra, fu grazie alla capacità di mediazione di Visconti Venosta, scambiata talvolta per «morbidezza» o per eccessivo scrupolo religioso, che l’Italia riuscì a rimanere neutrale e ad evitare una sconfitta che, tra l’altro, avrebbe messo in pericolo le sorti stesse della monarchia. Il

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marchese Emilio Visconti Venosta, uno dei più autorevoli e capaci ministri degli Esteri dell’Italia liberale, aveva avuto trascorsi mazziniani ma era poi passato nelle file liberali, diventando uno «zelatore di Cavour». Nel 1870, comunque, se l’alleanza con Napoleone non diventò operante lo si dovette, oltre che all’abilità del ministro degli Esteri, probabilmente anche ai sospetti presenti nelle diplomazie austriaca e francese circa l’ambiguo e contraddittorio comportamento italiano. Alla notizia delle prime sconfitte francesi, il Sovrano cominciò a mostrarsi più cauto all’idea dell’intervento e preferì a quel punto non compromettersi dinanzi alle richieste sempre più insistenti dell’Imperatore. Da parte sua il governo, rivolta nuovamente la propria attenzione alla questione romana, decise di costituire un Corpo di osservazione dell’Italia centrale, posto sotto il comando del generale Raffaele Cadorna, e di chiedere al Parlamento uno stanziamento straordinario di 40 milioni per le spese militari necessarie a «proteggere, in qualsiasi evento [...] gli interessi dell’Italia». In realtà dietro a questa formula piuttosto evasiva si nascondeva il bisogno di cautelarsi da possibili interventi di volontari nello Stato pontificio, proprio mentre i francesi stavano completando l’allontanamento delle truppe; d’altra parte, il governo non voleva lasciarsi sfuggire l’occasione storica della guerra franco-prussiana per risolvere definitivamente il problema romano. Il presidente del Consiglio infatti, pur ribadendo che a Roma non si poteva andare con la forza e tantomeno subito, contestualmente affermò la necessità di «approfittarsi di tutte le opportunità e di tutte le contingenze politiche per poter arrivare allo scioglimento della questione» e su questa base la Camera gli accordò la fiducia. Le proteste dei radicali per «l’abbandono di Roma» si spensero di fronte alla notizia della sconfitta francese a Sedan, che convinse il governo ad occupare quello che rimaneva dello Stato pontificio. La proclamazione della repubblica in Francia, infatti, persuase tutti i ministri del fatto che qualunque vincolo dell’Italia era ormai venuto meno. Falliti tutti i tentativi di risoluzione diplomatica, le operazioni militari cominciarono quindi il 12 settembre. Le truppe del generale Cadorna arrivarono senza difficoltà sino alle porte di Roma, dove attesero l’esito negativo dell’ultima proposta di conciliazione offerta a Pio IX per evitare un’occupazione violenta, prima di sferrare, il 20 settembre, l’attacco che avrebbe permesso ai bersaglieri di entrare a Roma attraverso la breccia aperta dall’artiglieria a Porta Pia.

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La riluttanza che accompagnò la storica impresa, nonostante le pressioni che giungevano da gran parte degli ambienti politici e dell’opinione pubblica, fu dovuta alle perplessità di una parte della classe dirigente moderata ad adottare il criterio «azionista» del fatto d’armi, estraneo all’immagine che la Destra voleva accreditare presso le diplomazie europee a seguito del ripristino di un ordine internazionale minacciato dal perdurare dell’incertezza romana. Al plebiscito che il 2 ottobre sanzionò l’annessione dello Stato pontificio con 133.681 voti favorevoli e 1507 contrari, Pio IX rispose con l’enciclica Respicientes in cui denunciava la sua condizione di «prigioniero», condannava come «ingiusta, violenta, nulla e invalida», l’occupazione dello Stato pontificio e scomunicava Vittorio Emanuele e tutti coloro che avevano reso possibile «l’usurpazione». Il contegno della monarchia apparve, ancora una volta, dimesso ed esitante. Quest’incertezza e la «profonda e complessa superstizione [che] occupava tutti gli spiriti» per «l’immensa importanza del papato, signore di duecento milioni di cattolici»5 si videro chiaramente quando fu il momento di decidere il trasferimento della famiglia reale a Roma. Vittorio Emanuele cercò di procrastinare il più possibile la partenza da Firenze, nel timore di non essere bene accolto dalla popolazione romana, e volle comunque evitare un ingresso trionfale come aveva fatto a Milano, Firenze, Napoli, Palermo e Venezia. A questo proposito Alfredo Oriani, intellettuale «ribelle» e fuori dagli schemi, più tardi osserverà che se il Re fosse entrato trionfante sotto le mura di Roma «sarebbe stata la più epica figura del secolo, degna di appaiarsi con Garibaldi; invece la sua lettera di scusa al Pontefice e dal Pontefice sdegnosamente respinta, le sue tergiversazioni diplomatiche, scopersero in lui il piccolo re di Piemonte, cui la rivoluzione aveva potuto dare l’Italia, ma non la grande coscienza della sua nuova era»6. Vittorio Emanuele II si presentò a Roma solo il 31 dicembre 1870, cogliendo l’occasione di uno straripamento del Tevere che rendeva necessaria una sua visita di solidarietà alle vittime. L’iniziale entusiasmo per la soluzione del problema romano (a cui peraltro non si associò Mazzini, arrestato nell’agosto del 1870 mentre stava organizzando un movimento insurrezionale

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  A. Oriani, La lotta politica in Italia, Cappelli, Rocca S. Casciano 1969, p. 351.   Ivi, p. 349.

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repubblicano per la conquista di Roma e amnistiato poco dopo la conquista della nuova capitale) doveva comunque smorzarsi di fronte ai problemi immediati sollevati dall’impresa. Il rapido trasferimento della capitale da Firenze a Roma si presentava infatti particolarmente delicato, in quanto il governo sembrava intenzionato ad attendere «che lo spirito rivoluzionario che ancora ci spinge e travaglia avesse dato luogo allo spirito conservativo»7. Si paventava, inoltre, il rischio di una possibile e, sul piano internazionale, disastrosa, fuga del Papa. Per fare di Roma una capitale civile e non solo morale bisognava, secondo i liberal-moderati, arrivare prima di tutto ad una regolamentazione dei rapporti con la Chiesa sulla falsariga del progetto cavouriano. Minghetti, ad esempio, pur essendo favorevole al trasferimento della capitale, giudicava fuori luogo l’«impazienza» della Sinistra, che avrebbe pregiudicato l’esito della discussione sulle garanzie da concedere al Papa. Ampia e controversa doveva rivelarsi la discussione sul disegno di legge relativo alle garanzie d’indipendenza del Papa per il libero esercizio del suo magistero spirituale. Per i liberali infatti, la sistemazione dei rapporti col papato rappresentava il vero completamento del programma nazionale. Soprattutto avrebbe dato all’Italia l’occasione a lungo cercata di mettersi in luce dinanzi alle potenze europee, persuadendo tutti quanti che non c’è bisogno di «recarsi agli Stati Uniti per trovare un popolo che rispetti la libertà di coscienza e de’ culti»8. L’originale progetto di legge delle guarentigie, presentato alla Camera da Lanza il 9 dicembre, ricalcava pienamente l’ideale cavouriano di una conciliazione che assicurasse l’autonomia pontificia in campo spirituale e garantisse l’indipendenza della Santa Sede, oltre ai compensi per le perdite territoriali. Tale impianto però, dopo un lungo lavoro di mediazione tra le diverse tendenze della politica ecclesiastica, fu modificato da una commissione camerale che vi introdusse alcune restrizioni giurisdizionalistiche, col fine di mediare tra la più ampia indipendenza del Pontefice voluta dal governo e la necessità, sostenuta soprattutto a Sinistra e da una parte della Destra, di conservare allo Stato certi diritti di tutela in materia di benefici ecclesiastici.

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  «L’Opinione», 21-9-1870.   Le truppe italiane a Roma, in «L’Opinione», 15-9-1870.

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Nel dibattito alla Camera la Destra apparve divisa tra i sostenitori del rigido separatismo di matrice cattolico-liberale, come Minghetti e Ricasoli, e i fautori del giurisdizionalismo realistico capeggiati da Bonghi. Secondo Minghetti, la Chiesa doveva essere vista come «una società che vive dentro lo Stato e quindi soggetta alla legge comune», in questo senso priva di particolari privilegi, ma assolutamente autonoma. Dal canto suo Bonghi riteneva che eliminare il placet e l’exequatur, senza una compiuta sistemazione giuridica e amministrativa dei beni ecclesiastici, avrebbe finito per dare alla Curia romana l’intero potere di gestione dei benefici. Anche una cospicua parte della Sinistra era contraria a concedere al Pontefice altri privilegi che non fossero quelli relativi alle sue funzioni spirituali. «Voi, ammettendo al Papa una sovranità sui generis – disse Crispi – [...] e dichiarando la sua inviolabilità, implicitamente darete ragione a coloro i quali opinano che il Papa per l’esercizio del ministero spirituale ha bisogno del potere temporale [...]. Al Papa voi dovete ogni libertà, ma non dovete costituirne una potenza giuridica che non è conforme alla legge». Il risultato fu un compromesso che conservò allo Stato un certo potere di controllo giurisdizionale, lasciando però alla Chiesa un’ampia libertà d’azione. La legge delle guarentigie, composta complessivamente da 20 articoli, venne introdotta il 15 maggio 1871. Definiva «sacra e inviolabile» la figura del Papa, garantiva autonomia di gestione di guardie personali, palazzi apostolici e dava veste giuridica alle assicurazioni sulla libertà della Chiesa. Pio IX rispose lo stesso giorno della pubblicazione della legge sulla «Gazzetta Ufficiale» con l’enciclica Ubi nos, in cui denunciava la macchinazione che lo aveva privato dell’insostituibile «civile principato» e definiva i provvedimenti un inganno per i cattolici. Con la legge delle guarentigie veniva meno sia la prospettiva cattolico-liberale di una riforma morale della Chiesa, completamente separata dallo Stato e «liberata» dall’antica struttura gerarchica e autoritaria, sia quella del laicismo anticattolico. Si imponeva invece l’idea di un contemperamento tra separatismo e giurisdizionalismo, in quanto la riaffermazione dell’autorità dello Stato non doveva essere disgiunta dalla realistica valutazione del ruolo e dell’influenza della Chiesa sulla scena internazionale e sulla società civile italiana. Il 1° luglio 1871 la capitale d’Italia veniva ufficialmente trasferita a Roma. Il giorno successivo, con l’ingresso solenne di Vittorio Emanuele, potevano considerarsi formalmente raggiunti gli obiettivi storici del Risorgimento italiano.

III La «prosa» della destra (1871-1876) Il risanamento pedagogico Completata l’unificazione, gli originari assetti politici, privati delle forti motivazioni ideali che avevano sostenuto l’azione della classe dirigente sino all’ingresso dei bersaglieri a Roma, cominciarono a sgretolarsi. Le elezioni del novembre 1870, svolte sulla base di programmi generici, ebbero la più bassa percentuale d’affluenza alle urne della storia dell’Italia liberale, a riprova che la presa della capitale era stata percepita dalla maggior parte dell’opinione pubblica più come un problema che come un successo. Nell’occasione si era assistito all’ingresso di 184 nuovi deputati, la maggior parte collocati in un non meglio definito «centro» che rendeva ancora più difficile stabilire in modo netto i confini tra le componenti del liberalismo italiano. La Destra, comunque, uscita politicamente rafforzata da questa prova elettorale, mantenne inalterate le proprie caratteristiche di élite «pedagogica» e perseguì i propri obiettivi senza particolare riguardo al problema delle mediazioni necessarie ad estendere la base politico-parlamentare del proprio potere, come dimostrò l’aspra politica fiscale di Sella durante il governo Lanza. La questione del pareggio, che era stata fin dal ’61 il chiodo fisso dei moderati e il nucleo attorno a cui consolidare, nei momenti difficili, la convergenza delle opinioni, fu infatti l’altro grande obiettivo, insieme alla soluzione del problema romano, del governo Lanza-Sella. Nel discorso d’insediamento del nuovo ministero, il 15 dicembre 1869, il presidente del Consiglio disse che la questione finanziaria era «l’unum et necessarium, senza il quale tornerà impossibile al paese di dare il necessario svolgimento all’esercito, alla marina militare

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ed a tutti i lavori pubblici, e di far sì che il credito possa infondere una novella vita in tutti i rami dell’industria privata». Ma la radicalità delle misure proposte e la fermezza di Sella, che sembrava non tollerare attenuazioni o ripensamenti, inizialmente sconcertarono persino la maggioranza, nonostante venisse ribadita la necessità che il problema del pareggio fosse posto non «come quistione di partito, ma come quistione del paese [...] nella quale a tutti tocca, è dovere di aiutare»1. Anche in questo caso la Destra dimostrò la convinzione che, per ragioni di alta politica e per necessità pratiche, era opportuno guidare il paese con una fermezza di propositi e una unità d’intenti impensabili qualora fosse stata necessaria una più larga ricerca del consenso: una legittimazione che, peraltro, gli eredi di Cavour ritenevano priva di significato in un paese la cui arretratezza economicosociale, così come emergeva dai frequenti censimenti successivi all’unità, era ritenuta sinonimo di limitata autonomia di giudizio politico. In tal senso fu indicativa l’indagine promossa nel 1869 dal ministro dell’interno Cantelli, il quale, al fine di conoscere eventuali mutamenti dell’opinione pubblica sul tema del decentramento amministrativo, aveva inviato ai prefetti alcuni quesiti per capire «fino a che punto po[tesse] esplicarsi l’autonomia dei comuni e delle province, senza togliere forza all’ingerenza dell’autorità governativa»2. La società civile dunque, per la Destra, continuava ad essere un oggetto da plasmare e la cui interpretazione era rimessa nelle mani degli organi addetti al suo controllo, che dal canto loro non potevano ovviamente non ribadire l’importanza del sistema amministrativo che li legittimava. Il problema del decentramento, sollevato soprattutto dalla borghesia centro-settentrionale, era d’altronde l’espressione di un malcontento di cui si faceva interprete l’opposizione di Sinistra, ma che trovava consensi anche in alcuni settori della Destra. Dal criterio opposto ma speculare dello statalismo «incompiuto» e comunque insufficiente, si muoveva invece la Sinistra meridionale per denunciare quella che veniva considerata la parzialità regionalista dei governi di Destra, accusati di favorire con i lavori pubblici l’Italia settentrionale a scapito di quella meridionale.   «La Perseveranza», 19-3-1870.   Citato in R. Romanelli, Il comando impossibile. Stato e società nell’Italia liberale, Il Mulino, Bologna 1988, p. 77. 1 2

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Fra il 1868 e il 1872 il problema del «malessere amministrativo» ed il tentativo di rilancio dell’ordinamento regionale da parte di alcuni gruppi della Destra tornarono ad occupare sia l’agenda del governo sia i dibattiti sulla stampa. Le varie proposte, tra cui la più significativa venne dal conte piemontese Gustavo Ponza di San Martino, vennero tuttavia accolte con diffidenza dalla maggior parte della Destra e non ebbero miglior fortuna di quelle avanzate da Minghetti nel 1861. I moderati, insomma, ancora una volta accantonavano il problema del decentramento amministrativo, liquidandolo come il prodotto delle «facili accuse dei malcontenti», e riconfermavano la propria fiducia in un processo di acculturazione politica e di maturazione civile che poteva venire solo «dall’alto» e, specificatamente, dagli eredi di Cavour. In attesa che la cultura facesse ordine nelle teste, al momento refrattarie, delle masse contadine, la classe dirigente italiana decise quindi, con qualche timore, di farle partecipi di un altro tipo di ordine, quello militare. A partire dal 1871 venne avviato un vasto movimento di riforma dell’organizzazione dell’esercito che avrebbe radicalmente modificato la struttura di base e i principi informatori delle forze armate italiane. Ispirate dalla duplice esigenza di contenere le spese militari e garantire l’inderogabile esigenza degli eserciti moderni, ossia la rapida mobilitazione di grandi masse di soldati, le leggi di riforma approvate tra il 1871 ed il 1876 introdussero il modello prussiano incentrato sul servizio di leva breve (tre anni) ma generalizzato, senza possibilità, teoricamente, di farsi sostituire a pagamento («affrancazione»). Al modello prussiano fu aggiunta la variante del reclutamento su base nazionale, ritenuto l’unica garanzia per poter utilizzare l’esercito anche in compiti di gestione dell’ordine pubblico. La riforma dell’esercito, cioè dell’unica organizzazione di massa con cui la classe dirigente liberale intendeva convivere, si prestava meglio che in ogni altro settore ad evidenziare il contraddittorio rapporto tra il bisogno delle élites di radicare le istituzioni nella società (e viceversa) e il timore di attivare d’altra parte un processo di mobilitazione di masse facili prede di forze anti-sistema. Fautore dell’adozione di questo tipo di ordinamento per l’esercito italiano fu il generale Cesare Ricotti Magnani, ministro della Guerra dalla presa di Roma alla caduta della Destra. Un grande tema attorno a cui si concentrò l’attività del governo dopo la presa di Roma fu quello del risanamento finanziario, dal momento che le spese militari, l’assunzione del debito pubblico pontificio e i costi del trasferimento della capitale avevano nuovamente

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appesantito la situazione finanziaria del paese. Il 12 dicembre 1871 Sella propose una serie di provvedimenti quinquennali, con cui si richiedevano inasprimenti fiscali limitati in modo da poter avviare una politica economico-finanziaria mirata non solo al pareggio, ma anche ad un incremento di capitali produttivi. Il compromesso che aveva portato all’accettazione del programma finanziario quinquennale finì però per aprire una fase di stallo in cui, mentre le Consorterie lombarda e toscana sembravano insofferenti verso il «sistema Sella», la Sinistra preparava un’azione unitaria per un vero e proprio «assalto generale contro il ministero». Alla diffidenza della maggior parte degli uomini politici verso le energiche misure finanziarie di Sella si era aggiunta poi anche l’intolleranza per il carattere del ministro, considerato ostinato e incapace di vedere oltre le cose che «ammettono un preciso peso, numero e misura»3. L’autorevolezza di Lanza, sempre attento alle mediazioni, era peraltro oramai in declino, appena sufficiente a procrastinare per un anno l’agonia del governo la cui fine giunse nella primavera del ’73 quando si discussero le nuove misure finanziarie proposte da Sella. Vittorio Emanuele invitò Minghetti a formare un nuovo governo consigliandogli di tenere in considerazione uomini della Sinistra moderata e dei gruppi della Destra che avevano osteggiato la politica finanziaria di Sella. Significativamente come primo nome indicò proprio Depretis, che si stava affermando come capo della Sinistra moderata e del vecchio Centro-sinistra rattazziano. In questo modo dimostrava la propria disponibilità ad accogliere, se non ancora un governo di Sinistra, almeno uno in cui la Sinistra avrebbe potuto occupare una parte non secondaria. Minghetti accolse di buon grado i suggerimenti del Sovrano, convinto che fosse «difficilissimo fare un ministero di destra pura», ma a nulla valsero i suoi sforzi per accordarsi con Depretis e col gruppo moderato toscano di Peruzzi. Sfumata quindi, per il momento, la possibilità di un «connubio» con Depretis, Minghetti costituì il 10 luglio un governo di sola Destra, riservandosi anche il dicastero delle Finanze. Qualcuno, non a torto, lo giudicò la «vera espressione della realtà, né carne né pesce, né vecchio, né nuovo», ma nessuno poteva imprimergli unità d’azione e coerenza meglio dello statista bolognese, uomo colto, grande affabulatore, maestro nell’o-

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  G. Finali, Memorie, Lega, Faenza 1955, p. 243.

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pera della mediazione, «indulgente e sereno» anche quando si trattò di guidare una Destra senza più «alcuna vitalità politica». La formazione del governo coincise con l’inizio di una crisi economica generale che, scoppiata improvvisamente alla Borsa di Vienna nel maggio del ’73, raggiunse il suo culmine in Italia nell’ottobre dello stesso anno; tornarono quindi alla ribalta i problemi finanziari e quelli relativi alla circolazione di moneta cartacea, di cui gli speculatori e gli uomini d’affari chiedevano un incremento. La legge bancaria presentata dal governo, preparata con l’ausilio di un economista di «grande d’autorità» come Luigi Luzzatti, fu la prima legge organica di riordino degli istituti di emissione, che mirava sia a contenere l’inflazione sia a limitare l’egemonia della Banca Nazionale; istituiva infatti un consorzio tra sei istituti di emissione e attribuiva solo ad esso la facoltà di emettere biglietti a corso forzoso e a corso legale. La legge venne approvata alla Camera da una schiacciante maggioranza, a cui aderì anche una parte della Sinistra. Molto più difficoltosa si rivelò invece la discussione sui provvedimenti finanziari che il presidente del Consiglio aveva presentato insieme alla legge bancaria; la Sinistra li definì «una copia stereotipata di quelli abitualmente presentati da Sella» e per un solo voto, il 24 maggio, la Camera bocciò il progetto finanziario del governo. Minghetti, respinte dal Re le dimissioni dell’intero gabinetto, decise di andare alle elezioni, come era richiesto con insistenza dalle forze di Sinistra. All’interno di una campagna elettorale in cui la Destra ritrovò una sostanziale unità attorno ai suoi due uomini più rappresentativi, il primo ministro uscente e l’ex ministro delle finanze Sella, il 4 ottobre 1874, a Legnago, Minghetti annunciò la preparazione di alcuni progetti di legge per il risanamento finanziario (riforma dei dazi di consumo e perequazione dell’imposta fondiaria) ma, pur riaffermando la centralità del pareggio del bilancio e la necessità di non accrescere le imposte, non rinunciò ad elencare una serie di spese indifferibili, lasciando in questo modo aperto uno spiraglio a possibili accordi con alcune frazioni della Sinistra. Si soffermò, inoltre, sui provvedimenti che il governo intendeva prendere sia per combattere le tentazioni sovversive «rosse» e «nere», sia per ristabilire la legalità nelle regioni infestate dal fenomeno mafioso e camorristico. Dal canto suo Sella, pur complessivamente conciliante rispetto al programma minghettiano, non rinunciò a rimarcare l’esigenza di limitare le spese solo a quelle «ben necessarie», evitando aggravi fiscali a cui era fortemente

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contrario. Tale prospettiva rendeva Sella decisamente più scettico di Minghetti sulla possibilità di favorire, con una politica di concessioni nella spesa pubblica, la nascita di gruppi «intermedi» più possibilisti ad un accordo con il governo: «Io non mi fido della Sinistra per ciò che riguarda la questione finanziaria [...]. In sostanza, di regola generale, votò le spese; trovò anzi che non si spendeva abbastanza. [...]. Per contro, di regola, non votò le imposte»4. A Sinistra la campagna elettorale aveva accentuato il distacco, ormai in atto da tempo, tra la componente più moderata, detta «giovane», e quella «storica». Già in agosto, in un articolo-manifesto dei «giovani» sottoscritto da De Luca, De Sanctis e da molti deputati della Sinistra meridionale era stato affermato, in polemica con il previsto riformismo della Sinistra, che «il paese ora non chiede riforme politiche, chiede riforme finanziarie e amministrative, sicché la vera riforma politica oggi è questa»5. Un’esigenza di pragmatismo che uno dei più attivi esponenti della Sinistra meridionale, il campano Nicotera, riuscì abilmente ad assorbire all’interno del proprio progetto politico, inteso a fare del Meridione il cuore della contrattazione tra le componenti politiche, dando maggiore forza alle rivendicazioni fiscali e ai lavori pubblici del Mezzogiorno. In questo senso le elezioni del 1874 s’incentrarono sul tentativo di Nicotera di spezzare la tradizionale egemonia della Destra, basata su coalizioni antimeridionaliste, utilizzando la leva dell’endemico malcontento del Mezzogiorno. I risultati elettorali diedero ragione al deputato campano: i liberali moderati persero 30 seggi pur conservando la maggioranza, che però aveva ormai una nettissima configurazione regionale, essendo quasi tutta concentrata nelle regioni del Centro-Nord. Dei 276 deputati governativi, infatti, solo 56 provenivano dal Mezzogiorno, mentre dei 232 rappresentanti dell’opposizione solo 85 non erano meridionali. La Sinistra meridionale riuscì così ad assumere un peso rilevante nelle scelte delle strategie politiche dello schieramento nazionale, sino ad allora dettate soprattutto da esponenti lombardi e piemontesi. Grazie all’abile mediazione di Depretis la Sinistra poté comunque mantenere un assetto unitario, che si rivelò decisivo nel 4  Citato in A. Berselli, Il governo della Destra. Italia legale e Italia reale dopo l’Unità, Il Mulino, Bologna 1997, p. 536. 5  Citato in G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. VI, Lo sviluppo del capitalismo e del movimento operaio (1871-1896), Feltrinelli, Milano 1970, p. 26.

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minare le resistenze di una Destra tornata, dopo il negativo esito delle elezioni, alle tradizionali divisioni interne. Il nuovo governo Minghetti si affidò ad una maggioranza risicata e piuttosto fluida. Nonostante tale debolezza, il presidente del Consiglio volle intraprendere la strada dell’intensa attività programmatica, a cominciare dal progetto di legge per garantire al governo poteri eccezionali di pubblica sicurezza e la sospensione delle garanzie statutarie nelle province in cui l’ordine pubblico appariva seriamente minacciato. Il disegno di legge, che nasceva dall’esigenza di colpire la recrudescenza del fenomeno malavitoso in Sicilia, acuì il conflitto con la Sinistra, che denunciò l’intima connessione tra la criminalità siciliana e la gestione politica dell’isola da parte di tutti i governi della Destra; frattanto in Sicilia, anche su sollecitazione della stampa e di alcuni deputati, esplosero violente manifestazioni di protesta in cui si chiedeva il ritiro di una legge che era «un atto di reazione politica». Di fronte al clamore provocato nel paese dalle accuse dell’opposizione, la Destra serrò le fila garantendo il passaggio della legge, che tuttavia non trovò poi alcuna applicazione concreta. La mafia, realtà presente soprattutto nella Sicilia occidentale, stava dunque assumendo una rilevanza politica, al pari della guerra che si intendeva condurre nei suoi confronti. Il fenomeno mafioso definiva, non diversamente da quello della camorra napoletana, un genere particolare di organizzazione criminale interessata non solo all’esercizio delle attività illegali, ma anche ad un vero e proprio controllo del territorio, imposto attraverso intimidazioni e violenze. Quindi, in virtù di un forte radicamento tra le popolazioni e dell’alto livello della provenienza sociale di molti suoi membri, la mafia si presentava soprattutto come un sistema illegale di gestione dei rapporti di potere all’interno di gruppi, famiglie ed élites locali. In questo senso le organizzazioni mafiose (e camorristiche) riuscirono a rafforzarsi, nonostante alcuni tentativi repressivi nel primo ventennio unitario, trasformando la rete di relazioni con le autorità locali in un’occasione di integrazione nel sistema e talvolta di scambievole complicità con i rappresentanti delle istituzioni. La rivoluzione parlamentare Il consolidamento della Destra sul tema dell’ordine pubblico convinse ulteriormente Nicotera, nonostante l’ostilità della Sinistra

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democratica settentrionale e la cauta perplessità di Depretis, a proseguire le trattative per un possibile incontro con alcuni settori della Destra, al fine di creare un governo che avesse come obiettivo primario il recupero economico e sociale del Mezzogiorno. Depretis, sceso in campo per arginare pericolose fughe in avanti di Nicotera, il 10 ottobre 1875 tenne a Stradella un importante discorso, con cui intendeva ripristinare l’unità delle componenti della Sinistra sulla base di un programma di riforme graduali. Partì dalla politica ecclesiastica, sostenendo in tutti i modi la necessità di combattere il clericalismo, un partito che «sotto il manto della religione nasconde[va] le sue viste di mondana politica e la sua avidità di dominio». Disse che bisognava promuovere l’istruzione elementare laica, obbligatoria e gratuita e, in tema di allargamento del suffragio, affermò che «all’elemento, certo importante, della possidenza debba aggiungersi anche l’altro, più rispettabile, della intelligenza»; una riforma che avrebbe dovuto superare alcune diffidenze anche nella Sinistra, dove c’era ancora chi temeva «che la grande estensione del suffragio po[tesse] includere nel corpo elettorale elementi pericolosi». Si dichiarò inoltre favorevole ad un parziale decentramento. Poche parole, infine, sulla politica estera: «l’Italia ha bisogno di quiete [...]; ma è evidente che le sue simpatie si volgeranno verso i popoli e verso i governi che sono decisi a procedere sulla via della civiltà». In materia finanziaria Depretis, probabilmente al corrente del raggiungimento del pareggio, rese omaggio all’opera dei propri avversari ma volle anche sottolineare che «la vita d’un popolo non consiste tutta nei computi del pareggio»; quanto all’accusa che la Sinistra «non vuole le imposte», ribadì la sua contrarietà alla tassa sul macinato, ritenendola «la negazione dello Statuto», e disse che l’obiettivo dell’opposizione non era quello «di abolir tasse, di renderle meno fruttifere [...]», ma semmai «di temperarle, di togliere le vessazioni che sono veramente eccessive». Tra il 1861 e il 1876, grazie alla spietata politica finanziaria della Destra, le entrate avevano avuto un incremento decisamente superiore a quello delle spese. Nonostante i tentativi di attenuare la sperequazione fiscale con l’introduzione dell’imposta di ricchezza mobile (luglio 1864) e della rendita pubblica, la Sinistra ebbe comunque buon gioco nel denunciare che le imposte indirette pesavano proporzionalmente di più sui ceti meno abbienti. Le cautele e i distinguo con cui Depretis aveva condotto le proprie argomentazioni permisero una larga convergenza di gran parte delle forze della

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Sinistra, trasformando quel discorso nel manifesto politico di una forza che si candidava realisticamente alla guida del paese. Tale programma intendeva comunque ribadire, in polemica con Nicotera, la volontà di non disperdere l’identità politica della Sinistra in cambio di una frettolosa prospettiva di governo. Il leader dell’opposizione, richiamandosi a Crispi, disse che «i partiti politici che non sanno aspettare, non meritano di andare al governo del loro paese»6. La positiva accoglienza riservata dalla Sinistra all’intervento del proprio leader non scoraggiò Nicotera dal proseguire sulla strada degli accordi a destra. Fallita l’ipotesi di un’intesa con Sella, il deputato campano prese contatto con la Destra toscana di Ubaldino Peruzzi, all’epoca in rotta di collisione con il governo Minghetti sul progetto di statalizzazione delle ferrovie. La questione divenne ben presto l’occasione per la resa dei conti tra le due diverse anime della Destra storica. Non si trattava solo di divergenze tra teorie economiche, ma di uno scontro d’interessi che vedeva in campo il liberismo degli agrari meridionali contrapposto ai primi nuclei d’industrializzazione, legati per un verso o per l’altro ad un attivo ruolo dello Stato. Mentre la Sinistra si dichiarava liberista e ostile a ogni forma di regolamentazione economica statale, la Destra era attraversata in proposito da una maggiore incertezza. Il tema, di fronte all’emergere di una «questione sociale» non più riconducibile al convincimento moraleggiante della «carenza» di liberalismo, divenne così una discriminante decisiva nella polarizzazione di una classe politica che stava perdendo l’antica partizione risorgimentale. Il dibattito politico s’incentrava sempre più spesso sul problema di quale fosse la strategia di sviluppo in grado di assicurare una coerente esplicazione dei principi liberali di cui tutti si professavano difensori legittimi. Il liberismo, che sino a quel momento aveva rappresentato lo specchio fedele dell’identificazione fra libertà economica e libertà politica, cominciò proprio in questi anni ad essere posto in discussione. A destra in particolare, la riflessione sul ruolo dello Stato nell’edificazione della società civile aveva condotto uomini come Sella, Luzzatti e Spaventa a considerare l’intervento pubblico in campo economico e sociale come una forza di razionalizzazione etica di interessi privati,

6  L. Lucchini (a c. di), La politica italiana dal 1848 al 1897. Programmi di governo, 3 voll., Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1899, vol. II, pp. 543-555.

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la cui somma spesso non era ritenuta sufficiente a garantire l’interesse collettivo. Minghetti si schierò quasi subito dalla loro parte, ritenendo che economia e morale dovessero procedere di pari passo per correggere gli eccessivi squilibri nella distribuzione della ricchezza. Da questo punto di vista la vicenda del riscatto delle ferrovie e della loro gestione apparve cruciale nel definire i rapporti di forza tra i due schieramenti. Le ferrovie italiane, fatta eccezione per quelle sarde, erano infatti state assegnate dalla legge del 14 maggio 1865 a quattro società; tale legge addossava allo Stato l’onere di sovvenzioni che, tuttavia, per la Società Vittorio Emanuele e per quella delle Strade Ferrate Romane non furono sufficienti a scongiurare il fallimento, con conseguente intervento statale. A questo punto, per il governo il riscatto delle ferrovie diventava un gesto di coerenza politica, in quanto svincolava dalla finanza estera un settore di così grande rilevanza strategica. Le trattative, affidate a Sella, rafforzarono presso gli avversari dell’esecutivo l’accusa di statalismo e bismarckismo, accusa con cui anche la Destra toscana si apprestava a disertare le file della maggioranza. Il quotidiano fiorentino «La Nazione» fece da cassa di risonanza della stampa italiana per tutte le opposizioni, muovendo una critica generale al tentativo dello Stato di «usurpare anche la libertà privata, e stendere mano su tutto, e contro ogni economica convenienza farsi industriale!»7. Nel febbraio 1876 Depretis e Nicotera raggiunsero un accordo definitivo proprio a partire dal giudizio politico della Sinistra sul tema delle convenzioni ferroviarie, che permetteva al deputato campano di perfezionare i contatti con i dissidenti toscani capeggiati da Peruzzi, in vista della battaglia parlamentare sulla gestione pubblica delle ferrovie. Il contrasto tra i due schieramenti apparve ben presto insanabile anche sul piano dei principi. Minghetti infatti, dopo una fase di incertezza, decise di accettare quella che definiva una «necessità dolorosa», e in un discorso del 31 ottobre 1875 rinunciò alfine ad ogni sfumatura: Mi preme di toccare un punto che da taluno è combattuto, ed è il principio del riscatto delle ferrovie. Imperocché essi reputano che allo Stato non convenga mai avere il possesso e l’esercizio delle ferrovie. A

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  Il riscatto e l’esercizio delle Ferrovie, in «La Nazione», 4-12-1875.

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questi si potrebbe rispondere che veramente all’industria delle ferrovie manca qualche carattere che qualifica tutte le altre, voglio dire la possibilità della concorrenza generale. E che l’esercizio ferroviario più che un’impresa di speculazione può riguardarsi come un servizio pubblico. [...]. Quando una società ha bisogno continuo dei sussidi e dei favori del Governo, quando perciò stesso il Governo deve esercitare sopra di essa un’ispezione quotidiana [...] allora veramente mi pare il caso che l’intervento del Governo sia giustificato, e che il riscatto meriti l’approvazione anche dei più puri e rigidi economisti8.

Ignaro degli accordi che si stavano svolgendo alle sue spalle, Minghetti comprese con colpevole ritardo il ribaltamento della maggioranza insito in tali manovre. Quando infatti a novembre comunicò al Re il pareggio finanziario, sembrava ancora certo che «questa operazione [avrebbe assicurato] la esistenza del Gabinetto per almeno altri due anni». Il raggiungimento del pareggio finì, paradossalmente, per acuire il «malumore della Toscana» e accelerare la frattura all’interno della maggioranza. Il 9 marzo 1876, in un clima di forte tensione, Spaventa presentò il disegno di legge sulle convenzioni ferroviarie e le norme sull’esercizio pubblico del servizio. Il 16 marzo Minghetti annunciò alla Camera il raggiungimento del sospirato pareggio del bilancio, a cui i deputati reagirono con «appena qualche plauso senza nessun entusiasmo». L’opposizione decise di evitare lo scontro diretto sul progetto di statalizzazione delle ferrovie e affrontò la prova del voto in aula su un argomento marginale, la mozione del deputato Morana sul metodo di riscossione della tassa sul macinato. Il 18 marzo Minghetti domandò di rinviare la discussione della mozione Morana per verificare la maggioranza sul vero motivo di conflitto. Depretis per la Sinistra, Cesare Correnti per quello che veniva definito il Centro (cioè una trentina di deputati per lo più settentrionali ostili al fiscalismo del governo) e la Destra toscana si espressero contro il rinvio della discussione. La richiesta di Minghetti fu così respinta dalla Camera con 242 voti contrari e 181 favorevoli. L’esecutivo presentò il giorno stesso le dimissioni, che furono accolte dal Re il quale, prendendo atto senza particolari timori dell’esaurimento di una fase politica («la mano alla ‘meccanica’ la tengo sempre io 8

  «La Nazione», 2 e 3-11-1875.

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– disse – e [...] saprò stringere i freni a tempo»9), incaricò il leader dell’opposizione Depretis di formare un nuovo governo. Composto esclusivamente da uomini della Sinistra (le ambizioni personali e le mai sopite rivalità regionali impedirono infatti qualsiasi accordo coi dissidenti della Destra) l’esecutivo entrò in carica il 25 marzo 1876. Quella che venne definita «rivoluzione parlamentare» non provocò alcun contraccolpo istituzionale, ma può essere considerata l’espressione dell’insofferenza di una parte del paese nei confronti del rigido pedagogismo della Destra, alle cui élites molti riconoscevano, soprattutto nella politica fiscale, un comportamento alieno da interessi di parte: Noi colla ricchezza mobile al tredici per cento – scrisse Luzzatti – inquietammo le classi borghesi e ricche; le ecclesiastiche coll’incameramento dei beni della Chiesa; col macinato e col dazio consumo abbiamo vessato le classi povere; offendemmo le tradizioni vivaci delle autonomie comunali con l’avocazione allo Stato di molti balzelli locali; e per ultimo, colla tassa sulla circolazione dei biglietti di banca [...] e colla proposta delle ferrovie di Stato, ci suscitammo contro persino la milizia disciplinata dei banchieri e degli uomini d’affari10.

La polemica degli «statalisti» contro lo strapotere dei centri finanziari privati conteneva una visione «etica» del ruolo dello Stato che appariva astratta se confrontata alle condizioni reali di un paese che stentava ad assumere un coerente impianto capitalistico. La civiltà – affermò Spaventa nel giugno 1876 – è l’unità della coltura e del benessere. Non si può dire popolo civile, dove solamente pochi sanno e godono [...]. Se questa è, come a me pare indubitabile, la direzione dei Governi moderni, ne segue di necessità che essi debbono opporsi per quanto possono agli effetti perniciosi di qualunque monopolio. Il monopolio è la potenza che impedisce di più alle moltitudini di partecipare al benessere che esso tesoreggia e ammassa nelle mani di pochi [...]. Dove non è solo il sordido interesse che ci spinge ad agire, ma l’adempimento di un dovere come nelle amministrazioni pubbliche, gli effetti dell’opera nostra si veggono non solo più morali, ma più utili che non nelle società private.   Citato in D. Mack Smith, Vittorio Emanuele II, Laterza, Bari 1972, p. 343.   L. Luzzatti, Memorie tratte dal carteggio e da altri documenti, 2 voll., Zanichelli, Bologna 1931, vol. I, p. 500. 9

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Uno sdegno che evidentemente non collimava con le contraddittorie esigenze di una borghesia in trasformazione, da cui saliva invece una domanda di mediazione di quei «sordidi interessi» e una conseguente esigenza di allargamento delle basi dello Stato attraverso una maggiore partecipazione politica. Da questo punto di vista, apparve subito più funzionale la disponibilità della Sinistra moderata a farsi carico della domanda, già da tempo presente nel dibattito politico, di assorbimento, se non dissolvimento, delle antiche divisioni partitiche e regionali. Non si tratta di mutare alleanze – disse Depretis il 18 marzo – né l’indirizzo politico in quelle grandi questioni, sulle quali è concorde il partito liberale, che ha basi molto più larghe di quello che si pensa in questa Camera; [...] si tratta di dare un indirizzo al Governo, che calmi un malcontento che esiste e si diffonde nelle popolazioni e che nessuno può disconoscere.

IV Delegittimati Repubblicani, anarchici e socialisti La caduta della Destra e l’avvento al potere della Sinistra apriva nel paese una simbolica prospettiva di trasformazione politica strettamente connessa alle speranze di quelle realtà sociali che erano state ignorate dalle aule parlamentari e i cui interpreti erano destinati alla delegittimazione politica, se non addirittura alla persecuzione penale. Infatti, fuori dal Parlamento e da opposti punti di vista, le nascenti organizzazioni del movimento operaio e di quello cattolico, pur prive di effettive possibilità di successo, mantenevano in vita il potenziale esplosivo della contestazione della legittimità del sistema. Subito dopo l’unificazione, il principale ispiratore della politica della Sinistra italiana fuori dalle aule parlamentari fu Giuseppe Mazzini, che continuava a ritenere l’Italia sabauda non una vera nazione ma solo il suo involucro. Per il patriota genovese il Re era riuscito scaltramente a raccogliere i frutti della prolungata e sofferta iniziativa azionista depurandola da ogni prospettiva popolare, la sola che avrebbe potuto fondare davvero la nazione italiana. Si trattava quindi di riprendere il percorso interrotto mettendo al centro il popolo in armi. Rientrato dal suo esilio londinese alla fine del 1860, Mazzini diede vita, tra l’altro, ad un’intensa attività organizzativa e propagandistica che mirava a politicizzare l’associazionismo operaio, già presente nel paese, allo scopo di estendere la propria influenza sulle classi popolari, indicando loro la strada del miglioramento economico e morale. Le società operaie avevano avuto una notevole diffusione nel Regno di Sardegna nel corso degli anni ’50, grazie alle tolleranti disposizioni contenute nello Statuto Albertino. Tali società, formate da artigiani e operai ma dirette per lo più da notabili be-

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nestanti, si dedicavano essenzialmente all’attività di mutuo soccorso ripudiando ogni prospettiva di lotta di classe o semplicemente politica. Dopo l’unificazione, questo tipo di organizzazione conobbe un deciso incremento quantitativo e divenne anche il terreno di coltura delle prime forme organizzate d’intervento politico delle classi subalterne. A partire dall’VIII congresso delle società operaie, tenutosi a Milano nel 1860, i delegati delle nuove associazioni d’ispirazione democratica cominciarono anche a introdurre questioni, come quella del suffragio universale, che esulavano dalle tradizionali tematiche della beneficenza e del mutuo soccorso tra soci. Alla fine del 1862 le statistiche indicavano la presenza di 445 società operaie (30 nel Mezzogiorno) con oltre 130.000 soci; numeri questi destinati praticamente a raddoppiare dieci anni dopo, quando era cominciato a maturare il processo di distinzione tra società con finalità previdenziali e quelle, minoritarie, con obiettivi sindacali e di resistenza. Accanto al fenomeno delle società operaie, cominciò negli stessi anni ad emergere la realtà della cooperazione di consumo e produzione che, se inizialmente sembrava soddisfare le aspettative mazziniane dell’unione fra capitale e lavoro, si rivelò ben presto un terreno particolarmente adatto alle esigenze liberali di neutralizzazione del conflitto sociale. Il lento declino dell’influenza di Mazzini sul nascente movimento operaio, nella seconda metà degli anni ’60, fu dovuto al contrasto tra la sua fiducia in un percorso di politicizzazione a-conflittuale delle masse, finalizzato ad una prospettiva unitaria alternativa a quella sabauda, e la virulenza del disagio sociale. Dopo Mentana e il riflusso delle speranze democratico-radicali, infatti, il tema unificante del patriottismo aveva cominciato a perdere parte della propria attrattiva per le classi subalterne. Quando, nel 1869, entrò in vigore la tassa sul macinato per iniziativa del governo Menabrea, la struttura organizzativa mazziniana del movimento operaio si rivelò di fatto disorientata di fronte alle violente e spontanee proteste contro l’aumento del prezzo del pane. I moti del macinato, che provocarono oltre 250 morti, un migliaio di feriti e poco meno di 4.000 arresti, furono, benché ideologicamente ambigui, l’occasione per portare alla ribalta dell’opinione pubblica l’esistenza di un diffuso malessere sociale la cui pericolosità, per la classe dirigente liberale, andava individuata non tanto nel processo di scollamento tra ceti popolari e istituzioni, quanto nelle potenzialità di eversione politica del fenomeno.

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L’estraneità del pensiero mazziniano a forme di resistenza organizzata da parte delle classi subalterne e a ogni tipo di rottura tra classe operaia e borghesia aveva lasciato campo libero, nella seconda metà degli anni ’60, a nuove prospettive di emancipazione sociale legate ai nuovi scenari di solidarietà operaia, aperti proprio nel 1864 dalla fondazione a Londra dell’Associazione internazionale dei lavoratori, i cui principi, ispirati da Marx, si rivelarono apertamente in contrasto con quelli mazziniani. L’Internazionale divenne in pochi anni, soprattutto dopo le vicende della Comune di Parigi nel 1871, il polo d’attrazione delle giovani generazioni di rivoluzionari, pur evidenziando ben presto al suo interno il contrasto tra l’istanza del collettivismo marxista, teso a privilegiare i criteri dell’organizzazione e della centralizzazione delle forze operaie, e l’ipotesi proudhoniana ispirata al federalismo e al mutualismo. Da tali conflitti ebbe origine anche l’attività cospirativa in Italia del russo Michail Bakunin. In contatto con Marx, Bakunin s’inserì tra le fila della democrazia italiana in virtù del suo passato di combattente nei moti del 1848-49. Alla fine degli anni ’60, tuttavia, l’esule russo aveva oramai formulato una personale concezione di comunismo libertario basato sull’autodeterminazione delle singole comunità, che si distaccava nettamente dall’ipotesi marxista, considerata autoritaria, e trovava un fertile terreno nella cultura federalista del primo socialismo italiano, emblematizzata da Carlo Pisacane e ispirata dal pensiero di Ferrari e di Proudhon. Il bakuninismo non fu tuttavia in grado di liberare la democrazia italiana dall’eclettico intreccio della prospettiva risorgimentale-unitaria e di quella rivoluzionario-sociale. Così Bakunin si lamentava di essere costretto «a lavorare [...] contro questa detestabile teoria del patriottismo borghese diffusa da Mazzini e Garibaldi»1. Le società segrete fondate da Bakunin con la speranza di guadagnare posizioni all’interno dell’Internazionale avevano per obiettivo «la propaganda pubblica, l’organizzazione segreta della società e la sollevazione effettiva a mano armata»2. La debolezza di una simile rete operativa era da imputare al grado di arretratezza politica di quel 1  Citato in A. Romano, Storia del movimento socialista in Italia, vol. I, Bocca, Milano-Roma 1954, p. 188. 2  Citato in M. Nettlau, Bakunin e l’Internazionale in Italia dal 1864 al 1872, Ed. Risveglio, Ginevra 1928, p. 59.

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mondo contadino verso cui si rivolgevano le attenzioni di Bakunin, ma anche ai limiti di una concezione «romantica» della rivoluzione, immaginata come una sorta di completamento «democratico» dei moti risorgimentali, frutto, secondo l’anarchico russo, del risveglio dell’«istinto profondamente socialista che è sopito nel cuore di ogni contadino italiano»3. Un’operazione, questa, che gli internazionalisti italiani finirono per collegare all’immagine ancora nitida della «propaganda del fatto», del «colpo di mano» risorgimentale, in cui fortuna e audacia contavano più di dottrina e preparazione. Proprio il rifiuto dell’azione politica e del partito, unitamente all’individuazione del soggetto rivoluzionario nel sottoproletariato e nei diseredati delle campagne, rendeva il progetto bakuniniano estremamente affascinante agli occhi della cospirativa e scarsamente politicizzata cultura rivoluzionaria italiana. Non a caso Bakunin divenne, a partire dal 1871, il principale punto di riferimento delle sezioni dell’Internazionale in Italia, che da Napoli cominciarono a diffondersi nel resto del paese anche grazie alla simbolica adesione di Garibaldi, il quale non aveva esitato, in virtù dei suoi principi di solidarismo umanitario, a definire l’Internazionale «il sole dell’avvenire». La frattura tra Bakunin e Mazzini era destinata comunque ad estendersi anche in seguito alla scomunica mazziniana degli avvenimenti della Comune di Parigi nel 1871, che il patriota genovese considerava incompatibili con i principi spirituali del proprio credo. Il mazzinianesimo, sebbene sempre più contrastato ideologicamente, continuò tuttavia ad accrescere la propria struttura organizzativa anche dopo la morte di Mazzini, avvenuta nel marzo 1872 a Pisa, dove si trovava sotto falso nome. Il perno organizzativo dei repubblicani era costituito dalla struttura militarizzata dell’Alleanza repubblicana universale (Aru): formata da piccoli e autofinanziati comitati locali con un vertice centrale segreto, era stata voluta da Mazzini nel 1866 per tenere in vita la prospettiva insurrezionale, ritenuta possibile ancora nell’estate del 1871. Il congresso mazziniano di Roma del novembre 1871 sancì di fatto la definitiva separazione dagli internazionalisti, che da quel momento videro i propri circoli e sezioni moltiplicarsi soprattutto in

3  Citato in N. Rosselli, Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia (1860-1872), Bocca, Torino 1927, p. 165.

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Romagna e nelle Marche, per arrivare, secondo la polizia, al numero di 155, con oltre 32.000 iscritti. La grande maggioranza dei rappresentanti delle 21 sezioni internazionaliste italiane, intervenendo nell’agosto 1872 al I congresso della Federazione italiana dell’Internazionale, confermò l’adesione al comunismo anarchico e federalista; nel dibattito, sui temi dell’analisi concreta della questione sociale prevalsero quelli della polemica ideologica contro il «comunismo autoritario». Nonostante i progressi del movimento socialista, la mancanza di indicazioni politiche più articolate di quelle della messianica «liquidazione sociale» permetteva al mazzinianesimo di rappresentare ancora la risposta politica più immediata ai problemi dei ceti subalterni in Italia. Il problema della politicizzazione della classe operaia non poteva d’altronde essere disgiunto da quello dell’organizzazione, e in tal senso il socialismo «evoluzionista» legato all’immagine della vulgata marxista appariva decisamente fuori gioco. Lo stesso Friedrich Engels doveva riconoscere che in Italia «la maledetta difficoltà è soltanto di riuscire a mettersi in contatto diretto con gli operai. Questi maledetti dottrinari bakunisti, avvocati, dottori, ecc., si sono interposti dappertutto e si comportano come se fossero i rappresentanti nati dei lavoratori»4. Sul versante dell’efficacia organizzativa, il primato spettava indubbiamente ai repubblicani. Nei primi anni ’70, alla realtà semiclandestina dell’Aru si affiancò una struttura organizzativa legale di carattere regionale. Particolarmente attiva fu la Consociazione romagnola, modello e guida per le nascenti consociazioni repubblicane. Per quanto riguardava gli internazionalisti, il II congresso della Federazione italiana, tenutosi nel marzo 1873, ribadì sul piano dei principi che l’unico vincolo imposto era quello della solidarietà nella lotta economica, mentre veniva ancora una volta negato un progetto politico unitario, lasciando «a ciascuna federazione, sezione, nucleo od individuo la piena libertà di seguire il programma politico che ritiene migliore e di organizzarsi pubblicamente o segretamente all’attuazione del medesimo»5. Il congresso si concluse con l’intervento della polizia che arrestò alcuni dei principali esponenti

4  Citato in R. Zangheri, Storia del socialismo italiano, vol. I, Dalla rivoluzione francese a Andrea Costa, Einaudi, Torino 1993, p. 353. 5  Citato ivi, p. 383.

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dell’Internazionale italiana, tra cui Carlo Cafiero, Errico Malatesta, Andrea Costa. Tra il 1873 e il 1874, sull’onda emotiva degli avvenimenti della Comune e dell’aumentata frequenza degli scioperi (103 nel solo 1873 di fronte ai 13, di media, del decennio precedente), gli internazionalisti italiani si convinsero dell’esistenza di concrete prospettive insurrezionali; si trattava di dar vita ad una ondata di azioni esemplari che avrebbero dovuto risvegliare la coscienza delle masse diseredate, trascinandole verso la rivoluzione. La polizia, scoperti in anticipo i piani dei rivoltosi, agì con eccessiva determinazione coinvolgendo nella repressione anche i capi repubblicani (tra cui Aurelio Saffi, leader indiscusso dopo la morte di Mazzini), riunitisi nell’agosto 1874 a Villa Ruffi, presso Rimini, per dare una risposta, molto probabilmente negativa, alle richieste di collaborazione operativa provenienti dagli internazionalisti. Nonostante l’arresto di Andrea Costa il progetto, che aveva come obiettivo l’occupazione di Bologna, fu portato avanti da Bakunin, ma fallì causando l’arresto di quasi tutti i congiurati. Costretto a fuggire, Bakunin in seguito ammise amaramente che «l’ora della rivoluzione è passata [...] perché, con mio grande rincrescimento, ho constatato e constato ogni giorno di nuovo che il pensiero, l’esperienza e la passione rivoluzionaria non si trovano assolutamente nelle masse»6. Le prospettive insurrezionali, tuttavia, ebbero una parziale rivitalizzazione tra il 1876 e il 1877, in seguito agli esiti sostanzialmente favorevoli dei processi contro i circa 600 internazionalisti arrestati nei diversi moti dei mesi precedenti e alle speranze di una politica meno repressiva da parte della Sinistra ora al governo. Proprio in quegli anni crebbe una corrente «evoluzionista», ostile alle attitudini cospirativo-insurrezionalistiche dell’Internazionale italiana, che faceva capo al giornale «La Plebe», fondato nel 1868 e passato dalle iniziali tendenze democratico-radicali ad un’impostazione socialista incline ad una tattica gradualista che non ripudiava la lotta politica ed elettorale. Nel 1876 una quindicina di sezioni internazionaliste lombarde, piemontesi e venete formarono la Federazione dell’Alta Italia dell’Associazione internazionale, che nel suo secondo congresso

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  Citato ivi, p. 432.

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nel 1877 volle differenziarsi dall’estremismo anarchico dichiarando che per la vittoria del socialismo tutti i mezzi sarebbero stati utili. Il distacco dai criteri del bakuninismo divenne ancora più netto nell’aprile dello stesso anno, quando Cafiero e Malatesta tentarono di promuovere un’ondata rivoluzionaria occupando alcuni villaggi del Matese, in Campania. Il fallimento della rivolta segnò l’inizio del declino dell’anarchismo italiano e lasciò il movimento socialista italiano in una fase di crisi e ripensamento. Molte testate e circoli socialisti chiusero i battenti sotto l’ondata repressiva, che costrinse i capi più prestigiosi a lunghe detenzioni preventive in attesa di processi – quasi tutti, per mancanza di prove, assolutori. Si trattava, complessivamente, di un momento di transizione che rispecchiava il più generale travaglio attraversato da tutte le correnti del movimento operaio internazionale: se nel 1876 a Filadelfia si era sciolta la Prima Internazionale, l’anno successivo a Gand si ebbe di fatto la dissoluzione dell’Internazionale anarchica. Per il socialismo italiano il declino della prospettiva anarco-insurrezionale significava la fine di ogni illusione circa la possibilità di emancipare il proletariato preservandolo dall’irritante contatto con la politica. Per certi versi si era trattato dello stesso tentativo, ma di segno opposto, portato avanti dalle classi dirigenti liberali, impegnate ad escludere ogni traccia di prospettiva politica dai primi ruvidi approcci alla conoscenza e al governo dell’emergente questione sociale. A questo punto aveva inizio il travagliato e poco lineare percorso di lotte ed elaborazioni politiche che doveva condurre gli ideali della democrazia socialista all’incontro, per nulla scontato, con il movimento operaio e le sue tradizionali lotte rivendicative di mestiere. L’avvenimento che, politicamente, venne posto a simbolo della mutazione in atto all’interno del socialismo italiano fu la lettera che Andrea Costa pubblicò su «La Plebe» il 3 agosto 1879 con il titolo Ai miei amici di Romagna. Il rivoluzionario imolese esponeva il travaglio politico di chi, senza abbandonare la fede negli obiettivi del comunismo anarchico, s’interrogava sulla complessità del progetto rivoluzionario, una complessità che richiedeva maggiore duttilità e una più acuta sensibilità «per gli affari di ogni giorno». Tale ripensamento nasceva anche dalla constatazione del crescente successo della lotta politica organizzata portata avanti da numerose realtà del socialismo evoluzionista europeo. «L’orrore per la politica – scrisse pochi mesi più tardi – non deve farci dimenticare che noi viviamo in un mondo

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politico: noi non possiamo e non dobbiamo rimanere indifferenti a quello che avviene ogni giorno»7. Da tali premesse Costa arrivò a considerare necessaria, in contrasto con l’ipotesi anarchica, la costituzione di un partito, federazione di tutte le componenti socialiste. Iniziò così per l’internazionalista imolese, nonostante i frequenti soggiorni nelle patrie galere, una stagione di febbrile attività che condusse, nell’aprile del 1881, alla nascita del settimanale «Avanti!» e, in agosto, alla convocazione di un congresso clandestino a Rimini in cui quaranta delegati approvarono la costituzione del Partito socialista rivoluzionario di Romagna, in attesa di dar vita ad un partito nazionale. Il programma e il regolamento mettevano in risalto il ruolo fondamentale del partito, concepito come federazione ma dotato di una forza normativa e unitaria tipica dell’istituzione, sconosciuta alla precedente federazione dei circoli anarchici. La rivoluzione, benché necessaria e inevitabile, «deve aver per organo un partito fortemente ordinato, capace di provocarla [...] e d’inspirarla ed anche di dirigerla quando sia scoppiata»8. Su tali basi va letta la decisione, presa nel febbraio 1882, di accettare la partecipazione di candidati socialisti alle elezioni amministrative e politiche, lasciando alle singole associazioni provinciali la scelta di considerare le candidature esclusivamente a fini propagandistici o di renderle effettive. Grazie a tale direttiva Costa, eletto nella circoscrizione di Ravenna, entrò alla Camera, primo deputato socialista nella storia del Parlamento italiano. A Milano, il gruppo che faceva capo a «La Plebe» e alla Federazione socialista dell’Alta Italia era nel frattempo giunto alle medesime conclusioni circa l’opportunità di partecipare alla prova elettorale. Le prospettive politiche erano tuttavia rese problematiche dalla crescente influenza esercitata sul movimento operaio lombardo dai radicali di Felice Cavallotti i quali, forti di un prestigioso organo di stampa, «Il Secolo», e di un agguerrito drappello di deputati, si presentavano come i legittimi eredi della tradizione democratica risorgimentale. Nell’aprile 1879 avevano dato vita con i repubblicani alla Lega della democrazia, il cui programma prevedeva tra l’altro la revisione in senso democratico dello Statuto, l’introduzione del suffragio universale maschile e la nascita di milizie popolari. A Milano 7  Citato in G. Manacorda, Il movimento operaio italiano attraverso i suoi congressi, Editori Riuniti, Roma 19712, p. 153. 8  Citato ivi, pp. 165-166.

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l’obiettivo dei radicali, alla vigilia della riforma elettorale, consisteva nell’estendere la propria influenza nel vasto e organizzato tessuto operaio cittadino. Tale tentativo produsse una crisi di rigetto che si manifestò nella decisione del Circolo operaio milanese, capeggiato dal guantaio Giuseppe Croce, di presentare alle elezioni una candidatura autonoma a nome di un costituendo Partito operaio, composto esclusivamente da lavoratori manuali e interessato alle tematiche salariali e di rivendicazioni di classe. I modesti risultati elettorali non indebolirono le prospettive operaiste, che nel 1884 sfociarono nella costituzione della Federazione Alta Italia del Partito operaio, trasformatosi nell’aprile dell’anno seguente in Partito operaio italiano estraneo, per statuto, «ad ogni partito politico e religioso» e costituito solo da «operai manuali d’ambo i sessi (tanto dei campi che delle officine), salariati e alla diretta dipendenza dei padroni»9. Sebbene di matrice lombarda, il Partito operaio aveva esteso la propria sfera d’azione anche ad altre zone dell’Italia settentrionale, nelle quali tra il 1884 e il 1885 si erano prodotte estese agitazioni bracciantili che stavano assumendo il carattere di lotta organizzata. In particolare nel Polesine e nel mantovano gli scioperanti, dopo un lungo braccio di ferro con i proprietari, ottennero notevoli successi, nonostante le repressioni poliziesche. Molti esponenti di tale movimento, denominato «La boje», in riferimento alla collera contadina che «bolliva», furono processati e assolti con sentenze che, di fatto, legittimavano il diritto di sciopero. In questo clima di forte agitazione sociale, le critiche degli operaisti spinsero il partito di Costa (che nel 1884 aveva assunto la denominazione di Partito socialista rivoluzionario italiano, benché privo di un effettivo profilo nazionale) ad accentuare il carattere classista del proprio impegno. Tale rivendicazione d’autonomia si rivelò efficace nel guadagnare proseliti tra i circoli anarchici e soprattutto nel far avvicinare agli ideali socialisti gli esponenti più inquieti delle nuove generazioni di una piccola e media borghesia cresciuta nel fervore della cultura positivista e nell’amarezza di un Risorgimento che si riteneva avesse tradito le aspettative di giustizia sociale. Il fallito tentativo di arrivare ad una fusione tra socialisti e operaisti, messo in atto da Costa nel congresso del Partito socialista rivo-

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  Citato ivi, pp. 227-228.

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luzionario del 1886, era indicativo dell’impossibilità di giungere ad una mediazione politicamente efficace tra due istanze, lotta politica e lotta economica, che nel loro essere contrapposte rappresentavano il simbolo del difficile incontro tra socialismo e movimento delle classi subalterne. I socialisti si consideravano «gruppo sussidiario del grande partito operaio, propagandisti di idee che la classe lavoratrice farà proprie [...] sono l’avanguardia [...] che additano e spianano la via»10. Tale legame venne rinsaldato in occasione delle roventi polemiche sollevate dal radicale Cavallotti contro il Partito operaio, accusato di essere stato finanziato dal governo al momento delle elezioni del 1886 con la precisa intenzione di indebolire il Partito radicale. Benché non provate, le accuse indussero i socialisti a rompere l’alleanza con i radicali e spinsero molti intellettuali democratici, a cominciare dal futuro leader socialista Filippo Turati, ad avvicinarsi al movimento operaio. Le elezioni del 1886, d’altronde, rappresentarono un importante momento di riflessione per il movimento socialista. L’illusoria fiducia in una società «naturalmente» politica, destinata dopo la riforma elettorale del 1882 a rompere i vecchi equilibri sorti sulla base di un suffragio elitario, si frantumò di fronte alla realtà dell’impasse elettorale socialista e operaista (i candidati del Partito socialista rivoluzionario italiano vinsero, facendo blocco con i radicali, in quattro collegi mentre il Partito operaio, pur ottenendo 17.000 voti, non ebbe seggi e fu sciolto per ordine del governo). A ciò andavano aggiunti il calo dell’affluenza elettorale e l’ottima tenuta delle forze ministeriali e moderate. Fu proprio a partire da tale realtà che presero avvio una nuova cultura organizzativa e un nuovo approccio all’azione politica, sulla base della constatazione che l’appello agli oppressi e ai salariati non produceva di per sé alcun cambiamento, se non era preceduto da un paziente e capillare lavoro di acculturazione politica, a cominciare dalle campagne. Emblema di tale trasformazione e di un nuovo tipo di coscienza socialista fu Camillo Prampolini, la cui instancabile attività propagandistica e organizzativa nella provincia reggiana diede vita ad un modello di collettivismo di stampo padano, dove la fisionomia evoluzionista si integrava perfettamente con l’impegno a diffondere un socialismo teoricamente eclettico e fortemente proteso a valorizzare le poten-

  Il partito operaio. I socialisti, in «La Giustizia», 4-4-1886.

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zialità educative del ricco tessuto dell’associazionismo mutualistico e cooperativo. Le teorie marxiste erano d’altronde ancora poco note ai socialisti italiani, i quali solo negli anni ’80 cominciarono ad averne un’indiretta ed approssimativa conoscenza soprattutto grazie al compendio de Il Capitale scritto da Cafiero e pubblicato da «La Plebe» nel 1879. Cattolici La storia di quello che verrà poi definito «movimento cattolico» fu, nella fase d’impianto dello Stato italiano, assai più confusa e ambigua di quel che non l’abbia fatta apparire un suo successivo appiattimento sul cosiddetto cattolicesimo «intransigente», che guadagnò l’intera sfera della rappresentazione ufficiale del laicato cattolico a partire dal 1887. La tradizione cattolico-liberale aveva in Italia buone radici, che favorirono una presenza cattolica organizzata alle elezioni del 1865 (qua e là si era perfino parlato di un «partito cattolico»). La cosa era però fallita sotto il fuoco concentrico dei liberali moderati, poco disponibili a cedere spazi ai cattolici, e della rivista dei gesuiti «Civiltà Cattolica», che nel 1866 aveva giudicato «chimerica» ogni ipotesi di conciliazione fra Stato e Chiesa. Tuttavia il movimento cattolico liberale rimaneva vivace, grazie anche alla forza dei suoi referenti internazionali. Il vescovo di Genova, per esempio, aveva appoggiato il gruppo che faceva capo alla rivista «Annali cattolici», possibilista in merito al dialogo con i liberali, anche quando questo, trasferito nel 1866 a Firenze, aveva dato vita ad un nuovo periodico, la «Rivista Universale», da cui partì un altro motto di successo: «cattolici col papa, liberali con lo Statuto». L’ambiguità sul fronte ufficiale era dunque ancora notevole. Il 30 gennaio 1868 arrivava la prima pronunzia vaticana sul divieto per i cattolici di partecipare alle elezioni (non expedit): non era chiaro se si trattasse di un semplice suggerimento di opportunità o qualcosa di più. Pur riconfermata il 10 settembre 1874, l’ambiguità sarebbe stata risolta solo il 30 luglio 1886, quando il S. Uffizio statuì ufficialmente che «non expedit prohibitionem importat». La situazione si modificò profondamente con la presa di Roma: la questione politica si era irrigidita e il Vaticano aveva bisogno di un

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«movimento cattolico» più di quanto non fosse mai accaduto. Non è un caso che nell’aprile del 1871 «Civiltà Cattolica» inaugurasse una rubrica intitolata «movimento cattolico»: dedicata ad un ampio spettro internazionale di iniziative di un «movimento cattolico per la causa del Papa», rappresentava inevitabilmente anche un invito alla mobilitazione dei cattolici italiani, che infatti non si fece attendere. Dopo l’iniziativa bolognese dei conti Mario Fani e Giovanni Acquaderni, che già nel 1867 avevano fondato la Società della gioventù cattolica italiana, era sorta a Firenze nel 1869 una Società promotrice cattolica, mentre a Roma nel 1872 le varie associazioni esistenti si erano riunite nella Federazione piana. Il Papa aveva esortato i giovani alla lotta «di fronte alla virulenta empietà» e già nel corso di una riunione tenutasi a Venezia nell’ottobre del 1871 era stato letto un ordine del giorno a nome della gioventù cattolica per promuovere il primo congresso dei cattolici italiani. Il congresso poté tenersi solo nel giugno del 1874 a Venezia, con una non massiccia partecipazione (pochi i sacerdoti), ma con molti esponenti dell’emergente movimento laicale cattolico. Il proclama d’apertura ribadiva che il congresso [è] cattolico e non altro che cattolico. Imperocché il cattolicesimo è dottrina completa, la grande dottrina del genere umano. Il cattolicesimo non è liberale, non è tirannico, non è d’altra qualità. Qualunque qualità vi si aggiunga, da per sé è un gravissimo errore11.

L’anno successivo venne fondata a Firenze l’«Opera dei Congressi cattolici in Italia» che, sotto la guida di Acquaderni, doveva articolarsi su comitati parrocchiali al fine di «sostenere le opere della estirpazione della bestemmia, dell’insegnamento della dottrina cristiana, dell’accompagnamento del viatico, del denaro di S. Pietro». Si trattava ancora di una linea più religiosa che politica, anche se nel piano di lavoro si diceva che i cattolici dovevano «prendere parte alle elezioni provinciali e comunali, battersi per ottenere la libertà di insegnamento e creare scuole cattoliche, diffondere la buona stampa»12. 11  Citato in S. Tramontin, Opera dei Congressi e dei comitati cattolici, in F. Traniello, G. Campanini (a c. di), Dizionario Storico del Movimento cattolico in Italia, 3 voll., Marietti, Torino 1981, vol. II, p. 337. 12  Citato ibidem.

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Nel periodo della presidenza Acquaderni (1875-1878), l’Opera rimase prevalentemente una realtà lombardo-veneta, e già sotto la presidenza di Scipione Salviati (1878-1884) attraversò una crisi (dovuta anche al cambio di pontificato, dopo la morte di Pio IX nel 1878 e l’ascesa al soglio pontificio del cardinale Pecci col nome di Leone XIII), che precedette però una buona crescita organizzativa (alla fine del periodo si avevano 12 comitati regionali, 109 comitati diocesani e circa 1.300 comitati parrocchiali). Ribattezzata nel 1881 Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici in Italia, si propose una mobilitazione sociale per la riconquista dei diritti della Santa Sede contro le forze liberali, ritenute anti-temporaliste ma soprattutto anticristiane. Una mobilitazione che di fatto segnalava la fiducia della Chiesa nell’esistenza di un’Italia reale alternativa a quella legale nella costruzione della patria. Sul piano politico, le incertezze degli equilibri parlamentari spingevano le élites cattoliche integrate ad auspicare un maggior spazio d’azione. Già nel 1878 venne lanciata la parola d’ordine del «partito conservatore nazionale», prontamente contestata però dal campione dell’intransigentismo don Davide Albertario, che con la formula della «preparazione nell’astensione» intendeva rispondere a quanti avanzavano dubbi sull’utilità dell’astensione. Nel febbraio del 1879 a Roma, nella casa del conte Paolo Campello, si era svolta una riunione per parlare della possibile fondazione di un partito di «conservatori nazionali» d’impronta cattolica. In quello stesso anno a Firenze fu fondata la «Rassegna Nazionale», un periodico diretto da Manfredo da Passano che proseguiva la tradizione dei «cattolici col Papa e liberali con lo statuto»: un organo destinato ad una forte presenza culturale, soprattutto col sostegno della vivace e colta élite veneta (l’industriale Alessandro Rossi era fra i finanziatori, il costituzionalista Brunialti fra i collaboratori). Effettivamente in questa fase si ebbe una certa apertura, anche se nell’enciclica Quod Apostolici Muneris (28 dicembre 1878) il Papa, ribadendo fra l’altro la condanna del socialismo, aveva cercato di mettere un freno al dibattito politico invitando i cattolici a concentrarsi sull’azione sociale; nonostante poi di fatto l’azione amministrativa, pure ritenuta tipicamente «sociale», avesse spesso risvolti politici, come dimostrò la partecipazione cattolica alle elezioni amministrative di Roma del 1881. In questo senso è inoltre emblematico il caso di don Albertario. Direttore del giornale milanese «L’Osservatore Cattolico», aveva su-

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bito lanciato il modello di un intransigentismo popolare, polemico e violento nei toni. Espressione della media borghesia settentrionale, tradizionalmente diffidente verso lo Stato e ancorata alla religione come elemento della sua identità socio-culturale, Albertario aveva introdotto una componente per così dire «classista» estranea alle origini dello stesso movimento cattolico intransigente. I suoi avversari erano i cattolici delle élites lombardo-venete integrate nel nuovo sistema politico, con la loro cultura modernizzante e disponibile al dialogo e al confronto internazionale. Il redde rationem con questo odiato nemico, secondo Albertario, poteva avvenire subito sul piano teologico, in quanto il nuovo Pontefice nel 1879 aveva promulgato un’enciclica, la Aeterni Patris, che elevava il tomismo a filosofia ufficiale della Chiesa cattolica; questa posizione offriva una straordinaria arma di attacco nei confronti delle élites cattolico-liberali, le quali erano filosoficamente rosminiane e coltivavano un dialogo con la cultura contemporanea completamente estraneo alla tradizione tomista. La polemica fra il leader di questo nuovo cattolicesimo intransigente e le élites colte raggiunse l’acme fra il 1881 e il 1887, quando don Albertario attaccò la componente transigente, soprattutto i vescovi di Cremona e Piacenza e gli esponenti delle élites cattoliche come Giuseppe Grabinski. I vescovi si rivolsero al Papa per essere tutelati, ma Leone XIII preferì non schierarsi mentre i laici si difesero ricorrendo ai tribunali e Albertario subì una pesante condanna. Non schierandosi, il Papa intendeva muoversi con cautela sul terreno politico in un momento in cui tanto l’insegnamento della vicenda tedesca del Kulturkampf quanto il rapido procedere delle leggi di laicizzazione in Francia spingevano a considerare in modo più realistico il liberalismo moderato italiano. I transigenti contavano proprio su questo contesto. D’altro lato, tuttavia, il montare di una forte agitazione sociale preoccupava la Chiesa, che aveva sensibili antenne nel mondo rurale, e dava perciò forza alle ideologie catastrofiste di cui era nutrito l’intransigentismo, convinto dell’impotenza del liberalismo di fronte al disordine della modernità che aveva contribuito a fomentare. L’Opera dei Congressi tuttavia stentava (i comitati diocesani scesero da 109 a 20 e quelli parrocchiali da 1313 a 780), nonostante la ristrutturazione che nel 1885 aveva istituito sezioni permanenti distinte per tematiche.

V Al bivio: 1876-1887 Depretis: transizione senza riforme Di antica ma mai troppo accesa militanza mazziniana, Depretis univa al cauto pragmatismo di un’indole che lui stesso definiva «timida» il fiuto e l’inesauribile energia del consumato uomo politico, avendo sin dai primi anni della vita parlamentare italiana saputo coniugare la linea dell’opposizione con quella della ricerca dell’accordo, come aveva dimostrato la sua partecipazione ai governi Rattazzi e Ricasoli. Depretis finì quindi per incarnare l’immagine dell’astuto mediatore parlamentare, come emerse già dal suo primo governo, trasparente espressione dei rapporti di forza esistenti all’interno della Sinistra che aveva sconfitto Minghetti. All’interno della Sinistra la parte del leone fu giocata dalla componente meridionale, che si assicurò ben quattro ministeri, visibile riconoscimento del ruolo avuto nella crisi del 18 marzo. Evidentemente Depretis, più dei suoi colleghi della Destra Storica, doveva tenere conto dei conflitti interni alle componenti regionali del suo schieramento. Nicotera in particolare rappresentava un esplicito elemento di tensione, la cui azione come ministro degli Interni suscitò molte polemiche soprattutto per ciò che riguardava la gestione dell’ordine pubblico, mantenuto con metodi autoritari e polizieschi, e per le modalità spregiudicate volte ad estendere l’influenza del suo gruppo. A causa dei contrasti interni allo schieramento vincitore e alla diffusa consapevolezza che non si riuscisse a uscire dall’impasse con una Camera come quella eletta nel ’74, Depretis si decise a sottoporre la nuova maggioranza alla verifica elettorale. Le elezioni del novembre 1876 divennero quindi l’occasione per la ratifica della svolta parlamentare. Depretis ripropose il program-

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ma di riforme, con la significativa aggiunta di progetti di protezionismo doganale, richiamando l’attenzione sulla necessaria compattezza della Sinistra, di cui temeva lo sfaldamento qualora una netta vittoria avesse fatto venir meno il collante del pericolo della riscossa dei moderati, e appellandosi a «tutti gli elementi che vogliono il progresso; quest’appello [...] produrrà invece quella sacra concordia, quella costituzione seria e solida dei partiti politici che è il segreto della vita libera ed intelligente»1. In effetti le urne attribuirono alla Sinistra una schiacciante maggioranza: circa 400 deputati, contro il centinaio della Destra. I moderati persero inoltre alcune roccaforti del Centro-Nord e molti esponenti di primo piano, mentre entrarono alla Camera 123 deputati mai eletti in precedenza, a conferma dell’esistenza di aspettative di rinnovamento presenti in molti settori dell’opinione pubblica. Con questi risultati il «paese legale» sanzionò dunque la sconfitta della Destra: il neonato «Corriere della Sera», organo degli imprenditori lombardi, commentò seccamente che «il partito moderato, che fino a poche settimane fa era minoranza nella Camera, oggi deve riconoscere ch’è minoranza nel Paese»2. La vittoria non dissipò tuttavia le divergenze all’interno dello schieramento della Sinistra, e la resa dei conti si ebbe sulla questione della sistemazione dell’assetto ferroviario. A nome del gruppo settentrionale, Zanardelli si oppose dimettendosi al progetto di convenzione preparato da Depretis, che affidava di fatto l’intera rete ferroviaria alla gestione di due società, le Meridionali e la nuova Strade ferrate del Mediterraneo; dimissioni che furono il segnale per l’allontanamento dalla maggioranza anche del gruppo di Cairoli e dell’Estrema Sinistra di Bertani. Nel frattempo si andava consolidando il fronte di opposizione anti-nicoterino, nel quale convergevano tanto i crispini quanto i seguaci di Cairoli; in seguito ai violenti attacchi contro il ministro degli Interni, reo di soprusi e illegalità secondo una parte della stessa maggioranza, nel dicembre 1877 Depretis scelse di dimettersi. Il nuovo esecutivo affidato ancora a Depretis, che assunse anche l’interim degli Esteri, non risolse i problemi di conflittualità in seno alla Sinistra. Anche la novità rappresentata dall’ingresso di Crispi al 1  L. Lucchini (a c. di), La politica italiana dal 1848 al 1897. Programmi di governo, 3 voll., Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1899, vol. II, p. 36. 2  La vittoria del Ministero, in «Corriere della Sera», 13 e 14-11-1876.

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posto di Nicotera, che metteva in luce l’esigenza di una più energica azione riformatrice, non fu sufficiente a garantire l’appoggio delle altre componenti di Sinistra. Durante i tre accidentati mesi di vita del governo, Depretis fu bersaglio di vivaci polemiche per aver abolito il ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio ed istituito quello del Tesoro al fine di un maggiore controllo delle spese statali, con un decreto varato su pressione di Crispi (che verrà abrogato pochi mesi dopo dal governo Cairoli). Oggetto di contestazioni fu proprio la scelta di avvalersi dello strumento del decreto per decisioni di carattere istituzionale, che diede origine all’immagine del decisionismo crispino: «Fu un colpo di fulmine vedere un radicale riconoscere nel governo la facoltà di attribuire competenze a detrimento dei poteri delle assemblee»3. Depretis comunque, che aveva visto il proprio candidato sconfitto nella corsa per la presidenza della Camera, rassegnerà nuovamente le dimissioni l’11 marzo 1878. Qualche giorno prima si era inoltre abbattuta sul governo la bufera dell’accusa di bigamia rivolta a Crispi dal «Bersagliere», organo di Nicotera – con la quale, tra l’altro, si confermava la rilevanza della «politica dei risentimenti» personali all’interno della Sinistra; il ministro degli Interni aveva lasciato l’incarico, ma nemmeno questo era servito a ricompattare lo schieramento, sempre più diviso per le «inescusabili gare fra i capi». Tracciando un bilancio dei primi governi di Sinistra, gli osservatori dell’epoca non poterono non segnalare che «la vanità del potere vi guastò i migliori caratteri»4. Dal punto di vista dei progetti e delle discussioni, l’attività di governo della Sinistra fu particolarmente intensa, anche se sul versante delle realizzazioni i primi due anni furono deludenti. La riforma principale fu quella, che prese il nome dal ministro Coppino che la presentò, del 15 luglio 1877 per l’introduzione dell’istruzione elementare obbligatoria, laica e gratuita per i bambini dai sei ai nove anni. La consapevolezza della scarsa efficacia del sistema scolastico primario, ancora regolato dalla legge piemontese Casati del 1850, aveva infatti cominciato a farsi strada a partire dagli anni ’70: già da allora si era posto l’accento sulla necessità non solo di rendere obbligatoria la frequenza scolastica elementare, ma soprattutto di 3  G. Arangio-Ruiz, Storia costituzionale del Regno d’Italia, Jovene, Napoli 1985 (1898), p. 320. 4  A. Oriani, La lotta politica in Italia, Cappelli, Rocca S. Casciano 1969, p. 382.

