Il totalitarismo «liberale». Le tecniche imperialiste per l’egemonia culturale

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Il totalitarismo «liberale». Le tecniche imperialiste per l’egemonia culturale

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Il totalitarismo “liberale” Le tecniche imperialiste per l'egemonia culturale A cura di Alessandro Pascale

LA CITTÀ DEL SOLE

Copertina e illustrazione: Simona Correnti

Edizioni

LA CITTÀ DEL SOLE [email protected] — www.lacittadelsole.net

Napoli — 2018

ISBN 978-88-8292-510-9

Le Edizioni La Città del Sole sono contro la riduzione a merce dell’individuo e del prodotto del suo ingegno. La riproduzione, anche integrale, di questo volume è, pertanto, possibile e gratuita, ed è subordinata ad autorizzazione dell’editore soltanto a garanzia di un uso proprio c legittimo dei contenuti dell’opera.

Questo libro è dedicato al suo più grande ispiratore, Domenico Losurdo (Sannicandro di Bari, 14 novembre 1941 — 28 giugno 2018), gigante del Marxismo e uno dei più grandi intellettuali italiani della nostra epoca, che ci ha lasciato nell'indifferenza mediatica generale. A noi il compito di diffondere e trasmettere le scoperte di Losurdo ad un pubblico più ampio, facendo capire a tutti i progressisti e ai lavoratori che bisogna ripartire, con pazienza, dalle sue tesi. Questo è il nostro compito storico di fase nella lunga lotta che conduciamo per l'affermazione del socialismo e poi del comunismo. Alessandro Pascale 6 settembre 2018

Indice

Prefazione Introduzione metodologico-politica a) il paradigma totalitario e il revisionismo storico

21 27

b) il progetto della “storia del socialismo 36

e della lotta di classe” Prefazione alla I edizione

45

Ringraziamenti

51 PARTE I

1. Le tecniche imperialiste dell’egemonia culturale

55

2.I metodi classici identificati dai bolscevichi

57

3. Razzismo e nazionalismo

61 63 65

3.1. La nascita del razzismo colonialista 3.2. Il nesso storico tra liberalismo e razzismo

3.3. I morti del “terzo mondo” valgono meno di quelli occidentali 3.4. Il “biopotere” di Foucault 4. Il controllo totalitario dell’informazione 4.1. L'oligopolio editoriale in italia

7

67 68 71 74

4.2. L'oligopolio televisivo în italia

p. 77

4.3. I monopoli di internet 4.4. Il caso dell'Africa 4.5. Il potere dei media e la teoria dell'agenda setting

80 83 85

4.6. 10 strategie della manipolazione 4.7. Propaganda imperial-nazista?

87 89

5.1 mass-media al servizio dell’imperialismo guerrafondaio

93

5.1. La fabbrica del falso nella storia più recente

93

5.2. 1989: Romania, Cecoslovacchia e Cina 5.3. 1991: La guerra del Golfo 5.4. 1999: La distruzione della Jugoslavia

95 97 98

5.5. 2003: La seconda guerra del Golfo

100

5.6. 5.7. 5.8. 5.9.

102 103 108 110

2011: La devastazione della Libia 2013: I nazisti al potere in Ucraina Il caso dell’osservatorio siriano per i diritti umani I giornalisti al servizio dell'imperialismo

5.10. Libertà di stampa negli USA: il caso di Seymour Hersh

112

6. L’elogio dell’ignoranza e la distruzione della cultura 6.1. Ipotesi su come distruggere la scuola pubblica 6.2. Le ragioni di classe della distruzione

115 117

della scuola pubblica

118

6.3. Il sistema scolastico statunitense 6.4. Scuola borghese e scuola socialista

119 120

6.5. La riforma scolastica necessaria per creare menti critiche 6.6. I manuali scolastici della borghesia

124 125

7. La battaglia filosofica

127

8. Il controllo del linguaggio 8.1. L'analisi del linguaggio nella tradizione marxista 8.2. La “neolingua” dell’imperialismo

131 132 135

8.3. L'incomprensibile gergo del capitalismo finanziario 8

137

8.4. Come parla la politica (borghese) italiana 8.5. Le parole sono importanti

8.6. “Parlar chiaro, parlar facile” 9. L'uso strumentale di libertà, democrazia, diritti umani 9.1. “Democrazia, storia di un'ideologia” 9.2. L'evoluzione verso i diritti e la democrazia nel ‘900

p.- 140 142

144 147 147 149

9.3. L'inganno delle guerre umanitarie

151

9.4. 9.5. 9.6. 9.7. 9.8.