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assicurare l’effettivo adempimento a tale obbligo mediante opportuni interventi dello Stato e dei comuni. Da una parte la lotta contro l’analfabetismo finì per legarsi indissolubilmente alla questione della riforma elettorale e dell’allargamento del suffragio (da fondarsi sull’apparentamento tra il criterio del censo e quello della «scuola»); dall’altra si trattava di porre le basi per la formazione di quella cultura politica e civile che agli occhi di molti esponenti della Sinistra rappresentava il vero presupposto di una nazione moderna e progredita. L’esecuzione della legge venne tuttavia demandata ai comuni, e la maggior parte di questi, non essendo in grado di sobbarcarsi l’onere finanziario previsto, la applicò con inerzia e trascuratezza. Al di là dello stato di relativo abbandono in cui materialmente versava la scuola primaria, era l’istruzione nel suo complesso ad apparire «il capitolo più triste della storia sociale italiana, un capitolo di penosa avanzata, d’indifferenza nazionale a un bisogno primario»5. Anche in merito all’istruzione ci fu dunque un evidente divario tra le declamate aspirazioni istituzionali e le concrete realizzazioni. Non si trattava solo di restrizioni di bilancio. La scarsa convinzione della cultura liberale di poter mobilitare le masse si tradusse in una sfiducia nella capacità (e utilità) di trasmettere pubblicamente un sapere «politico» forte. In campo universitario, dove si investiva comparativamente di più, la classe dirigente liberale si mostrò indisponibile ad ogni prospettiva di autonomia, soprattutto per ciò che concerneva l’organizzazione del sapere e degli studi. Anche per questa importante istituzione pubblica si riproponeva l’ambivalente contrasto tra le aspirazioni liberali di emancipazione potenzialmente universale e l’ombrosa inquietudine nei confronti di una libertà non controllata dal centro. Persino all’esercito, d’altronde, non era stato dato un ruolo di agenzia di costruzione identitaria. Soldati e sottufficiali in questo senso furono oggetto di feroce disciplinamento più che di acculturamento patriottico, a riprova dello scarso interesse nella costruzione di un’identità che «politicizzasse», sia pure in senso nazionale, le masse. Più semplice si rivelò inizialmente l’approccio della Sinistra alla questione tributaria. Il governo Depretis mantenne le promesse elettorali, elevando il minimo di esenzione per l’imposta sulla ricchezza

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  B. King, T. Okey, L’Italia d’oggi, Laterza, Bari 1910, p. 364.

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mobile da 250 a 800 lire e accordando maggiori detrazioni per i redditi industriali e professionali. Al di là dei modesti risultati legislativi, il governo Depretis si era posto il problema politico dell’allargamento delle basi dello Stato accettando di introdurre nel sistema alcuni interessi legati alla borghesia meridionale che la Destra aveva emarginato. D’altronde la composizione eterogenea della maggioranza che lo sosteneva e la diffusione geografica del suo consenso elettorale facevano di questo governo il primo vero esecutivo a carattere nazionale. Significativa, in questa direzione, fu l’esigenza di dare formale riconoscimento alla figura del presidente del Consiglio, disciplinandone le attribuzioni mediante un decreto del 25 agosto 1876 che, pur rimanendo sostanzialmente lettera morta, rappresentò il segno di un’evoluzione del ruolo dell’esecutivo. Tale scelta implicava infatti la necessità di un coordinamento del Consiglio dei ministri strettamente connesso non solo alle crescenti difficoltà di gestione degli affari pubblici, ma anche alla volontà di rafforzare il profilo unitario dell’esecutivo, a contenimento di ogni velleità d’intromissione della Corona e soprattutto della conflittualità tra ministri. Cairoli: reprimere non prevenire Il 1878 si aprì con la morte di due dei principali simboli delle antiche contrapposizioni risorgimentali: Vittorio Emanuele II e Pio IX. Al soglio pontificio fu eletto, come si è visto, il romano Gioacchino Pecci, mentre a Vittorio Emanuele succedette il trentaquattrenne figlio Umberto I. L’Italia apprese la notizia della morte del Re con doloroso sgomento. Nel diffuso bisogno di forgiare una coscienza nazionale che, in quanto fondata sul Risorgimento, doveva ridurre il proprio profilo politico, la morte di Vittorio Emanuele, enfaticamente definito il Re «più grande e glorioso dell’Europa cristiana», venne utilizzata per una difficile operazione di identificazione tra istituzioni e «popolo». La commozione per quella morte si sarebbe ripetuta con maggiore intensità pochi anni dopo, in occasione della morte dell’altro grande protagonista delle vicende risorgimentali, Giuseppe Garibaldi. Il nuovo Sovrano, sposato con la cugina Margherita di Savoia-Genova, donna dalla forte personalità, cercò in tutti i modi di accreditarsi presso l’opinione pubblica come Re «popolare» e capace di en-

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trare in contatto con la propria gente. Umberto I cercò di perseguire l’obiettivo di fare della monarchia il centro simbolico e morale della nazione, con una serie di viaggi di rappresentanza che lo misero in contatto con le élites e i problemi locali. In occasione di questi viaggi, dove un ruolo non trascurabile era giocato dal talento della regina per le pubbliche relazioni, la coppia reale non mancava di fare cospicue elargizioni alle autorità locali in favore delle classi povere, avvalorando così l’immagine di Umberto come Re «buono» sempre disponibile ad andare in soccorso ai più bisognosi. D’altra parte, anche il grande sfarzo della sua corte e lo splendore dei ricevimenti organizzati al Quirinale, accresciuto dall’apertura verso l’aristocrazia degli antichi Stati, stavano a dimostrare l’intenzione del Sovrano di accreditare la dinastia sabauda fra le più prestigiose e fastose d’Europa. Non a caso il suo appannaggio si collocava al quarto posto fra le liste civili dei regnanti d’Europa, primo tra le monarchie parlamentari. Se Depretis aveva posto al centro del suo progetto di allargamento delle basi dello Stato il delicato meccanismo degli equilibri geografico-parlamentari, non pochi nella grande nebulosa della Sinistra ritenevano invece prioritario arrivare ad una più energica realizzazione delle riforme a lungo sbandierate durante gli anni dell’opposizione. In questo senso i tre governi guidati da Cairoli fra il marzo 1878 e il maggio 1881 rappresentarono un’alternativa radicale alle mediazioni dilatorie di Depretis. Il passato di intemerato garibaldino e il ricordo del patriottico sacrificio dei suoi fratelli facevano di Benedetto Cairoli la figura più indicata ad affrontare tale difficile impresa. Cairoli, pur inserendo ministri «apolitici» per guadagnare la fiducia della Corona e rafforzare i legami con Sella, diede al proprio esecutivo una precisa fisionomia di Sinistra avanzata, proponendosi l’ambizioso progetto di varare un governo super partes, estraneo alle manovre parlamentari e avverso al dilagante affarismo speculativo che aveva le proprie roccaforti soprattutto nel Mezzogiorno. Proponendosi di evitare «i colpi d’atti arbitrari o d’interpretazioni restrittive» e garantendo che «l’urna elettorale, suprema guarentigia delle istituzioni rappresentative» sarebbe stata «sempre scrupolosamente rispettata», in politica interna il nuovo ministero cercò di operare sul terreno delle riforme e di portare a termine alcune delle questioni affrontate ma non risolte da Depretis. Nel 1881 fu formalizzata la nascita dell’Ufficio della Presidenza del Consiglio, mentre sull’annoso problema delle ferrovie Cairoli, favorevole ad una politi-

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ca di espansione della rete nazionale, scelse la strada «istituzionale» dell’inchiesta parlamentare. Per quanto riguardava l’abolizione della tassa sul macinato, il governo dovette invece affrontare un prolungato scontro, che ancora una volta esprimeva differenti esigenze regionali. Alla fine, durante il secondo ministero Cairoli, venne approvata la cancellazione della tassa sui cereali inferiori, mentre l’abolizione di quella sulle farine di grano (decisiva per il Sud) Cairoli riuscirà a imporla solo nel gennaio 1884. L’indirizzo riformatore del governo non nasceva tuttavia da velleità di politica sociale, ma dalla convinzione che solo la coerente accettazione del quadro delle libertà giuridiche avrebbe garantito il radicamento del sistema liberale. In particolare, sentenziò Cairoli in occasione di un discorso nell’ottobre 1878, «l’Autorità governativa invigili perché l’ordine pubblico non sia turbato; sia inesorabile nel reprimere, non arbitraria col prevenire»6. Questo significava di fatto che la formula del ministro degli Interni Zanardelli, «libertà nella legge», raccomandata ai prefetti insieme alla più neutrale imparzialità, trovava piena realizzazione nell’accettazione incondizionata del diritto di riunione e associazione. L’indicazione del ministro bresciano rappresentava il risultato di una sincera passione per la democrazia liberale, retaggio della propria stagione radicale, contemperata da una non comune competenza giuridica. Se la sua pur grande cultura risultava già all’epoca alquanto antiquata, l’eloquenza, l’abilità politica e la grande rete di contatti personali facevano di Zanardelli il punto di riferimento di quella Sinistra costituzionale ancora animata da un profondo entusiasmo per i grandi ideali del progresso civile. Anche dinanzi all’intensificarsi delle attività degli internazionalisti e dei repubblicani e alle crescenti pressioni del movimento irredentista (mirante al ricongiungimento all’Italia delle terre «irredente» dallo straniero, in particolar modo il Trentino e il Friuli, in mano all’impero austroungarico), il ministro degli Interni volle ribadire il 5 dicembre 1878: non deve essere l’autorità politica che ha da procedere ad arbitrari scioglimenti, spettando tale ufficio all’autorità giudiziaria; imperocché, ove all’autorità politica ciò fosse affidato [...] non so bene dove il suo beneplacito, il suo arbitrio andrebbero a finire.

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  L. Lucchini (a c. di), La politica, cit., vol. II, p. 122.

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La linea Cairoli-Zanardelli continuò quindi a contrapporre alla tradizionale indicazione del «prevenire per non reprimere» la non facile scelta del «reprimere, non prevenire». Se si dovesse procedere come sostengono i nostri avversari – affermò Zanardelli il 3 novembre del 1878 – dovrei io personalmente farmi giudice della legalità degli atti, della esistenza dei reati, e l’arbitrio sarebbe assoluto e sconfinato. Così questi nostri avversari pretendevano sciogliessi le associazioni repubblicane, perché contrarie alle costituzionali istituzioni, poi i meetings per l’Italia irredenta, perché compromettenti le relazioni dell’Italia coll’estero, poi i circoli Barsanti, perché retti a sovvertire la disciplina dell’esercito; [...] e così un mio apprezzamento basterebbe a far venir meno il diritto dei cittadini [...]. Per parte mia ho cercato di tradurre in realtà il diritto in fatto, e di far sì che il paese abbia le efficaci realtà e non le vane immagini delle pubbliche libertà [...]. Anche il regime della libertà politica ha i suoi difetti, come ha i suoi pregi. È un regime difficile e laborioso; e certo, come diceva il conte di Cavour, è assai più facile governare senza libertà [...], il sostituire alla legge la propria volontà. Ma dato il sistema della libertà, è evidente che essa non può esservi per la verità se non vi è per l’errore, non può esservi pel bene se non v’è per il male [...]. Un regime liberale invece non può pretendere di soffocare tutti i traviamenti, tutte le indecenze, tutte le parole malvagie e perverse. Esso deve munirsi di una grande provvisione di facilità, di longanimità, e talvolta anche di disprezzo [...]. Quando in nome della libertà e del diritto proprio si volesse violare la libertà ed il diritto altrui [...] allora il governo applicherebbe energicamente la legge7.

Si trattava della prosecuzione della vivace e prolungata polemica sui limiti della discrezionalità dell’esecutivo, già manifestatasi poco prima dell’unificazione con il conflitto tra il metodo parlamentare di Cavour e quello autoritario di Rattazzi e proseguita poi nei primi anni postunitari. È ipotizzabile, dunque, che il garantismo di tale prospettiva contenesse un vero e proprio progetto politico, teso a perseguire l’obiettivo della legittimazione dello Stato liberale attraverso il rafforzamento dei meccanismi di politicizzazione del

7  Citato in C. Vallauri, La politica liberale di G. Zanardelli dal 1870 al 1878, Giuffrè, Milano 1967, pp. 419-422; i circoli Barsanti presero il nome dal caporale dell’esercito di fede mazziniana fucilato nel 1870 dopo un tentativo di entrare a Roma con un gruppo di armati.

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sistema. Un tentativo destinato al fallimento, in quanto espressione di un liberalismo avanzato in contrasto con le nuove esigenze della borghesia nazionale la quale, a partire dagli anni ’80, cominciò a sviluppare un sentimento d’insicurezza nei confronti delle pressioni democratiche in atto. Non a caso tale sentimento coincise con le prime velleità imperialistiche di importanti spezzoni della borghesia stessa, fatali per un governo come quello Cairoli, non disponibile su questo terreno dal momento che anche in politica estera proponeva la stessa cauta tolleranza dimostrata in politica interna. Non è privo di significato il fatto che tale esperimento di liberalismo avanzato venisse interrotto da due attentati dinamitardi contro due cortei organizzati a Firenze e Pisa in favore di Umberto I, già scampato ad un attentato a Napoli il 17 novembre 1878. Gli episodi diedero il via ad una vasta operazione di repressione poliziesca contro numerosi gruppi internazionalisti, accusati di aver ordito un complotto finalizzato a sovvertire le istituzioni. Il dibattito che ne seguì alla Camera condusse ad un voto di sfiducia con relative dimissioni di Cairoli (11 dicembre1878), confermando che il principio radicale dell’«assoluta libertà di associazione, riuniva contro il ministero la Destra e gran parte della Sinistra»8. Non sfuggiva inoltre, proprio nell’ostilità manifestata dalla Sinistra nei confronti di «un uomo come Cairoli», l’accentuarsi di livorosi personalismi. Lo stesso presidente del Consiglio, scrivendo a Garibaldi, denunciò l’esistenza di un’ostile coalizione di risentimenti e ambizioni, mentre la stampa inglese sottolineò l’eccessiva animosità personale della politica italiana: «i deprimenti litigi e le meschine gelosie di uomini e non l’antagonismo tra posizioni, ha paralizzato il governo italiano per mesi»9. È tuttavia possibile immaginare che, al di là delle pur evidenti derive caratteriali, l’ostilità di una parte della leadership della Sinistra verso Cairoli e Zanardelli fosse dovuta al timore che la loro politica potesse agevolare la ricomposizione del quadro politico-istituzionale ad un più alto livello di democrazia liberale. I due uomini politici sembravano in grado di avviare un dialogo tra democrazia radicale e monarchia spostando così a sinistra (e verso nord) il baricentro istituzionale, e riducendo dunque i margini di quell’attività

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  G. Arangio-Ruiz, Storia costituzionale, cit., p. 333.   W.J. Stillman, Italy, in «Fortnightly Review», 32, 1879, p. 838.

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di mediazione tra radicalismo risorgimentale e istituzioni sabaude (e tra Meridione e governo) che rappresentavano la solida rendita di posizione di uomini come Crispi e Nicotera. Si trattò di un tentativo spartiacque nella storia politica italiana, una delicata operazione di equilibrismo tattico e strategico in cui era difficile distinguere il confine tra reciproche strumentalizzazioni e slanci ideali. Nel corso del 1878 il governo Cairoli era stato messo in difficoltà anche dalla crisi delle relazioni internazionali causata dalla guerra russo-turca del 1877 e dal successivo trattato di Santo Stefano. Dopo la presa di Roma, la politica estera italiana era stata condotta all’insegna della prudenza e di un’impostazione complessivamente liberale volta alla tutela dell’indipendenza nazionale e della pace. In questo senso, dopo la caduta del Secondo Impero francese, la sola via che poteva dare una certa sicurezza al governo italiano era quella dell’avvicinamento agli Imperi centrali. Manifestazioni significative di tale nuovo indirizzo erano state le visite di Vittorio Emanuele II a Vienna e a Berlino nel settembre 1873, ricambiate da Francesco Giuseppe a Venezia e da Guglielmo I a Milano nel 1875. In privato il Re si era anche spinto a rassicurare l’Imperatore d’Austria sul fatto che le rivendicazioni irredentiste italiane sarebbero state lasciate cadere. L’avvento al potere della Sinistra non aveva modificato la linea di cautela e di contenimento con cui era stata condotta dai moderati la politica estera dopo il 1870. Tuttavia il sentimento che accomunava le varie componenti della Sinistra in materia di relazioni internazionali era il desiderio di riunire all’Italia le terre «irredente» dal dominio austriaco, e non mancava chi, come Crispi, esercitava forti pressioni anche sul Sovrano affinché venisse abbandonata la tradizionale prudenza in nome dei mai sopiti sentimenti risorgimentali anti-asburgici. In tal senso lo scoppio della crisi balcanica tra il 1875 e il 1876, con il conseguente riconoscimento da parte della Russia della facoltà dell’Austria di occupare la Bosnia e l’Erzegovina nel 1877, aveva ridestato le speranze italiane di un’eventuale soluzione pacifica del problema trentino (nello stesso anno era sorta, per iniziativa di Matteo Renato Imbriani, l’Associazione per l’Italia irredenta). Si trattava in sostanza di favorire l’espansione asburgica nei Balcani in cambio della rinuncia da parte di Vienna ai territori italiani; nel frattempo però la situazione dell’Europa era giunta a un punto difficilissimo allorché, nel marzo 1878, la schiacciante vittoria russa sulla Turchia aveva assicurato il predominio dell’Impero zari-

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sta nei Balcani. La minaccia di una guerra generale anti-russa, che avrebbe coinvolto anche la Gran Bretagna, finì per far accogliere alle diplomazie europee l’invito di Bismarck di riunire a Berlino un congresso per garantire una soluzione pacifica alla questione d’Oriente. Il congresso si svolse nell’estate del 1878; l’Italia fu rappresentata dal conte Luigi Corti, ministro degli Esteri nel primo gabinetto Cairoli. Corti era partito con indicazioni piuttosto generiche di fare in modo che l’occupazione austriaca della Bosnia-Erzegovina avesse carattere «temporaneo» e, qualora si fosse trattato «di vera e propria annessione», di «scandagliare il terreno» per un’eventuale «domanda di compensi». Il ministro degli Esteri italiano, che non possedeva la statura politica dei suoi interlocutori e neppure conosceva tutti i particolari della situazione balcanica, tenne quindi un contegno cauto e dimesso. Così, mentre la Gran Bretagna ottenne l’isola di Cipro, l’Austria il protettorato sulla Bosnia-Erzegovina e la Francia il riconoscimento delle sue rivendicazioni nordafricane, l’Italia rimase con le «mani nette» ma vuote. L’incapacità dimostrata in questa circostanza di far valere gli «interessi nazionali» ferì profondamente l’opinione pubblica, che parlò di «inerzia», di scacco morale dovuto all’isolamento politico e alla decadenza delle migliori tradizioni diplomatiche. Crispi interpretò certamente il pensiero delle principali correnti politiche del paese quando disse: «umiliati a Berlino come l’ultimo popolo d’Europa, ne ritornammo con lo scherno e le beffe»10. Le critiche trascuravano tuttavia il fatto che nel 1878 l’Italia non poteva competere con la maggior forza militare e la più solida posizione diplomatica dell’Austria; al tempo stesso, non essendosi trovata implicata in prima persona nella crisi balcanica, non poteva nemmeno avanzare pretese espansionistiche. I due successivi governi Cairoli (dal 14 luglio al 19 novembre 1879 e dal 24 novembre 1879 al 14 maggio 1881) risentirono quindi del mutato clima politico e furono costruiti su formazioni ministeriali che, pur ruotando attorno alla Sinistra settentrionale, ebbero un profilo più moderato a causa dell’uscita del gruppo zanardelliano, rimasto fedele alla linea del liberalismo più radicale. Le elezioni del 16

10  Citato in A. Torre, La politica estera di Benedetto Cairoli, in Atti del convegno nazionale di studi cairoliani, Tip. Popolare, Pavia 1964, p. 151.

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maggio 1880, d’altronde, avevano rafforzato la posizione di Depretis, che da quel momento divenne l’unico vero fulcro della vita politica italiana, attorno a cui era destinato a ruotare, sino al 1887, il complesso gioco delle maggioranze parlamentari. Peraltro, l’irresistibile ascesa del ministro di Stradella era, secondo quanto Zanardelli scrisse a Cairoli, il frutto soprattutto della loro debolezza, cioè della «difficoltà di formare un altro ministero omogeneo e forte di Sinistra»11. I governi Cairoli avevano rappresentato comunque l’espressione istituzionale più vicina a quel liberalismo «insoddisfatto» di cui i radicali si erano resi portavoce. Il radicalismo, così come andava configurandosi nell’Italia postunitaria, definiva un eterogeneo fenomeno politico che, influenzato dalla realtà della democrazia francese, era sorto dalla istituzionalizzazione, sotto la guida di Bertani, della originale cultura azionista mazziniana e cattaneana. A differenza della componente più avanzata della Sinistra, i radicali continuavano a ritenere pregiudiziale rispetto ad ogni altra esigenza, compresa quella istituzionale, una politica di riforme che garantisse una vera e propria interpretazione democratica della cultura politica liberale. Nell’opuscolo Della opposizione parlamentare del 1865, Bertani elencò i capisaldi programmatici del radicalismo, che avrebbero dovuto anche rendere più chiare le distinzioni fra Sinistra ed Estrema Sinistra: indipendenza della magistratura dall’esecutivo, imposta unica e proporzionale, suffragio universale maschile, istruzione primaria, gratuita e obbligatoria, laicismo integrale, decentramento e autonomie locali, nazione armata, diritti di libertà, abolizione della pena di morte. Attraverso l’azione di Bertani, sia l’unità politica sia l’azione del Parlamento divennero prospettive irrinunciabili di un programma radicale veramente nazionale. «Al di fuori della Camera – scrisse Bertani a Cattaneo contestando la sfiducia di Saffi nel ruolo del Parlamento –, non v’è pubblicità sufficiente, né autorità personale o influenza locale che basti a riunire»12. Sino alla metà degli anni ’80 il radicalismo mantenne stretti contatti con le istanze dell’egualitarismo operaio e mazziniano. Al Nord, in particolare, i radicali patrocinavano o dirigevano molte società 11  Citato in H. Ullrich, Zanardelli e il liberalismo europeo, in R. Chiarini (a c. di), Giuseppe Zanardelli, Franco Angeli, Milano 1985, p. 317. 12  Citato in A. Galante Garrone, I radicali in Italia, Garzanti, Milano 1973, p. 85.

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operaie, nella convinzione che solo una istruita e agiata «democrazia operaia» potesse risparmiare all’Italia una rovinosa rivoluzione. L’originario conflitto tra repubblicani intransigenti, e dunque politicamente astensionisti, e i settori più «possibilisti» si andò molto lentamente risolvendo a favore di quest’ultimi, trovando parziale realizzazione nel congresso di Roma del 1872, in cui vennero poste le basi delle future lotte parlamentari radicali interpretate in modo efficace e battagliero da Cavallotti, giornalista e commediografo lombardo entrato alla Camera nel 1873. L’ambiguo legame che univa tutte le componenti della Sinistra doveva spezzarsi nel 1877, quando l’ala estrema radicale si dissociò da Depretis sulla questione della tassa sullo zucchero, dando vita ad un proprio «partito separato». Da questo momento, sotto la guida di Cavallotti, Bovio e Bertani e facendo leva sulla larga diffusione del quotidiano «Il Secolo», l’Estrema divenne il punto d’incontro delle delusioni democratiche per le esitanti scelte dei governi della Sinistra e delle aspirazioni dei ceti produttivi urbani. Nuovi alleati e nuovi elettori Fallito l’esperimento Cairoli-Zanardelli, l’incarico per il nuovo governo fu di nuovo affidato a Depretis, il quale volle per sé anche il ministero degli Interni. Una delle esigenze prioritarie del nuovo esecutivo fu quella di dare alla politica estera un indirizzo più preciso e coerente. Dopo lo smacco del congresso di Berlino, infatti, l’Italia aveva dovuto subire l’occupazione francese della Tunisia, sede di consolidati interessi italiani. Il senso di delusione per l’ennesimo fallimento e la sensazione che l’Italia non sapesse adeguare la propria politica estera alla nuova situazione dell’Europa e del Mediterraneo indussero pertanto Depretis a cercare alleanze. Umberto era propenso ad un’alleanza con gli Imperi tedesco e asburgico, che non solo avrebbe rafforzato l’immagine della monarchia italiana in senso conservatore, ma avrebbe anche inferto un duro colpo all’irredentismo di matrice repubblicana. In questo senso la sostituzione di Cairoli, sensibile alle aspirazioni degli irredentisti, favorì il progetto del Sovrano. Anche il viaggio della coppia reale a Vienna nell’ottobre 1881 sembrò avallare l’immagine di un clima amichevole tra i due paesi.

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Le trattative portarono a siglare, il 20 maggio 1882, il trattato della Triplice Alleanza, la cui esistenza venne subito resa nota, là dove invece il carattere degli accordi non diverrà pubblico fino alla Prima guerra mondiale. Esso aveva una «natura essenzialmente conservatrice e difensiva» e si poneva come scopo quello di «aumentare le garanzie della pace generale, di rafforzare il principio monarchico e con ciò di mantenere intatto l’ordine sociale e politico» dei tre stati contraenti. Tale carattere difensivo vincolava i contraenti ad un mutuo patto d’intervento in caso di aggressione francese e alla «neutralità benevola» qualora uno dei tre paesi fosse stato indotto a dichiarare guerra per prevenire una minaccia alla propria integrità. L’Italia pretese un’esplicita dichiarazione sul fatto che «in nessun caso» le clausole del trattato potevano essere rivolte contro l’Inghilterra. Il trattato della Triplice Alleanza suscitò nel paese sentimenti contrastanti: si rafforzarono gli ideali monarchici e le aspettative di grande potenza ma si percepì anche, soprattutto nella Sinistra non governativa, il disagio di fronte al tradimento di sacri interessi nazionali, quasi un oltraggio alla tradizione risorgimentale. Ben presto quindi non solo la classe politica, ma l’intera opinione pubblica nazionale, si trovò divisa fra il partito dei «francofili», che considerava fondamentale l’annessione delle terre «irredente», e quello dei «germanofili», che dava invece la priorità al bacino del Mediterraneo e alla sponda africana. Tale divisione, trasversale agli schieramenti tradizionali, avrebbe accompagnato e condizionato la politica estera italiana negli anni a venire fino alla Prima guerra mondiale. In politica interna, col 1882 giunse a buon fine il lungo e travagliato iter della riforma elettorale. Anche Depretis, non particolarmente sollecito in proposito, finì per farsi portavoce di un’esigenza di adeguamento del sistema elettorale che, ormai isolato da un più generale contesto di trasformazione politica, aveva perso parte dell’originaria e temuta immagine eversiva. Dopo una prolungata serie di discussioni, punteggiata da concessioni e patteggiamenti, il 22 gennaio il Parlamento approvava quello che significativamente il presidente del Consiglio aveva chiamato «il suffragio universale possibile». Isolate le proposte parlamentari favorevoli al suffragio universale, quasi tutte di provenienza liberal-conservatrice, il conflitto si era incentrato sui requisiti minimi per diventare elettori. La Sinistra, pensando ai ceti popolari urbani, metteva l’accento sul criterio della capacità e dunque su quello dell’alfabetizzazione, mentre

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la Destra preferiva mantenere la barriera censitaria, pur riducendola per favorire il voto rurale. In tal modo le due parti cercavano di ritagliarsi le rispettive basi elettorali, individuando artificiosamente i nuovi confini «politici» di una società civile che comunque appariva indifferente al problema e non produceva alcuna forma di pressione sul legislatore. Il risultato fu una legge che assicurò un originale accesso «binario» al voto: avevano diritto al voto tutti gli uomini di almeno 21 anni in possesso, come requisito principale, di un titolo di studio minimo (i primi due anni della scuola elementare), o, in subordine, contribuenti per un’imposta annua non inferiore alle 19,80 lire. In via transitoria vennero anche inclusi coloro che in presenza di un notaio avessero scritto di proprio pugno la domanda d’iscrizione alle liste. La legge elencava poi una serie di categorie particolari di aventi diritto, tra cui i consiglieri provinciali e comunali, i decorati al valore civile e militare, i dirigenti di industria, gli impiegati pubblici, i direttori di banche, ecc. In base a questa riforma, gli aventi diritto al voto passarono dai 621.896 del 1879, pari al 2,2% della popolazione, a 2.049.461, cioè il 6,9% (corrispondente di fatto a più di un quarto dell’intera popolazione maschile adulta). Nel 1886 gli elettori per censo erano 618.666 mentre quelli per capacità 1.801.661, e tra questi 594.198 avevano scritto di proprio pugno la domanda d’iscrizione nelle liste. L’estensione del suffragio fu accompagnata da una revisione del sistema elettorale, che passò dal criterio uninominale a quello plurinominale. Lo scrutinio di lista, come venne chiamato pur essendo in sostanza un sistema maggioritario plurinominale, rappresentava un vecchio obiettivo della Sinistra che, con l’abolizione del sistema uninominale, riteneva di poter assestare un duro colpo alla cultura del moderatismo, la cui forza si basava sui legami notabilari tra collegio e candidato. La nuova legge elettorale, approvata il 7 maggio 1882, costituì per Depretis il raggiungimento delle «colonne d’Ercole» del riformismo. L’estensione del suffragio e l’ingresso sulla scena politica di una consistente fetta di ceti popolari rappresentavano infatti fattori di tensione non irrilevanti per le sorti del quadro politico esistente, fondato sulle limitate capacità propagandistiche dei «costituzionali». Alla vigilia della riforma elettorale del 1882, la situazione organizzativa dei liberali non appariva particolarmente brillante. La «rivoluzione parlamentare» del 1876 aveva tuttavia rappresentato in

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questo ambito una cesura rispetto al passato. Mentre la Destra, dopo un iniziale sbandamento, aveva messo a punto una rete organizzativa che prevedeva la diffusione su base locale delle Associazioni costituzionali, culminata con la nascita, nel 1876, dell’Associazione costituzionale centrale con sede a Roma, la Sinistra aveva avviato una più solerte attività extraparlamentare, imperniata su Associazioni progressiste, anch’esse coordinate da un organismo centrale. Entrambe entravano in azione soprattutto alla vigilia delle elezioni. Sia per la Destra Storica che per la Sinistra, comunque, la principale struttura propagandistico-organizzativa rimanevano gli organi di stampa. Nel 1873 in Italia risultavano presenti 387 periodici politici (di cui 273 nell’Italia centro-settentrionale) e 132 quotidiani (105 al Centro-Nord). Era attorno ai giornali, infatti, che si raccoglievano le forze politiche e spesso si intrecciavano le alleanze o si consumavano le fratture tra i vari leader dell’universo liberale. Il giornale come surrogato dell’organizzazione divenne un fenomeno sempre più esteso: La stampa venduta – scrisse il costituzionalista Arangio-Ruiz – è stata, in maggiori o minori proporzioni, una piaga costante, iniziata, dopo alcuni anni dalla costituzione del regno d’Italia [...]. La condizione non florida della stampa periodica in Italia [...] contribuisce ad allargare la piaga, ed a confonderne il significato di «giornale ufficioso» con quello di «giornale pagato». [...]. La vera precipua ragione di tale mercimonio è la mancanza della organizzazione dei partiti nella società, il difetto di forze sociali, legate pel trionfo di un’idea, a cui si consacrino danari, e per cui si fondino giornali13.

La difficoltà di darsi una più formalizzata struttura politica nazionale, per gli ambienti moderati come per quelli progressisti, non derivava tuttavia da un limite di «modernità» di queste classi dirigenti, che non avrebbero compreso l’importanza del partito organizzato, bensì dalla convinzione che la natura di «macchina» di simili partiti avrebbe accelerato il deperimento del sistema esistente. Per Bonghi era felice lo Stato libero in cui i partiti non si organizzano, e possono, senza pericolo di essere sopraffatti, cansare di organizzarsi ad associazioni,

  G. Arangio-Ruiz, Storia costituzionale, cit., p. 303.

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infelice e dimentico di sé quello che lascia organizzare nel suo seno associazioni intese a dirittura a distruggerlo!14

Fu la convinzione di aver prodotto il massimo sforzo riformista compatibile con gli interessi della borghesia senza essere riusciti a scalfire la sostanziale estraneità delle masse al progetto liberale a mettere in moto uno spontaneo processo di convergenza «fra i partiti che si professano devoti alla monarchia liberale [...] poiché le condizioni del paese in cui si agitano e minacciano le fazioni extralegali consiglia la riunione e la compattezza»15. I partiti si trasformano L’avvicinarsi delle prime elezioni a suffragio allargato, previste per il 22 ottobre 1882, produsse un’intensificazione del fenomeno, già in atto da tempo, dello sfaldamento dei partiti tradizionali. Tale modificazione rispondeva in parte ad un effettivo venir meno dei contrasti di fondo fra numerosi settori della Destra e della Sinistra e in parte ad un vero e proprio progetto politico di cui Depretis si era fatto interprete sin dal 1862 quando, in tempi non sospetti, aveva rivendicato la propria presenza in un governo di Destra col fatto che «non si può ammettere che le maggioranze debbano rimanere immutabili [...]. Le idee si maturano coi fatti, e come la scienza progredisce e il mondo cammina, anche i partiti si trasformano. Anche essi subiscono la legge del moto, la vicenda delle trasformazioni». Il termine «trasformazione» dei partiti venne mutuato dal vocabolario scientifico a cui ricorreva la cultura positivistica dell’epoca. Si andava diffondendo in quegli anni la vulgata darwiniana secondo cui la natura operava per «evoluzione». Questa «legge» veniva estesa anche alla politica, rendendo così obsolete le teorie della fedeltà ad oltranza alle idee a cui si era giurata obbedienza. Per Depretis la prospettiva trasformista non doveva essere un’argomentazione estemporanea a difesa del proprio operato, se è vero che volle riaf-

14  R. Bonghi, La situazione del paese e il diritto di associazione, in Id., Programmi politici e partiti, Le Monnier, Firenze 1933, p. 144. 15  Associazione Costituzionale di Reggio, in «L’Italia Centrale», 20-10-1882.

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fermarla anche nel momento della vittoria quando, in veste di primo ministro si augurò quella feconda trasformazione dei partiti, quella unificazione delle parti liberali della Camera, che varranno a costituire quella tanto invocata e salda maggioranza, la quale, ai nomi storici tante volte abusati e forse improvvidamente scelti dalla topografia dell’aula parlamentare, sostituisca per proprio segnacolo una idea comprensiva, popolare, vecchia come il moto, come il moto sempre nuova: «il progresso». Noi siamo, o signori, un ministero di progressisti16.

Evidentemente, tuttavia, tale invito poteva incontrare attenti interlocutori a destra solo nel momento in cui il «moto» del progresso andava esaurendo il proprio potere d’attrazione nei confronti della borghesia. Così, quando l’8 ottobre 1882, alla vigilia del delicato passaggio elettorale, Depretis rivendicò a Stradella la coerenza dei «suoi discorsi precedenti», ribadendo che non si poteva respingere qualcuno se «vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se [...] vuole trasformarsi e diventare progressista», Minghetti poté raccogliere l’invito, in quanto il primo ministro aveva parlato senza dir motto di riforme politiche [...]. Io me ne compiaccio perché nell’anno scorso dichiarai espressamente a Legnago che desiderava in esse una sosta [...]. Pertanto l’opinione pubblica [...] desidera che fra gli uomini i quali hanno le idee più affini, si formi un accordo per costituire in Parlamento una maggioranza omogenea, la quale sostenga un Ministero serio, onesto e forte [...] e segua il Ministero per convincimento; non faccia dipendere il suo voto da considerazioni secondarie o da interessi locali o personali17.

Di fatto le elezioni del 1882 assicurarono il successo del disegno politico di Depretis, impegnato a convogliare i partiti in un progetto di governo che per la sua natura «amministrativa» e «stabilizzatrice» avrebbe potuto raccogliere consensi fuori da ogni conflitto ideologico. Le urne, a cui si recò il 60,7% degli aventi diritto, premiarono lo

 L. Lucchini (a c. di), La politica, cit., vol. II, p. 12.   Ivi, pp. 283-285 e 290.

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schieramento della maggioranza «trasformista», che vide affluire tra le sue fila quasi tutti i 173 nuovi deputati, la maggior parte dei quali privi di precisa fisionomia politica, ma decretarono anche l’avanzata dell’Estrema Sinistra. Fortemente penalizzate invece furono la Destra non trasformista e la vecchia Sinistra dissidente. I risultati elettorali provocarono comunque forti tensioni anche all’interno della Sinistra storica, le quali sfociarono, nel maggio 1883, nella caduta del governo. Il dibattito che precedette la crisi diede il definitivo imprimatur politico all’esperienza del trasformismo parlamentare. Di fronte alle accuse di opportunismo lanciate da Nicotera nei confronti della Destra, Minghetti ribadì la coerenza delle proprie opinioni, rispecchiate peraltro dagli atti e dalle intenzioni del governo Depretis, in cui non solo si riconosceva ma di cui, in molti casi, si considerava precursore. L’onorevole Nicotera ieri ha sollevata la bandiera della Sinistra antica, della Sinistra storica, contro la Destra antica, contro la Destra storica [...]. Però io domando: sotto queste denominazioni esistono oggi le stesse differenze che esistettero per il passato? Se sì, ditelo, discutiamo [...]. Ma se quelle antiche denominazioni non contenessero più differenze sostanziali; se fossero forme vuote di contenuto, allora, o signori, a che si riduce l’invocazione dell’on. Nicotera? O è un mero dottrinarismo, o è un lievito di rancori e di antipatie personali.

A cemento di questa nuova maggioranza, Minghetti volle anche rimarcare l’affinità ideologica che la teneva insieme in un Parlamento privo di rappresentanti conservatori, i quali si sono lasciati o intimidire o fuorviare da un partito che avversa l’ordine presente delle cose [...]. Però nel principio del nostro Regno il compito era così grande, che ciò nonostante abbiamo potuto dividerci in due partiti. Il fine era uno, ma il metodo per giungervi era assolutamente diverso [...]. Ma oggi dov’è la bandiera, dov’è il principio che ci separa?18

Secondo il deputato bolognese, dunque, il nuovo corso politico e l’avanzamento dei partiti estremi imponevano un solo, unitario compito: quello di rallentare e guidare il più possibile l’avvento della  Ivi, pp. 312-315.

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democrazia. Lo confidava esplicitamente alla regina Margherita in una lettera del 1883: «impedire che la democrazia venga a partecipare ognor più al governo sarebbe vano [...] bisogna dunque educarla [...] se la democrazia viene a partecipare ignorante e brutale avremo quella alternativa di anarchia e dispotismo di cui la Francia ci diede saggi non pochi»19. Depretis appoggiò indirettamente questa linea, respingendo ogni mozione che ponesse condizioni al governo e ottenne la fiducia della Camera. Dopo questo voto, che rappresentò l’atto di nascita del trasformismo, Zanardelli e Baccarini uscirono dalla compagine governativa e iniziarono le trattative con gli altri capi della Sinistra storica contrari al trasformismo. Assieme a Cairoli, Nicotera e Crispi diedero vita a un unico raggruppamento d’opposizione, denominato «pentarchia», nato di fatto a Napoli il 25 novembre 1883, che si affiancò alle forze dell’Estrema senza tuttavia trovare con queste un omogeneo punto d’incontro. La «pentarchia», benché fosse il prodotto della convergenza di 8 senatori e 86 deputati di Sinistra in prevalenza meridionali, ebbe una notevole diffusione anche al Nord, come espressione di settori liberal-democratici sensibili alla cultura del radicalismo. Anche fra gli uomini che costituirono la «pentarchia» con lo scopo di «resistere alla dittatura di Depretis e minarla»20 vi erano quindi differenze regionali e sottili discrepanze ideologiche, che comunque non impedirono, almeno nei primi tempi, una fattiva collaborazione. Ciò che univa le varie personalità era, infatti, la consapevolezza della necessità di mantenere distinto, dentro e fuori il Parlamento, lo schieramento di Sinistra da quello di Destra. Un’idea, dunque, diametralmente opposta a quella di Depretis e di Minghetti, espressa con chiarezza da Baccarini in un discorso tenuto a Genova il 2 ottobre 1883: Come in Inghilterra vi saranno sempre i whigs ed i tories, così nei paesi latini, e specialmente in Italia vi saranno sempre in Parlamento [...] una Destra ed una Sinistra, storiche per le origini loro, ma rinnovanti ciascuna

19  L. Lipparini (a c. di), Lettere fra la regina Margherita e Marco Minghetti, Longanesi, Milano 1947, p. 111. 20  G. Finali, Memorie, Lega, Faenza 1955, p. 183.

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ogni giorno una pagina della loro storia per adattarla ai rinnovati tempi (Applausi)21.

Come tattica politica il trasformismo comportò una maggiore dinamicità del ruolo del presidente del Consiglio, catalizzatore di tutte le componenti politiche disponibili a trattare con il governo in un’ottica puramente «amministrativa», se non clientelare. Non è tuttavia possibile interpretare il trasformismo esclusivamente in chiave di manovre di potere, dimenticando il contesto culturale europeo da cui aveva origine. In sede teorica l’ipotesi di un’unione dei «centri», dei «partiti virili medi», quello liberale e quello conservatore, era stata teorizzata dal giurista svizzero Johann Kaspar Bluntschli già nel 1869 e ripresa dalla cultura politica di molti paesi europei compresa l’Italia, grazie allo stesso Minghetti. Unione, ma senza alcun obbligo di fusione. Il progetto trasformista, rivendicando l’omogeneità sostanziale della classe politica nel momento in cui le antiche differenze impallidivano di fronte alle ben più radicali sfide delle forze antisistema, va letto non solo come una esplicita richiesta di serrare le fila attorno all’esecutivo, ma soprattutto come un tentativo di individuare un percorso politico alternativo al government by discussion, pilastro della modernità politica del XIX secolo, senza per questo dover rinunciare alla ineludibile presenza legittimante del parlamentarismo. Tale progetto, dunque, al di là dei pratici intenti di Depretis di conservare il potere mediante dosaggi di alchimie parlamentari, mirava a rafforzare il ruolo del governo, secondo le esigenze dell’epoca, ma anche quello del presidente del Consiglio, depotenziando in tal modo la forza progettuale e riformatrice a cui avrebbe potuto ambire un esecutivo di Sinistra; forza che, non a caso, i settori più avanzati di quella compagine non intendevano perdere. Se l’on. Depretis – disse Zanardelli nel 1883 – avesse camminato sulla linea retta dei principi della Sinistra, se avesse costantemente praticato una politica liberale, se avesse serbato fede a quelle parole del suo antico programma [...] secondo le quali non bisogna che ci siano le mezze libertà, nessuno avrebbe potuto muovergli accusa perché la Destra gli avesse dato i suoi voti.   A. Baccarini, Discorsi politici 1876-1890, Zanichelli, Bologna 1907, p. 78.

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Il meccanismo trasformista non implicava – come troppo spesso si è ritenuto sulla base della retorica della polemica politica dell’epoca, utilizzata abbondantemente da amici e avversari del progetto depretisino – alcun «rompete le righe» dei tradizionali partiti parlamentari per farne nascere uno nuovo in funzione di uno stabile e patriottico sostegno al governo. La ragione del successo della proposta di Depretis va invece ricercata nella logica che gli aveva fatto esclamare: «alla Camera non vedo che maggioranza e opposizione», cioè un’articolazione funzionale alla nuova centralità del Governo. Era, dunque, necessario convincere l’opinione pubblica della urgente necessità di preservare l’esecutivo dal conflitto tra le parti, di farne un approdo sicuro per tutti nel tempestoso mare dei cambiamenti in corso nella società, indipendentemente dai contenuti dell’azione governativa. Tale scelta, neutralizzando il significato politico del governo come «organo di parte», permise a Depretis di portare a compimento la sofisticata operazione di assicurarsi il voto favorevole non di uno schieramento di maggioranza, ma di una maggioranza di schieramenti, erodendo solo molto lentamente l’identità politicoideale dei deputati a cui, non a caso, si chiedeva solo il voto in aula e non abiure o mutazioni identitarie. In tal modo, parti consistenti di entrambi gli schieramenti della classe politica liberale poterono continuare a rivendicare una propria «diversità» ideale e a percepirsi sempre come «progressisti» – in quanto accomunati dal rifiuto di quel partito conservatore inesistente alla Camera ma attivo nel pae­ se – pur sostenendo un governo che si fondava sul congelamento delle riforme. Quello di Depretis fu, per molti aspetti, un capolavoro tattico e strategico che legava i deputati al governo lasciando loro, nello sfondo del proprio retaggio politico-ideale, la convinzione di essere migliori e superiori al «grigio» ma necessario esecutivo depretisino. Con l’istituzionalizzazione del trasformismo, tuttavia, una larga parte della classe politica liberale decideva di formalizzare la rinuncia a quella conflittualità che pure, in qualche modo, l’aveva caratterizzata sino agli anni ’70, e di puntare sulla mediazione amministrativa degli interessi in gioco nel momento in cui si rendeva inevitabile l’estensione del suffragio. L’«opportunismo» della «congiunzione dei centri» in Francia e il trasformismo in Italia si presentavano dunque come processi tendenti alla stabilizzazione del sistema: si trattava, in altre parole, di fenomeni fisiologici all’interno di un sistema fondamentalmente elitario come

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quello liberale, perennemente alla ricerca di una mediazione nel rapporto società-Stato che eludesse il pericolo del conflitto. È possibile avanzare l’ipotesi che, in generale, una costante e prolungata prassi trasformistica, illusoria speranza di «neutralizzazione» del politico, potesse significare nell’età liberale il tentativo di contrapporre una barriera al riprodursi di interessi contrastanti. Alla fine della sua lunga stagione governativa Depretis dovette tuttavia constatare che il suo sistema si era istituzionalizzato solo nella forma. Nella sostanza, invece, la crescente domanda di direzione politica testimoniava, anche a livello istituzionale, l’esistenza di una rinnovata conflittualità, espressione non solo del moltiplicarsi di nuovi e non sempre addomesticabili interessi, ma anche dell’estendersi di disagi e aspirazioni sociali non neutralizzabili dall’incerta blindatura trasformista. Dal maggio 1883, data della formale inaugurazione della stagione trasformista, al momento della sua morte nel luglio 1887, Depretis rimase sempre a capo dell’esecutivo, varando altri tre governi sulla base delle accorte alchimie parlamentari che inducevano il primo ministro a destreggiarsi tra i vari gruppi della galassia trasformista. Nella prassi la politica di Depretis fu costantemente volta a rinviare i problemi, lasciarli decantare, in modo tale da attirare nella sua maggioranza il più alto numero possibile di deputati indipendentemente dalla posizione politica, utilizzando non di rado come convincente contropartita le risorse dell’amministrazione pubblica. Nel Parlamento adunque avviene spesso – secondo Crispi – una specie di contratto bilaterale. Il ministero dà le popolazioni in balìa del deputato, purché il deputato lo assicuri del suo voto [...]. Bisognerebbe vedere il pandemonio di Montecitorio quando si avvicina il momento d’una solenne votazione. Gli agenti del Ministero corrono per le sale e per i corridoi, onde accaparrare voti. Sussidi, decorazioni, canali, ponti, strade, tutto si promette; e talora un atto di giustizia, lungamente negato, è il prezzo del voto parlamentare. Il quadro che vi ho delineato ha tinte nere, ma è genuino e non esagerato22.

Di fatto il trasformismo, riducendo il Parlamento ad un luogo di compensazione, aveva garantito una sorta di «nazionalizzazione» degli interessi locali, depurati da ogni potenzialità politica. Depretis   L. Lucchini (a c. di), La politica, cit., vol. II, pp. 430-431.

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«era riuscito – scrisse in seguito il moderato Bonfadini – a convertire la Camera italiana in un vasto consiglio provinciale, in cui ogni deputato rappresentava il suo collegio, e il governo solo pretendeva rappresentare la nazione»23. In una tale situazione il lento «addomesticamento» del ruolo del Parlamento procedeva di pari passo con una politica finanziaria spregiudicata, la cosiddetta «finanza allegra» del ministro Agostino Magliani, necessaria per sostenere la principale fonte di pressione governativa. L’abile azione del Magliani e le manovre dilatorie di Depretis avevano finito per produrre un effetto corrosivo su quella che era la principale prerogativa parlamentare, il controllo sulla gestione finanziaria del governo. La stessa Triplice Alleanza e la più decisa politica coloniale, oltre a rappresentare un nuovo corso nell’intreccio tra politica estera e interessi speculativo-industriali legati allo Stato, s’inserivano coerentemente nella logica trasformista del contenimento dei movimenti di opposizione nel paese. Tuttavia, a partire dal 1885, il sistema di potere creato da Depretis cominciava ad apparire a settori sempre più ampi della vecchia maggioranza come incapace di coniugare autorità ed efficienza. Alle elezioni del maggio 1886, nonostante la buona riuscita dei candidati governativi, Depretis incontrò diverse difficoltà a rimodellare l’ennesima maggioranza trasformista. Molti deputati, soprattutto a destra, incoraggiati dai favorevoli esiti elettorali, avevano infatti riacquistato una maggiore autonomia rispetto al governo; autonomia che andò accentuandosi in seguito alla morte, nel dicembre 1886, di Minghetti, il quale tra l’altro aveva cominciato a prendere le distanze dall’interpretazione del trasformismo, a suo avviso «immorale», data da Depretis. Partendo da simili basi, l’anziano e malato primo ministro fu costretto a rivedere il tradizionale assetto moderato dei suoi governi «trasformisti». Il suo ultimo esecutivo, varato il 4 aprile 1885 nel marasma delle polemiche suscitate dalla notizia della sconfitta di Dogali, primo grave rovescio militare in campo coloniale, scelse di ricorrere a due dichiarati avversari del trasformismo, i «pentarchi» Zanardelli e Crispi. Quest’ultimo, chiamato ad occupare la carica di ministro degli Interni, veniva ormai identificato come il naturale successore di Depretis proprio in virtù delle sue doti di energia e fermezza.

23  R. Bonfadini, I partiti parlamentari in Europa e particolarmente in Italia, in «Nuova Antologia», CXXXIII, 1894, p. 634.

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La geografia della nazione L’avvento al potere della Sinistra, al cui interno un ruolo decisivo era giocato dalla componente meridionale, mise fine al rigido esclusivismo settentrionale su cui si era basato sin dall’inizio il governo della Destra. Non fu certamente un caso che, proprio nel momento in cui la Sinistra si accingeva a dirigere il paese dopo aver per anni contestato agli avversari l’incapacità di dare spazio alle forze «vive» della nazione, l’Italia prese per la prima volta consapevolezza dell’esistenza di una «questione meridionale». Ristretti ma agguerriti gruppi di intellettuali, mediante indagini sul campo e studi specifici, cominciarono a denunciare le condizioni di arretratezza della società civile e i rapporti di produzione «feudali» nelle campagne del Mezzogiorno, cercando di andare al di là della classica argomentazione del «fardello» borbonico e della corruzione del «carattere» di quelle popolazioni. Ad accomunare le differenti analisi era il desiderio di fornire alla classe dirigente le argomentazioni tecniche e culturali per un energico intervento riformista, prima che la questione meridionale potesse trasformarsi in un serio pericolo per le istituzioni. Il problema sociale più urgente, infatti, veniva individuato nell’iniqua distribuzione delle risorse nelle campagne che, soprattutto al Sud, determinava spaventose condizioni di vita per le «plebi agricole». L’obiettivo di farle partecipare al benessere prodotto, affinché non avessero «interesse al sovvertimento dell’ordine sociale esistente», si scontrava con il miope egoismo dei proprietari. La condizione del contadino in Italia – scrisse Sonnino sulla «Rassegna Settimanale» nel novembre del 1879 – era «miserevole»: Male alloggiato, male pagato, mal nudrito, schiacciato da un lavoro soverchio che egli esercita nelle condizioni più insalubri, ogni consiglio di risparmio è di fronte a lui un’ironia, anche nelle migliori annate, ogni dichiarazione della legge che lo proclama libero ed eguale ad ogni altro cittadino un amaro sarcasmo. A lui che nulla sa di quel che sta al di là del suo comune, il nome d’Italia suona imposte, leva, prepotenza delle classi agiate; dal giorno che di questo nome ha sentito parlare, vede per ogni verso peggiorata la sua sorte [...]. L’esattore e il carabiniere: ecco per ora i soli propagatori della religione della patria in mezzo alle masse abbruttite del nostro contadiname24. 24  S. Sonnino, Scritti e discorsi extraparlamentari, a c. di B.F. Brown, 2 voll., vol. I, 1870-1902, Laterza, Bari 1972, pp. 324-325.

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Proprio mentre cominciavano a circolare queste riflessioni sulla patologica e soffocante sovrapposizione tra il nuovo potere politico e il tradizionale prepotere «fattuale», l’economia europea subì una profonda trasformazione che, soprattutto a partire dagli anni ’80, determinò sempre più estesi sconvolgimenti nei consolidati assetti economici, sociali e culturali di molti paesi. L’impressionante crescita della produzione cerealicola americana e lo sviluppo dei traffici marittimi, oltre che delle tecniche di conservazione alimentare, comportarono infatti un considerevole aumento delle importazioni di grano d’oltreoceano a prezzi molto ridotti. In Italia il risultato fu un inesorabile declino della redditività del capitale fondiario e delle prospettive, anche culturali, di chi considerava la proprietà terriera l’insostituibile perno dello sviluppo nazionale. Con la redditività della terra si riduceva anche l’enorme potere dei proprietari, la cui influenza sui contadini andava ben oltre il rapporto di lavoro. Tale allentamento di vincoli secolari fu accelerato peraltro dalle crescenti ondate di emigrazione contadina, verso l’America latina prima e gli Stati Uniti poi (negli anni ’80 la media annua di espatriati fu di 188.000 unità, mentre nel decennio successivo raggiunse le 283.000). La rarefazione della manodopera maschile favorì un ruolo più attivo delle donne nei lavori agricoli e per molti aspetti contribuì ad estendere, almeno nelle grandi aziende agricole, l’utilizzo di macchinari in grado di ridurre l’impiego della forza-lavoro e limitare la tendenza all’aumento dei salari. Il fenomeno migratorio, nel complesso, grazie soprattutto alle rimesse, comportò un considerevole afflusso di denaro e un miglioramento delle condizioni di vita in molte delle zone più povere d’Italia. La crisi agraria rese ancora più visibile il dinamismo dei nascenti nuclei industriali e più seducente l’appello protezionista, di cui il laniere veneto Alessandro Rossi fu senza dubbio il maggiore interprete. La difficile congiuntura economica internazionale diede dunque vigore alla ancora minoritaria domanda di protezione doganale, perché convinse i ceti agrari meridionali della convenienza a mantenere lo status quo e a salvaguardare la scarsa propensione all’innovazione produttiva, mediante l’adozione di una politica di barriere tariffarie. La fragilità dell’economia meridionale era stata nel frattempo messa in luce da un’inchiesta parlamentare avviata nel 1877 dal senatore Jacini. Non mancarono, tra le pagine dei quindici volumi dell’inchiesta, indicazioni sulla necessità di migliorare le

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condizioni dei contadini; ma a tal proposito, per evitare indesiderate «speculazioni» politiche, la maggioranza della giunta parlamentare si oppose alla richiesta di Bertani di estendere l’indagine anche al tema delle condizioni dei lavoratori. La crisi comunque stava rendendo ormai superflue tali indicazioni di riformismo liberale agrario. La congiuntura negativa produsse infatti una prima, significativa ondata di richieste di protezione agraria soprattutto nell’area padana: nel 1884-85 nacque la Lega di difesa agraria, il cui motto era «liberali sì, liberisti no». Il sistema liberista capitolò definitivamente nel luglio del 1887, in seguito all’approvazione in Parlamento della nuova tariffa doganale del Regno d’Italia, che copriva una parte considerevole della produzione industriale e la produzione cerealicola. La tariffa, violentemente attaccata dai liberisti come immorale ed economicamente controproducente, fu presentata come occasione per l’acquisizione di efficienza economica nazionale e misura di adeguamento al clima di concorrenza internazionale. La linea protezionistica venne tuttavia a patti in molti settori con gli interessi dei vari liberismi «particolari», che ad esempio nel settore finanziario riuscirono a difendere il regime pluralista delle banche di emissione. I risultati non si fecero attendere: si ebbe un incremento del processo di industrializzazione al Nord, in particolare dei comparti tessile e siderurgico, unitamente ad un’estensione del divario di crescita economica fra il Settentrione e il Meridione d’Italia. Il Mezzogiorno, pur all’interno di una propria dinamica di trasformazione, divenne, a partire da questa fase, economicamente subalterno al Nord in maniera stabile. La tariffa del 1887 non fu tuttavia il frutto di una convinzione dottrinaria o di un coerente programma economico, bensì il punto di approdo di un ceto dirigente adeguatosi al nuovo clima di competizione aggressiva che caratterizzava sia i rapporti economici internazionali sia quelli sociali interni. In effetti persino nelle relazioni tra lavoratori e imprenditori cominciava ad affermarsi, come scrisse la «Rassegna Settimanale», un «diritto alla lotta ormai riconosciuto». Le misure adottate nel 1887 furono, in altre parole, anche un antidoto all’angoscia dell’opinione pubblica, avvicinatasi sin dalla seconda metà degli anni ’70 alla prospettiva di un conflitto tra classi con lo smarrimento di chi se ne riteneva immune. Una parte considerevole della classe politica liberale, assecondando frammentati e spesso contraddittori interessi, arrivò così a tracciare un chiaro per-

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corso politico in cui, a una scelta più o meno razionale di allocazione di risorse, si affiancava l’esigenza di riformulare in termini nuovi il problema del rapporto tra Stato e cittadini. Si trattava in altre parole di «incapsulare» le promesse, mai rinnegate dalla Sinistra, di estensione delle libertà politiche, economiche e amministrative in un contesto «modernizzante» come quello dell’efficienza nazionale e della relativa «strumentazione» amministrativa. Non a caso all’atto pratico si moltiplicavano regolamenti e razionalizzazione dei lavori parlamentari, mentre gli esecutivi si davano più stabili organizzazioni (si pensi ad esempio all’Ufficio di Presidenza del Consiglio dei ministri, nato nel 1881, e all’istituzione dei sottosegretari nel 1888, solo per segnalare i casi più noti). Il contesto richiedeva infatti maggiori competenze per governare una società in procinto di intraprendere la strada dell’industrializzazione, ma anche per controllare le prime pallide sperimentazioni di democrazia conflittuale. L’Italia alla vigilia dell’ultimo decennio del secolo manteneva, dal punto di vista economico e sociale, molti indicatori di arretratezza rispetto agli altri paesi europei. Non mancavano, tuttavia, segnali di una lenta modificazione del profilo socio-economico, premesse del futuro decollo industriale. Nel 1887 la popolazione aveva raggiunto i 30 milioni di unità, e sempre nello stesso anno il prodotto dell’agricoltura era sceso per la prima volta sotto il 50% di quello totale, dato simbolico che divenne stabile solo a partire dal 1901, mentre quello delle attività terziarie aveva sfiorato il 30%. Notevole fu l’incremento della rete viaria e di quella ferroviaria, passata dai 2.700 chilometri del 1861 ai 12.000 di fine anni ’80. Questo particolare tipo di sviluppo forniva un’ulteriore spinta ai processi di trasformazione del tessuto urbano che, soprattutto in questo decennio, conobbe un’intensificazione incontrollata. Negli anni ’80, inoltre, questi primi fenomeni espansivi alimentarono il peso dell’intermediazione finanziaria. Politicamente, la violenta crisi in atto nell’universo rurale aveva già contribuito a modificare le iniziali intenzioni di Depretis di cooptare all’interno del blocco di potere le ragioni di quell’incerta alleanza che gli aveva garantito la direzione del governo. Per il ministro di Stradella un simile tentativo aveva significato, in una prima fase, mediare tra due impostazioni contrastanti e dare dunque maggiore spazio alla linea liberista e agricolturista, gradita ai proprietari terrieri meridionali

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e ad alcuni settori del capitalismo finanziario, a parziale detrimento dell’impostazione dalla Destra «statalista», più incline a soddisfare le richieste di consolidamento del processo di industrializzazione. La sopravvenuta crisi dell’agricoltura convinse Depretis della impraticabilità di tale mediazione e dunque della necessità di sacrificare il lato «meridionale» del suo progetto di sviluppo. La riforma elettorale del 1882 aumentò il peso relativo degli elettori del Nord, sanzionando definitivamente la «settentrionalizzazione» della maggioranza depretisina. Tale prospettiva tuttavia non modificò l’intento iniziale del ministro di impedire che l’irrigidimento «regionale» si tramutasse in un pericoloso e permanente conflitto politico. A questo proposito il protezionismo garantiva l’integrazione, sia pure subalterna, degli interessi agrari meridionali all’interno della principale direttiva di sviluppo, industrialista e settentrionale. Un’integrazione che, pur allontanando il Meridione dal circolo virtuoso dello sviluppo economico, impediva una possibile fuoriuscita traumatica dall’orbita delle patrie istituzioni. La crescita e il progresso al Nord potevano essere difesi come valori nazionali solo a condizione che alle élites agrarie del Mezzogiorno venisse garantito lo status di classe dirigente, sia pure di tipo particolare, cioè priva della possibilità e volontà di dar voce agli interessi dell’intera società meridionale e soprattutto non più in grado di determinare attivamente la linea di uno sviluppo già deciso. Nell’ottica degli equilibri regionali, dunque, la nascita di un centro governativo su base trasformista garantiva alla deputazione meridionale la possibilità di sopravvivere in quanto tale, e di conseguenza si proponeva anche come espediente strategico per sciogliere l’antico nodo dell’intreccio di opposizione politica e opposizione meridionale. Il disegno di Depretis, pur giustificandosi con contingenti esigenze di più stabili alleanze parlamentari, non nascondeva il carattere organico di progetto che, per la prima volta dopo l’epopea risorgimentale, ambiva a ridisegnare la mappa, anche geografica, dei nuovi e dei vecchi interessi da porre a fondamento di una più coerente e moderna politica di sviluppo e contenimento sociale.

VI Euforia crispina (1887-1891) Giacobinismo ordinatore Quando Crispi venne chiamato alla guida del governo nell’agosto del 1887, dopo la morte di Depretis, l’equilibrio parlamentare centrista costruitosi attorno alla figura del defunto presidente del Consiglio era ormai in crisi, mentre si moltiplicavano le invocazioni per una più energica azione dell’esecutivo da contrapporre all’inerzia delle continue mediazioni parlamentari. L’uomo politico siciliano arrivava al potere in un momento in cui la perdurante crisi economica, la crescente politicizzazione del movimento operaio e contadino, la debole egemonia delle classi dirigenti alle prese con il declino della proprietà terriera e l’ancora incerto procedere dell’industria, l’inarrestabile deficit finanziario e il malcontento per il ruolo marginale dell’Italia in politica estera sembravano fondersi in un generale ripensamento dei tradizionali confini tra società e Stato. Crispi apparve sin dalla sua partecipazione come ministro degli Interni all’ultimo governo Depretis l’elemento più adatto a farsi carico di tali contraddizioni: l’intemerato radicalismo stemperato nella devozione alla monarchia, il passato patriottico e la personalità energica sembravano poter garantire un nuovo, più vigoroso corso alla vita pubblica nazionale senza dover stravolgere, almeno formalmente, alcuni consolidati assetti parlamentari. Apprezziamo in lui – scrisse il «Corriere della Sera» – il patriottismo, il coraggio, l’ardimento. Apprezziamo la sua maschia risolutezza e ben anche quell’affermazione imperiosa dell’io che è la sua principale caratteristica. Dopo il governo senile di Depretis, dopo quel governo senza

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nocciolo, molle e lubrico come un mollusco che [...] aveva condotto il paese assonnato a Dogali, provammo tutti un vero ristoro ai primi atti vigorosi del Crispi1.

Il nuovo primo ministro si propose da subito come simbolo di una ripresa morale e politica del paese, da attuarsi essenzialmente mediante una progressiva estensione del margine legale dell’autorità statale. In questo senso passionalità politica, «giacobinismo» e cultura giuridica, tratti salienti della personalità di Crispi sin dai tempi delle imprese garibaldine, apparivano ora agli occhi delle classi dirigenti nazionali le caratteristiche ideali di una scorciatoia attraverso cui rilanciare l’iniziativa politica dello Stato, arrivando così a una cauta e formalizzata estensione delle basi sociali della vita pubblica, senza cedere alle prospettive della democrazia politica. A Depretis dunque succedette un uomo che, forte anche dell’iniziale larghissimo consenso alla Camera e nel paese, non mostrava alcun timore nel procedere sulla strada di un’intensa attività riformatrice. Da sempre oppositore del trasformismo, lo statista di Ribera si era più volte dichiarato convinto sostenitore della necessità di un bipartitismo parlamentare e di una netta divisione di programmi e ruoli tra opposizione e schieramento governativo. L’omaggio alla tradizione classica del parlamentarismo non va interpretato come desiderio di una maggiore centralità della Camera nella vita politica ma, al contrario, come un contributo alla soluzione del problema dell’eccessivo potere del Parlamento. La distinzione partitica, in questo caso, sembra infatti l’unico modo – almeno, l’unico coerente con il patrimonio ideale ereditato dalla «rivoluzione» a cui Crispi si richiamava ossessivamente – di restituire forza all’esecutivo senza dover estendere le prerogative della Corona («Il Re bisogna che stia nella sfera sublime e pacata in cui la Costituzione lo ha posto»). La migliore garanzia di libertà per il governo sarebbe dunque stata una maggioranza stabile, determinata sulla base delle «idee» e del programma. Quindi, più che ai partiti in quanto tali, Crispi, una volta al governo, appariva interessato ad una solida maggioranza che gli garantisse un’ampia libertà di manovra. Per ottenerla, visto che il bipartitismo continuava a rimanere un atto di fede, la via più facile rimaneva quella di far leva sulla ormai ra1

  Il pericolo, in «Corriere della Sera», 14-2-1888.

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dicata predisposizione trasformistica del Parlamento, operando per scompaginare ogni nascente raggruppamento di quella opposizione di tipo britannico da lui così spesso invocata. «Volere o volare – scriveva Bonfadini – il Crispi vuol dire ancora trasformismo; soltanto vuol dire trasformismo attivo e salutare dove l’altro era fiacchezza ed inerzia»2. Da qui l’esigenza d’introdurre, nell’analisi politica, la categoria del «trasformismo crispino» in opposizione al «trasformismo depretino» almeno per ricordare «qual differenza passi fra un Trasformismo politico che era una corruzione, un infiltramento d’interessi personali e un Trasformismo che rende la maggioranza legislativa obbediente a chi fortemente vuole»3. Il trasformismo dunque modificava la sua natura, mentre rimaneva inalterata l’esigenza di fondo da cui era sorto, quella della neutralizzazione della sfida politica. Tale esigenza, come detto, era emblematizzata dal rifiuto liberale del partito, inteso come strumento di intervento politico di parte, e dall’adozione di un sistema di controllo di quel particolare tipo di potere apparentemente neutro rappresentato dallo Stato e dalla sua amministrazione. Si trattò di una scelta di grandissima rilevanza nella storia del nostro paese, in quanto stabilizzò un peculiare percorso di «alienazione dalla politica», da intendere come reticenza nel legittimare il ricorso a risorse esclusivamente politiche nel processo di edificazione della nazione e della sua identità. La prevalenza della cultura della centralità del governo su quello della rappresentanza, che l’introduzione del sistema trasformista rese evidente, non fu solo un’esigenza di razionalizzazione di un sistema sottoposto alle sfide della crescita economica e sociale ma anche la dimostrazione che il liberalismo, nel momento in cui si faceva carico della gestione pratica del governo, resisteva alla prospettiva di utilizzare il conflitto come strumento d’integrazione e di definizione dell’identità nazionale, pur avendo nel proprio patrimonio genetico una tale prospettiva. Fu proprio a partire da questi nuovi paradigmi culturali che maturarono, nella seconda metà degli anni ’80, sia il progetto politico crispino sia un nuovo approccio giuspubblicistico che, mediante l’opera pionieristica del giurista Vittorio Emanuele Orlando, postulava una dimensione più razionale

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  Biblioteca Comunale di Imola, Archivio Codronchi, Bonfadini, 30-9-1887.   Se no, finitela, in «La Sinistra», 15-12-1888 (corsivo mio).

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dello Stato di diritto a cui demandare la risoluzione della perpetua discrepanza tra i principi del liberalismo e la loro pratica attuazione. Se la proposta governativa di Depretis aveva assicurato la maggioranza trasformando la Camera nel terminale di una complessa rete di mediazioni politiche dell’esecutivo, quella di Crispi tendeva invece a fare del Parlamento l’inerte spettatore di una direzione politica accentratrice, ponendo la sua personalità come insostituibile sintesi di partito, governo e progetto politico in grado di aggregare una stabile maggioranza. «Coloro che seguono coteste idee – dichiarava alla Camera nel 1888 – sono i miei amici, coloro che le combattono, sono i miei avversari. Ecco fatti i due partiti». L’affidamento alle capacità e al patriottismo di Crispi divenne quindi un passaggio obbligato nella formazione di maggioranze plasmate dalla fascinazione per l’«uomo forte» e dalla mancanza di realistiche alternative. Il dualismo istituzionale tra governo e Parlamento prendeva sempre più le sembianze di un rapporto su base personale. Il presidente del Consiglio lasciò subito intendere la sua intenzione di limitare l’influenza parlamentare. Questa impostazione non discendeva da improbabili tentazioni dittatoriali, ma da una ben delineata immagine dei rapporti tra esecutivo e legislativo, ormai culturalmente sbilanciati a favore del primo. Tale scivolamento si è imposto nella percezione collettiva tra gli anni ’70 e ’80. Non era in gioco la centralità del governo, che esisteva sin dagli anni ’50, quando era divenuto chiaro che il motore legislativo era il governo; quello che avvenne a partire dagli anni ’70 (con il successo simbolicamente e materialmente decisivo del «prussianesimo», con il suo bagaglio di statalismo e burocrazia del tutto funzionali al pieno successo del processo di unificazione tedesca) fu semmai l’estendersi dell’insofferenza verso i tempi e i modi del Parlamento, nella convinzione che se si discute e non si governa si rischia il baratro. Contro la «scuola» che «v[oleva] il governo delle assemblee», Crispi auspicava «che il Parlamento ed il potere esecutivo a[vessero] ciascuno una potestà distinta. Il governo delle assemblee non è quello che preferisco. Le assemblee debbono legiferare; il Re ed i suoi ministri debbono l’uno regnare, gli altri governare». Una posizione formalmente ineccepibile, che collocava Crispi all’interno di quello schieramento del liberalismo europeo che stava ripensando criticamente gli assunti del tradizionale equilibrio costituzionale incentrato

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sulla mediazione parlamentare. Nel 1886 in Inghilterra, considerata la patria del liberalismo, il radicale unionista Joseph Chamberlain, in un colloquio con il conservatore Balfour, aveva ribadito: La nostra sfortuna è che viviamo in un sistema di governo escogitato per controllare l’azione dei re e dei ministri e che di conseguenza s’immischia troppo nella sfera dell’esecutivo. Il problema è dare alla democrazia l’intero potere inducendola tuttavia a non utilizzarlo al di fuori della scelta dei principi generali che desidera portare avanti e degli uomini che debbono farlo. Il mio radicalismo, ad ogni modo, vuole un governo forte e un governo imperiale4.

Dello stesso avviso era peraltro anche il tory democrat Randolph Churchill, avversario del leader conservatore Salisbury, che nel 1884 dichiarava addirittura di essere «bismarckiano». Non a caso Salisbury, espressione delle cautele costituzionali britanniche e fautore di un governo parlamentare «classico», «nella cui debolezza risiede anche la nostra sicurezza – la sola che abbiamo contro le alterazioni rivoluzionarie della legge»5, definì Crispi «il Randolph Churchill italiano»6. Per Crispi tuttavia, a differenza dei suoi colleghi britannici, il problema del governo finiva per perdere l’aspetto di questione costituzionale e assumeva un profilo misticheggiante che lasciava trasparire la formazione settaria e la prospettiva giacobina. Quando lo Stato rappresenta la nazione – disse in Parlamento nel marzo 1890 –, ha una vita che non gli è data dalle leggi, ma gli è data da Dio, e questo è il caso dell’Italia [...]. Per me, non credo neppure che a costituire uno Stato, il quale comprenda la nazione, siano necessari i plebisciti.

La separazione dello Stato dalla comunità politica reale rendeva così più agevole fantasticare di un futuro «progresso», in cui «il paese senza bisogno di delegati che possono non adempire o male 4  Citato in R. Harcourt Williams (ed. by), Salisbury-Balfour Correspondence, Record Society, Hertfordshire 1988, p. 137. 5  Lord Salisbury to A.J. Balfour, 29-3-1886, citato ivi, p. 359. 6  Citato in C. Seton Watson, L’Italia dal liberalismo al fascismo. 1870-1925, vol. I, Laterza, Roma-Bari 1993 (1967), p. 499.

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adempire al mandato, manifesterà per altra via la sua volontà»7. L’insistenza sulle varie gradazioni del concetto di volontà testimoniava non solo della scarsa attitudine alla mediazione parlamentare, ma anche di quell’ipertrofico sviluppo dell’«io» che ebbe un ruolo determinante nella vicenda politica crispina8. L’agiografico, romantico, ritratto del grande uomo, che si erge solitario e incompreso a difesa degli interessi e delle «memorie» della patria, a tal punto identificati nella sua figura che ogni opposizione politica assumeva l’aspetto di macchinazione antiunitaria o di attacco alla dignità della nazione, rappresentava dunque l’espressione esteriore di una concezione di «governo potente», cioè libero dalle pastoie del controllo parlamentare e fondato sulla fiducia personale. L’unica intromissione accettabile delle assemblee elettive doveva avvenire col voto di fiducia, al di fuori del quale, anche a causa del carattere ombroso del presidente del Consiglio, non erano ammesse pressioni o censure. Per gli oppositori, ogni giorno di più «viene scemato il diritto di interrogare ed interpellare il Governo» la cui condotta verso il Parlamento non è dunque tale da crescere a questo autorità ed aumentare il prestigio delle istituzioni parlamentari. In Africa agisce a suo talento, occupa territori, fa trattati di pace, e non consulta le Camere né si cura della loro approvazione. [...]. Noi comprendiamo [...] che gli indugi, i compromessi continui, le interminabili lungaggini del sistema parlamentare ripugnano ai caratteri energici e risoluti. Ma appunto per questo sono fatte: [...] impediscono talvolta od indugiano il conseguimento di un bene, ma cento volte risparmiano al paese gravissimi danni9.

Se il periodo tra il 1887 e il 1891 rappresentò una svolta, questa va cercata nella definitiva maturazione, all’interno della classe dirigente nazionale, della consapevolezza che la questione sociale doveva essere affrontata organicamente sul terreno della legittimazione politica e che la sfida della democrazia richiedeva una risposta nuova, non prevista dai canoni del liberalismo classico. Si cominciò a pensare in termini di «progettualismo» politico, cioè di convinzione, per la 7  Citato in R. Romanelli, Il comando impossibile. Stato e società nell’Italia liberale, Il Mulino, Bologna 1988, p. 247. 8  Sulla percezione coeva della superbia crispina cfr. tra i tanti G. Calce, Italia o Crispalia?, Quadrio, Sondrio 1895. 9  P., La crisi del sistema parlamentare e i partiti politici in Italia, in «Nuova Antologia», CX, 1890, pp. 68-71 e 73-74.

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prima volta teorizzata, che la politica non fosse il prodotto della naturale esplicazione dei fattori sociali ma, al contrario, fosse il terreno della progettazione dei mezzi attraverso cui adeguare una società al turbolento corso della «storia» o alle esigenze della «scienza». Nello scenario della crisi di fine secolo questa sembrava la prospettiva vincente, l’unica, comunque, considerata in grado di garantire il necessario sostegno alle emergenti forze economiche nazionali e di affrontare, sul terreno del «progresso» e della «modernizzazione», la radicale diversità della sfida democratico-socialista. La perdurante debolezza di ogni prospettiva egemonica della «borghesia nazionale», classe a cui Crispi riconduceva tutto il merito dell’unificazione, trasformò gran parte dell’impresa crispina in un gigantesco e serrato tentativo di razionalizzazione dell’amministrazione dello Stato, consumandone le residue velleità democratico-giacobine nell’estenuante processo di anticipazione/repressione dell’iniziativa delle classi popolari. L’intero impianto riformatore crispino va, dunque, inserito all’interno di una logica di «ammodernamento autoritario»: allo Stato spettava la risoluzione delle arretratezze sociali e politiche, e mentre si faceva carico delle aspettative di partecipazione e di democrazia che questo comportava, estendeva, legalizzandole, sia le proprie competenze sia il proprio potere; in questo modo avrebbe garantito la borghesia «rivoluzionaria» dai possibili rischi di una conflittualità politica dovuta all’immissione nella vita pubblica delle «plebi» estranee alle tradizioni risorgimentali. L’idea che il Risorgimento fosse una rivoluzione borghese ancora da completare venne più volte ribadita da Crispi, ma il suo «completamento» non doveva diventare occasione di rinnovata tensione sociale: Certo – scriveva nel 1891 Crispi – i doveri della borghesia non furono ancora compiuti, ed a lei compete quella parte del riordinamento sociale che deve assicurare alla classe operaia il benessere che l’è dovuto. Giova però riflettere che nella trasformazione economica, alla quale assistiamo e che noi stessi operiamo, dobbiamo prevenire i conflitti, affinché non vi siano vincitori e vinti10.

La sostanziale estraneità di Crispi ai meccanismi reali che muovevano le questioni economiche, finanziarie e sociali trapelava chia10  F. Crispi, Carteggi politici inediti di Francesco Crispi (1860-1900), a c. di T. Palamenghi-Crispi, L’Universelle, Roma 1912, p. 457.

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ramente dalla sua convinzione di poterle affrontare facendo dell’apparato amministrativo il volto «pacificatore» dello Stato. «Quando le basi della pubblica amministrazione siano bene stabilite – dichiarò nel 1887 – la soluzione delle altre questioni avviene come una conseguenza». L’antico cospiratore, una volta avviato a soluzione il problema del ritardo nello sviluppo del sistema amministrativo del paese, reputava la prosecuzione del conflitto politico, nelle sue varie gradazioni, un attentato all’unità nazionale di cui si considerava il simbolo più naturale e insostituibile. In questo senso la legislazione riformatrice crispina – basata su progetti di legge da tempo in circolazione e indirizzata ad un controllato e circoscritto sviluppo democratico – assunse una valenza peculiare non tanto per le specifiche novità introdotte dalle leggi, quanto per il significato di «risorgimento» amministrativo che l’energica azione del presidente del Consiglio volle dare a queste leggi. In prospettiva, la sua opera di integrazione fra una più estesa sfera di diritti e una più accentuata attività di controllo e presenza statale facilitò paradossalmente l’emersione di quelle «aspettative politiche» che Crispi intendeva prevenire e a cui comunque il suo paternalismo non poteva dare risposta, se non accentuando la componente autoritaria e le velleità della politica estera. Crispi il riformatore A riprova del nuovo spirito che animava l’imminente fase politica, solo tra l’ottobre 1887 e il gennaio 1888 furono presentati oltre 50 disegni di legge. In complesso la XVI legislatura, grazie all’energica azione di Crispi, fu quella che ebbe la più alta percentuale di disegni di legge presentati dal governo rispetto a quelli di provenienza parlamentare. A fronte delle 809 proposte di legge presentate complessivamente, ben 713 furono di iniziativa governativa. Si tratta del valore percentuale più elevato nella storia legislativa dell’Italia liberale. Crispi riuscì a condurre in porto molte riforme dell’apparato statale, anche se l’analisi del voto parlamentare sembra parzialmente ridimensionare il dato della «docilità» della Camera nei confronti dell’esecutivo. Se, infatti, nell’ultima fase del governo Depretis (prima sessione della XVI legislatura) la Camera aveva respinto il 21% dei progetti di iniziativa dell’esecutivo, il Crispi «riformatore» (no-

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vembre 1887-gennaio 1889) incontrò comunque una certa resistenza, tanto che il 36% circa delle proposte governative non fu tramutato in legge dalla Camera; una cifra tanto più significativa se messa a confronto con il 24% della fase successiva (gennaio 1889-agosto 1890). Questi dati, benché privi di valore assoluto, data la complessità delle implicazioni (tecniche e psicologiche) che sorreggevano la volontà legislativa del governo e la varietà qualitativa delle leggi, possono comunque essere assunti come una sorta di indicatore del «grado di resistenza» parlamentare alle pressioni del governo. L’«età d’oro» del trasformismo (la XV legislatura) vide, ad esempio, i deputati respingere il 30% dei progetti del governo Depretis, mentre nella prima fase della Sinistra storica si rimase attorno al 35%. Il punto di partenza dell’attività legislativa crispina fu ovviamente quello della razionalizzazione e del rafforzamento dell’amministrazione centrale. Crispi dotò la Presidenza del Consiglio di una sua segreteria e, richiamandosi alla lettera dello Statuto, fece approvare il principio dell’autorganizzazione dell’esecutivo estendendo la discrezionalità del governo alle questioni relative all’istituzione o soppressione dei ministeri, in precedenza sottoposte ad apposita legislazione. Si posero così le premesse per la creazione del ministero delle Poste e la ripartizione delle attribuzioni dei ministeri delle Finanze e del Tesoro (marzo 1889). Vennero inoltre istituiti presso i ministeri le figure dei sottosegretari di Stato in luogo dei segretari generali, trasformando così un incarico amministrativo in carica politica. Il provvedimento che tuttavia, più di ogni altro, caratterizzò l’intera opera riformatrice di questo periodo fu quello, approvato il 30 dicembre 1888, che estendeva il diritto di voto amministrativo a tutti i cittadini di sesso maschile che avessero compiuto il ventunesimo anno d’età, fossero in grado di leggere e scrivere e pagassero una qualsiasi forma, diretta o indiretta, di contributo annuale al comune di residenza. In tal modo il municipio si trasformò da comunità di contribuenti a comunità di cittadini. L’elettorato amministrativo passò dai 2.026.619 di aventi diritto del 1887 a 3.343.875 del 1889, di cui il 51,51% per capacità. La proposta di concedere il voto amministrativo anche alle donne proprietarie, che secondo il senatore Alessandro Rossi rappresentavano un terzo dei proprietari italiani, ebbe in Senato molti sostenitori. Nel 1876 la prospettiva del voto amministrativo alle donne abbienti era stata prevista da un progetto di riforma presentato da Nicotera, che però al pari di tanti altri non

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era più stato portato avanti. In questo nuovo frangente la richiesta fu invece fortemente avversata da Crispi il quale, sulla base delle più tradizionali argomentazioni utilizzate nel dibattito politico europeo dell’epoca, dichiarò nel 1888 alla Camera: sensibile ed impressionabile, come essa è, [la donna] non potrebbe avere sempre la mente serena e tranquilla, quando si occupasse della cosa pubblica [...] e per noi, quando dalla lotta politica [...] ritorniamo nelle nostre famiglie, [...] per trovare quel riposo al quale abbiamo diritto, sarebbe una grande sventura, o signori, che ricominciassero, entrando in casa, i contrasti e le lotte.

La legge inoltre rendeva elettivi da parte dei consigli comunali i sindaci dei comuni con popolazione superiore alle 10.000 unità (che nel 1889 erano 449). Per Crispi, come disse in Parlamento, una certa dimensione del comune era necessaria perché altrimenti «la nomina del sindaco sarebbe in balìa dei grossi proprietari [...] perché essi soli hanno una certa cultura, danaro, e perciò una grande influenza». Accanto al pericolo di intromissione dei grandi proprietari, «i quali mi chiedono il voto per gli analfabeti», esisteva l’ancora più insidioso pericolo che il «partito» cattolico «s’impadronisse delle amministrazioni comunali». A destra ci fu anche chi propose l’elezione diretta del sindaco da parte degli elettori, ma tale prospettiva venne rigettata perché «col sindaco eletto dagli elettori, quando fosse riunito il Consiglio, il sindaco sarebbe il suo rivale e non il suo mandatario»11. La principale preoccupazione di Crispi nel modificare l’assetto amministrativo del paese fu dunque quella di evitare, prevenendolo, ogni possibile inasprimento della conflittualità, e a questo proposito si mostrò molto attento a non perdere di vista il profilo eminentemente politico delle trasformazioni in atto. La legge che discutiamo è politica e non può essere altrimenti. Ed ora una domanda: potete voi dividere l’amministrazione dalla politica? [...]. Come volete che non vi sia politica nell’amministrazione del Comune, quando voi affidate ai Consigli comunali la redazione delle liste elettorali

11  Citato in P.L. Ballini, Il suffragio amministrativo in Italia: da Crispi alla crisi di fine secolo, in Fondazione Andrea Costa, Le elezioni dal 1889 e le amministrazioni popolari in Emilia Romagna, Sapignoli, Torriana 1995, p. 80.

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politiche? [...] E come mai si potrà sostenere che nel Comune non si debba fare politica, quando al capo del Comune sono affidate moltissime funzioni governative?

La riforma, inoltre, aveva dichiaratamente l’ambizione di accogliere alcune delle critiche più ricorrenti all’accentramento amministrativo, garantendo tra l’altro una maggiore autonomia agli enti locali e affidandone il controllo ad un organo parzialmente elettivo, la Giunta Provinciale Amministrativa. Anche in questo caso, Crispi non dissimulò il carattere politico dell’atto, difendendolo come misura difensiva dello Stato che deve ristabilire la propria egemonia là dove l’apologia della neutralità amministrativa poteva nascondere concentrazioni di potere che sfuggivano al controllo statale. Con questi provvedimenti il presidente del Consiglio sembrava dunque intenzionato a dare maggiore vigore ai percorsi verso le autonomie locali, senza tuttavia transigere in tema di controlli e garanzie. Si trattava, in altre parole, come disse un suo collaboratore, di rendere «più gagliardi quei vincoli che la cresciuta libertà potrebbe allentare»12. Il ruolo di controllo e censura delle Giunte Provinciali Amministrative si rivelò in effetti decisivo, dopo le elezioni del 1889, per contrastare numerosi casi di mala amministrazione e di connivenze malavitose, ma anche per contenere, almeno in una prima fase, le entusiastiche illusioni dei primi municipi a guida radicale o radical-socialista. Un esempio significativo, fra i casi di interventi «politici» della GPA, fu quello dello scioglimento del Consiglio di amministrazione della Congregazione di carità di Reggio Emilia, presieduto da un socialista, reo di aver tolto i ritratti dei sovrani da un locale della Congregazione. Alla fine del 1888 venne approvata la legge sulla tutela dell’igiene e della sanità pubblica, materia di pertinenza del ministero dell’Interno e dunque, a livello locale, dei prefetti e dei sindaci. La riforma intendeva istituire un modello di medicina pubblica basato sulla presenza di ufficiali sanitari in tutto il paese. Anche l’emigrazione fu oggetto di una legge, che colpiva soprattutto le forme incontrollate di arruolamento di emigranti da parte di mediatori privi di scrupoli. Un altro

12  Citato in G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana 1861-1993, Il Mulino, Bologna 1996, p. 159.

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importante tassello del disegno riformatore crispino fu quello della risoluzione dell’annoso problema della giustizia amministrativa, mediante l’introduzione di un’apposita sezione (la IV) del Consiglio di Stato. La legge, approvata il 31 marzo 1889, rinunciando alla riforma più generale del Consiglio di Stato, si limitava ad istituire un magistrato amministrativo e venne completata da un provvedimento dell’anno successivo che, affidando alle GPA la competenza per le controversie tra cittadini e amministrazioni locali, intendeva salvaguardare gli interessi dei privati dall’arbitrio di un’autorità amministrativa. Con questa legge si metteva fine alle polemiche che sin dal 1865 avevano caratterizzato il tema della giustizia amministrativa. Con i primi processi di dinamismo economico, sociale e politico, l’amministrazione ampliò quindi il proprio ruolo in funzione dell’incipiente esigenza di governare le trasformazioni in atto. Erano i prodromi di quello che i giuristi cominciavano a definire lo «Stato amministrativo». L’aumento delle competenze e delle responsabilità raggiunse il punto più alto nel XIX secolo, proprio con le iniziative legislative crispine, anche se non ci fu un parallelo, proporzionato sviluppo delle dimensioni organizzative e degli organici del personale. L’impianto amministrativo rimase dunque, nonostante gli impulsi dell’«interventismo» crispino, un apparato relativamente modesto in termini quantitativi, benché ormai avviato sulla strada di un crescente prestigio. Nuove competenze tecniche, il riconoscimento della tutela giuridica degli impiegati pubblici e un diverso peso nei rapporti con la politica contribuirono a fornire alla pubblica amministrazione una più marcata rilevanza istituzionale e, in termini d’immagine, un maggior impatto sociale. Il potenziale incremento di «libertà» e «modernità» prodotto dall’attivismo legislativo crispino doveva essere radicato in una nuova prospettiva di legalità e per tale motivo l’introduzione, nel 1890, di un nuovo codice penale, che prese il nome da Zanardelli, unitamente alla riforma di Pubblica Sicurezza, poteva considerarsi il collante dell’intero edificio riformatore. Con esso si arrivò alla tanto attesa unificazione della legislazione penale. Il nuovo codice prevedeva tra l’altro l’abolizione della pena di morte, la riduzione delle pene per i reati contro la proprietà, e, indirettamente, la liceità dello sciopero. Alla sostanziale liberalizzazione del codice si accompagnò una decisa riorganizzazione degli strumenti della Pubblica Sicurezza. Crispi volle, infatti, dotare lo Stato di strumenti più razionali per dare maggiore efficacia alla logica educativa

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del «prevenire per non reprimere». Era dunque necessario descrivere con maggiore chiarezza possibile le prerogative dell’intervento delle forze dell’ordine per codificare ciò che in precedenza poteva risultare semplice discrezionalità. Si rese inoltre indispensabile la riforma del reclutamento della magistratura, che eliminò il sistema della designazione diretta da parte del ministro introducendo un concorso riservato ai laureati in legge. Tuttavia questa razionalizzazione del sistema delle nomine non eliminò le influenze del potere politico sulla magistratura, visto che il ministro della Giustizia poteva sempre condizionare in vari modi i comportamenti dei pretori e dei giudici. Con tali riforme non scompariva dunque l’arbitrio governativo, che anzi era rivendicato da Crispi in nome del diritto di ogni governo a conservarsi. Il rispetto per i codici non aveva cancellato dall’orizzonte del vecchio rivoluzionario la prospettiva di un’azione risoluta ed energica che, per il bene della patria, poteva svolgersi anche al di fuori della legalità. Un’importante novità introdotta dalla legge fu quella di costringere i promotori di pubbliche riunioni (tranne le «elettorali») a darne preavviso (non a chiedere un permesso) di almeno ventiquattro ore all’autorità di Pubblica Sicurezza. Venne poi codificata la prassi discrezionale dello scioglimento d’autorità degli assembramenti in cui ci fossero grida sediziose. Crispi volle inoltre eliminare per legge il fenomeno, «obbrobrioso in un paese civile», della mendicità, vietando anche il permesso, sino ad allora garantito, agli invalidi al lavoro. Pietra angolare del nuovo impianto rimaneva tuttavia la misura dell’ammonizione, richiesta dalle autorità di Pubblica Sicurezza al presidente del tribunale anziché al pretore come in precedenza, per richiamare formalmente il denunciato, il quale poteva essere assistito da un difensore ed eventualmente ricorrere in appello. L’importanza del provvedimento risiedeva nella possibilità di segnalare e tenere sotto controllo una notevole massa d’individui, circa 40 mila disse Crispi, la cui pericolosità era il più delle volte da mettere in relazione alla condizione sociale, all’incapacità d’integrarsi nel sistema e alle convinzioni politiche. Con la conferma del domicilio coatto, invece, s’intendeva colpire i contravventori recidivi all’ammonizione e i recidivi di reati contro le persone o la proprietà o resistenza alla forza pubblica. Nell’approvazione delle nuove disposizioni relative all’ordine pubblico giocò una parte di rilievo la personalità del presidente del Consiglio, che

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con la sua immagine si proponeva ed era percepito come garante del corretto uso delle nuove leggi dato che, diceva egli stesso, «la mia vita è garanzia di rispetto per la libertà». In fase di discussione dei provvedimenti relativi all’ordine pubblico, Crispi ebbe modo di evidenziare l’intima coerenza dei diversi tasselli del disegno riformatore. «A questa riforma – disse nel 1888 – dovrà seguir quella sul patronato per i liberati dal carcere [...]. Un ultimo mezzo per avvicinarsi all’abolizione dell’ammonizione lo avrete nel riordinamento delle Opere pie, il quale sarà anch’esso tema ai vostri studi nella prossima sessione legislativa». Alla riforma della beneficenza proveniente, come si diceva allora, dalle Opere pie (la rendita di un lascito finalizzato ad una specifica attività benefica e a tale scopo amministrato) Crispi in effetti attribui­va una grande rilevanza che andava al di là del bisogno di razionalizzare il settore. Egli la considerava una grande battaglia contro «lo strascico dei vizi del medioevo e [...] i pregiudizi del cattolicismo». In effetti il presidente del Consiglio aveva apertamente sfidato la Chiesa cattolica sul suo terreno, dichiarando nel 1889 che «uno dei doveri dello Stato moderno è questo: che l’educazione, l’istruzione e la beneficenza appartengano alla potestà civile». Inoltre, con il drenaggio di questo cospicuo capitale in mano a interessi privati e clericali, Crispi intendeva «curare la sorte dei proletari con un indirizzo più pratico e serio di quello seguito sinora»13, convinto di poter avviare a soluzione il problema sociale attraverso una giustizia paternalistica e priva di tensione politica. La legge che stabiliva il principio della laicizzazione delle Opere pie venne approvata il 17 luglio 1890. L’obiettivo era quello di concentrare i beni nelle mani di enti comunali già esistenti, denominati Congregazioni di Carità, e sotto il controllo della GPA. Tale legge intaccava molti interessi privati che sfruttavano l’amministrazione di patrimoni, non di rado ingenti, per scopi estranei alla carità pubblica; tra questi interessi i più colpiti erano quelli della Chiesa. Ai liberali moderati che accusavano Crispi «di ispirarsi agli ideali della scuola socialista», il presidente del Consiglio rispondeva: «Il nostro scopo è uno solo: [...] togliere alla cupidigia dei dilapidatori, il patrimonio dei poveri». 13  F. Crispi, Politica interna. Diario e documenti raccolti ed ordinati, a c. di T. Palamenghi-Crispi, Treves, Milano 1924, p. 127.

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«Grande potenza europea» La politica estera detenne un ruolo chiave nelle vicende degli esecutivi crispini anche dal punto di vista del conflitto costituzionale, e dunque non a caso il primo ministro, già ministro dell’Interno, volle assumere ad interim anche il portafoglio degli Esteri. «Temerei, se lo lasciassi, di nuocere agli affari pubblici», fu l’unica, laconica spiegazione di Crispi in risposta alle critiche per l’eccessivo cumulo di cariche. Che la politica estera sarebbe andata incontro ad una fase di forti sollecitazioni lo si comprese sin dalla risposta di Crispi al discorso della Corona il 26 novembre 1887, quando volle precisare che dalle alleanze in atto «vogliamo trarre tutti quei benefici che l’Italia si attende, ed ai quali ha diritto come grande Potenza europea». Sino ad allora le insoddisfatte aspirazioni dell’Italia nello scacchiere mediterraneo non avevano travalicato il pragmatico realismo di chi sa che la pace in Europa era ancora un obiettivo prioritario. Il personalissimo attivismo e la convinzione che l’Italia dovesse aspirare ad un ruolo di primo piano sulla scena internazionale indussero invece Crispi, da sempre polemico verso lo spirito di sudditanza e ambiguità della tradizione diplomatica nazionale, a rompere con le cautele e le negoziazioni diplomatiche che sino ad allora avevano caratterizzato l’essenza delle relazioni internazionali italiane. La nostra politica deve essere italiana ed il nostro mercato deve essere il mondo. Collocati nel centro dell’Europa, tra il mare ed il vecchio continente, a pochi passi dall’Africa, alle porte dell’oceano e del Mar Rosso, là dove i nostri padri aprirono la via alla nuova civiltà, saremmo colpevoli di lesa patria se non allargassimo il campo della nostra attività economica14.

Un’impostazione coerente tra l’altro con la scarsa attenzione dell’opinione pubblica per i dettagli della politica estera e con le esigenze di quei settori emergenti dell’economia nazionale, in particolare siderurgici e armatoriali, che facevano affidamento su una politica statale protezionistica all’interno e più attiva, se non proprio aggressiva, all’esterno. Personalmente ostile alla Francia sin dai tempi della questione romana, Crispi finì per accentuare, anche alla luce

  Ivi, p. 249.

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della dilagante cultura protezionistica, la tensione tra i due paesi, emersa dopo la denuncia italiana del trattato di commercio (dicembre 1886). L’ostilità di Crispi nei confronti della Francia, condivisa a corte, era direttamente proporzionale alla sua convinzione di essere l’artefice di una nuova dignità nazionale, ai fini della quale appariva necessario innanzitutto voltare quella pagina della storia d’Italia che la vedeva da molti anni legata, nel bene e nel male ma sempre in modo ritenuto umiliante, alla volontà francese. «Bisogna che la Francia – annotò Crispi – dimentichi la storia del suo predominio e della sua influenza al di qua delle Alpi. Bisogna che riconosca [...] che la nazione italiana vale quanto quella francese»15. Simbolicamente, d’altronde, nulla poteva essere più chiaro circa le intenzioni di Crispi negli affari esteri della visita del primo ministro a Bismarck il 1° ottobre 1887. In quell’occasione i due politici posero le basi per una convenzione militare italo-tedesca: tale accordo si collocava all’interno della Triplice Alleanza, il cui trattato era stato rinnovato sette mesi prima con l’aggiunta di accordi separati tra gli alleati e clausole più favorevoli all’Italia. La stipula di questa convenzione comportò un notevole impegno finanziario (nel 1889 più di 1/3 del bilancio statale fu investito in armamenti), per adeguare la forza militare italiana alle accresciute responsabilità nei confronti degli alleati, e soprattutto si trasformò nella goccia che fece traboccare il vaso dei già difficili rapporti italo-francesi. Interrotte le faticose trattative in corso, iniziò con la Francia una guerra commerciale basata su reciproche tariffe punitive. La tensione sembrò ad un certo punto dover sfociare in una guerra, e per alcuni giorni si temette un attacco della flotta francese al porto di La Spezia, sino a quando non giunse nella città ligure una squadra navale britannica. Il premier britannico Salisbury, benché preoccupato per il «temperamento cospirativo» di Crispi, riteneva necessario mantenere una cauta benevolenza nei confronti della Triplice al fine di controllare la minaccia zarista. Per Crispi, tuttavia, il motore delle difficoltà incontrate dall’Italia nel tentativo di accrescere la sua potenza internazionale rimaneva connesso alla presenza del Vaticano (il nemico «più operoso di tutti

15  F. Crispi, Pensieri e profezie, a c. di T. Palamenghi-Crispi, Tiber, Roma 1920, p. 135.

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nel seno della patria nostra»), che il primo ministro riteneva opportunisticamente sensibile alle pressioni anti-tripliciste francesi. Dopo alcuni tentativi di conciliazione portati avanti nel 1887, i rapporti tra governo italiano e Chiesa cattolica si deteriorarono rapidamente, mettendo fine alle speranze del «transigentismo». Da quel momento Crispi si ritenne, talvolta in modo ossessivo, vittima di una congiura franco-vaticana, in particolar modo dopo le indicazioni della gerarchia cattolica ai fedeli francesi di accettare la repubblica (novembre 1890). Ebbe inizio così, incoraggiata dagli ambienti della massoneria, una dura politica anticlericale motivata dal non dissimulato convincimento di essere «in stato di guerra; e ancora questa guerra non è cessata». Gli strascichi della questione romana, d’altronde, si rivelarono un terreno ideale per ricompattare la Sinistra con la retorica della difesa dalle «mene» del «nemico in casa». In fondo, la crisi della legittimazione risorgimentale che si andava lentamente profilando trovava una sua parziale compensazione nell’anticlericalismo; in una dimensione, cioè, politica e ideologica che permise a Crispi di presentare il governo come strumento della «Ragione» e del «Progresso» contrapposto al papato. Fautore della più completa separazione tra Chiesa e Stato, egli manifestava la sua ostilità ad ogni forma di concordato o di accordo che presupponesse il riconoscimento di prerogative temporali del Papa. Crispi l’Africano Quando nel 1885 iniziò l’impresa coloniale italiana, Crispi aveva votato contro il governo, ma per motivi differenti da quelli degli oppositori «che, con sentimenti molto borghesi, piangono il denaro speso». Le ragioni andavano semmai ricercate nel fatto che quella era «una politica modesta» fatta da «uomini delle mezze misure [...], incerti [...], senza un concetto preciso». La grande occasione era stata persa tre anni prima, con il mancato accoglimento della richiesta britannica di co-partecipare alla spedizione in Egitto. A questo punto «l’Italia però è ad Assab, è a Massaua e in altri luoghi dell’Africa; e deve restarci». Nel 1891 Crispi, scrivendo a Ferdinando Martini, si dichiarò

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lieto che voi, non amico della nostra impresa africana, siate diventato africanista. È una conversione che abbiamo fatto ambidue; io prima, voi dopo. Io combattei acerbamente l’impresa di Mancini limitata a Massaua, ma poscia riflettendoci e studiando, mi convinsi che se ne potesse trar profitto16.

Il ripensamento delle posizioni di allora sembrò estendersi anche ai risvolti costituzionali della questione. Interrogato alla Camera su come definire il «carattere giuridico» dell’occupazione di Massaua, Crispi rispose stizzito: «non abbiamo bisogno [...] di venire al Parlamento per dichiarare la nostra sovranità in Massaua». A chi, negli anni successivi, volle ricordargli le posizioni di un tempo, Crispi rispose: «la mia opinione del 1885 non è punto in contraddizione colla opinione e coll’azione del Governo attuale». Infatti, a ben guardare, si trattava della riproposizione in chiave coloniale del problema del rapporto tra esecutivo e legislativo. Crispi proclamava la costituzionalità della sua condotta in quanto non aveva speso «un centesimo per l’Africa senza che il Parlamento l’a[vesse] decretato», ma rivendicava i «diritti del potere esecutivo», libero di «ordinare il governo locale in Africa senza venir dinanzi al Parlamento». Una volta giunto al governo, rimase invariata anche l’essenza politica dell’intervento del 1885, benché Crispi, almeno sino alla fine del 1888, non pensasse certo di poter realizzare i suoi obiettivi di prestigio in quelle lande marginali del mar Rosso. Alla Camera, nel 1888, ribadì che «l’impresa d’Africa non ci farà perdere di vista lo scopo principale che è di essere pronti in Europa a qualsiasi eventualità». Di fatto, nonostante il notevole attivismo, il presidente del Consiglio non ebbe molti spazi per scardinare a proprio favore il complesso incastro di alleanze e protezioni che si era formato in Europa. Per questo si convinse presto dell’opportunità di spostare il baricentro della politica estera italiana verso le coste del mar Rosso, grazie al nullaosta del governo britannico, il cui sostegno interessato si rivelò decisivo nel coinvolgimento coloniale dell’Italia. L’incertezza che aveva caratterizzato l’azione coloniale dei governi Depretis era tuttavia destinata a funestare anche quella dell’esecutivo crispino. Nella fattispecie si formarono, tra i fautori dell’occupazione colonia-

  F. Crispi, Carteggi politici inediti, cit., p. 467.

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le, due distinte ipotesi: una che portava avanti il programma detto «tigrino», l’altra quello «scioano». La prima, più cauta, faceva capo al generale Antonio Baldissera e propendeva per una espansione opportunistica, mirante cioè a mantenere buoni rapporti con i capi dei territori confinanti (il Tigrè) e a sfruttare i dissidi tra le numerose tribù locali, cogliendo, al momento opportuno, l’occasione per estendere l’occupazione, direttamente o tramite vassalli etiopici, senza intervento armato. L’altra ipotesi, quella del conte Antonelli, mirava ad estendere le conquiste italiane fornendo appoggio militare diretto al Re dello Scioa (regione centrale etiopica) Menelik, presso cui Antonelli si trovava in qualità di portavoce ufficioso del governo italiano, nella speranza di contribuire alla sconfitta dell’imperatore etiopico Giovanni. Alla morte di questi (11 marzo 1889), Menelik si proclamò Negus neghesti (Re dei re). La confusa situazione che si venne allora a delineare in Etiopia, anche a causa di una grave carestia, condusse Crispi a immaginare travolgenti avanzate e scenari imperiali sino ad allora impensabili: «grande è la tentazione, e la seduzione certo non è minore». Il suo entusiasmo fu tuttavia frenato dal Consiglio dei ministri che si schierò con il ministro della guerra Bertolè-Viale, contrario ad una grande azione di forza che avrebbe richiesto l’autorizzazione del Parlamento a una spesa di venti milioni e all’invio di almeno 25.000 uomini. La linea della prudenza condusse quindi a valorizzare il rapporto privilegiato già esistente tra l’Italia e il nuovo imperatore. Il 2 maggio, in un accampamento presso Uccialli, fu stipulato tra Italia ed Etiopia un trattato d’amicizia e di commercio che doveva servire anche a determinare i confini tra territori italiani (in continua estensione) ed etiopici, e soprattutto a ratificare la condizione di protettorato italiano dell’Etiopia. Quest’ultimo punto, tuttavia, venne sempre contestato dal negus sulla base del testo in amarico del trattato, in cui si affermava che, per quanto riguardava le relazioni con gli altri Stati, il negus neghesti «p[oteva] trattare mediante l’aiuto del Regno d’Italia» ma non era obbligato a farlo (come invece recitava il testo italiano). Nonostante le laboriose trattative condotte da Antonelli nel corso del 1890 per far accettare a Menelik la versione italiana, il punto rimase controverso come, d’altronde, la questione dei confini. Alla vigilia della caduta del governo Crispi (31 gennaio 1891), si poteva dunque dire che l’originaria prospettiva del mantenimento delle posizioni era stata ormai soppiantata da una volontà espan-

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sionistica che aveva condotto nel 1889 l’Italia ad occupare, con la formula del protettorato, anche un lungo tratto della costa somala sull’oceano Indiano. Il 5 gennaio 1890 Crispi volle porre il sigillo alla sua politica coloniale con la proclamazione ufficiale della colonia Eritrea, il cui nome, ripreso dalla definizione latina del mar Rosso, faceva sognare migliori destini. Per il momento l’Eritrea ebbe un proprio ordinamento civile e fu affidata ad un governatore che gestiva un bilancio autonomo (cioè non sottoposto al voto del Parlamento), alle dipendenze del ministero degli Esteri «per le cose civili» e del dicastero della Guerra per quelle militari. Il fine «ufficiale» di questa impresa Crispi lo mutuò direttamente da quella cultura coloniale utilitaristica che da alcuni anni aveva cominciato a pensare ai possedimenti africani come alternativa all’umiliazione nazionale dell’emigrazione di massa. Lo scopo nostro – disse alla Camera il 6 marzo 1890 – è l’istituzione di una colonia che possa accogliere quell’immensa emigrazione che va in terre straniere e che si sottrae al dominio e alle leggi d’Italia; ed anche di far tutto ciò che possa giovare ai commerci nostri ed a quelli del paese che abbiamo occupato.

In Crispi, tuttavia, la funzione «sociale» dell’Africa non sembrava un reale interesse ma un espediente retorico. In realtà l’Eritrea e soprattutto il presunto protettorato sull’Etiopia per Crispi rappresentavano piuttosto, sul tavolo verde dello scacchiere internazionale, un pegno investito nel disperato tentativo di un rilancio da parte di uno scommettitore dai modesti mezzi alla ricerca di considerazione tra facoltosi giocatori. Apparire per essere, dunque, come da sempre aveva teorizzato il vecchio garibaldino prendendo a prestito il modello di comportamento della prima repubblica francese che «s’impose, non supplicò di essere accettata tra i governi d’Europa». Il movimento ansioso e agitato di Crispi in politica estera rappresentava dunque lo scarto esistente tra la sua convinzione che grande potenza si era e non si diventava e il retroterra economico, sociale e culturale dell’Italia. In questo divario tra volere e potere andavano pertanto collocati sia il timore ossessivo di congiure internazionali contro l’Italia sia il continuo bisogno di «segnali» di forza e «immagini» di prestigio. Non a caso egli fu il primo presidente del Consiglio a utilizzare come criterio di delegittimazione degli avversari, oltre

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al tradizionale cleavage clericalismo/anticlericalismo, anche quello di servilismo/indipendenza nel campo delle relazioni internazionali. «Voi appartenete all’Italia, non alla Destra, onorevole amico mio», sentenziò Crispi nel 1890 nei confronti di un deputato di Destra preoccupato di essere collocato tra gli uomini ritenuti di dubbio «valore patriottico». Anche il violento conflitto che in più occasioni si manifestò con alcuni settori della Camera circa le prerogative dell’esecutivo in politica estera testimoniava dell’equivoco costituzionale esistente tra un presidente del Consiglio che si percepiva titolare di un rapporto di fiducia «in bianco», e dunque inattaccabile se non con un voto di sfiducia alla sua persona, e un Parlamento che rivendicava il diritto di sapere e approvare i singoli provvedimenti. L’evolversi delle vicende coloniali doveva tuttavia acuire il contrasto, che si tramutò presto in un vero e proprio conflitto costituzionale. Ai deputati che chiedevano di sottoporre al vaglio del Parlamento il decreto sull’Eritrea, in conformità «alla corretta interpretazione dell’articolo 5 dello Statuto», Crispi replicava affermando che, secondo quell’articolo, l’assenso delle Camere per i trattati internazionali era obbligatorio solo nel caso in cui comportassero «onere alle finanze dello Stato o variazioni al territorio dello Stato». Siccome le colonie erano state conquistate non attraverso un trattato, bensì «per la virtù delle nostre armi, per l’opera e la prudenza dei vostri ministri [...] non è quindi questo il caso in cui il trattato debba essere sottoposto all’approvazione del Parlamento». Inoltre le colonie non sono nello Stato ma sotto il dominio dello Stato. [...] Si tratta di un territorio extra-statutario, ed il potere esecutivo ha piena balìa sulle provincie che non fanno parte integrante del territorio dello Stato.

I due terzi circa dei deputati presenti diedero fiducia al governo. Nonostante non mancassero entusiasmi per la politica coloniale crispina, le immagini del successo non furono però sufficienti a diradare le perplessità di alcuni settori della Camera. Tali perplessità avevano origini e motivazioni diverse, ma tutte insieme rappresentavano un attendibile campione dei malumori che circondavano le prospettive espansionistiche del capo del governo. Il crescente disavanzo nei conti pubblici e la precaria situazione economica del paese, resa più difficile dalla guerra commerciale con la Francia, fornivano solidi

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motivi per alimentare dubbi circa l’opportunità pratica (per i moderati) e politica (per l’ala estrema radicale) dell’impresa coloniale. Megalomania patriottica In questa ciclopica operazione di rafforzamento istituzionale e di più ambiziosa presenza dell’Italia sulla scena europea e coloniale, «lo Stato – affermò in Parlamento Crispi – non può indietreggiare». Dal punto di vista delle finanze questo significava un consistente aumento delle spese, che il presidente del Consiglio contava di fronteggiare con inasprimenti fiscali. Di fronte ad una grave congiuntura economica internazionale, il drenaggio delle risorse economiche nazionali investite nella fastosa grandeur crispina favorì il ricompattarsi, sia tra le file della Destra come tra quelle della Sinistra, di un «partito delle economie», propenso a ridurre il disavanzo mediante tagli alla spesa pubblica, soprattutto nel campo degli armamenti e delle opere pubbliche, piuttosto che con ulteriori aggravi fiscali. Naturalmente non rientrava negli schemi mentali dell’antico cospiratore l’idea che le questioni finanziarie potessero modificare il tracciato politico del governo, tanto che egli le affrontava con la retorica del patriottismo da contrapporre alla pusillanimità degli «amici della lesina». I timori per la situazione finanziaria erano accentuati dalla perdurante crisi economica effetto di una più generale crisi europea, che ebbe le sue manifestazioni più evidenti nel settore agricolo (il quale dava occupazione ai due terzi della popolazione lavorativa) e in alcuni comparti della nascente realtà industriale. Le stesse colonie, nella dichiarata ma poco convinta speranza di arrivare un giorno ad autofinanziarsi, pesavano sul bilancio dei vari ministeri. In tale contesto, l’aumento vertiginoso della spesa pubblica, fronteggiato con continue richieste di inasprimenti fiscali peraltro non in grado di arrestare il crescente disavanzo nel bilancio dello Stato, costrinse Crispi a non sottovalutare come avrebbe voluto il tema delle finanze. Il 28 febbraio 1889, «considerato l’andamento della discussione sui provvedimenti finanziari», Crispi presentò le dimissioni del governo «per non compromettere con un voto parlamentare i grandi interessi dello Stato»: in altre parole, per evitare una censura parlamentare che potesse pregiudicare le sue scelte successive. Incaricato

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dal Re di formare un altro esecutivo, Crispi decise di venire incontro alle richieste di innovazione nella politica finanziaria affidando il ministero del Tesoro a Giolitti e quello delle Finanze a Federico Seismit-Doda. Era uno «schiaffo» alla Destra, che si dovette accontentare dell’ingresso di Gaspare Finali ai Lavori Pubblici. Questo secondo ministero, ancorato alla Sinistra parlamentare ma con un ponte verso la Destra, inaugurò grazie a Giolitti e a Doda una seria politica di tagli alle spese, nonostante le resistenze di molti dicasteri e dello stesso Crispi. Il clima di ristrettezze finanziarie dovette, paradossalmente, indurre Crispi a concentrare la propria azione nella politica coloniale, che costituiva il bersaglio preferito del «partito delle economie», ma anche il settore che gli riservava una sia pur contestata e parziale autonomia. La restrizione degli spazi di manovra dovuta al clima economico e finanziario e il conseguente progressivo esaurirsi della spinta riformista contribuirono ad accentuare i tratti aggressivi della sua politica estera, che doveva apparirgli sempre più come il salvacondotto in una situazione di accerchiamento politico. Su questa base il conflitto con radicali e irredentisti, rei di minare il triplicismo della sua politica estera, divenne un’esigenza di sopravvivenza, anche a scapito di una rottura con gli antichi compagni di lotta. Crispi si era tra l’altro convinto che l’Impero austriaco rappresentasse comunque «una necessità per noi» in quanto teneva a freno, a oriente, la crescente pressione panslavista. La questione delle frontiere poteva dunque essere rinviata ad un nebuloso futuro, «se il sentimento della nazionalità ridesterà altra volta l’Europa»17. In risposta alle manifestazioni contro l’Austria svoltesi in quei mesi, il presidente del Consiglio ruppe gli indugi dando vita ad una campagna anti-irredentista. Tra il 1889 e il 1890 fece sciogliere comitati e giunte comunali responsabili di manifestazioni irredentiste e in memoria di Guglielmo Oberdan, il patriota giustiziato dagli austriaci nel 1882. Il segnale più incisivo e politicamente più impegnativo, tuttavia, Crispi lo volle dare allontanando il ministro delle Finanze Seismit-Doda (l’interim venne assunto da Giolitti), colpevole di non aver reagito, durante un banchetto, ad un brindisi dai toni irredentistici. Una tale durezza nei confronti del radicalismo gli procurò nel

  F. Crispi, Pensieri e profezie, cit., p. 3.

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1890 un avvicinamento di alcuni settori della Destra, ma finì per alienargli le simpatie delle componenti più avanzate della Sinistra, il che poteva rappresentare una potenziale insidia soprattutto in vista delle elezioni. Il programma con cui il presidente del Consiglio si presentò agli elettori ebbe dunque un duplice profilo. Quello aggressivo lo mostrò nel discorso di Firenze del 18 ottobre, quando ribadì che il radicalismo, grazie alla provocatoria collusione con i peggiori nemici della nazione, utilizzava l’irredentismo per irresponsabili finalità destabilizzanti. Con l’occasione Crispi, approfittando della scomparsa di due protagonisti del calibro di Cairoli (agosto 1889) e Baccarini (ottobre 1890) e della presenza di Zanardelli nel governo, ruppe con il liberalismo democratico di matrice risorgimentale. I risultati elettorali gli diedero ragione. Il ridotto numero di votanti (il 53,7% dei 2.752.658 aventi diritto, la percentuale più bassa dal 1870, probabilmente anche a causa dell’inasprimento dell’astensionismo cattolico) premiò 405 candidati «ministeriali». Anche in questa occasione il ruolo dei prefetti fu determinate nello sbarrare il passo, dove la competizione era più incerta, agli avversari del governo. L’opposizione radicale, inclusi i socialisti, ottenne una cinquantina di seggi, poco meno quella definita «costituzionale». L’inedito appoggio al governo da parte della Destra facente capo a Rudinì (circa un centinaio di esponenti) e lo scampato «pericolo» radicale – la cui pattuglia, pur cresciuta in termini assoluti, non aveva raggiunto la cifra di cento deputati auspicata da Cavallotti per rovesciare il governo – erano destinati paradossalmente ad accentuare l’irrequietezza di una maggioranza decisamente trasformista, su cui aveva sempre meno presa il carisma dell’«intemerato garibaldino». Le dimissioni di Giolitti (9 dicembre 1890), provocate da uno scontro con il ministro dei Lavori Pubblici che pretendeva un aumento consistente per il suo bilancio, furono il segnale di un cambiamento di rotta nella politica finanziaria. Il nuovo ministro Bernardino Grimaldi si presentò alla Camera con una richiesta di inasprimenti fiscali, confermando l’impressione della stampa moderata secondo cui «il ministero [aveva] acquistato la convinzione della impossibilità che il bilancio si po[tesse] equilibrare senza imposte»18.

18  Citato in A. Capone, Destra e Sinistra da Cavour a Crispi, Utet, Torino 1981, p. 503.

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Nel clima nervoso del dibattito seguito all’esposizione finanziaria del ministro, Bonghi non perse l’occasione per provocare l’eccitabile presidente del Consiglio, estendendo l’atto di accusa contro di lui all’intera politica economica e finanziaria della Sinistra, la quale «non è storia davvero che valga la pena di ricordarla». La provocazione trascinò Crispi in uno dei suoi «soliti attacchi di nervi», in cui diede aspramente corpo alla propria antica e costante ostilità nei confronti dei liberali moderati: L’onorevole Bonghi fu al potere dall’ottobre 1874 al marzo 1876. Il rispetto delle tombe mi impone di non esaminare l’amministrazione dell’epoca. Potrei rispondere in modo da provare alla Camera come l’amministrazione d’oggi, come la finanza d’oggi, siano in condizioni abbastanza migliori di quelle d’allora. (Risa – Commenti) Potrei dire qualche cosa di più: che allora non avevate né esercito né flotta, e che si devono a voi i danni di una politica servile verso lo straniero. (L’onorevole Finali, ministro dei Lavori Pubblici, si alza e si allontana dal banco dei ministri – Vivi applausi a destra e al centro – Grida: Viva Finali!) Di Rudinì (Agitatissimo) Vergognatevi! Noi non abbiamo servito che la politica del nostro paese ed il Re! Vergognatevi delle vostre parole (Agitazioni e rumori vivissimi – Il Presidente agita ripetutamente il campanello)

I tentativi di Crispi per recuperare («non ho inteso portare offesa ad alcuno») caddero nel vuoto e l’insulto alle «sante memorie», oltre a favorire il saldarsi delle diverse opposizioni, si trasformò per molti in un’occasione per dar libero sfogo ai vari motivi d’insoddisfazione nei confronti del governo. Altre volte Crispi aveva platealmente offeso gli eredi di Cavour, ma questa volta l’attacco era stato portato in un momento politico delicato per l’esecutivo. Il risultato fu che l’ordine del giorno favorevole al governo venne respinto, costringendo Crispi alle dimissioni. Lo scontro tra «partito delle economie» e «partito degli investimenti» aveva messo comunque a nudo una nuova sensibilità per i temi dell’economia e dello sviluppo che non andava tanto in direzione della scelta di una di queste due direttrici, quanto della necessità di arrivare a forme più complesse di mediazione nei rapporti tra società e Stato. Non era solo lo spazio per le riforme amministrative e la spesa pubblica che si andava restringendo, quanto soprattutto sembrava tramontare l’ipotesi crispina di riuscire a governare l’ac-

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celerazione delle dinamiche sociali e politiche incrementando gli interventi statali, muniti solo di un glorioso passato politico e di un armamentario ideologico in estinzione. Si trattava di un indebolimento di prospettive che correva parallelo all’acuirsi dei contrasti in seno a quel blocco di potere emerso nel 1887, e tra quest’ultimo e l’imprenditoria meno legata alle commesse statali, a riprova dell’ancora incerto profilo del capitalismo italiano nel suo complesso. Al di là degli schieramenti, infatti, in molti ambienti politici cominciava a sorgere il dubbio che l’«energia» crispina, salutata inizialmente come benefica e ristoratrice, stesse diventando eccessiva. Forse non è del tutto fuori luogo considerare la caduta del governo Crispi come una crisi di rigetto del tessuto politico liberale, simile, pur nella diversità dei contesti, a quella verificatasi tra il 1874 e il 1876 nei confronti dello statalismo della Destra storica, che aveva condotto alla caduta del governo Minghetti. Mancava infatti anche nell’esperienza crispina un adeguato livello di mediazione politica, che permettesse la lenta ma sicura assimilazione delle robuste dosi di «invadenza» statale presente nei due pur differenti progetti «giacobini». Mentre nel primo caso il dirigismo della Destra si era presentato come elitario, soffocando ogni tentativo di estendere la partecipazione di nuovi gruppi dirigenti alla sfera pubblica, quello crispino propose un uso «forte» dell’esecutivo come cortocircuito tra volontà popolare e istituto monarchico. In quest’ottica, il successivo governo liberal-conservatore, presieduto da Rudinì con l’appoggio di alcuni settori della Sinistra, andrebbe visto come tentativo di allentare la carica progettuale e riformista contenuta nel centralismo autoritario del precedente governo e di «decongestionare» la politica estera e finanziaria dagli «eccessi» del crispismo.

VII Le opposizioni L’opposizione parlamentare: i moderati La Destra parlamentare, guidata dopo la morte di Minghetti dal siciliano Antonio Starabba marchese di Rudinì, tornò ad avere un ruolo di primo piano nelle vicende politiche interne tra il 1889 e il 1892. Pur mantenendo un atteggiamento ambivalente nei confronti di Crispi, Rudinì decise di aderire alla proposta di opposizione caldeggiata soprattutto dall’Associazione costituzionale di Milano, nell’ipotesi di dar vita ad una confederazione di associazioni moderate, «raccolte in un fascio unico sotto l’invocazione del nome di Camillo Cavour»1, allo scopo di portare avanti una linea di decisa opposizione al governo. Nacque così a Roma, nel giugno 1889, la Federazione Cavour che, frutto di una lunga e complessa mediazione, rappresentò un passaggio politico di grande rilievo per la Destra liberale, soprattutto perché servì a far emergere all’interno di quegli ambienti un nuovo modo di esprimere l’insoddisfazione politica. Il movimento liberal-moderato si trovava in quegli anni diviso tra una Destra «ministeriale», legata a Rudinì e Luzzatti, e una Destra «intransigente» lombarda che avrebbe voluto invece una politica d’opposizione. In sostanza, quindi, stretta fra l’esigenza di essere l’espressione politica della sopita vitalità della società civile e la necessità pratica di fornire alle forze del liberalismo moderato uno strumento di disciplinamento organizzativo, la Federazione Cavour finì per evidenziare le resistenze di quel mondo a pensare la politi-

1 Una nuova federazione delle Associazioni monarchiche, in «La Gazzetta dell’Emilia», 19-6-1889.

VII. Le opposizioni

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ca in termini di grande progettualità e si spense, senza particolari sussulti, nel momento in cui Rudinì decise di riavvicinarsi a Crispi. Approfittando di alcuni segnali distensivi provenienti dal governo, il 31 maggio 1890 Rudinì e i suoi seguaci votarono un ordine del giorno favorevole al governo, passando così nelle file della maggioranza senza che ciò fosse stato richiesto o patteggiato in alcun modo. La scelta, che aveva un fine opportunistico e non nascondeva l’ambizione di poter, almeno parzialmente, condizionare l’esecutivo, venne ribadita da Rudinì poco dopo le elezioni del dicembre 1890. Si trattava, d’altra parte, di una scelta ascrivibile alla difficoltà del liberalismo moderato di concepire la politica come qualcosa di diverso dalla sfera del governo e, in generale, dalla gestione del potere pubblico. Tuttavia l’attivismo legislativo crispino e la straordinaria abilità del presidente del Consiglio nel dar vita a maggioranze parlamentari facendo «leggi di sinistra e una politica di destra»2 continuavano a preoccupare i moderati, che li consideravano un artificiale veicolo di irresponsabile eccitazione nelle classi popolari. La frenesia legislativa di questo periodo dimostrò infatti, ai liberali moderati, come ormai in tutti gli ambienti si fosse radicata l’idea di politica come terreno, tanto fertile quanto corrotto, di progettualità e di cambiamento sociale, ma anche principale strumento di accelerazione e stravolgimento dei ritmi della vita pubblica. Il progetto riformatore di Crispi sembrava scardinare la categoria del «progresso», con i suoi percorsi regolarmente scanditi, con la sua neutrale e ottimistica inevitabilità, propria del pensiero liberale ottocentesco, cedendo il passo ad una sua variante, l’accelerazione, la quale implicava una percezione diversa del rapporto spazio-tempo e, soprattutto, metteva in crisi valori e conoscenze maturate nel corso di secoli. La balance di libertà e ordine, tradizione e innovazione, tema classico del costituzionalismo britannico, stava dunque venendo meno. E Crispi, dopo le iniziali simpatie suscitate per aver restituito vigore all’azione del governo, sembrava rivelarsi un «presidente del Consiglio giacobino»3. Per i liberali moderati, le principali riserve nei confronti della politica di Crispi riguardavano l’annoso problema dei rapporti con 2  L’affermazione, ripresa da Colombo, era stata del repubblicano Bovio. Cfr. A.P., Camera, XVI leg., 3ˆ sess., Disc., 22-3-1889. 3  Biblioteca Comunale di Firenze, Fondo Martini, Alfieri a De Gubernatis 26-11-1889.

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il Vaticano, la questione del disavanzo pubblico e la politica estera. Rispetto al primo punto, erano convinti che la politica crispina nei confronti del Vaticano e del clero fosse connotata da elementi di discriminazione religiosa: elementi innanzitutto illiberali, oltre che inutilmente provocatori e impolitici che, agli occhi dei moderati, finivano per fare gli interessi dei clericali, legittimando le loro proteste e lamentele. Il delicato tema della finanza pubblica perse invece, nella polemica della Destra, ogni residuo aspetto tecnico per assumere le forme di una denuncia politica sul nuovo carattere assunto dal Parlamento «moderno», strumento di redistribuzione delle ricchezze, e soprattutto sulle responsabilità governative nel crescente disavanzo finanziario. Il problema del disavanzo, antecedente al governo Crispi, era stato aggravato dalla condotta del primo ministro siciliano, il quale «non ha trascurato nessuna occasione, né grande né piccola, per affermare la sua tendenza dissipatrice e pomposa»4. L’opposizione ad ogni tentativo di far approvare nuove imposte per finanziare l’«interventismo» crispino costituiva quindi una protesta, in politica interna, contro la «corruzione democratica» e lo spreco burocratico, e in politica estera verso un’esuberanza non commisurata alle reali potenzialità del paese. Nell’opinione dei «liberali temperati», infatti, le spese per il riar­ mo non trovavano valide giustificazioni nel clima delle relazioni internazionali dell’epoca. Di fatto, della politica estera non si criticava tanto la sostanza quanto l’interpretazione «aggressiva» che ne dava Crispi; non era in discussione, ad esempio, la Triplice Alleanza, ma piuttosto il carattere inutilmente antifrancese che essa aveva assunto dopo il 1887. Per i liberali moderati, tuttavia, la politica estera rimaneva un settore politicamente insidioso, in quanto abilmente condotta da Crispi sul filo della rivendicazione nazionalistica e dell’orgoglio patriottico. Accusati spesso dagli ambienti governativi di antipatriottismo, i liberali moderati si trovarono così costretti a far leva sul malcontento dei contribuenti, senza però mettere in discussione le fondamenta di una politica estera considerata tutto sommato popolare e conservatrice. Analogamente contestavano, pur con alcune sfumature e differenziazioni, i presupposti politici, strategici

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  G. Prinetti, L’attuale situazione parlamentare e politica, Milano 1889, p. 20.

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ed economici che avevano generato la politica coloniale italiana, ma erano sostanzialmente concordi sul fatto che, per motivi di decenza e di orgoglio, essa doveva essere mantenuta nella sua dimensione minima. Nel complesso, dunque, la deprecatio moderata non fornì alcuna indicazione utile su come interferire politicamente nei processi di trasformazione in atto nel paese, e le forti connessioni che si andavano formando, almeno a livello ideologico, fra accentramento burocratico e «modernizzazione» azzerarono le prospettive politiche di questa pattuglia che, suo malgrado, si trovava irresistibilmente sospinta verso destra dalla mancanza di uno schieramento cattolico. L’opposizione parlamentare: l’Estrema Anche per l’Estrema gli anni del crispismo furono fondamentali: non solo perché favorirono una maggiore vitalità politica ma anche perché, pur accelerando un processo di differenziazione interna tra radicali, socialisti ed ex mazziniani portavoci del repubblicanesimo non intransigente e dell’irredentismo, contribuirono ad individuare un comune terreno di lotta politica. Dopo la morte di Bertani, nel 1886, la pattuglia parlamentare radicale trovò la propria guida in Cavallotti e con lui l’inizio di quella nuova stagione politica che avrebbe caratterizzato l’ultimo decennio del radicalismo ottocentesco. Rispetto all’esecutivo crispino, il radicalismo scelse di operare nelle vesti di una duttile opposizione sempre pronta a fornire «il suo concorso tutte le volte che si trattò di realizzare qualche progresso immediato», sia nel campo delle pubbliche libertà sia in quello delle condizioni economico-sociali delle masse. Se all’inizio i conflitti si manifestarono soprattutto nel campo della politica estera, dove la francofilia dei radicali mal si accordava con il deciso triplicismo del governo, ben presto lo scontro si estese alle questioni della politica interna e delle prerogative parlamentari, dove però era più difficile mantenere fede all’iniziale proposito cavallottiano di distinguere «tra Francesco Crispi e il presidente del Consiglio». Terminata la fase iniziale di «patriottismo pratico», che aveva visto i radicali sostenere le riforme crispine e la politica antivaticana, traspariva infatti dall’opinione dell’Estrema parlamentare una duplice immagine di Crispi, quella del «voltagabbana» della democrazia

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e quella, ancor più grave, del nemico del regime parlamentare. Fu lo stesso Cavallotti a farsi portavoce in Parlamento del disprezzo nutrito da molti radicali nei confronti dell’ultimo Crispi: «siete oggi infido a noi, come foste infido a Mazzini, come lo foste a Cairoli». Inutile dunque cercare attenuanti: agli occhi di Cavallotti il problema cruciale era quello di Crispi affossatore delle libertà statutarie. Se in Parlamento il numero degli esponenti dell’Estrema doveva tranquillizzare il presidente del Consiglio, nel paese la situazione era destinata a diventare meno rassicurante in seguito alle elezioni amministrative del novembre 1889, quando una ventina di capoluoghi di provincia dell’Italia centro-settentrionale, insieme a gran parte delle città della Romagna, furono conquistati dalle alleanze democratico-radicali, in molti casi con il decisivo contributo dei socialisti. Oltre al ricambio politico si registrò anche una mutazione in senso popolare della composizione sociale dei Consigli comunali. Un risultato che diede slancio al radicalismo nazionale, pur provocando un aumento delle tensioni tra le sue componenti, e rese visibile la trasformazione dei comuni, prima percepiti dalla «rivoluzione liberale» come luoghi del notabilato se non addirittura della clientela e del particolarismo, in fucine di progettualità politica. Dietro la «stanchezza» per la politica e l’elogio della «sana amministrazione», così tipici di quegli anni, non vi era infatti alcun conato di particolarismo o di autonomismo, ma la ricerca di un percorso verso la «modernizzazione possibile». Un percorso che doveva apparire, a seconda del punto di osservazione, o uno strumento di legittimazione del sistema o, come disse nel 1897 l’allora socialista Gaetano Salvemini, un’occasione «per lottare col potere centrale»5. Di fronte a questi nuovi fermenti e in vista delle non lontane elezioni politiche, Cavallotti volle rafforzare il ruolo guida del radicalismo sul resto dell’Estrema convocando a Roma, nel maggio 1890, un congresso rivolto ai rappresentanti delle associazioni radicali e operaie. Nonostante le polemiche che precedettero l’iniziativa, i delegati di oltre 450 associazioni parteciparono all’incontro, durante il quale fu approvato il programma, redatto qualche mese prima da Cavallotti, noto col nome di Patto di Roma. Sintesi avanzata delle prospettive politiche democratico-radicali dell’epoca, il documento costituiva un

5  Citato in E. Ragionieri, Politica ed amministrazione nella storia dell’Italia unita, Laterza, Bari 1967, p. 256.

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vero e proprio manifesto elettorale anticrispino, nel quale si ribadiva la salvaguardia delle prerogative parlamentari e delle libertà personali garantite dallo Statuto, si chiedeva la revisione dell’articolo 5 e l’introduzione dell’indennità ai deputati. Sul terreno amministrativo apparivano «urgenti da ora» l’elettività del sindaco in tutti i comuni, la riduzione delle ingerenze dell’autorità centrale a livello locale e l’ampliamento dell’autonomia e delle attribuzioni dei corpi elettivi di comuni e province. Per il potere esecutivo si proponeva il divieto di «cumulo di portafogli», mentre per la magistratura una migliore selezione dei magistrati e una sostanziale riduzione del loro numero. In tema di politica estera, ritenuta cruciale anche per poter affrontare le difficoltà economiche del paese, si proponeva di attuare il principio «pace con tutti, rinnovamento con nessuno», che avrebbe condotto alla fine della Triplice e al «rannodamento fraterno» dei rapporti con la Francia. Sulla necessaria trasformazione dell’«organismo militare», il documento ribadiva l’antico obiettivo garibaldino della «nazione armata», da raggiungere gradualmente mediante la riduzione della ferma e il reclutamento regionale, senza indebolire però «la nostra potenzialità di difesa». Oltre ai tagli sui bilanci militari, il Patto di Roma prospettava anche riduzioni delle spese, provenienti dall’accorpamento di ministeri e uffici e dalle semplificazioni burocratiche. Riguardo allo spinoso tema della questione sociale, considerato da Cavallotti soprattutto un «grande principio di distributiva giustizia», il documento riteneva urgente «una legislazione difensiva del lavoro», con la regolamentazione dell’orario di lavoro (non eccedente le otto ore), l’istituzione di Camere del Lavoro, l’«applicazione severa» della legge sul lavoro minorile, sanzioni e obbligo di risarcimenti per i responsabili degli infortuni sul lavoro, l’istituzione della «cassa pensioni» per la vecchiaia, l’«estensione del principio cooperativo» ai lavori pubblici. Per fermare lo «straziante spettacolo» dell’emigrazione, che nel 1888 aveva sfiorato le 200.000 unità, era necessario concedere le terre «incolte ed abbandonate», demaniali o espropriate che fossero. Per Cavallotti, come per Crispi, la questione sociale doveva rimanere nell’ambito della tutela delle classi meno abbienti, senza cioè trasformarsi in un’occasione per l’autonomia di classe come invece teorizzavano i socialisti. Diversamente da Crispi, però, i radicali ritenevano che non bastasse la beneficenza pubblica o le razionaliz-

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zazioni amministrative per venire a capo della conflittualità sociale, ma che occorresse porre mano allo strumento legislativo. In questo senso, quindi, il Patto di Roma rappresentò un momento di chiarimento, accelerando i processi di distinzione all’interno dell’Estrema e consentendo al radicalismo di presentarsi, nella sostanza, come un’istanza democratica di governo, una sorta di anticipazione, sia pure talvolta contraddittoria e sopra le righe, di alcune prospettive della futura politica interna giolittiana. Gli albori dell’organizzazione nazionale: socialisti e repubblicani Determinati a contrapporre all’umanitarismo borghese dei radicali «l’ineluttabilità» delle leggi della storia e delle esigenze delle masse, i socialisti italiani, pur costituendo un esiguo gruppo all’interno del Parlamento, apparivano tuttavia tonificati dal successo d’immagine del congresso di fondazione della Seconda Internazionale (tenutosi a Parigi nel luglio 1889 e a cui parteciparono per l’Italia Costa, Cipriani e Giuseppe Croce) e soprattutto dal clamoroso trionfo elettorale della socialdemocrazia tedesca nel febbraio 1890. Rispetto alle altre componenti dell’Estrema, il tratto intellettuale distintivo dei socialisti consisteva nell’esaltazione dell’essenza classista del conflitto tra capitale e lavoro, incomprensibile alle varie gradazioni della «democrazia politicante». Il tema dell’autonomia organizzativa era dunque connesso alla «scoperta» del socialismo scientifico e alla ricerca di una più chiara identità. Un ruolo decisivo in questo senso lo ebbe Antonio Labriola, filosofo «hegeliano», che abbandonò i lidi radicali per dedicarsi interamente alla causa socialista. Grazie anche al rapporto epistolare con Engels, Labriola contribuì a irrobustire l’impianto metodologico marxista nel socialismo di Turati e Prampolini, demolendo la prospettiva tradizionale, rappresentata dalla leadership di Costa e del socialismo romagnolo, consistente nel tenere uniti in un abbraccio paralizzante e con un programma elastico e ambiguo legalitari, antilegalitari, astensionisti e mazziniani. Dal punto di vista organizzativo, i fautori del socialismo «scientifico» italiano guardavano, più che alla democrazia radicale, al nodo dei rapporti con l’operaismo e alla diffusa ostilità di matrice operaista, su cui non mancavano di convergere gli anarchici, nei confronti della politica. Nel contrastare questa tendenza si rivelò determinante l’azione

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svolta da Filippo Turati e Anna Kuliscioff, che nel 1889 fondarono la Lega socialista milanese e nel 1891 la rivista «Critica Sociale». Nell’agosto del 1891 poi, si tenne a Milano il congresso nazionale operaio, in cui Turati, sconfiggendo la componente anarchica che pochi mesi prima aveva dato vita al Partito socialista anarchico rivoluzionario italiano a Capolago, in Svizzera, riuscì a convincere una buona parte dell’operaismo ad accettare la prospettiva di un’azione anche politica da parte del movimento. Fu così approvata la proposta di costituire un Partito dei lavoratori, rinunciando tatticamente al termine «socialista» per compiacere radicali e operaisti, che si sarebbe dato programma e struttura organizzativa in un successivo congresso. Nonostante la debolezza del tessuto politico socialista di quegli anni (nel settembre del 1890, per Turati, c’erano sì e no «una decina» di socialisti «veri e propri» di livello nazionale) e il diffuso pessimismo sulla maturità del proletariato italiano, il congresso di Milano gettò le basi per amalgamare in una prospettiva marxista socialismo e operaismo all’interno di un’unica organizzazione. Turati era di fatto riuscito a coniugare il suo pragmatismo politico con una non ambigua, benché talvolta schematica, adesione al marxismo e ciò significava procedere sul terreno dell’organizzazione del «partito di classe», senza tuttavia rinunciare, come avrebbe voluto Labriola in nome di purezze teoriche, ai rapporti con la «democrazia borghese». D’altro canto, l’estensione dei conflitti di lavoro all’inizio degli anni ’90 rappresentava il segnale di un malessere che fuoriusciva dall’ambito della resistenza «di mestiere» e richiedeva un approccio politico in grado sia di fornire una prospettiva di emancipazione alle proteste dei salariati, sia di forzare lo Stato sul terreno della legislazione sociale. Il congresso che si aprì a Genova il 14 agosto 1892 costituì dunque l’occasione più matura, anche se per nulla scontata, per far nascere sul terreno della politica l’agognato partito nazionale. Alla prima giornata del congresso, apertosi nella sala Sivori di via Roma, parteciparono circa 200 delegati (tra cui una decina di donne) in rappresentanza di 324 associazioni, perlopiù lombarde ed emiliane. Non irrilevante, anche se minoritaria, fu la presenza di sodalizi meridionali, tra cui quelli pugliesi e i rappresentanti dei Fasci dei Lavoratori siciliani. Sin dalle prime battute il congresso mise in luce profonde divergenze, che videro anarchici e operaisti intransigenti unirsi tatticamente contro la linea socialista di Turati e Prampolini. I contrasti tra le due componenti furono sin dall’inizio talmente acu-

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ti che Prampolini propose la definitiva separazione dei congressisti –  «perché noi siamo due partiti essenzialmente diversi, percorriamo due vie assolutamente opposte, fra noi non ci può essere comunanza, dunque lasciateci in pace»6 –, mentre Turati, rivolgendosi agli anarchici, aggiunse: «per voi noi siamo reazionari, voi siete reazionari per noi, perché ci allontanate dalla via più breve che conduce alla rivoluzione. Siamo dunque intesi: domattina noi ci aduneremo fuori di qui senza di voi, e voi terrete, ovunque vi piaccia, le vostre riunioni». Il giorno 15 si presentarono alla Sala Sivori solo un’ottantina di delegati, tra cui gli anarchici Gori e Pellaco e l’operaista Casati, i quali costituirono il Partito dei lavoratori italiani; destinato a non lasciare traccia, esso escludeva coloro che non fossero «lavoratori salariati e diseredati». Nel congresso dei «legalitari e collettivisti» prevalse invece la posizione di Turati, favorevole ad un programma francamente socialista in polemica con le componenti più eclettiche della democrazia e dell’operaismo non intransigente, timorose di perdere in tal modo l’appoggio di molte società operaie. Il programma turatiano, approvato con solo quattro voti contrari, affermava che i lavoratori avrebbero raggiunto l’emancipazione unicamente attraverso «la socializzazione dei mezzi di lavoro» e «la gestione sociale della produzione». Tale scopo finale non può raggiungersi che mediante l’azione del proletariato organizzato in partito di classe, indipendente da tutti gli altri partiti, esplicantesi sotto il doppio aspetto: 1° della lotta di mestieri per i miglioramenti immediati della vita operaia [...]; 2° di una lotta più ampia intesa a conquistare i poteri pubblici [...] per trasformarli, da strumento che oggi sono di oppressione e di sfruttamento, in uno strumento per l’espropriazione economica e politica della classe dominante; i lavoratori italiani, che si propongono la emancipazione della propria classe, deliberano: di costituirsi in Partito [...].

Il carattere decisamente socialista (anche se generico in alcuni punti) del programma sembrava parzialmente contraddetto dallo Statuto del partito, che continuava invece a mantenere molte delle prerogative

6  I riferimenti al congresso di Genova del 1892, salvo altre indicazioni, sono tratti da L. Cortesi, La costituzione del Partito socialista italiano, Ediz. Avanti!, Milano 1962.

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operaiste a cominciare dalla denominazione di Partito dei lavoratori italiani. Lo Statuto infatti, frutto di una discussione necessariamente affrettata, permetteva l’adesione al partito alle sole associazioni composte da «puri e semplici lavoratori d’ambo i sessi [...] salariati» (art. 2), ma poi introduceva di straforo (art. 17) la possibilità di iscrizioni di singoli individui, teoricamente anche non lavoratori salariati. Il congresso, dopo aver ribadito che il partito avrebbe avuto «un proprio giornale per organo centrale» (il settimanale «Lotta di classe», diretto formalmente da Prampolini ma di fatto da Turati), si sciolse acclamando la nascita del «partito operaio socialista». Separatisi definitivamente dagli anarchici e dai gruppi della democrazia radicale, i socialisti italiani non solo abbracciavano una linea programmatica sostanzialmente marxista, ma legittimavano la propria aspirazione a partecipare attivamente alla vita politica del paese. Inoltre il partito di Turati, nonostante la sua gracilità, sembrò fin da subito destinato ad andare al di là del suo ruolo di portavoce dei ceti subalterni, profilandosi come un possibile strumento di acculturazione e obbligazione politica per le grandi masse. «Può darsi – scrisse Labriola ad Engels il 2 settembre 1892 – che il piccolo partito sorto di sorpresa, e il programma votato alla rinfusa, facciano nascere l’amore della disciplina ed il pudore della responsabilità»7. In effetti il partito raccolse ben presto ulteriori consensi con l’adesione dei Fasci siciliani e del Partito socialista rivoluzionario di Costa. Un parallelo processo di concentrazione si ebbe nel campo delle Camere del Lavoro che, sull’esempio della prima sorta a Milano nel 1891, nel giro di due anni erano diventate 12 e si erano unite in una confederazione. Al secondo congresso, tenutosi a Reggio Emilia nel 1893, si definì con maggiore precisione l’ambito dell’azione del partito, che assunse il nome di Partito socialista dei lavoratori italiani, accentuando l’aspetto della totale indipendenza dagli altri partiti, sia nelle «occasioni elettorali», sia in relazione alla condotta dei deputati socialisti in Parlamento. Sul versante repubblicano, il fallimento della Lega della democrazia e delle prospettive irredentiste misero fine alle aspirazioni di leadership del movimento democratico, riportando i repubblicani nell’ambito dell’opposizione minoritaria. Dopo la scomparsa della

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  A. Labriola, Lettere a Engels, Edizioni Rinascita, Roma 1949, pp. 67-68 e 74.

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generazione di capi anche personalmente vicina a Mazzini, emerse una nuova leva di leader che, pur conservando il mazzinianesimo come prospettiva culturale, ambiva ad una più diretta partecipazione alle dinamiche politiche in corso. D’altronde, già alla fine degli anni ’80, si trattava, come disse Giovanni Bovio, «di definirsi o sparire». Al XVI congresso del Patto di fratellanza, nel 1886, si stabilì sia pure ambiguamente che le associazioni mazziniane potessero prendere parte alle elezioni, e questo ebbe immediate ripercussioni nelle competizioni elettorali amministrative a partire dal 1889, quando i repubblicani (soprattutto in Romagna, Marche, Toscana, Liguria e Lazio) si accordarono con radicali e socialisti. Sconfitta l’ipotesi collettivista in cui molti repubblicani si erano inizialmente riconosciuti, la necessità di definirsi portò all’affermazione, durante il congresso del 1893, dell’istanza della politicizzazione dell’intero movimento. Si aprì in questo modo la strada che condusse alla nascita, nel 1895, del Partito repubblicano italiano. «Rerum novarum»: l’intransigentismo sociale La maldestra gestione del problema dei rapporti con la Santa Sede messa in atto da Crispi finì per ridare fiato agli intransigenti e chiudere gli spiragli aperturisti presenti in Vaticano. Il presidente del Consiglio infatti, che non aveva un progetto per risolvere la spinosa questione, rimaneva pur sempre un vecchio anticlericale, a cui era bastata la provocazione del massone Bovio sui suoi presunti cedimenti alla Chiesa per abbandonarsi alla tradizionale retorica laicista. Con la nomina del cardinale Rampolla del Tindaro a segretario di Stato, nel 1887, il Pontefice intese ribadire le posizioni intransigenti della Santa Sede in materia di potere temporale. Per il nuovo segretario di Stato vaticano il nodo cruciale della questione, a cui subordinare ogni presenza politica del cattolicesimo (nonostante il conciliatorismo stesse guadagnando posizioni all’interno del clero), rimaneva la soluzione della questione romana nell’ottica «internazionale» del Vaticano, ovvero del mantenimento della sua posizione di soggetto di diritto internazionale. Lo stesso vescovo conciliatorista Bonomelli, nel proporre le basi di un difficile incontro, non poteva prescindere dall’aspetto «territoriale» della questione: «so di certo – scrisse nel 1889 – che il Papa si appagherebbe di Trastevere [...].

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Non è cosa che possa spaventare Crispi, né altri. Un lembo di terra, il Re di là, il Papa di qua: tutto sta a incominciare»8. Il problema dunque rimaneva quello dell’«usurpazione liberale», dietro cui, come sottolineava sempre più spesso «Civiltà Cattolica», si nascondeva un nemico assai insidioso, quel «giudaismo internazionale» che aveva in pugno la massoneria e si era infiltrato nel cuore delle potenze cattoliche. La stessa Triplice Alleanza, con il suo pesante fardello per l’intera società, non era altro che una macchinazione «degli strozzini e dei banchieri ebrei»9. Nel 1888 l’enciclica Libertas tornava ancora sulla condanna del liberalismo, mentre Leone XIII giungeva addirittura a mandare un personale contributo di sostegno ad Albertario perché «L’Osservatore Cattolico» potesse riprendersi dai dissesti economici seguiti alle condanne per diffamazione. Decisiva nel rilanciare le prospettive del cattolicesimo italiano si rivelò l’enciclica Rerum Novarum, emanata nel maggio 1891. L’enciclica, destinata a gettare le basi di una nuova dottrina sociale cattolica, rappresentava il punto d’arrivo di una serie di segnali di attenzione manifestati a livello internazionale, sin dalla fine degli anni ’70, da numerosi rappresentanti del cattolicesimo sociale nei confronti dei problemi del lavoro. Il testo dell’enciclica rifletteva soprattutto l’esigenza di restituire al Papa il carattere di Sovrano con responsabilità politiche, oltre che morali. Dopo aver affermato che sulla «questione operaia» la Chiesa non poteva tacere perché «uomini turbolenti ed astuti si sforzano ovunque di falsare i giudizi [...] per eccitare le moltitudini e creare disordini»10, l’enciclica cercava di dimostrare l’impraticabilità della soluzione socialista («inefficace e ingiusta») basata sulla collettivizzazione della proprietà privata, alla luce della legge naturale che vuole l’individuo e la famiglia anteriori alla collettività statale. Ma accanto alla necessità di «salvaguardare la proprietà privata», si proclamava anche quella di «proteggere particolarmente i lavoratori perché più deboli», riconoscendo il diritto di libertà di associazione

8  F. Lampertico, Carteggi e diari 1842-1906, vol. I, a c. di E. Franzina, Marsilio, Venezia 1996, p. 311. 9  Le ragioni della Triplice Alleanza, in «Civiltà Cattolica», 1891, vol. XI, p. 267. 10  I riferimenti all’enciclica Rerum Novarum sono tratti da R. Spiazzi (a c. di), Dalla «Rerum Novarum» alla «Centesimus annus». Le grandi encicliche sociali, Ed. Massimo, Milano 1991.

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ma invitando a non aderire a «sindacati anticristiani». La parte più innovativa del testo, che produsse grande scalpore per i suoi riflessi «socialistici», era comunque quella dedicata alla dignità della persona umana. Venivano indicati infatti i diritti inalienabili dei lavoratori: la necessità del riposo festivo, la tutela del lavoro delle donne e dei ragazzi, il giusto salario, di difficile determinazione ma che comunque non poteva essere inferiore al sostentamento dell’operaio «sobrio ed onesto». La Rerum Novarum mostrava dunque con chiarezza l’esigenza della Chiesa di ritagliarsi un diverso tipo di spazio politico, in un ambito sino ad allora tradizionalmente affidato al paternalismo assistenziale. Vent’anni dopo la perdita del potere temporale, questa enciclica si presentava come il tentativo di restituire alla Chiesa cattolica, sia pure indirettamente, un ruolo istituzionale nella soluzione di quello che in quel momento era il più assillante problema dei governanti. Nessuno doveva illudersi di poter «restringere» la Santa Sede in un innocuo ambito spirituale e dunque «non si creda che le premure della Chiesa siano così interamente ed unicamente rivolte alla salvezza delle anime, da trascurare ciò che appartiene alla vita mortale e terrena». Agendo da stimolo per quella parte del movimento cattolico intenzionato ad andare oltre la consueta denuncia del malessere sociale come conseguenza dell’ingiustizia della privazione del potere temporale del Papa, la Rerum Novarum finì per dare vigore a quell’intransigentismo che intendeva il laicato cattolico non più come passivo strumento papale, ma come protagonista attivo e autonomo nella gestione dei conflitti del mondo moderno. Ridotto ai minimi termini il pericolo del transigentismo, fu quindi la questione sociale a mettere a nudo le due anime dell’Opera dei Congressi. Quella che si riconosceva nella componente più conservatrice dell’intransigentismo si rispecchiava in Giambattista Paganuzzi, ostile ad ogni riflessione teorica sul tema del benessere dei lavoratori e soprattutto estraneo ad ogni tipo di prospettiva democratica, di per sé sovvertitrice di gerarchie e tradizioni. Gli elementi più giovani e dinamici intendevano invece, sia pure con diverse sfumature, misurarsi con un programma di azione popolare. In una prima fase costoro facevano capo all’Unione cattolica per gli studi sociali, dove si distingueva la figura di Giuseppe Toniolo, noto intellettuale e docente universitario che, con l’avallo del Vaticano, stava diventando il riferimento

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teorico e politico del lento, spesso anche contraddittorio, processo di assorbimento del concetto di democrazia sociale all’interno della tradizione cattolica italiana. Il suo insegnamento risultò decisivo nella formazione di personaggi come Filippo Meda, Luigi Sturzo e Romolo Murri, uomini chiave di quella corrente politica che proprio in quegli anni aveva assunto il nome di Democrazia cristiana. Sino alla crisi del 1898, tuttavia, la supremazia della prospettiva tradizionale difesa da Paganuzzi non venne messa in discussione. L’attivismo di Toniolo e le prime manifestazioni delle capacità organizzative di Murri, sacerdote dal 1893, non sembravano poter impensierire la «nave ammiraglia» dell’Opera dei Congressi, il cui congresso di Milano del 1897 rappresentò infatti il momento di massimo splendore dell’intransigentismo tradizionale.

VIII L’anticrispismo alla prova (1891-1893) Rudinì Dopo lo scontro parlamentare del 31 gennaio 1891, il Re affidò l’incarico di formare il nuovo governo a Rudinì che, come leader della Destra, rappresentava una componente parlamentare teoricamente alternativa al crispismo. Falliti i tentativi di raggiungere un accordo con Giolitti, con il quale condivideva le ansie per il problema del risanamento finanziario, il 9 febbraio Rudinì varò un esecutivo di Destra che lo vedeva anche alla guida degli Esteri. Presentandosi alla Camera, espose un programma che intendeva assecondare l’esigenza parlamentare di alleggerire il peso politico del progetto di governo crispino. Si trattava di esaltare gli aspetti del raccoglimento e del riordino, in un clima di diffuso timore per l’incontrollabile dissesto della finanza pubblica. Un’occasione propizia tra l’altro per proporre una pausa nelle riforme politiche: «ci asterremo, per ora, dal proporvi leggi politiche, pensando che il paese aspira anzitutto al suo rinnovamento economico»1. Non a caso, per bandiera del programma fu issata quella delle economie: «Toccheremo con mano prudente, ma risoluta, tutti i bilanci, compresi quelli della guerra e della marina [...] e cercheremo di restringere anche le spese per l’Africa»2; mentre in politica estera, insieme al mantenimento delle alleanze esistenti, si sarebbe cercato di dissipa-

1  L. Lucchini (a c. di), La politica italiana dal 1848 al 1897. Programmi di governo, 3 voll., Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1899, vol. III, p. 148. 2  Citato ibidem.

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re «dubbi, sospetti e diffidenze» che circondavano le relazioni con la Francia. Tuttavia Rudinì coltivava prudentemente un obiettivo politico di grande respiro: anche grazie all’influenza dell’amico Gae­ tano Mosca, il fondatore della scienza politica e critico inflessibile della epocale prevalenza dell’elemento elettivo su quello burocratico-amministrativo, il presidente del Consiglio accarezzava l’idea di decentrare almeno parzialmente l’amministrazione statale. Si trattava di una prospettiva che Rudinì faceva risalire direttamente a Minghetti ma che, trent’anni dopo, risultava piuttosto un tentativo di limitare in senso burocratico l’influenza dei corpi elettivi a livello locale, e dunque depoliticizzare per quanto possibile i rapporti centro-periferia, così che «il Governo centrale, spoglio d’ingerenze fastidiose, senti[sse] meno quelle influenze parlamentari ed extraparlamentari che ebbero tante volte effetti perniciosi»3. In una prima fase, la maggioranza che sosteneva il governo era unita, pur nella diversità degli obiettivi, dai timori per la traumatica situazione finanziaria e dalla volontà di tenere Crispi lontano dal potere. Il governo di conseguenza navigava a vista, privo di una vera maggioranza organica, tanto che Rudinì giustificò tale situazione attribuendola ad una condizione fisiologica dei moderni Parlamenti, le cui Camere «sono molto diverse di prima; [...] si sono fatte più nervose e mutevoli»4. L’anticrispismo, dunque, non poteva essere un collante sufficiente a sostenere una maggioranza eterogenea nel momento in cui la realizzazione del programma stentava. In politica estera, nonostante la volontà di attenuare la tensione con la Francia, Rudinì non riuscì a convincere il governo d’oltralpe circa le intenzioni puramente difensive della Triplice, e dunque non ebbe accesso ai sospirati aiuti economici e finanziari francesi, subordinati alla poco onorevole richiesta di dare in visione al governo repubblicano i documenti relativi all’alleanza con Austria e Germania. In tale condizione d’impasse, il presidente del Consiglio finì per stringere con maggior vigore i legami della Triplice, anticipando di un anno, all’insaputa del Parlamento, il rinnovo del patto, ratificato a Berlino il 6 maggio 1891. Il nuovo trattato garantiva all’Italia la cooperazione tedesca di fronte

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  Citato ivi, p. 167.   Citato ivi, p. 170.