153 156 159 161 162

Le rivoluzioni colorate in nome della libertà I comunisti e la questione dei “diritti umani” Libertà per chi? La scissione culturale tra libertà e giustizia sociale La libertà intesa come liberazione della sessualità

9.9. La posizione di Lenin sul libero amore

164

9.10. Alcol e droghe, le libertà deviate

167

10. La religione e il terrorismo

173

10.1. La “non-violenza”

174

10.2. L'irrazionalismo e la fede

175

10.3. Buon senso e status quo

177

10.4. Corporativismo e interclassismo

180

10.5. L'esistenzialismo individualista

182

10.6. Il terrorismo e i fondamentalismi religiosi

185

11. L'alienazione consumistica

189

11.1. La pubblicità strumento di educazione al capitalismo

195

11.2. L'irrazionalità sociale delle pubblicità 11.3. Il fenomeno dell'obsolescenza programmata

196 198

11.4, Avere o essere? Risponde Fromm

202

11.5. Il disagio psichico e lo stress emotivo

205

11.6. Lavorare per comprare o per vivere?

207

11.7. Austerità e bisogni indotti 11.8. La pubblicità in stile sovietico

208 211

11.9 Il calcio tra alienazione e nuova “religione”

214

12. L’arte e la cultura di massa al servizio del capitalismo 12. 1. Le rivelazioni sulla guerra psicologica della CIA

—p.233 234

12.2. La diffusione editoriale cel verbo imperialista 12.3. L'arte astratta finanziata dalla CIA 12.4. L'asservimento di Hollywood al governo USA

246 254 258

12.5. Il cinema di propaganda anticomunista

264

12.6. Lo spazio per un cinema anticapitalista 12.7. Il paradigma dell'industria culturale 12.8. Il rock'n'roll come affermazione piena del capitalismo?

269 272

12.9. Il ruolo politico delle sottoculture

280

12.10. Adorno, Eisler e la musica militante 12.11. Logiche dell'industria discografica

286

e prassi comunista

292

276

12.12. 1 videogiochi: nuova frontiera della propaganda anticomunista

296

PARTE Il

13. L'offensiva ideologica contro il comunismo

13.1. La lotta di classe culturale degli intellettuali borghesi

303

304

13.2. La falsificazione della storia sovietica denunciata

alla Duma 13.3. La storia è scritta dai vincitori 13.4. L'accusa di totalitarismo di Hannah Arendi e la sua confutazione 13.5. I limiti storico-politici di Hobsbawm 13.6. Ritratto di Robert Conquest 13.7. La truffa del “Libro nero del comunismo” 13.8. Il tradimento di George Orwell 13.9. La recensione-stroncatura di Togliatti di “1984”

306 308

13.10. Solzenicyn: un arcipelago di menzogne

335

13.11, I servizi segreti occidentali e la sinistra anticomunista

350

10

309 316 321 325 327 329

14. Le condizioni necessarie per la ricostruzione 14.1. I limiti di comprensione del marxismo occidentale 14.2. La lettera-denuncia di Holz

p. 363 372 379

14.3. La sussunzione padronale della “sinistra”

388

14.4. 14.5. 14.6. 14.7. 14.8.

391 397 402 405 415

L'attualità dell'imperialismo e î suoi crimini Chi comanda davvero? Il club Bilderberg Antimperialismo o antiliberismo? Il discorso medio del revisionismo Ripartire dal marxismo-leninismo

15. Il socialismo in una prospettiva storica e il mondo odierno 15.1. I meriti storici del socialismo 15.2. La guerra della fame nel mondo 15.3. L'evoluzione storica delle disuguaglianze

—423 423 431

(contro Piketty)

434

15.4. La possibile soluzione della globalizzazione cinese

438

15.5. Le condizioni oggettive per un processo rivoluzionario

442

15.6. La distruzione del pianeta e le migrazioni di massa

444

15.7. La denuncia di Snowden del controllo totale

447

15.7. La necessaria lotta al “totalitarismo liberale”

454

15.8. Il ruolo storico del proletariato

464

APPENDICE 1. Le casemarre dell’informazione proletaria in italia

471

2. Appello alla battaglia culturale contro il revisionismo storico

477

Bibliografia e fonti

485

ll

“Già da qualche tempo mi sono accorto che, fin dai miei primi anni, avevo

accolto come vere una quantità di false opinioni, onde ciò che in appresso ho fondato sopra principi cosi mal sicuri, non poteva essere che assai dubbio ed incerto; di guisa che mera d'uopo prendere seriamente una volta in vita mia a disfarmi di tutte le opinioni ricevute fino allora in mia credenza, per cominciare tutto di nuovo dalle fondamenta, se volevo stabilire qualche cosa di fermo e durevole nelle scienze. Ma poiché questa impresa mi sembrava grandissima, ho atteso di aver raggiunto un'età cosi matura, che non potessi sperarne dopo di essa un'altra più adatta; il che mi ha fatto rimandare cosi a lungo, che, ormai, crederei di commettere un errore, se impiegassi ancora a deliberare il tempo che mi resta per agire. Ora, dunque, che il mio spirito è libero da ogni cura, e che mi son procurato un riposo sicuro in una pacifica solitudine, mi applicherò seriamente e con libertà a una distruzione generale di tutte le mie antiche opinioni. E non sarà necessario, per arrivare a questo, provare che esse sono tutte false, della qual cosa, forse, non verrei mai a capo; ma in quanto la ragione mi persuade già che io non debbo meno accuratamente trattenermi dal prestar fede alle cose che non sono interamente certe e indubitabili, che a quelle le quali ci appaiono manifestamente false, il menomo motivo di dubbio che troverò basterà per farmele tutte rifiutare. E perciò non v'è bisogno che io le esamini ognuna in particolare, il che richiederebbe un lavoro infinito; ma, poiché la ruina delle fondamenta trascina necessariamente con sé il resto dell'edificio, io attaccherò dapprima i principi sui quali tutte le mie antiche opinioni erano poggiate.” (René Descartes, da “Meditazioni metafisiche”, 1641)'

'R. Descartes, “Meditazioni metafisiche”, 1641, all'interno di R. Descartes,

“Opere”, vol. I, Laterza, Bari 1967, pp. 199-204.