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ad eventuali alterazioni degli equilibri territoriali in Nord Africa. Anche in politica coloniale, nonostante il personale scetticismo nei confronti dell’impresa africana, Rudinì scelse di non indietreggiare dalle posizioni acquisite. Senza arrivare a «ritirare il corpo militare», fermò tuttavia ogni ulteriore espansione, riducendo drasticamente il bilancio coloniale. Nei fatti la sua linea era orientata verso il programma «tigrino», mediante una politica d’intesa con il ras Mangascià per garantire quei confini che, insieme all’articolo 17 del trattato di Uccialli, ormai Menelik contestava apertamente. Complessivamente, l’impressione era che la politica di contenimento attuata dal governo si accompagnasse a una più generale riduzione del «tono» politico del Parlamento e che il ministero, «nonostante le splendide votazioni di fiducia, viv[esse] in un ambiente freddo, inerte, passivo, senza vita, e ave[esse] poca presa sulla camera elettiva per costringerla al lavoro»5. La politica coloniale e quella estera avevano perso con Rudinì il carattere di questioni di prestigio nazionale, per assumere il profilo più prosaico di capitoli di bilancio. Il problema principale era infatti rappresentato dalla difficoltà, da parte della «compagnia della lesina», come Rudinì volle definire il proprio esecutivo, di mantenere le promesse in tema di pareggio di bilancio. Il limite invalicabile rimaneva la sfera delle spese militari. Rudinì aveva tentato di suggerire la riduzione dei corpi d’armata da dodici a dieci, ma aveva incontrato una ferma opposizione negli ambienti di corte e nello Stato maggiore dell’esercito, preoccupati di non poter rispettare gli obblighi imposti dalla Triplice. La crisi economica produsse inoltre una riduzione delle entrate tributarie, e l’iniziale clima di fiducia sulle possibilità del governo tramontò definitivamente di fronte all’annuncio del mancato pareggio del bilancio. Esponenti della Destra attaccarono la politica finanziaria, mentre da tempo l’Estrema Sinistra aveva espresso il proprio disappunto per il carattere sostanzialmente immutato della politica estera e per l’atteggiamento poco aggressivo nei confronti del Vaticano. L’idillio tra Rudinì e i radicali aveva subìto un duro colpo già pochi mesi dopo il varo del governo, quando, in seguito alle manifestazioni di piazza in occasione della ricorrenza del 1° maggio, scop-

5  G. Arangio-Ruiz, Storia costituzionale del Regno d’Italia, Jovene, Napoli 1985 (1898), p. 477.

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piarono incidenti tra forze dell’ordine e dimostranti socialisti. I contrasti più gravi, tuttavia, erano destinati ad aprirsi proprio all’interno dell’esecutivo. L’intangibilità del bilancio militare costringeva infatti a una revisione dell’impegno a non introdurre nuovi inasprimenti fiscali; revisione che il ministro delle Finanze Giuseppe Colombo non accettò, rassegnando le dimissioni. Erano i prodromi della crisi, a cui il Sovrano volle dare carattere parlamentare respingendo le dimissioni dell’intero gabinetto e costringendolo a misurarsi con la volontà della Camera che negò, sia pure di stretta misura, la fiducia al governo presentatosi con la richiesta di nuove imposte. Giolitti Il vero catalizzatore politico di questa crisi fu senza dubbio Giovanni Giolitti. Non solo rifiutò più volte l’offerta di un diretto coinvolgimento nella compagine governativa, ma con il suo intervento contrario, il 5 maggio 1892, determinò il voto di sfiducia al governo guidato da Rudinì. Di fatto l’incarico a Giolitti, visto dall’ottica del Sovrano, rappresentava un rilevante tentativo di uscire dall’impasse tra l’«autoritario» Crispi e il «parlamentare» Rudinì. Si trattava di «costruirsi» un ministero energico e competente, privo di consistenti appoggi parlamentari, in modo da mantenere un controllo della Corona sull’esecutivo e imporre le tradizionali esigenze dei Savoia nel campo della politica estera e militare, adeguandole alle nuove sensibilità sociali che circolavano ormai irrefrenabili nel paese. Giolitti proveniva da una famiglia piemontese di estrazione borghese. Sin da giovane mostrò quella scarsa propensione all’astrazione retorica che avrebbe caratterizzato tutta la sua vita politica. Laureatosi in legge, iniziò una rapida carriera come funzionario nell’amministrazione dello Stato, prima al ministero di Grazia e Giustizia e poi a quello delle Finanze. Ricoprì inoltre l’incarico di segretario generale della Corte dei Conti dove, esaminando i decreti dei vari ministeri, acquisì, secondo la sua stessa testimonianza, «una educazione amministrativa efficacissima», utile per la «conoscenza di tutto il meccanismo dello Stato». Quando nel 1882 venne eletto deputato per il collegio di Cuneo, Giolitti ricopriva la carica di Consigliere di Stato. In qualità di ministro del Tesoro del governo Crispi, si distinse per la sua ostinata difesa del bilancio, sempre comunque inserita in

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quella «concezione democratica della Sinistra» che lo condusse, ad esempio, a «mutare la legge generale di contabilità dello Stato per consentire la concessione di opere pubbliche entro un dato limite alle cooperative operaie, che erano cominciate a sorgere in quel tempo»6. Quando, il 10 maggio 1892, Umberto lo incaricò di formare il nuovo governo, Giolitti possedeva dunque una personalità politica ben definita e conosciuta, tanto da avere il coraggio di varare un esecutivo composto esclusivamente da esponenti della Sinistra e del Centro-sinistra. Il programma, presentato alla Camera il 25 maggio, era essenziale nella forma e piuttosto tradizionale nella sostanza: tagli alle spese e pareggio del bilancio, senza perdere «mai di vista la misura elevatissima delle nostre imposte» in modo da «evitare al paese la necessità di nuovi aggravi». Nessuna novità per quanto riguardava invece la politica estera, mentre all’interno la difesa delle libertà veniva subordinata al «mantenimento dell’ordine»7. Sembrava dunque un programma su misura per non provocare contrasti; invece questi esplosero più feroci che mai. Innanzitutto Giolitti, presentandosi con un governo di Sinistra, aveva fatto riaffiorare nella Destra timori di emarginazione, a cui i liberali moderati reagirono riesumando la tradizionale formula trasformistica della difficile contingenza che richiedeva governi forti e rappresentativi, ma non «di parte» come quello che stava nascendo. In realtà, questa nomina suscitava diffidenze e inquietudini che andavano ben oltre il problema della «ricostituzione dei partiti» di cui Giolitti si trovava ad essere involontario, quanto non particolarmente interessato, protagonista. Innanzitutto, in molti ambienti politici veniva sottolineata l’eccessiva fiducia riposta dal Re nel cinquantenne deputato piemontese, il più giovane presidente del Consiglio dell’Italia liberale. Inoltre Giolitti, imposto con un «intrigo di corte», come si sussurrava nei salotti e sulla stampa, ma soprattutto contro il parere dei leader parlamentari, sembrava destinato ad essere il bersaglio di malcelate invidie. Le sue riconosciute capacità tecniche e i suoi trascorsi di abile funzionario amministrativo, richiamati spesso con una punta di disprezzo, ne facevano, agli occhi di

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  G. Giolitti, Memorie della mia vita, Garzanti, Milano 19452, p. 51.   L. Lucchini (a c. di), La politica, cit., vol. III, pp. 173-174.

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gran parte dei parlamentari, un personaggio «nuovo» che in qualche modo avrebbe finito per svalutare i vecchi valori su cui sino ad allora avevano fatto leva i leader politici. L’irruzione di un «estraneo», senza passato patriottico e curriculum parlamentare, non poteva essere accettata nemmeno in nome di una comune bandiera politica. Questa almeno era l’opinione di una parte dell’Estrema, quella più rappresentativa (Imbriani, Cavallotti, Bovio), che gli fu subito contro. Le cautele dei generici proponimenti giolittiani furono considerate negativamente («Non c’è Ministero – disse Cavallotti – che non dica queste cose. Ditemene uno che non le abbia dette!»), mentre rimaneva irrisolto il vero nodo politico, cioè come conciliare i gravosi obblighi imposti dalla Triplice con il proposito deliberato di non imporre al paese sacrifizio alcuno [...]. Avete voi la chiave per uscire da questo dilemma, avete la pietra filosofale da risolverlo? [...] Ma non venite a dire soltanto che farete una politica di pace e di amicizia colle altre nazioni. Onorevole Giolitti, mi perdoni: è troppo poco [...]. Non speri di sottrarsi a questo quesito, dando il contentino alla Camera ed al paese della risurrezione di questo o quel partito [...]. Giovani vi siete presentati, e badate che io non ve ne faccio un merito. Io non sono un bigotto del patriottismo; tuttavia credo che non avrebbe guastato minimamente se in questo Ministero fosse rappresentato anche un po’ meglio, un po’ più quel passato, dei cui ricordi e dei cui esempi qualcosa fra noi vive ancora. […] Io parlo da questi banchi, dove sta vicino a me un uomo, che [...] combatterei nuovamente, se domani tornasse al potere. Eppure egli fu esempio del modo come nei paesi liberi si conquidono le posizioni parlamentari. Le posizioni parlamentari si guadagnano nell’Aula [...] è qui che si conquista quel prestigio, che non vuole essere sparso intorno alla propria persona da nessun altro potere invisibile.

Troppo astio per un programma, in fondo appena abbozzato, di un uomo della Sinistra sicuramente non sospettabile di simpatie crispine, mostratosi più volte, in passato, favorevole ad un serio rigore finanziario fondato peraltro su un sistema tributario più democratico. Sicuramente questi attacchi avevano come principale bersaglio la volontà di Umberto di rendere ben visibile il suo ruolo politico, mediante tale indicazione in parte extraparlamentare. Un intervento come quello di Cavallotti poteva anche essere interpretato come la reazione del risentimento personale di chi avvertiva la nascita di un leader in grado di sottrargli quella qualifica appena attribuitagli di

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«capo del partito liberale in Italia»8. In effetti Giolitti poteva benissimo rappresentare il volto istituzionale, pragmatico e disincantato, del disegno politico cavallottiano; depurate dagli atteggiamenti barricaderi e dalle provocazioni retoriche, diverse intuizioni del leader radicale erano infatti destinate a diventare la tonalità di base del programma giolittiano all’inizio del secolo, a partire da una maggiore comprensione della natura della questione sociale, da un atteggiamento più conciliante nei confronti degli scioperi e dall’avversione per ogni prospettiva megalomane nella sfera pubblica. L’altro grande leader della Sinistra, Crispi, che già aveva osteggiato la candidatura di Giolitti presso il Re, rimase nell’occasione piuttosto defilato; non c’erano dubbi sul fatto che egli, in attesa di un ritorno da protagonista, fosse ancora il principale personaggio della scena politica. Alle ripicche dei leader si aggiungevano i rancori dei senatori per essere stati sostanzialmente tagliati fuori dalle nomine ministeriali. Il risultato fu un coalizzarsi di ostilità che sfociò in un tentativo di espulsione immediata del «corpo estraneo», mediante un’anomala, e sino ad allora mai così diretta, richiesta di un preventivo voto di fiducia. Per tradizione i governi si presentavano alle Camere chiedendo di essere giudicati soltanto dai propri atti, secondo la regola del «sincero esperimento»; con Giolitti il Parlamento non volle adottare questo criterio «sospensivo», nella convinzione che le indicazioni politiche della Camera fossero state disattese dalla scelta del Sovrano. Umberto I, in qualche modo, era diventato l’indiretto bersaglio di un’iniziativa che, per la propria eccezionalità, aveva tutti i caratteri di una censura. I risultati confermarono le tensioni presenti e la mozione di fiducia al programma del governo fu approvata con solo 9 voti di differenza. In seguito a tale voto Giolitti presentò le dimissioni, respinte dal Sovrano, il quale invece si mostrò favorevole alla richiesta di scioglimento delle Camere, anche in considerazione del fatto che quel Parlamento si era sostanzialmente mostrato ostile a tre governi molto diversi tra loro. La successiva battaglia elettorale assunse le caratteristiche di un conflitto tra progetti che intendevano recuperare le tradizionali lo-

8  Citato in L. Dalle Nogare, S. Merli (a c. di), L’Italia radicale: carteggi di Felice Cavallotti 1867-1898, Feltrinelli, Milano 1959, p. 285.

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giche degli assetti parlamentari; conflitto a cui Giolitti rimase per qualche verso estraneo, lontano dalle declamazioni di molti suoi alleati, che annunciavano la rinascita dei partiti sotto gli antichi vessilli politici, e allo stesso tempo ostile al progetto dei suoi avversari di un «grande raggruppamento di centro» trasformistico. Per Giolitti, che aveva lavorato con i più eminenti uomini della Destra, non esistevano problemi di bandiere politiche, ma di razionali progetti di governo attorno a cui formare maggioranze e opposizioni. Nella razionalità giolittiana rientrava la ferma convinzione della necessità di una politica democratica (contrapposta a quella imperiale) invocata già nel 1886, la quale fosse prima di tutto una politica di serietà e sobrietà amministrativa. Da tale esplicita premessa proveniva quella costante e peculiare attenzione di Giolitti nel connettere sempre politica e amministrazione, con la consapevolezza strategica che contro le trasformazioni sociali era «vana ogni resistenza». Il socialismo cominciava ad apparire al politico di Dronero «un concetto economico di primissimo ordine», da cui bisognava imparare a leggere l’evoluzione del moderno mondo della produzione senza che tale movimento arrivasse «mai [a] mettere in discussione le nostre istituzioni politiche»9. Con il suo apparente basso profilo, l’«empirismo» giolittiano invitava la classe dirigente liberale a riflettere su come, date «le condizioni delle ultime classi sociali», fosse «impolitico il credere che le medesime si rassegnino lungamente a restarvi»10. Quindi saranno «le quistioni sociali d’ora innanzi quelle che determineranno principalmente la divisione dei partiti»11, un tipo di questioni cioè più importanti e difficili da risolvere delle questioni politiche. Giolitti era dunque il liberale che materializzava l’ingresso della questione sociale nell’empireo dell’high politics, non più nella sua vecchia veste minghettiana (e poi per alcuni versi crispina) di problema di ‘carenza’ essenzialmente amministrativa che, trascurato, si affacciava sulla ribalta politica, ma nelle fattezze di un enorme problema politico, da riconoscere in quanto tale prima di tentare di affrontarlo con un’adeguata strumentazione amministrativa. 9  Citato in Storia del Parlamento Italiano, 20 voll., vol. IX, Tra Crispi e Giolitti, a c. di R. Colapietra, Flaccovio, Palermo 1976, p. 211. 10  G. Giolitti, Discorsi extraparlamentari, Einaudi, Torino 1952, p. 133. 11  Ivi, p. 135.

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Privo di un consistente seguito di deputati e sprovvisto di una reale maggioranza alla Camera, Giolitti per poter formare un proprio governo si affidava in gran parte al sostegno di Zanardelli. Nonostante alcuni elementi di frizione tra i due, questa alleanza si rivelò l’asse portante della strategia parlamentare di Giolitti, anche perché Zanardelli agì da contrappeso all’ostilità dei leader radicali, offrendosi come riferimento politico per l’ingresso nella maggioranza di molti elementi dell’Estrema. Dopo l’annuncio dell’imminente consultazione elettorale, la maggioranza era d’altronde destinata ad una crescita «naturale». Lo stesso Crispi, in attesa delle elezioni, preferì tenere un «contegno riservato, piuttosto benevolo verso il governo»12. Non casualmente la maggioranza filo-governativa che votò l’11 giugno 1892 l’esercizio provvisorio ebbe questa volta uno scarto favorevole di 72 voti. Per quei deputati non sicuri del loro collegio fu, dal punto di vista dei loro interessi, una decisione senza dubbio saggia. Giolitti si apprestava infatti a costruire una consistente maggioranza utilizzando le collaudate tecniche di molti dei propri predecessori, rese tuttavia più efficaci dalla sua conoscenza della macchina amministrativa. L’azione di Giolitti fu drastica, anche se spesso febbrile e approssimativa a causa del poco tempo a disposizione necessario a guadagnare influenze e acquisire «clienti». La macroscopica ondata di corruzioni e pressioni governative che investì l’Italia in questi mesi, destando riprovazioni e condanne, fu dovuta principalmente al fatto che quello «giolittiano», in quanto «nuovo» gruppo di potere, non poteva fare affidamento su collaudate fedeltà locali, che doveva costruirsi frettolosamente sulle rovine di quelle avversarie. Oltre al decisivo smantellamento di gran parte della macchina prefettizia avversaria (46 prefetti su 69 furono sostituiti o messi a disposizione), Giolitti sciolse numerose amministrazioni comunali ritenute «infide». Anche il Senato venne utilizzato per rafforzare la base di potere. Prima delle elezioni Giolitti aveva fatto nominare 19 senatori, «tra i quali erano vari deputati che lasciavano il collegio a persone fide al presidente del Consiglio»13, ma anche avversari ingombranti allontanati dalla Camera o persone influenti e fedeli non utilizzabili politicamente. Dopo le   Citato in G. Natale, Giolitti e gli italiani, Garzanti, Milano 1949, p. 193.   G. Arangio-Ruiz, Storia costituzionale, cit., p. 487; va segnalata l’errata indicazione fornita dall’autore sul numero dei senatori nominati. 12 13

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elezioni ci fu un’altra infornata di 41 senatori. Dal punto di vista dei programmi elettorali, il governo ribadiva la volontà di conseguire immediatamente e sicuramente il pareggio del bilancio dello Stato, senza nuove imposte, senza aggravare le esistenti, [...] intraprendere senza titubanze la riforma organica dei pubblici servizi [...]; preparare con pacata fermezza la riforma dei tributi, in benefizio delle classi meno agiate; affrontare quelle, fra le questioni d’indole sociale, le quali i lunghi studi fecero più agevoli a risolvere e le lunghe promesse fecero urgenti14.

Sul delicato problema del riordino degli istituti bancari autorizzati a stampare banconote, da tempo considerato inevitabile anche a causa delle voci relative a irregolarità di varia natura, il governo, probabilmente influenzato da ambienti vicini alla Corona, annunciò invece l’intenzione di «rimandare a tempo migliore» la necessaria riforma. «Lo sgomento ci assale»: scandali e corruzione Le elezioni di novembre si svolsero con il sistema maggioritario a due turni in collegi uninominali. Il progetto di legge per il ritorno alla vecchia modalità era infatti stato approvato nel giugno 1891 senza incontrare particolari resistenze. Il sistema maggioritario plurinominale, introdotto solo dieci anni prima, non aveva entusiasmato e in molti avevano trovato conveniente attribuirgli la responsabilità della «confusione» alla Camera, come riflesso della confusione del paese. Nella nuova tornata elettorale, invece, i risultati corrisposero alle aspettative e al grado di pressione e corruzione elettorale esercitato dal governo. Ai seggi si presentarono 1.639.298 elettori, il 55,9% degli aventi diritto. Su 508 seggi da assegnare, circa 370 vennero conquistati dai «ministeriali». In molti collegi non ci fu praticamente battaglia e nell’88,7% dei casi l’elezione avvenne al primo turno senza bisogno di ricorrere al ballottaggio. Dati complessivamente non tranquillizzanti, nell’ottica della «razionale» selezione della classe dirigente, se si tiene anche conto del fatto che con quell’elezione la

  L. Lucchini (a c. di), La politica, cit., vol. III, pp. 186-187.

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deputazione conobbe un certo ricambio: il 34,3% dei deputati non era presente nella precedente legislatura. L’opposizione era all’incirca un quarto dell’intera rappresentanza, ma continuava ad essere l’opposizione che si era avuta da Crispi in poi, cioè «tre frazioni distinte: una Destra, una Sinistra ed una Estrema Sinistra, distintissime una dall’altra, rispetto alle idee e ai modi di governo, ma fuse insieme ogni volta che si presentava l’occasione di dar voto contro al Ministero», come scrisse il «Corriere della Sera»15. Molti deputati dell’Estrema intransigente erano caduti, mentre quelli che avevano «abiurato» ebbero in diversi casi successi trionfali. Si realizzava così uno dei principali obiettivi politici di Giolitti, che ebbe modo di manifestarsi compiutamente soprattutto negli anni di inizio secolo: il depotenziamento del radicalismo parlamentare. La decisa e invadente azione del governo era destinata tuttavia a lasciare dietro di sé molti strascichi, visto che 22 elezioni furono annullate e i risultati di altre 148 contestati. Molti oppositori eccellenti vennero sconfitti, soprattutto per l’impegno profuso contro di loro dagli «agenti governativi». La nuova maggioranza, per quanto non cementata da particolari legami di fedeltà, aveva finito per trovare una identificazione nella cosiddetta «rinascita della Sinistra», che permetteva una copertura dei molteplici e contrastanti interessi che in essa si muovevano. Uno di questi, il più importante al momento, era l’ormai annosa questione degli istituti di emissione. Esistevano, a questo proposito, due compagini politicamente trasversali: una che chiedeva l’unificazione degli istituti autorizzati a stampare biglietti di banca, l’altra che chiedeva il mantenimento della pluralità sino ad allora esistita. Prima della nomina a presidente del Consiglio, Giolitti era stato favorevole a iniziare l’opera di risanamento economico e finanziario proprio dalla restrizione; ma in seguito, come si è visto, assunse un atteggiamento dilatorio, dovuto probabilmente alle pressioni di settori della sua maggioranza legati alla gestione pluralistica degli istituti. Non era solo un problema tecnico: dietro questa scelta si muovevano enormi interessi speculativi e un sordo conflitto tra la Banca Nazionale, favorevole al monopolio dell’emissione e gli altri istituti, che erano la Banca Romana, il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, la

  Dopo la lotta, in «Corriere della Sera», 11 e 12-11-1892.

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Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito. Tale conflitto si protraeva da anni, coinvolgendo numerosi settori della stampa e della pubblicistica scientifica appositamente finanziati per sostenere le ragioni dei contendenti. La vicenda era ulteriormente complicata dalle pessime condizioni in cui versavano molti di quegli istituti, la cui pericolosa esposizione finanziaria era dovuta alla incauta partecipazione al finanziamento della speculazione edilizia del precedente decennio. La fine del boom edilizio aveva lasciato alcune importanti banche sull’orlo del fallimento, e il governo era intervenuto rendendo possibile il salvataggio mediante pesanti interventi degli istituti di emissione, autorizzati di conseguenza ad aumentare la propria quota di circolazione. La situazione si deteriorò al punto da costringere il governo Crispi, nel 1889, a promuovere un’indagine amministrativa sulle condizioni delle banche di emissione e in particolare sulla Banca Romana, una delle più discusse. I risultati dell’indagine misero a nudo le gravi irregolarità presenti nel settore, ma soprattutto fecero emergere le compromissioni della Banca Romana responsabile, della stampa illegale di 9 milioni di lire e di un’eccedenza abusiva complessiva di 25 milioni. Il governo decise di nascondere i risultati della scrupolosa inchiesta per evitare censure politiche sulle carenze di controllo e impedire una possibile reazione negativa nel già pericolante settore del credito. Una linea peraltro mantenuta anche dai successori, se è vero che Luigi Luzzatti, ministro delle Finanze del governo Rudinì, e l’allora presidente del Senato, Domenico Farini, impedirono al senatore Giacomo Giuseppe Alvisi, incaricato dell’inchiesta, di riferire gli esiti della sua indagine di due anni prima. Alvisi, tuttavia, per scrupolo di coscienza, volle dare copia della relazione all’economista Leone Wollemborg, con la richiesta di pubblicarla dopo la sua morte, che avvenne nel novembre del 1892. A questo punto il documento, già in possesso di Maffeo Pantaleoni, un prestigioso economista della scuola liberista, venne consegnato al deputato dell’Estrema Colajanni e al moderato Gavazzi, presidente dell’Associazione per la libertà economica. Da tempo la stampa europea alludeva alle oscure vicende degli istituti d’emissione italiani e queste voci, riprese dai giornali nazionali, avevano finito per creare un clima di allarme. La situazione era tuttavia destinata a precipitare di fronte al disegno di legge governativo che prorogava di sei anni la facoltà di queste banche di emettere cartamoneta. A questo punto scattò la

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controffensiva: il giorno successivo alla presentazione del disegno, Colajanni e Gavazzi attaccarono congiuntamente rivelando alcune parti dell’inchiesta Alvisi-Biagini da cui emergevano sia le condizioni di sfacelo e illegalità degli istituti indagati, sia il panorama di corruzione che traspariva in modo particolare dai libri-paga della Banca Romana. In questi, accanto ad avvocati e giornalisti, a cui l’Istituto «accordava un credito in retribuzione dei servizi di pubblicità o di difesa legale del proprio operato», si poteva trovare anche la categoria degli «uomini politici» iscritti sotto la voce «spese per fare leggi». La Banca, inoltre, secondo il brano dell’inchiesta letto alla Camera da Gavazzi, erogava «sovvenzioni a vari clienti, tenuti in speciale considerazione». Giolitti decise allora di nominare una commissione parlamentare alla cui presidenza fu posto il senatore Finali, presidente della Corte dei Conti; la responsabilità per l’ispezione alla Banca Romana venne affidata al funzionario Martuscelli. Le rivelazioni ebbero una notevole ripercussione nel paese e «la stampa italiana si divise in due correnti: una contraria e una favorevole alla Banca Romana»16. I primi riscontri della commissione Finali non si fecero attendere, e tutti indicavano la responsabilità del governatore della Banca Romana Bernardo Tanlongo e del cassiere Cesare Lazzaroni, arrestati il 19 gennaio 1893. Anche il Banco di Napoli e quello di Sicilia si trovarono coinvolti, ed emerse che alle vicende del Banco di Sicilia era legato anche l’omicidio di Emanuele Notarbartolo, già presidente del Banco sino al 1890 e testimone scomodo dei rapporti illeciti dell’istituto con personalità politiche. Era noto, inoltre, che il procuratore di Stato aveva inviato al Parlamento le requisitorie contro sette deputati, tra cui Nicotera, ma «strada facendo e con molti intrighi, sei dei sette furono salvati, e così rimase di fronte al tribunale soltanto De Zerbi»17. La compromissione di diversi deputati in queste vicende, rimaste peraltro piuttosto oscure, suscitò una profonda indignazione nell’opinione pubblica, contribuendo a rompere il fragile equilibrio che aveva tenuto insieme sino a quel momento gran parte della disorientata classe politica. Tanlongo, proposto per il laticlavio da Giolitti, credeva, secondo 16  A. Comandini, L’Italia nei cento anni del secolo XIX, vol. V, Vallardi, Milano 1942, p. 1356. 17  A. Labriola, Scritti politici 1886-1904, Laterza, Bari 1970, p. 349.

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Colajanni, di aver «acquisito la sicurezza dell’impunità». In realtà, il governatore non avendo il Senato ratificato la sua nomina, si trovò costretto a utilizzare l’estrema linea difensiva, quella del coinvolgimento del mondo politico. L’opposizione riprese così vigore nella speranza di dimostrare il diretto legame esistente tra l’alto grado di corruzione elettorale governativa, di cui ancora non si era spenta l’eco, e gli illeciti rapporti esistenti tra Tanlongo e Giolitti. L’accusa principale che emergeva dalle interpellanze dei deputati riguardava la nomina a senatore di Tanlongo, inspiegabile visti gli esiti già noti dell’ispezione AlvisiBiagini, se non alla luce di un tangibile ringraziamento per aver finanziato illecitamente la campagna elettorale per il governo. Giolitti respinse sdegnato le accuse, affermando di non aver mai conosciuto il contenuto della relazione, essendo un’inchiesta promossa da un altro ministro, e di non aver mai preso denaro dalla Banca Romana. Il laticlavio per Tanlongo invece, secondo il presidente del Consiglio, era da attribuirsi alla sua rilevanza sociale. La difficile posizione del presidente del Consiglio convinse Crispi che fosse arrivata l’ora di attaccare: in un’intervista al «Fanfulla», il 15 febbraio 1893, si assunse la responsabilità di aver taciuto i risultati dell’inchiesta Alvisi-Biagini per il bene del paese, ma affermò che Giolitti conosceva il contenuto di quella relazione. Rischiando in prima persona, Crispi intendeva sollevare una campagna d’indignazione dell’opinione pubblica contro il presidente del Consiglio, costringendo così la Corona ad abbandonare la strenua difesa del suo ministro. Lo scandalo, dunque, dopo una prima fase di incertezza si trasformò in un regolamento di conti politico, lasciando allo scoperto il vero e più ambizioso rivale del governo, Crispi, l’unico in grado di raccogliere e tenere unite le sparse fila dell’opposizione antigiolittiana, che andava da alcuni settori della Destra moderata, molto forte in Senato, agli scontenti dell’Estrema. Il clima di eccitazione si estendeva rapidamente nel paese, amplificato dal diffuso parallelo con lo scandalo del canale di Panama18 che nello stesso periodo stava investendo la Francia. A Milano gli «uomini d’ordine» dell’Associazione costituzionale avevano 18  La compagnia del Canale di Panama aveva ricevuto un cospicuo prestito dal governo, nonostante le cattive condizioni finanziarie in cui versava ne sconsigliassero l’autorizzazione governativa; dopo un’indagine emerse che l’azione legislativa era stata ottenuta mediante ingenti somme versate a tutti i gruppi parlamentari.

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persino diramato una circolare che invitava «l’opinione pubblica a manifestarsi»19. Le vicende di quei mesi convinsero Giolitti della necessità di riformare il sistema bancario tanto che, approfittando della tensione esistente, nell’agosto 1893 fece approvare la soppressione della Banca Romana, della Banca Nazionale Toscana e della Banca Toscana di Credito, «lasciando sussistere solo la Banca Nazionale, trasformata in Banca d’Italia, il Banco di Napoli e quello di Sicilia che avevano antiche tradizioni»20. Intanto, comunque, i risultati conclusivi della commissione Finali stabilirono responsabilità e omissioni che chiamavano in causa direttamente la sfera politica e, in particolare, il ruolo giocato dagli esecutivi nel favorire, a proprio vantaggio, quello stato di cose. Pur soffocate, molte voci cominciavano a circolare riguardo le responsabilità e le complicità dei vertici dello Stato e persino della Casa Reale. La Banca Romana ricopriva da tempo la funzione di cassa continua a disposizione di vari ministeri, tra cui, come emerse in seguito, quelli di Minghetti, Depretis e Rudinì. Se Crispi e la sua famiglia si erano avvalsi della generosa disponibilità di Tanlongo anche per interessi personali, non mancavano cambiali ancora da pagare da parte di molti altri illustri personaggi. Diversi ministri, sottosegretari e deputati avevano ottenuto imbarazzanti condizioni favorevoli; ma anche uomini «simbolo» come Menotti, Garibaldi e Carducci risultavano a vario titolo coinvolti o comunque «chiacchierati». Le dimensioni dello scandalo erano ormai tali che non fu più possibile, dopo tante resistenze, rifiutare l’ennesima proposta di istituire una commissione parlamentare con lo specifico incarico di accertare le responsabilità politiche di tale situazione. A tale scopo il presidente della Camera, Zanardelli, nominò il 21 marzo un comitato di sette deputati presieduto da Antonio Mordini. Lo scandalo finanziario e le sue ripercussioni sul mondo politico avevano agito da detonatore del più generale malessere sociale che attanagliava l’Italia da alcuni anni, come risultato di una prolungata congiuntura economica internazionale, aggravata dalla guerra commerciale e finanziaria in corso con la Francia, partner privilegiato nel commercio estero. All’interno, l’opinione pubblica liberale appariva

  Citato in G. Natale, Giolitti, cit., p. 231.   G. Giolitti, Memorie, cit., pp. 80-81.

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turbata dall’inarrestabile crescita del movimento dei Fasci siciliani e dai successi organizzativi del movimento operaio e di quello socialista. Dai fermenti socialisti di questa fase emergeva per di più la volontà di sottrarsi alla tutela delle istituzioni «borghesi», rinunciando agli accordi con quelle forze radicali un tempo considerate «affini». Anche l’anticlericalismo e l’irredentismo avevano rialzato la voce, contribuendo ad acuire i contrasti con il Vaticano e le tensioni diplomatiche con l’Austria. Non meno forieri di apprensione dovettero sembrare gli accadimenti in corso all’estero, a cominciare dalla ufficiale denuncia del trattato di Uccialli ad opera di Menelik, per finire al drammatico eccidio di lavoratori italiani ad Aigues-Mortes in Francia, in cui alcuni operai francesi, per rivalità di lavoro, assassinarono 30 emigrati italiani e ne ferirono cento. L’episodio suscitò violenze di piazza in molte città italiane, accentuando l’aspro contenzioso tra i due paesi. L’impressione diffusa, alimentata da pessimistiche e talvolta aggressive campagne stampa, era quella di un paese incapace di reagire politicamente e moralmente di fronte al baratro morale venuto alla luce con gli scandali bancari. Questa è la prima volta che lo sgomento ci assale in modo che dubitiamo di noi stessi e del nostro avvenire. E veramente, se guardiamo con calma la situazione, essa ci apparisce sotto ogni aspetto gravissima. [...] E mentre questo caos morale continua, le condizioni economiche e finanziarie si aggravano in modo spaventevole. [...] E i più comuni affari della vita d’ogni giorno sono per modo intralciati che non si può addirittura andare innanzi. La pubblica sicurezza è in alcuni punti seriamente minacciata. [...] E come se tutto ciò fosse poco, un fenomeno nuovo apparisce all’orizzonte. Lo spettro del socialismo, che nessuno finora aveva voluto credere possibile in Italia, si presenta improvvisamente nella Sicilia. Si parla di 300.000 soci, la massima parte contadini, iscritti ai Fasci 21.

I Fasci siciliani Il movimento dei Fasci era particolarmente temuto perché tra il 1892 e il 1893 aveva conosciuto una rapida diffusione in molte località siciliane. Si trattava di organizzazioni di lavoratori, sorte   P. Villari, Dove andiamo?, in «Nuova Antologia», CXXXII, 1893, pp. 5-6.

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inizialmente nei centri urbani e poi estesesi nelle zone rurali, tra i contadini e i minatori delle zolfatare, dove lavoravano in condizioni disumane anche moltissimi bambini, i cosiddetti carusi. Le caratteristiche dei Fasci variavano a seconda delle zone, ma tutti davano voce al disagio di larghi strati della popolazione isolana per condizioni di vita e di lavoro che, accanto alle peculiari forme di arretratezza e ingiustizia sociale, erano gravate dal peso della violenta crisi abbattutasi sull’isola. Molti degli iscritti non professavano ideali realmente socialisti, ma rivendicavano il diritto a un miglioramento delle condizioni di sussistenza, che per qualcuno avrebbe dovuto realizzarsi con la concessione di piccoli appezzamenti di terra, per altri mediante migliori condizioni di lavoro, per tutti con la riduzione delle tasse e del prezzo dei generi di prima necessità. In molti casi si trattava semplicemente di questione di sopravvivenza. Colajanni mostrò in Parlamento il pane distribuito ai contadini da un proprietario terriero, tra l’altro sindaco del paese: «è necessario che la Camera si indegni [sic] perché si può essere borghesi, ma avendo un residuo di cuore dinanzi a quel pasto di solame [il frumento che si frammischia alla terra], terra e di cenere, si deve rimanere per forza indignati»22. Non di rado le manifestazioni pubbliche dei Fasci siciliani facevano riferimento ad un simbolismo religioso-patriarcale (crocifissi, statue della Madonna, ritratti dei sovrani) che si fondeva con gli emblemi politici della giustizia sociale, come le raffigurazioni di Mazzini, Garibaldi e Marx. Decisivo per il successo di questo movimento fu il ruolo dei leader Rosario Garibaldi Bosco, Nicola Barbato e il deputato Giuseppe De Felice Giuffrida, letteralmente venerati dai contadini. Un cronista non di parte testimoniò che «dovunque andavano, i capi dell’organizzazione dei Fasci mettevano sottosopra i paesi: un’onda immensa di popolo li andava a ricevere con le bandiere rosse, con fanfare e concerti, e quando parlavano esercitavano un prestigio incredibile». Un contadino li definì «angeli calati dal paradiso»23. Dal punto di vista organizzativo, i Fasci si presentavano come associazioni che fondevano strutture già esistenti come il mutuo soc22  Citato in S.M. Ganci (a c. di), Democrazia e socialismo in Italia. Carteggi di Napoleone Colajanni: 1878-1898, Feltrinelli, Milano 1959, p. 373. 23  Citato in R. Zangheri, Storia del socialismo italiano, vol. II, Dalle prime lotte nella Valle Padana ai Fasci siciliani, Einaudi, Torino 1997, pp. 545-546.

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corso con nuove finalità cooperativistiche, politiche e di resistenza, inserendole in un efficace meccanismo di acculturazione e mobilitazione dei soci. Tutto questo aveva condotto a un originale rapporto con il Partito socialista, fatto di una mutua collaborazione che non intaccava i diversi ruoli delle due organizzazioni, di avanguardia politica per il Partito socialista e di movimento di massa integrato nella cultura locale per i Fasci. Una differenza che, alla chiusura del congresso socialista di Reggio Emilia, era destinata a raffreddare le iniziali simpatie del gruppo dirigente socialista nei confronti dei Fasci, ritenuti portatori di esigenze, come quella della spartizione della terra in piccole proprietà, considerate arretrate rispetto agli obiettivi collettivistici del partito. Dietro tale «declassamento» c’era l’incapacità socialista di fornire risposte allo scottante problema del rapporto con l’universo contadino. Il composito profilo politico, sociale e ideale del movimento siciliano doveva dunque suscitare, con la solidarietà di rito, soprattutto la diffidenza di un partito impegnato a inseguire un’improbabile ortodossia marxista. Dalla primavera del 1893 e soprattutto dopo il congresso di luglio a Corleone, gli scioperi guidati dai Fasci iniziarono a moltiplicarsi. Si rivendicava il pagamento in denaro e non in natura, l’introduzione di un modello mezzadrile e la spartizione delle terre demaniali ai nullatenenti. I primi arresti, effettuati nel tentativo di bloccare il fenomeno, sortirono l’effetto opposto estendendolo in molte località e trasformandolo nella maggiore ondata di sciopero contadino verificatosi nell’Italia di quegli anni. La grande proprietà latifondista si allarmò, facendo pressione sul governo perché intervenisse in modo energico. Giolitti tuttavia, nonostante le sollecitazioni del Sovrano, rifiutò di decretare lo stato d’assedio o di imporre misure speciali particolarmente restrittive. In seguito, caduto il governo, la direzione generale della pubblica sicurezza criticò «il passato ministero [che] con deplorevole negligenza ed inettezza, lasciò preparare in Sicilia una insurrezione». Il mancato riconoscimento del significato «insurrezionale» e quindi «politico» della protesta dei Fasci, implicito nella volontà di Giolitti di rifiutare misure organiche di intervento repressivo, era la prova della prospettiva «gradualista» perseguita dal presidente del Consiglio nei confronti delle proteste a carattere socialistico. Si trattava di stemperarle senza contrapposizione violenta, separandone il nucleo rivendicativo sindacale da

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quello politico. A tale scopo risultava sufficiente l’applicazione del codice penale e dei tradizionali mezzi di polizia, a cui semmai si potevano aggiungere l’uso spregiudicato delle intimidazioni e quello opportunistico delle manovre sottobanco per blandire i leader. In pratica Giolitti adottò la politica del doppio livello, in cui la difesa del complessivo carattere liberale del proprio programma (libertà di associazione e disposizioni limitative dell’uso delle armi da fuoco nel reprimere le manifestazioni pubbliche) era affidata a un pragmatismo opaco, burocratico o persino «extraistituzionale» che, per chi ingenuamente non lo riteneva un segno di debolezza, poteva essere definito, a seconda dell’ottica prescelta, cinismo o realismo. Sino alla vigilia del ritorno al potere di Crispi, i conflitti non ebbero mai, se si eccettua quello del 20 gennaio 1893 a Caltavuturo, in provincia di Palermo, un esito cruento. Negli ultimi mesi del governo Giolitti l’attività repressiva si andò tuttavia accentuando, anche alla luce della maggiore aggressività del movimento dei Fasci. Cresceva soprattutto la richiesta, da parte degli organi di polizia e degli amministratori locali, di interventi più drastici. Come spesso era accaduto in questo primo trentennio unitario, la violenta reazione di fronte alla perturbazione dell’ordine da parte degli organi di pubblica sicurezza, a cominciare dai vertici politici, sembrava motivata più dalla paura e dalla estraneità nei confronti della realtà sociale posta di fronte a loro, che da vere e proprie emergenze di ordine pubblico. Spesso le motivazioni dei funzionari preposti al controllo delle manifestazioni per giustificare le decisioni di far intervenire la forza pubblica o di denunciare qualcuno alla magistratura erano basate su reati di opinione o manifestazioni di dissenso, dalle grida «sediziose» all’esposizione di simboli «provocatori» sino a concitati discorsi «di agitazione». In alcuni casi era la stessa rappresentazione della massa a scatenare reazioni incontrollabili che talvolta, in mancanza di precisi riferimenti di mediazione, degeneravano in sanguinosi conflitti. Per i Fasci siciliani in particolare, la situazione era resa più insidiosa dal clima di allarme collettivo ingenerato dal vasto fenomeno, recepito dall’opinione pubblica nazionale come il versante sociale di un più generale stato di degrado delle istituzioni manifestatosi, per la sfera politica, nella vicenda degli scandali bancari. Tale condizione di fibrillazione sociale accentuava le difficoltà del governo. Il 21 maggio il gabinetto era stato battuto alla Camera

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sul bilancio del dicastero di Grazia e Giustizia, ma il Sovrano aveva respinto le dimissioni dell’intero esecutivo accettando solo quelle del guardasigilli Bonacci. Un segnale delle difficoltà in cui si sarebbe imbattuto il governo che, a causa di un’opposizione sempre più rinvigorita, soprattutto in Senato, fu costretto a ridurre notevolmente la portata della riforma delle pensioni, a cui Giolitti aveva attribuito grande importanza nel progetto di risanamento del bilancio. Ormai politicamente isolato, Giolitti riprese la propria libertà d’azione. Ad ottobre scelse di andare nel suo collegio di Dronero per riaffermare la leadership del «partito» progressista con un discorso dai forti accenti riformisti e, mettendo al bando le cautele dell’uomo di governo, tornò a porre l’accento sulla necessità, al fine del pareggio del bilancio, di un’imposta progressiva sui redditi superiori alle 5000 lire da affiancare a una più congrua tassa sulle successioni. Un intervento, il suo, che sembrava fatto apposta per uscire di scena in grande stile, su un conflitto eminentemente politico. Gli attacchi degli avversari non si fecero attendere. Tutti sottolineavano come le proposte di nuovi tributi, oltre ad aver provocato il panico negli ambienti finanziari e nella Borsa, erano in palese contraddizione con le promesse elettorali di un pareggio da raggiungere solo con le economie. Un’accusa ineccepibile, che in qualche modo tracciava i confini delle reali differenze programmatiche tra Destra e Sinistra. La Sinistra, indipendentemente dalle sue caratteristiche «imperiali» o «democratiche», non poteva limitarsi al contenimento delle spese. L’aveva ammesso lo stesso Crispi in una delle sue rare autocritiche, e Giolitti dopo di lui lo stava amaramente constatando. Il tentativo di far cadere il governo su una grande battaglia per le riforme democratiche era tuttavia destinato a fallire. Il colpo definitivo venne assestato, il 23 novembre 1893, dalla lettura della relazione conclusiva del comitato dei sette. Per tre ore e mezzo nell’aula della Camera strabocchevole e agitata si rimestò in quella che Luigi Pirandello definirà «torbida fetida alluvione di melma»24. Le indagini della commissione avevano preso in esame i rapporti con le banche di uomini politici, pubblici funzionari e giornalisti nell’ultimo decennio. Per i funzionari dei ministeri del Tesoro e

24  L. Pirandello, I vecchi e i giovani, in Tutti i romanzi, 2 voll., vol. II, Mondadori, Milano 1973, p. 273.

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dell’Agricoltura, la commissione denunciava, con nomi e addebiti, la pericolosa tendenza ad instaurare rapporti con le banche che da questi ministeri dovevano essere sorvegliate. La dirigenza delle banche era, dal canto suo, ritenuta parimenti colpevole; essa si era prestata a operazioni illecite per favorire interessi di vario genere danneggiando quelli degli istituti medesimi. Per quanto riguardava gli uomini politici, secondo la commissione Mordini il governo Crispi era da biasimare per non aver rivelato al Parlamento i risultati della relazione Alvisi-Biagini mentre Giolitti, che non poteva non esserne a conoscenza, veniva disapprovato per aver in seguito proposto, nonostante gli esiti di quella indagine, la nomina di Tanlongo «all’ufficio di senatore». La formula dubitativa che accompagnava il proscioglimento di Giolitti dalle altre accuse non giovò di sicuro al presidente del Consiglio, il quale vide messa in dubbio la propria credibilità, soprattutto per l’accusa di un prestito ricevuto da Tanlongo a fini di corruzione elettorale. Pur riconoscendone «la rettitudine» personale, la commissione aveva dunque finito per individuare in Giolitti l’unico capro espiatorio politico dell’intero travagliato periodo, in quanto scagionava dall’accusa di avere ricevuto finanziamenti elettorali (con la formula «non risulta») gli altri ministri indagati (Lacava e Grimaldi) e i governi precedenti dal 1881 in poi. Il giorno successivo Giolitti rassegnò le dimissioni, «per avere libertà di linguaggio verso tutto e verso tutti». In realtà queste dimissioni apparvero ai più una ammissione di responsabilità. Dalla relazione risultava chiaramente «che se la commissione avea detto tutto ciò che avea visto, non tutto avea visto ciò che vi era, poiché molti salvataggi erano stati operati»25. Il principale fra questi fu quello di Rattazzi, che aveva operato per conto del Sovrano. La commissione appurò infatti che Giolitti aveva facilitato il salvataggio della Banca Tiberina, scaricandone gli oneri in buona parte sulla Banca Romana per «salvare qualcuno [cioè il Re] che aveva speculato allo scoperto»26. Lo scandalo comunque non si sarebbe esaurito qui.

  G. Arangio-Ruiz, Storia costituzionale, cit., p. 500.   Citato in E. Vitale, La riforma degli Istituti di emissione e gli ‘scandali bancari’ in Italia, 1892-1896, vol. I, Camera dei Deputati, Roma 1972, p. 120. 25 26

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La stampa si fa azienda Per la corruzione dei rappresentanti della stampa la questione appariva ancora più delicata, perché già da alcuni anni i quotidiani politici si trovavano nell’occhio del ciclone per le sempre più disinvolte relazioni che intercorrevano tra informazione e speculazione. In effetti un po’ alla volta la stampa politica e d’opinione aveva cominciato a mutare aspetto, e da strumento funzionale soprattutto al conflitto e all’aggregazione tra partiti e tra gruppi regionali o notabilari si era trasformata in una potenziale attività imprenditoriale. «I giornali oggi – scriveva un affermato giornalista nel 1887 – senza che molti se ne avvedano, sono potentemente entrati nel nostro organismo pubblico, anche come azienda economica»27. Tra proprietà e singoli giornalisti si era appurato ad esempio che nel solo periodo 1888-92, per finanziare campagne di stampa a proprio favore, la Banca Romana aveva versato 425.000 lire con la motivazione «spese di stampa» e quasi 30.000 ne aveva segnate sotto la voce «pubblicità». Nello stesso periodo, la Banca Nazionale aveva speso per foraggiare i giornali oltre 330.000 lire; inoltre diverse cambiali di giornalisti giacevano «in sofferenza» negli istituti di emissione. 11 testate furono censurate dal Comitato per i rapporti poco limpidi con Tanlongo. Il largo coinvolgimento della stampa negli scandali bancari era comunque proporzionato all’importanza assunta da quotidiani e periodici nella società italiana soprattutto a partire dalla metà degli anni ’80, quando cominciarono ad emergere giornali con l’ambizione di superare la tradizionale barriera del localismo che aveva sino ad allora caratterizzato i quotidiani. Se agli inizi degli anni ’70 in Italia la tiratura complessiva dei quotidiani si aggirava attorno alle 450.000 copie, verso la fine del secolo, con quasi il 20% di analfabeti in meno, oscillava tra uno e due milioni. In effetti in questi anni molte nuove testate nacquero e numerose altre si ingrandirono. Nel 1885 l’industriale del cotone Benigno Crespi, entrando in società con Torelli Viollier nella gestione del «Corriere della Sera», ne favorì lo slancio che doveva condurre il quotidiano milanese, foglio della borghesia liberale lombarda più dinamica, a sfidare, alla fine degli anni ’90, l’altro quotidiano milanese, «Il Seco-

  D. Papa, Confessioni e battaglie, Sem, Milano 1903, p. 177.

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lo», che con le sue 100.000 copie giornaliere rappresentava la punta di diamante dell’editoria giornalistica nazionale. A Roma si contendevano la piazza «Il Messaggero», fondato nel 1878, di ispirazione democratica, e «La Tribuna» che aveva fatto il suo esordio nel 1883 grazie anche al contributo dell’industriale Alessandro Rossi, passato poi a sostenere il periodico del transigentismo cattolico «La Rassegna Nazionale». Nel 1885 sorsero due importanti quotidiani, «Il Secolo XIX» a Genova e «Il Resto del Carlino» a Bologna, mentre dieci anni dopo a Torino, sulle fondamenta della «Gazzetta piemontese» nacque «La Stampa». Ovviamente accanto alle rilevanti o discrete tirature di alcune aree esistevano larghe zone d’Italia dove la stampa non aveva diffusione o sopravviveva stentatamente. La maggior parte dei circa 150 quotidiani esistenti all’inizio degli anni ’90 erano fogli provinciali. Questo significava che spesso dovevano la propria esistenza, più che al limitato numero di lettori, ai diversi e solitamente indiretti contributi del ministero degli Interni o di determinati raggruppamenti politici. Il giornale è rarissimamente l’organo di un partito – scrisse ArangioRuiz; il più delle volte è l’organo di una spiccata individualità politica; se nasce da una impresa industriale, talvolta si mette a servizio di una o di più persone, tal altra sostiene le idee di un gruppo parlamentare, spesso rimane indipendente da persone o gruppi, e sostiene le idee che alle menti direttrici più talentano [...] il giornale ha maggiore importanza dell’associazione nel determinare una corrente di idee28.

La grande maggioranza dei quotidiani di quegli anni era di quattro facciate, riempite con un articolo di fondo, cronaca locale e telegrafiche notizie estere provenienti dalla principale agenzia di stampa dell’epoca, la Stefani. Alcuni pubblicavano romanzi d’appendice a puntate, mentre spazi crescenti cominciavano ad essere occupati dalla pubblicità, che ebbe un ruolo non secondario nell’avvicinare gli investitori alla carta stampata. Solo a partire dagli anni ’80 si cominciò a parlare di professionalizzazione dei giornalisti. Sino ad allora, se si eccettua il direttore e due o tre collaboratori, la maggior parte di coloro che scrivevano sui giornali lo faceva come attività secondaria. L’esistenza di un’Associazione della stampa periodica (a   G. Arangio-Ruiz, Storia costituzionale, cit., p. 542.

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cui si potevano iscrivere anche i proprietari dei giornali), sorta nel 1877, non implicava alcuna consapevolezza di categoria, limitandosi per lo più a svolgere funzioni di collegio arbitrale per la ricomposizione di vertenze personali tra gli addetti ai lavori. In complesso, gli ultimi anni del secolo furono per la stampa quotidiana nazionale un periodo di profonda trasformazione: scompariva il giornale come gazzetta dal carattere dottrinario-pedagogico e si imponevano organi d’informazione dalla più vivace impostazione stilistica, basati su reportages e collaborazioni di esperti. Un passaggio difficile, dato l’ancora limitato bacino d’utenza, che rendeva l’impresa editoriale in genere un’attività ad alto rischio economico. Nonostante i picchi di vendite raggiunti da molte testate in occasione dei grandi e spesso catastrofici eventi di quegli anni, la maggior parte dei giornali aveva i bilanci in rosso. Oltre alle limitate capacità di assorbimento, esistevano alla base del limitato sviluppo della stampa d’informazione in Italia anche serie difficoltà di ordine tecnico (gli alti prezzi delle tariffe telegrafiche, il costo elevato della carta, l’esoso monopolio dell’agenzia di stampa) e politico (per i giornali dell’opposizione extra-costituzionale spesso c’era il sequestro delle copie), che ebbero una prima parziale soluzione solo nel mutato clima sociale e politico che seguì alla crisi di fine secolo.

IX Ancora Crispi: dalla Sicilia ad Adua (1894-1896) «L’impotenza e gli ardori» La caduta del governo Giolitti fece risaltare ancora di più il quadro di depressione economica e sociale in cui da tempo si dibatteva il paese. Il sistema del credito a pezzi, una grave crisi monetaria, il commercio e l’industria stagnanti, i prezzi agricoli in caduta libera, la disoccupazione dilagante, i moti sociali che in Sicilia per la prima volta avevano assunto una sorta di connotazione politica di massa: tutti questi fattori avevano prodotto un diffuso allarme nella classe dirigente circa la tenuta del sistema nel suo complesso. Nel colloquio avuto con il Re Crispi tratteggiò un quadro particolarmente fosco: «il paese è scontento, scontento è l’esercito [...]. Tutti vedono avvicinarsi la rivoluzione. A Milano parlano di repubblica cispadana, cioè di un governo locale, che sarebbe la rottura dell’unità. A Torino non si discorre altrimenti»1. Erano in molti a ritenere che il momento eccezionale richiedesse una risposta eccezionale, una risposta che non poteva fare affidamento sul Parlamento, ma sulle istituzioni non elettive e in particolare sul Re, che era responsabile «innanzi al Paese e [...] verso la sua dinastia. È una responsabilità morale, la sua, ma che porta anch’essa le sue conseguenze»2. Su Umberto dunque si concentravano le aspettative

1  T. Palamenghi-Crispi, Giovanni Giolitti. Saggio storico-biografico, L’Universelle, Roma 1912, p. 43. 2  Ivi, pp. 43-45.

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di chi riteneva indispensabile uscire dalla crisi in tutti i modi, anche a discapito della correttezza costituzionale. Già in altra occasione, secondo Farini, Crispi aveva definito il Re «un minchione che si lascia guidare da falsi scrupoli di costituzionalismo che andrebbero trascurati in un paese in formazione come il nostro»3. Per rispettare questi scrupoli e le caratteristiche della maggioranza giolittiana alla Camera il Sovrano, ispirato da Sonnino, decise di affidare a Zanardelli l’incarico di formare il nuovo governo con l’intenzione tuttavia di renderne impossibile la concretizzazione. La maggior parte delle personalità politiche contattate per la formazione del ministero si resero, su pressioni provenienti dalla corte, indisponibili. Non poteva essere infatti il deputato bresciano, con le sue tendenze liberali e le sue prospettive di riformismo avanzato, l’uomo incaricato di reprimere i disordini sociali e contemporaneamente introdurre nuovi indilazionabili prelievi fiscali. Alla difficoltà oggettiva di formare un equilibrato, e in quel frangente indispensabile, governo di coalizione, si aggiunse dunque la palese ostilità della corte, che tra l’altro non vedeva di buon occhio i sentimenti irredentisti che avevano ispirato l’indicazione del generale trentino Oreste Baratieri a ministro degli Esteri. «Riassumendo – scrisse sul suo diario l’aiutante di campo del Re, che aveva assistito ai convulsi andirivieni di quei giorni – il Re, data la situazione parlamentare, era stato obbligato ad offrire a Zanardelli la composizione di un nuovo Ministero ma fece di tutto perché non vi riuscisse: 1° Perché Zanardelli avrebbe fatto delle economie nell’esercito, ciò che il Re non voleva. 2° Perché il Re voleva un gabinetto Crispi. Perciò il Re di sottomano ostacolò la formazione del gabinetto Zanardelli, facendo in modo che Baratieri non accettasse di essere Ministro degli Esteri [...]. Zanardelli capì la manovra del Re e quindi la sua riluttanza a deporre il mandato»4. Dopo aver costretto Zanardelli a rassegnare le dimissioni, Umberto poté dunque incaricare formalmente Crispi: una scelta non solo imposta al Parlamento, ma dall’evidente connotazione anti-parlamentare. Nonostante fosse implicato nelle vicende degli scandali bancari, Crispi tornava al potere con l’aureola del salvatore della patria e il 3  D. Farini, Diario, vol. I, Istituto per gli studi di politica internazionale, Milano [1942], p. 42. 4  P. Paulucci, Alla corte di Re Umberto. Diario segreto, Rusconi, Milano 1986, p. 93.

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suo esecutivo appariva a molti come l’unica possibilità di investire il governo parlamentare dell’autorità e del prestigio delle istituzioni «forti». Dal punto di vista politico si trattava di un governo composto prevalentemente da elementi di Centro e di Destra, con un’apertura all’Estrema (Maggiorino Ferraris alle Poste). Per sé Crispi aveva riservato il ministero dell’Interno, affidando a Sonnino le Finanze e l’interim del Tesoro. Il Senato gli fu decisamente favorevole. Il suo ingresso, in occasione dell’esposizione del programma, il 20 dicembre, fu salutato da un applauso. «Parevano – commentò Farini – degli impotenti che volessero tentare gli ardori della gioventù»5. Anche alla Camera, d’altronde, aveva incontrato pochi ostacoli. Ottenuta un’ampia fiducia, Crispi si mise al lavoro per realizzare un’opera di risanamento politico nazionale che avrebbe richiesto la cessazione di ogni conflitto politico intorno a lui. Un segno eloquente veniva anche dal programma, sfrondato da ogni aspetto, compresa la politica estera, non strettamente connesso alle due grandi emergenze. La prima era quella del risanamento finanziario, che doveva proseguire su quei binari da cui, secondo Crispi, la Camera aveva improvvidamente distolto il suo precedente governo, cioè un aumento del prelievo fiscale. Il secondo nodo da sciogliere, su cui Crispi contava per imporre nuove tasse, era rappresentato dalla pericolosa evoluzione della «questione siciliana». Il problema delle dure condizioni dei contadini siciliani aveva prodotto un’esplosione sociale che non sorprese nessuno, se è vero che Crispi, alla notizia dei moti scoppiati nell’isola, disse al Re che «i contadini in Sicilia non hanno tutto il torto»6. Tutto ciò comunque, per il presidente del Consiglio, non doveva avere nulla a che fare con la formazione di organizzazioni politiche e di conseguenza, per quanto riguardava i Fasci, riteneva che le autorità «non dovevano farli costituire»7. Crispi si preparava dunque ad un drastico regolamento di conti, chiedendo al Consiglio dei ministri, in caso di necessità, l’autorizzazione a proclamare lo stato d’assedio in Sicilia. Da quel momento i disordini si moltiplicarono, divenendo sempre più cruenti. Dalla   D. Farini, Diario, cit., vol. I, p. 390.   T. Palamenghi-Crispi, Giovanni Giolitti, cit., p. 44. 7  Ibidem. 5 6

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seconda metà di dicembre ai primi giorni di gennaio si contarono tra i manifestanti ben 59 vittime e diverse decine di feriti, mentre tra i militari si ebbe un caduto. Nonostante il comitato centrale dei Fasci si pronunciasse contro l’insurrezione invitando i lavoratori alla calma, la spirale delle violenze, cercata o meno dal governo («lo sappiamo tutti – disse Cavallotti alla Camera il 3 marzo 1894 – in che modi i governi possono far nascere tumulti, quando fanno loro bisogno per avere a disposizione leggi repressive»), facilitò il disegno crispino di istituzionalizzare l’emergenza repressiva. Il 2 gennaio 1894 il presidente del Consiglio fece firmare al Re il decreto di stato d’assedio, che implicava la soppressione delle garanzie statutarie e l’applicazione del solo codice penale militare. Vennero sospese le libertà di stampa, riunione e associazione e sciolte le organizzazioni dei lavoratori. Furono inoltre spiccati 1962 mandati di cattura per gli ammoniti e per le persone indiziate di idee sovversive, a cui seguirono le condanne al domicilio coatto senza possibilità di difesa. La maggior parte dei capi dei Fasci (compreso il deputato De Felice Giuffrida) venne arrestata e deferita ai tre tribunali di guerra. Il generale Morra, commissario con pieni poteri, dovette tuttavia riconoscere che il malcontento isolano era dovuto, più che alla propaganda dei Fasci, alle condizioni di vita dei contadini. Nel frattempo nella Lunigiana un consistente nucleo di anarchici si era messo alla testa di violente dimostrazioni di solidarietà con i Fasci siciliani. Crispi considerò questi ulteriori disordini, in cui ci furono morti e feriti, la riprova dell’esistenza di un più vasto piano di insurrezione nazionale e dunque fece proclamare il 16 gennaio lo stato d’assedio anche per la zona di Massa Carrara. Cresciuto alla scuola delle cospirazioni settarie, Crispi non poteva interpretare questi disordini come conflitti di classe, ma li riteneva essenzialmente attentati all’unità del paese, ispirati dal Vaticano e alimentati da agenti francesi e russi. I deputati dell’Estrema furono gli unici ad attaccare il governo, non tanto, come disse Cavallotti, per lo «stato d’assedio in sé e per sé stesso», quanto per il fatto che «nelle circostanze e nel modo in cui fu adottato» esso si era trasformato in «qualche cosa di assolutamente nuovo nel diritto pubblico nostro», assumendo evidenti caratteristiche antiparlamentari. Uno degli attacchi più veementi fu portato da Bovio: «Voi [...] cercate aprirvi la via sino alla domanda dei pieni poteri [...]. In voi c’è tutto l’ideale della libertà con tutta la tirannide dei mezzi».

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Anche in Parlamento Crispi aveva dunque scelto di difendere la via a lui più congeniale, quella della repressione, identificandosi in quel ruolo di uomo energico e autoritario a cui unicamente doveva ormai il ritorno sulla scena politica. Per l’altro ruolo che Crispi si illudeva di poter giocare – quello del democratico dotato di carisma patriottico, nel cui nome chiedeva, senza ottenerla, la concessione di poteri straordinari per riordinare l’amministrazione pubblica – non c’erano più margini di manovra. Infatti se da una parte della barricata, come ricordò Farini, c’era «gente nuova [...] su cui non può esercitare influsso e che vuole quello che egli non vuole»8, dall’altra parte la grande proprietà terriera respingeva quella riforma dei latifondi che Crispi pensava di poter far seguire alle repressioni, a riprova della sua volontà di completare la «rivoluzione borghese» cominciata con il Risorgimento. Furono infatti avanzati propositi di riforma dei patti agrari e progetti di legge che intendevano rispolverare la pratica dell’«eversione» antifeudale mediante la parziale espropriazione dei latifondi, a favore di un’auspicata piccola proprietà contadina. L’opposizione a tale riforma vide dalla stessa parte, sia pure con motivazioni diverse, la Destra rudiniana e lombarda, i radicali settentrionali e i socialisti (contrari alla piccola proprietà contadina) accomunati dall’ostilità al «feudalesimo statalista» e autoritario del presidente del Consiglio. Le resistenze manifestate in Parlamento contro il progetto di legge furono alla fine tali da farlo arenare, mentre la successiva prolungata stagione di chiusura del Parlamento gli diede il definitivo colpo di grazia. La questione sociale continuava a rimanere per Crispi un problema sorto tra le pieghe del grandioso ma incompiuto processo risorgimentale, da risolversi con energici interventi dall’alto, che oltre a colpire le più patenti sperequazioni sociali, come nel caso siciliano, dovevano supplire alle colpevoli disattenzioni della borghesia. Crispi era convinto di avere, «col riordinamento delle opere di beneficenza, preparata la soluzione del problema sociale». Turati, nell’aprile 1894, commentava che «in nessuna questione egli ha mai detto, all’infuori dei luoghi comuni più quarantotteschi, una parola che rivelasse una competenza qualsiasi; da tempo immemorabile non ha letto un libro scientifico»; sulla questione sociale in particolare, non

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  D. Farini, Diario, cit., vol. I, p. 393.

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faceva altro che proporre «come soluzioni le cucine economiche, i presepii, i catechismi ebdomadarii ed altre cosiffatte quisquilie»9. Gran parte della classe dirigente sembrava comunque essersi aggrappata a Crispi come ad una scialuppa di salvataggio, su cui nessuno, però, era intenzionato a proseguire il viaggio una volta superato lo scoglio dell’emergenza. Per la Destra il piglio riformatore, il fiscalismo e il militarismo esasperati rappresentavano pericoli da scongiurare, mentre per i radicali e una parte della Sinistra le eventuali riforme non potevano essere disgiunte dalla difesa delle libertà costituzionali e parlamentari. In realtà il continuo riferimento, in Parlamento come nel paese, al tema della questione sociale e alla sua possibile «degenerazione» in lotta di classe aveva definitivamente messo in crisi il vecchio spartiacque politico tra Destra e Sinistra storica. Tra l’altro, un tema sino ad allora sconosciuto aveva cominciato a circolare tra i protagonisti della scena politica dell’epoca: quello delle generazioni. I trentenni e i quarantenni arrestati in Sicilia non erano solo socialisti, ma anche «gente giovane e nuova che sfugge alla influenza di ogni antico patriota per quanto benemerito»10. Per la prima volta di fronte ad un Crispi, emblema vivente della storia unitaria nazionale, invecchiato, facile al pianto e all’ira, si affacciava la prospettiva di un ricambio generazionale a cui gli ombrosi custodi delle glorie patrie non intendevano rassegnarsi, sempre pronti alle diffidenti chiusure e alle plumbee profezie sui destini di quella unità tanto faticosamente e fortunosamente raggiunta. Era un leggere gli avvenimenti del presente unicamente alla luce dei turbinosi fatti che, più di trent’anni prima, avevano unito in modo inscindibile le vicende di una generazione a quelle di una nazione. Le insurrezioni siciliane diventavano pertanto, nelle parole di Crispi accolte da vive approvazioni della Camera, «una spedizione all’inverso di quella di Marsala». L’identificazione tra gli assetti politici e sociali esistenti e la vita della nazione era così totale da trasformare ogni insorgenza sociale in un complotto anti-nazionale. Lo stesso esercito perdeva, in questo clima, il profilo di strumento di difesa nazionale e diventava dichiaratamente, per alcuni vecchi patrioti, un mezzo di difesa dai clericali e dai radicali. «Bisognava – disse Farini al Re – tenere forte 9  F. Turati, Socialismo e riformismo nella storia d’Italia. Scritti politici 1878-1932, Feltrinelli, Milano 1979, p. 45. 10  D. Farini, Diario, cit., vol. I, p. 403.

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l’esercito che ci avrebbe difeso dai radicali, mentre noi vecchi e frolli eravamo impotenti a tutto»11. A qualcuno questi timori cominciavano ad apparire segni di un egoismo senile che amplificava le ombre. L’idea che il conflitto in atto potesse avere risvolti generazionali risultava, ad esempio, piuttosto evidente negli interventi dell’Estrema. «Il Crispi di oggi – disse Cavallotti alla Camera – può bene inchinarsi alla parola di Crispi più giovane, perché, dopo tutto, i giovani hanno fatto l’Italia e ai giovani incombe il custodirla». Il tema delle generazioni in conflitto sembrava in effetti particolarmente adatto alle esigenze della polemica politica radicale la quale, posta di fronte all’evidente acuirsi dei contrasti sociali, preferiva attribuirli alla ottusità di una generazione al tramonto piuttosto che alla dilagante teoria della inconciliabilità delle classi sociali. Le due prospettive potevano in realtà sovrapporsi, poiché era evidente, nell’adesione di molti giovani agli ideali socialisti, la presenza di un distacco anche generazionale, che trovava nei temi della giustizia sociale un veicolo per esprimere la delusione e lo smarrimento nei confronti di quel luminoso passato incapace di realizzare le promesse di una società più giusta e più libera. C’era in questo, ovviamente, anche il bisogno, per una società in crescita e sempre più stratificata, di aprire un fronte di produzione e affermazione delle élites che prendesse in considerazione nuovi criteri di legittimazione della classe dirigente. Molti di questi temi appaiono emblematicamente sintetizzati in un intervento di Camillo Prampolini, uno dei socialisti più sensibili alle esigenze della democrazia, il quale, rivolgendosi a Crispi, affermò alla Camera: Noi siamo nati quando voi, onorevole Crispi, avevate già contribuito, come tutti sanno, alla formazione di questa patria alla quale inneggiate. Ebbene, voi potete insegnarci che, quando si lottava per l’indipendenza e per la libertà d’Italia, i popolani, i lavoratori, che vi hanno seguito, credevano di trovare nell’unità italiana un maggiore benessere; voi ci insegnate che, specialmente per le masse incolte, non si può pretendere che la patria si limiti ad essere un nome, un ideale, ma deve essere qualche cosa di più, qualche cosa che soddisfi e non neghi i loro bisogni più vitali [...]. Noi lottiamo per dare davvero una patria a tutti questi diseredati, che non l’hanno [...] non siamo i distruttori ma i continuatori dell’opera

  Ivi, p. 423.

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di civiltà compiuta da chi volle l’Italia una e indipendente. [...] Voi avete provato nella vostra gioventù che cosa voglia dire avere una fede profonda ed amare ardentemente un’idea. Ebbene, sappiatelo: [...] non è vero che l’ideale sia morto in Italia; esso è passato da una classe all’altra; dalla classe vostra è passato alla classe dei lavoratori [...] della quale il nostro partito rappresenta la parte cosciente.

Mentre il dibattito parlamentare sull’azione del governo in Sicilia non diede particolari problemi a Crispi, i tribunali militari lavorarono a pieno regime emettendo condanne durissime per la maggior parte degli imputati. Anche in Lunigiana vennero comminate 464 condanne, a pene variabili da uno a trenta anni. In realtà i processi, seguiti con vivo interesse dall’opinione pubblica, divennero un’inaspettata cassa di risonanza degli ideali che avevano ispirato l’azione dei Fasci. A Palermo, ad esempio, vi furono imponenti manifestazioni in favore dei condannati, numerosi incidenti si verificarono nelle università, mentre a Roma esplosero due bombe nelle vicinanze dei ministeri della Giustizia e della Guerra. Le esplosioni di ordigni stavano moltiplicandosi con una frequenza allarmante e per certi versi sospetta. La Camera ad esempio, contro l’opinione di Crispi, sembrava propensa a far giudicare l’on. De Felice da un tribunale ordinario anziché militare, ma l’esplosione di una bomba nei pressi di Montecitorio (due morti e diversi feriti) fece cambiare idea ai deputati. Il clima di tensione era peraltro destinato a crescere, tanto che il 16 giugno 1894 lo stesso presidente del Consiglio divenne oggetto di un fallito attentato, mentre otto giorni dopo un anarchico italiano uccideva il presidente della Repubblica francese Sadi Carnot. Stessa sorte, a Livorno, toccò al liberale moderato Giuseppe Bandi, direttore del giornale «Il Telegrafo». La recrudescenza del terrorismo anarchico, fertile terreno per le provocazioni poliziesche, sembrava insomma una risposta alternativa ad una realtà in cui miseria e ingiustizie si rivelarono a molti socialisti come il prodotto non solo di un sistema classista ma anche della miopia politica e di una palese, diffusa illegalità. La cieca violenza, infatti, riguadagnò terreno di fronte all’arrogante messaggio della stagione processuale di quei mesi, caratterizzata dall’involontaria ma emblematica concomitanza dei processi ai membri dei Fasci e ai responsabili delle malversazioni della Banca Romana. Le sproporzionate condanne inflitte agli agitatori siciliani apparvero a tutti in stridente contrasto con i verdetti di assoluzione emessi

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dall’assise romana nei confronti di Tanlongo e degli altri imputati, molti dei quali rei confessi. In non pochi casi l’indignazione favorì l’avvicinamento al socialismo di giovani intellettuali. Salvemini ricordò in seguito come proprio per queste vicende «a quel tempo in Italia tutti diventavano socialisti»12. Il presidente del Senato, scandalizzato, attribuiva l’indegno verdetto a «clericali e radicali uniti, romanesimo e suoi interessi offesi, odio contro la Banca Nazionale. È una rivolta di Roma alleata a tutti i bassifondi politici e avvocateschi volativi da Napoli e dal Mezzodì contro l’alta Italia. È un sintomo della dissoluzione della nazione»13. In realtà il principale artefice di tale esito giudiziario, attraverso un’attenta regìa del dibattimento affidata al Guardasigilli, fu proprio Crispi, il quale cercava con le assoluzioni di rafforzare la rete di complicità e coperture sul versante penale, in modo da sentirsi libero di portare l’attacco decisivo sul terreno politico. Per colpire Giolitti, Crispi di fatto favorì l’estendersi dello sdegno dell’opinione pubblica nei confronti degli ambienti politici. All’ombra del processo era iniziata dunque la resa dei conti tra i due uomini politici. «Lui ci dà la pace» Tra i motivi che legavano la Corona e numerosi settori politici a Crispi, il principale andava individuato senza dubbio nella riconoscenza per aver ripristinato l’ordine pubblico in un momento di grave difficoltà per le istituzioni. Il suo coinvolgimento negli scandali bancari non appariva, in diversi ambienti politici e tra i circoli di corte, un motivo di biasimo. In fondo, come disse un senatore esprimendo emblematicamente ciò che molti pensavano della morale in politica, «che la vita del Crispi fosse indelicata tutti sapevamo, tutti sapevano: lui ci dà la pace: e bisognerebbe persuadere che gli eventuali successori di lui sarebbero più delicati, cosa che nessuno crede»14. Lo stesso Sovrano si mostrava ben consapevole di varare un esecutivo «a rischio» dal punto di vista della moralità pubblica 12  Citato in G. Manacorda, Dalla crisi alla crescita. Crisi economica e lotta politica in Italia 1892-1896, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 216. 13  D. Farini, Diario, cit., vol. I, p. 572. 14  Ivi, p. 620.

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e privata («Basta che non venga qualcuno alla Camera – disse Umberto – a buttarmelo giù con qualche lettera, debiti o rivelazioni»15). Quello che contava tuttavia erano le capacità dell’uomo, e da questo punto di vista Crispi appariva come l’unico in grado di proseguire sulla strada della repressione del socialismo in nome della democrazia risorgimentale; l’unico, almeno, che poteva sperare di associare a questa impresa, sia pure parzialmente, una parte del radicalismo parlamentare. In questo senso, l’iniziale relativa neutralità di fronte all’ultimo Crispi era da attribuire, oltre che alla speranza che lo statista di Ribera avviasse una stagione di riforme, alla profonda avversione per Giolitti. L’anziano patriota sentiva dunque il momento politico e sociale particolarmente propizio ad un’organica azione repressiva e riformista nello stesso tempo. Crispi agì con particolare fermezza anche perché gli avvenimenti siciliani, unitamente alla grave situazione economica del paese, avevano fornito un’ulteriore spinta al neonato movimento socialista che egli, a differenza di Giolitti, riteneva un corpo estraneo alla realtà del paese e dunque ancora estirpabile con la forza. Per Crispi, quindi, questo movimento non annunciava assolutamente nulla di nuovo; anzi, oltre ad essere negatori di libertà, i socialisti erano «i vessilliferi del regresso e della barbarie»16. Il successo e i riconoscimenti ottenuti con la linea dura adottata in Sicilia lo convinsero della possibilità di andare ancora più a fondo e, approfittando del clima di indignazione seguito agli attentati contro la sua persona e contro Sadi Carnot, nel luglio 1894 presentò alla Camera tre progetti di legge con finalità «antianarchiche», sulla scia di una identica iniziativa presa dal governo francese pochi mesi prima. Era evidente che questi progetti, convertiti in leggi con schiacciante maggioranza il 19 luglio 1894, avevano come obiettivo non solo e non tanto l’anarchismo, quanto soprattutto il socialismo: ditelo apertamente – disse Enrico Ferri il 7 luglio – che ci volete soffocare come partito socialista, ma non cercate di farlo copertamente, sotto il pretesto dell’anarchismo che [...] a noi diametralmente si oppone!

  P. Paulucci, Alla corte, cit., p. 94.   F. Crispi, Pensieri e profezie, a c. di T. Palamenghi-Crispi, Tiber, Roma 1920, p. 49. 15 16

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Per Crispi gli appelli alle libertà statutarie e i distinguo tra le varie matrici ideologiche del socialismo rappresentavano disquisizioni oziose. Ai suoi occhi continuava a persistere un problema di arretratezza morale e culturale delle masse e pertanto non si dovevano temere le idee rivoluzionarie, bensì la loro diffusione. Noi giovani leggevamo i libri di Proudhon; ma in mani di quanti andavano questi libri? Le nostre plebi, che sventuratamente non furono educate, o se lo furono, lo furono dal prete o da qualche uomo di cattedra, il quale invece di educare all’amore della patria e della libertà, le educò all’odio verso i propri simili; questi infelici [...] quando sentono che la proprietà è un furto, che lo stato è ateo, che volete che pensino?

Particolarmente grave fu comunque l’imposizione del domicilio coatto estesa ai reati di opinione. In questo modo il governo si assicurava per via amministrativa, grazie a burocratiche commissioni provinciali, la possibilità di eliminare tutte le associazioni socialiste e di scompaginarne, con il domicilio coatto, la struttura organizzativa. Contro questo articolo l’Estrema, che pure, almeno con Cavallotti, mantenne ancora un esile contatto con Crispi facendo attenuare le disposizioni più drastiche, diede inizio ad una dichiarata manovra ostruzionistica che avrebbe avuto in seguito un largo impiego come tattica parlamentare radicale. «Questo è un sistema – si lamentò Crispi in Parlamento – inaugurato dalle nuove opposizioni e che l’Italia non aveva mai conosciuto». L’organico attacco ai centri ispiratori della «sovversione» venne accompagnato da un provvedimento ideato allo scopo di ridurre il peso politico di quelle «plebi ignoranti» che, preservate dalle tentazioni rivoluzionarie, dovevano essere tenute lontane anche dal seggio elettorale. Al fine dunque di limitarne l’influenza parlamentare, nel luglio 1894 il governo fece approvare una legge per unificare le modalità di procedura per la compilazione delle liste dell’elettorato amministrativo e politico. Si trattava in pratica di sottrarre l’attività di revisione al consiglio e alla giunta comunali, considerati interessati ad una applicazione «lassista» e clientelare dell’art. 100 della legge elettorale. Nel giro di pochi mesi le nuove commissioni (composte dal presidente del tribunale, un consigliere di prefettura e tre membri nominati dal Consiglio provinciale) operarono una sensibile riduzione (29,8%) del numero degli elettori: gli aventi diritto al vo-

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to alle elezioni amministrative passarono da 3.343.875 a 2.772.934, mentre gli elettori «politici» si ridussero da 3.018.932 (nel 1894) a 2.118.198, nuovi iscritti compresi, cioè dal 10,4% al 7,3% della popolazione. La quasi totalità degli esclusi proveniva dalle classi meno abbienti, che tra l’altro avevano difficoltà e scarso interesse ad affrontare l’iter dei costosi ricorsi. Al Sud e nelle isole gli effetti della revisione furono molto più vistosi: in Sicilia e Basilicata, ad esempio, il numero degli elettori si ridusse del 50%. Complessivamente si può affermare che la cospicua attività legislativa di luglio doveva tradurre, a livello nazionale e con un diretto coinvolgimento parlamentare, lo spirito repressivo sperimentato in Sicilia. Il 7 settembre venne vietato lo svolgimento del congresso nazionale del partito; un provvedimento grave, preludio alla progressiva chiusura di associazioni, leghe e federazioni, culminato con lo scioglimento generale che colpì il 22 ottobre il Comitato centrale socialista. Più mezzi per la grande politica La compatta maggioranza che aveva sostenuto il governo in occasione della legislazione anti-socialista si mostrò pronta ad abbandonare Crispi di fronte alle proposte di riforme sociali e amministrative che intendeva introdurre a completamento del proprio progetto di ammodernamento autoritario. La «tregua di Dio», concessa da gran parte dei deputati sui temi di politica interna, doveva mostrare molte crepe anche di fronte all’altro punto qualificante del programma crispino, quello del risanamento del debito pubblico. Il ministro delle Finanze Sonnino, a cui era affidato l’ingrato compito, agì con energia e coraggio, mostrando nel suo settore la stessa determinazione che Crispi palesava come ministro degli Interni. Nel gennaio 1894, appena insediato come ministro, Sonnino diede prova di una non comune capacità tecnica e di grande freddezza, sistemando, con iniziative parzialmente già avviate da Giolitti, i settori del credito e della circolazione monetaria, ormai sull’orlo del tracollo. Molto più arduo doveva rivelarsi l’assestamento del bilancio; la cruda esposizione finanziaria fatta nel febbraio 1894 gli attirò le ostilità di una parte considerevole della Camera. Sonnino infatti, dopo aver annunciato tra «le interruzioni, le esclamazioni, gli

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scoppi di risa e di collera» un disavanzo di 155 milioni, propose una politica fiscale incentrata sull’incremento delle entrate tributarie, in netto contrasto con la prevalente opinione parlamentare favorevole alle riduzioni di spesa: 95 milioni sarebbero arrivati da inasprimenti fiscali e nuove imposte e 60 con le opportune economie. Sonnino colpì subito i consumi popolari con l’aumento del dazio sul grano e del prezzo del sale (attuati per decreto), proponendo, come «contrappeso», la reintroduzione dei due decimi sull’imposta fondiaria e l’aumento dell’imposta sulla ricchezza mobile. Rapidamente ritirate per l’ostilità incontrata furono invece le richieste di introdurre, come aveva auspicato Giolitti, il criterio della progressività nell’imposta sul reddito e l’aumento della tassa di successione. Affossate le leggi agrarie e quelle per l’equità fiscale, il Parlamento costringeva Crispi a rispecchiarsi in un «giacobinismo» socialmente impotente e dunque sempre più basato sull’immagine del potere e dell’inflessibilità, che non doveva mai venire meno poiché «egli perderebbe l’opinione di uomo forte – disse Farini – e noi saremmo finiti»17. Deciso a non ripetere gli errori della sua precedente amministrazione, Crispi vedeva in Sonnino la figura ideale per gestire un programma finanziario che considerava l’inasprimento fiscale non tanto lo strumento per raggiungere il pareggio del bilancio, quanto il propellente necessario al rilancio della politica di espansione. Era evidente – disse Cavallotti mesi dopo, che «il governo veniva a chiedere, non i mezzi per soccorrere ad una grande ruina, ma i mezzi per riprendere [...] la grande politica»18. Il presidente della Camera ritenne esagerati i provvedimenti di Sonnino, mentre quello del Senato era spaventato dall’«esposizione tetra e dura» del ministro in quanto esisteva il pericolo «che il paese, posto alla disperazione colla domanda di 100 milioni di nuove imposte, disfaccia l’esercito facendo su di esso economie assurde»19. Quest’ultimo problema, in particolare, popolava gli incubi degli ambienti di corte e si avviava a diventare il tema parlamentare dominante. Oltre ai radicali quasi tutti i settori della Destra, soprattutto quella lombarda, si pronunciarono a favore di un deciso taglio al   D. Farini, Diario, cit., vol. I, p. 558.   L. Lucchini (a c. di), La politica italiana dal 1848 al 1897. Programmi di governo, 3 voll., Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1899, vol. III, p. 292. 19  D. Farini, Diario, cit., vol. I, p. 445. 17 18

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bilancio militare. Non mancarono, ovviamente, le resistenze settoriali. Gli agrari, in particolare quelli settentrionali, si mobilitarono per respingere l’aumento dell’imposta fondiaria e per chiedere una maggiore protezione doganale; a tale scopo si formò a Roma un Comitato parlamentare per la tutela degli interessi agrari a cui aderirono almeno 115 esponenti politici di ogni settore. La Camera decise allora di far esaminare la proposta di risanamento finanziario ad una commissione che finì per stravolgerla, battendo soprattutto sul tasto delle economie. Il presidente del Consiglio, approfittando di un contrasto su una questione marginale, preferì dimettersi senza aver subìto alcuna diretta censura parlamentare sulla politica finanziaria. Ottenuto un nuovo incarico, Crispi cercò di far entrare Zanardelli e Rudinì nella nuova maggioranza, ma il tentativo fallì soprattutto per le divergenze sul tema delle «economie militari». Alla fine la crisi si risolse in un semplice rimpasto ministeriale che modificò i vertici dei dicasteri sotto pressione. Il nuovo esecutivo dovette comunque riconsiderare i termini del proprio programma finanziario accettando numerose modifiche, tra cui la rinuncia ai due decimi di imposta fondiaria, come atto di resa agli agrari. D’altra parte Sonnino era riuscito a difendere vittoriosamente il provvedimento della riduzione della rendita, che si dimostrò una scelta felice in quanto non produsse il temuto allontanamento degli investitori esteri. La diminuzione del previsto gettito d’entrata fu poi compensata a dicembre, con la chiusura del Parlamento, grazie all’imposizione di decreti per l’aumento di dazi doganali su beni di largo consumo. Benché snaturato rispetto all’organicità del disegno originario, il programma finanziario realizzato dal governo garantì comunque una considerevole riduzione del disavanzo nel bilancio statale e pose le premesse per l’ulteriore assestamento degli esercizi finanziari di fine secolo. La rivolta di Milano L’inversione di tendenza imposta dal governo Crispi alla politica tributaria nazionale aveva ancora di più esasperato l’opinione pubblica settentrionale, e in particolare lombarda, che da tempo manifestava la propria insoddisfazione per una guida politica tutta incentrata su uno statalismo insensibile alle prospettive autonomi-

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stiche di tipo regionale. L’ostilità nei confronti del governo assunse in questa fase, per la prima volta in modo politicamente rilevante, un’evidente connotazione anti-unitaria e di contrasto regionale. Il simbolo di tale conflitto era geograficamente rappresentato da Milano, città che esprimeva i valori dinamici dell’Italia industriale e più di ogni altra, dunque, incarnava lo spirito di insofferenza verso rigidità burocratiche, odiosi balzelli e soprattutto verso le connessioni tra intreccio «politico affaristico romano» e quello che veniva considerato il parassitario «feudalesimo» meridionale. Tale risentimento era già emerso all’indomani della soluzione «romanocentrica» delle vicende risorgimentali, ma doveva esplodere nel momento in cui l’ennesimo aggravamento della pressione fiscale si accompagnò alla deliberata intenzione di proseguire sulla strada della politica di potenza da parte di un ministro siciliano, da sempre negatore dei valori dell’autonomia della società civile. L’ininterrotta attività di drenaggio fiscale appariva quindi un’imposizione con cui la «capitale legale» tarpava le ali al sano sviluppo di una parte del paese, per nutrire una politica di espansione statalistica che aveva le proprie roccaforti nel sottosviluppo e nella corruzione meridionali. Il fatto che Milano fosse il simbolo di una rivolta che fuoriusciva dai tradizionali steccati della conflittualità partitica era dimostrato dalla convergenza anti-governativa di quasi tutti i raggruppamenti politici milanesi e lombardi, dalla Destra radicale di Colombo, Negri e Prinetti sino alla Estrema Sinistra repubblicana e radicale, passando per la Sinistra zanardelliana, senza contare socialisti e cattolici. Crispi, dal canto suo, ricambiava il sentimento di ostilità verso una città e una cultura a lui profondamente estranee, in cui ravvisava la prevalenza delle aspirazioni più plebee ed egoistiche del materialismo bottegaio, indifferente alle sorti della patria. Rudinì, dopo una fase iniziale di adesione alla politica dell’ordine promossa da Crispi, aveva diretto la protesta anti-governativa della grande proprietà terriera siciliana contro i progetti di smembramento del latifondo e aveva ribadito la sua adesione al partito delle «economie militari», su cui peraltro la Destra si presentava divisa. Per il blocco conservatore che ruotava attorno alla corte e al governo, a rendere il quadro politico instabile era proprio la presenza all’opposizione di questo irriducibile e territorialmente ben definito gruppo di Destra ostile alle spese militari. La situazione era considerata talmente anomala da ritenere la precaria combinazione

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di radicali, Sinistra costituzionale e Destra lombarda il motore più o meno consapevole di una macchinazione anti-unitaria. «Dico, qui in faccia al Re – affermò Farini subito dopo le dimissioni di Crispi –, che oggi i conservatori scienti od inscienti fanno il giuoco dei radicali i quali sanno quello che vogliono e dove vogliono andare»20, ovvero verso una repubblica federale. Una suggestione peraltro rafforzata dal clima di scarsa considerazione delle capacità del Sovrano, il quale veniva sempre più spesso a trovarsi al centro di diretti attacchi sulla stampa da parte della Destra radicale e dell’Estrema. Indebolita la già limitata credibilità dei punti di riferimento istituzionale come la Corona e il Parlamento, i conflitti di interessi di una società sempre più complessa si avvitavano su loro stessi, presentandosi nella cruda realtà di contrapposte logiche regionali, produttive e di classe il più delle volte prive di efficaci e rappresentativi canali di comunicazione politica. L’uomo politico di maggior prestigio del momento, il radicale Cavallotti, nonostante la sua dichiarata disponibilità non venne mai convocato dal Re per consultazioni. Si trattava di una esclusione voluta, in quanto non mancavano i lungimiranti suggerimenti di chi, come il vicepresidente della Camera Onorato Caetani, vedeva in Cavallotti un potenziale buon ministro e avanzava il cinico ma non peregrino parallelo con il radicale inglese Joseph Chamberlain, ormai entrato nell’orbita conservatrice: «fa mangiare anche Cavallotti e farà come tutti gli altri hanno fatto»21. Un’opinione che dovette impressionare il presidente del Senato, se a distanza di più di un mese la volle riferire al Sovrano, tenendo a precisare comunque la propria personale sfiducia nei confronti del leader radicale: «e me ne fido tanto meno quando appunto in Milano i soci di lui proclamarono lo Stato di Milano [...]». Umberto di rimando confermò: «neppure io me ne fido»22. Un apparentamento emblematico e non casuale, quello tra Cavallotti e una Milano descritta ironicamente come entità a sé, capitale del «paese reale» e simbolo di un’opposizione che esprimeva soprattutto l’insufficiente «rappresentazione» dei valori e degli interessi «alternativi» a quelli espressi dalla capitale «legale». Una città e una cultura che nel suo insieme sembravano dunque voler surrogare,   Ivi, p. 510.   Ivi, p. 582. 22  Ivi, p. 592. 20 21

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con la propria esigenza di autonomia, la mancanza di un’effettiva istituzionalizzazione del peso politico dei radicali e soprattutto dei socialisti e dei cattolici. All’interno di tale vuoto, acuito dalla ridotta vitalità parlamentare, il faticoso processo di ridefinizione degli interessi produttivi nazionali avvenuto durante la crisi economica di quegli anni si era trasformato in un esplicito conflitto tra Settentrione e Meridione d’Italia, e in quanto tale annunciava una crisi dei valori risorgimentali. Questa, in realtà, sembrava essere in primo luogo la crisi del grande «calderone» positivista del progresso, i cui ultimi bagliori non riuscivano a raggiungere le «temperature» necessarie a fondere gli ideali dello sviluppo produttivo con quelli della morale. Ad amplificare ulteriormente questa impressione di colpevole squilibrio contribuì anche la decisione del governo, alla fine del 1895, di sospendere i costosi lavori catastali per la perequazione fondiaria approvati nel 1886. In molti considerarono questa mossa un’esplicita manovra a favore del Mezzogiorno contro gli interessi produttivi dell’Italia centro-settentrionale. Il giovane socialista pugliese Gaetano Salvemini, commentando tale scelta, la definì «disonesta»: «così l’Italia meridionale, che già aveva affermato il suo sopravvento sulla settentrionale col dazio sul grano, conquista ora definitivamente la prevalenza nella politica italiana e volge a suo profitto dopo la politica doganale anche la politica finanziaria»23. Il tema del conflitto regionale si inserì senza difficoltà nella cultura e nel dibattito dell’epoca, adattandosi ai diversi linguaggi demagogici. In realtà esso era l’espressione ideologica di un inadeguato livello di rappresentanza politica, variante della più generale questione della crisi del sistema parlamentare. Turati, ad esempio, polemizzando con il socialista napoletano Arturo Labriola, riteneva che quella in corso era la lotta fra il medio-evo feudale, che domina nel Meridione e spande le sue propaggini in tutta la campagna italiana, e gli inizi dell’età moderna, della fase industriale, che albeggia nelle plaghe più civili e più colte specialmente del settentrione [...] sono due nazioni nella nazione, due Italie nell’Italia, che disputano pel sopravvento24.

  G. Salvemini, Carteggi, vol. I, 1895-1911, Feltrinelli, Milano 1968, p. 12.   Tattica elettorale. Il nostro parere, in «Critica Sociale», 16-1-1895, p. 22.

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Sull’«Idea Liberale», foglio dell’intransigentismo moderato milanese, si rivendicava il diritto della borghesia settentrionale ad abbandonare al suo destino la Sicilia, dove regnavano in basso «miseria e sconfinato abbrutimento, in alto, sotto la vernice della raffinatezza moderna, uno spirito di normanna cupidigia alleato col fatalismo orientale»25. La lunga e travagliata stagione politica degli ultimi anni aveva dunque lasciato il segno. «All’unità – disse Farini nel 1894 – si incolpano tutti i danni, i malanni, le miserie presenti, le cupidigie insoddisfatte, gli interessi offesi»26. Per il presidente del Senato non rimaneva che serrare le fila dietro l’esercito, e respingere ogni innovazione: «tutti quelli che sono unitari per davvero, devono darsi la mano abbandonando tutti gli eufemismi di decentramento, regionalismo etc sinonimi di federalismo mostrando al paese come l’unità sia minacciata di dentro e di fuori»27. Si comprende dunque come, in un simile contesto, la «riconquista» di Milano rappresentasse per Crispi un obiettivo politico di rilevanza nazionale, anche perché nella città lombarda, dopo l’insanabile frattura con i radicali, in occasione delle elezioni amministrative del febbraio 1895 poteva essere sperimentata per la prima volta la nuova linea politica che il presidente del Consiglio intendeva adottare su scala nazionale, basata su un’apertura nei confronti dei moderati e su un più conciliante atteggiamento verso i cattolici. Nel 1894 ebbero in effetti luogo delle trattative per un accordo tra il governo e la Santa Sede: Crispi concedeva alcuni attesi exequatur e in cambio otteneva da Leone XIII la possibilità di affidare le missioni cattoliche in Eritrea ai frati italiani in luogo dei lazzaristi francesi, considerati avversi all’Italia. Questa nuova linea venne resa pubblica mediante alcuni discorsi da cui trapelava soprattutto il desiderio di presentarsi, anche in prospettiva nazionale, all’elettorato più conservatore agitando il tema della difesa della comune civiltà cattolica dagli strali del socialismo ateo. Attaccato da amici e collaboratori, molti dei quali massoni come lui, Crispi reagì con fermezza: «Voi sviate la questione – scrisse ad Adriano Lemmi, Gran Maestro della massoneria – e date forza al   Citato in F. Fonzi, Crispi e lo «Stato di Milano», Giuffrè, Milano 1965, p. 125.   D. Farini, Diario, cit., vol. I, p. 524. 27  Ivi, p. 542. 25 26

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vero nemico della Patria». La totale identificazione della patria con se stesso postulava evidentemente una concreta e personale pratica di legittimazione e delegittimazione, che poteva trasformare l’avversario in «utile» alleato o «vero» nemico. Ne conseguiva che «allontanandovi da me, voi aiutate l’anarchia»28. La massoneria Negli anni successivi all’unificazione, la massoneria italiana aveva avuto un peso politico e culturale relativamente modesto, in conseguenza anche dello scadente livello organizzativo e della scarsa coordinazione tra le logge. Nel 1881 si contavano 82 «officine» massoniche sparse nel territorio nazionale, con non più di seimila «fratelli» affiliati, metà dei quali peraltro non particolarmente assidua. Con la nomina di Lemmi a Gran Maestro, nel 1885, la situazione subì una rapida evoluzione, anche perché egli riuscì a ricomporre la frattura esistente tra i vertici della massoneria nazionale e rilanciare l’azione delle logge sul piano organizzativo e su quello dell’immagine. Nel 1890 le «officine» erano salite a 152, anche se la dislocazione sul territorio risultava disomogenea e in molte province non c’era traccia di massoneria. I «fratelli» più in vista erano, dal 1877, concentrati in una loggia speciale, «Propaganda Massonica», che li esentava dall’obbligo di partecipazione ai riti e permetteva loro di evitare le ordinarie procedure di iniziazione. Il principale, dichiarato obiettivo della massoneria rimaneva quello dell’attuazione dei grandi principi di libertà, giustizia, fraternità, «senza riguardo alla mutabile politica d’ogni giorno»29. In pratica, tuttavia, l’intento era quello di costruire una struttura «superpartitica» in grado di recuperare l’iniziativa della borghesia sulle grandi battaglie della democrazia liberale, a cominciare da quella prioritaria della laicità dello Stato, con conseguente impegno a battersi contro ogni forma di clericalismo. Non mancò in quegli anni un pressante richiamo alla necessità di una maggiore giustizia sociale, 28  F. Crispi, Carteggi politici inediti di Francesco Crispi (1860-1900), a c. di T. Palamenghi-Crispi, L’Universelle, Roma 1912, pp. 136-137. 29  Cos’è la Massoneria, s.d., opuscolo consultato presso l’Archivio Centrale dello Stato.

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che Lemmi riteneva più urgente per limitare il pericoloso contagio dell’anarchismo. In questo senso, l’avvento al potere di Crispi sembrò inizialmente un’occasione «per avere voce ed autorità in tutte le pubbliche amministrazioni»30 e avviare una fase di riforme sociali e «bonifiche» anticlericali. In effetti gli elenchi degli affiliati confermavano, attorno agli anni ’90, la presenza alla Camera di circa un centinaio di massoni appartenenti a tutte le gradazioni del «progressismo», a cominciare dal socialista Costa, ma con prevalenza di deputati radicali e della Sinistra storica. Questa trasversalità, tuttavia, finì per riprodurre all’interno del «Grande Oriente» l’intera gamma dei malumori anticrispini. Legato al presidente del Consiglio da antica amicizia, Lemmi si adoperò per attenuare tale ostilità; ma senza successo, in quanto una parte delle logge, soprattutto settentrionali, chiedeva di adottare nei confronti di Crispi quei provvedimenti di censura che non si riusciva ad imporre sul terreno politico. Lemmi era accusato di essere troppo legato a Crispi. Il dissenso su tale questione non appariva ricomponibile tanto che il risultato fu il distacco dal «Grande Oriente» di alcune logge, soprattutto dell’Italia settentrionale, e le dimissioni del Gran Maestro, sostituito nel 1896 dal repubblicano e anticrispino Ernesto Nathan il quale impose una maggiore distanza tra massoneria e governo. La nuova leadership non riuscì tuttavia a riassorbire del tutto la contestazione. Il contrasto infatti andava oltre la polemica personale e investiva la concezione stessa dell’attività massonica, che per i dissidenti oramai non poteva più prescindere da un diretto coinvolgimento politico di parte, mentre per la dirigenza l’impegno inderogabile rimaneva quello di preservare l’unità, «senza circoscriversi nei brevi termini di un partito politico»31. Nonostante le critiche di molti suoi antichi amici, massoni e non, furono proprio i positivi risultati delle amministrative milanesi, nel febbraio del 1895, a incoraggiare Crispi nel proseguire su questa strada: una maggioranza cattolico-moderata si era imposta sulla ag30  Citato in F. Cordova, Massoneria e politica in Italia. 1892-1908, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 3. 31  Citato in A.A. Mola, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano 1992, p. 293.

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guerrita lista democratica in cui erano parzialmente confluiti anche i socialisti. Questi ultimi avevano tuttavia accresciuto il loro peso elettorale. Tale esito si configurò come il primo rilevante esempio di clerico-moderatismo: «L’Italia ha vinto a Milano», telegrafò un euforico Crispi a Saracco, che rispose: «Questa lezione contiene grandi insegnamenti. Forse converrà trarne partito»32. Crispi tentò a quel punto di intraprendere un’ardita operazione di legittimazione ideologica degli antichi avversari, dichiarando essere «del resto meglio i clericali che i socialisti». In realtà non si trattava di un effettivo ripensamento strategico: Crispi, limitandosi ad agitare lo spauracchio del disordine, sperava di ottenere, anche a livello nazionale, l’appoggio dell’elettorato cattolico senza concedere nulla di sostanziale alle richieste vaticane. Le elezioni amministrative nel capoluogo lombardo avevano messo a soqquadro l’universo liberale ed evidenziato il potenziale peso politico dell’elettorato cattolico, anche se il carattere amministrativo della competizione e la complessa frammentazione del moderatismo milanese rendevano il risultato elettorale difficilmente interpretabile su scala nazionale. Tra i cattolici invece le nuove strategie crispine ebbero l’effetto di rimarcare il distacco tra quelle che una volta erano due componenti dello stesso universo. Per coloro che si erano definiti transigenti ed ora, all’interno del sistema, operavano come minoritario raggruppamento conservatore, la fase politica avrebbe potuto essere un’occasione unica per far emergere una rappresentanza politica cattolica in grado di imporre ai liberali una sorta di programma «minimo». In realtà papa Leone XIII non tardò a ribadire, per fugare ogni illusione nutrita anche negli ambienti di corte, che in tema di non expedit «nulla si è da Noi mutato [...] perciò raccomandiamo a quanti sono veramente cattolici di [...] conformarsi con docile ossequio»33. La dichiarazione del Pontefice gettava acqua sul fuoco dei facili entusiasmi di chi riteneva risolto, anche per le imminenti elezioni politiche nazionali, il problema del confronto con l’Estrema. Crispi, comunque, non volle rinunciare al motto «con Dio e col Re per la Patria» che gli permetteva di rivolgersi «a tutti gli Italiani», senza più distinzioni di

  Citato in F. Fonzi, Crispi, cit., p. 365.   Citato ivi, p. 435.

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appartenenze, domandando loro di escludere dal Parlamento «l’anarchia morale sociale e politica», ovvero, in questo caso, i radicali. Per molti versi il drappello dell’Estrema era per Crispi più subdolo delle forze anti-sistema, non solo per la sua ambigua natura di «confine» con la propaganda socialista, ma soprattutto perché era promotore di un «legittimo» progetto politico che, insistendo sulla centralità del Parlamento, avrebbe finito per minare il fragile sistema unitario. Lo statista siciliano riteneva infatti che l’unità del paese poteva essere garantita solo con un incremento di prestigio internazionale e di potenziamento interno. Sviluppi impossibili, questi, di fronte al moltiplicarsi delle pretese delle «moltitudini» che, «viziate» dall’estremismo demagogico, avrebbero finito per subordinare l’esecutivo alle prepotenze parlamentari. La «novella istoria» socialista L’ultimo e definitivo attacco al Partito socialista, dopo numerose iniziative parziali, venne portato dalle autorità di Pubblica Sicurezza il 22 ottobre 1894. Tutto il partito è stato disciolto manu militari – scriveva Turati ad Engels –, tutte le nostre società chiuse, tutte le nostre case perquisite, sono stati portati via camions di carte, opuscoli, lettere ritratti, bandiere e ora si suda in tutti gli uffici di polizia per estrarre frasi e forse fabbricare falsi documenti per architettare processi e gettarci gli uni in galera, gli altri al domicilio coatto34.

La motivazione di un simile atto era dichiaratamente ideologica: non si richiamava cioè alla necessità di una sanzione nei confronti di un crimine concreto commesso dal Partito socialista, ma intendeva colpire l’idea che un partito potesse pubblicamente dichiarare di aspirare, in nome della pretesa «legge» della lotta tra le classi, «alla conquista dei pubblici poteri e alla direzione degli affari nazionali». Per gli allarmati ambienti governativi, infatti, l’organizzazione sorta a Genova mirava unicamente a costruire, come sottolineò Turati ri-

  F. Turati, Socialismo e riformismo, cit., p. 50.

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portando l’opinione della stampa crispina, «un partito politico per la conquista del potere mentre i partiti socialisti degli altri paesi, e i tedeschi, notoriamente, hanno come caratteristica di non far politica, di non occuparsi mai delle forme di governo»35. Il traumatico avvenimento avrebbe impresso una svolta alle vicende del socialismo italiano, costringendo i socialisti a ripensare la linea politica adottata con il congresso di Reggio Emilia. Turati qualche anno dopo scriverà che «sotto i colpi della persecuzione il partito socialista dovette imparare a proprie spese la necessità imprescindibile della libertà e la tattica accorta delle alleanze»36. Al congresso di Reggio Emilia, la maggior parte dei rappresentanti delle associazioni operaie si era espressa «contro le alleanze coi cosiddetti partiti affini» non solo per ribadire il principio della centralità della lotta di classe ma anche perché, come disse un delegato, gli operai erano «nauseati di tutti i partiti intermedi repubblicani o democratici»37. I socialisti rimproveravano infatti alle forze radicali, come disse Ferri, di latitare di fronte al loro «primo e naturale ufficio di cane da guardia delle pubbliche libertà». I socialisti erano confortati in questa condotta dalla convinzione teorica che si stesse avvicinando il momento del conflitto finale, con la conseguente, inevitabile «concentrazione dei partiti borghesi in un solo partito [...]. La borghesia italiana – scriveva Turati –, esaurito il periodo di sua tisica crescenza e di sue lotte intestine, non sarà più che una massa compatta per lo sfruttamento del lavoro – un solo partito per la difesa di questo sfruttamento»38. Per tale ragione i socialisti ritenevano essenziale il rafforzamento della propria identità sulla base di una rigida autonomia di classe, una convinzione che fu messa in crisi proprio dall’applicazione delle «leggi scellerate» antisocialiste, che contribuirono tra l’altro a creare un clima di simpatia e solidarietà nei confronti del partito di Turati e Prampolini. Non erano pochi, in quei mesi, gli intellettuali che vedevano nel socialismo soprattutto una forma di «pulizia» morale e quindi preferivano,

  Ibidem.   F. Turati, Il partito socialista e l’attuale momento politico, in «Critica Sociale», 16-7-1901, p. 212. 37  Citato in F. Fonzi, Crispi, cit., p. 220. 38  F. Turati, I nostri propositi, in «Critica Sociale», 16-12-1893, p. 370. 35 36

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come affermò l’economista liberista Pareto, «i socialisti, che in generale sono onesti, ai politicanti che ora struggono l’Italia»39. Immediatamente dopo lo scioglimento dell’organizzazione socialista, quelli che poco prima venivano descritti come «pericolosi rivoluzionari» diventarono, anche per molti giornali liberali, innocui idealisti, per lo più di estrazione borghese, privi di «qualsiasi intenzione [...] di passare all’azione», tanto che «il comitato centrale fu attaccato da molti compagni perché troppo fiacco e remissivo»40. Nelle reti della giustizia, in effetti, rimasero impigliati avvocati, letterati, giornalisti e piccoli proprietari, «cioè – come scrisse nel dicembre 1894 Antonio Labriola – quelli che più degli altri si erano messi in mostra, avevano scritto o avevano parlato»41. Fu in tale contesto che maturò la nuova prospettiva turatiana, risultato di una sofferta ma drastica svolta ideologica verificatasi all’interno della leadership socialista milanese. L’anomalia introdotta nell’analisi dei marxisti italiani dalla vicenda dei Fasci siciliani condusse Turati e il gruppo dirigente che ruotava attorno alla rivista «Critica Sociale» a rivalutare l’importanza «tattica» della democrazia e delle libertà «borghesi». Fondamentale in questa direzione si rivelò l’apporto di Engels, che nelle sue risposte alle ansiose richieste di indicazioni avanzate da Turati e Anna Kuliscioff sottolineava come la pur necessaria autonomia del socialismo dovesse comunque tener conto della situazione storica reale. Dunque «commetteremmo il più grande degli errori – scrisse Engels – se [...] nel nostro contegno rispetto ai partiti ‘affini’ vorremmo limitarci a una critica puramente negativa»42. La nuova linea politica venne varata proprio a Milano quando, il 12 dicembre 1894, di fronte al nodo delle imminenti elezioni amministrative, i socialisti milanesi approvarono, sia pure tra molti contrasti, un ordine del giorno in cui si affermava: i socialisti milanesi, viste le condizioni attuali del partito socialista in Italia, dichiarano essere utile appoggiare il partito radicale nelle prossime

39  A. Schiavi (a c. di), Filippo Turati attraverso le lettere di corrispondenti (18801925), Laterza, Bari 1947, p. 119. 40  A. Labriola, Scritti politici 1886-1904, Laterza, Bari 1970, p. 328. 41  Ivi, pp. 340-341. 42  F. Engels, La futura rivoluzione italiana e il partito socialista, in «Critica Sociale», 1-2-1894, p. 36.

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elezioni amministrative, riservandosi il diritto di sostenere in pari tempo una frazione dei candidati socialisti, ma in modo da conservare la maggioranza ai radicali, non accettando per i candidati socialisti alcuna alleanza di partito, che porterebbe confusione nella diffusione della propaganda socialista43.

Tale deliberazione si proponeva esplicitamente come una vera e propria svolta tattica, anche se il congresso nazionale convocato clandestinamente a Parma il 13 gennaio 1895 confermò, almeno parzialmente, la linea dell’intransigenza nei confronti del cosiddetto «affinismo». Il dibattito e le deliberazioni di quella giornata posero tuttavia le basi per la futura vittoria della linea turatiana. Innanzitutto fu deciso di aprire il partito anche alle iscrizioni individuali, per preservare le organizzazioni di classe e gli organismi operai, cooperativi e di mutuo soccorso dalla repressione governativa. Tale modificazione statutaria, se espose l’organizzazione socialista al pericolo, paventato da molti, delle adesioni di «avventurieri» e «piccolo borghesi», consentiva però di svincolare il partito dalle originarie istanze economicistiche e corporative che a Parma erano state determinanti nel bloccare il progetto di Turati. Le nuove modalità d’iscrizione agevolavano la nascita di una vera e propria organizzazione politica nazionale in cui gli ideali del socialismo, abbracciati da singoli individui volontariamente raccolti in sezioni e circoli locali, potevano esprimersi indipendentemente dalla «densità» di classe delle diverse aree geografiche italiane. L’emergenza della fase non aveva tuttavia prodotto solo un’accelerazione del lento processo di separazione tra le istanze «operaiste» e quelle politiche, ma aveva anche alimentato un originale dibattito sulla fase storica del paese. Da questo conflitto interno avrebbero preso forma le ragioni teoriche del riformismo che, nelle parole di Turati, si connettevano indissolubilmente alla necessità del partito di cominciare «ad agire positivamente sulla situazione politica e ad avere coscienza e responsabilità di questa sua azione». In tale direzione la prima, fondamentale richiesta «positiva» non poteva che essere quella della «riconquista di un minimo di libertà»44. Alla constatazione della precarietà del quadro politico si affian  F. Fonzi, Crispi, cit., p. 232.   F. Turati, Socialismo e riformismo, cit., p. 55.

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cava quella della gracilità del partito. Una parte consistente del movimento operaio continuava infatti a mantenere un atteggiamento di diffidenza nei confronti del partito: «in fondo – scrisse Labriola nel 1894 – essi dicono: noi siamo operai, e non apparteniamo a quella tal cosa che i certi borghesi chiamano socialismo»45. Le cose peggioravano se si volgeva lo sguardo agli altri ceti subalterni, «data la supina apatia delle nostre classi proletarie [...] possedute da una specie di anarchismo incosciente, fatto per nove decimi di semplice buaggine e di lazzaronismo»46. Il «nerbo» del Partito socialista, visto dall’ottica del gruppo dirigente, proveniva infatti dagli «idealisti della borghesia» più che dalle schiere dei salariati. I dati relativi agli iscritti al partito, poco dopo la svolta organizzativa di Parma, dimostrano che nel 1896, tra i circa 22.400 iscritti solo 900 (il 4%) rientravano nella categoria della borghesia «agiata» (professionisti, commercianti e imprenditori, alta dirigenza, ecc.); diverso invece il discorso per quanto riguardava la piccola borghesia (impiegati, maestri, piccoli esercenti, studenti), che degli iscritti rappresentava una parte consistente. In effetti la repressione crispina, costringendo i dirigenti socialisti a prendere atto dei limiti della realtà politica e sociale del proprio partito, li aveva indotti a riflettere sul più generale ritardo nello sviluppo dell’Italia. La realizzazione del programma socialista in Italia, affermava Turati, non poteva prescindere dalla constatazione dell’arretratezza del paese. Gli intransigenti «immaginano un’Italia teorica, assai diversa e più avanzata di quello che, in media, è l’Italia reale»47, e senza il sostegno delle forze della democrazia radicale il partito avrebbe corso seri pericoli: «la reazione c’incolse troppo presto: altro che ‘spalancarci le vie dell’avvenire’! [...] Ombrelloni per la difesa personale non cerco e non curo; un ombrellone per la difesa del partito, che lo lasci un po’ ripigliarsi e respirare e far l’ossa (poi si schiantino pure le cateratte del cielo!), questo, sì, lo vorrei [...]»48. Engels d’altronde, proprio in quei mesi, ricordò ai socialisti italiani che il loro paese si trovava, almeno per molte zone, nelle stesse condizioni di arretratezza della Francia prerivoluzionaria.   A. Labriola, Lettere a Engels, Edizioni Rinascita, Roma 1949, p. 184.   F. Turati, Socialismo e riformismo, cit., p. 49. 47  Ivi, p. 61. 48  Ivi, p. 62. 45 46

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Il nervoso clima politico e sociale di questi anni stava mettendo in discussione alcune certezze di quell’ottimismo di marca positivista che aveva rappresentato il cuore della cultura socialista italiana. La svolta turatiana, che prese il nome di «tattica di Milano», poteva dunque considerarsi il completamento di un percorso di riflessione iniziato nel 1886. Se allora, di fronte alla sconfitta elettorale, i socialisti «evoluzionisti» scoprirono che il «progresso» non era di per sé garantito, ora nelle aule di tribunale e nei tristi giorni del domicilio coatto sembravano addirittura affacciarsi, in tutta la loro cruda evidenza, le cupe prospettive di un più generale regresso. Questa, scriveva Turati, «non è la reazione dell’avvenire, è quella del passato: c’è più del medioevo che rialza la testa, che non del secolo ventesimo anticipato»49. Per tale motivo le battaglie socialiste dovevano mirare al rafforzamento della democrazia e delle pubbliche libertà, per nulla garantite ma assolutamente necessarie alla crescita del socialismo. La scelta in senso democratico operata dal socialismo milanese finiva per rivalutare in funzione «progressista» alcune caratteristiche della piccola e media borghesia settentrionale, specie se contrapposte al «feudalesimo» della grande proprietà agricola meridionale, del militarismo colonialista e del clericalismo. Esisteva in Italia, aveva dovuto ammettere Turati, una «classe media, una piccola borghesia» che soffriva la «gazzarra megalomane dell’attuale governo»; a questo «amalgama di malcontenti», che prendeva il nome di partito democratico, bisognava necessariamente collegarsi se si intendeva far argine contro la deriva reazionaria. In fondo, riconosceva Turati, è per paura di costoro, assai più, confessiamolo, che non dei pochi gruppi socialisti, le cui forze elettorali sono pel momento così esigue, che il Governo – cui poco importa del diluvio del domani – si affanna a strologare il tempo elettorale, a purgare le liste, a far danzare il trescone a prefetti, a predisporre gli ambienti e a propiziarsi i voti un po’ stitici ancora dei clericali50.

Un passaggio questo non di poco conto per la storia della politica parlamentare italiana, in quanto individuava una costante, quella dell’emarginazione dell’estrema radicale, che sembrava caratterizzare   Ibidem.   Ivi, pp. 58-59.

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l’azione dei governi liberali. L’obiettivo da colpire non erano i socialisti, ma i radicali; e questo non tanto per la limitata forza parlamentare dei primi, quanto per il potenziale impatto elettorale dei secondi, sempre in grado di sfidare il governo sul suo stesso terreno culturale. Turati dunque non solo restituiva ai radicali la «patente» di oppositori, ma ne riconosceva la centralità nella lotta parlamentare al governo. Repubblicani I repubblicani dal canto loro si avviavano a fondare più o meno clandestinamente il proprio partito, che ebbe il formale atto di nascita il 21 aprile del 1895 a Milano, anche se il vero congresso costituente si tenne a Firenze due anni dopo, con la partecipazione di 150 delegati in rappresentanza di 390 associazioni. La nuova organizzazione, strutturata come una federazione di consociazioni regionali, aveva i propri punti di forza nella associazione repubblicana lombarda, fortemente sbilanciata a favore di un’organizzazione del paese in senso federale, e soprattutto in quella romagnola che rappresentava il volto popolare del partito. Almeno per alcune aree la nuova organizzazione proseguì quell’opera di acculturazione politica che aveva sempre caratterizzato il movimento mazziniano. Alla fine del secolo gli iscritti, che per essere tali avrebbero dovuto versare una modesta quota d’adesione, non erano più di 18.000. Mancava un giornale di partito e dunque molte testate, tra cui spiccavano «L’Italia del popolo», «Il pensiero romagnolo», «Il Lucifero», «L’Idea repubblicana», svolsero il ruolo di portavoce del partito senza tuttavia riuscire a superare le barriere della diffusione locale. L’obiettivo del nuovo partito consisteva nel raggiungimento della forma istituzionale repubblicana e di un «governo popolare», mezzi «indispensabili» per risolvere la questione sociale, senza distinzioni di scuole economiche (associazionista o collettivista) e di scuole politiche (unitaria o federalista). La nuova organizzazione tuttavia, nonostante il clima antimonarchico degli anni ’90, rimase sino alla fine del secolo una struttura fiancheggiatrice dei socialisti nelle lotte di fine secolo. Il 22 ottobre 1894, giorno dello scioglimento del Partito socialista, a Milano venne annunziata la formazione di una Lega per la difesa della libertà promossa da Cavallotti e sostenuta dai socialisti milanesi, a partire da Turati che partecipò persino alla stesura

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del programma. La Lega della libertà era la dimostrazione che a Sinistra l’opposizione non poteva fare a meno di Cavallotti, tanto che Prampolini, complimentandosi con lui per la felice intuizione, lo incoraggiava dicendogli: «è il tuo momento questo». L’iniziativa ebbe immediato successo. La Lega si prestava magnificamente al tipo di opposizione che Cavallotti gradiva, una modesta struttura organizzativa finalizzata a moltiplicare l’indignazione delle «anime fiere, sdegnose di prepotenze»51, fungendo da cassa di risonanza dei veementi attacchi dell’Estrema in Parlamento. Anche il clima politico sembrava ideale. Per il socialista Ferri «lo scioglimento dei circoli socialisti è stata la manna piovuta ai radicali perché essi che debbono essere come i cani da guardia delle libertà politiche hanno trovato finalmente la ragione della loro esistenza»52. Le ragioni della rapida fortuna della Lega, d’altronde, si rivelarono anche le cause del suo altrettanto rapido declino. Nel maggio del 1895, in una corrispondenza per la stampa socialista tedesca, Antonio Labriola ne annunciava la scomparsa: «Era troppo variopinta. Le infersero il colpo mortale gli intransigenti, gli uomini del non compromesso fra i socialisti»53. «Le leggi non colpiscono i grossi delinquenti» Concluso il processo ai responsabili della Banca Romana, Crispi, forte della totale complicità del ministro della Giustizia e sicuro dell’intangibilità politica, decise che era giunta l’ora di affossare definitivamente Giolitti e con lui l’ultimo testimone di una stagione di scandali e malversazioni che avevano coinvolto lo statista siciliano e la stessa Casa Reale. Per prima cosa istituì una commissione per censurare il comportamento della magistratura in occasione dell’istruzione del processo a Tanlongo. Poi sollecitò la magistratura stessa, con il palese intento di chiamare in causa Giolitti, ad avviare un procedimento a carico dei funzionari di polizia accusati di aver sottratto i documenti per conto del governo. L’ex primo ministro, a questo punto, passò al con  F. Cavallotti, Lettere 1860-1898, Feltrinelli, Milano 1979, p. 319.   Citato in L. Dalle Nogare, S. Merli (a c. di), L’Italia radicale: carteggi di Felice Cavallotti 1867-1898, Feltrinelli, Milano 1959, p. 145. 53  A. Labriola, Scritti politici, cit., p. 363. 51 52

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trattacco. In primo luogo avvertì il Sovrano di poter «provare la falsità di qualunque accusa» e il giorno dopo rilasciò all’ex questore Felzani, uno dei principali accusati, l’autorizzazione scritta «a dire essere perfettamente vero che al Ministero dell’Interno giunsero documenti, che potevano gettare luce non bella sopra qualche uomo politico, ma quei documenti provenivano da tutt’altra parte che dai funzionari di Pubblica Sicurezza»54. La lettera, destinata al giudice come prova a difesa, finì sui giornali provocando una violentissima reazione da parte della stampa governativa; secondo i crispini la dichiarazione «fu scritta perché fosse pubblicata e all’unico scopo che gli si chiedesse conto di quella frase»55, in cui alludeva alle responsabilità di «qualche uomo politico». L’obiettivo venne in effetti raggiunto e la preda si trasformò in cacciatore, modificando un iter politico giudiziario che lo vedeva vittima designata. Giolitti decise di consegnare i documenti in suo possesso alla Camera, la quale li affidò ad una commissione nominata ad hoc affinché li esaminasse prima di riferire in Parlamento. Il «plico Giolitti», come venne chiamato, non conteneva alcuna rivelazione clamorosa e non era tale da scagionare in modo inconfutabile l’ex ministro, ma sicuramente rendeva più difficile la posizione del presidente del Consiglio, con la conferma delle voci sul grave indebitamento della famiglia Crispi nei confronti della Banca Romana. In quelle carte tuttavia comparivano anche i nomi di molti altri parlamentari, senza distinzione di parte. Dagli ambienti di corte, pur preparandosi ad una possibile sostituzione dell’anziano statista con Saracco, si inviarono segnali al presidente del Consiglio affinché non ripetesse, dimettendosi, l’errore di Giolitti. La mancanza di alternative autorevoli rendeva cauto il Sovrano, che per di più continuava a dichiararsi nei confronti di Crispi «gratissimo di quanto ha fatto, della generosità, dell’abnegazione di lui alla sua età»56. Inoltre, forse cominciava ad essere vero, come disse un senatore, che «oramai l’opinione pubblica si [era] abituata al fatto che parecchi uomini politici non [avevano] abbastanza di che vivere e tra[evano] vantaggio dalla loro posizione»57. Crispi non solo non aveva alcuna intenzione di dimettersi ma, di fronte alla richiesta di Cavallotti, Imbriani e Rudinì di aprire la discussione su   G. Giolitti, Memorie della mia vita, Garzanti, Milano 19452, pp. 108-109.   T. Palamenghi-Crispi, Giovanni Giolitti, cit., p. 81. 56  D. Farini, Diario, cit., vol. I, p. 607. 57  Ivi, p. 599. 54 55

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quanto emerso dal plico, fece pubblicare il decreto di proroga della sessione, già pronto da diversi giorni e firmato in «bianco» dal Sovrano, con cui si preannunciava la fine della legislatura. Il 13 gennaio 1895 Umberto firmava il decreto di chiusura della sessione. «La corona reputava – secondo il costituzionalista Arangio-Ruiz – si dovesse, con la sua prerogativa, coprire il primo ministro sospettato, e al tempo medesimo troncare un dibattito di indole morale e personale»58. Crispi, che aveva definito i documenti «un tessuto di menzogne», nella sua relazione al Re giustificò la richiesta del provvedimento con la necessità di mettere fine all’attacco di un «manipolo di tumultuanti», interessati solo ad infangare l’istituto parlamentare. In privata sede, invece, affermò che «la estrema sinistra congiunta col Rudinì era decisa [...] a non lasciarlo parlare se egli avesse voluto difendersi»59. Oltre alla personale necessità di sottrarsi alla censura parlamentare e di colpire Giolitti, c’era nell’arrogante scelta di Crispi l’esigenza di spezzare un accerchiamento di forze e interessi a lui ostili, che avevano raggiunto nelle battaglie parlamentari un momento di grande affiatamento. Al di là dei motivi contingenti, le nervose mosse di Crispi, il quale pretendeva di governare per decreti e senza intralci assembleari, mettevano a nudo non solo l’esigenza di un vecchio giacobino, con poco tempo ormai a disposizione e insofferente dei particolari e del gioco della mediazione degli interessi, ma anche la convinzione, diffusa in alcuni ambienti politici, intellettuali e di corte, che la pacificazione e lo sviluppo del paese risultavano ostacolati dalla rappresentanza parlamentare. In più occasioni in quei giorni Crispi non si era trattenuto dal dire che «in Italia non è possibile un governo parlamentare»60. L’ideale sarebbe stato, disse in presenza della regina, «sostituire alla Camera dei deputati una consulta» perché «quando nella Camera vi sono gli Imbriani e simili divengono impossibili e tutte le Camere col suffragio universale diventano tali, per questo gli inglesi non vollero mai il suffragio universale»61. Farini pensò che fosse impazzito. 58  G. Arangio-Ruiz, Storia costituzionale del Regno d’Italia, Jovene, Napoli 1985 (1898), p. 518. 59  D. Farini, Diario, cit., vol. I, p. 607. 60  Ibidem. 61  Ivi, pp. 625-626.

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Agli scrupoli dei liberali infatti si aggiungevano anche quelli di coloro che, come il presidente del Senato, vedevano nello Statuto più una fonte di legittimazione del potere che di garanzia dei diritti dei cittadini: Anche io sono un parlamentare e penso che parlamento-monarchiaunità siano tre termini indissolubili. E mi scandalizzo dei quattro mesi senza Camera nel 1894, seguiti da altri quattro nel 1895. E mi scandalizzo di provvedimenti di ogni fatta presi per decreto Reale. L’assenza lunga del Parlamento mi turba perché esso è una valvola di sicurezza. Se la si sopprime lo stato, il governo s’impersona nel re, contro del quale si volgerebbero presto gli attacchi e le contumelie lanciate contro il Parlamento62.

In effetti si trattava di una situazione difficile da sostenere, e che era mantenuta in piedi perché «la stessa uscita di Crispi dal governo sarebbe stata una prima vittoria dei radicali, niente altro che ciò, ed avrebbe agevolata la vittoria elettorale dei medesimi imbaldanziti»63. Una prospettiva, questa, per nulla remota visto il clima di intesa che si era formato nel frattempo tra Rudinì e Cavallotti. Il leader radicale era rimasto fortemente impressionato dalla lettura del plico Giolitti, e abbandonata ogni remora personale, decise di avviare una veemente campagna di denuncia della radicata immoralità pubblica e privata del presidente del Consiglio. Il 24 dicembre 1894 Cavallotti rendeva nota la sua Lettera agli elettori, con cui intendeva porre al centro del dibattito politico il tema dell’«onore» dell’Italia. Oltre alle vicende relative ai rapporti di Crispi con la Banca Romana, la lettera riprendeva anche il tema dei compensi personali che avrebbe percepito nel corso della sua carriera politica: «un popolo che transige con l’onore – scriveva Cavallotti – non vive»64. Su questo terreno era sicuro di non avere rivali. Non era tuttavia facile trasformare la questione morale in un programma politico efficace. Da una parte c’era il cinico «realismo» e il «cesarismo» politico di un primo ministro che continuava a tenere chiuso il Parlamento, e dall’altra la nouvelle vague della «scientificità» socialistica.

  Ivi, pp. 628-629.   Ivi, p. 636. 64  Citato in A. Galante Garrone, Felice Cavallotti, Utet, Torino 1976, p. 650. 62 63

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Se – scrisse ironicamente il radicale Giampietro – fra un atto e l’altro a teatro incontrate un amico e gli chiedete: «Che te ne pare di questa situazione?» «Gravissima. Fra sei mesi avremo la rivoluzione!» «Scusa perché sei e non sette?» «È calcolato!»65.

Cavallotti però non demordeva, anche se la sua «generosa violenza» contro il ministro siciliano sortiva spesso l’effetto contrario di quello sperato e garantiva a Crispi la solidarietà di chi, pur avversario politico, non intendeva tramutare un conflitto di potere in un processo morale che avrebbe comunque finito per coinvolgere larghi settori della classe politica. L’illusione di Cavallotti di potersi sbarazzare di Crispi entro l’estate doveva ben presto scontrarsi con la caparbia resistenza del presidente del Consiglio, che aveva dalla sua la potente arma delle elezioni: All’indomani della mia lettera [agli elettori] – scrisse il 5 gennaio 1895  – moltissimi credevano che il pudore elementare si imponesse e che Crispi avesse inteso il dover suo. Abbracciamenti generali e congratulazioni infinite al mio coraggio che non era niente altro che un semplice dovere di galantuomo compiuto. Dopo dieci giorni si trova che Crispi resiste, si impone coll’audacia, che forse farà lui le elezioni ed ecco che allora c’è chi si gratta il capo, e trova che la mia lettera era un po’ acre, e pensa ai casi del collegio66.

Antonio Labriola, molto più disincantato, aveva invece ben presente la forza di ricatto delle elezioni, che descrive così in un articolo del 1° maggio 1895: A dirla in breve, durante la dittatura attualmente dominante, i deputati hanno occupato come prima le anticamere dei ministeri; e hanno così proseguito la loro vecchia professione. Divenir deputato suona in Italia come una occupazione piacevole e fruttuosa, sia pure soltanto per soddisfare la vanità. In tali condizioni [...] è spiegabile l’apatia che ha colpito quasi tutti gli italiani, escluse le duecentomila persone che fanno politica e vivono di politica. Molti dicono: qui Crispi, l’uomo della corruzione, e là i corrotti, il diavolo se li porti tutti quanti! La violentazione del parlamento corrotto

65  E. Giampietro, Ricordi e riforme, De Arcangelis, Casalbordino 1903, pp. 229-230. 66  F. Cavallotti, Lettere, cit., p. 323.

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da parte di un ciarlatano corrotto ha così confuso l’opinione pubblica che molti si affidano al destino con assoluta tranquillità67.

Non si trattava dell’estremizzazione di un socialista, se era vero che negli stessi giorni anche Rudinì, in una lettera ai suoi elettori, criticò gli ordinamenti esistenti che conferivano «al ministero un potere dispotico [...]. Da qui il ricambio inconfessabile, ma troppo noto di voto e di favori. Da qui la doppia sottomissione di non pochi deputati non solo di fronte al governo, ma anche di fronte ai faccendieri accaparratori di voti»68. La campagna elettorale in vista delle elezioni fissate per il 26 maggio e 2 giugno fu particolarmente vivace. Gli avversari di Crispi (Destra lombarda e rudiniana, giolittiani, zanardelliani e radical-socialisti) trovarono un facile terreno d’intesa sul tema della difesa delle prerogative della Camera, oltre a quelli delle turbative costituzionali causate dalle «illegalità commesse dal ministero» e della necessità di risolvere la questione morale. L’indicazione tattica per i fedelissimi di Giolitti era quella di sostenere la candidatura di Rudinì, proprio perché – scrisse un senatore giolittiano – «è un uomo onesto, ed ora importa sopra tutto [...] far argine al presente sfacelo morale»69. Per quanto riguardava i programmi, invece, l’opposizione costituzionale appariva divisa. Rudinì ribadiva la proposta di decentrare una parte dei poteri centrali dell’amministrazione alla regione avente a capo un governatore o, come direbbesi in Inghilterra, un vero luogotenente»70, scelto non su base elettiva ma «per notevoli servizi resi e per posizione acquistata». La ferma difesa dell’istituto parlamentare dagli insulti crispini, per Rudinì, doveva combinarsi con il rafforzamento delle componenti non elettive nell’intero tessuto politico-amministrativo del paese. Il decentramento, nelle sue diverse accezioni, era d’altronde un argomento che faceva parte del bagaglio retorico obbligatorio dell’intera classe politica dell’epoca. Zanardelli auspicava genericamente «le grandi riforme del decen-

  A. Labriola, Scritti politici, cit., pp. 362-363.   L. Lucchini (a c. di), La politica, cit., vol. III, pp. 345-346. 69  Citato in Quarant’anni di politica italiana: dalle carte di Giovanni Giolitti, 3 voll., vol. I, L’Italia di fine secolo, 1885-1900, a c. di P. D’Angiolini, Feltrinelli, Milano 1962, p. 248. 70  L. Lucchini (a c. di), La politica, cit., vol. III, p. 347. 67 68

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tramento», mentre Cavallotti riteneva necessario al miglioramento dell’ambiente parlamentare «il passaggio alle regioni della gran parte degli interessi che non sono strettamente nazionali»71. Le differenze di programma si facevano più sensibili a proposito dei rapporti con la Chiesa e sui temi della libertà di associazione politica. Differenze non di poco conto, destinate ad indebolire l’opposizione, tanto che lo stesso Zanardelli scrisse a Cavallotti, dopo le elezioni, che quella con Rudinì rimaneva un’alleanza tattica. Con la Destra dissidente «può correre il destruam, non l’aedificabo»72. Questo punto non doveva sfuggire a Crispi, che infatti a Roma, nell’unico discorso tenuto durante la campagna elettorale, accusò i suoi avversari di essere cospiratori travestiti da moralisti abili nel distruggere e nel calunniare: Che cosa vogliono? Distruggere. E a null’altro potrebbe aspirare una coalizione di anarchici e di monarchici, di radicali plebiscitari e di repubblicani federalisti, di socialisti e di pseudo-conservatori [...]. Quando pure vincessero, essi non riuscirebbero dunque a costituire un Governo qualsiasi: né buono, né pessimo73.

Per i socialisti, le elezioni furono un’occasione non solo per mettere alla prova la tenuta del partito nel difficile frangente della clandestinità, ma anche per chiarire la tattica elettorale. Le richieste di maggiore rilievo erano il suffragio universale, l’eguaglianza giuridica e politica dei sessi, l’indennità ai deputati, la nazione armata in luogo dell’esercito, l’autonomia comunale, la riforma dei patti colonici, l’espropriazione a vantaggio di associazioni di lavoratori delle terre incolte, la statalizzazione delle ferrovie, società di navigazione e miniere, la tassa unica progressiva sui redditi, la giornata di lavoro non superiore alle otto ore, la limitazione del lavoro minorile e l’istruzione obbligatoria estesa alla V classe degli studi elementari. Per quanto riguardava la tattica, si mantenne il contrasto tra la linea ufficiale del congresso di Parma e quella turatiana, quest’ultima agevolata dal clima di disgusto per la situazione politica che impediva quella netta separazione, cara agli intransigenti, tra socialismo e democrazia radicale.   Ivi, p. 306.   Citato in L. Dalle Nogare, S. Merli (a c. di), L’Italia radicale, cit., pp. 374-375. 73  L. Lucchini (a c. di), La politica, cit., vol. III, p. 368. 71 72

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L’invulnerabile Crispi Anche in queste elezioni le pressioni governative a favore dei candidati ministeriali furono piuttosto serrate. D’altronde tale realtà intimidatoria sembrava ormai parte integrante del sistema e accettata come una sorta di fardello inevitabile, tanto che il giolittiano Gagliardo scrisse al politico di Dronero: «ci vuole altro che un paese come il nostro per resistere alle pressioni governative! Del resto, a questo riguardo, chi è senza peccato getti la prima pietra»74. Le elezioni, peraltro, erano un ottimo strumento per riportare all’ordine quei deputati insoddisfatti di Crispi ma non in grado di fronteggiare, nei propri collegi, un’eventuale ostilità del governo. Non pochi dei suoi contestatori «si sono piegati e sono andati in pellegrinaggio da Crispi per espiare la loro colpa»75. I risultati delle elezioni, rivelatesi più combattute di quelle del 1892, furono decisamente favorevoli al governo. Crispi venne eletto in otto dei nove collegi (tutti siciliani tranne quello di Roma) in cui si era presentato. Pur nell’incertezza della collocazione politica di alcuni parlamentari, si calcolò che il presidente del Consiglio poteva contare su 334 deputati contro 104 oppositori «costituzionali», 47 radicali, 15 socialisti e 8 non chiaramente definibili. Il governo otteneva eclatanti vittorie nei collegi liguri, toscani, laziali e soprattutto meridionali. Nel Mezzogiorno continentale e in Sicilia 150 eletti erano schierati con il governo, contro i 36 raccolti delle opposizioni. Le uniche regioni in cui l’opposizione nel suo complesso ebbe la meglio sui candidati governativi furono la Sardegna e la Lombardia. Lo «Stato di Milano», in particolar modo, aveva avuto la sua rivincita eleggendo 3 radical-repubblicani, un socialista, un liberalmoderato anticrispino e solo un ministeriale. Il responso uscito dalle urne milanesi aveva messo in luce il peso decisivo del voto cattolico, prospettando in seconda battuta la concreta possibilità che in futuro radicali e socialisti potessero diventare maggioranza. I socialisti avevano infatti tratto da questa tornata elettorale molti motivi di soddisfazione, e in diversi ambienti vennero ritenuti i veri vincitori morali della competizione. I voti raccolti da tutti i candidati del partito, presenti soprattutto nei collegi centro-settentrionali,

  Citato in Quarant’anni di politica, cit., p. 252.   A. Labriola, Scritti politici, cit., p. 361.

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erano passati da 27.000 a circa 80.000 e i seggi conquistati da 6 a 15. Turati in particolare vedeva confermata nei fatti l’efficacia della «tattica di Milano», anche se non si lasciò trascinare dall’euforia. «Si è esagerato molto il risultato socialista delle nostre elezioni – scrisse Turati ad Engels – [...]. Tuttavia, marciamo; noi marciamo, ma Crispi resta. Anche l’Italia è in marcia – preferisco dirlo in italiano, nel quale la frase in marcia ha un doppio senso...»76. La vittoria ministeriale, salda dal punto di vista quantitativo, non lo era altrettanto dal punto di vista qualitativo, nel senso che i radicali, pur non ottenendo gli auspicati incrementi di seggi, avevano assunto un più marcato profilo antigovernativo. «Crispi ha dovuto ingoiare dei bocconi amari – commentò il giolittiano Gagliardo – ma ha una maggioranza, che, in un paese in cui il regime parlamentare funzionasse correttamente, gli assicurerebbe la vita per tutta [sic] legislatura»77. Tra le fila dell’Estrema, nell’insieme comunque rafforzatasi, si respirava un’aria di entusiasmo e il rinnovato attivismo di Cavallotti sembrava adesso collocarlo stabilmente al centro della scena politica. Il leader radicale aveva infatti da una parte ripristinato un importante canale di comunicazione con i socialisti, e dall’altra era ormai considerato il portavoce dell’indignazione popolare («il paese ha tratto su di me una cambiale e siccome non mi chiamo Crispi, la pago»78), oltre che il punto di riferimento per la formazione di una qualunque coalizione alternativa a Crispi. L’incertezza di fondo che attraversava gli ambienti governativi e di corte era dunque giustificata in considerazione del fatto che le elezioni, percepite come una sorta di referendum su Crispi, avevano lasciato il problema irrisolto. Anche la ripresa dei lavori parlamentari confermò agli occhi dell’opinione pubblica l’alto grado di tensione politica e psicologica che stava alla base del definitivo deterioramento dei rapporti tra governo e opposizione. Il peso dei rancori personali e delle passioni di parte si presentava come l’indicatore più evidente di una situazione politicamente bloccata. In non poche occasioni lo scontro sembrò travalicare i confini del conflitto parlamentare, tramutando l’aula di Montecitorio in una sorta di «taverna frequentata da gente mane  F. Turati, Socialismo e riformismo, cit., p. 67.   Citato in Quarant’anni di politica, cit., p. 251. 78  Citato in G. Castellini, Crispi, Barbera, Firenze 1928, p. 246. 76 77

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sca e riottosa»79. La tensione tra governo e opposizione alimentava tra l’altro la sempre più estesa pubblicistica antiparlamentare, che proprio nel 1895 si arricchì di numerosi contributi, molti dei quali propugnavano una riforma del sistema parlamentare e della «falsa» rappresentanza su cui era basato. Il 22 giugno Cavallotti pubblicò la preannunciata Lettera agli onesti di tutti i partiti. L’impressione suscitata dallo scritto fu enorme, e in pochi giorni ne furono vendute 300.000 copie. Per il leader radicale si trattava di dare la spallata finale alle resistenze di Crispi, visto che non c’era stato modo di farlo cadere politicamente. «Non mi è stato possibile, non lo si è voluto». La sua uscita di scena era essenziale per il corretto funzionamento delle istituzioni: «è inutile che un’assemblea rappresentativa funzioni, se vi son dentro cento o centocinquanta persone tormentate dal sospetto o dal convincimento di trovarsi in faccia ad un ministro disonesto». La Lettera rappresentava un argomentato percorso di demolizione della credibilità di Crispi, alla luce dei discussi e discutibili avvenimenti pubblici e privati della sua vita, al fine di rendere inattendibili le sue smentite in merito all’ultimo e più grave scandalo in cui era stato coinvolto, l’affare Herz. Il presidente del Consiglio era accusato di aver garantito dietro compenso, alla fine del suo ministero nel 1891, la concessione (poi sospesa dal Re) della più alta onorificenza cavalleresca italiana, l’ordine di San Maurizio, a un franco-americano che operava in Francia, Cornelius Herz, un’equivoca figura di affarista privo di qualunque titolo o benemerenza. L’obiettivo di Cavallotti era quello di mettere l’assemblea parlamentare con le spalle al muro, costringendola a stabilire «se ella conta nel proprio seno o un ministro disonesto o un deputato calunniatore». Il dilemma venne drasticamente posto alla Camera con un’interrogazione di Bovio che Crispi respinse. Furono allora presentate due mozioni: una dell’Estrema, con cui s’invitava Crispi a citare in giudizio Cavallotti o a nominare un comitato inquirente; e l’altra firmata da parlamentari della Destra, che chiedeva al governo di risolvere le questioni morali che menomavano il prestigio delle istituzioni. Il presidente del Consiglio non si scompose: «né tribunale né inchiesta parlamentare», fu la sua risposta alla Camera, il 25 giugno 1895. «All’età   Rassegna Politica del 1-7-1895, in «Nuova Antologia», CXLII, 1895, p. 164.

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mia dopo aver servito il paese per 58 anni, posso avere il diritto di credermi invulnerabile e superiore alle ingiurie e alle diffamazioni. La Camera decida». E la Camera decise, con 283 favorevoli, 115 contrari e 7 astenuti, di concedere la fiducia alla richiesta di rinviare di sei mesi la presentazione delle mozioni. Per Crispi gli attacchi diffamatori erano da respingere anche per motivi di correttezza istituzionale, altrimenti «dipenderebbe da un mascalzone mutare il governo del paese»80. Ma la ragione profonda d’irritazione dello statista siciliano andava ricercata nel fatto che, certo di aver donato tutto se stesso alla patria, si riteneva moralmente autorizzato a non dover rispondere della commistione di affari privati e amministrazione pubblica. A quel punto a Cavallotti non rimase che sporgere una formale quanto sterile querela all’autorità giudiziaria contro Crispi. Il clima politico stava tuttavia impercettibilmente ma inesorabilmente cambiando. Lo statista siciliano poteva invocare il risultato elettorale come unica, veritiera espressione della volontà del paese. I miei avversari dicono di rimettersi al paese – affermò il 30 luglio 1895 –. Il paese si è pronunziato per noi. Questo Parlamento riflette la coscienza del popolo. La maggioranza della Camera difende la ragione [...]. È un errore il credere che il paese pensi come questi signori (A sinistra) credono che pensi. Il paese non è con loro. Hanno fatto di tutto per agitarlo, ma il paese è stato indifferente, non li ha seguiti; ha risposto a favore mio.

Cavallotti, in effetti, non mostrava più la consueta sicurezza: «vedrà ora l’Italia – scrisse mestamente nell’ottobre del 1895 – se le convenga prolungare l’esperienza dolorosa»81. Il Re, dal canto suo, dopo la pubblicazione della Lettera agli onesti, aveva confermato la fiducia a Crispi. Lo stretto legame che univa i due uomini era di complessa natura. Umberto era convinto che Crispi fosse l’unico uomo politico in grado di fronteggiare, con mezzi leciti o meno, le opposizioni. Queste a Corte erano identificate come le componenti di Destra o di Sinistra interessate a ridurre dimensioni e ruolo dell’esercito, ambito che il Sovrano riteneva di propria esclusiva competenza. Non deve essere tuttavia trascurato l’aspetto psicologico del   F. Crispi, Pensieri e profezie, cit., p. 210.   F. Cavallotti, Lettere, cit., p. 338.

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rapporto. Umberto era un Sovrano di scarsa cultura e di modesta preparazione politica, e ciò accentuava l’irresolutezza del suo carattere. L’incondizionata ammirazione che nutriva verso il sistema di governo prussiano e per la figura di Guglielmo II lo conduceva a vedere nelle brusche prese di posizione dello statista siciliano una potenziale versione di quel modello, sia pure pallida e corretta in chiave parlamentare. Una volta compromessi definitivamente i rapporti con Giolitti, ritenuto dal Re un «vigliacco» per aver lasciato scoperta la Casa Regnante di fronte alla questione degli scandali e delle speculazioni finanziarie, Umberto si era convinto della necessità di recuperare Crispi, ritenuto da molti ormai politicamente in declino. Nonostante l’ammirazione (peraltro non ricambiata) del Re per Crispi, definito «un uomo superiore», i rapporti tra i due furono quasi sempre caratterizzati da tensioni e malumori, a causa dell’indissolubile legame che li rendeva loro malgrado indispensabili l’uno all’altro. Crispi, dal canto suo, affermò pubblicamente che «nessuno ha mai più di lui coperto il re»82. Il suo atteggiamento era decisamente irriverente, tanto che «entra[va] ed [usciva] dal re senza punto inchinarsi»83. Egli inoltre faceva al Sovrano continue richieste di denaro, puntualmente soddisfatte, «per i danni che pativano lui ed i suoi rimanendo al potere»84. Il Re, a sua volta, nel giugno del 1895, confidava a Farini: «Ella non sa i grandi bisogni di quest’uomo; né i denari che gli ho dato anche ora [...]. È una vera sudiceria»85. La morale, in sostanza, era sempre la stessa: «so che Crispi è un poco di buono, ma in questo momento devo sostenerlo – disse al suo aiutante di campo nel 1895 – per gli alti interessi del paese»86. Allontanato il più insidioso dei pericoli, cioè il dibattito parlamentare, forte della fiducia del Re e di una robusta maggioranza, il presidente del Consiglio si avviava così a sistemare i conti in sospeso. Innanzitutto ottenne senza difficoltà la copertura legislativa ai provvedimenti finanziari e ai numerosi decreti-legge governativi emanati durante la chiusura del Parlamento. In dicembre Crispi approfittò della difficile situazione sul fronte coloniale determinatasi dopo la   D. Farini, Diario, cit., vol. I, p. 688.   P. Paulucci, Alla corte, cit., p. 123. 84  D. Farini, Diario, cit., vol. I, p. 591. 85  Ivi, p. 594. 86  P. Paulucci, Alla corte, cit., p. 137. 82 83

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sconfitta di Amba Alagi, per chiudere definitivamente la pagina politica dello scandalo della Banca Romana. La Camera si trovò infatti ad affrontare la questione del giudizio su Giolitti dopo che la Corte di Cassazione aveva respinto la richiesta di affidare l’ex presidente del Consiglio alla giustizia ordinaria. Nonostante il tentativo dei giolittiani di chiedere nuove indagini o in alternativa di deferire il politico di Dronero all’Alta Corte di giustizia, ebbe la meglio l’esigenza del governo di evitare ulteriori indagini. Fu infatti approvato un ordine del giorno favorevole a «mettere tutto sotto silenzio» per non «turbare» il paese nel difficile frangente. Era, in altri termini, la proposta di concludere la lunga stagione degli scandali politico-finanziari con un nulla di fatto ed una sorta di autoassoluzione generale. A dispetto della difficile situazione politica e sociale di quei mesi, Crispi sembrava nel complesso aver acquistato più sicurezza, e soprattutto si muoveva con maggiore autonomia rispetto alla fase precedente. Con il rinvio di sei mesi del dibattito sul suo coinvolgimento negli scandali denunciati da Cavallotti, era iniziato per il presidente del Consiglio una sorta di periodo «sabbatico», in cui poteva godere di una quasi completa libertà da capitalizzare al massimo per rendere politicamente «impraticabile» l’atto di accusa nei suoi confronti. Il suo obiettivo era quello di rilanciare una grande politica nazionale, svincolandosi da ogni condizionamento, compreso quello dei suoi ministri più autorevoli, Sonnino e Saracco, che ne avrebbero voluto moderare le rinnovate tentazioni di grandeur nazionale. Ormai poco sensibile all’opinione dei suoi ministri, Crispi non si allarmava nemmeno di fronte agli scandali che li coinvolgevano. Oltre al ministro della Giustizia Calenda, responsabile di pressioni esercitate sulla magistratura per colpire Giolitti, rimase al dicastero della Guerra anche Mocenni, accusato di aver tratto vantaggi personali dalle forniture per l’esercito. L’azione del presidente del Consiglio appariva ora anche meno interessata alla ricerca del sostegno di specifici gruppi e interessi parlamentari. A tale proposito Crispi cercò di assumere un ruolo più distaccato nelle questioni di politica interna, in modo da non precludere i contatti con il maggior numero possibile di componenti parlamentari senza legarsi in modo esclusivo ad alcuna di esse. Inoltre, nonostante il suo personale risentimento verso il mondo cattolico che l’aveva abbandonato durante le elezioni, lo statista di Ribera non volle recidere i legami con gli ambienti cattolici e conservatori. Allo stesso tempo, però, fece in modo di non

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ostacolare una nuova ondata di anticlericalismo che, ispirato dalla massoneria, ebbe il suo punto culminante nella legge che dichiarava il 20 settembre (il giorno di Porta Pia), festività nazionale. A differenza di altre occasioni, comunque, il presidente del Consiglio limitò la sua partecipazione emotiva al dibattito: «Io non vado né alle Loggie né alla Chiesa». L’immagine era quella di un uomo che, deluso dalle ultime, fallite, combinazioni, superati i mille scogli delle perigliose battaglie parlamentari, si sentiva ormai interprete, al di sopra delle parti, della volontà del paese. In tale contesto la maggioranza parlamentare non rappresentava più un problema vitale per Crispi, in quanto egli era convinto che questa si sarebbe saldata non più sulla vecchia base trasformista di un programma di sapiente conciliazione degli interessi, ma su quella ben più solida dei fatti compiuti. La politica estera e soprattutto quella coloniale tornavano dunque ad essere terreno di «scorrerie» in vista di un rilancio personale anche in politica interna, dove le grandi prospettive sembravano esaurite. Ne erano lampanti dimostrazioni la mancata proroga parlamentare delle leggi eccezionali in scadenza e, su un altro versante, la rinuncia a proseguire i lavori per il catasto estimativo e relativa perequazione fondiaria, simbolo dell’affossamento dell’intero versante «riformatore» di questa seconda fase del crispismo. Al di là dell’esistenza o meno di quello che fu chiamato un «sopruso» del Sud, si formò un fronte compatto di proprietari settentrionali che, forte dell’appoggio di tutte le correnti politiche, diede vita ad una polemica anti-meridionalista indirizzata contro l’esecutivo. Un simile contrasto era destinato ad accentuare ulteriormente l’immagine di un governo rappresentante della feudalità meridionale, in grado di legittimare il proprio ruolo nazionale solo accentuando sia la politica protezionistica a favore di alcuni settori economici settentrionali sia quella repressiva. Mettere fine al catasto estimativo significò rinunciare a ricompattare sul terreno dello statalismo riformatore i vari spezzoni della borghesia nazionale. Ora la speranza di poter sostituire il trasformismo, unico parziale tentativo di mediazione degli interessi regionali sino ad allora attuato, con la creazione di una guida carismatica e svincolata dal Parlamento, era strettamente legata alla speranza di mettere in cantiere grandi scenari futuribili che avevano la loro unica possibile sede negli immensi altopiani dell’Africa.

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Adua Il quadro delle relazioni internazionali aveva subìto numerose modificazioni da quando Crispi era tornato al potere. Nonostante le continue sollecitazioni italiane per rafforzare l’intesa con i britannici, Londra si era convinta che fosse proprio la sproporzione tra appetiti e mezzi dell’Italia a rappresentare il maggior pericolo di destabilizzazione dell’area. «È diventato di moda denigrare l’Italia – ricordavano gli intellettuali inglesi sin dagli anni ’70 – come ambiziosa potenza che disturba la pace in Europa [...] come una debole potenza che si esaurisce nel tentare di mantenere una forza al di là delle sue possibilità, in modo sproporzionato e politicamente irragionevole»87. Anche l’eccessivo attivismo italiano in Africa contribuiva ad irritare il Foreign Office, già orientato a prendere le distanze dalla Triplice nel suo complesso. Tra l’altro la sanguigna indole di Crispi non predisponeva certo l’algido premier conservatore Salisbury ad una più attenta benevolenza nei confronti delle richieste italiane. La «botte di ferro» in cui Carlo Felice Nicolis, conte di Robilant, abile ambasciatore a Vienna dal 1871 al 1885 e poi ministro degli Esteri sino al 1887, si vantava di aver lasciato l’Italia, si stava rapidamente sfaldando anche in considerazione del crescente deterioramento dei rapporti anglo-tedeschi, sulla cui cordialità l’Italia aveva edificato la propria politica estera nella seconda metà degli anni ’80. Il quadro era ulteriormente aggravato dalla ferma intenzione di tedeschi e austriaci, vista la più solida situazione militare e diplomatica della Francia, di non farsi trascinare dall’Italia in un’interpretazione «attiva» della Triplice Alleanza. Per Crispi, tuttavia, il problema principale rimaneva l’aggressività francese nei confronti dell’Italia, «un fatto [...] che mira, non solo a combattere l’Italia in Africa, ma ad indebolirla in Europa»88. Secondo il ministro degli Esteri gran parte di questa accanita ostilità era dovuta alla partecipazione dell’Italia alla Triplice, da cui si cercava di staccarla; e alla luce di tali considerazioni il governo italiano si sentiva autorizzato a chiedere un maggiore impegno degli alleati nel contrastare le manovre francesi. Per Berlino si trattava di una pretesa irragionevole, dato che la Tri-

  W.J. Stillman, Italy, in «Fortnightly Review», 32, 1879, p. 838.   F. Crispi, Questioni internazionali, Treves, Milano 1913, p. 289.

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plice «è un patto conservativo e non una società di profitti. L’invasione degli italiani nell’Abissinia [...] è atto aggressivo e come tale non rientra formalmente sotto la copertura del Trattato della Triplice»89. Nonostante alcuni tentativi in proposito, il contenzioso con Parigi non accennava a ridursi, anche perché i francesi esigevano una modificazione integrale della nostra politica estera. Nell’agosto del 1895 il governo repubblicano denunciò il trattato italo-tunisino del 1868, che garantiva dei privilegi agli italiani residenti in Tunisia. Crispi si sentiva tradito e isolato: «la Francia ci fa la guerra dappertutto. In Europa ed in Africa noi ci troviamo il governo francese di fronte in ogni occasione e sempre malevolo. Dicesi che la Triplice fu stipulata per mantenere la pace. Per noi è il contrario. La Triplice per noi è la guerra. In Italia siamo insidiati per mezzo del Vaticano, e fuori con tutti i mezzi che può adoperare una diplomazia astiosa e sottile»90. In Africa, alla denuncia del trattato di Uccialli (febbraio 1893) da parte di Menelik era seguita una controversia diplomatica, tanto più che anche Rudinì, dopo una prima fase di «raccoglimento», aveva ripreso la tradizionale politica «tigrina». A questo scopo erano stati utilizzati contro il negus i contrasti tra le varie tribù, per ottenere il maggiore vantaggio possibile. Ma fu con il ritorno di Crispi al governo che riprese l’espansionismo italiano. La conquista di Cassala, nel luglio 1894, da parte di Baratieri (dal febbraio 1892 governatore civile e comandante militare in Eritrea), rinnovò le speranze di un nuovo vigore coloniale. Crispi, facendosi scudo dell’ambizioso attivismo del generale e rinunciando ad un chiaro programma coloniale, preferiva utilizzare l’Africa come camera di compensazione delle crescenti frustrazioni in politica interna ed estera. La presa di Cassala ne rappresentava l’esempio più evidente, poiché, priva di risvolti strategici, aveva finito per allarmare ulteriormente Menelik. Nessuno si preoccupò delle conseguenze di quella mossa e si esaltò la vittoria come «un colpo gravissimo ai peggiori nemici dell’umanità»91.

89  Citato in A. Torre, La politica estera dell’Italia dal 1896 al 1914, Patron, Bologna 1960, p. 46. 90  D. Farini, Diario, vol. II, Bardi Editore, Roma [1945], p. 840. 91  Così Baratieri a Crispi nel luglio 1894, citato in T. Palamenghi-Crispi, Francesco Crispi: la prima guerra d’Africa. Documenti e memorie dell’Archivio Crispi ordinati da T.P.C., Treves, Milano 1914, p. 288.