Prefazione

Il periodo storico in cui vede la luce questo libro, che inaugura

la collana Storia del Socialismo e della Lotta di Classe, è segnato da epocali cambiamenti di cui pochi hanno già coscienza. Ovunque prevale una grande confusione ideologica, la cui origine mi sembra

che affondi anzitutto nella distorsione sistematica dei fatti e delle informazioni fornite dai media e dalle più importanti istituzioni pubbliche. Ci sono mandanti precisi all’origine di questi processi, ma

ci sono anche fattori strutturali tipici della nostra società moderna, in balia della molteplicità pressoché infinita di dati offerti, impossibili per la loro mole da gestire individualmente. Ne deriva una lettura mai così tanto eterogenea del passato e del presente. Le “sinistre” politiche, in buona misura incapaci di compren-

dere la propria stessa subalternità ideologica al sistema dominante,

hanno dunque perso una cultura politica condivisa. Nel mare magnum odierno dell’informazione, la maggior parte degli osservatori, siano essi semplici lavoratori “passivi” o dotti accademici “attivi”, si smarrisce. Molti, anche coloro che non potrebbero permetterselo, abdicano rinunciando all'impresa di capire questo “mondo grande e terribile”. Delusi o scoraggiati dalle asprezze e dalle difficoltà del pre-

sente, i più preferiscono dedicarsi, più o meno metaforicamente, alla propria vita personale, rinunciando ad un impegno attivo e “sensato” per migliorare se stessi e la collettività. La necessità di reagire a questa situazione, provando a fare or-

dine sui dati acquisiti in maniera sparsa, mi ha spinto a lanciarmi nell'impresa ambiziosa di riscrivere completamente la storia dell’ultimo secolo, ripristinando il primato dei fatti sulle opinioni. Questa è stata la ragione principale che mi ha spinto a lavorare nel 2017 all’o15

pera /n Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo, che ho pubblicato sul web, trovando in un anno alcune migliaia di lettori.

Per quanto l’opera fosse pensata e strutturata per essere leggibile da chiunque, essa, sia per la mole che per la struttura, era rivolta prio-

ritariamente al movimento comunista italiano, ossia all'avanguardia di quella classe lavoratrice che più di ogni altra classe sociale subisce le conseguenze negative del regime in cui viviamo. Un regime che ho

definito una forma di totalitarismo “liberale”. Questo libro inizia il lavoro di rielaborazione e affinamento di In Difesa, per rendere disponibile ad un pubblico più ampio le con-

quiste teoriche conseguite. Né questo libro né i seguenti basteranno

da soli ad invertire la rendenza anticomunista presente nella società italiana (e occidentale nel suo complesso), data la debolezza attuale del movimento comunista, l’unica forza che, sfruttando il fattore

dell’organizzazione, possa garantirne una diffusione di un certo rilievo. Anche qualora ciò non avvenga, sono convinto che queste opere contribuiranno a forgiare nuove generazioni e futuri quadri per il futuro. Dopo il grande reflusso ormai trentennale, abbiamo in

Occidente gli strumenti per incrinare la narrazione dominante della

borghesia. Si tratta solo di usarli. Questa operazione editoriale, realizzata tra molti sforzi e difficoltà, non ultime di tipo finanziario, ha quindi un obiettivo strategico dichiarato: smentire definitivamente e una volta per tutte, anzi-

tutto in ambito scientifico e accademico, ma anche popolare, l’idea che il comunismo, inteso come movimento politico organizzato che si è concretizzato storicamente in una serie di pratiche ed esperienze,

sia stato un'esperienza terrificante e fallimentare. Solo spezzando alla

radice tale pregiudizio infondato sarà possibile ricostruire con maggiore facilità un rapporto di fiducia e di affinità sentimentale con il movimento operaio e il complesso delle forze proletarie.

Affermare che oggi la priorità vada assegnata alla lotta culturale non vuol dire che la lotta militante fatta nei luoghi di lavoro e nelle piazze debba essere abbandonata. La lotta politica ed economica sono aspetti necessari che devono caratterizzare i comunisti e i sinceri progressisti. Le organizzazioni comuniste e gli intellettuali militanti

devono però ancora picnamente comprendere l’importanza basilare di sostenere questa battaglia delle idee, che può diventare la punta della lotta di classe sul fronte culturale, forse non solo in Italia, ma a

livello internazionale. Ci accingiamo a pubblicare su carta stampata 16

la ricostruzione della verità sul comunismo e sui tremendi crimini dell’imperialismo e sono sinceramente convinto che sia nell’interesse di tutti i progressisti sostenere tale progetto. Ne consegue il mio invito a tutti a sostenere l'impresa con i mezzi di cui si dispone. La tesi centrale su cui si impernia tutto il lavoro è chiara: il