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Il governatore dell’Eritrea aveva in questi mesi rafforzato la propria autonomia operativa e di fatto, dal febbraio 1894, aveva assunto un potere quasi dittatoriale nella colonia, svincolandosi dai controlli ministeriali grazie all’introduzione di un bilancio autonomo per l’Eritrea. Limitato nelle sue velleità di allargamento dei confini durante i precedenti governi, con il ritorno di Crispi Baratieri fu in grado di riproporre sia le proprie convinzioni espansionistiche, sia le aspirazioni autoritarie all’interno di una colonia «impossibile [da] governare colle guarentigie statutarie»92. Cinque mesi dopo la conquista di Cassala, nel fragile edificio coloniale comparvero le prime crepe. Il drastico indemaniamento delle terre in Eritrea, accelerato da Crispi in vista di una colonizzazione di contadini italiani, aveva esasperato le popolazioni locali. Tale stato di inquietudine non funzionò, né a Roma né a Massaua, da campanello d’allarme. Baratieri iniziò la conquista del Tigrè. Sembrava la definitiva affermazione della potenza italiana in Africa: il Re «ne è raggiante»93, Baratieri venne promosso tenente generale ed i giornali militari parlavano di «un raggio di gloria [che] ci viene dall’Africa»94. Tali manovre tuttavia convinsero il negus e i diversi ras, sino ad allora divisi, a ricompattarsi per far fronte alla sete di conquista italiana. A questo punto il governatore dell’Eritrea si rese conto che, per tenere stabilmente il confine raggiunto con le ultime conquiste, sarebbero stati necessari quei rinforzi che però Crispi, per quanto personalmente favorevole, in quel momento non poteva concedere, per l’opposizione di Sonnino e per timore di complicazioni in vista delle elezioni. Il presidente del Consiglio, d’altra parte, anche approfittando del fatto che comunque Sonnino non aveva preclusioni di principio all’espansione, premeva con sempre maggior vigore sia verso i propri compagni di governo sia verso gli oppositori dell’Estrema, affinché il meccanismo delle facili vittorie coloniali non venisse interrotto proprio mentre i successi stavano accendendo l’entusiasmo patriottico degli italiani. Il breve soggiorno di Baratieri in Italia, durante l’estate, aveva mostrato come sia il paese sia il Parlamento, dove il governatore 92  Citato in A. Del Boca, Oreste Baratieri, una parabola coloniale, in Id. (a c. di), Adua. Le ragioni di una sconfitta, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 372. 93  D. Farini, Diario, cit., vol. I, p. 631. 94  Citato in N. Labanca, In marcia verso Adua, Einaudi, Torino 1993, p. 316.

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della colonia eritrea ebbe un’entusiastica accoglienza, potessero subire il fascino dell’immagine di un «audace condottiero». Per un attimo il generale apparve addirittura quell’uomo nuovo in grado di rivitalizzare la morta gora della politica italiana. Tra alcuni intellettuali anticrispini c’era persino chi fantasticava di «un triumvirato Rudinì-Cavallotti-Baratieri»95. L’Estrema Sinistra nel suo complesso mantenne comunque un atteggiamento piuttosto freddo nei suoi confronti, in polemica con la politica coloniale governativa. Il rientro in patria del governatore in effetti fu sfruttato soprattutto dal presidente del Consiglio, intenzionato a rafforzare la propria immagine. Crispi poteva ritenersi soddisfatto del brindisi con cui Menotti Garibaldi salutava il generale come colui che aveva rinverdito la memoria del padre, mentre Baratieri alzava il calice in onore del presidente del Consiglio, definendolo la mente dell’impresa dei Mille. Tra un banchetto e l’altro, cavalcando l’onda emotiva, Baratieri ottenne i rinforzi desiderati. Non chiara continuava invece a rimanere la linea di condotta che si intendeva seguire in Eritrea. In un discorso alla Camera del 26 luglio, prima della chiusura estiva, Crispi aveva rassicurato i deputati di non volere una politica di conquista e di «espansione neppure». I timori della Camera, in larga parte contraria a nuove occupazioni, erano relativi alla scarsa sincerità del governo il quale – disse il liberale Bonin – «per non affrontare l’impopolarità che in Italia accompagna l’espansione coloniale e per non allarmare i contribuenti, [potrebbe finire per fare] quella politica [d’espansione] con mezzi insufficienti». Il governo comunque ottenne la fiducia sulla parola. Al complesso gioco ovviamente non partecipavano solo Crispi e il Parlamento. L’autonomia di Baratieri era un fattore non trascurabile e comunque funzionale al desiderio di Crispi di garantirsi quella libertà di «colpi di mano», unica strategia politico-militare a lui congeniale. Rientrato in Africa, Baratieri si sentì libero di rafforzare i confini mediante ulteriori acquisizioni, avanzando nuovamente nel Tigrè e costringendo il ras Mangascià a ritirarsi verso Sud. Non pochi erano, a questo punto, gli elementi di debolezza dell’intera impresa. Alle divisioni interne al governo e tra questo e il Parlamento, allo scollamento tra le necessità «politiche» di Roma e quelle «militari» di

  Citato in L. Dalle Nogare, S. Merli (a c. di), L’Italia radicale, cit., p. 118.

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Massaua, si affiancavano le ristrettezze nei rifornimenti di armamenti e salmerie oltre all’endemica rivalità tra gli alti ufficiali presenti in Eritrea. Menelik a quel punto rinunciò all’atteggiamento prudente mantenuto sino ad allora, riuscendo, nonostante la carestia abbattutasi sull’Etiopia, a raccogliere 150.000 uomini con cui, all’inizio di novembre, mosse da Addis Abeba verso il Tigrè. Alla decisione del negus contribuì anche il fatto che attraverso Gibuti poteva ricevere rifornimenti di armi e munizioni dalla Francia. Il 9 novembre, appena ricevuta la notizia dell’avanzata del negus, Baratieri ordinò al generale Arimondi, comandante delle truppe dislocate sul Tigrè, con cui si trovava in profondo dissidio sulla linea strategica da seguire, di inviare un contingente sulla montagna dell’Amba Alagi, al limite meridionale del territorio da poco occupato; qui, il 3 dicembre 1895, il maggiore Pietro Toselli, a capo di un contingente di 2.500 uomini, fu sopraffatto dall’avanguardia abissina del ras Makonnen, forte di circa 36.000 unità. Il governo cercò di ridimensionare il significato di quella sconfitta, ma in Parlamento le Estreme attaccarono violentemente. Imbriani ricordò che Crispi aveva tradito la promessa di seguire una politica coloniale di raccoglimento. Andrea Costa, dopo aver collegato l’impresa alla necessità di Crispi di sfuggire alla questione morale, concludeva che i socialisti non erano disposti a dare «né un uomo né un soldo» per continuare la «criminosa avventura africana». Cavallotti invece, prima di rassegnarsi «ai nuovi ed amari sacrifici», chiedeva la testa di Crispi accusato di «ribellione al Parlamento». Il presidente del Consiglio ribadì di non aver mancato alle promesse fatte in luglio, definendo le avanzate successive un «movimento strategico». Dopo aver presentato, a nome di Sonnino, «un disegno di legge per un maggior assegnamento di venti milioni di lire per le spese d’Africa», due giorni dopo Crispi, con lo slogan «né viltà, né imprudenze», fece appello alla sua maggioranza affinché concedesse «i mezzi per rifare la nostra posizione con la promessa di nessuna politica di espansione». Strappata la fiducia e i venti milioni, il presidente del Consiglio prorogò la sessione»96. La chiusura della Camera il 12 gennaio finì tuttavia per rinfocolare l’opposizione. Anche il Senato, roccaforte crispina, cominciava

  G. Arangio-Ruiz, Storia costituzionale, cit., p. 523.

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ad essere inquieto nei confronti del ministero. Crispi dal canto suo sembrava determinato a portare sino in fondo il suo progetto, nonostante da più parti giungessero segnali di ostilità alla prosecuzione del conflitto: «non bisogna ingolfarsi in una guerra troppo grossa. Pensa che mezza Italia non la vuole», avvertiva Farini, non sospettabile certo di antiafricanismo. Il presidente del Consiglio tuttavia preferiva immaginarsi alla testa di una nazione assetata non solo di rivincita, ma anche di conquista: «il paese non segue i suoi rappresentanti; esso vuole la guerra»97. A questo fine Crispi, contro l’opinione del ministro degli Esteri, operò per far fallire le trattative di pace avviate dal ras Makonnen e intensificò la corrispondenza telegrafica «privata» con il vecchio compagno d’armi garibaldino allo scopo d’incitarlo ad una rapida riscossa, contraddicendo quello che gli scriveva nei più cauti dispacci pubblici. Una densa cappa di ambiguità stava calando sulle già precarie condizioni della colonia. Lo stesso Baratieri, oscillante tra una linea strategica difensiva ed una più aggressiva, disorientato telegrafò pregando che le «istruzioni ministeriali sieno concordi»98. In realtà Crispi non intendeva concordare alcunché: «io non credo – scrisse il senatore Finali – che siasi mai discusso in consiglio dei ministri un programma coloniale, co’ suoi limiti, co’ suoi fini co’ suoi mezzi»99. I rinforzi (circa 40.000 uomini inviati nei primi mesi del 1896) furono di fatto imposti dal clima di eccitazione e umiliazione patriottica che Crispi seppe sfruttare per mettere in difficoltà le opposizioni. In questo modo inoltre egli intendeva aumentare la pressione psicologica sul governatore, che in realtà non sapeva che farsene di quei rinforzi improvvisati: «La campagna a fondo [...] esige preparazione di qualche mese e mezzi che non si possono improvvisare»100. Una prospettiva improponibile per Crispi, come al solito poco interessato al dettaglio tecnico, il quale nei dispacci privati preferiva battere sui tasti dell’«onore» e della «urgenza». Pur coincidendo nella sostanza, gli obiettivi del presidente del Consiglio e del governatore differivano nella forma perché Baratieri, di fronte al primo concreto contatto con le capacità belliche degli abissini, realizzò tardivamente   D. Farini, Diario, cit., vol. II, p. 843.   O. Baratieri, Memorie d’Africa (1892-1896), Melita, Genova 1988, p. 258. 99  G. Finali, Memorie, Lega, Faenza 1955, pp. 588-589. 100  O. Baratieri, Memorie, cit., p. 265.

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che quanto ora gli si domandava da Roma richiedeva tempo e organizzazione. L’incertezza che accompagnò la sua azione era in fondo l’esito inevitabile di un decennio di sottovalutazione razzistica delle potenzialità del nemico. Mancavano dati e conoscenze sull’Etiopia e persino attendibili rilevamenti topografici. Persa la fiducia nelle capacità del governatore, Crispi si era deciso a sostituirlo con il generale Baldissera. Il passaggio delle consegne venne tuttavia prima ritardato e poi avviato segretamente: l’ennesima pericolosa ambiguità che finì per minare ancora di più la già fragile posizione del comando militare coloniale. Frattanto in Abissinia, al posto dell’attesa vittoria, giunse da quelli che il ministro degli Esteri, alla Camera, continuava a chiamare «barbari d’Africa», una seconda umiliazione: il 19 gennaio 1896 le schiere di Menelik, bene armate, avevano infatti conquistato il forte di Makallè. L’eco di queste sconfitte fu enorme. Il clima politico in Italia divenne torrido e fuoriuscì in modo significativo dai ristretti circoli politici e parlamentari per divenire oggetto di contrapposte passioni. I cattolici intransigenti, al pari dei socialisti, avevano accentuato l’asprezza della loro opposizione alla politica coloniale di Crispi. Lo storico Gioacchino Volpe, «allora giovane studente a Pisa, ricorda, da attore, le baruffe e i pugilati fra i contrapposti gruppi studenteschi, ‘crispini’ e ‘anticrispini’, ‘africanisti’ e ‘anti-africanisti’, ‘megalomani’ e fautori del ‘piede in casa’, simpatizzanti per Francia e odiatori di Francia, i cui giornali, pieni di velenose vignette, facevano bella e impune mostra di sé nelle nostre edicole [...]. Era la prima volta che la gioventù italiana si trovava davanti a problemi gravi, e, in certo senso, propri, e prendeva caldamente posizione»101. Tali passioni, divampando, illuminavano inesplorati orizzonti di un nuovo conflitto, in cui la nazione non era più un indiscusso denominatore comune, ma entrava nell’agone politico come attivo strumento dell’incerto processo di nazionalizzazione delle masse. Per la prima volta l’idea della grandezza della patria veniva commisurata ad una concreta politica di potenza; ma soprattutto prendeva corpo un’immagine di nazione come principio d’ordine, in virtù della stretta connessione esistente tra la prima vera guerra di conquista

101  Citato in G. Volpe, Italia moderna, 3 voll., vol. I, 1815-1898, Sansoni, Firenze 19732, pp. 290-291.

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italiana, la richiesta di proroga delle leggi eccezionali e la chiusura del Parlamento. Una prospettiva «mobilitante» chiaramente sgradita all’Estrema e ai cattolici, che tuttavia incontrava le resistenze anche dei moderati, preoccupati del costo della «pazzia» crispina in termini sia istituzionali sia finanziari. Il contrasto esploso sui giornali e nelle piazze doveva per forza aggravare i già tesi rapporti all’interno del gabinetto. I ministri non comunicavano tra loro, e quando lo facevano era per polemizzare. Crispi era ormai ai ferri corti con Sonnino e Saracco dall’inizio del 1896. Il primo aveva già minacciato le dimissioni dopo la sconfitta ad Amba Alagi per non essere stato consultato sui rinforzi da inviare a Massaua; il secondo, invece, manifestò in più occasioni l’intenzione di uscire dall’esecutivo se non si fosse riconvocato il Parlamento. Il ministro del Tesoro annotò quasi quotidianamente le convulsioni di un gabinetto dilaniato tra la necessità patriottica di non «scoprire» il governo in un momento così delicato e l’esigenza politica di non fuoriuscire dall’orbita costituzionale. Le spese crescenti per l’Africa richiedevano secondo Sonnino una chiara definizione degli obiettivi da raggiungere, in mancanza dei quali il ministro toscano si riservava «libertà d’azione», in quanto «oramai le spese soverchiano enormemente le autorizzazioni avute» dal Parlamento. Crispi però non sentiva ragioni, e in un burrascoso colloquio con il suo ministro disse a chiare lettere «che si doveva vincere, che si doveva finirla una volta per sempre, che lui il parlamento non l’avrebbe chiamato»102. In realtà, per impedire le dimissioni di Saracco, il presidente del Consiglio, con la mediazione del Re, annunciò la riapertura delle Camere per il 5 marzo. Crispi giocò un’ultima carta col governatore – prima di sostituir­ lo – e, senza nemmeno averlo informato della sua estromissione, il 25 febbraio gli inviò uno sferzante telegramma che contribuì, unitamente a qualche indiscrezione sulla sua imminente destituzione, a spingere Baratieri verso una clamorosa prova di forza: Codesta è una tisi militare, non una guerra: piccole scaramucce, nelle quali ci troviamo sempre inferiori di numero dinanzi al nemico; sciupio di eroismo senza successo. Non ho consigli a dare perché non sono sul luogo, ma constato che la campagna è senza un preconcetto e vorrei fosse

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  S. Sonnino, Diario, 3 voll., vol. I, 1866-1912, Laterza, Bari 1972, p. 231.

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stabilito. Siamo pronti a qualunque sacrificio per salvare l’onore dell’esercito ed il prestigio della monarchia103.

La mattina del 1° marzo quattro brigate di circa 16.000 uomini, di cui poco meno di seimila indigeni (ascari), separate e senza collegamenti, dopo una marcia notturna verso le alture attorno ad Adua vennero accerchiate dagli abissini, il cui numero preponderante (oltre 100.000 armati di ottimi fucili) e la maggiore dinamicità costrinsero gli italiani a una rovinosa ritirata malcondotta dallo stesso Baratieri. Nei diversi fronti in cui si frammentò la battaglia attorno ad Adua persero la vita circa 290 ufficiali, 4600 soldati italiani e 1000 ascari. I prigionieri italiani furono 1900, e 800 gli ascari. Gli scontri erano stati particolarmente cruenti, come si evinse anche dall’alto numero di caduti abissini, stimato attorno ai 10.000. La ricostruzione degli avvenimenti della giornata non lasciava spazio a dubbi circa le gravi responsabilità e l’inadeguatezza dei comandi militari per quella che i testimoni diretti definirono concordemente una «carneficina». Non si erano ancora spenti gli echi delle cannonate quando iniziò un imbarazzante scaricabarile circa le responsabilità della disfatta, che il presidente del Consiglio riteneva dovessero ricadere solo su Baratieri. Il generale, nonostante avesse tentato di gettare ingiustamente la colpa «sui soldati bianchi che si sarebbero lasciati prendere dal panico»104, venne arrestato il 21 marzo e processato da un tribunale militare per negligenze e abbandono del comando. Il tribunale, interessato a salvare l’onore dell’esercito, emise un verdetto di assoluzione ma censurò il fatto che un incarico così delicato fosse stato affidato «ad un generale che si dimostrò al disotto delle esigenze della situazione»105. In Italia le reazioni alla notizia della sconfitta, la più grande che un esercito europeo avesse mai subìto in Africa, furono principalmente di orrore e sconforto. In molte città si ebbero manifestazioni e tumulti al grido di «viva Menelik». Benché non mancassero voci favorevoli alla prosecuzione della guerra, in tutto il paese si moltiplicarono le spontanee agitazioni popolari che non di rado degenerava  Citato in N. Labanca, In marcia, cit., p. 352.   S. Sonnino, Diario, cit., p. 257. 105  Citato in A. Del Boca, Oreste Baratieri cit., p. 384. 103 104

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no in disordini contro l’impresa coloniale. Nonostante il presidente del Consiglio fosse intenzionato a resistere, anche i suoi fedelissimi gli consigliarono le dimissioni. Farini, preoccupato di preservare la Corona dal clima di contestazione esistente, era ormai «contrarissimo» a Crispi, mentre più di cento senatori «tra i quali molti non usi a scomodarsi pei lavori parlamentari, si recarono a Roma, e, radunati privatamente, approvarono una risoluzione, chiedente un nuovo gabinetto»106. Lo statista siciliano era comunque convinto di poter ottenere dal Re un reincarico, mentre Umberto si era ormai rassegnato all’idea di sacrificarlo. Alla Camera, riunitasi finalmente il 5 marzo, Crispi annunciò le dimissioni del governo. La grande tensione seguita per alcuni attimi alle sue parole si sciolse in un quasi generale tripudio allorché aggiunse che il Sovrano le aveva accettate. Un colpo durissimo per lo statista di Ribera, che parlò di «tradimento» del Re. Depretis (sia pure nella sostanza se non nella forma) prima e Crispi poi dovettero entrambi cedere le redini del potere in seguito a sconfitte militari patite dall’esercito coloniale italiano. Il fatto è che ambedue, sia pure in misura diversa, avevano voluto attribuire all’impresa africana un forte valore simbolico da giocarsi soprattutto al tavolo della politica interna. La «blindatura» trasformista della maggioranza a partire dal 1883 aveva favorito lo sviluppo di una più autonoma e aggressiva sfera dell’esecutivo, da tempo peraltro alla ricerca di uno spazio autonomo, svincolato per quanto possibile dalle pressioni regie e soprattutto dalle mediazioni parlamentari. La sfida coloniale, dunque, con il suo non irrilevante carico di ambiguità costituzionale, rappresentò per Depretis, e in particolar modo per Crispi, un’importante occasione per verificare il grado di autonomia dell’esecutivo nei confronti del Parlamento. In questo senso, quindi, è opportuno guardare alle imprese italiane d’oltremare anche alla luce del crescente e contraddittorio conflitto governo-Parlamento. L’esistenza di una consistente maggioranza legata a doppio filo alle sorti del governo e alla figura del presidente del Consiglio potrebbe indurre a ritenere il Parlamento, anche in questo nuovo ambito della vita pubblica, un semplice strumento di registrazione della volontà dell’esecutivo. Questo è vero solo in parte. Se si guardano gli avvenimenti dal punto di vista dell’opportunismo politico e delle lo-

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  G. Arangio-Ruiz, Storia costituzionale, cit., p. 524.

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giche di schieramento «geografico-notabilare», i governi non ebbero difficoltà a ottenere ciò che chiedevano. Persino le crisi successive a Dogali e Adua non ebbero una diretta sanzione parlamentare. Se poi si prendono in considerazione le diciassette più importanti votazioni su questioni coloniali avvenute alla Camera tra l’agosto 1885, dopo l’occupazione di Massaua, e il dicembre 1895, alla vigilia di Adua, si cercherà invano una sconfitta del governo. Molte di queste votazioni vertevano su stanziamenti di fondi e assestamenti di bilancio, ed erano spesso affiancate da esplicita richiesta di fiducia nell’azione dell’esecutivo in Africa, sempre accordata. Tuttavia, se andiamo ad analizzare i termini dei dibattiti e degli ordini del giorno che precedevano il voto alla Camera, scopriamo che il sostegno al governo era sempre garantito non solo in virtù di un impianto trasformistico privo di alternative, ma anche in funzione della costante promessa governativa di voler portare avanti in Africa una «politica di raccoglimento». Su questo equivoco, o forse per alcuni più semplicemente gioco delle parti, si fondò gran parte del rapporto tra governo e Parlamento sulla questione coloniale: la Camera raccomandava essenzialmente moderazione e raccoglimento («né abbandonare, né estendere»), il governo li prometteva, incassando fiducia e nuovi stanziamenti di fondi destinati teoricamente a obiettivi di difesa ma poi, non di rado, investiti in imprese politico-militari fuori dal controllo parlamentare e più in generale da quello dell’opinione pubblica. Formalmente, dunque, nessuno voleva una politica d’espansione, neppure il governo, ma questa opzione si trasformò spesso nella norma, sia pure con la giustificazione della necessità di procedere alla «difesa attiva» o alla «avanzata tattica», entrambe presentate come scelte essenziali per la sicurezza dei possedimenti esistenti. In nome dell’esigenza di riservatezza, necessaria quando erano in gioco operazioni militari, l’esecutivo chiese costantemente un’autonomia di azione che in realtà mirava alla politica del «fatto compiuto», cioè di scelte magari non condivise nella sostanza ma da cui, per motivi di prestigio, non si poteva più tornare indietro. Tale politica infatti permetteva di tacitare, se il «fatto» era favorevole, le eventuali obiezioni parlamentari o di creare, se sfavorevole, le condizioni per fare quadrato attorno al governo, al fine di fronteggiare il pericolo incombente sull’onore della patria. Gli eventi negativi dunque non rappresentarono mai un’occasione per sfiduciare il governo, che anzi coglieva l’occasione

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per rilanciare la sfida sul piano militare e finanziario, con l’obiettivo di «rialzare la bandiera caduta». Tutto ciò, comunque, non significa che la Camera subisse i rovesci coloniali passivamente. In tali frangenti, infatti, oltre alle aspre polemiche dell’opposizione, si poteva notare nelle votazioni di fiducia una sensibile riduzione della maggioranza, mentre questa tornava a dilatarsi di fronte alla richiesta di stanziamenti straordinari per «maturare la nostra rivincita». Dopo Dogali, ad esempio, più del 40% dei deputati non votò la fiducia al governo mentre Crispi, tre mesi prima di Adua, aveva ricevuto dalla Camera una sorta di segnale del crescente disagio causato dalla sua politica coloniale (più di un terzo dei deputati in quell’occasione non gli accordò la fiducia, contro l’11,7 del 1888 e il 23,7 del 1890). Rudinì peraltro, nel 1891, con la sua proposta di assestamento del bilancio in funzione di una politica di raccoglimento, aveva avuto, non a caso, solo il 17,3% di voti sfavorevoli. Dunque gli «esecutivi coloniali» di Depretis e Crispi avevano chiesto autonomia d’azione facendo leva sulla necessità di difendere l’onore dell’Italia in Europa e sulla eccezionalità del frangente: c’era sempre, come abbiamo visto, un evento per cui non era il momento di discutere ma soltanto di «virilmente provvedere, salvo a far più tardi le discussioni intorno alla politica coloniale» (Depretis), o in cui il presidente del Consiglio poteva appellarsi ai deputati chiedendo di essere lasciato «tranquillo, se volete che faccia presto; altrimenti non arriveremo più alla fine» (Crispi). I problemi sollevati dai deputati, non necessariamente dell’opposizione, erano per lo più relativi ai fini poco chiari delle politiche coloniali governative, alla mancata consultazione del parlamento da parte dell’esecutivo e all’eccesso di spesa. Raramente, anche tra gli uomini dell’Estrema, emersero questioni di diritto internazionale o tematiche francamente anticolonialiste. Paradossalmente, ma non troppo, il tema dell’opportunità di tale impresa coloniale metteva invece tutti d’accordo. Nessuno, tranne Depretis e Mancini, aveva ritenuto sensata strategicamente l’occupazione di quella porzione d’Africa. Per questo tutti potevano affermare di «averla disapprovata», e dunque subita. Dopo la morte di Depretis, il «peccato originale» del colonialismo italiano non aveva più responsabili e quindi anche il più zelante tra i molti convertiti all’ideale coloniale poteva comunque dissociarsi da come era stato concretamente realizzato, salvo poi difenderne i risultati sulla base del fatto compiuto.

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La Camera era dunque, come affermavano molti esponenti governativi, corresponsabile delle direttive degli «esecutivi coloniali»? La risposta non è univoca, esattamente come non univoco era il ruolo dell’Assemblea elettiva. Walter Bagehot, parlando della Camera dei Comuni, poteva distinguere cinque diverse funzioni, la principale delle quali riteneva fosse quella direttamente politica di «scegliere» e mantenere in carica il primo ministro. Da questo punto di vista, dunque, per quanto riguarda la politica coloniale italiana, la Camera dei deputati sottoscriveva politicamente le scelte del governo con l’obiettivo di mantenere in carica – per interesse opportunistico, mancanza di alternative o reale condivisione, in questa sede non fa differenza – presidenti del Consiglio che nei fatti si sentivano liberi di operare diversamente da quanto promesso. Il deputato che esprimeva fiducia nella politica coloniale di Crispi, le cui idee e il cui temperamento non erano mai stati dissimulati, non poteva non essere politicamente responsabile del fatto che, nonostante le promesse del contrario, l’esercito italiano in Africa continuasse ad avanzare. Se invece osserviamo la Camera da altri punti di vista (quelli che Bagehot definiva «funzione espressiva» – esprimere l’opinione del paese su tutti gli argomenti trattati – «funzione pedagogica» – «insegnare» alla nazione ciò che non sa – e «funzione informativa» – far sapere al paese opinioni «altre» con cui fare i conti, e che senza la cassa di risonanza del Parlamento non si conoscerebbero107), ci rendiamo conto che il quadro appare molto più mosso. Innanzitutto non si dovrebbe dimenticare il fondamentale ruolo di mediazione politica giocato dalla Camera italiana che, data la natura e le origini del paese, operava essenzialmente come luogo della rappresentanza e della compensazione tra interessi regionali conflittuali. Vista come istituzione dibattimentale-pedagogica, infatti, indipendentemente dal suo pur decisivo ruolo di legislatore e sostenitore del governo, la Camera diede voce al disagio di una parte del paese e di non pochi settori sociali convinti che la vera Africa l’Italia ce l’avesse in casa, e dunque sarebbe stato opportuno iniziare da lì il processo di «civilizzazione». In questo senso, quindi, la Camera operò, con i suoi dubbi sulla costituzionalità e sulla correttezza di bilancio, come elemento di contrasto che costringeva i governi a una non trascurabile dissi107  Cfr. W. Bagehot, The English Constitution, C.U.P., Cambridge 2001 (1867), pp. 95-97 (trad. it. La Costituzione inglese, Il Mulino, Bologna 1995, pp. 142-144).

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pazione di energia politica. Si pensi solo al fatto che, nonostante la certezza del sostegno della maggioranza, Crispi preferì prolungare la chiusura della Camera all’inizio del 1896 (suscitando seri dubbi e polemiche anche tra i propri ministri), piuttosto che affrontare l’ennesimo acceso confronto con gli oppositori. Per questo si può concludere che, se dal punto di vista politico la Camera avallò, tra il 1882 e il 1896, le scelte dei governi in ambito coloniale, come organo istituzionale essa ebbe invece, nel complesso, un ruolo dissuasivo nei confronti di possibili eccessi degli «esecutivi coloniali». In sostanza, il comportamento della Camera su un tema «eccentrico» rispetto alla tradizione parlamentare italiana mise in luce con maggior chiarezza quella sorta di schizofrenia che caratterizzava la cultura della classe dirigente italiana, sempre divisa tra la percezione dei limiti della giovane nazione e la tentazione dell’immaginarsi grande potenza. Con la definitiva uscita di scena di Crispi, aveva termine il progetto politico di governo più ambizioso che fosse stato portato avanti in Italia dopo quello di Cavour. Le basi di quel progetto andavano ricercate nel legame che lo statista siciliano aveva mantenuto e poi sviluppato in modo originale con quella cultura mazziniana e azionista che disprezzava gli interessi materiali del presente in nome di più alte finalità morali. In questo senso Crispi, continuando a dar voce anche dai banchi dell’esecutivo all’insoddisfazione per il Risorgimento «tradito», incarnò nella sua figura non solo l’immagine del potere nella sua accezione più classica ma anche quella della fiera «opposizione» al tradizionale assetto politico. La sua direzione della cosa pubblica fu sempre tutta giocata sull’affermazione di una forte volontà di potenza, il cui obiettivo trascendeva la pura difesa degli equilibri esistenti. Al contrario si trattava, per il politico di Ribera, della necessità di fuoriuscire da una visione «micromane» dell’unificazione (incentrata sulle «piccole virtù» del raccoglimento e del benessere della vita materiale) per restituire all’Italia un vero ordine morale all’interno e «il posto che l’è dovuto» nel mondo108. Dunque «l’unità sarebbe inutile se non dovesse portarci forza e grandezza»109. Con Crispi, per la prima volta dalla presa di Roma, si tornava a parlare di «missio  F. Crispi, Pensieri e profezie, cit., p. 168.   F. Crispi, Ultimi scritti e discorsi extra-parlamentari (1891-1901), L’Universelle, Roma 1912, p. 309. 108 109

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ne dell’Italia». Questo toglieva all’idea di nazione quella patina di condivisa astrattezza, depositatasi dopo l’esaurirsi delle polemiche postunitarie sulla nazione armata, e la trasformava in un corrosivo e conflittuale agente politico. Di fronte alla grave crisi economica, alla crescita delle ansie per la questione sociale e alle difficili condizioni internazionali, Crispi finì per accentuare la componente volontaristica della sua azione di governo, proponendo se stesso come garante della conservazione del principio nazionale unitario incarnato dalla monarchia: «io sono un principio, io sono un sistema di governo, dal quale può dipendere l’avvenire della patria»110. Una soluzione cesaristica che intendeva fare del primato del governo non tanto un metodo codificato o una polemica dottrinaria, quanto una necessità pedagogica nei confronti delle istituzioni, dimostratesi non all’altezza dell’eredità risorgimentale. Un governo «fortemente costituito» avrebbe posto un freno alle scomposte pretese dei «ventri», fossero essi borghesi o plebei, incapaci di andare oltre i propri meschini interessi, ben rappresentati, d’altronde, dalle «alchimie parlamentari» e dalle «cospirazioni» che si ordivano nei meandri di Montecitorio. Il governo parlamentare in quanto tale rimaneva per lo statista siciliano una prospettiva ideale ma non adatta per l’Italia, paese in formazione dove tale sistema non poteva ancora essere preso «in considerazione» poiché «manca[va]no le abitudini della libertà, la disciplina»111. Crispi aveva offerto una versione «romantica», tutta incentrata sulla sua persona e dunque difficilmente ripetibile, del primato della nazione. La sua fama di patriota e di leader della Sinistra aveva permesso la legittimazione politica di un’idea di nazione sino ad allora solamente vagheggiata da intellettuali e spiriti inquieti come Alfredo Oriani e sinteticamente tratteggiata, all’inizio del 1893, dal costituzionalista Zanichelli nei termini di «ente eterno, al cui bene il popolo, come aggregato inorganico di individui, deve tutto sacrificare». Un’immagine netta, contrapposta a quella ritenuta allo stesso tempo anarchica e conservatrice, di chi «confonde[va] la nazione cogli individui componenti il popolo, rinnovando così [...] la dottrina pura e semplice del contratto sociale»112. Lo Stato,

  F. Crispi, Pensieri e profezie, cit., p. 202.   Ivi, p. 45. 112  D. Zanichelli, L’ufficio del principe in uno stato libero, in «Rassegna di Scienze sociali e politiche», 1-3-1893, p. 19. 110 111

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d’altronde, non era di tutti: «sotto il regime parlamentare – scriveva Crispi nel 1895 – giova rifiutare ai sovversivi dell’ordine attuale i mezzi che la legge ci dà per lo svolgimento politico nazionale»113. Il moltiplicarsi degli interessi in gioco era infatti percepito come elemento di disintegrazione che Crispi, vista la scarsa efficacia dei processi di nazionalizzazione delle varie componenti della borghesia italiana, pensava di poter arrestare richiamando virtualmente tutti «alle armi». Una coscrizione che intendeva raccogliere borghesi e plebei, inquadrati per gerarchia di consapevolezza patriottica, attorno al «sacro» dovere di trasformare l’entità sorta nel 1870 dalla «distruzione di sette stati» in una rispettata potenza europea. Le quistioni di ricostituzione di partiti, le lotte di cifre per l’assetto dei bilanci, le promesse e lusinghe per la soluzione del problema sociale sono – annotò Crispi – argomenti fatti per illudere la pubblica opinione. Ormai a codeste logomachie bisogna opporre i fatti e dei fatti il più logico, il più serio è quello dell’esistenza nazionale, la quale è messa in pericolo dai politicanti di mestiere [...]. Or base dell’esistenza nazionale è la forza nazionale114.

A Crispi tuttavia la dimostrazione di tale forza non riuscì, e proprio la mancanza di quei fatti compiuti, a lui tanto cari, determinò la fine del suo progetto politico. Un simile epilogo comunque dovette apparire a Umberto non tanto la condanna di un più complessivo disegno politico, quanto la disfatta di un approccio «garibaldino» e di Sinistra al tema dei rapporti tra i poteri costituzionali. La tragica vicenda di Adua, in altre parole, lasciava impregiudicata la possibilità di riprendere la questione, magari in un frangente migliore e in termini più cauti. In quest’ottica si può dire che la caduta del governo sulla questione coloniale segnava paradossalmente anche l’inizio del declino politico di Cavallotti. Il leader radicale, infatti, non era stato in grado di trasformare l’attacco a Crispi e al suo entourage in una vera questione morale, ovvero, a quel punto, politico-istituzionale. Egli aveva preferito

113  Citato in F. Fonzi, La trasformazione dell’organizzazione politica nell’età crispina, in Problemi istituzionali e riforme nell’età crispina, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma 1992, p. 70. 114  F. Crispi, Pensieri e profezie, cit., p. 206.

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privilegiare il terreno dell’invettiva personale, scelta questa congeniale alla sua sensibilità di moralista integerrimo ma per molti versi anche funzionale alle limitate risorse parlamentari e organizzative dei radicali. Restringendo il proprio ruolo a quello di implacabile avversario personale di un «ministro disonesto», Cavallotti aveva trovato il modo di rafforzare la propria immagine di leader dell’opposizione senza pregiudicare in modo irreparabile i rapporti con il Sovrano e di conseguenza un possibile futuro incarico di governo. In questo senso la questione morale cavallottiana era destinata ad arenarsi tra le secche del moralismo. Infatti, al di là della generosità e degli alti ideali del protagonista, il furibondo attacco a Crispi si tramutò nel migliore parafulmine per quel fitto intreccio di interessi che da molti anni univa ambienti politici, finanziari e circoli di corte. Non erano pochi gli esponenti della borghesia liberista che si sentivano solidali con i socialisti nel considerare quei torbidi collegamenti alla stregua di una «camorra affaristico-politica»115 dotata di una percezione patrimoniale del potere. Cavallotti, dunque, volente o nolente, aveva contribuito a trasformare Crispi in un comodo capro espiatorio, quando in realtà già alla fine del 1895 dovette apparire sempre più chiaro negli ambienti politici che non era il Re a coprire Crispi, ma semmai il contrario. Comunque, avvinghiati in duello mortale, i due contendenti stavano inconsapevolmente mettendo in scena lo spettacolo del tramonto della cultura radicale ottocentesca, posta sotto pressione dal tema non più eludibile dell’organizzazione dell’ingresso delle masse nello Stato. Al di là della vicenda crispina, la ripresa del grande tema ottocentesco della moralità nella sfera pubblica dovette apparire ai radicali un’occasione per dare una base «universalistica» a un programma politico privo di forti riferimenti alla questione sociale e che non poteva certo avvalersi di «leggi scientifiche», come quella socialista della lotta fra le classi. In fondo, a ben guardare, una borghesia dall’alto profilo morale era il presupposto di quello sviluppo che, nei progetti di ogni riformatore liberale, avrebbe dovuto fornire l’antidoto ai veleni della questione sociale. Carlo Romussi, uno dei radicali più rappresentativi del periodo, scriveva a questo proposito a Cavallotti, nel maggio 1895, invitandolo ad una nuova spinta organizzativa «che potesse anche trattare a tu per tu col partito prettamente socialista. 115

  A. Labriola, Storia di dieci anni 1899-1909, Feltrinelli, Milano 1975 (1910), p. 15.

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Fra i due, pare a me, dovrebbe esservi solo questa diversità: che i socialisti mettono in seconda linea la politica, noi la mettiamo avanti, perché la politica nostra è la morale, è l’aroma che purifica e conserva, e l’interesse materiale viene dopo»116. Imbriani gli faceva eco, il 13 giugno, ricordando alla Camera che la base di quell’assemblea avrebbe dovuto essere il sentimento morale, «perché la morale è la migliore scienza politica, è la scienza delle scienze». Nei primi giorni dopo Adua il Sovrano, benché rassegnato all’idea di dover sacrificare il presidente del Consiglio, non appariva pienamente consapevole dei risvolti politici della sconfitta. Egli intendeva ricompensare lautamente Crispi, per «placarne» le ire e affidare poi il nuovo incarico a Saracco, ponendo le basi per una sorta di crispismo senza Crispi. Un’illusione destinata ben presto a dissolversi di fronte alle resistenze dei settori anticrispini, in particolare dei moderati settentrionali, intenzionati a raccogliere il frutto della lunga guerra al presidente del Consiglio uscente. La necessità di liberarsi di Crispi aveva infatti condotto Cavallotti, ma anche Giolitti e Zanardelli, a puntare le proprie carte su una «soluzione Rudinì», l’unica praticabile alla luce dei delicati equilibri parlamentari. Cavallotti, d’altronde, aveva visto lentamente sfumare, nel fronte dell’opposizione, quella centralità acquisita in occasione delle roventi polemiche sulla questione morale. Lo slittamento del confronto con l’esecutivo sul terreno coloniale aveva parzialmente indebolito il deputato di Corteolona anche perché lo schieramento radicale, come abbiamo visto, non mostrò sul tema grande compattezza. La crisi comunque prese in pochi giorni una piega niente affatto gradita al Re, il quale, costernato, dovette realizzare di non avere più difese di fronte alla tenaglia parlamentare radicale-moderata. «È sfatto; fa pietà – assicuravano i testimoni che ebbero occasione di avvicinare il Sovrano in quei giorni –. Egli parla di abdicare»117. La caduta di Crispi sul terreno della politica coloniale infatti, pur non rappresentando un ambito così insidioso come quello della questione morale, lasciava comunque sul Sovrano un’ombra di complicità con il presidente del Consiglio e questo dava fiato, anche in ambienti moderati, a sempre più estesi sentimenti di ostilità verso Umberto.

116

mio).

117

  Citato in A. Galante Garrone, Felice Cavallotti, cit., pp. 656-657 (corsivo   D. Farini, Diario, cit., vol. II, p. 875.

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Il Re dunque si vide costretto a rivolgersi a quel partito delle economie militari da lui sempre osteggiato. Economie che implicavano evidentemente non solo il pericolo di una riduzione dell’apparato militare ma soprattutto una diminutio del peso politico della Corona. «Non resta che Ricotti; per me – disse il Sovrano – è capitolare». Il generale piemontese Ricotti Magnani, l’ispiratore della proposta di riduzione dei corpi d’armata avanzata nel 1892 da Rudinì, aveva a lungo ricoperto negli anni ’70 e ’80 la carica di ministro della Guerra ed era ritenuto il più autorevole fautore delle economie nel bilancio militare. Attivo in gran parte delle guerre risorgimentali, Ricotti aveva sempre mantenuto una posizione ostile al militarismo esasperato e al colonialismo. Il suo nome rappresentava quindi presso l’opinione pubblica la concreta sconfessione del crispismo. Il generale comunque non volle la Presidenza del Consiglio, carica che intendeva lasciare a Rudinì riservando per sé esclusivamente il dicastero della Guerra. Umberto dovette rassegnarsi a chiamarlo ma, incaricando Ricotti e non Rudinì, volle dare un chiaro segnale che il nuovo ministero nasceva «suo malgrado» e che la partita era ancora tutta da giocare. A tal fine dichiarò pubblicamente «che non se la sentiva di firmare il decreto che nominasse Rudinì; che pensava se non era meglio che andasse via lui, il Re»118. In realtà il Sovrano non aveva alcuna intenzione di passare la mano, e anzi si pose alacremente al lavoro per ostacolare il nuovo governo. Ricotti, nel frattempo, aveva imposto come condizione per l’accettazione dell’incarico un piano «di riduzione delle unità elementari di tutte le armi (compagnie, squadroni e batterie) pur lasciando sussistere i 12 corpi d’armata»119. Nonostante il tentativo di salvare le apparenze con il mantenimento simbolico del consueto numero dei corpi d’armata, l’ultimatum di Ricotti fu un «rospo» difficile da ingoiare per il Sovrano, che aveva espressamente chiesto di non toccare in alcun modo «l’ordinamento militare». L’ennesima crisi extraparlamentare si concluse questa volta con una sconfitta del Sovrano. Una sconfitta destinata a pesare sulle scelte future della Corona, non tanto per i problemi relativi all’ordinamento militare e alle alleanze internazionali, questioni su cui il Re sapeva di disporre di un potere di veto, quanto per il più sfavorevole   S. Sonnino, Diario, cit., p. 263.   Citato in G. Manacorda, Introduzione a L. Pelloux, Quelques souvenirs de ma vie, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma 1967, p. xxxiv. 118 119

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rapporto di forze con il Parlamento. Dopo aver subìto il breve governo Rudinì del 1891, Umberto si era convinto non fosse più il caso di mettere in gioco le proprie prerogative, orientandosi verso una più attiva partecipazione alla formulazione dell’indirizzo politico del suo governo. Gli incarichi a Giolitti e a Crispi, con conseguente smantellamento degli antecedenti assetti della deputazione, non solo andavano in questa direzione ma fornivano un’ulteriore conferma di quanto scritto in quegli anni dal corrispondente romano del ­«Times», secondo cui in Italia «è il governo che fa la Camera, non la Camera che produce il governo»120. La disfatta di Adua dunque, se aveva messo fine alla carriera di Crispi, contribuì anche a sollevare dubbi e perplessità sul ruolo assunto dal Sovrano in quegli anni. Il quadro delle relazioni fra i poteri appariva ancora un sistema incompiuto, dove i rapporti di forza reali erano in grado di imporsi al di là del quadro giuridico e costituzionale. Ora mentre l’Estrema si rafforzava, i clericali guadagnavano prestigio, la situazione internazionale e la stessa Triplice non sembravano più così rassicuranti, alcuni settori parlamentari provarono a contendere al Re, con maggiore energia, il diritto di indicare la leadership politica del paese. L’inaspettata forza di reazione del Parlamento, in grado di piegare la volontà regia, sia pure fuori dall’aula di Montecitorio, rese evidente ai protagonisti che era necessario avviarsi a una resa dei conti. Per quale nazione i patrioti si erano battuti durante il Risorgimento? Per quella dei fautori di un interesse collettivo che si sarebbe dovuto sublimare in uno stato forte e in una volontà di potenza, rappresentati dal Re, o per quella dei sostenitori della centralità del Parlamento, inteso come difesa delle libertà civili ma anche interprete della pluralità più o meno egoistica degli interessi in gioco? La risposta a questa domanda avrebbe richiesto circa sei anni e un drammatico conflitto che dai palazzi della politica si sarebbe riversato nelle piazze del paese. Il vero pericolo, secondo l’opinione dei circoli di corte condivisa anche dal Re, non era rappresentato da Rudinì ma dal fatto che questi potesse fungere da «cavallo di Troia» per i ben più temibili Zanardelli, Giolitti e Cavallotti. Una vera e propria ossessione che avrebbe accompagnato Umberto I sino alla fine dei suoi giorni.

120

  Citato in D. Mack Smith, I Savoia re d’Italia, Rizzoli, Milano 1990, p. 132.

X UNA SFIDA EGEMONICA (1896-1901) «Non per il presente ma contro il passato» Il secondo governo del marchese di Rudinì, che entrò in carica il 10 marzo 1896 con una formazione preparata in larga parte da Ricotti, il quale si era riservato il ministero della Guerra, si presentava come espressione della confluenza dei gruppi moderati anticrispini e della Sinistra; dunque una compagine piuttosto fluida ed eterogenea, tenuta insieme dalla comune opposizione a Crispi e dalla consapevolezza della necessità di intraprendere un «nuovo corso» fatto di economie, raccoglimento e tutela delle istituzioni parlamentari. Esponendo il programma alla Camera, Rudinì confermò l’intenzione di continuare le ostilità solo allo scopo di arrivare ad una pace «confacente al nostro decoro». Non c’era alcuna intenzione di proseguire una politica di espansione con il rischio di «perdere la nostra posizione di grande Potenza in Europa». Per il resto, il programma elencava una serie di propositi che suonarono come musica per le orecchie degli anticrispini: migliorare le condizioni del nostro esercito, mettendone gli ordinamenti in rapporto con le somme iscritte in bilancio [...]; ristabilire il culto per le pubbliche libertà [...]; pacificare gli animi, conferendo però alla legge tutta la forza che è necessaria [...]. Nella politica estera seguiremo [...] quello indirizzo prudente che ci procurò amicizie ed alleanze, alle quali intendiamo serbare intatta la nostra fede.

I settori industriali settentrionali premevano perché lo Stato abbandonasse gli «abusi» interventistici crispini, sia in politica interna

X. Una sfida egemonica (1896-1901)

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che estera, garantendo piuttosto un «periodo di calma» e di stabilità per consentire al mondo imprenditoriale di trarre il massimo profitto dalla ripresa economica appena avviatasi. Il 20 maggio, il ministro Colombo disse alla Camera: «il paese ha bisogno di riposo [...] anche per quanto riguarda le riforme, perché quel continuo cambiare non giova». Sul tema della quiete e della «normalità» insisteva anche Cavallotti, e forse per tale ragione non fece della revisione degli accordi della Triplice Alleanza un punto dirimente. Al di sopra di tutto si profilava il primario bisogno di punire i responsabili del «delitto africano» e «rifare aria sana nella vita pubblica». Coerentemente con tali posizioni, Cavallotti dichiarò alla Camera di considerare «viventi anacronismi coloro che ancora mi parlano di Destra e di Sinistra e di ricostituzione dei partiti» e di accettare una sola distinzione, «quella tra liberali da un lato e reazionari dall’altro, ossia tra coloro che vogliono comunque andare innanzi e coloro che vogliono andare indietro». Giolitti, accontentato con l’ingresso nell’esecutivo di due fedelissimi, scrisse a Rudinì che poteva «contare in modo illimitato sull’appoggio» suo e dei suoi «amici»1. Tali iniziali consensi non preservarono Rudinì da quel clima di larvata sfiducia che ormai stabilmente accompagnava la sua figura, e dalla sensazione che la maggioranza da lui raggranellata significasse «soltanto questo, che la Camera non voleva più il Ministero Crispi»2. Volendo dare l’immagine di una svolta soprattutto nel settore della moralità pubblica, Rudinì sospese subito le sovvenzioni governative alla stampa e ordinò numerose ispezioni sull’uso dei fondi speciali dei ministeri, ma soprattutto decise di concedere la piena amnistia a tutti i condannati per i fatti della Sicilia e della Lunigiana. Durante i primi mesi la politica coloniale rappresentò per Rudinì il più valido salvacondotto per continuare a mantenere compatta l’eterogenea schiera anticrispina. Imbriani presentò in Parlamento una petizione sottoscritta da 100.000 cittadini per chiedere la fine dell’impresa africana. L’esistenza di quasi 2.000 prigionieri nelle mani di Menelik rendeva ancora più urgente una decisa azione del governo, tanto più che l’Eritrea si trovava ancora minacciata militar1  Citato in Quarant’anni di politica italiana: dalle carte di Giovanni Giolitti, 3 voll., vol. I, L’Italia di fine secolo, 1885-1900, a c. di P. D’Angiolini, Feltrinelli, Milano 1962, p. 256. 2  Rassegna Politica dell’1-4-1896, in «Nuova Antologia», CXLVI, 1896, p. 474.

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mente. Grazie all’invio di rinforzi Cassala fu liberata nell’aprile 1896 e Baldissera poté attestarsi sulla sponda settentrionale del Mareb. Il presidente del Consiglio decise di adottare una linea intermedia tra quella crispina della prosecuzione delle ostilità (che aveva non pochi consensi anche nel paese, stando ai circa 250 telegrammi di sindaci, associazioni di militari e reduci e gruppi studenteschi pervenuti alla segreteria del Sovrano con la richiesta di non lasciare «invendicato il sangue versato») e quella dell’Estrema che esigeva evacuazione totale. Spinto dall’esigenza di rintuzzare le rinascenti velleità dell’africanismo crispino, fece pubblicare i documenti diplomatici (i Libri Verdi) con cui si dimostrava l’atteggiamento irresponsabile del governo Crispi durante la guerra coloniale; ma volle tuttavia affiancare a questa mossa un segnale di disponibilità verso quelle componenti che, pur avendo fatto parte della cessata amministrazione, erano disposte a staccarsi da Crispi e avviò quindi le trattative con Luzzatti e Sonnino. Quest’ultimo, da parte sua, chiese a Rudinì di mettere fine alle recriminazioni, e soprattutto di opporsi «a campagne d’inchieste, stati d’accusa, cosiddetta ‘questione morale’, ecc. Cercare di evitare un voto sull’Africa [...]»3. Si trattava di un vero e proprio patteggiamento, in cambio di un possibile parziale sostegno al governo «caso per caso» o almeno di un raffreddamento dell’opposizione della parte più «fluida» degli ex crispini. Ad aggravare la situazione si aggiunse l’avvio di un’indagine su irregolarità amministrative compiute dal ministero degli Interni durante la gestione Crispi: l’inchiesta rilevò degli ammanchi nei bilanci del ministero e un aumento dei fondi segreti a disposizione del governo. Rudinì realizzò ben presto, di fronte ai crescenti malumori, che le elezioni rappresentavano l’unica strada per sfuggire alle pressioni della precedente maggioranza e formarne una propria. Anche Cavallotti era di questo avviso poiché, a sua volta, sperava in un rafforzamento dei radicali per assumersi direttamente la responsabilità del potere, sia pure in coalizione. La situazione era tuttavia destinata ad evolversi quando giunse al pettine il nodo della riforma dell’esercito. Il tema, collegato alla più grande questione finanziaria, rappresentava il punto qualificante del programma di governo, ma il Sovrano, intenzionato a non cedere, arrivò allo scontro diretto con Ricotti. Umberto, facendo leva sulle

3

  S. Sonnino, Diario, 3 voll., vol. I, 1866-1912, Laterza, Bari 1972, p. 284.

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ambizioni di Rudinì, più duttile di Ricotti, ottenne che il presidente del Consiglio mettesse fine al gabinetto progettato da Ricotti per dar vita ad un proprio esecutivo in vista delle sospirate elezioni. Rudinì si dimise e il Re, dietro la promessa di aumentare il bilancio militare e di conseguenza preservare la struttura tradizionale dell’esercito, gli affidò nuovamente l’incarico. Si trattava dell’ennesima crisi extraparlamentare. Rispetto al precedente esecutivo, il cambiamento principale riguardò ovviamente il dicastero della Guerra, che venne assegnato al generale Luigi Pelloux. Questi impostò un programma di economie che intendeva salvare soprattutto l’immagine esteriore dell’esercito, portando a sette i mesi effettivi del servizio militare e riducendo gli organici in servizio attivo senza tuttavia diminuire le unità di base e i corpi d’armata. La sfida al Re sulla facoltà del Parlamento di determinare in toto la politica della spesa pubblica era fallita. Questo netto spostamento a destra preoccupò l’Estrema e i sostenitori più liberali di Rudinì. Anche il disappunto a Sinistra divenne palese, ma la possibilità di poter influire sulla data delle elezioni e soprattutto il timore di avere contro il governo nella fase preelettorale rendevano prudenti i leader. Per Rudinì un ostacolo al ritorno alle urne era quello dell’ancora sospesa questione della pace con l’Etiopia e della restituzione dei prigionieri. Per quanto riguardava l’importante tema dell’ordinamento amministrativo, ancora a giugno Rudinì si dichiarava «partigiano d’una profonda riforma negli ordini interni del Regno»4. La rilevante trasformazione dell’asse governativo e le resistenze incontrate in Parlamento dovettero tuttavia contribuire non poco a modificare tale atteggiamento. Pressato dall’imponente blocco dei sostenitori dell’accentramento, Rudinì dovette, in questo settore a lui caro, giungere a più miti consigli e camuffare la sua proposta di istituire un commissario civile per la Sicilia in una sorta di progetto di governo straordinario per affrontare gli endemici problemi dell’isola. Nasceva così, tra mille sospetti, l’ibrida figura del commissario, che poteva agire svincolato dai dicasteri competenti nei settori della pubblica sicurezza, amministrazione provinciale, opere pubbliche e tasse lo-

4  Citato in A. Rossi Doria, Per una storia del «decentramento conservatore»: Antonio Di Rudinì e le riforme, in «Quaderni Storici», 18, 1971, p. 866.

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cali, istruzione primaria, miniere e foreste, purché i provvedimenti non gravassero sul bilancio statale. Aveva inoltre illimitati poteri di revisione dei bilanci comunali, provinciali e delle opere pie, oltre che di intervento nella ripartizione dei tributi locali. Ben presto però l’esperimento si rivelò fallimentare. Alla fine di luglio venne tramutato in legge, con il sostegno dei radicali, anche il decreto con cui il governo rendeva elettivi i sindaci nei comuni con meno di 10.000 abitanti. Per Rudinì tali riforme avevano senso in quanto preludevano ad un più complesso piano di legalizzazione e legittimazione delle misure politiche e amministrative per la difesa delle istituzioni dalle crescenti pressioni delle masse e delle culture «illiberali», socialiste e clericali. Consapevole dell’esistenza di una questione sociale e delle relative miserie che essa rivelava, Rudinì, come Crispi, la riteneva tuttavia una questione tecnica, cioè «finanziaria ed economica», e dunque di competenza del governo che con le opportune riforme avrebbe dovuto sottrarla alla propaganda collettivista e alle «mene» clericali. I «rossi» e i «neri», infatti, ossessionavano Rudinì non meno di quanto avessero ossessionato Crispi. La loro crescita rappresentava infatti la misura del fallimento delle istituzioni liberali, incapaci di sottrarre la cosiddetta questione sociale dalle grinfie della conflittualità politica. Benché da punti di vista opposti, socialisti e cattolici concordavano nel ritenere tale endemica conflittualità come la manifestazione di una colpa originaria che non lasciava scampo alle classi dirigenti, mentre queste ultime la ritenevano soprattutto il risultato della continua propaganda dei nemici delle istituzioni, che trovava terreno propizio nell’ignoranza delle masse. Non diversamente da Crispi, anche Rudinì intendeva affiancare al progetto di restringimento delle potenzialità democratiche delle istituzioni politiche esistenti quello di una estesa iniziativa governativa nel campo delle riforme sociali; a differenza di Crispi, però, riteneva essenziale associare alla realizzazione del suo programma il maggior numero possibile di settori della Sinistra riformista. I giolittiani, ancora «convalescenti» dopo la tormenta crispina, non ebbero difficoltà in questa fase ad affiancare il governo, soprattutto al fine di evitare il temuto ritorno «del regime che per due anni e mezzo ha fatto tanto strazio, in tutti i sensi e specie nel morale, del nostro paese»5.

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  Citato in Quarant’anni di politica, cit., pp. 270-271.

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La politica estera apparve a Rudinì l’occasione migliore per rimarcare le differenze con l’amministrazione crispina. Intendeva infatti in primo luogo mitigare le tensioni esistenti con Francia e Russia, anche per affrancare la situazione economica dalla guerra finanziaria con i transalpini. A stemperare le tensioni con la Russia avevano tra l’altro contribuito le recenti nozze dell’erede al trono Vittorio Emanuele con la principessa Elena di Montenegro, che apparentavano i Savoia ai regnanti del principato balcanico, a loro volta legati all’impero zarista da vincoli familiari. In settembre era stato invece rimosso uno dei principali ostacoli alla normalizzazione delle relazioni con la Francia, mediante tre convenzioni che regolavano i principali aspetti commerciali e giuridici relativi al protettorato francese sulla Tunisia: in sostanza, l’Italia riconosceva tale protettorato, mantenendo però i particolari privilegi già esistenti per gli italiani in Tunisia. Lo scopo immediato di questo avvicinamento rimaneva tuttavia quello di agevolare la ricerca di una accettabile soluzione per la pace con l’Etiopia, cosa tutt’altro che facile viste le resistenze che provenivano su questo versante dai crispini e soprattutto dalla Corte. Il Re, infatti, non sembrava rassegnarsi all’umiliazione di «dichiararci col fatto impotenti in faccia ad un barbaro nemico, a cui il numero avea dato la vittoria»6. Le trattative per una pace «equa ed onorevole» si conclusero il 26 ottobre ad Addis Abeba. L’accordo con Menelik annullava le clausole del trattato di Uccialli riconoscendo la piena sovranità dell’Etiopia e definiva il confine tra Eritrea e Impero etiopico. Con la pace aveva termine anche la complessa vicenda dei prigionieri: assieme al trattato fu infatti stipulata una convenzione per la liberazione di quelli che erano ormai ostaggi delle trattative per i quali, nella primavera del ’96, si era mosso come intermediario, su richiesta del governo, addirittura Leone XIII. Con l’occasione sembrò prendere vigore una esigenza di riavvicinamento tra Stato e Chiesa, ma ben presto finirono per prevalere le tradizionali rigidità e gli spazi istituzionali di dialogo si richiusero. Le elezioni ormai incombevano sull’elettrico clima politico dei primi giorni del 1897. Il cielo del conflitto politico, già colmo di nubi, attendeva il fulmine, che si presentò nelle sembianze di un ar-

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  G. Finali, Memorie, Lega, Faenza 1955, p. 690.

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ticolo di Sonnino, Torniamo allo Statuto, con cui il deputato toscano sfidava il sistema politico sul terreno della revisione della tradizionale prassi costituzionale. A chi rispondono i ministri? Nel corso degli ultimi due decenni del XIX secolo si intensificarono i dibattiti sulle forme organizzative dello Stato liberale, sui rapporti e gli equilibri tra i diversi organi istituzionali, sul ruolo delle élites dirigenti nei confronti di una società in rapido mutamento. Il sistema politico liberale, fondato sulla cultura dei notabili e dell’individualismo nel rapporto Stato-società, cominciò infatti a perdere parte delle proprie certezze nel momento in cui la crescente politicizzazione delle masse e il moltiplicarsi di interessi e pressioni sociali contrapposti fecero emergere, in modo conflittuale e spesso traumatico, i limiti di fondo con cui era sorto il Regno d’Italia e l’irrisolta contraddizione tra «paese reale» e «paese legale». Le tensioni esistenti nel mondo politico vennero amplificate e spesso moltiplicate da un vivace dibattito teorico e dottrinario, che per la prima volta sembrò fuoriuscire dalle ovattate atmosfere delle sfide dell’intellighenzia, per riversarsi direttamente sulle eccitate aspettative di un’opinione pubblica in attesa del grande evento dirimente, e per un verso o per l’altro riparatore delle ‘ingiurie’ patite in quei drammatici anni ’90. Un coinvolgimento che, sia pure in tono minore, rimandava alla modificazione del ruolo della stampa e degli intellettuali che stava avvenendo nelle coeve vicende francesi relative all’intricato caso Dreyfus. La sfida transalpina, ruotante attorno al caso giudiziario del capitano ebreo, racchiudeva gran parte dei motivi di tensione, non solo politici e istituzionali, che attraversavano l’intera cultura europea tardo-ottocentesca. Le difficoltà incontrate dalle istituzioni liberali nel loro insieme furono pertanto un aspetto di un fenomeno più complesso che, spaziando dalla filosofia alla sociologia, dall’economia alla psicologia, potrebbe riassumersi come la «crisi dell’individualismo»; la percezione, cioè, che l’avvento della società di massa rendesse oramai irreversibile il declino dei principi, degli ideali e delle certezze formatisi a partire dalla rivoluzione francese. Un soggetto nuovo, la folla, aveva fatto il suo dirompente ingresso in un mondo culturale

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e politico sostanzialmente impreparato ad accoglierne e mitigarne gli effetti destabilizzanti. Nuove discipline, come l’antropologia criminale e la psicologia collettiva, e nuove dottrine filosofiche, come l’anti-positivismo e l’irrazionalismo, finirono quindi per rispecchiare la generale necessità di «gestire», e in molti casi di «combattere», questo nuovo interlocutore la cui «irritabilità» passionale e istintiva sembrava calpestare i valori «ordinati» della tradizione illuministica. In Italia giuristi, economisti, politici, teorici delle moderne scienze sociali e pubblicisti fecero dunque rifluire, con crescente partecipazione e approfondimento «scientifico», le proprie critiche al sistema parlamentare in una serie di articoli, discorsi e saggi in cui l’originario tema della «degenerazione del Parlamento» si allargò ben presto fino ad investire l’intera realtà istituzionale e tutti i problemi connessi all’avvento degli elettorati di massa. Alla rituale condanna di quelle che erano percepite come degenerazioni dell’istituto parlamentare e del «trasformismo», sua diretta e deleteria manifestazione, si aggiungevano infatti la richiesta di un rafforzamento della capacità di produrre decisione politica (attività solitamente ritenuta in contrasto con i poteri della Camera elettiva), la denuncia del corrompersi della rappresentanza politica e dell’incapacità di rispecchiare in seno allo Stato le forze attive della società civile, la questione dei rapporti tra potere giudiziario e organi politici e, infine, la crescente consapevolezza della necessità di dar vita ad un vero partito liberale e conservatore in grado di misurarsi efficacemente con la Sinistra radicale e socialista e con la Destra clericale. Se questi furono i principali temi attorno a cui ruotò il dibattito istituzionale di fine secolo, essi possono considerarsi l’estrinsecazione di una più vasta angoscia, il cui profilo europeo non ne attenuava l’impatto nell’opinione pubblica italiana. Si dice: siamo in un periodo di transizione – aveva affermato nel 1885 il costituzionalista Zanichelli durante una lezione alla scuola di Scienze sociali di Firenze – il vecchio mondo è caduto, il nuovo non è ancora sorto [...]. È evidente che le istituzioni libere, frutto delle nostre rivoluzioni, le istituzioni parlamentari, sono in un periodo di prova ed è incerto se esse si adatteranno, siccome io spero, ai popoli moderni, è incerto se esse resisteranno alla corrente delle idee democratiche [...]. Vi fu un tempo che in Europa tutti, pensatori e uomini politici, speravano nelle istituzioni rappresentative come in una panacea universale; si diceva che il sistema

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parlamentare avrebbe apprestato il rimedio ai mali che affliggevano gli Stati e la Società, che avrebbe dato legittima e pronta soddisfazione ai bisogni popolari e perciò avrebbe chiusa per sempre l’era delle rivoluzioni7.

L’intervento di Zanichelli riprendeva più o meno direttamente i dubbi seminati in quegli anni da diversi autori tra cui Bonghi, Turiello e Mosca che, con toni e finalità diverse, avevano cercato di offrire un supporto dottrinale alla polemica antiparlamentare. Di fatto, al di là dell’ottimismo di Zanichelli, che riteneva esagerate molte delle critiche fatte al sistema rappresentativo, quello che emergeva dal suo intervento era il clima di incertezza sulla capacità delle istituzioni parlamentari di reggere la sfida con la modernità. I dubbi in questo senso provenivano dalla sensazione che per poter convivere nella stessa «stanza» con quel «popolo» che a tutti gli effetti assumeva sempre più l’immagine di un elefante in un negozio di cristalleria, non bastasse più l’antico bagaglio culturale (la moderazione), ma fosse necessario ripensare l’intera sfera dei rapporti Stato-società. «Lo Stato moderno – osservò il giurista Santi Romano nel 1897 – ha accresciuto in maniera tale la sua attività, che i rapporti tra esso e i sudditi si sono moltiplicati e si moltiplicano con una varietà che ha del prodigioso»8. Cominciava, in altre parole, ad essere percepita la complessità di una crisi che, come disse qualche anno dopo lo stesso Santi Romano, andava al di là della questione dell’ingresso delle masse nello Stato: La crisi dunque dello Stato attuale si può ritenere che sia caratterizzata dalla convergenza di questi due fenomeni, l’uno dei quali aggrava necessariamente l’altro: il progressivo organizzarsi sulla base di particolari interessi della società che va sempre più perdendo il suo carattere atomistico, e la deficienza dei mezzi giuridici e istituzionali, che la società medesima possiede per far rispecchiare e valere la sua struttura in seno a quella dello Stato9.

7  D. Zanichelli, Le difficoltà del sistema rappresentativo-parlamentare, in Id., Studi politici e storici, Zanichelli, Bologna 1893, pp. 94-97. 8  S. Romano, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, in V.E. Orlando (a c. di), Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, Società Editrice Libraria, Milano 1897, p. 211. 9  S. Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi, Giuffrè, Milano 1969 (1911), p. 8.

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Fu soprattutto a cavallo tra i due secoli che la giuspubblicistica italiana, grazie all’opera di Oreste Ranelletti, Santi Romano e Vittorio Emanuele Orlando, tentò di elaborare dottrine costituzionali e giuridiche alternative a quelle tradizionali, nel tentativo di dare una risposta, almeno sul piano dottrinario e teorico, alle sempre più frequenti denunce della debolezza della macchina istituzionale liberale. Nella pubblicistica di fine secolo si moltiplicarono infatti le condanne al «parlamentarismo», che dai «tempi memorabili dei Cavour, dei Sella, degli Scialoja e dei Minghetti» era decaduto a «palestra di gare partigiane»10. Le ragioni di tale «degenerazione» erano ravvisate in molteplici fattori: non solo nel «suffragio a base larghissima, e pressoché il suffragio universale» o nelle esorbitanti competenze della macchina amministrativa che rischiavano ogni giorno di più di paralizzare il funzionamento dello Stato, ma anche in quello che appariva lo scarso impegno civile, morale e politico degli italiani, inevitabilmente riflesso nel ceto dirigente. Il problema della gestione amministrativa e delle crescenti competenze di cui lo Stato si era dovuto far carico fu dunque uno dei temi più ricorrenti nel dibattito degli intellettuali a fine secolo; un tema che spaziava dalle proposte di decentramento alla riforma della magistratura, dalla necessità di snellire l’apparato burocratico alla più generale condanna delle interferenze del potere politico sugli organi dell’amministrazione. Andava dunque facendosi strada anche fra gli intellettuali la percezione che il vero epicentro della crisi fosse la complessità dei rapporti tra lo Stato e il mondo degli interessi «plurali» che innervava la società. Da questa constatazione mosse quindi il rivolgimento della cultura giuridica fra i due secoli che portò, grazie soprattutto al contributo di Santi Romano, all’elaborazione di un diritto «nuovo», autonomo rispetto al diritto privato, regolante l’intera organizzazione dell’attività sociale dello Stato e i rapporti tra questo e i cittadini. La rielaborazione dottrinaria del nuovo concetto di «Stato amministrativo», come risposta teorica alla complessa realtà dei rapporti Stato-cittadino, costituiva la trama intellettuale e il terreno scientifico per una risposta di «lunga durata» a un

10  N. Marzotto, La educazione politica e il partito agrario, in «Rassegna Nazionale», XCIV, 1897, pp. 365-367.

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conflitto politico che tuttavia era già in corso, e che affrontava in modo assai più convulso e niente affatto indolore il problema dal più concreto punto di vista della ridislocazione e ridefinizione dei poteri pubblici. E al di là dell’«idealismo costituzionale» dei giuristi, il problema concreto sembrava essere quello di eliminare la «paralisi» che aveva colpito le istituzioni politiche e definire per certo quale fosse «l’ufficio del governo e i limiti in cui il suo capo ed i ministri po[tevano] muoversi liberamente». In questo senso, una delle soluzioni prospettate era quella di reintegrare il Sovrano dei poteri di controllo sull’esecutivo che, sebbene sanciti dallo Statuto, avevano finito per attenuarsi progressivamente di fronte alla «strapotenza della Camera elettiva». Tornava dunque a ripresentarsi l’annosa questione del parlamentarismo, delle funzioni e delle modalità d’azione del sistema parlamentare. Non era in discussione l’istituzione in sé («nessuno può prevedere i mali né le conseguenze che ne addiverrebbero se essa facesse naufragio»11), quanto piuttosto le sue presunte degenerazioni, causate dal peso esorbitante della politica che «tutto invade, tutto guasta, tutto peggiora»12. Era significativo che la maggior parte di coloro che affrontarono il problema del «risanamento» istituzionale si sentissero obbligati a formulare, oltre alle tradizionali invettive contro il degrado morale del personale politico, riflessioni più o meno esangui sul tema dell’organizzazione dei partiti. Mentre per i socialisti la vera soluzione al problema della crisi delle istituzioni andava ricercata in un diverso ordine sociale, per i liberali la «rigenerazione» della classe dirigente e il recupero di un indirizzo politico più stabile e univoco sarebbero dovuti passare in primo luogo attraverso l’organizzazione di un vero partito, in grado di reggere la sfida clericale e soprattutto quella del «partito rivoluzionario» che possedeva, nell’immaginario liberale, «un esercito ben ordinato, ubbidiente ai cenni de’ suoi capi, pronto ad intervenire oggi o domani a qualunque dimostrazione»13. L’idea era quella di un «Grande Partito non battagliero, non facile a scendere in piazza, ma serio, imponente, 11  F. Nobili-Vitelleschi, La crisi e il nuovo Ministero, in «Nuova Antologia», CLVII, 1898, p. 167. 12  F. Nunziante, La crisi del Parlamentarismo, in «Rassegna Nazionale», CI, 1898, pp. 228 e 236. 13  Rassegna Politica del 15-3-1898, in «Rassegna Nazionale», C, 1898, p. 387.

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collo scopo di conservare i beni acquisiti»14; un partito, insomma, che avrebbe vivificato il senso morale e religioso della politica e al tempo stesso «domato» la macchina dello Stato, «padrone di tutto e di tutti, violatore di ogni libertà sacrosanta»15. Per la componente progressista del liberalismo il partito rimaneva un orizzonte, non certo un obiettivo praticabile; ma l’organizzazione rappresentava un valore in sé, in quanto in grado di far esprimere in forma razionale e dunque controllabile l’esigenza di partecipazione alla vita pubblica dei diversi settori politici. Questa prospettiva, non a caso, rappresentò pochi anni dopo uno dei cavalli di battaglia della strategia giolittiana. «La Riforma Sociale», rivista di scienze economiche e sociali diretta da Nitti, riteneva il vuoto organizzativo un male, indipendentemente dalle idee professate: la mancanza di organizzazione significa in alto e in basso confusione, indifferenza, operare non ordinato ma tumultuario. [...] L’organizzazione è invece la coscienza d’un interesse comune e l’esercizio disciplinato di quei mezzi che sono più atti a raggiungerlo; è quindi il sistema di operare socialmente più economico e conservativo16.

Il tema dell’organizzazione aveva fatto il suo ingresso anche all’interno del movimento giovanile liberale, una realtà nata in questi anni su iniziativa di Giovanni Borelli, che dalle colonne de «L’Idea Liberale» invitava i giovani ad assumere la guida di un nuovo corso del liberalismo italiano, basato sul rinnovamento etico e politico della classe dirigente. Per le altre componenti liberali, snervate da anni di trasformismo, la questione del partito appariva invece ormai uno stanco ritornello. Tutti teoricamente volevano darsi un partito, ma nessuno sapeva come e cosa fare oltre a invitare gli altri a disciplinarsi. Il fallimento della pretesa ricostituzione dei partiti parlamentari durante il governo Giolitti e i successivi traumi «siciliani» e scandali bancari agevolarono, con l’idea della difesa della «cittadella» del sistema liberale

14  A. De’ Capitani d’Arzago, Il Partito conservatore, in «Rassegna Nazionale», LXXXVII, 1896, p. 189. 15  R. Mazzei, Dio nello Stato e la morale indipendente, in «Rassegna Nazionale», LXXXVIII, 1896, p. 297. 16  Anonimo, Per un programma, in «La Riforma Sociale», VIII, 1898, p. 557.

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assediata dalle Estreme, persino una rivalutazione, anche sul piano teorico, del trasformismo (sia pure nella versione più «presentabile» ideata da Cavour). Nel marzo del 1895 Zanichelli formalizzò questa inversione di tendenza, ricordando come in Italia vi fossero troppi ricordi delle antiche fazioni perché un sistema qualunque di governo possa fondarsi sull’ordinamento del ceto politico a partiti, senza che si corra il rischio di vederli uscire dal campo legale per entrare nell’illegale, rifacendo nell’Italia nuova quello che fu triste caratteristica [...] dell’Italia medievale. Né a scuotere la mia convinzione contraria ai partiti, ha molto giovato l’esempio dell’Inghilterra, perché a me pare che non si tenga conto sufficiente [...] delle differenze profonde che corrono tra la storia nostra e l’inglese [...]. E neppure ci pare si tenga conto [...] che cioè anche in Inghilterra il sistema rappresentativo [...] non si regge più sui due partiti classici dei tories e dei whigs [...] ma piuttosto su gruppi coalizzati17.

In altre parole, Zanichelli volle ricordare che se i partiti fungevano da possibile modalità organizzativa del sistema rappresentativo, la vera essenza di questo continuava a risiedere nei parlamentari in carne e ossa, e in come questi «interpretavano» le istituzioni. Il vasto dibattito sul «parlamentarismo» si era sempre incentrato particolarmente su questioni connesse al sistema della rappresentanza e del suffragio, all’organizzazione e alle competenze della Camera elettiva. Non mancarono tuttavia, fin dall’indomani dell’unificazione del Regno, ampie discussioni sull’opportunità di riformare il sistema bicamerale previsto dallo Statuto e di modificare la composizione e le funzioni del Senato regio. In tale ambito peraltro non si arrivò ad alcun risultato, soprattutto perché tale riforma avrebbe sottratto al governo il potere di nomina dei senatori, con cui garantirsi la maggioranza alla Camera alta. La riforma del Senato avrebbe richiesto inoltre la manomissione dello Statuto, con tutte le conseguenze a cascata che questo strappo avrebbe prodotto nella poco visibile, ma tuttavia mai sopita, volontà costituente di numerosi settori della Sinistra. Non andava sottovalutato il fatto che Zanardelli, leader

17  D. Zanichelli, Riformisti e moderati nella storia costituzionale italiana, in Id., Studi di storia costituzionale e politica del Risorgimento italiano, Zanichelli, Bologna 1900, pp. 105-109.

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della Sinistra costituzionale, ancora nel 1897 sembrava interessato ad attuare «il grande principio liberale che lo Statuto sia sempre riformabile, coll’accordo dei tre poteri»18. Un timore in più per il tremante «partito» di corte. Non di meno giuristi, intellettuali e uomini politici, dentro e fuori del Parlamento, finirono per coagulare attorno a questa esigenza di improbabile riforma del Senato una ricca progettualità riformatrice, che mise in luce i limiti di fondo con cui, dal punto di vista politico, la Camera vitalizia era stata concepita nello Statuto Albertino e la scarsa legittimazione dei suoi membri. La Camera alta appariva un’istituzione scarsamente significativa, non in grado di assolvere al proprio compito fondamentale di freno e di bilanciato controllo nei confronti della Camera dei deputati, il ramo del Parlamento che incarnava la spesso fluttuante volontà popolare e rispetto al quale il Senato si trovava in una posizione marginale, non di rado svilita dalla stessa procedura di nomina dei suoi componenti. In effetti, la pratica diffusa dei governi di provvedere ad infornate di senatori, sia per modificare la maggioranza dell’Assemblea vitalizia in senso favorevole ai progetti di legge governativi, sia come «premio» a prefetti ed ex deputati amici, sia come mezzo per liberarsi di pericolosi candidati avversari, aveva finito per trasformare la Camera alta in un docile strumento del potere esecutivo. Pertanto i progetti di riforma dell’istituto senatoriale insistevano soprattutto sulla necessità di consolidare la legittimazione della Camera alta, sottraendola al controllo del governo. Proposte che non di rado provenivano da orientamenti politici eterogenei finirono, dunque, per convogliare nella ricerca di un meccanismo politico-istituzionale in grado di dare significato ed efficacia a quel bicameralismo che, per quanto imperfetto e fisiologicamente difficile da gestire, nella sostanza non fu mai messo in discussione. Crispi, che più volte aveva parlato prima di giungere al potere «della necessità di un Senato elettivo», dopo il 1887 abbandonò qualsiasi velleità riformatrice in questo senso, rafforzando semmai i tradizionali strumenti di controllo e di pressione sulla Camera vitalizia a disposizione dell’esecutivo. Paradossalmente, come si è visto, Crispi trovò proprio fra i senatori l’estremo riparo nei momenti di maggiore difficoltà e con Farini am-

  D. Farini, Diario, vol. II, Bardi Editore, Roma [1945], p. 1104.

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mise: «per fortuna che vi è il Senato; guai a noi se si avesse il Senato elettivo; è una delle mie idee dalle quali sono rinvenuto»19. Per un motivo o per l’altro, negli ultimi anni del secolo apparve comunque chiaro che il Senato italiano non avrebbe più potuto assumere la funzione di contrappeso agli eccessi della passionalità politica della Camera elettiva. In un’Assemblea vitalizia composta ormai per circa il 40% di ex deputati, lo stesso Farini dovette ammettere che il Senato è un corpo irritato e sta mutando natura. Non vi sono più i calmi, senza passioni, non volenterosi della vita militante. Vi ha invece un nucleo irritato, irrequieto che vuole ottenere in questa assemblea le soddisfazioni che non poté raggiungere nell’altra e ciò senza il controllo, il giudizio, il ritegno degli elettori20.

Il problema dello scadente funzionamento del sistema politico, secondo la maggior parte dei polemisti, non poteva essere risolto con dei succedanei come quello del decentramento amministrativo, la cui indubbia e radicale efficacia era tuttavia per molti controbilanciata da un’insidia mortale, il possibile «scompaginamento» dello Stato. Il difetto andava invece ricercato alla radice e cioè, come scrisse nel 1897 Sonnino ai suoi elettori, «nel voler alterare le funzioni statutarie della Camera elettiva, facendo dell’urna elettorale l’unica base dell’autorità politica dello Stato». Sonnino si disinteressava delle questioni relative ai rimedi «tecnici», come una diversa organizzazione dell’elettorato, per mirare direttamente al problema che gli stava a cuore, cioè «le funzioni che vengono attribuite all’elettorato stesso, ossia ai corpi politici che dal solo elettorato procedono»21. Di per sé il tema non era nuovo. Si trattava di ricondurre la Camera nei suoi limiti statutari perché, come aveva detto chiaramente Bonghi già nel 1880, i Parlamenti più forti, più autorevoli, più rispettati e rispettabili, sono quelli che non esorbitano dalla loro sfera legittima, che non si arrogano il vanto della onnipotenza, che, gelosi delle loro prerogative, non smi19  D. Farini, Diario, vol. I, Istituto per gli studi di politica internazionale, Milano [1942], pp. 611-612. 20  Ivi, p. 749. 21  S. Sonnino, Scritti e discorsi extraparlamentari, a c. di B.F. Brown, 2 voll., vol. I, 1870-1902, Laterza, Bari 1972, p. 605.

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nuiscono quelle del potere esecutivo [...]. Se i ministri non sanno o non vogliono amministrar bene [...], le Camere hanno il dovere di respingere le loro proposte, d’ammonirli, di dichiarare che non godono la loro fiducia. Ma non possono sostituire se stessi alle funzioni del potere esecutivo, mutarsi in simulacri di Convenzioni nazionali22.

La pubblicistica e la costituzionalistica dell’ultimo decennio del XIX secolo furono dunque dominate dal dibattito sui modi e sull’opportunità di restituire potere alla Corona. Il problema non era tanto quello di rinsaldare l’esecutivo secondo la prospettiva cesaristica tentata da Crispi, ma piuttosto quello di rendere il governo autonomo rispetto alle fluttuanti combinazioni parlamentari, mettendolo in una più stretta dipendenza dal potere regio. In questo modo la Camera avrebbe potuto svolgere con maggior libertà la propria funzione primaria, cioè quella legislativa, e il governo, liberato dalla «tutela» parlamentare, avrebbe garantito un indirizzo più sicuro ed autorevole alla gestione della cosa pubblica, al di sopra delle combinazioni trasformistiche e dei pericolosi interessi di parte presenti nella Camera elettiva. Tale prospettiva, se corretta dal punto di vista costituzionale e giuridico, di fatto avrebbe comunque alterato i rapporti istituzionali consolidatisi nella prassi politica fin dai tempi di Cavour. Si sarebbe, in altre parole, riaffermato quell’esclusivo rapporto tra il Re e il suo governo che avrebbe tolto all’Assemblea elettiva il peso politico che le derivava, secondo questi autori, dall’essere erroneamente ritenuta l’unica effettiva interprete della volontà popolare. Il consolidamento di questa prospettiva si ebbe anche grazie all’autorevole presa di posizione di Sonnino che, nel gennaio del 1897, pubblicò l’eloquente Torniamo allo Statuto. Il deputato toscano – accantonata la proposta di introdurre il suffragio universale e la rappresentanza proporzionale per assicurare una migliore rappresentatività al regime parlamentare – si volse a considerare l’esperienza del bipartitismo liberale britannico e quella dell’autoritarismo riformistico germanico, desumendovi la possibilità che anche in Italia il pieno recupero dei poteri monarchici potesse garantire un indirizzo politico più stabile, «forte e liberale a un tempo», considerato che il sistema politico italiano era oramai «nettamente contrario a quanto prescrive e vuole lo Statuto». 22  R. Bonghi, Le degenerazioni del parlamentarismo, in Id., Programmi politici e partiti, Le Monnier, Firenze 1933, p. 205.

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I difetti che Sonnino individuava nel sistema parlamentare «ammalato» vigente in Italia non erano «inerenti allo Statuto, nei suoi principi fondamentali», ma alle «dottrine accessorie» con cui si erano voluti interpretare «alterandone e falsandone a poco a poco i concetti direttivi». In un momento in cui le funzioni e le competenze dello Stato andavano aumentando «ogni giorno di più, e tutto si attende[va] e si chiede[va] dal Governo centrale, gli effetti del travisamento dalle norme dello Statuto [erano] disastrosi, anzi fatali per il regolare funzionamento delle istituzioni rappresentative». L’esorbitare della Camera elettiva dalle sue funzioni e la sua invasione dei poteri della Corona si sono effettuate e sono state rese possibili mediante la dottrina che faceva dei ministri del Re i ministri della Camera, cioè li sottoponeva alla diretta dipendenza delle mutevoli maggioranze parlamentari. Non potete ora togliere efficacemente gli usurpati poteri alla Camera e risanare tutta l’azione del meccanismo parlamentare finché [...] non liberate in parte i ministri dalla diretta dipendenza dalla Camera, ridando loro realmente il vecchio e primitivo carattere di ministri del Re.

Non solo, dunque, la Camera aveva finito per essere essa stessa «asservita al Ministero», ma l’alterazione del dettato statutario aveva creato un nuovo potere, «quello del Ministero, considerato nel suo complesso, ma che s’incarna[va] specialmente nella persona del presidente del Consiglio». Il recupero delle prerogative regie avrebbe non solo assicurato la «continuità nell’azione del Governo», ma anche riequilibrato in maniera organica, funzionale e giuridicamente ineccepibile i rapporti fra gli organi istituzionali, non ultimo quello fra il gabinetto e il Senato regio, quest’ultimo troppo spesso messo a tacere mediante la nomina di «una quarantina o magari una ottantina di senatori amici». Di fronte poi «al socialismo di piazza ed al clericalismo oscurantista», solo questa prospettiva, attorno a cui Sonnino chiamava «a raccolta tutti gli uomini di buona volontà, liberali e conservatori a un tempo», avrebbe garantito il rispetto del «patto fondamentale votato nei plebisciti» e la tutela delle istituzioni del Regno. Per Sonnino, dunque, il cuore del problema consisteva nell’individuare un forte perno istituzionale, in grado di rappresentare l’interesse generale, attorno a cui far ruotare un progetto di riforme altrimenti impossibile in un Parlamento sede di «tirannie» d’interessi locali, che avevano trasformato il governo in uno strumento di tornaconti personali. In questo senso la sua appare

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una visione dottrinaria, priva cioè della necessaria attenzione al fatto che quella «baraonda» d’interessi di parte potesse essere il prodotto di un percorso politico che aveva a che fare con la ricerca del consenso in uno Stato giovane ed «eterogeneo», e non una semplicistica degenerazione di costumi costituzionali. La soluzione proposta da Sonnino apparve la summa di tutto il dibattito che da oltre dieci anni teneva impegnati intellettuali e politici nel tentativo di dare ordine ad un sistema politico deterioratosi a causa soprattutto dell’allargamento del suffragio e del conseguente moltiplicarsi dei piccoli e grandi clientelismi presenti nella Camera elettiva. Tale intervento chiudeva paradossalmente la fase che aveva visto coloro «che sanno e che hanno», preoccupati soprattutto di difendere la Camera dall’ingresso delle «classi infime». Quella appariva ormai un avamposto perso, e il fronte andava arretrato ponendo la Corona a roccaforte della prima linea. Da qui avrebbe avuto origine un circolo virtuoso che avrebbe ridotto la forza opportunista, priva di principi e programmi, incarnata dal presidente del Consiglio, e garantito forza e stabilità all’esecutivo, non più costretto ad operare preda di mutevoli maggioranze. La prospettiva sonniniana fu accolta in generale con molta diffidenza, non perché ritenuta infondata ma in quanto ormai inopportuna dal punto di vista della prassi costituzionale consolidata: «chi parla della possibilità di ritornare ad un sistema puramente rappresentativo si fa una grossa illusione. Sia bene o male, ora bisogna acconciarsi al sistema parlamentare. La storia non si rifà; i tempi non tornano; le evoluzioni non si arrestano»23. Il più delle volte, anche quando i commentatori sembravano simpatetici con le idee di Sonnino, al momento di definire il ruolo del Sovrano i discorsi si facevano fumosi e il Re diventava colui che «solo è chiamato a risolvere, a norma delle Leggi, delle tradizioni, delle necessità presenti, i conflitti e le difficoltà»24. La cospicua pubblicistica politica di quegli anni si dimostrò sempre molto critica nei confronti del concreto funzionamento del sistema, ma raramente arrivò a contestare l’interpretazione cavouriana dello Statuto, e cioè 23  E. Vidari, Delle presenti condizioni d’Italia, in «Nuova Antologia», CLX, 1898, p. 567. 24  G. Falorsi, Perché siamo monarchici, in «Rassegna Nazionale», CIV, 1898, p. 474.

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la sostanziale dipendenza del governo dalla classe politica elettiva. Secondo Arangio-Ruiz, ad esempio, «nello Statuto la storia dimostra come non ci si fosse mai stati, perché sin dalla sua promulgazione, fu istituito, contro la lettera sua, il governo parlamentare per quello costituzionale»25. I difensori del governo parlamentare non si limitarono comunque a denunciare il carattere anacronistico ed aleatorio della soluzione sonniniana, ma vollero anche mettere in guardia i sostenitori del costituzionalismo puro dall’«estremo rischio a cui viene spinta la corona da chi le consiglia di rafforzare le istituzioni dello Stato col ridurre nelle proprie mani e sotto la propria direzione personale la somma maggiore dei negozi politici»26. Il presidente del Senato, volendo salvaguardare le istituzioni esistenti dalla minaccia del radicalismo democratico e socialista, non credeva opportuno invischiare direttamente il Re nelle contese dell’agone politico, facendogli perdere quella garanzia di istituzione super partes che era invece proprio il punto d’appoggio dei fautori del «ritorno allo Statuto». Nel suo diario commentò con queste parole l’articolo di Sonnino: Certo l’articolo Torniamo allo Statuto dell’Antologia attribuito al Sonnino, è qualche cosa di stolidamente inopportuno ed assurdo. Pretendere che dopo cinquant’anni lo Statuto sia interpretato diversamente e si diano al Re poteri, iniziative, facoltà, attribuzioni che mai ebbe, è una vera follia. Vittorio Emanuele pretese una volta nel 1855 (crisi Calabiana) di fare di suo capo: dovette sottomettersi. Rifece di suo capo nel 1862 (ministero Rattazzi): condusse ad Aspromonte. Fare la scimmia a Boulanger in Italia, drizzandosi contro il così detto parlamentarismo, è ridicolo semplicemente. L’Italia può in un momento di panico aver dato carta bianca al Crispi coi suoi precedenti, coi suoi servizi, coi suoi legami e vincoli di setta, averlo subìto; nessuno si sottometterebbe al Sonnino seppure per cinque minuti. E sarebbe ben stolido quel Re d’Italia che, lusingato da codeste cantafere, esponesse sé e la Corona a seguirlo. Dato che il parlamentarismo sia caduto in trent’anni, il Re in trenta mesi andrebbe all’aria se rimanesse solo a bersaglio dei partiti27.

25  G. Arangio-Ruiz, Storia costituzionale del Regno d’Italia, Jovene, Napoli 1985 (1898), p. 533. 26  L. Mortara, Statuto, Corona e Parlamento, in «La Riforma Sociale», VII, 1897, pp. 175-181. 27  D. Farini, Diario, cit., vol. II, p. 1102.

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Farini, tra l’altro, ebbe modo di affrontare il tema direttamente con Sonnino: Hai meditato sul pericolo di associare troppo il Re alla politica del Ministero? I partiti avrebbero facile giuoco di chiamare ogni atto meno popolare frutto della politica regia, dinastica, non nazionale [...]. Egli mi rispose che [...] bisognava finirla con l’onnipotenza cancelleresca di un presidente del Consiglio che si vale della Corona per imporsi alla Camera, della Camera per imporsi alla Corona28.

Fra i sostenitori del governo parlamentare, invece, si riconosceva solo l’eccezionalità dell’intervento regio. La tutela e il miglioramento delle istituzioni rappresentative sarebbero dovuti venire dal consolidamento della classe politica e per questo, ad esempio, Luzzatti invitava le nuove generazioni ad assimilare «lo spirito» dei padri fondatori della patria, in particolare di Balbo e Cavour, «maestri incomparabili di libertà [che] eccitarono a lasciar gli esempi delle Costituzioni di Francia e di Spagna, i soli noti nel 1848, e a ispirarsi al modello britannico»29. Un modello che, nonostante la notevole attrazione esercitata sui liberali italiani sin da dopo l’unificazione, appariva ormai significativamente appannato. Mentre noi – scriveva Brunialti nel 1896 – stavamo ammirando l’autogoverno inglese, la partecipazione attiva delle classi dirigenti al governo e all’amministrazione e tutte quelle singolarità rispondenti ad una evoluzione storica più che a teorici concetti degli studiosi, l’Inghilterra riformava i suoi ordinamenti, toglieva alla costituzione e all’amministrazione i fondamenti antichissimi e l’espressione aristocratica, cedeva alla democrazia imperante, si accostava alle istituzioni del continente, con nuovo accentramento dei poteri, con semplificazioni ed equiparazioni continue, con la vasta sostituzione di funzionari retribuiti agli onorari, col conseguente ingente aumento delle pubbliche spese30.

  Ivi, pp. 1304 e 1314-1315.   L. Luzzatti, Decadenza e risorgimento dei reggimenti parlamentari, in «Nuova Antologia», CLXIII, 1899, p. 364. 30  A. Brunialti, Il diritto pubblico inglese e la sua trasformazione, citato in P. Beneduce, Culture dei giuristi e «revisione» orlandiana: le immagini della crisi, in A. Mazzacane (a c. di), I giuristi e la crisi dello stato liberale fra otto e novecento, Liguori, Napoli 1986, pp. 102-103. 28 29

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Il mitico liberalismo britannico si era ormai imbrattato dei «peccati» continentali. I liberali italiani avevano perso la propria stella polare e la misteriosa notte che univa i due secoli dovette sembrare ancora più buia. Con la fine del secolo, insieme ai modelli veniva meno anche la speranza di forgiare una interpretazione costituzionale che fungesse da base comune agli interessi in campo. Dietro l’acceso dibattito di questi anni infatti si scorgeva soprattutto un tentativo di «resa dei conti» tra fazioni politiche. Quanti facevano appello al ritorno in campo del potere regio avevano in realtà in mente la scorciatoia «dittatoriale» (intesa in senso tecnico del termine) che ormai appariva lo strumento invocato soprattutto dai riformatori «delusi». Sonnino, l’esponente più in vista di tale settore, sin da giovane si era confrontato con i problemi della modernizzazione del paese e riteneva illuministicamente di conoscere «la ricetta» per il superamento dei ritardi. Si era tuttavia, a ragione, convinto che qualunque prospettiva in questa direzione avrebbe incontrato le resistenze di gran parte delle «corporazioni» socio-politiche, indisponibili di fronte alla rinuncia ai propri privilegi. Queste, dal canto loro, trovavano tutela e spazi di manovra nel sistema del «negoziato» parlamentare, ma erano anche componenti «d’ordine»: secondo Sonnino, se fosse stata l’istituzione monarchica a tagliar loro sotto i piedi l’erba degli interessi particolari e dei «traffici» a base politico-elettorale, le resistenze si sarebbero ridotte, come d’altronde aveva per un momento dimostrato la «dittatura governativa» crispina. Un progetto illuminista, appunto, che cozzava però contro la dura realtà, e cioè che innanzitutto la Corona non era un’istituzione formalizzata e basata su un impianto burocratico prestigioso e competente; inoltre il Re non aveva dato prova di autonomia di giudizio e grande perspicacia politica. Era lo stesso perno del progetto, dunque, a non essere in grado di fornire alcuna certezza di volere e sapere usare la propria preminenza istituzionale per mettersi a capo di quel partito «riformatore» e modernizzante che lo candidava a riprendere il ruolo di «Capo dello Stato». La responsabilità del Sovrano di non riuscire a indossare né le vesti dell’autorevole e «dinamico» garante del sistema statutario né quelle dell’interprete «liberale» di una nuova sensibilità costituzionale andava ricercata anche nella sua incapacità di cogliere non solo gli umori del paese, ma persino quelli di gran parte della stessa classe politica, circondato e protetto da quel «par-

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tito di corte» totalmente a digiuno sui nuovi approcci del moderno costituzionalismo. Tutto questo non poteva rimanere senza conseguenze in un contesto come quello italiano, in cui esisteva un ancora irrisolto problema di leadership nazionale. Da questo punto di vista, gli esempi stranieri finirono per far risaltare l’esigenza di una Corona in grado di coagulare attorno a sé la nazione. La regina Vittoria e Guglielmo II, ad esempio, pur in diversi contesti costituzionali, apparivano stabili punti di riferimento nelle grandi trasformazioni dei propri paesi. In Italia, d’altronde, tale vuoto non si poteva surrogare: la prematura scomparsa di Cavour, «mente» politica dell’unificazione d’Italia, assurto ben presto a «mito» di rilevanza europea, la presenza di una classe politica divisa nelle sue provenienze «regionali», la potente concorrenza «da sinistra» di una leadership anch’essa di rilievo internazionale come quella di Garibaldi, la spada di Damocle del papato sull’unificazione non potevano non porre al paese il problema di una figura «regale» che, anche in termini di prestigio internazionale, risolvesse le debolezze strutturali di una identità nazionale in formazione. «Ripugnanti connubi» Alla vigilia delle elezioni del 1897, l’obiettivo di Rudinì consisteva nel costruire da destra il grande «partito medio»; e per realizzarlo doveva salvaguardare la propria centralità deprimendo, a destra come a sinistra, le ascese politiche troppo insidiose e in grado di condizionarlo. Tra gli ambienti di Destra e del Centro, la sfida più pericolosa proveniva da Sonnino, anche in virtù di una ancora solida presenza delle milizie crispine disposte a seguire quello che, a causa dell’accentuato declino fisico di Crispi, appariva ormai il più attivo e prestigioso esponente della passata amministrazione. Con il deputato toscano, nonostante il guardingo ma costante corteggiamento del presidente del Consiglio, ogni avvicinamento in questa fase risultava impossibile. Più agevole invece continuava ad essere la strada degli accordi con la Sinistra, dove Zanardelli, Giolitti e Cavallotti operavano all’ombra del governo per ricostituire i propri schieramenti, ostacolati durante la stagione crispina. Fra tutti i gruppi della Sinistra, quello di Zanardelli appariva il più smanioso di occupare posizioni di potere, probabilmente un’e-

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sigenza direttamente proporzionale al grado di ostracismo manifestato nei suoi confronti dalla corte. Questo connubio, che da subito gli osservatori battezzarono come «innaturale», mostrava in effetti il ruolo chiave giocato dalla sfera governativa, intesa come ambito di produzione e gestione di potere, nel determinare alleanze e strategie politiche tra coloro che si ritenevano legittimati a guidare il paese. C’era indubbiamente anche un calcolo opportunistico nelle manovre dei due leader: Zanardelli pensava ad estendere la propria base di potere non solo per condizionare l’esecutivo esistente, ma soprattutto per guadagnare posizioni di forza in vista di una futura coalizione di Sinistra al governo. Rudinì invece, ritenendo, secondo una voce diffusa, il deputato bresciano politicamente e fisicamente agli sgoccioli, pensava di potersi avvalere del suo sostegno per mantenere la Sinistra nell’orbita del governo ed impedirne una coalizione a suo sfavore. Tuttavia accanto alle consuete manovre di potere si percepiva una sincera preoccupazione per l’incombente minaccia delle Estreme. Soprattutto Rudinì, ormai dismessa ogni prospettiva di avvicinamento ai cattolici, rilanciava il tema delle minacce estremistiche riprendendo con convinzione la tradizionale opera repressiva nei confronti di associazioni e circoli socialisti. Ottenne infatti il sostegno di Zanardelli e di una parte della Sinistra liberale sulle nuove norme del domicilio coatto e sui provvedimenti di controllo e di scioglimento delle associazioni «sovversive». Il presidente del Consiglio sapeva che sul suo capo pendeva l’accusa di irresolutezza e di accondiscendenza verso il radicalismo e per questo, avvicinandosi le elezioni, volle trasmettere agli ambienti di corte un’immagine di affidabilità riguardo alla capacità di mantenimento dell’ordine pubblico. La breve campagna elettorale, aperta dal presidente del Consiglio il 5 marzo 1897 con un Manifesto agli elettori italiani, visse sostanzialmente sul conflitto tra il governo e i suoi alleati da una parte e Sonnino con spezzoni di Centro-destra e crispini dall’altra. Le principali divergenze riguardavano la questione africana, ma erano altresì sintomatiche del contrasto di fondo che, al di là della ormai inutilizzabile collocazione topografica degli schieramenti, divideva la classe politica italiana. L’annuncio delle elezioni, unitamente all’entusiastico impegno nell’orientare l’opinione pubblica a fianco dei greci nella crisi internazionale per il possesso dell’isola di Creta, diedero slancio all’azione di Cavallotti: «Africa

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e questione morale – scrisse il leader radicale a Giampietro – [...] ecco i due perni»31. Anche per Giolitti le elezioni rappresentarono un’occasione di rilancio, e non a caso il suo apparve, fra i programmi elettorali, uno dei più puntigliosi. Il fatto era che – come scrisse ai suoi elettori di Caraglio – «dopo un lungo silenzio, sentivo il dovere di rendervi esatto conto del mio operato e dei miei propositi»32. Tra questi, il più articolato riguardava l’atteggiamento da tenere nei confronti del socialismo, che egli continuava a ritenere un fenomeno «che non può trovare rimedio in misure violente», bensì in un’efficace difesa della piccola proprietà terriera e delle istituzioni parlamentari, che invece subivano «opera di demolizione» proprio da coloro che si proclamavano conservatori. I socialisti, che contavano circa 20.000 iscritti ed oltre 440 sezioni, avevano confermato, in occasione del IV congresso del partito tenutosi nel luglio 1896, la strategia della partecipazione alla lotta parlamentare, ritenuta a tutti gli effetti «un segno dell’organizzazione cosciente dei proletari»33. La necessità di competere sul terreno della propaganda aveva spinto i delegati a deliberare la pubblicazione di un quotidiano del partito che, con il nome di «Avanti!», vide la luce a Roma il 25 dicembre 1896 sotto la direzione di Leonida Bissolati. Anche grazie al nuovo organo, che iniziò entusiasticamente con 3.000 abbonati e una tiratura di 50.000 copie, i socialisti riuscirono ad inserirsi efficacemente nelle polemiche antigovernative, che si concentrarono in quei giorni sulla proposta, avanzata da Rudinì, del voto amministrativo plurimo a favore dei più censiti e dei più istruiti. Le elezioni, precedute come al solito dalle collaudate pressioni governative nei collegi a rischio, registrarono un’affluenza piuttosto scarsa e diedero un buon successo ai socialisti (passati da 11 a 15 deputati), ai radicali e ai repubblicani. Il governo rafforzò comunque la propria maggioranza, ottenendo consensi soprattutto al Nord, e riuscì ad eliminare molti fedelissimi di Crispi. Da subito cominciarono a manifestarsi i primi concreti segnali del nuovo assetto politico.   E. Giampietro, Ricordi e riforme, De Arcangelis, Casalbordino 1903, p. 160.   L. Lucchini (a c. di), La politica italiana dal 1848 al 1897. Programmi di governo, 3 voll., Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1899, vol. III, p. 420. 33  C. Sambucco, Parlamentaristi ed antiparlamentaristi, in «Critica Sociale», 1-10-1896, p. 304. 31

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Zanardelli, grazie al decisivo sostegno del governo, fu eletto presidente della Camera. La sua nomina, tuttavia, preoccupò gli ambienti moderati e il Re che, auspicando una possibile intesa tra Rudinì e Sonnino, e temendo l’eventualità di un ministero Zanardelli, non mancò di fare pressioni sui seguaci del leader toscano affinché mantenessero un contegno prudente e cauto nei confronti del governo. Il presidente del Consiglio si trovava, dunque, a gestire un equilibrio politico assai delicato e pieno d’insidie. Oltre a dover affrontare subito l’inaspettata questione di Creta, la cui annessione da parte dei greci nel febbraio del ’97 era sfociata in una guerra russo-turca, il governo sembrò precipitare in una crisi definitiva quando, il 22 aprile, il Sovrano fu oggetto di un attentato compiuto da Pietro Acciarito, fabbro di idee vagamente anarchiche. Umberto rimase illeso, l’attentatore fu arrestato e, successivamente, condannato all’ergastolo; tuttavia l’episodio suscitò nei circoli parlamentari «mal’umore e scoppi d’indignazione», offrendo anche il pretesto per nuove e diffuse manifestazioni di fede monarchica. Il governo cercò di sfruttare l’accaduto per rafforzare e legittimare le misure repressive contro i gruppi «sovversivi» e decise quindi, sebbene l’attentatore avesse dichiarato di aver agito da solo, di giocare la carta del complotto, come si auspicava negli ambienti vicini al Re. «Ottima cosa sarebbe la convinzione d’un complotto – confidò Farini al presidente del Consiglio – per indurre questa società molle a difendersi. I radicali, i socialisti, i repubblicani si sbracciano a persuadere che complotto non vi è»34. Benché non vi fossero che labili indizi, la forza pubblica cominciò a compiere arresti e perquisizioni fra socialisti, anarchici e repubblicani, accreditando la tesi della incombente minaccia alle istituzioni dello Stato. Uno degli arrestati, Romeo Frezzi, morì nel carcere di San Michele per le sevizie cui fu sottoposto dagli agenti. All’indignata presa di posizione di Cavallotti, che portò il caso in Parlamento, fecero eco gli appelli di Costa ed Imbriani per l’avvio di un’inchiesta parlamentare sulle carceri e sull’operato della polizia. L’episodio fornì l’occasione per discutere la necessità di rivedere le leggi di pubblica sicurezza in direzione di una più efficace tutela dell’ordine pubblico; una necessità che sembrava di nuovo impellente a causa del riacutizzarsi delle tensioni sociali.

  D. Farini, Diario, cit., vol. II, pp. 1174-1175.

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Nel corso della primavera, infatti, si verificarono in tutta la penisola nuovi scioperi contro le tasse, l’aumento dei prezzi e per la riduzione della giornata lavorativa. Il disagio fu particolarmente sentito al Sud e nelle campagne, dove la ripresa economica, costante fin dal ’96, non si era ancora tradotta in relativa stabilità sociale e non aveva risolto le difficoltà dei contadini, i quali continuavano ad alimentare il sempre più largo fenomeno migratorio. Si stavano già intravvedendo, dunque, i sintomi delle drammatiche tensioni che sarebbero esplose l’anno successivo. In effetti il calo della produzione nazionale di frumento aveva determinato una brusca lievitazione del prezzo del pane, e numerose furono le agitazioni nelle zone bracciantili del cremonese e del ferrarese e nella zona di Molinella. Complessivamente, nel corso del 1897 vi furono 189 scioperi, 12 nel solo settore agricolo, che riguardarono circa 60.000 lavoratori, di cui quasi 2/3 erano donne. Le agitazioni comunque non coinvolsero solo le classi lavoratrici; il programma finanziario di Luzzatti, che prevedeva l’aumento della tassazione sulla ricchezza mobile, e gli accertamenti compiuti dagli intendenti di Finanza sui redditi medio-alti diedero luogo a numerose proteste antigovernative anche fra commercianti, imprenditori e liberi professionisti. A Roma, all’inizio di ottobre, negozianti e industriali deliberarono di chiudere gli esercizi per il successivo 18 febbraio, data prevista per l’introduzione delle nuove tasse (poi ritirate). A causa del clima di tensione generatosi durante l’assemblea, si ebbero tafferugli e cruenti scontri con le forze dell’ordine. Nell’inquieto clima di fine secolo si sperimentò dunque quell’occupazione violenta della piazza da parte dei ceti medi a cui i nazionalisti, pochi anni dopo, avrebbero dato una più decisa legittimazione politica e ideale. Per quanto riguardava invece gli scioperi e i tumulti bracciantili, il governo decise di intensificare le misure di controllo e ordinò di procedere ad arresti e allo scioglimento delle Camere del Lavoro. Si segnalava, tra l’altro, una ripresa dell’iniziativa anarchica: Errico Malatesta, giunto ad Ancona all’inizio del 1897, svolse per dieci mesi una decisa battaglia anche contro il legalitarismo socialista, tornando ad alimentare, attraverso il periodico «L’Agitazione», l’ideale di un «quarantotto» libertario che avrebbe trovato spazio nel clima d’instabilità del 1898. I socialisti intanto, al V congresso tenutosi a Bologna nel settembre del 1897, stabilirono che l’azione politica non poteva essere disgiunta dalla lotta economica, la sola che avrebbe

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conservato al partito il suo carattere «rivoluzionario» e «di classe». Quanto al comportamento «di fronte alle classi agricole», il congresso deliberò di intensificare l’attività sindacale e la propaganda politica nei confronti dei mezzadri e dei coloni, «per la limitazione delle ore di lavoro e per l’aumento delle mercedi». Ma non furono soltanto gli scioperi e la propaganda socialista ad impensierire il governo, dal momento che il forte sviluppo dell’associazionismo cattolico e la rinnovata vitalità dell’Opera dei Congressi vennero a costituire nel corso dell’estate una minaccia non meno agguerrita di quella dei «rossi» per la cittadella liberale. Al congresso nazionale dei cattolici prevalse nettamente la linea del più assoluto intransigentismo e si intensificarono gli attacchi allo Stato liberale; scandali, sconfitte e disordini apparivano ancora all’Opera dei Congressi, sempre diretta da Paganuzzi, come una lezione della Provvidenza divina alle nefandezze dello stato laico. Al congresso di Milano fu quindi ribadita l’assoluta obbedienza al Papa e l’applicazione indiscussa del non expedit, e fu confermata la sottomissione di tutte le associazioni del laicato cattolico all’Opera dei Congressi. Rudinì, che si era sempre mostrato disposto ad utilizzare l’elemento religioso in funzione conservatrice, a questo punto preferì cambiare linea e invitò i prefetti ad intervenire contro le manifestazioni, che potevano costituire una minaccia «alle istituzioni e ai regolamenti che ci reggono». Fu inoltre interdetto l’uso delle chiese per le riunioni politiche, e furono avviati controlli sulle persone che facevano parte delle associazioni cattoliche. Tali provvedimenti, se da un lato furono adottati per salvaguardare l’ordine che sembrava «aggredito» da destra come da sinistra, erano essenziali per attirare Zanardelli nel governo. Dopo l’esposizione finanziaria di Luzzatti il 1° dicembre, con la quale furono annunciati il raggiungimento del pareggio e le dimissioni di Pelloux dal ministero della Guerra, Rudinì colse l’occasione per effettuare un ampio rimpasto di governo, includendovi, dopo lunghe e controverse trattative, anche Zanardelli in qualità di ministro di Grazia e Giustizia. Per Rudinì, infatti, l’ingresso di Zanardelli avrebbe dovuto «impedire che attorno a lui si fac[esse] la concentrazione della sinistra: il che sarebbe un pericolo»35. Ad altri due zanardelliani furono assegnati i portafogli dell’Istruzione e

  Ivi, p. 1212.

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dell’Agricoltura. Con tale manovra, Rudinì spostò leggermente a sinistra (6 contro i 5 di Destra) l’asse del governo riuscendo, al tempo stesso, a spezzare la concentrazione del fronte progressista auspicata da Cavallotti e Giolitti. Il Sovrano accolse con sollievo la soluzione Rudinì-Zanardelli, in quanto la nuova combinazione ministeriale, «dopo l’entrata dello Zanardelli, ha il vantaggio di escludere a successore di questo un ministero Zanardelli»36. Molti dei gruppi moderati della Camera, che avevano auspicato fino all’ultimo una sterzata in senso opposto, rimasero dunque delusi dal nuovo assetto e iniziarono a orchestrare, sotto la guida di Sonnino, un’opposizione a oltranza. Anche i giolittiani erano amareggiati «per la dignità offesa del [...] Partito»: la «colpa» di Zanardelli era «tanto più grave, per quanto egli aveva avuto prove non dubbie della deferenza dei suoi colleghi tutti di Sinistra. [...] la sua non è un’alleanza, ma una vera [...] abdicazione»37. Alla riapertura della Camera, il 20 dicembre, il nuovo governo si trovò pertanto di fronte ad un clima di viva irritazione. Il motivo generale del dissenso, comune tanto all’Estrema radicale quanto ai giolittiani, ai crispini e alla Destra di Sonnino, risiedeva nell’artificiosità con cui appariva costituito il «connubio» Rudinì-Zanardelli, un «accoppiamento ripugnante», come lo definì Cavallotti, che soprattutto la Sinistra giudicava un’offesa alla propria dignità e tradizione. Ai duri interventi di Cavallotti, Fortis e Colombo, il presidente del Consiglio rispose invitando alla «concordia» tutti i deputati e denunciando l’impossibilità, in un paese che «non crede più ai vecchi partiti», di evitare ministeri di coalizione. Al termine della seduta l’ordine del giorno di sfiducia al governo fu respinto per soli 16 voti di scarto: votarono contro il ministero socialisti, radicali, repubblicani, giolittiani, crispini, il gruppo di Sonnino e la Destra lombarda. «Giorni d’incomparabile bruttezza» Il 1898 si aprì con una forte progettualità riformatrice da parte del governo, tesa soprattutto a dimostrare la vitalità della nuova compa-

  Ivi, p. 1224.   Citato in Quarant’anni di politica, cit., p. 314.

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gine ministeriale e ad attenuare il crescente malcontento sociale per il rincaro del costo della vita. Il vasto programma riformatore inizialmente pensato da Rudinì (una legge di sgravio delle quote minime da imposte dirette, un progetto di riforma del sistema giudiziario e del codice penale, una legge sugli istituti bancari ed una serie di provvedimenti sulle pensioni, sulla colonizzazione interna, per la tutela dell’emigrazione e per la creazione di una cassa di credito comunale) finì per essere ridimensionato a causa delle non rosee condizioni del bilancio e dei fragili equilibri che reggevano il governo. In un clima dunque di incertezza riguardo alle forze politiche su cui Rudinì poteva effettivamente far conto, furono approvate la legge che istituiva la Cassa di credito comunale e provinciale, la quale avrebbe dovuto fornire agli enti locali i mezzi per finanziare opere a vantaggio dell’agricoltura, la legge che impose l’obbligo per i datori di lavoro di assicurare gli operai contro gli infortuni e quella (varata sotto il successivo governo Pelloux) che istituiva la Cassa nazionale di Previdenza per invalidità e vecchiaia. Questa, sebbene introducesse un’assicurazione solo facoltativa, rappresentò, insieme a quella per gli infortuni sul lavoro, un passo avanti nel campo della legislazione sociale. Anche per i liberali si trattava di procedere in tale direzione. Il direttore di «Nuova Antologia», ad esempio, riconobbe spesso in questi anni l’urgenza di una più ampia e dinamica legislazione sociale, ritenuta la nuova frontiera della gestione della sfera pubblica. Tuttavia, dinanzi alle crescenti aspettative generali e all’aggravarsi delle condizioni dell’agricoltura dopo il cattivo raccolto dell’estate del ’97, apparvero chiari sia i limiti dei provvedimenti sociali adottati dal governo, sia le incertezze di una compagine ministeriale che stava progressivamente perdendo appoggi a destra senza alcun corrispettivo guadagno a sinistra, e che sembrava incapace di intendere le «vere urgenze» del momento. I liberali moderati ministeriali, soprattutto lombardi, cominciavano infatti a condividere le argomentazioni di Colombo sull’inadeguatezza dell’indirizzo politico e finanziario del governo che ostacolava, anziché favorire, lo slancio industriale e commerciale dell’ultimo periodo. A proposito della legge sull’assicurazione contro gli infortuni, ad esempio, l’ex ministro del Tesoro Colombo disse alla Camera che si trattava di una legge che peggiorava le condizioni dell’industria mettendola «in condizioni difficili rispetto all’estero». Il governo, arenatosi nelle secche di un cauto pragmatismo, cominciava ad apparire debole e, «anche

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usando la massima prudenza e il massimo spirito di conciliazione», incapace di «reggersi in piedi»38. Giolitti vedeva nei continui rimpasti ministeriali degli ultimi anni «puri e semplici cambiamenti di persone per soddisfare a pretese parlamentari e tenersi in piedi»39. In questo clima di sfiducia, anche il tentativo del presidente del Consiglio di compattare l’opinione pubblica attorno alle celebrazioni per il cinquantenario dei moti del 1848 e della concessione dello Statuto si rivelò del tutto inefficace. Persino Farini giudicò assolutamente fuori luogo i solenni festeggiamenti, che definì «una quarantottata», dinanzi alla «confusione da governo provvisorio» che regnava in quel momento e che doveva «far ridere alle nostre spalle più d’uno in Francia ed in Inghilterra»40. In effetti il ricordo delle barricate finì addirittura per accrescere l’eccitazione di quella parte della società maggiormente colpita dalla crisi economica. Nel corso dei primi mesi del ’98 si aggravarono le tensioni sociali e i disagi dovuti alla difficile congiuntura che stava attraversando, in gran parte dell’Europa, il settore agricolo; in Italia, per quanto l’economia fosse nel complesso in netta ripresa (soprattutto al Nord), l’apparato produttivo agricolo, precipitato in una fase di stasi già a partire dal ’91 e vincolato da sistemi di coltivazione ancora poco redditizi, si rivelò incapace di soddisfare il fabbisogno interno di una popolazione che negli ultimi sette anni era aumentata di oltre tre milioni e mezzo di unità. Si legge nel «Giornale degli Economisti»: «Il popolo oggi non ha i mezzi che avea ancora nel 1895, per comperare all’estero la quantità di grano necessaria a colmare la deficienza di produzione interna. [...] Se il popolo ricorre alla violenza e al saccheggio [...] è perché non gli restano altri mezzi d’acquisto»41. Il malessere era determinato, oltre che dalla carestia e dall’espandersi della disoccupazione, soprattutto dal rincaro del prezzo del pane, base primaria di sostentamento per la maggior parte della popolazione. La disponibilità quotidiana pro capite passò infatti dai 330 grammi del 1884 ai 277 del 1897, a fronte degli oltre 550 grammi di cui poteva disporre un lavoratore francese, toccando così il livello più basso mai raggiunto nella storia passata del paese;   Rassegna politica del 15-1-1898, in «Rassegna Nazionale», IC, 1898, p. 389.   G. Giolitti, Memorie della mia vita, Garzanti, Milano 19452, p. 137. 40  D. Farini, Diario, cit., vol. II, p. 1252. 41  Cronaca dell’1-2-1898, in «Il Giornale degli Economisti», XVI, 1898, p. 180. 38 39

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il costo al dettaglio di un chilo di pane era mediamente, nel 1898, di 40 centesimi, poco meno della metà della paga giornaliera di un operaio qualificato del Nord. Inizialmente Rudinì sembrò trascurare la gravità del fenomeno, sebbene fin dall’autunno del ’97 vi fossero stati episodi di violenza e saccheggi di grano soprattutto nelle Marche e in Romagna, e ripetuti appelli fossero giunti al governo da parte degli enti locali, delle Camere di Commercio e delle associazioni operaie per la riduzione del dazio sui grani importati. Rudinì, persuaso che la perdita dell’ingente entrata costituita dai dazi sul grano avrebbe gravemente compromesso il raggiungimento del pareggio e messo in forse il vasto programma riformatore, già nell’agosto ’97 aveva scritto al ministro del Tesoro Luzzatti: «è doloroso, ma il grano deve, in quest’anno, salvarci dal disavanzo»42. A queste ragioni si aggiungeva anche la preoccupazione di non irritare gli ambienti agrari, soprattutto meridionali, per i quali l’alto prezzo dei cereali compensava in parte le ingenti uscite dovute alla pressione fiscale. A gennaio, comunque, di fronte all’acuirsi dei fermenti e del malessere popolare (vi furono tumulti, saccheggi e assalti ai municipi in molte regioni), il governo deliberò l’emanazione di un decreto reale che riduceva fino al 30 aprile successivo il dazio doganale sul grano da 75 lire a 50 lire per tonnellata. Assieme al provvedimento di temporanea riduzione dei dazi, preso secondo l’opposizione con colpevole ritardo, si decise di richiamare sotto le armi 40.000 uomini per far fronte ad eventuali altre sommosse; i tumulti, sedati ovunque con un massiccio intervento della forza pubblica, in alcuni casi sfociarono in scontri cruenti, con morti e feriti. Mentre la stampa moderata, in questa prima fase dei disordini, sembrava incline a sottovalutare l’aspetto economico della crisi e a minimizzare le cause del malcontento, riprese vigore la campagna antiprotezionistica contro il blocco degli interessi agrario-industriali. Gli economisti liberisti accentuarono le proprie requisitorie contro la politica economica e finanziaria dei governi degli ultimi anni, responsabili di proteggere gli interessi dei gruppi privilegiati. Tuttavia, nonostante fosse abbastanza diffusa nell’opinione pubblica e fra gli intellettuali l’idea che

42  Citato in M. Belardinelli, Un esperimento liberal-conservatore: i governi Di Rudinì (1896-1898), Elia, Roma 1976, p. 246.

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la temporanea riduzione dei dazi granari fosse solo un inefficace palliativo, negli ambienti politici moderati si cominciò a parlare di insurrezione contro i poteri costituiti, che sembrava più facilmente legittimare le severe misure repressive in atto. Non si erano ancora spenti del tutto gli echi delle discussioni sul problema del dazio granario, quando a complicare ulteriormente la posizione del governo intervenne un fatto sensazionale e inaspettato: la scomparsa di Felice Cavallotti, ucciso in duello il 6 marzo 1898 dal deputato della Destra Ferruccio Macola, direttore della «Gazzetta di Venezia». La morte dell’impetuoso tribuno dell’Estrema – che si andava ad aggiungere al forzato ritiro di Imbriani, colpito da ictus nel settembre 1897 – suscitò viva commozione da un capo all’altro della penisola e fu sentita, in diversi ambienti della società, come la perdita irreparabile del solo uomo che, in quei concitati momenti, avrebbe potuto salvare il paese dal torchio della repressione. I funerali di Cavallotti, tenutisi a Milano il 9 marzo alla presenza di centinaia di migliaia di persone, si trasformarono infatti in un’imponente manifestazione antigovernativa, galvanizzando la protesta popolare attorno agli accenti repubblicani che risuonarono nei molti discorsi commemorativi. Di forte impatto emotivo e dense di importanti contenuti politici furono le parole pronunciate da Turati il quale, parlando a nome di tutti i socialisti italiani, disse: Non finì egli solo. È finita l’opera con la quale tutto un mondo, sacrato al tramonto, tentava disperato resistere alle corruzioni profonde che lo inquinarono; tentava fuggire al destino, e più degnamente soccombere. [...] È morto, ed è l’ultimo! L’ultimo! Intendete, cittadini, lo strazio di cotesta parola? Perché essa ci annunzia che qui non a un uomo diciamo addio; ma a una generazione di uomini; a quanto fu in essa di bello, di alto, di fiero; – che non un sepolcro è questo che spalanchiamo, ma un cimitero vastissimo, nel quale un’era della Storia riposa; – che, non fra due anni, come novella il lunario, ma oggi, qui, il secolo si suggella43.

La stampa radicale e filorepubblicana approfittò dell’occasione per ridare fiato al tema della «questione morale», delle imputazioni a carico di Crispi e della rilassatezza, a tale riguardo, della compagine   Citato in A. Galante Garrone, Felice Cavallotti, Utet, Torino 1976, pp. 723-

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governativa; in particolare si volle evidenziare l’onestà intellettuale, la coerenza dei propositi e l’ostinata resistenza ad ogni forma di sopruso che avevano caratterizzato la battagliera vita politica del compianto leader, di cui anche Giolitti riconobbe la condotta «mai obliqua e sleale»44. Il radicale Pantano lanciò un significativo appello ai socialisti per una possibile concordia di obiettivi tra borghesia e masse lavoratrici. A fare le spese dell’accaduto fu il governo, che dovette subire non soltanto il nuovo clima di apoteosi del repubblicanesimo e il progressivo accostamento delle forze radicali ai socialisti, ma anche il risentimento della maggioranza dei liberali moderati, che l’accusava di non aver impedito le spettacolari onoranze funebri in onore di Cavallotti. Verso la metà di aprile esplosero nuovi e violenti tumulti da un capo all’altro della penisola, a seguito della riduzione del flusso delle importazioni di grano d’oltreoceano causata dalla guerra ispanoamericana. Il 26 iniziò in Emilia-Romagna un’ondata di sommosse che si protrasse per diverse settimane e registrò la maggiore intensità in Sicilia, Lombardia e Piemonte. Il presidente del Consiglio, che il 1° maggio aveva confidato a Luzzatti come «la situazione presente [fosse] gravissima»45, decise di ricorrere alla linea autoritaria e ai mezzi eccezionali. Il 2 maggio si autorizzarono i prefetti, in caso di «gravi persistenti disordini», ad affidare il ristabilimento dell’ordine alle autorità militari; lo stesso giorno venne sospeso il dazio comunale sulle farine ed il 4 fu prorogato di altri due mesi il decreto di riduzione del dazio granario. Si trattava comunque di provvedimenti che, per il ritardo con cui furono eseguiti, non ebbero l’effetto sperato; l’ondata di tumulti, infatti, entrata in una fase calante al Sud, raggiunse il culmine a Milano nelle giornate tra il 6 e il 9 maggio. Qui le difficoltà dovute al rincaro dei prezzi si erano fatte sentire meno che altrove e le agitazioni rivelavano pertanto l’aspirazione delle masse popolari, ancora in gran parte confusa, di prendere parte attiva alla vita politica. Nel capoluogo lombardo quindi, che era uno degli ambienti più politicamente attivi del paese anche grazie all’opera svolta dall’Estrema, i tumulti si trasformarono in una lotta per le libertà fondamentali e per una maggiore giustizia sociale. Il   G. Giolitti, Memorie, cit., p. 138.   L. Luzzatti, Memorie tratte dal carteggio e da altri documenti, 2 voll., Zanichelli, Bologna 1931, vol. II, p. 509. 44 45

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carattere politicizzato che assunse nel milanese la «protesta dello stomaco», secondo l’acuta definizione data da Colajanni ai moti del ’98, gettò nel panico l’opinione pubblica moderata. Il governo, sentendosi minacciato da quella che appariva ai liberali più timorosi una cospirazione rivoluzionaria a livello nazionale, si sentì autorizzato ad agire con inusitata durezza. Memore del successo che aveva riportato Crispi nel 1893-94, il presidente del Consiglio pensò di replicare l’uso del pugno di ferro, probabilmente anche nel tentativo di accontentare il sempre più agguerrito «partito» di corte, che auspicava per Milano una «severa lezione». L’allarme e l’indignazione di una parte della società e della classe politica erano dunque alle stelle; in una lettera al ministro Luzzatti si legge: la maggioranza del paese sente il bisogno di un governo forte e forte che voglia dar mano a tutti i provvedimenti necessari per paralizzare l’opera delle sètte antinazionali. Siate dunque forti e non curatevi dei clamori. [...] Ritornate al vecchio domicilio coatto, la sola arma che può difendere il paese contro i facinorosi, e l’unica mena di cui questi abbiano paura46.

Anche la stampa liberal-moderata contribuì ad amplificare i timori, sposando la tesi che si trattasse di un moto eversivo guidato da anarchici, socialisti e radicali teso al sovvertimento dell’ordine liberale. Scene di saccheggi nelle case padronali, uccisioni di possidenti e «folle selvagge» scese nelle piazze con la sete «di sangue e di vendetta» riempivano le pagine di quotidiani e periodici moderati che, prospettando il crollo imminente delle istituzioni dello Stato, denunciavano l’eccessiva tolleranza del presidente del Consiglio, giudicandolo «intrappolato» dagli accordi con Zanardelli. Da questo momento, e per i due anni successivi, il liberalismo moderato sembrò dunque convergere sulla necessità immediata di un restringimento delle libertà statutarie (in particolare nel campo della libertà di stampa e delle associazioni), di una riforma costituzionale che aumentasse le prerogative della Corona e del Senato e sull’opportunità della repressione manu militari in tutti i casi di minaccia alle istituzioni e all’ordine pubblico.

  L. Luzzatti, Memorie, cit., vol. II, p. 512.

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Lo stato d’assedio là dove fu necessario imporlo, non deve essere espressione di una passeggera opportunità ma un mezzo di governo per risanare fino in fondo un organismo malato, avvelenato. Lasci il Ministero che qui si svolga l’azione salutare di una Autorità saggia ed investita di speciali poteri [...]. Ormai qui e qui solo sta la salvezza della patria47.

Il panico che percorse in quei drammatici frangenti gran parte dell’opinione pubblica e dei settori politici liberali si sarebbe rivelato, tuttavia, per molti aspetti eccessivo e ingiustificato. Giolitti, anni dopo, riconobbe che era stata «un’esplosione di malcontento. Ma perdurava ancora nelle classi dirigenti uno stato d’animo paurosissimo [...] e il governo, rispecchiando tale sentimento, si lasciò andare a provvedimenti eccessivi»48. Anche il «Times», commentando gli avvenimenti italiani di maggio, osservò che i disordini erano dovuti alla miseria e all’«abbondanza di tasse», soprattutto nel milanese, e che «parlare di socialismo, o di un altro moto rivoluzionario organizzato significa in questo caso solo baloccarsi con delle frasi»49. Le sommosse, infatti, nascevano quasi sempre in modo spontaneo come disperata protesta per l’indigenza e la disoccupazione dilaganti, e non ci fu da parte dei partiti estremi alcun vero proposito di pervenire a una rivendicazione organizzata e consapevole dei diritti dei meno abbienti. In realtà non mancarono incitamenti alla rivolta e pressioni per dare alla protesta un vero carattere politico, come si evince, ad esempio, da un articolo apparso agli inizi di maggio in un periodico anarchico, dove si diceva: «il bello poi si è che questa volta il popolo italiano non vuol desistere: ha cominciato a menar le mani e ci ha preso gusto. Forse siamo alla vigilia della battaglia finale»50. Ma nel complesso la dirigenza socialista non fece nulla per trasformare quei moti in una vera rivoluzione. Secondo Labriola a guidare quelle manifestazioni erano «folle fameliche, senza preconcetti o intuizioni politiche»51. Turati, dalle pagine di «Critica Sociale», si limitava ad   «La Perseveranza», 11-5-1898.   G. Giolitti, Memorie, cit., p. 139. 49  Citato in E. Ragionieri, Italia giudicata. 1861-1945 ovvero la storia degli italiani scritta dagli altri, vol. I, Dall’unificazione alla crisi di fine secolo 1861-1900, Einaudi, Torino 1976, p. 239. 50  L. Luzzatti, Memorie, cit., vol. II, p. 510. 51   A. Labriola, Storia di dieci anni 1899-1909, Feltrinelli, Milano 1975 (1910), p. 18. 47 48

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affermare che dinanzi alla carestia, alla «fame collettiva, acuta, azzannante, che sconvolge i cervelli ed arma il braccio» della povera gente «lo sgoverno pseudo-borghese del signor Rudinì» non aveva fatto nulla, tutto preso «a adescare e civettare, a ballonzolare, con un piede in aria, sulla corda tesa dal Quirinale a Montecitorio»52. Il leader socialista espresse chiaramente la sua posizione in una lettera del 4 maggio 1898 a Salvemini che lo invitava a prendere la guida dell’insurrezione popolare in Italia: Quando si muove Milano, è per un concetto, sia pure grossolano: Roma, Napoli e il Meridione non rispondono. Quando si muovono questi ultimi è per un istinto – la fame – e non risponde Milano. Così il cerchio non è chiuso mai. [...] Io non credo a questi moti, e vorrei sbagliare. [...] E non mi sento di assumermi responsabilità gravissime per uno scopo che non vedo chiaro e che, nella migliore delle ipotesi, sarebbe una delusione53.

Salvemini, in realtà, rimase molto deluso dalla scelta turatiana e della maggioranza del partito di non tentare l’azione rivoluzionaria proprio nel momento in cui le masse si erano precipitate nella lotta. L’occasione dunque era stata persa per «l’idolatria della legalità» e chi nel momento buono si astiene dalla lotta, rinunzia a tutti i vantaggi di una possibile vittoria e si assicura tutti i danni di una certa sconfitta. L’avvenire è degli audaci e dei risoluti, non dei critici 54.

A Milano, in effetti, i socialisti non intervennero nei moti del maggio. Nel capoluogo lombardo i tumulti scoppiarono come reazione di indignata protesta alla politica repressiva messa in atto dal governo. A dare il via all’insurrezione furono in particolare la notizia dell’uccisione, nel corso di una manifestazione, dello studente Muzio Mussi, figlio del deputato radicale Giuseppe, ad opera della polizia e l’arresto di alcuni operai della Pirelli che stavano distribuendo un volantino socialista. Per tre giorni, in maniera spontanea e disordinata, la protesta dilagò per le strade di Milano, dove i tumultuanti

  F. Turati, Pane e libertà, in «Critica Sociale», 1-2-1898, pp. 33-34.   G. Salvemini, Carteggi, vol. I, 1895-1911, Feltrinelli, Milano 1968, p. 71. 54  Ivi, pp. 72-73. 52 53

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eressero numerose barricate senza poi essere in grado di difenderle, «perché non aveva[no] né armi né organizzazioni di sorta». Il 7 maggio, anche su sollecitazione delle autorità locali, il presidente del Consiglio decise di proclamare lo stato d’assedio nell’intera provincia di Milano, dal momento che «si fanno barricate e si tira tetti sulla truppa»55. Al generale Bava Beccaris fu dato l’incarico di provvedere al ripristino dell’ordine in qualità di Commissario straordinario con pieni poteri. I tumulti furono sedati manu militari in tempi brevi e con estrema durezza. Tutti i giornali d’opposizione furono soppressi e i loro direttori tratti in arresto; i presunti capi della rivolta, compresi i deputati socialisti e repubblicani che si trovavano a Milano in quei giorni, furono deferiti ai tribunali militari e successivamente condannati al carcere (dodici anni di reclusione fu la pena inflitta a Turati); le organizzazioni socialiste e repubblicane, tra cui la potente Lega dei ferrovieri, vennero sciolte. Secondo il bilancio ufficiale di quelle giornate, vi furono 80 morti e 450 feriti (2 morti e 22 feriti tra le forze dell’ordine); ma secondo fonti dell’opposizione i morti sarebbero stati circa 300. Nei tumulti avvenuti nel resto dell’Italia si contarono complessivamente 51 morti, di cui soltanto uno tra i militari. A Milano non mancarono episodi grotteschi, come quando fu attaccato un convento di cappuccini, presunto nascondiglio dei ribelli: le truppe si trovarono di fronte solo alcuni frati ed una quarantina di mendicanti. Luigi Albertini, futuro direttore del «Corriere della Sera», avrebbe in seguito spiegato il rigore della repressione, «di gran lunga sproporzionato alla gravità dei fatti», attribuendolo alla paura della classe politica, compreso «un santone della democrazia» del pari di Zanardelli, per «il serissimo pericolo che l’Italia correva». Dal canto loro, i zanardelliani giustificarono l’operato del governo argomentando che «l’attuale ministero se represse per dovere vi garantisce però dalla reazione con Sonnino»56. Per Albertini, tuttavia, la responsabilità delle drastiche misure adottate andava attribuita «allo stato d’animo allora dominante», all’idea cioè che «la rivoluzione fosse alle porte, [...] e fosse necessario soffocarla senza riguardi»57.   Citato in M. Belardinelli, Un esperimento liberal-conservatore, cit., p. 408.   Citato in Quarant’anni di politica, cit., p. 317. 57  L. Albertini, Vent’anni di vita politica (1898-1918), vol. I, 1898-1908, Zanichelli, Bologna 1950, pp. 14-15. 55 56

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Lo stato d’assedio venne comunque esteso anche alle province di Firenze, Livorno, Napoli e Como; il prefetto di Torino fece arrestare due deputati socialisti, ordinò la chiusura della Camera del Lavoro e la soppressione del settimanale «Grido del Popolo». A Roma, l’11 maggio, la sede dell’«Avanti!» fu invasa dalle forze di polizia e il direttore Bissolati venne arrestato assieme ad altri redattori; l’organo socialista poté continuare le pubblicazioni sotto la guida temporanea di Enrico Ferri. Anche Kuliscioff fu condannata a due anni di carcere per la sua propaganda socialista; la rivista turatiana «Critica Sociale» dovette sospendere fino al luglio ’99 le pubblicazioni. Le preoccupazioni di ampi strati dell’opinione pubblica moderata per il pericolo di veder abbattuto da un momento all’altro lo Stato liberale rientrarono quasi subito quando fu chiaro che la reazione aveva trionfalmente sconfitto le forze «sovversive». Per la borghesia liberale, infatti, quei tumulti erano stati la manifestazione emblematica dell’incapacità delle masse di venir assimilate pacificamente e gradualmente all’interno delle istituzioni dello Stato; l’«errore fondamentale» – secondo «La Perseveranza» – nella formazione dello Stato unitario «fu d’aver dato ad un paese delle istituzioni che non sono compatibili col suo stato di cultura e di civiltà»58. Era dunque venuto al pettine il «nodo» irrisolto del contrasto tra una cultura, quella liberale, che riteneva teoricamente di poter far crescere libertà e progresso in un contesto di sostanziale armonia e pace sociale, e l’irruzione scomposta delle masse sulla scena politica che, forzando i canali di legittimazione «consentiti», produceva esiti «destabilizzanti». Proprio sulla base di tale equivoco si spiegano i toni, spesso trionfalistici, con cui la stampa moderata commentò le repressioni del ’98. Si andava dall’esaltazione dell’esercito come la sola istituzione che, in quel marasma, aveva dato prova di fermezza e capacità decisionale, all’indignazione per il fatto che i «cittadini di uno stato libero ed avente una forma rappresentativa» fossero ricorsi alla violenza «anziché usare i mezzi legali eleggendo rappresentanti i quali sappiano e vogliano rimuovere le cause di quel malessere morale e materiale che pesa non solo sulle classi popolari, ma su tutto il paese»59. Inquieti, invece, apparivano gli ambienti dell’intellighenzia   Salus patriae, in «La Perseveranza», 9-5-1898.   R. Corniani, A proposito dei tumulti di Maggio, in «Rassegna Nazionale», CI, 1898, p. 533. 58 59

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liberale e qualche politico più «distaccato», che consideravano le misure repressive non solo ingiuste, ma anche «stolte» e mosse da «ridicole paure». Come scrisse Croce, «la reazione fa progresso, e con essa il suo fido indivisibile compagno, il cretinismo!»60. Il direttore e comproprietario del «Corriere della Sera» Torelli Viollier, uomo di ferme convinzioni liberali, per dissociarsi dall’indirizzo filogovernativo del quotidiano decise di rassegnare le dimissioni: «Tutta la stampa europea c’è contraria. [...] Siamo, a parer mio, in giorni di incomparabile bruttezza e nulla ricordo d’analogo dacché ho l’età della ragione. Vedo cose che mi ricordano i Borboni»61. L’ondata repressiva che si era abbattuta da un capo all’altro della penisola nella primavera del ’98 avrebbe poi trovato un’inquietante legittimazione nel conferimento da parte del Re di una decorazione a Bava Beccaris per «il grande servizio che [...] rese alle istituzioni ed alla civiltà» e come attestazione di «riconoscenza» della monarchia e della «Patria». Tuttavia se la repressione aveva, in qualche modo, finito per ricompattare alcuni settori moderati, non pochi all’opposizione avevano ripreso vigore. Alla fine il presidente del Consiglio, per non cadere vittima del «partito» di corte e dei sonniniani, decise di prorogare a tempo indeterminato la chiusura della Camera e di cercare un accordo definitivo all’interno del gabinetto sull’indirizzo programmatico e sui provvedimenti restrittivi da adottare per impedire la ripresa dei tumulti. Doveva, tuttavia, «vincere le ripugnanze di Zanardelli» il quale, cercando ora di scrollarsi di dosso il grave peso della sua complicità nella repressione ministeriale, rifiutava l’adozione di qualsiasi misura che limitasse la libertà di stampa e di associazione. Il solo punto di convergenza che Rudinì poté trovare col ministro della Giustizia fu quello della repressione anticlericale, che per quest’ultimo e per gran parte della Sinistra filomassonica costituiva l’unico mezzo per garantire un carattere veramente equanime ai provvedimenti contro i nemici delle istituzioni liberali, «rossi» o «neri» che fossero. In aggiunta alle misure adottate a Milano da Bava Beccaris e a Firenze dal generale Heusch contro le organizzazioni e la stampa 60  Citato in Storia del Parlamento Italiano, 20 voll., vol. X, Dalla guerra d’Africa all’accordo di Racconigi, a c. di F. Brancato, Flaccovio, Palermo 1973, p. 321. 61  Citato in M. Sagrestani, Italia di fine secolo. La lotta politico-parlamentare dal 1892 al 1900, Forni, Bologna 1976, p. 383.

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cattolica, fu pertanto emanato un decreto governativo che dava ordine ai prefetti di tutta Italia di sciogliere comitati diocesani e parrocchiali, associazioni e circoli cattolici e di sequestrare la stampa clericale. Tali drastiche misure portarono alla soppressione di tutti i giornali cattolici, di 4 comitati regionali, 70 comitati diocesani, 2500 comitati parrocchiali, 5 circoli universitari cattolici, 600 sezioni giovanili e 400 altre associazioni cattoliche di vario tipo. L’energica azione repressiva, soprattutto a Milano, era stata in parte sollecitata dagli stessi cattolici conciliatoristi, che vollero approfittare dell’occasione per regolare i conti con gli intransigenti. I gruppi facenti capo al vescovo Bonomelli, al conte Grabinski e al senatore Thaon di Revel esercitarono infatti non poche pressioni su Bava Beccaris affinché venissero colpiti i gangli dell’intransigentismo milanese. Gli ambienti clericali, sbigottiti dalla durezza dei provvedimenti e amareggiati nel vedersi equiparati a socialisti e anarchici, accusarono i liberali di aver perso la testa e, «per l’ansia affannosa di soffocare in un attimo i sintomi del male», di aver buttato «al fuoco altresì medicine e medici, rendendo con ciò quasi impossibile la cura delle cause»62. Ma si trattò di proteste fiacche che lasciavano trapelare i primi cedimenti, soprattutto all’interno dell’Opera dei Congressi, della vecchia compagine dell’intransigentismo. Alla fine i cattolici intransigenti dovettero prendere atto dell’inesistenza di una qualunque alternativa allo Stato liberale e della necessità di continuare a difendere la propria fede all’interno delle istituzioni esistenti, ponendosi piuttosto come elemento di opposizione al sovversivismo «rosso» e di freno alle accelerazioni progressiste di certe parti politiche. Una linea nella quale, tuttavia, il gruppo facente capo all’Opera dei Congressi finì per essere scavalcato dai transigenti conservatori, come dimostrò chiaramente la petizione al Papa per la revoca del non expedit che fu pubblicata su «Rassegna Nazionale». Il tentativo della vecchia corrente intransigente di porsi ora come elemento di tutela e di garanzia dell’ordine morale e sociale, esigenza peraltro confermata dal Pontefice nell’enciclica Spesse Volte dell’agosto 1898, risultò dunque fallimentare, perché il terreno della possibile conciliazione tra liberalismo e cattolicesimo

62  Citato in Il Parlamento italiano 1861-1988, vol. VI, Crispi e la crisi di fine secolo. Da Crispi a Zanardelli 1888-1901, Nuova CEI, Milano 1989, p. 321.

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era già occupato dai transigenti, mentre dall’altra parte si assisteva ad un forte slancio del movimento della Democrazia cristiana. Quest’ultimo, sotto la guida di Murri e Meda, approfittò delle misure governative anticlericali per avanzare, soprattutto dalle pagine della «Cultura Sociale» (la rivista democratico-cristiana fondata da Murri nel gennaio del ’98), dure accuse alla classe dirigente liberale, il cui torto era quello di impedire «ogni sano movimento di riforma sociale»; per Murri, da allora in poi «i difensori delle libertà costituzionali saranno i cattolici; ogni intoppo alla libertà di stampa e di associazione è un intoppo all’azione cattolica»63. Ai cattolici democratici il socialismo appariva un positivo fenomeno di reazione al liberalismo, anche se da condannare in quanto ateo. L’ala sinistra dell’intransigentismo cattolico, sempre più agguerrita, cercava dunque di superare il tradizionale attendismo della dirigenza dell’Opera dei Congressi e al tempo stesso di porre le premesse di una generale riorganizzazione dello Stato nel nome del solidarismo cattolico e della partecipazione popolare. Le caute aperture degli intransigenti e le tensioni dovute all’applicazione dei provvedimenti anticlericali fecero esplodere il dissidio che già da diverso tempo covava all’interno del ministero Rudinì. Mentre infatti Visconti Venosta e una parte dei moderati volevano impedire il peggioramento dei rapporti col Vaticano ed erano disposti a raccogliere l’invito dei cattolici, la Sinistra zanardelliana chiedeva ulteriori provvedimenti anticlericali come il ritiro degli exequatur e dei placet ai vescovi e ai parroci «antipatriottici». A queste tensioni si aggiunsero contrasti più generali sulle misure restrittive da adottare in via permanente in materia di stampa e di associazione e sulla riforma della legge elettorale amministrativa. Il 29 maggio pertanto Rudinì rassegnò le dimissioni, ponendo fine con questo atto al breve esperimento della coalizione tra moderatismo e Sinistra progressista. Il presidente del Consiglio, qualche settimana dopo, ricostruì con Farini le ragioni della propria scelta: Uscito il Visconti, rotto il mio disegno, non potevo ritenere lo Zanardelli senza che il ministero non acquistasse un colore di decisa sinistra,

63  Citato in E. Preziosi, Obbedienti in piedi. La vicenda dell’Azione Cattolica in Italia, SEI, Torino 1996, p. 29.

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che io non potevo, né volevo dargli, perché il primo ad esserne fuori di posto in esso sarei stato io e la frazione moderata della maggioranza mi avrebbe abbandonato64.

Di fronte ad una crisi avvenuta a Parlamento chiuso, il Sovrano riconfermò la fiducia a Rudinì, che diede vita a un governo politicamente più omogeneo e del tutto spostato a destra. Alla riapertura della Camera il 16 giugno, il governo, ormai libero dai condizionamenti della Sinistra, presentò una serie di progetti di legge decisamente illiberali; tali cioè da contraddire il sistema statutario di garanzia delle libertà e volti a rendere definitivi alcuni dei provvedimenti repressivi adottati durante i tumulti. Tali disegni di legge prevedevano il divieto di sciopero e di associazione per i dipendenti pubblici; severe limitazioni alla libertà di stampa e la sostituzione della responsabilità penale del gerente con quella del direttore della testata; la militarizzazione, in caso di necessità, degli addetti al servizio ferroviario e postale; l’obbligo per tutte le associazioni di presentare alle autorità di Pubblica Sicurezza statuto ed elenco dei soci; lo scioglimento delle organizzazioni e delle società giudicate politicamente e socialmente pericolose; misure per il rafforzamento della disciplina nelle scuole e il controllo politico degli insegnanti. Il presidente del Consiglio chiese il sostegno di tutti i deputati in quanto «nessun governo potrebbe [...] assumersi la responsabilità del mantenimento dell’ordine pubblico senza essere fortificato dal voto della Camera». Nel dibattito che seguì, Sonnino ribadì ancora una volta la disorganicità dell’indirizzo politico di Rudinì. Di fatto, rinfacciandogli le precedenti alleanze con l’Estrema, gli negava il diritto di considerarsi «centro e anima di una larga ricostituzione del partito liberale temperato». Nei giorni successivi furono pochi i deputati a dimostrarsi favorevoli ai provvedimenti presentati dal governo, e non solo i diversi schieramenti della Sinistra espressero dure condanne ai propositi liberticidi del governo, ma anche la Destra moderata, e specialmente lombarda, si mostrò avversa al presidente del Consiglio, rimproverandogli di aver messo insieme frettolosamente una compagine che non sarebbe stata in grado di attuare le misure di reazione preventiva presentate. Rudinì, che fino a pochi giorni prima

  D. Farini, Diario, cit., vol. II, p. 1309.

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sembrava convinto di poter evitare la crisi di governo, decise ora di superare l’opposizione della maggioranza dei deputati chiedendo al Re di sciogliere la Camera e rendere esecutivi i provvedimenti eccezionali e l’esercizio del bilancio mediante decreti reali. Il Sovrano non aderì alle richieste del presidente del Consiglio, e il 18 giugno Rudinì rassegnò le dimissioni del suo quinto ed ultimo ministero. Data la gravità del momento e le difficoltà di costituire per via parlamentare una nuova e solida compagine governativa, la gestione della crisi passò nelle mani del Re. Da tempo Umberto si era convinto della necessità di un «ministero militare» presieduto da Pelloux, generale savoiardo di indiscussa lealtà e dedizione alla Corona ma vicino alla Sinistra costituzionale, che era stato più volte ministro della Guerra con Rudinì e Giolitti. La scelta di Pelloux sembrava dunque conciliare il bisogno di un indirizzo politico energico e di un governo che avesse il pieno appoggio della Corona con l’esigenza di tenere conto dei rapporti di forza alla Camera. Qui infatti, dove il peso della Sinistra costituzionale era notevole, il generale poté contare sull’appoggio di un vasto schieramento che andava dai giolittiani ai crispini, dal gruppo di Zanardelli ad una parte dei radicali e della Destra. Pelloux infatti «dava serii affidamenti ai partiti liberali»65, che gli riconoscevano il merito di aver rifiutato il ricorso allo stato d’assedio quando si trovava a Bari durante le sommosse in qualità di regio commissario straordinario; al tempo stesso i moderati si aspettavano da lui l’energia necessaria per garantire il rispetto delle istituzioni e la tutela dell’ordine in un momento di ancora grande allarmismo per i recenti disordini. Delusi, ovviamente, Sonnino e la Destra toscana, a proposito dei quali il Re, con caustica ironia, ebbe a dire: «di che si lagnano? Ho applicato le teorie del Torniamo allo Statuto, scegliendo il ministero a mio talento»66. Il regolamento dei conti Il 29 giugno 1898 il governo, composto prevalentemente di uomini della Sinistra costituzionale, entrò in carica. Alla Camera, pre-

  G. Giolitti, Memorie, cit., p. 142.   D. Farini, Diario, cit., vol. II, p. 1336.

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sentando il programma ministeriale, Pelloux dichiarò che sarebbe stata cura del governo «cercare di diminuire, con opportune disposizioni e con razionale sviluppo dell’attività pubblica e privata, quel malessere il quale, se in molti luoghi è stato un semplice pretesto dei recenti tumulti, non è men vero che esiste, ed è generalmente riconosciuto». All’interno il gabinetto si proponeva «il mantenimento assoluto dell’ordine, la tutela costante e gelosa delle istituzioni e della società, la pacificazione degli animi»; in riferimento alle relazioni internazionali dell’Italia, Pelloux disse di voler salvaguardare «la pace più sincera, conservando le migliori relazioni con tutte le potenze amiche ed alleate». Contrari al nuovo governo erano i socialisti, per i quali intervenne Ferri con un eloquente appello alla difesa delle garanzie costituzionali e al rispetto delle libertà; un binomio che, sin dalla fase della repressione crispina, era diventato per il partito turatiano, più che un programma politico, una questione di vita o di morte. Alla fine il nuovo governo ottenne la fiducia con una schiacciante maggioranza di 206 voti favorevoli e 40 contrari; secondo Farini fu «una mascherata: tutti immascherati da ministeriali»67. Lo appoggiarono infatti la Sinistra costituzionale, il gruppo di Sonnino, la Destra lombarda e la parte dei radicali legata ad Ettore Sacchi, mentre all’opposizione restavano i socialisti, i repubblicani e lo sparuto drappello rudiniano. In prima battuta Pelloux cercò di muoversi con cautela, volendo giocare la carta del governo di unità nazionale per ricondurre all’interno di un rigoroso contesto legalitario i problemi politici e sociali emersi nei mesi precedenti. Soprattutto si rese conto che non era opportuno affrontare subito in Parlamento la questione delle libertà politiche e si limitò a chiedere, poco prima della chiusura della sessione, l’approvazione di alcuni provvedimenti restrittivi ma temporanei, che si ispiravano ai disegni di legge rudiniani opportunamente mitigati. Il 7 luglio aveva inoltre denunciato alla Camera gli eccessi della repressione compiuta dal suo predecessore; un atto, questo, che il presidente del Consiglio sentiva di dovere alle forze di Sinistra che lo sostenevano. Due giorni dopo il Parlamento approvò a larghissima maggioranza l’autorizzazione a procedere contro Turati e altri tre deputati socialisti e repubblicani per eccitamento alla guer-

  Ivi, p. 1333.

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ra civile, istigazione e associazione a delinquere. Pelloux, che nel frattempo aveva autorizzato la ricostituzione di quelle associazioni a carico delle quali l’autorità giudiziaria non aveva rinvenuto prove d’accusa, non volle comunque allentare la pressione governativa per la garanzia dell’ordine. Varie circolari del ministero degli Interni intimavano ai prefetti di ricorrere al domicilio coatto e di rafforzare le misure di controllo e di repressione in tutti i casi sospetti. Tra la fine di luglio e la metà d’agosto la situazione nel paese tornò alla normalità, e fu pertanto revocato lo stato d’assedio a Napoli, Firenze e Milano. Furono inoltre abrogate le principali misure repressive contro i cattolici e venne concessa la ripresa delle pubblicazioni dei giornali soppressi, ma non l’amnistia ai condannati per i fatti di maggio. Nell’opinione pubblica e nella stampa, i giudizi sul nuovo governo erano molto discordi. In effetti, essendo ancora molto vivo il timore di nuovi tumulti, il disegno di una reazione organica era caldeggiato da diversi settori della società e degli ambienti moderati, che consideravano pericolose la flessibilità e le cautele di un governo sbilanciato a sinistra. Furono, in particolare, i gruppi della Destra toscana e milanese a intraprendere una vasta campagna di mobilitazione delle forze «autenticamente» liberali contro i pericoli del sovversivismo, e la cauta fiducia accordata al governo restava comunque vincolata alla sua capacità di mostrarsi «fermo e costante» nel mantenimento dell’ordine e nella difesa dei principi d’autorità. I conservatori della «Rassegna Nazionale» esprimevano invece maggiori perplessità sulla nuova compagine, ritenendola debole e dominata dalla Sinistra. In realtà, proprio da diversi ambienti dell’intellighenzia liberale più avanzata venivano forti dubbi circa le intenzioni pacificatrici mostrate dal governo in quei primi mesi. Le preoccupazioni maggiori venivano ovviamente dal Partito socialista. Pelloux, scriveva l’«Avanti!» il 3 luglio, «è un liberale di Sinistra, ma vestito da generale»68. Il partito, dove continuava a rafforzarsi la linea aperturista e riformista di Turati, voleva quindi in primo luogo veder riconosciute le libertà fondamentali e i diritti costituzionali, che soli avrebbero potuto garantire il processo di sviluppo della società. In questo senso i socialisti condannarono fin da subito la matrice trasformistica del governo Pelloux, debole accozzaglia «di ambiziosetti e di vigliacchetti». Le proteste dei socialisti divennero

  Citato in M. Sagrestani, Italia di fine secolo, cit., p. 393.

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più decise quando, dopo le sentenze contro Turati (condannato a 12 anni) e gli altri deputati, il governo rifiutò la concessione dell’amnistia generale; la richiesta dell’Estrema di un sincero atto di riparazione da parte del ministero per le ingiuste repressioni della passata amministrazione trovò comunque ampi consensi anche negli ambienti liberali progressisti. Lo stesso Giolitti, tra l’altro, si sentì in dovere di rivolgersi al presidente del Consiglio invitandolo a rivedere le proprie posizioni circa i reati politici: Non tarderemo ad avere in Italia – gli scrisse il 19 settembre – una agitazione che avrà causa e più ancora pretesto dalle condizioni fatte ai detenuti condannati per cause politiche dai tribunali militari. [...] Comprendo la necessità di non togliere efficacia all’opera dei tribunali militari; ma mi pare certo che il reato politico nella coscienza pubblica è sempre qualcosa di diverso dal reato comune69.

L’atmosfera si mantenne tranquilla sino alla fine dell’anno quando, le tensioni riaffiorarono allorché Pelloux presentò alla Camera una serie di leggi restrittive delle libertà, i cosiddetti «provvedimenti politici», nell’intento di completare l’opera di tutela dell’ordine iniziata da Rudinì nel maggio precedente e di fornire stabilmente al governo gli strumenti legali per farlo. Nel corso degli ultimi mesi, in realtà, la situazione era molto migliorata sia sul piano sociale sia su quello economico, grazie ad una fase di generale espansione e al trattato commerciale italo-francese negoziato a Parigi dal ministro Luzzatti e concluso il 21 novembre 1898, che non solo favorì l’esportazione di alcuni prodotti agricoli italiani in Francia, ma rafforzò sul piano politico la tendenza all’avvicinamento tra i due paesi. Forte di questi risultati, Pelloux volle dare una sanzione definitiva alla svolta autoritaria del governo e colpire in maniera drastica le organizzazioni socialiste; secondo Giolitti, il presidente del Consiglio era rimasto «impressionato» dal fatto che, «non ostante la repressione del ’98, il movimento operaio e socialista si propagava per tutta l’alta Italia, con grande spavento dei conservatori»70. All’inizio di febbraio furono dunque presentati tre disegni di legge che nel complesso miravano a militarizzare senza limiti di   Citato in Quarant’anni di politica, cit., p. 343.   G. Giolitti, Memorie, cit., p. 143.

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tempo i dipendenti pubblici, a punire lo sciopero degli impiegati e degli operai addetti ai pubblici servizi, a istituire il domicilio coatto per i delinquenti recidivi, a sciogliere, dietro richiesta dell’autorità giudiziaria, le associazioni «dirette a sovvertire per vie di fatto gli ordinamenti dello stato», a frenare la libertà di stampa, stabilendo, accanto alla responsabilità del gerente, quella dell’autore dello scritto incriminato. Il progetto di legge sulla stampa introduceva inoltre notevoli restrizioni alla libertà d’espressione. L’Associazione della stampa espresse immediatamente parere negativo, e Scarfoglio su «Il Mattino» parlò di «colpo di stato»71. Questo provvedimento, più degli altri, incontrò vivaci resistenze in molti settori che pure sino a quel momento si erano mostrati comprensivi verso il governo. Per la stampa italiana si trattò di un passaggio decisivo verso la nascita di una più chiara coscienza del ruolo determinante assunto in quegli anni nella formazione dell’opinione pubblica, anche in considerazione dei violenti attacchi di cui erano fatti oggetto in quel periodo i fogli dell’opposizione, ritenuti dai moderati una delle principali cause di perversione delle masse. Non esitiamo a dire – affermava «La Stampa» – che se questi provvedimenti venissero approvati, non vi sarebbe più libertà di stampa come esiste in tutti i paesi civili del mondo, anche là dove è forte l’autorità del sovrano e del governo come in Austria e in Germania, e bisognerebbe andare in Russia, in un impero dispotico, per trovare leggi analoghe o peggiori72.

Pelloux, affermando che lo scopo complessivo dei provvedimenti era «quello di tutelare l’ordine pubblico», chiese che fosse adottata nella discussione la procedura delle tre letture, convinto di poter ovviare alla maggiore complessità dell’iter procedurale facendo affidamento su una larga maggioranza. Il 16 febbraio ebbe così inizio alla Camera il dibattito sui provvedimenti eccezionali che, protrattosi per quasi un mese, avrebbe

71  Citato in S. Cilibrizzi, Storia Parlamentare Politica e Diplomatica d’Italia. Da Novara a Vittorio Veneto, vol. III, 1896-1909, Società Editrice Dante Alighieri, Milano 1929, p. 105. 72  Citato in V. Castronovo, L. Giacheri Fossati, N. Tranfaglia, La stampa italiana nell’età liberale, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 137.