capitalismo ha fallito di fronte alla prova della Storia; il progresso che ha conseguito è stato solo per pochi, e ciò non è dovuto al caso. Il socialismo, pur con tutti i suoi difetti ed errori, è stato invece capace di garantire uno sviluppo universale, mostrando un modello di società giusta ed equa, capace di offrire diritti e libertà per rutti, senza far ricorso allo sfruttamento dell’uomo e della donna, né a

discriminazioni di ogni sorta. Se questa verità non è tale per il senso comune ciò dipende oggi non solo dalla sconfitta dell'URSS,

ma

soprattutto dalla potenza abnorme che ha raggiunto il totalitarismo “liberale” che ci governa. Per abbattere tale regime occorre risolvere il problema del fartore soggettivo. Gli sfruttati non sanno di esser tali, oppure vogliono diventare essi stessi i padroni. Entrambe le casistiche non si possono risolvere con la semplice lettura di un libro, ma richiedono profon-

de riflessioni etiche ed esistenziali che in ultima istanza si possono risolvere solo attraverso una prassi socio-politica. Se la teoria priva della prassi è inconsistente, anche la prassi slegata dalla teoria non può mai apportare significativi risultati. La mia esperienza politica

personale, unita ad un'analisi storico-sociale ad ampio raggio, mi ha convinto della necessità di concentrare l’attenzione sulla teoria, a partire dal presupposto che su tale questione vi siano maggiori arretratezze che rendono vana la l’azione pratica di migliaia di persone

dedite tuttora alla lotta per il progresso sociale. Abbiamo dimenticato che, storicamente, l'approdo ad una rudimentale coscienza di classe proletaria è stato un processo che ha richiesto decenni di elaborazione teorica e lotre individuali. Ai primordi dell’industrializzazione le masse proletarie erano animate interiormente da un maggiore ribellismo, a causa delle terrificanti condizioni di vita cui erano soggette sotto regimi assai poco “libera-

li”, per quanto guidati da politici che si dicevano tali. L'emancipazione delle menti, la capacità di radunarle e farle ragionare assieme, è cosa che ha richiesto anni, tante energie e fiumi di sangue. Non è da escludere che in futuro tali processi drammatici possano ripetersi, nonostante la diversità delle epoche storiche e dei regimi sociali. 17

Questo libro uscirà in una prima tiratura di poche centinaia di copie. Nel caso avesse successo, la diffusione dei suoi contenuti tra

le masse verrà contrastata con ogni mezzo, non solo da parte della borghesia, ma anche da quella che per molti è una difficoltà tecnica e sociale: tale ormai per molti lavoratori è lo sforzo intellettuale di leggere un libro di 500 pagine. Manca il rempo. Manca la voglia. A volte mancano i soldi. Se l'operazione avrà carattere egemonico,

richiederà in ogni caso svariati anni, e passerà prima dal convincimento dell’avanguardia costituita dal movimento comunista e pro-

gressista; solo in ultimo sarà possibile andare “all'assalto” dell'intera società. In assenza di significativi movimenti sociali e culturali, si annunciano quindi rempi molto lunghi per una riconquista duratura dell’egemonia culturale.

Che fare nel frattempo? Pur avendo cessato da poco un'attività partitica durata un decennio, continuo a considerarmi un comunista, non certo uno scrittore. Sapendo che tale opera verrà letta anzitutto da militanti e progressisti è a te, lettore, che rivolgo le seguenti parole: credo che il nostro compito in questa fase storica sia Resistere. Mantenere la militanza ovunque la si svolga, rafforzando ogni giorno

che passa la propria coscienza proletaria e cercando di affrontare con coraggio e autocritica le sconfitte politiche che ci colpiranno verosi-

milmente ancora per diverso tempo. Può sembrare un compito poco gratificante ma è in realtà un dovere storico: dobbiamo preservare

un tessuto sociale organizzato capace di impedire il trionfo totale del totalitarismo “liberale”. Il comunismo, inteso come movimento organizzato, è oggi in Italia non solo pressoché irrilevante socialmente,

ma ad un passo dalla scomparsa. Serve uno scatto in avanti, che non si può trovare se non con una chiarezza politica sulle questioni dell'UE e della NATO. Bisogna aver chiara la consapevolezza che il socialismo si può e si deve costru-

ire, ma che ciò non può avvenire restando nelle strutture imperialiste. O c'è il socialismo, o c'è l'imperialismo. Occorre dire forte e chiaro che i comunisti italiani vogliono l’uscita dell’Italia dalla NATO e

dall’Unione Europea, ossia le strutture imperialiste più importanti oggi esistenti. Solo con una linea di classe, di lotta aperta e chiara,

condotta anche contro ogni forma di opportunismo, sarà possibile convincere compagni e compagne, nuovi e vecchi, ad attuare la scelta della militanza politica. Spero che la lettura di questo volume possa servire a chiarire molti dubbi su tali aspetti spinosi. Ritengo però 18

prioritario concentrare l’attenzione su questo punto politico: se non cambiamo rotta al più presto, rischia di crollare questo pur residuale tessuto organizzativo. Sarà quindi ancora più difficile in futuro una ricostruzione.

Questo è quindi il nostro compito odierno: studiare, Resistere e prepararci a passare all’offensiva. Non solo sui fronti politico ed economico della lotta di classe, ma anche su quello culturale: disponiamo ancora della libertà di pubblicare e far circolare libri e idee. Occorre

in tal senso

un

intervento organizzato,

secondo

un

piano

preciso e strutturato. L'obiettivo è riconquistare progressivamente l'egemonia culturale nel campo variegato della “sinistra” e nella stessa classe lavoratrice. Questo è il compito politico della fase odierna, sen-

za il quale qualunque progetto di ricostruzione di un’organizzazione rivoluzionaria è vano. Questo e i futuri volumi della collana inten-

dono diventare armi politiche a disposizione di chiunque intenda lottare per il progresso sociale. La liberazione di sé stessi è il primo passo per la liberazione collettiva. Del resto sono profondamente convinto che non ci possa essere vera felicità individuale fuori da un simile percorso. O ci si salva tutti o non ci si salva affatto. Alessandro Pascale 25 novembre 2018

Introduzione metodologico-politica

Il 15 dicembre 2017, grazie all’ausilio fondamentale di diversi collaboratori, pubblicavo sul sito www.intellettualecollettivo.it il

saggio A centanni dalla Rivoluzione d'Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo. Dopo soli 6 mesi circa 2000 persone avevano scaricato l’opera, messa a disposizione gratuitamente in un

non comodissimo formato di due file pdf. Mentre le principali forze politiche erano impegnate nella campagna elettorale delle elezioni politiche del marzo 2018, cominciavano presto ad arrivare i primi ringraziamenti privati, i complimenti e gli attestati di omaggio all’o-

pera, di cui continuavano a dare notizia solo pochi canali mediatici, alcune testate di informazione “militanti” presenti con crescente successo sul web (l’associazione politico-culturale Marx21, il giornale

comunista online La Città Futura, il portale Resistenze.org curato dal Centro di Cultura e Documentazione Popolare)'. Sorgeva da più parti la richiesta di poter fruire in maniera più comoda e agevole dell’opera e ho cominciato a vagliare l'interesse delle case editrici a pubblicare l’opera: Giordano Manes e “La Città

del Sole” hanno raccolto la sfida. Si poneva il problema della modalità di pubblicazione di migliaia di pagine divise in volumi e capitoli. Rispettare l'ordine seguito nella prima edizione avrebbe daro luogo

'Si vedano a tal riguardo gli articoli disponibili su http://www.marx21. it/index.php/storia-teoria-e-scienza/marxismo/28646-in-difesa-del-socialismo-reale-e-del-marxismo-leninismo, http://www.marx21.it/index.php/ storia-teoria-e-scienza/marxismo/28684-la-sovranita-nazionale-e-la-centralita-della-lotta-antimperialista, https://www.lacittafutura.it/dibatriro/l-ottobre-c-la-storia, htrps://www.resistenze.org/sito/se/li/seliid05-019940.htm.

21

ad un problema politico: dato lo scopo non solo storico e scientifico, ma anche politico dell’opera, urgeva capire come riuscire a diffondere fin da subito alcune delle sue tesi più importanti, nella consapevolez-

za che limitarsi ad interpretare il passato è senz'altro giusto e doveroso, ma l'orizzonte per un comunista non può che essere quello di cercare di mutare il mondo presente. Occorreva insomma far capire

come questo libro non fosse una celebrazione agiografica o una mera ricostruzione storica (“revisionismo del revisionismo” dirà senz'altro

qualcuno) dell'ultimo secolo. A cent'anni dalla Rivoluzione d'Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo era un atto di accusa politica. Lo scopo dell’opera era, infatti, di far aprire gli occhi su un quadro

d'insieme, su una visione più ampia di quella solitamente ristretta con cui guardiamo alla nostra società. Si riproponeva come chiave di

lettura privilegiata l'ottica del materialismo storico, applicato ad un abbozzo di storia mondiale dell'ultimo secolo. Una storia nella quale emerge nettamente e prioritariamente la dialettica tra imperialismo e socialismo. Questo conflitto ha alimentato un processo storico in

cui la lotta di classe ha saputo fare un salto di qualità nella sfida al regime borghese, affermatosi progressivamente su scala mondiale. Il regime tirannico borghese tuttavia prosegue tutt'oggi. Mentre alcuni fingono di non vederlo, molri non ne hanno sinceramente cognizione, per il semplice fatto che non conoscono adeguatamente la storia

passata e ancor meno quella contemporanea. Ciò dipende certamente anche da “colpe” soggettive e individuali, ma origina soprattutto

da fatrori oggettivi e materiali ben precisi: il distacco progressivo delle organizzazioni comuniste occidentali, e dei relativi intellettuali organici, dal marxismo-leninismo, acceleratosi dopo il 1956. Ne

sono conseguiti il declino del “marxismo occidentale” nelle società capitalistiche e la conseguente affermazione sempre più “totalitaria” del “pensiero unico” neoliberista a partire dagli anni ‘80 del ‘900. La caduta dell'URSS e delle democrazie popolari dell'Europa Orientale si è accompagnata in Occidente all’autodistruzione delle organizzazioni comuniste, in preda ovunque ad un revisionismo più o meno