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invece mostrato la radicalizzazione delle diverse posizioni e l’impossibilità di trovare vie mediane che ne attenuassero la portata. A sostegno dei provvedimenti governativi parlò, tra gli altri, Sonnino che, appellandosi alla necessità di uscire dalla fase transitoria delle misure eccezionali, si dichiarò favorevole alle misure chieste dal governo: Sono, a parer mio, da considerarsi oggimai come anarchici tanto coloro che all’ufficio della difesa collettiva vorrebbero supplire turchescamente col solo arbitrio di chi ha in mano il potere, quanto coloro i quali pretendono che alla salute pubblica debba provvedersi non con le leggi, ma col solo giuoco libero e sfrenato degli impulsi individuali. Dove non imperano sovrane le leggi [...] non esiste vero ordine pubblico.

I socialisti, e con loro tutti i deputati dell’Estrema, si opposero strenuamente alle proposte del governo, e Bissolati espresse il «dovere» del proprio partito di sostenere le forze di quella «borghesia intelligente e moderna», autenticamente liberale e progressista che avrebbe potuto mettere fine al conservatorismo anacronistico del governo: «essa fa il suo interesse diretto – concluse il socialista lombardo – noi facciamo il nostro interesse indiretto, mirando a creare in Italia tali forme di vita civile per le quali sia possibile lo sviluppo del proletariato». Era diventato ormai chiaro a tutta l’Estrema Sinistra che quella che si andava profilando era una lotta all’ultimo sangue tra la sopraffazione liberticida e la tutela dei diritti e del progresso. Secondo i deputati dell’Estrema non c’erano dubbi che i provvedimenti fossero dettati dalla «paura» e dall’«odio» e che i ministri, trincerandosi dietro «una frase magica: l’ordine pubblico!», avevano finito per diventare i «teologi dell’ordine» e per colpire assieme alla licenza, come dicevano di voler fare, la libertà stessa. Alla fine, comunque, il passaggio alla seconda lettura del provvedimento sulle modificazioni alla legge di pubblica sicurezza e all’editto sulla stampa, votato il 4 marzo, fu approvato a schiacciante maggioranza: 310 voti favorevoli e 93 contrari (socialisti, repubblicani, radicali e qualche deputato della Sinistra costituzionale). Ancora più compatta si rivelò la maggioranza governativa quando furono votati il secondo e il terzo disegno di legge: il provvedimento sulla militarizzazione dei dipendenti pubblici ebbe solo 47 voti contrari, quello sui delinquenti recidivi ne ebbe 38. La Sinistra giolittiana e zanardelliana, nel complesso contraria solo alla legge sulla stampa,

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votò a favore di tutti e tre i provvedimenti governativi; Giolitti motivò il proprio voto con queste parole, che raccolsero vivi applausi in tutto il Centro-sinistra: Se gli articoli che verranno proposti mi sembrassero lesivi di qualche pubblica libertà, mi riservo piena libertà d’azione. Voterò dunque per il passaggio alla seconda lettura con la speranza che ne escano provvedimenti utili all’ordine pubblico e con la certezza che il Parlamento italiano non voterà mai alcun provvedimento che segni un passo sulla via della reazione.

Anche in seguito giustificò quelle posizioni in quanto dettate dalla volontà di impedire un cedimento di Pelloux alle pressioni autoritarie della Destra e dalla speranza di poter ottenere modifiche e attenuazioni delle misure restrittive nelle successive letture. «A me – scrisse Giolitti nelle sue memorie – [...] repugnava di credere che Pelloux, andato al governo con un programma liberale, volesse volgersi ad una politica reazionaria»73. La rottura tra Giolitti e il governo si consumò bruscamente di lì a poco, quando un fatto di politica internazionale venne a complicare la situazione interna. Pelloux infatti, con l’intento di dare un più ampio respiro al proprio indirizzo politico e di assecondare gli interessi del blocco siderurgico-navale, pensò di inserire anche l’Italia nella gara di spartizione della Cina che, iniziata con la guerra cino-giapponese del 1894-95, stava coinvolgendo le maggiori potenze europee. Il ministro degli Esteri Canevaro iniziò quindi le trattative per ottenere la cessione in affitto della baia di San Mun e il riconoscimento di una zona d’influenza italiana nella provincia dello Zhejiang. La sottovalutazione della situazione da parte della diplomazia italiana e la fretta con cui furono condotte le trattative portarono al rifiuto della Cina di concedere quanto richiesto. Lo smacco subìto e le critiche che cominciarono a piovere sul governo convinsero Pelloux della necessità di evitare un dibattito parlamentare sulla questione cinese. Anche la politica estera, dunque, era sopraggiunta ad accrescere le difficoltà della maggioranza, tanto più che il trattato commerciale con la Francia aveva suscitato forti preoccupazioni nella cancelleria tedesca, e il ministro degli Esteri Von Bülow aveva dichiarato che la Germania non avrebbe gradito.   G. Giolitti, Memorie, cit., p. 143.

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Pelloux si rese conto pertanto che la politica estera e interna degli ultimi mesi avevano a tal punto spostato l’indirizzo politico governativo da non rendere più possibile continuare con la maggioranza che lo aveva sostenuto fino ad allora; mentre era ancora in corso il dibattito in aula sulla questione cinese, annunciò quindi le dimissioni del gabinetto. La crisi di governo, apertasi senza un voto della Camera, si concluse con un reincarico a Pelloux, il quale costituì questa volta un governo fortemente inclinato a destra. Nella formazione della nuova compagine ministeriale un ruolo preponderante fu giocato da Sonnino, il quale, nonostante i convulsi tentativi del presidente incaricato di fargli assumere il ministero degli Esteri o degli Interni, alla fine acconsentì solo ad «aiutare qualunque combinazione si facesse che [...] creasse una vera situazione parlamentare»74. Fu proprio Sonnino infatti a stilare la lista completa dei nuovi ministri. «Così Pelloux – annotò Farini – [...] è giunto a fare un ministero come, dal 1876 in poi, non vi fu mai l’eguale di tendenze, origini, propositi conservatori»75. La Sinistra costituzionale di Giolitti e Zanardelli, che aveva costituito il nerbo del primo governo Pelloux, si trovò bruscamente all’opposizione, mentre Sonnino diventava il più ascoltato collaboratore del presidente del Consiglio. A questo punto le posizioni politiche tornavano ad essere più chiare e Giolitti era diventato lo spauracchio dell’alternativa, da utilizzare per mantenere compatto il governo. Nel giugno 1899, quando iniziò alla Camera il dibattito in seconda lettura dei provvedimenti politici, «la vita parlamentare fu travolta in una lotta senza limitazioni»76. I gruppi della Sinistra Estrema, capitanati da Ferri, Bissolati, Colajanni, Barzilai e Prampolini, avviarono un uso sistematico della pratica ostruzionistica, che era rimasta l’unica arma a loro disposizione per contrastare la sfida della maggioranza. L’ostruzionismo – fino ad allora adottato solo in qualche frangente nella lotta contro i governi Crispi – consisteva nella pratica dilatoria dei lavori assembleari attraverso lunghissimi discorsi e sistematiche interruzioni degli interventi. Giolittiani e zanardelliani non vi parteciparono, assumendo un più prudente atteggiamento   S. Sonnino, Diario, cit., pp. 403-404.   D. Farini, Diario, cit., vol. II, pp. 1498-1499. 76  G. Giolitti, Memorie, cit., p. 146. 74 75

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che non era né di appoggio, né di opposizione sistematica al governo; Giolitti anzi ricordò che in quell’occasione ci si trovava «presi fra due violenze: quella del governo che presentava leggi contro i diritti statutari, e quella degli estremi che rendevano impossibile il funzionamento del Parlamento»77. Pelloux, spazientito dall’insolito e tenace metodo di lotta, chiese di iscrivere all’ordine del giorno la proposta di modificazione del regolamento camerale formulata precedentemente da Sonnino. Essa prevedeva l’introduzione della possibilità per la Camera di deliberare, su proposta del presidente, «per alzata e seduta, senza alcuna discussione e dichiarazione di voto», il tempo massimo di ciascun intervento, nonché il giorno e l’ora in cui doveva essere terminato il dibattito e iniziare la votazione. Si trattava di una misura che avrebbe colpito al cuore la possibilità di resistenza della minoranza attraverso il solo strumento di «ostruzione» che poteva tutelarla dall’arbitrio del governo; un simile drastico provvedimento avrebbe creato un congegno procedurale tale da limitare di significato della stessa rappresentanza parlamentare. L’Estrema tuttavia, nonostante le accuse di gran parte della stampa liberale e cattolica, non si dette per vinta e spostò l’uso dell’ostruzionismo dai provvedimenti politici alla riforma del regolamento. Il 22 giugno il governo decise di affondare l’attacco decisivo all’opposizione: per mezzo di un decreto vennero sospese per sei giorni le sedute della Camera e fu stabilito, con il palese sostegno del Sovrano, di riunire in dieci articoli di un decreto-legge i provvedimenti sulla stampa e sulla pubblica sicurezza intorno ai quali si stava dibattendo. Con o senza l’approvazione del Parlamento, essi sarebbero entrati in vigore il 20 luglio 1899. Pelloux alla riapertura del Parlamento, mise i deputati di fronte al fatto compiuto della conversione in legge del decreto. Ammise che si trattava di misure «eccezionali», ma lo erano pure «le condizioni che sono state create alla Camera per impedirgli di esercitare le sue funzioni, e al Governo per impedirgli di dirigere e regolare i lavori del Parlamento». Il ricorso ai decreti-legge (abbastanza frequente con i precedenti ministeri, soprattutto relativamente alle questioni finanziarie) in questo caso comportava una deliberata e drastica violazione dei diritti del Parlamento; infatti la Camera era

  Ibidem.

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stata prorogata solo per consentire l’emanazione del decreto, fatto firmare dal Sovrano nei sei giorni di sospensione, senza che vi fosse alcuna reale urgenza. L’ultimatum posto all’Assemblea scatenò le reazioni violentissime dell’opposizione; Zanardelli, che si era dimesso da presidente della Camera a fine maggio, contrariato per non essere stato sentito dal Re durante la crisi, disse: alle libere agitazioni dei Governi liberi si può preferire la calma e la tranquillità dei Governi assoluti [...]; ma finché non si distruggono queste istituzioni, che furono meta suprema delle nostre aspirazioni nel dì del servaggio, non si possono sostituire le vane immagini alla sostanza del regime rappresentativo.

Diverse perplessità si registrarono anche nelle file della Destra, dove in molti si mostrarono preoccupati proprio dell’indebolimento dello Statuto che sembrava emergere dall’utilizzo sproporzionato dei decreti-legge. Rudinì, ad esempio, disse che il decreto del 22 giugno era «cosa assai grave [...] uno strappo evidentemente fatto al nostro Statuto fondamentale» e ribadì la proposta di modificare il regolamento camerale. Il presidente del Consiglio decise comunque di proseguire per la sua strada e di mettere ai voti la richiesta di Sonnino di inviare il disegno di legge per la conversione del decreto alla commissione che aveva già esaminato il progetto iniziale sui provvedimenti politici. La proposta passò, ma l’indomani, Prampolini domandò l’approvazione, per appello nominale, del processo verbale della seduta precedente. Contro il presidente della Camera si scatenarono le aspre invettive dei deputati dell’Estrema. Tra le grida di «compare» e «buffone», Pantano gli intimò di andarsene «via da quel posto! Ella non può più occupare quel posto!». Sonnino e Bissolati vennero addirittura alle mani, mentre Prampolini e altri socialisti rovesciarono le urne disperdendo le schede di coloro che avevano già votato. Al termine della tumultuosa seduta fu annunciata la chiusura della sessione parlamentare. Si disse che nelle fasi più concitate Pelloux fosse arrivato a chiedere al presidente della Camera di far entrare l’esercito in aula per «arrestare i tumultuanti». La magistratura decise comunque di intervenire d’ufficio, sin dal 4 luglio, contro i deputati Bissolati, Morgari, Prampolini e De Felice per aver impedito il normale svolgimento delle funzioni assembleari; il processo non si svolse perché gli imputati, che già si trovavano in

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carcere, riacquisirono la loro immunità parlamentare quando, con un decreto reale, fu annunciata l’apertura della terza sessione della legislatura per il 14 novembre successivo. Alla chiusura della Camera dunque il governo era giunto senza essere approdato ad alcun provvedimento legislativo, sopraffatto dalla tenace, e disperata, strategia ostruzionistica dell’opposizione. In effetti nel periodo relativo alla II e III sessione (ottobre 1898-maggio 1900) della XX legislatura si ebbe, per riprendere il criterio indicatore già utilizzato per le legislature dominate da Depretis e Crispi, il più alto «grado di resistenza» della Camera ai progetti di legge governativi di tutto il primo quarantennio unitario. Il 72% dei progetti legislativi presentati dall’esecutivo alla Camera, infatti, non si tramutò in legge, un dato particolarmente significativo se confrontato con il 38% raggiunto in media nel periodo 1861-1902. Ovviamente tale «picco» andava in buona parte attribuito al massiccio utilizzo della tattica ostruzionistica da parte dell’opposizione; tuttavia segnali eloquenti in tal senso si erano registrati già nella prima sessione di quella legislatura (marzo 1897-luglio 1898), quando tale pratica non era ancora in uso. Infatti, nonostante una Camera appena eletta e apparentemente favorevole, il grado di resistenza era stato del 44,5%, il più elevato dall’epoca del contrastato declino della Destra storica. Le ragioni andavano probabilmente individuate nel fatto che anche i deputati di secondo piano percepivano non solo la mancanza di «parti» politiche ben distinte, quanto e soprattutto l’eccessivo grado di artificiosità (e dunque di precarietà) di un trasformismo come quello rudiniano, che non rispondeva più all’originale logica dell’incontro tra due centri contigui, ma semplicemente tentava di assemblare componenti dichiaratamente alternative in nome di un’esigenza «di spartizione di posti tra questo o quel gruppo personale»78: se non fosse riuscito con Zanardelli, Rudinì dichiarò esplicitamente che avrebbe tentato «di avere favorevoli o Giolitti, o Sonnino o Cavallotti»79. Tale situazione aveva accentuato la diffidenza dei leader, resi ansiosi dalla instabilità di un centro governativo «improprio» e per di più non particolarmente gradito alla Corona. Questo alto grado di resistenza della Camera, dunque, metteva

  S. Sonnino, Diario, cit., p. 404.   D. Farini, Diario, cit., vol. II, p. 1103.

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in mostra la mancanza di una vera leadership governativa e lasciava presagire una vita parlamentare incentrata più sulle manovre di successione alla carica di presidente del Consiglio che sull’attività legislativa. Si confermava quanto scritto nel 1894 da Antonio Labriola, secondo cui alcuni tratti della Camera italiana erano in gran parte funzionali non alla rappresentanza dei contrasti d’interesse del paese, che pure continuavano a manifestarsi implacabilmente, ma alle esigenze delle «duecentomila persone che fanno politica e vivono di politica». Per lo più a Montecitorio «tutto è fluido, insicuro e pronto a svanire» e domina l’arte di «arrangiare, combinare, stravolgere e aggirare tutto». Dunque, «se il ministero vuole superare, non tanto la resistenza dei partiti, poiché in generale una tale resistenza non esiste nel Parlamento italiano, ma almeno gli intrighi delle consorterie parlamentari [...] deve incutere paura e rispetto, e liberare i capi delle consorterie dalla paura dei loro elettori con una paura ancora maggiore»80. I deputati avevano soprattutto paura della «convocazione dei comizi», perché ciò implicava la spesso incerta sfida per la riconquista del seggio, che continuava ad essere un’operazione dispendiosa. Per affrontarla, il reddito di gran parte dei deputati, per lo più proveniente da attività libero professionali o da rendite, doveva essere necessariamente di buon livello, continuando ad essere vietata ogni forma di indennità per l’esercizio della deputazione, nonostante le richieste provenienti dagli ambienti radicali e socialisti. Alla fine del secolo comunque il profilo dei rappresentanti della nazione non si era molto modificato rispetto a quello del decennio precedente: aumentavano i laureati in giurisprudenza (il 53% del totale nella XX legislatura) e diminuivano i nobili, che passarono dal 26% degli anni ’80 a circa il 20% della fine secolo. Come in passato, il deputato continuava ad essere considerato dall’opinione pubblica «una macchina di raccomandazioni», e la sua attività prevalente nel Collegio rimaneva quella notabilare. Certamente anche a ridosso del nuovo secolo «divenire deputato suona in Italia come una occupazione piacevole e fruttuosa, sia pure soltanto per soddisfare la vanità»81. In effetti dal punto di vista della frequenza in aula l’attività non appariva snervante, e se negli anni ’80 ebbe un ritmo medio di

  A. Labriola, Scritti politici 1886-1904, Laterza, Bari 1970, cit., p. 331.   Ivi, p. 362.

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15 sedute al mese, negli anni ’90 calò a 13. Cresceva invece la mole dell’impegno, se è vero che nell’era Depretis il rapporto tra il totale delle leggi presentate e il numero delle sedute era poco meno di 1 e salì a 1,4 negli anni ’90. Durante l’estate del 1899, mentre si avvertivano i primi segni della ripresa economica e finanziaria, il paese rimase sostanzialmente tranquillo anche se non mancarono, sulla stampa e fra l’opinione pubblica, aperte condanne all’operato del governo. Cominciava inoltre a diffondersi l’idea che l’ostruzionismo e la violenta presa di posizione dell’Estrema fossero comunque da giustificare e da accettare come il solo strumento di resistenza alle manovre liberticide e antistatutarie della maggioranza. I successi ottenuti dai socialisti e dalle coalizioni di Sinistra nelle elezioni amministrative di Milano, Firenze e Torino furono indicativi non solo della forte ripresa delle organizzazioni socialiste e operaie ma anche dell’inequivocabile censura dell’opinione pubblica alla volontà del governo. Nel capoluogo lombardo la lista dei radicali, repubblicani e socialisti ottenne 19.000 voti (contro i 15.000 che andarono alla coalizione clerico-moderata) e il radicale Mussi divenne sindaco della città. L’indulto generale concesso dal governo il 4 giugno, in occasione della festa dello Statuto, per i reati condannati dai tribunali militari del ’98 non eliminò le cause di ineleggibilità dei deputati privati del loro mandato; nelle suppletive di agosto, comunque, tanto il repubblicano De Andreis a Ravenna quanto Turati a Milano riuscirono nuovamente eletti con una trionfale maggioranza. Nel frattempo, aveva cominciato a consolidarsi il processo di avvicinamento tra le forze dell’Estrema e la Sinistra costituzionale di Giolitti e Zanardelli. In un incontro privato tra una cinquantina di deputati della Sinistra costituzionale fu ribadita l’efficacia della strategia ostruzionistica e ci si preparò ad avviare un attacco coerente e sistematico al governo con l’apporto di tutti i diversi raggruppamenti della Sinistra. I segnali di apertura dei socialisti alla Sinistra liberale si intensificarono dopo l’intervista rilasciata da Giolitti alla «Gazzetta del Popolo» il 16 luglio 1899, dove si stigmatizzavano gli errori programmatici e procedurali del governo Pelloux. Secondo Giolitti, poi, la mancanza di «sentimento religioso», il «mostruoso sistema tributario» in cui «il complesso delle imposte è progressivo a rovescio», l’«amministrazione lenta, complicatissima e non rispondente affatto ai bisogni della popolazione», la quasi scomparsa della pic-

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cola proprietà «stremata da ogni sorta di pesi» erano tali che doveva sorprendere il fatto «che il pubblico malcontento non a[vesse] avuto manifestazioni più gravi di quelle del maggio 1898». Quanto poi ai provvedimenti liberticidi, il leader piemontese disse che «il Ministero ebbe il torto di lasciarsi trascinare a rimorchio dai più aperti rappresentanti della tendenza reazionaria e, aggravando ancora in senso restrittivo il primitivo suo progetto»; era necessario «un mutamento radicale di indirizzo»82. La risposta dei socialisti non si fece attendere, e nel numero di agosto di «Critica Sociale» l’abboccamento tra socialisti e liberali progressisti venne posto addirittura nei termini di un eventuale ministero Giolitti: Or bene, un tale Ministero significherebbe: l’iniziarsi, almeno, di riforme tributarie [...]; il rispetto di tutte le opinioni [...] oneste e civili. [...] l’instaurarsi e il prevalere di un partito medio – prettamente borghese, ma progressivo e civile – nel quale i radicali e i costituzionali di Sinistra si troverebbero accanto e sarebbero sciolte, come il Sacchi desidera, come noi desideriamo con esso, le alleanze innaturali. [...] Allora [...] anche il partito socialista comincerebbe a respirare, a muoversi, ad essere lui [...]. Cominceremo ad essere socialisti in azione il giorno che potremo cessare di essere, come per necessità oggi siamo, semplicemente democratici83.

Sullo stesso numero appariva un articolo di Treves che preannunciava l’incontro tra riformisti e giolittiani che sarebbe avvenuto all’inizio del secolo: C’è dall’altra riva un uomo che ci ha capito. L’uomo può essere simpatico od antipatico, ispirare fiducia o diffidenza, può essere un furbo o un ingenuo; il movimento di ricomposizione dei partiti può averlo favorevole o contrario, alla testa od alla coda: tutte queste sono singolarità accidentali: l’importante è che l’uomo abbia capito. [...] Di mezzo alla selva reazionaria, che minaccia di soffocare lui come noi, se ci chiederà di dare in giro buoni colpi d’accetta per poter pigliare respiro, non dovremo essergli scarsi d’aiuto; ma a sua volta ei dovrà rispondere a noi delle promesse che da molti anni si ripetono sempre [...] Ah! Se quest’uomo, pur dal suo angusto punto di vista di montanaro   G. Giolitti, Discorsi extraparlamentari, Einaudi, Torino 1952, pp. 206-210.   Noi [F. Turati], La Sinistra alla prova, in «Critica Sociale», 1-8-1899, p. 182.

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avido ed astuto, [...] incappasse per via nella ristorazione economica del paese, nella fondazione di un regime aperto e largamente produttivo, e rinvigorisse le industrie, dando sicurezza ai capitali, e salvasse i piccoli tassando di più i più grossi, e creasse il Proletariato creando alla perfine la Borghesia, e formasse il nocciolo di un grande paese sinceramente e capitalisticamente moderno; quanta gloria per lui e quanta riconoscenza!84

Si delineavano, dunque, i prodromi di quella svolta liberal-democratica che, raccogliendo in una proficua intesa «difensiva» tutte le forze della Sinistra autenticamente progressista, avrebbe non solo cercato di salvaguardare le libertà istituzionali e civili dalla minaccia del conservatorismo, ma soprattutto avrebbe permesso di avviare il processo, non più procrastinabile, di inserimento delle masse nello Stato liberale. Tutt’altro che insensibile, infatti, allo spirito di collaborativa apertura dei socialisti, Giolitti, in un discorso dell’ottobre 1899, parlò della necessità di un programma riformista e interclassista, nel più assoluto rispetto della legge e delle libertà statutarie. Un programma autenticamente liberale che «si propone di togliere, per quanto è possibile, le cause del malcontento, con un profondo e radicale mutamento di indirizzo tanto nei metodi di governo, quanto nella legislazione». Giolitti da ultimo sottolineò l’importanza di una «cura affettuosa delle classi più numerose della società»: Non è fenomeno speciale all’Italia, ma comune a tutti i popoli civili, quello di una profonda trasformazione delle correnti politiche, del prevalere delle quistioni economiche, di una influenza sempre crescente delle classi popolari. Queste classi hanno acquistata la coscienza dei loro diritti e della loro forza, e tale coscienza non vi è legge reazionaria, non vi è prepotenza di governo che possa toglierla; io credo codesta coscienza un bene, perché rende impossibili molte ingiustizie e costringe i governi a preoccuparsi delle condizioni delle classi più numerose; [...] è necessario mantenere quella forza nell’orbita legale facendo che il governo, sia e apparisca in tutti i suoi atti, il tutore delle classi popolari, il difensore dei loro diritti e dei loro legittimi interessi85.

La posizione del ministero si profilava dunque tutt’altro che tran-

  C. Treves, Giolitti, in «Critica Sociale», 1-8-1899, pp. 182-184.   G. Giolitti, Discorsi extraparlamentari, cit., pp. 231-232.

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quilla e quando si inaugurò la terza sessione della XX legislatura apparve subito chiaro che la battaglia tra «progresso» e «reazione» sarebbe ripresa con più vigore di prima; ne diedero il sentore sia la fredda accoglienza riservata al discorso del Re sia la maggioranza risicata che elesse alla presidenza dell’Assemblea il candidato governativo Colombo. Per alcuni mesi, comunque, i lavori si svolsero senza grossi incidenti, anche se il governo sembrava consapevole della propria debolezza e preferì non ripresentare al dibattito in aula le leggi liberticide. A scuotere l’apparente tranquillità intervenne, all’inizio di dicembre, la decisione di Turati di dimettersi da deputato dopo che il prefetto di Milano gli aveva impedito, in quanto condannato per i fatti del ’98, di partecipare ad un comizio elettorale. La maggioranza governativa, su proposta di Sonnino, votò per il rigetto delle dimissioni; il 31 dicembre venne poi concessa un’amnistia generale per i reati politici del ’98. Ciò che rimise in moto le lotte e le dispute all’interno del Parlamento fu la sentenza emessa il 20 febbraio 1900 dalla I sezione penale della Corte di Cassazione di Roma, che dichiarava l’inesistenza giuridica del decreto-legge del 22 giugno, poiché essendo stata chiusa la sessione parlamentare nel 30 giugno 1899 due giorni dopo la presentazione del suddetto decreto e prima che il parlamento potesse intraprenderne la discussione, esso come ogni altro progetto di legge era caduto nel nulla, e veniva meno anche la disposizione relativa alla data della sua attuazione. Perciò, e non essendo stato emanato a sessione chiusa un nuovo decreto relativo ai provvedimenti contenuti in quello decaduto, non era legittima l’applicazione del medesimo in epoca successiva86.

Non venivano, dunque, contestati in via di principio i provvedimenti restrittivi poiché «il potere giudiziario non ha facoltà di sindacare l’esercizio del potere esecutivo»; la Cassazione si limitava a dichiarare decaduto, e quindi mai effettivamente entrato in vigore, un decreto-legge non discusso dalla Camera per la sopraggiunta chiusura della sessione. La clamorosa sentenza, che aveva colto di sorpresa la maggio86  Citato in G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. VII, La crisi di fine secolo e l’età giolittiana (1896-1914), Feltrinelli, Milano 1974, p. 78.

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ranza governativa, «rovinò [...] tutto l’edificio incostituzionale, e il Ministero fu di nuovo costretto a portare la legge innanzi la Camera»87. L’Estrema riprese con vigore la tattica ostruzionistica e cominciò a sollevare mozioni procedurali per guadagnare tempo; ma questa volta anche Giolitti e Luzzatti intervennero per denunciare l’incostituzionalità dei provvedimenti politici e l’uso arbitrario dei decreti-legge. Io credo – disse Luzzatti nella tornata del 27 febbraio – che coloro i quali sono fuori dallo Statuto, non potranno mai essere combattuti con autorità se non attenendoci noi fedelmente, lealmente, con superstizioso rispetto, allo Statuto. [...] I socialisti e i repubblicani desiderano che noi li combattiamo con metodi anticostituzionali; io voglio combatterli con metodi costituzionali.

Di fronte all’indomabile e vivace opposizione, si ricorse nuovamente ad una mozione per modificare il regolamento dell’assemblea. Il 21 marzo Tommaso Cambrai-Digny avanzò una proposta che, per impedire l’ostruzionismo, attribuiva enormi poteri al presidente della Camera, tra cui quello di stabilire a propria discrezione se una votazione doveva avvenire a scrutinio segreto o per appello nominale e di fissare l’ora e il giorno del voto, indipendentemente dalla conclusione o meno del dibattito. La pregiudiziale di incostituzionalità presentata da Ferri contro la mozione sul regolamento fu respinta con 232 voti contrari e 116 favorevoli (tra cui quello di Giolitti). In un’atmosfera sempre più concitata, le modifiche al regolamento assembleare furono messe in votazione il 3 aprile 1900. Zanardelli e Pantano protestarono violentemente contro il «premeditato e preparato colpo di maggioranza, inteso a far votare senza discussione quelle norme regolamentari che sopprimono la libertà della tribuna parlamentare», e annunciarono l’intenzione della Sinistra di ritirarsi dalla votazione per non «consumare questo delitto». Tutti i deputati dell’Estrema e della Sinistra costituzionale, circa 160, uscirono dall’aula e le modifiche al regolamento della Camera passarono senza difficoltà. Il successo ministeriale fu, tuttavia, solo apparente e Pelloux si convinse che la sola via d’uscita dall’impasse politico sarebbe stata il ricorso

  B. King, T. Okey, L’Italia d’oggi, Laterza, Bari 1910, p. 157.

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alle elezioni, se non altro per cercare di colmare la frattura che in un anno di drammatiche lotte parlamentari si era creata fra l’azione del governo e le aspettative dell’opinione pubblica. Alla riapertura della Camera, il 15 maggio, il governo si trovò infatti nuovamente di fronte all’irriducibile opposizione dell’Estrema che, su mozione di Ferri, dichiarò di attenersi soltanto al vecchio regolamento. Tra i tumulti e gli inni a Garibaldi intonati dalla Sinistra, il verbale della seduta del 3 aprile fu approvato e la seduta sciolta. Fu questo l’ultimo atto della XX legislatura, che segnò anche il tramonto politico di Pelloux. Il Re infatti, su consiglio di Saracco, sciolse la Camera fissando le elezioni per il giugno successivo. Per il governo si trattò di un chiaro riconoscimento della debolezza di cui aveva dato prova negli ultimi mesi, anche se non mancava nella maggioranza la convinzione che il paese, chiamato a decidere fra la difesa dello Stato e «l’opposizione violenta e sovversiva», avrebbe sicuramente optato per la prima. Più realisticamente, Luzzatti era persuaso che «riguadagnare la Destra» alle elezioni sarebbe stato «impossibile» e che la Sinistra costituzionale, facendo «il gioco dell’Estrema», avrebbe portato l’opposizione ad una vittoria netta; «ecco – scrisse il 1° giugno – il regalo fatto da Pelloux alla monarchia. Dopo tante lotte stupidamente impegnate, l’Estrema avrà ottenuto un trionfo ch’era follia sperare»88. Precedute da una vivace campagna della Sinistra sul tema delle libertà parlamentari e civili, e accompagnate dalle usuali pressioni governative, le elezioni del 1900 registrarono infatti un grosso successo dei socialisti e dell’Estrema, che complessivamente guadagnarono 30 seggi rispetto alle elezioni del ’97. I socialisti ebbero l’incremento maggiore, passando da 17 a 33 deputati; i radicali ottennero 34 deputati e i repubblicani 29. L’opposizione costituzionale ebbe 116 seggi, i ministeriali 296. Il paese aveva scelto, nel dilemma tra ordine e libertà, di appoggiare la linea progressista e legale dell’opposizione; fu anche la vittoria delle regioni economicamente più progredite del Centro-Nord, che votarono in grande maggioranza per i candidati della Sinistra. La nuova fisionomia della Camera sanzionava dunque il processo di «democratizzazione» in atto, che avrebbe reso impossibile il perseguimento della linea illiberale dei mesi precedenti. Pertanto, anche se il governo poteva contare ancora su una superiorità

  L. Luzzatti, Memorie, cit., vol. II, p. 564.

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numerica di un’ottantina di voti, quando la nuova Camera elesse con una maggioranza di sole 28 preferenze il candidato governativo alla presidenza, il moderato Niccolò Gallo, Pelloux decise di rassegnare l’incarico nelle mani del Re. Con la caduta di Pelloux il corso politico dell’Italia avrebbe voltato pagina, chiudendo – ricordò Giolitti – «un periodo assai torbido della nostra vita nazionale; un periodo che, iniziato col Ministero Crispi [...], rappresentò nel suo complesso [...] un continuo tentativo di risolvere in senso conservatore e reazionario la grande crisi, materiale e morale, che travagliava il paese»89. Con la sconfitta di Pelloux si chiudeva il più vistoso tentativo di governo dell’«ordine» dell’Italia liberale basato sulla estrema e coerente applicazione della tradizionale prospettiva di gestione dell’ordine pubblico, quella che sin dai tempi della Destra rivendicava l’esigenza di «prevenire per non reprimere». Per il generale savoiardo era infatti necessario «non solo che colle leggi si possa mantenere l’ordine; ma occorre, e più, che le leggi siano tali che l’ordine non possa non essere mantenuto»90. Su questa strada, il consenso delle principali componenti del liberalismo avrebbe dovuto essere conquistato facendo ricorso ad una buona dose di duttilità, in quanto da subito il problema non sembrò essere quello dei principi, ma piuttosto della misura e dell’equilibrio. Prevalse invece negli ambienti di corte, di cui il presidente del Consiglio era diventato a tutti gli effetti espressione, l’impazienza per un regolamento di conti atteso sin dall’indomani della sconfitta di Adua. Scandali bancari e fallimenti coloniali erano infatti ritenuti le cause del dilagare incontrollato di un disfattismo insolente nei confronti delle istituzioni, che aveva finito per amplificare la propaganda e la crescita dei partiti antisistema. Quello che andava colpito alla radice dunque non era tanto il movimento socialista, quanto una cultura della libertà considerata dai moderati il motore del disordine in atto nel paese. L’inflessibilità della linea era parte integrante del progetto governativo stesso e di cui Sonnino divenne strada facendo la mente politica. L’uscita di scena di Pelloux e l’eclissi di Sonnino non furono tuttavia solo la sconfitta di un disegno politico e delle speranze di rivincita della corte, ma rappresentarono la riprova che una parte consistente della   G. Giolitti, Memorie, cit., pp. 151-152.   Citato in U. Levra, Il colpo di stato della borghesia. La crisi politica di fine secolo in Italia 1896/1900, Feltrinelli, Milano 19772, p. 300. 89 90

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classe politica, rinvigorita dalle nuove correnti democratiche presenti nel paese, riteneva ancora essenziale proseguire sulla strada della mediazione politico-parlamentare, con le sue irrinunciabili, sebbene urticanti, «appendici» della libertà di stampa e di associazione. Era questo il senso di un nuovo corso che ormai sembrava annunciato. In realtà, prima che il «nuovo corso» avesse inizio ci fu un breve ministero di «conciliazione» diretto dall’ottantenne presidente del Senato Giuseppe Saracco, un avvocato piemontese che aveva esordito nella politica come deputato rattazziano nel Parlamento subalpino, il cui nome era stato suggerito al Sovrano dal presidente del Consiglio uscente. Benché fosse chiaramente un ministero di transizione, ebbe l’indubbio merito di risolvere la delicata questione del regolamento della Camera. Quello approvato il 3 aprile fu abbandonato e si delegò ad una commissione, dove era rappresentata anche l’Estrema, il compito di apportare modifiche al vecchio regolamento; il nuovo testo normativo fu votato dalla Camera all’inizio di luglio con una grossa maggioranza. Si era appena concluso uno dei più turbolenti periodi della vita parlamentare italiana, anche per quanto riguardava le regole e il funzionamento dell’Assemblea elettiva, che sopraggiunse il drammatico, e forse simbolico, epilogo di una fase di torbidi avvenimenti politici che travagliava il paese da diversi anni. Il 29 luglio 1900, a Monza, Umberto fu ferito a morte da tre colpi di pistola sparati dall’anarchico Gaetano Bresci, giunto dal New Jersey, dove allora risiedevano molti anarchici italiani emigrati in America, con l’intento preciso di vendicare la morte di quanti erano caduti a Milano sotto i colpi di Bava Beccaris. I funerali del Re furono imponenti per partecipazione; la salma, trasferita a Roma, venne tumulata al Pantheon. In occasione del regicidio, la retorica nazionale e monarchica conobbe momenti emotivamente vibranti, che tuttavia non raggiunsero l’apice di coinvolgimento toccato con i funerali di Vittorio Emanuele. Anche se taluni settori dell’opinione pubblica ne approfittarono per chiedere di nuovo provvedimenti restrittivi e punizioni più severe, la morte di Umberto I scatenò soprattutto spontanee e pacifiche manifestazioni di cordoglio e sincere attestazioni di lealismo monarchico. Persino fra i cattolici, nonostante il distacco mostrato dalle gerarchie vaticane dinanzi all’avvenimento, era tutto un susseguirsi di preghiere, messe di suffragio ed elogi funebri. Significativo anche il discorso di commemorazione tenuto a Bologna da Sacchi, che rappresentò

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una prova indiscussa della linea filo-istituzionale della maggior parte dei radicali. Non si unì tuttavia al cordoglio del paese il gruppo milanese de «Il Secolo», mentre il più severo nei confronti di Sacchi fu Colajanni, per il quale Umberto come persona era «davvero un galantuomo; come Re ora fu inetto, ora fu porco»91. Se il regicidio suscitò grande sbigottimento nell’opinione pubblica, tuttavia non «disturbò seriamente la quiete politica». Apparve chiaro che l’assassino era un anarchico e «il comune senso di onestà del paese si rifiutò di condannare i Socialisti»92. Bresci fu processato dalla Corte d’Assise di Milano il 29 agosto e condannato all’ergastolo. Venne trovato impiccato alle sbarre della finestra pochi mesi più tardi, probabilmente ucciso per ordini superiori. Vittorio Emanuele III saliva al trono all’età di 31 anni, mentre si stava concludendo uno dei momenti più drammatici e cruenti della storia dell’Italia unita. Di corporatura gracile e comportamento dimesso e brusco, il nuovo Sovrano era un uomo mediamente colto – senz’altro più del padre e del nonno –, di discreta intelligenza, ma caratterialmente schivo, riservato, austero e diffidente. Fin da subito adottò un costume di vita e un indirizzo politico assolutamente diversi da quelli dei genitori e si tenne alla larga dai consigli e dalle influenze della corte che aveva circondato il padre. «Il nuovo re è una sfinge – osservava l’ambasciatore inglese Phillip Curie – si ritiene che abbia delle idee, ma non le ha mai dichiarate a nessuno»93. Mentre dunque si aspettava di conoscere il contegno del giovane Sovrano dinanzi alla prossima crisi politica, il governo si trovò a fare i conti con nuovi scioperi e agitazioni sociali. Con l’inizio del secolo continuava il trend positivo dell’economia italiana, ma molti degli squilibri e delle tensioni sociali restavano ancora irrisolti, come si evinceva anche dall’incremento del flusso migratorio e delle rivendicazioni dei lavoratori. Il 18 dicembre 1900 la Camera del Lavoro di Genova fu sciolta dal prefetto, e l’indomani lo sciopero degli operai genovesi si estese a tutta la Liguria; il decreto di scioglimento fu revocato qualche giorno più tardi su ordine del presidente del Consiglio, che seguiva in questo senso le disposizioni della maggioranza parlamentare. Nel febbraio del 1901 un’ondata di scioperi agrico  Citato ivi, p. 401.   B. King, T. Okey, L’Italia d’oggi, cit., pp. 161-162. 93  Citato in D. Mack Smith, I Savoia re d’Italia, Rizzoli, Milano 1990, p. 194. 91 92

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li investì gran parte delle regioni italiane e nel mantovano le leghe bracciantili si costituirono in federazione. L’esempio dell’organizzazione mantovana, sorta in completa autonomia dalle Camere del Lavoro cittadine, fu presto seguito dai braccianti delle zone di Ferrara e Rovigo, Piacenza, Modena, Vercelli e della Lomellina. Nel resto della penisola il movimento contadino organizzato fu più limitato e circoscritto all’Umbria, al Lazio settentrionale, ad alcune zone della Sicilia e alla Basilicata. L’ondata di lotte contadine finì per rafforzare l’organizzazione politica e sindacale del Partito socialista e soprattutto diede una spinta decisiva all’affermazione dell’elemento rurale e bracciantile che, in seguito, sarebbe diventato una componente importante e peculiare del socialismo italiano. Nel congresso di Bologna del 1901, i delegati delle leghe e delle federazioni contadine decisero di fondare la Federazione nazionale dei lavoratori della terra, con lo scopo di favorire la legislazione sociale a vantaggio di tutti i lavoratori della campagna, compresi piccoli proprietari e affittuari. Il congresso, a cui parteciparono numerosi esponenti della dirigenza socialista, indicò come finalità ultima la collettivizzazione della terra. La decisione, che in parte vanificò il proposito unitario dei delegati (i repubblicani romagnoli non aderirono), fu comunque la prova della prevalenza bracciantile all’interno del movimento contadino organizzato. La Federterra, sorta nel momento culminante delle agitazioni del 1901, conobbe uno sviluppo rapidissimo nei primi mesi dell’anno successivo, raggiungendo i 227.791 iscritti. La modernizzazione industriale e la congiuntura economica favorevole diedero un grosso impulso anche alle organizzazioni operaie e favorirono la nascita di nuove Camere del Lavoro; queste, ridottesi a 4 dopo le repressioni del ’98, arrivarono a 76 nel 1903, con 270.000 iscritti. Nate come organismi scarsamente politicizzati, le Camere del Lavoro acquisirono in questi anni finalità di «classe» ed una fisionomia politica più spiccata, sia perché erano per lo più dirette da socialisti sia per far fronte ai nuovi e complessi bisogni di una manodopera frammentata per competenze, orari di lavoro, e salari. Col nuovo secolo si assistette anche alla crescita delle organizzazioni di mestiere; 4 nel 1900, 28 nel 1902 con circa 240.000 iscritti. Nel complesso, a cavallo dei due secoli, il movimento socialista si presentava come una realtà articolata e policentrica dove, accanto al partito, esisteva una rete di organizzazioni sindacali e cooperativisti-

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che dotate di una discreta autonomia d’indirizzo e in grado di porsi, soprattutto a livello locale, come elemento propulsivo per le rivendicazioni del proletariato. Fu proprio a livello locale e municipale che, in quegli anni, i socialisti dispiegarono l’impegno maggiore sia per promuovere in loco la propria funzione socio-economica sia per stimolare, attraverso l’esercizio del voto amministrativo, la maturazione politica di quelle classi e di quei ceti che il Partito socialista intendeva rappresentare al cospetto delle istituzioni nazionali. Il momento della svolta nell’affermazione del municipalismo socialista, e più in generale di quello democratico-radicale, fu rappresentato dalle elezioni amministrative del 1899, dove i socialisti presentarono candidati propri non solo in piccole e medie città delle zone rurali padane, ma anche in centri urbani come Torino, Mantova, Alessandria e Reggio Emilia. Più forte nelle regioni del Settentrione e nei piccoli centri della provincia, la rappresentanza municipale socialista era destinata a consolidarsi e a crescere per tutto il primo decennio del ’900, interessando anche importanti città del Mezzogiorno. In questi anni si assistette inoltre al consolidamento delle strutture ricreative, culturali e educative attraverso cui il socialismo, sempre in ambito locale, cercò di affermare una propria autonoma cultura aggregativa, contrapposta soprattutto a quella cattolica, e di far circolare il «discorso politico» nei settori della società tradizionalmente esclusi dalla cultura «ufficiale» e dall’associazionismo borghese. Case del popolo, circoli di studi sociali, associazioni sportive e musicali, teatri e biblioteche rappresentavano i nuclei di una rete associativa spesso capillare che fu incentivata soprattutto dai riformisti e che, in molti casi, andava ad innestarsi su preesistenti forme d’aggregazione sociale e politica. Che il socialismo fosse la «novità» politicamente più significativa e determinante del nuovo secolo lo cominciarono a percepire anche ampi settori della classe dirigente italiana; persino quelli che, negli anni precedenti, si erano mostrati più decisi nell’applicazione di misure restrittive nei confronti della propaganda e delle organizzazioni socialiste. Sonnino, ad esempio, nel settembre del 1900 pubblicò su «Nuova Antologia» un articolo destinato ad avere grande risonanza, intitolato Quid Agendum?, in cui delineava un programma di governo mirato all’integrazione delle masse nello Stato e alla neutralizzazione, in chiave conservatrice, dell’indirizzo politico e programmatico del Partito socialista. Dopo aver affrontato i problemi dell’ordinamento giudiziario, dell’amministrazione e dell’istruzione,

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si soffermava sulla questione sociale, perché non era più possibile «ignorare i grandi doveri che incombono all’Italia verso i suoi figli più deboli e più infelici»; e auspicava una «progressiva compartecipazione del lavoro al possesso del capitale», oltre che la riforma delle norme del codice di commercio, la graduale municipalizzazione dei servizi pubblici, la tutela degli emigranti e riforme fiscali e finanziarie. Attorno a questo programma, urgente e non dilazionabile, chiamava a raccolta tutti i «partiti nazionali, cioè il fascio di tutti coloro che non vogliono informata la politica dello Stato ai soli obiettivi distinti di una o più classi o al tornaconto di questo o quel gruppo [...] bensì ai fini superiori della collettività nazionale»94. Un programma che poneva le basi per la formazione di un vasto schieramento radical-conservatore, con cui Sonnino evidentemente aspirava alla successione al governo Saracco. Fu tuttavia Giolitti, che come abbiamo visto aveva già dato chiari segni di aperture alle istanze popolari ed era quindi maggiormente «legittimato» del ­leader toscano ad assumere l’eredità dei «nuovi tempi», che pose le basi per la propria andata al potere. Infatti, discutendo alla Camera gli avvenimenti di Genova, illustrò una strategia politica che, coerentemente col suo passato, era tesa a coniugare libertà, democrazia economica e riformismo sociale: Io non temo mai – disse nella seduta del 4 febbraio 1901 – le forze organizzate, temo assai più le forze inorganiche, perché su di quelle l’azione del governo si può esercitare legittimamente ed utilmente, contro i moti inorganici non vi può essere che l’uso della forza. [...] Il governo quando interviene per tenere bassi i salari commette un’ingiustizia, un errore economico ed un errore politico. Commette un’ingiustizia, perché manca al suo dovere di assoluta imparzialità fra i cittadini, prendendo parte alla lotta contro una classe. Commette un errore economico, perché turba il funzionamento della legge economica dell’offerta e della domanda [...]. Il governo commette infine un grave errore politico, perché rende nemiche dello Stato quelle classi le quali costituiscono in realtà la maggioranza del paese.

L’emendamento proposto dai giolittiani ad una mozione di censura contro il governo suonava come un preciso atto di sfiducia nei confronti del ministero: «La Camera, ritenendo che la condotta del  S. Sonnino, Scritti e discorsi extraparlamentari, cit., pp. 679-708.

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le autorità, in relazione allo scioglimento della Camera del Lavoro di Genova, palesi incertezza di criteri economici e politici, non approva l’indirizzo del governo». L’emendamento fu approvato a larga maggioranza: 318 voti favorevoli, 102 contrari e 6 astensioni. Il 7 febbraio Saracco presentò le dimissioni al Re, il quale «avrebbe potuto chiamare il Sonnino al potere. Ma egli preferì invece rivolgersi alla Sinistra, specialmente dacché la Sinistra aveva rinfrescato il suo liberalismo nella lotta costituzionale»95. Il nuovo orientamento, politicamente ed economicamente più avanzato e aggiornato, fu dunque condiviso dal giovane Sovrano, che affidò immediatamente l’incarico governativo al settantacinquenne Zanardelli. Nel nuovo ministero, entrato in carica il 14 febbraio 1901, il portafoglio degli Interni fu affidato a Giolitti.   B. King, T. Okey, L’Italia d’oggi, cit., p. 162.

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XI IDENTITÀ NAZIONALE SENZA IDENTITÀ POLITICA Alla fine del primo quarantennio unitario la nazione e il suo sistema politico sembrarono stabilizzarsi; nel senso che, con il nuovo secolo, essi apparvero ormai indisponibili a crisi di rigetto, fossero queste di origine interna o internazionale. Non solo a quel punto l’unità non risultava più in pericolo, ma si era avviato un lento e costante processo di nazionalizzazione degli eterogenei linguaggi e culture politiche del paese. Le fratture territoriali, la polverizzazione degli interessi, gli orgogliosi localismi mantenevano una parte considerevole della spinta centrifuga originaria, ma le ripercussioni delle trasformazioni economiche e sociali, unitamente all’ingresso dell’Italia nei grandi scenari internazionali e coloniali, avevano favorito, con lo sgretolarsi di assetti culturali ed economici tradizionali, un’accelerazione del processo di nazionalizzazione della politica. Tale tendenza era soprattutto l’esito di un vasto fenomeno di «straniamento» sociale. In altre parole, non poche componenti di quelle classi popolari, cresciute tra salde radici rurali o in vivaci ma chiuse identità municipali, stavano prendendo confidenza con l’idea che all’esperienza del «movimento» fosse associato il benessere: scuola, emigrazione, ferrovia, colonie, tanto per fare alcuni esempi di «nuove esperienze», si presentavano come attraenti simboli di movimento, forieri di possibili quanto rapidi e indolori miglioramenti nelle condizioni di vita di ognuno. Si trattava di una crescita di aspettative priva di un’effettiva capacità di influenzare nel profondo l’evoluzione della collettività nazionale, ma in grado di stimolare l’acquisizione, spesso opportunistica e superficiale, di quei rudimenti essenziali di un condiviso alfabeto pubblico necessari per un «lasciapassare» verso la modernità. Un «ingresso in Italia» alla spicciolata, modu-

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lato da notabili, avvocati, giornalisti, mediatori, «maneggioni» che, sebbene privi di «virtù civica», permisero comunque la formazione di una fragile ma indispensabile grammatica della nazione, destinata a diventare lingua viva nelle trincee della Prima guerra mondiale. Per l’Italia la forza legittimante della modernità non era solo un passivo portato dei tempi, ma qualcosa di più, probabilmente la sua stessa ragione d’essere politica. A monte della tenuta del fragile processo unitario andava infatti individuata la scelta operata inizialmente da Cavour di adottare il government by discussion (quanto di più moderno potesse offrire l’ingegneria costituzionale dell’epoca) come collante istituzionale e segnacolo di legittimazione interna e internazionale per un Regno sorto, nell’epoca del progresso e dei diritti delle nazionalità, da fortunose combinazioni e tra mille peripezie. In fondo, in un paese con una classe dirigente ad «egemonia limitata» avrebbe potuto essere proprio la «legalità» emanata dallo Stato legislativo, con le sue norme impersonali, a rendere meno urgente la legittimazione politica del nuovo potere. Nella scelta di quel collante andavano dunque rintracciate le ragioni della riuscita dell’imprevedibile, grandiosa impresa di «modernizzazione» verificatasi in Europa con la nascita dell’Italia, altrimenti incomprensibile alla luce di «antichi» criteri di legittimazione come quelli dinastici o di pura potenza militare. Tuttavia, all’interno di questo irrinunciabile paradigma di modernità si verificò l’inevitabile, insanabile contrasto tra due prospettive progettuali che, pur richiamandosi entrambe alla grande tradizione del liberalismo, proponevano soluzioni diametralmente opposte rispetto al tema della legittimazione del sistema politico. Non si trattò del confronto tra una componente progressista e una conservatrice, ma di un vero e proprio regolamento di conti tra due modi d’intendere lo sviluppo delle libere istituzioni nella fase della «politicizzazione» della politica sociale. Alcuni settori, più sensibili alle argomentazioni del liberalismo di John Stuart Mill, continuavano a ritenere indispensabile lo spiegamento dei paradigmi di libertà e diritti che nel recente passato aveva caratterizzato l’inarrestabile avanzata della cultura liberale; altri invece, destinati nel tempo a prevalere, ritenevano completata la fase «costituente», quella che aveva permesso di gettare le basi di un sistema di garanzie costituzionali, a cominciare proprio dalle istituzioni della rappresentanza parlamentare, e ritenevano di conseguenza necessaria una pausa dedicata al consolidamento amministrativo, se non a un rafforzamento di figure e istituzioni non elettive. Il risultato fu

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una sorta di ibrido, in cui il percorso di costruzione «materiale» dello Stato avvenne talvolta a scapito di quello «simbolico» della nazione mentre, sulla falsariga delle trasformazioni in atto in Europa, la prevalenza della cultura parlamentare cedeva il passo a quella del governo. Ciò che infatti emerge con chiarezza dall’osservazione degli avvenimenti politici di questi anni è che le originarie illusioni di un forte Stato legislativo si spensero poco dopo l’unificazione, nell’incontro tra l’innovativa (e di difficile gestione) interpretazione cavouriana dello Statuto e le difformi sedimentazioni politiche e culturali preunitarie. Se da una parte la centralità dello Stato e dell’azionismo democratico nel difendere e rilanciare la «rivoluzione» risorgimentale, nel clima emergenziale di un’unificazione da completare e legittimare, avevano impedito ogni eventuale recupero di una coerente cultura moderata (definitivamente tramontata con le leggi di unificazione amministrativa del 1865), dall’altra la complessità dei processi d’integrazione e il rapido estendersi della «questione sociale» costrinse la classe dirigente liberale a operare su un terreno pratico e teorico inesplorato. L’empiria che secondo Croce caratterizza nell’800 il liberalismo «di governo» ha origine dalla contraddittoria necessità di venire a capo della questione sociale, evitando però nel contempo di indicare stabili e coerenti percorsi d’integrazione. Quello che nacque fu di conseguenza una sorta di sistema con un doppio livello d’intervento istituzionale. Da una parte il profilo «alto» e formale di un’attività legislativa che scaturiva da un coerente impianto dottrinario, e dall’altra il costante ricorso a un criterio discrezionale che, in un paese attraversato da molte fratture irrisolte, permetteva, mediante una sempre più intensa attività statale, il contenimento dell’inevitabile tensione politica ad esse collegata. Si intersecavano e sovrapponevano impeccabili impianti legislativi (si pensi alla legge delle guarentigie, al codice civile e a quello penale, alle leggi di ammodernamento amministrativo, alla riforma scolastica Coppino, ecc.) e cultura della «prassi» pronta a confrontarsi, sul terreno dei mutevoli rapporti di forza, con scivolosi problemi come, solo per fare pochi esempi, la convivenza con il clero ostile, la condizione di semi-legalità del partito d’Azione, censure e ammonizioni, la politica coloniale extra-statutaria, la gestione prefettizia delle elezioni, gli studi primari gratuiti e obbligatori affidati a municipi poveri, ecc. Un contesto, questo, che tra l’altro esaltò il ruolo del notabile, mettendolo al centro del rapporto centro-periferia.

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Tale ibridazione, comunque, almeno in parte, esprimeva sul versante modellistico (si pensi a Carl Schmitt) la compenetrazione tra Stato «legislativo», moderno e impersonale, e Stato «governativo», con i suoi corollari di discrezionalità e autorità. Una compenetrazione che, soprattutto a partire dagli anni ’70, rappresentò una precaria quadratura del cerchio per una classe dirigente non disposta a rinunciare alla modernità legittimante delle istituzioni liberali ma anche obbligata, per limitarne le inevitabili ricadute conflittuali, a pensare i processi d’integrazione in termini di compromessi e aggiustamenti «in corsa». Pur da prospettive diverse, infatti, la maggioranza delle componenti del liberalismo postunitario escludeva la possibilità di affrontare il tema dell’identità nazionale attraverso una nazionalizzazione della politica basata sulla competizione aperta e plurale. Nei fatti, ma anche nelle teorizzazioni, s’impose, nella cultura liberale, l’interpretazione che intendeva la politica, finito il conflitto con le forze dell’ancien régime, come strumento per l’affermazione delle istituzioni attraverso un’attenta opera di mediazione amministrativa. Il conflitto era ritenuto, prima ancora che pericoloso, del tutto privo di senso, e pertanto una parte considerevole dell’impegno della classe dirigente liberale era indirizzata proprio ad espungere dal sistema la possibilità di una risorgenza del politico, cioè del conflitto che ridefinisce le relazioni di potere all’interno di una determinata comunità. La «politica liberale» dunque intendeva «spoliticizzare» il paese. L’educazione alla libertà e alla critica – premessa del pluralismo e parte integrante del patrimonio cromosomico del liberalismo – avrebbe potuto dare spazio alle «illegittime» aspirazioni delle forze clericali e socialistiche. Questo fu il punto di partenza della sconfitta per la componente più attenta al tema dell’importanza del conflitto e delle libertà nella costruzione dell’identità nazionale. La classe dirigente liberale preferì non utilizzare l’imposizione e la diffusione del sistema politico (nell’accezione farnetiana di sistema di rapporti che si emancipa dalla rete delle relazioni della società civile per affermare un autonomo sistema di potere, legittimo ed efficace, in grado di ricomporre in termini esclusivamente politici i contrasti interni alla società) come potente, sebbene pericolosa, risorsa nel difficile processo di legittimazione del proprio ruolo e in quello parallelo e altrettanto complesso di nazionalizzazione del paese. Un decisivo e peculiare processo di «alienazione dalla politica», inteso come rifiu-

XI. Identità nazionale senza identità politica

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to di istituzionalizzare il ricorso a risorse esclusivamente politiche nel processo di nazionalizzazione del paese. In questo senso la mancata parlamentarizzazione, cioè la coerente trasformazione dei conflitti sociali in conflitti politici attraverso il radicamento della rappresentanza del conflitto, finì per evolversi in parlamentarismo, vale a dire nel primato di una rappresentanza parlamentare finalizzata a cristallizzare la conflittualità sociale, evitandone l’emancipazione in senso politico. Il parlamentarismo diventò paradossalmente l’emblema del frazionamento geografico e dell’«impotenza» politica della borghesia nazionale, fonte di malcontento e frustrazione soprattutto per una considerevole parte del ceto intellettuale che finì per identificare il Parlamento con il regno delle «miserie» particolaristiche e dunque estraneo, se non ostile, ai reali processi di omogeneizzazione culturale e politica del paese. Il parlamentarismo rispecchiava inoltre l’effettiva mancanza di un’alternativa di governo all’interno delle stesse forze costituzionali. Da questo punto di vista, i primi decenni dell’Italia liberale appaiono caratterizzati da una sorta di conventio ad excludendum, ante litteram. Le forze dell’estrema radicale, ritenute antisistema, ma non antiunitarie, erano attivamente partecipi della competizione e del dibattito politico anche se, in nome dell’affidabilità e della sintonia istituzionale, venivano escluse non solo dalla diretta gestione del potere ma anche da una possibile cogestione. L’età giolittiana, con il suo originale carico di aperture ed innovazioni, si sarebbe limitata, da questo punto di vista, a definire una sorta di apparente mediazione, in cui il ritorno alla centralità del Parlamento e la parziale apertura ai radicali, non avrebbe implicato un’effettiva rivalutazione delle potenzialità egemoniche del liberalismo conflittuale. I giochi, in effetti, si erano già conclusi in quel complesso quarantennio a cui ancora oggi dobbiamo riferirci se vogliamo comprendere il percorso di costruzione di un’identità nazionale priva di identità politica, una questione che ancora oggi ci riguarda da vicino.

Bibliografia Il volume si basa sul materiale bibliografico segnalato nel mio Storia politica dell’Italia liberale. 1861-1901 (Laterza, Roma-Bari 1999). La presente bibliografia fa riferimento a volumi da me presi in esame pubblicati dal 1999 in avanti. Adorni D., Francesco Crispi. Un progetto di governo, Olschki, Firenze 1999. Adorni D., L’Italia crispina. Riforme e repressione, Sansoni, Firenze 2002. Allegrezza P., L’élite incompiuta. La classe dirigente politico-amministrativa negli anni della Destra storica (1861-1876), Giuffrè, Milano 2007. Angelini A., Colombo A., Gastaldi V.P., Poteri e libertà: autonomie e federalismo nel pensiero democratico italiano, Angeli, Milano 2001. Angelini G., L’ultimo Mazzini. Un pensiero per l’azione, Angeli, Milano 2008. Antonetti N., La forma di governo in Italia. Dibattiti politici e giuridici tra Otto e Novecento, Il Mulino, Bologna 2002. Astuto G., «Io sono Crispi». Adua, 1 marzo 1896: governo forte. Fallimento di un progetto, Il Mulino, Bologna 2005. Ballini P.L. (a c. di), Sidney Sonnino e il suo tempo, Olschki, Firenze 2000. Ballini P.L., La questione elettorale nella storia d’Italia. Da Crispi a Giolitti (1893-1913), Camera dei Deputati, Roma 2007. Ballini P.L., Pecorari P. (a c. di), Alla ricerca delle colonie (1876-1896), Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia 2007. Ballini P.L., Ridolfi M. (a c. di), Storia delle campagne elettorali in Italia, Bruno Mondadori, Milano 2002. Baravelli A., L’Italia liberale, Archetipolibri, Bologna 2007. Belardelli G., Mazzini, Il Mulino, Bologna 2010. Belardelli G., Cafagna L., Galli della Loggia E., Sabbatucci G., Miti e storie dell’Italia unita, Il Mulino, Bologna 1999. Berti G., Errico Malatesta e il movimento anarchico italiano e internazionale 1872-1932, Angeli, Milano 2003.

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Indice dei nomi Acciarito, P., 254. Acquaderni, G., 72-73. Albertario, D., 73-74, 141. Albertini, L., 266 e n. Alvisi, G.G., 155-157, 164. Antonelli, P., 122. Antonelli, R., 5n. Arangio-Ruiz, G., 77n, 83n, 90 e n, 146n, 152n, 164n, 166 e n, 198 e n, 214n, 219, 248 e n. Arimondi, G.E., 214. Asburgo, dinastia, 36. Baccarini, A., 94, 95n, 127. Bagehot, W., 222 e n. Bakunin, M., 63-64, 66. Balbo, C., 249. Baldissera, A., 122, 216, 232. Balfour, A.J., 108 e n. Ballini, P.L., 113. Bandi, G., 175. Baratieri, O., 169, 211 e n, 212-214, 215 e n, 218. Barbato, N., 160. Barsanti, P., 82 e n. Barzilai, S., 279. Bava Beccaris, F., 266, 268-269, 291. Belardinelli, M., 260n, 266n. Beneduce, P., 249n. Berselli, A., 8n, 53n. Bertani, A., 18, 32, 36, 41, 76, 86-87, 101, 133. Bertolè-Viale, E., 122. Biagini, G., 156-157, 164. Bismarck-Schönhausen, O., 39, 85, 119. Bissolati, L., 253, 277, 279, 281. Bluntschli, J.K., 95. Bonacci, T., 163.

Bonfadini, R., 16n, 98 e n, 106. Bonghi, R., 12 e n, 13 e n, 15n, 16 e n, 20, 24, 42, 47, 90, 91n, 128, 238, 244, 245n. Bonin, L., 213. Bonomelli, G., 140, 269. Borbone, dinastia, 16, 268. Borelli, G., 241. Bosco, R.G., 160. Boulanger, G., 248. Bovio, G., 87, 131n, 140, 149, 171, 205. Brancato, F., 268n. Bresci, G., 291-292. Brown, B.F., 99n, 244n. Brunialti, A., 73, 249 e n. Bülow, B. von, 278. Cadorna, R., 44. Caetani di Sermoneta, O., 183. Cafiero, C., 66-67, 71. Cairoli, B., 18, 76-77, 80-87, 94, 127, 134. Calce, G., 109n. Calenda di Tavani, V., 208. Cambrai-Digny, L., 42. Cambrai-Digny, T., 288. Campanini, G., 72n. Campello, P., 73. Candeloro, G., 8n, 53n, 287n. Canevaro, F.N., 278. Cantelli, G., 49. Capone, A., 127. Carducci, G., 158. Carnot, S., 175, 177. Casati, A., 137. Casati, G., 77. Castellini, G., 204n. Castronovo, V., 276n.

­312 Cattaneo, C., 38 e n, 86. Cavallotti, F., 68, 70, 87, 127, 133-135, 149, 171, 174, 178, 180, 183, 195, 196 e n, 197, 199, 202, 204-205, 206 e n, 208, 213-214, 225-227, 229, 231-232, 251-252, 254, 257, 261-262, 282. Cavour, C. Benso conte di, 3-6, 8, 12, 15-16, 32 e n, 37, 44, 49-50, 82, 128, 130, 223, 239, 242, 245, 249, 251, 298. Chamberlain, J., 108, 183. Chiarini, R., 86n. Churchill, R., 108. Cialdini, E., 32, 36. Cilibrizzi, S., 276n. Cipriani, A., 136. Cognasso, F., 39n. Colajanni, N., 155-157, 160, 263, 279, 292. Colapietra, R., 151n. Colombo, G., 131n, 147, 182, 231, 257258, 287. Comandini, A., 156n. Coppino, M., 77, 299. Cordova, F., 187n. Corniani, R., 267n. Correnti, C., 58. Cortesi, L., 137n. Corti, L., 85. Costa, A., 66-69, 136, 139, 214, 254. Crespi, B., 165. Crispi, famiglia, 197. Crispi, F., 11-12, 18 e n, 19, 35, 39-40, 47, 56, 76-77, 84-85, 94, 97-98, 104108, 110 e n, 111-116, 117 e n, 118, 119 e n, 120, 121 e n, 122-125, 126 e n, 127-135, 141, 145, 147, 150, 152, 154-155, 157-158, 162-164, 168-176, 177 e n, 178-183, 185, 186n, 187-189, 196-205, 206 e n, 207-209, 210 e n, 211 e n, 212-217, 219, 221-222, 223 e n, 224 e n, 225 e n, 226-227, 229-232, 234, 243, 245, 248, 251, 253, 261, 263, 279, 282. Croce, B., 267, 299. Croce, G., 69, 136. Curie, P., 292. Dalle Nogare, L., 150n, 196n, 202n, 213n.

Indice dei nomi D’Angiolini, P., 201n, 231n. Da Passano, M., 73. D’Azeglio, M., 6, 33. De Andreis, L., 284. De’ Capitani d’Arzago, A., 241n. De Felice Giuffrida, G., 160, 171, 175, 281. Del Boca, A., 212n, 218n. De Luca, G., 53. Depretis, Agostino, 12, 15, 18, 20, 22, 51, 53, 55, 57-60, 75-80, 86-89, 91-98, 102-105, 107, 111-112, 121, 158, 219, 221, 282, 284. Depretis, Amalia, 29. De Sanctis, F., 16, 19 e n, 23-24, 53. De Zerbi, R., 24, 156. D’Orazio, E., 24. Dreyfus, A., 236. Elena di Montenegro, regina d’Italia, 235. Engels, F., 65, 136, 189, 191 e n, 193, 204. Fabietti, E., 4n. Falorsi, G., 247n. Fani, M., 72. Farini, D., 155, 169 e n, 170 e n, 172 e n, 173 e n, 176n, 180 e n, 183, 185 e n, 197, 198 e n, 200 e n, 207 e n, 211n, 212n, 215 e n, 219, 227n, 243 e n, 244 e n, 248n, 249, 254 e n, 259 e n, 270, 271n, 272n, 273, 279 e n, 282. Farini, L.C., 15, 32, 35. Felzani, O., 197. Ferrari, G., 63. Ferraris, M., 170. Ferri, E., 177, 190, 196, 267, 273, 279, 289. Finali, G., 51n, 94n, 126, 128, 156, 158, 215 e n, 232n. Fonzi, F., 185n, 188n, 190n, 192n, 225n. Fortis, A., 257. Francesco II di Borbone, re delle Due Sicilie, 32. Francesco Giuseppe d’Asburgo-Lorena, imperatore d’Austria, 84. Franzina, E., 141n. Frezzi, R., 254.

Indice dei nomi Gagliardo, L., 203-204. Galante Garrone, A., 86n, 199n, 227n, 261n. Gallo, N., 290. Ganci, S.M., 160n. Garibaldi, G., 30-32, 36, 39-40, 45, 6364, 79, 83, 158, 160, 251, 289. Garibaldi, M., 213. Gavazzi, L., 155-156. Gherardi, R., 14n. Giampietro, E., 200 e n, 253 e n. Giacheri Fossati, L., 276n. Giolitti, G., 126-127, 144, 147, 148 e n, 149-150, 151 e n, 152, 154, 156-157, 158 e n, 161-164, 168, 176-177, 179180, 196, 197 e n, 198-199, 201, 207208, 227, 229, 231, 241, 251, 253, 257, 259 e n, 262 e n, 264 e n, 272 e n, 275 e n, 278 e n, 279 e n, 280, 282, 284, 285 e n, 286 e n, 288, 290 e n, 295-296. Giovanni IV (negus d’Etiopia), 122. Gori, P., 138. Grabinski, G., 74, 269. Grimaldi, B., 127, 164. Guglielmo I di Hohenzollern, imperatore di Germania, 84. Guglielmo II di Hohenzollern, imperatore di Germania, 207, 251. Harcourt Williams, R., 108n. Herz, C., 205. Heusch, N., 268. Imbriani, M.R., 84, 149, 197-198, 227, 254. Jacini, S., 14 e n, 17n, 41, 100. King, B., 78n, 288n, 292n, 296n. Kuliscioff, A., 137, 191, 267. Labanca, N., 212n, 218n. Labriola, Antonio, 136-137, 139 e n, 156n, 191 e n, 193 e n, 196 e n, 200, 201n, 203n, 264 e n, 283 e n. Labriola, Arturo, 184. Lacava, P., 164. La Marmora, A., 9, 30, 36, 38, 42. Lampertico, F., 23, 141n.

313 Lanza, G., 42-43, 46, 48, 51. Lazzaroni, C., 156. Lemmi, A., 185-187. Leone XIII (Gioacchino Pecci), papa, 73-74, 79, 185, 188, 235. Leopoldo di Hohenzollern-Sigmaringen, 43. Levra, U., 290n. Lipparini, L., 94n. Lucchini, L., 56n, 76n, 81n, 92n, 97n, 144n, 148n, 153n, 180n, 201n, 202n, 253n. Luzzatti, L., 52, 56, 59n, 130, 155, 232, 249 e n, 260, 262 e n, 263 e n, 264n, 275, 288, 289 e n. Mack Smith, D., 15n, 33n, 59n, 229n, 292n. Macola, F., 261. Magliani, A., 98. Makonnen (ras abissino), 214-215. Malatesta, E., 66-67, 255. Malvezzi, N., 6n. Manacorda, G., 68n, 176n, 228n. Mancini, P.S., 121, 221. Mangascià (ras abissino), 146, 213. Margherita di Savoia-Genova, regina d’Italia, 79, 94. Martini, F., 120. Martuscelli, E., 156. Marx, K., 63, 160. Marzotto, N., 239n. Massari, G., 4n. Mazzacane, A., 249n. Mazzei, R., 241n. Mazzini, G., 45, 61-64, 66, 134, 140, 160. Mazzonis, F., 5n. Meda, F., 143, 270. Melis, G., 114. Menabrea, L.F., 42-43, 62. Menelik (negus d’Etiopia), 122, 146, 159, 211, 214, 216, 231, 235. Menotti, C., 158. Merli, S., 150n, 196n, 202n, 213n. Mill, J.S., 298. Minghetti, L., 29. Minghetti, M., 4, 7, 13, 14n, 15, 32, 35,

­314 38, 46-47, 50-54, 56-58, 75, 92-95, 98, 129-130, 145, 158, 239. Mocenni, S., 208. Mola, A.A., 187n. Morana, G.B., 58. Mordini, A., 19, 158, 164. Morgari, O., 281. Morra di Lavriano, R., 171. Mortara, L., 248n. Mosca, G., 25n, 145, 238. Mozzoni, A.M., 28. Murri, R., 143, 270. Musella, L., 23n, 24n. Mussi, G., 265. Mussi, M., 265. Napoleone III, imperatore dei francesi, 32, 36-37, 39, 43-44. Natale, G., 152n, 158n. Nathan, E., 187. Negri, G., 182. Nettlau, M., 63n. Nicotera, G., 18, 53-57, 75, 77, 84, 9394, 112, 156. Nitti, F.S., 241. Nobili-Vitelleschi, F., 240n. Notarbartolo, E., 156. Nunziante, F., 240n. Oberdan, G., 126. Okey, T., 78n, 288n, 292n, 296n. Oriani, A., 45 e n, 77n, 224. Orlando, V.E., 106, 238n, 239. Pacifici, V.G., 12n. Paganuzzi, G., 142-143, 256. Palamenghi-Crispi, T., 18n, 110n, 117n, 119n, 168n, 170n, 177n, 186n, 197n, 198n. Pantaleoni, M., 155. Pantano, E., 281, 288. Papa, D., 28 e n, 165n. Pareto, V., 191. Paulucci, P., 169n, 177, 207n. Pecci, G., vedi Leone XIII. Pellaco, E., 138. Pellion di Persano, C., 38. Pelloux, L., 228n, 233, 256, 258, 272276, 278-281, 284, 288-290.

Indice dei nomi Peruzzi, U., 51, 56-57. Petruccelli della Gattina, F., 25n. Pica, G., 35. Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti), papa, 38, 42, 44-45, 47, 73, 79. Pirandello, L., 163 e n. Pisacane, C., 63. Ponza di San Martino, G., 50. Prampolini, C., 70, 136-139, 174, 190, 196, 279, 281. Preziosi, E., 270n. Prinetti, G., 132n, 182. Proudhon, J., 63, 178. Ragionieri, E., 134n, 264n. Rampolla del Tindaro, M., 140. Ranelletti, O., 239. Rattazzi, U., 4, 15, 19, 31, 39-40, 75, 82, 248. Ricasoli, B., 4, 15, 47, 75. Ricotti Magnani, C., 50, 228, 230, 232233. Robilant, C.F.N., conte di, 209. Romanelli, R., 26n, 49n, 109n. Romano, A., 63n. Romano, S., 238 e n, 239. Romussi, C., 226. Rosselli, N., 64n. Rossi, A., 73, 100, 112, 166. Rossi Doria, A., 233n. Rudinì, A. Starabba marchese di, 127131, 144-147, 155, 158, 181-182, 197199, 201-202, 211, 213, 221, 227-235, 251-254, 256-258, 260, 265, 268, 270272, 275, 281-282. Sacchi, E., 273, 285, 291-292. Saffi, A., 66, 86. Sagrestani, M., 268n, 274n. Salisbury, R.A.T.G.-C., marchese di, 108 e n, 119, 210. Salvemini, G., 134, 176, 184 e n, 265 e n. Salvestrini, A., 20n. Salviati, S., 73. Sambucco, C., 253n. Saracco, G., 188, 197, 208, 217, 227, 289, 291, 295-296. Savoia, dinastia, 5, 14, 147, 235. Scarfoglio, E., 276.

315

Indice dei nomi Schiavi, A., 191n. Schmitt, C., 300. Scialoja, A., 239. Seismit-Doda, F., 126. Sella, Q., 13, 42-43, 48-49, 51-53, 56-57, 80, 239. Seton Watson, C., 108n. Sonnino, S., 99 e n, 169-170, 179-181, 208, 212, 214, 217 e n, 218n, 228n, 232 e n, 236, 244 e n, 245-252, 254, 257, 266, 271-273, 279 e n, 280-281, 282 e n, 290, 294, 295n, 296. Spaventa, S., 8 e n, 16, 23, 33, 56, 58-59. Spiazzi, R., 141n. Stillman, W.J., 83n, 210n. Sturzo, L., 143. Tanlongo, B., 156-158, 164-165, 176, 196. Thaon di Revel, G., 269. Toniolo, G., 142-143. Torelli Viollier, E., 165, 268. Torre, A., 85n, 211n. Toselli, P., 214. Tramontin, S., 72n. Tranfaglia, N., 276n. Traniello, F., 72n. Treves, C., 285, 286n. Turati, F., 70, 136-139, 172, 173n, 184, 189 e n, 190 e n, 191, 192 e n, 193n, 194-195, 204 e n, 261, 265n, 266, 273275, 284, 285n, 287.

Turiello, P., 238. Ullrich, H., 86n. Umberto I di Savoia, re d’italia, 79-80, 87, 148-150, 169, 177, 183, 198, 206207, 219, 225, 227-229, 232, 254, 272, 291-292. Vallauri, C., 82. Vidari, E., 247n. Villari, P., 159n. Visconti Venosta, E., 43-44, 270. Vitale, E., 164n. Vittoria, regina del Regno Unito, 5, 251. Vittorio Emanuele II di Savoia, re d’Italia, 3-5, 15, 32-33, 36, 43, 45, 47, 51, 79, 84, 248, 291. Vittorio Emanuele III di Savoia, re d’Italia, 235, 292. Volpe, G., 216 e n. Wollemborg, L., 155. Zanardelli, G., 76, 81-83, 86, 94-95, 98, 115, 127, 152, 158, 169, 181, 201-202, 227, 229, 242, 251-252, 254, 256-257, 263, 266, 268, 270, 272, 281-282, 284, 288, 296. Zangheri, R., 65n, 160n. Zanichelli, D., 18n, 224 e n, 237, 238 e n, 242 e n.

Indice del volume Prefazione I. Il nuovo Stato

vii

3

Le istituzioni dell’Italia unita, p. 3 - L’impianto amministrativo, p. 7 - La cultura politica, p. 11 - La rappresentanza parlamentare, p. 21

II. Completare l’unificazione (1861-1870)

30

Garibaldi fu ferito, p. 30 - Al di là del Tronto, p. 32 - Terza guerra d’indipendenza o prima guerra dell’Italia unita, p. 36 - Una questione capitale, p. 38 - Da Mentana a Porta Pia, p. 42

III. La «prosa» della Destra (1871-1876)

48

Il risanamento pedagogico, p. 48 - La rivoluzione parlamentare, p. 54

IV. Delegittimati

61

Repubblicani, anarchici e socialisti, p. 61 - Cattolici, p. 71

V. Al bivio: 1876-1887

75

Depretis: transizione senza riforme, p. 75 - Cairoli: reprimere non prevenire, p. 79 - Nuovi alleati e nuovi elettori, p. 87 - I partiti si trasformano, p. 91 - La geografia della nazione, p. 99

VI. Euforia crispina (1887-1891)

104

Giacobinismo ordinatore, p. 104 - Crispi il riformatore, p. 111 «Grande potenza europea», p. 118 - Crispi l’Africano, p. 120 - Megalomania patriottica, p. 125

VII. Le opposizioni L’opposizione parlamentare: i moderati, p. 130 - L’opposizione parla-

130

­318

Indice del volume mentare: l’Estrema, p. 133 - Gli albori dell’organizzazione nazionale: socialisti e repubblicani, p. 136 - «Rerum novarum»: l’intransigentismo sociale, p. 140

VIII. L’anticrispismo alla prova (1891-1893)

144

Rudinì, p. 144 - Giolitti, p. 147 - «Lo sgomento ci assale»: scandali e corruzione, p. 153 - I Fasci siciliani, p. 159 - La stampa si fa azienda, p. 165

IX. Ancora Crispi: dalla Sicilia ad Adua (1894-1896)

168

«L’impotenza e gli ardori», p. 168 - «Lui ci dà la pace», p. 176 - Più mezzi per la grande politica, p. 179 - La rivolta di Milano, p. 181 - La massoneria, p. 186 - La «novella istoria» socialista, p. 189 - Repubblicani, p. 195 - «Le leggi non colpiscono i grossi delinquenti», p. 196 - L’invulnerabile Crispi, p. 203 - Adua, p. 210

X. Una sfida egemonica (1896-1901)

230

«Non per il presente ma contro il passato», p. 230 - A chi rispondono i ministri?, p. 236 - «Ripugnanti connubi», p. 251 - «Giorni d’incomparabile bruttezza», p. 257 - Il regolamento dei conti, p. 272

XI. Identità nazionale senza identità politica

297

Bibliografia 303 Indice dei nomi 311