esasperato, che in Italia ha condotto il PCI alla formalizzazione della propria natura socialdemocratica. L'accettazione dei paradigmi ideologici “neoliberisti” da parte del “Partito Socialista Europeo” ha palesato il secondo grande tradimento storico di tali “progressisti”: dopo aver votato i crediti di guer22

ra nel 1914, sancendo la spaccatura con il settore internazionalista (futura avanguardia comunista che formerà il Comintern nel 1919),

negli ultimi 40 anni la socialdemocrazia europea si è posizionata nel campo imperialista, diventando sostanzialmente “la sinistra della NATO”. È stata una scelta di campo pienamente borghese e padronale, caposaldo delle sovrastrutture attuali fondate con lo scopo di salvaguardare il “libero mercato” (ad esempio l’UE), ossia gli interessi

della borghesia e del grande Capitale, cioè oggi le multinazionali. Nella scelta di campo tra Capitale e Lavoro, la socialdemocrazia ha scelto senza indugio il primo. Le ragioni per cui ciò è avvenuto sono variegate e sono le stesse di quelle di molti “comunisti” che hanno

accettato il paradigma “neoliberista”: chi per debolezza teorica e cedimento ideologico, chi perché ha ingenuamente accertato per vere le menzogne dell’imperialismo, chi per opportunismo individuale e

calcoli di convenienza, chi perché voleva si andasse in quella direzione fin dall’inizio, chi perché più o meno segretamente in combutta

già da tempo con l'avversario politico. Negli ultimi decenni hanno resistito in pochi in rutta Europa.

Le masse popolari, deluse dal

fallimento “storico” del socialismo e dal trasformismo delle proprie organizzazioni, hanno abbracciato il messaggio della “fine della Storia” connesso all’espansione della società dei consumi e della cultura mercificata, egemonizzata dagli USA. Anche se lo sfruttamento re-

larivo aumentava, la crescita economica fondata sul furto legalizzato e sistematico del resto del mondo garantiva all'Occidente di far crescere abbastanza il tenore di vita medio della propria popolazione, la quale iniziava ad appoggiare imbelle e quasi entusiasta le nuove “riforme” che distruggevano le conquiste del Welfare State ottenute durante il “7reztennio Glorioso” (1945-75). La crisi economico-finanziaria del 2007-08 ha portato ad un brusco risveglio, ma quando in Italia è stato smantellato l'articolo 18

(2012) dello Statuto dei Lavoratori, conquistato all'apice della forza operaia nel 1970, non c'è stata opposizione popolare combattiva e di massa. Non c'è stato nemmeno uno sciopero generale, nella compli-

cità delle burocrazie sindacali ormai anch'esse pienamente conniventi con il regime padronale. Questa è tutta storia nota, trattata ormai da una svariata pubblicistica. Quel che è più raro trovare è un ragionamento che colleghi l’offensiva “neoliberista” al paradigma leninista

dell’imperialismo, identificato come la fase suprema del capitalismo. Tale realtà, tanto palese, non solo non entra nel dibattito pubblico del 23

Paese, ma nemmeno in quello accademico e politico (e a fatica perfino nelle organizzazioni comuniste!). Questo nesso è stato trattato nella prima edizione di A centanni dalla Rivoluzione d'Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo in più punti e verrà approfondito nelle pubblicazioni successive a questo presente volume. Nel presente volume di cosa si tratta quindi? Si svelano le tecniche egemoniche con cui borghesi e imperialisti hanno potuto annebbiare e in una certa misura controllare le coscienze dei popoli, costruendo un sistema solo apparentemente libero e democratico. Il totalitarismo, essendo tale, non è necessariamente visibile se visto da

una prospettiva interna. È così assurdo quindi pensare che viviamo inconsapevoli in un mondo orwelliano? L'incubo immaginato da Orwell in /984 non si è manifestato nell'Unione Sovietica, bensì nel mondo odierno, dando luogo a quello che è un vero e proprio totalitarismo “liberale”. Essendo “liberale” è un totalitarismo che non impedisce la libertà di critica e di indagine verso il capitalismo, ma

le lascia spazio solo entro limitati margini, specie quando tale critica vuole penetrare nelle masse e assumere caratteri politici collegandosi all’organizzazione rivoluzionaria di classe (il partito comunista).

Si obierterà che non c'è bisogno di formulare un nuovo paradigma (il totalitarismo liberale), per descrivere ciò che nell’analitica

marxista c'è già: il concetto di “Stato borghese”, o meglio di “dittatura della borghesia”. Tuttavia le classi dominanti sono maestre nell’uso politico del linguaggio e raccolgono consensi diffusi condannando come “relitti storici” le categorie analitiche tradizionali. L'uso della categoria “totalitarismo liberale”, non utilizzata in tutta la prima edizione di A cent'anni dalla Rivoluzione d'Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo, vuole essere non solo una

provocazione culturale ma una vera e propria denuncia politica. Il “totalitarismo liberale” dimostra come sia possibile che in Italia e in Occidente sia stata annientata e liquidata l'opzione politica comunista e, in parallelo, la visione materialista della storia. La coscienza

di classe e la conoscenza delle cognizioni minime del marxismo-leninismo oggi in Italia sono quasi azzerati, e rimangono ben pochi “reduci” e “nuove reclute” consapevoli del carattere illusorio della

democrazia liberale in cui viviamo. La maggioranza della popolazione, non solo italiana ma anche occidentale, non ha consapevolezza di vivere in un sistema totalitario: il sostanziale consenso sociale

verso il sistema capitalista è senz'altro maggioritario, al momento. 24

Ma inizia finalmente ad incrinarsi e le crepe sono ben visibili, seppur concretizzare in urla di protesta confuse e poco coscienti. La Storia

non è affatto finita. Occorre svelare la profonda offensiva ideologica con cui si è arrivati alla condanna storica del comunismo, equiparato all’infamia

del nazismo dalle istituzioni borghesi e dai loro intellettuali organici. La condanna politica del comunismo, che minaccia di ridiventare

anche condanna giuridica, si fonda su ricostruzioni faziose, omissioni, falsificazioni, presupposti errati e malcelata partigianeria politica.

A sostegno e a conferma di tali tesi vengono qui estratti due capitoli

molto diversi da A cent'anni dalla Rivoluzione d'Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo: il 23 e il 9. Il primo, qui racchiuso nella Parte 1 (cap. 1-12), era intitolato Ze tecniche im-

perialiste dell'’egemonia culturale. Si trattava idealmente del capitolo che chiudeva il percorso storico fino ad allora tracciato, offrendo l’analitica riguardo al “presente storico” in cui viviamo, mostrando-

ne un quadro d’insieme inedito. Un quadro in effetti difficilmente comprensibile (o accettabile) storicamente e politicamente se non

inserito all’interno di un percorso più ampio, tratteggiando così dialerticamente gli elementi di continuità e di trasformazione rispetto ai secoli precedenti. È possibile che il lertore maturerà dubbi e scetticismi riguardo ad alcuni punti, in questo volume non dimostrati perché dati per scontati e dimostrati nelle sezioni precedenti del libro originario. Sono certo però che gli interrogativi maggiori sorgeranno sull’epoca in cui viviamo oggi, per cui sarà più semplice accogliere con minore pregiudizio anche la seconda parte di questo volume. Originariamente tale sezione costituiva il nono capitolo di A cent'anni dalla Rivoluzione d'Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale

e del Marxismo-Leninismo, intitolandosi L'Antistalinismo è Anticomurismo. Un titolo all’epoca necessario per lanciare un messaggio soprattutto ai comunisti. Qui si è ritenuto più utile mostrare come

la questione dello “stalinismo” rientri in stretta connessione con l'offensiva ideologica contro il comunismo. Di stalinismo parlava già Trockij negli anni ‘20 e ‘30, eppure se tale categoria analitica

ha potuto diffondersi a livello accademico e popolare in maniera travolgente ciò è avvenuto per ragioni politiche. In ultima istanza è stata determinante la lotta di classe condotta con ogni mezzo anche in campo culturale dalla borghesia: nelle scuole, nelle università, nei

Parlamenti, nelle associazioni, nei partiti, nei sindacati, sulle riviste 25

e in tutto il resto del circuito mediatico. Oggi iniziamo ad incrinare questo paradigma, mostrando come il suo rafforzamento e la sua affermazione siano conseguenze della Guerra Fredda e della vittoria dell’attuale Totalitarismo Liberale in cui viviamo. Si offre una serie di contributi utili a smontare la versione dominante sul “male del

comunismo”, svolgendo così anche un ruolo politico che avrebbe dovuto essere assolto in questi decenni da quei comunisti che inten-

devano rifondare il comunismo. Lo smantellamento della nozione di “stalinismo”, oltre ad approfondire una falla macroscopica nella narrazione borghese ufficiale, risponde anche alla domanda se sia lecito parlare di un totalitarismo comunista. No, non se ne può par-

lare. Per comprendere fino in fondo questa affermazione perentoria occorrerà attendere la pubblicazione dei volumi dedicati alla storia dell’Unione Sovietica. Il lavoro di riaffermazione della verità storica necessita quindi di un lungo periodo e della volontà di rafforzare la voce critica di questa opera.

Questo libro è il primo volume di una collana nominata Storiz del Socialismo e della Lotta di Classe, di cui si presenta più avanti il progetto. La scelta di dividere l’opera originaria in una decina di

nuovi volumi consentirà di contenere i costi, garantire la maggiore diffusione e fruibilità dell’opera e aggiornarne i contenuti. I tempi

di pubblicazione dei volumi dipenderanno dal successo del presente primo volume, oltre che dalla necessità di apportare i necessari ritocchi formali e stilistici, che in certi casi porteranno ad ampliare e approfondire alcuni contenuti, in altri a stravolgerli completamente,

al fine di ridefinire un progetto che è cresciuto, maturato e si è afinato rispetto alla sua prima edizione. Si rammenta in ogni caso che A cent'anni dalla Rivoluzione d'Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale e

del Marxismo-Leninismo rimarrà sempre a disposizione gratuitamente sul web? nel formato originario. La Storia del Socialismo e della Lotta di Classe è rivolta in primo

luogo al movimento comunista, alla classe lavoratrice, agli sfruttati, ai proletari d'Italia. Ma è idealmente indirizzata, quando sarà possibile svolgerne una traduzione, al movimento comunista inter-

nazionale e agli sfruttati di tutto il mondo. Torniamo a combattere uniti ed organizzati il nemico di classe che ci attacca ogni giorno da

2 Sul sito www.intellettualecollettivo.it.

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ogni parte. Il nemico è la borghesia. Tra le borghesie nazionali la più potente è ancora quella statunitense. Non è un caso che gli Stati

Uniti d'America siano la più dirompente potenza imperialista dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi. L'imperialismo statunitense si è dimostrato essere sanguinario, spietato nella lotta e nella repressione dei comunisti e di popoli interi rivoltosi in ogni area del mondo.

La lotta contro la borghesia italiana ed Europea e sue relative sovrastrutture (Confindustria, BCE, UE, UEM), che soffocano la reale

sovranità politica del nostro Paese, si deve svolgere in parallelo alla battaglia continua Oriente, interessi

per rivendicare l’uscita dalla NATO. La borghesia nostrana ad appoggiare gli interventi militari in Africa e nel Medio i quali creano cataclismi umanitari. Ne escono rafforzati gli borghesi per la penetrazione in tali territori delle multina-

zionali occidentali, che acquisiscono così nuovi mercati da sfruttare e su cui speculare intensivamente. Ne consegue però anche il fiume di migranti che conduce alle nostre coste, in una società in cui la

propaganda e la menzogna mediatica diventano la norma. a) Il paradigma totalitario e il revisionismo storico «Se il compito della filosofia è comprendere il proprio tempo nel

concetto, Hannah Arendt è il filosofo per eccellenza della nostra epoca [...]. Hannah Arendi, più di ogni altro (e spesso prima), ha infatti pensato il totalitarismo». Così scriveva nel 2006 Paolo Flores D’Ar-

cais*. Per volontà dell’Unione Europea, dal 2009 si ricorda ogni 23

agosto (data dell’anniversario del Patto Molotov-Von Ribbentrop del 1939), la “Giornata europea di commemorazione delle vittime di tutti i regimi totalitari e autoritari”. Questo non è stato che uno degli ultimi atti con cui si è giunti a far trionfare la visione imposta da Hannah Arendt a metà del secolo scorso, quando diede alle stampe il suo noto Le origini del totalitarismo (1951). Il termine “totalitarismo” sembra

che sia nato in Italia per descrivere il fascismo già all’inizio degli anni ‘20. Mussolini rivendicò il termine, ritenendolo utile per descrivere l'aspirazione ad una identificazione totale tra Stato e società. Fino a

3 P. Flores IArcais, // totalitarismo secondo la Arendt, La Repubblica (web), 13 ottobre 2006.

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quel momento della Storia i dittatori e i sistemi autoritari non erano mancati, eppure a detta dei “moderni” mai si era concretizzata «quella particolare forma di potere assoluto, tipica della socierà di massa, che non si accontenta di controllare la società, ma pretende di trasformarla dal profondo in nome di un'ideologia onnicomprensiva,

di pervaderla tutta attraverso l’uso combinato del terrore e della propaganda: quel potere, insomma, che non solo è in grado di reprimere,

grazie a un onnipotente apparato poliziesco, ogni forma di dissenso, ma cerca anche di mobilitare i cittadini attraverso proprie organizzazioni, di imporre la propria ideologia attraverso il monopolio dell'educazione e dei mezzi di comunicazione di massa».

Stante queste caratteristiche, come fa giustamente notare Emanuela Catalano, «la Arendt fa leva sul carattere di assoluta novità del fenomeno totalitario, inteso come luogo di “cristallizzazione” di tutte le contraddizioni

dell’epoca moderna, e lo analizza nel suo significato generale: esso è un fenomeno nuovo ed impensato, che travalica i confini della semplice oppressione e della comprensione, rendendo inutilizzabili le tradizionali categorie della politica, del diritto e dell'etica. [...] Hannah Arendt, in

perfetta coerenza con la tesi da lei sostenuta nel suo saggio, definisce come totalitari soltanto due sequenze storiche, brevi e ben localizzate:

i dodici anni del regime nazionalsocialista in Germania c due parentesi nella storia del regime sovietico (1929-1941 e 1945-1953), con il rischio che tutti gli altri sistemi dittatoriali vengano relegati nella vasta categoria di regimi autoritari, ed occultando di conseguenza quanto il peso dell’i-

deologia, il tipo di legittimità, la struttura, l’organizzazione e la pratica del potere così come il livello di mobilitazione c di inquadramento della vita civile possano essere diversi da una società all’altra»?.

Chiaramente questa operazione della Arendt è stata a lungo osteggiata: «per molto tempo la categoria del totalitarismo è stata rifiutata, o quanto meno guardata con sospetto, dalla cultura di sinistra (in particolare quella marxista), perché, prescindendo da qualsiasi riferimento alla

‘G. Sabbatucci & V. Vidocro, // mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 350.

SE. Catalano (a cura di), Hannah Arendt. Studio sulle origini del totalitarismo, Filosofico.net.

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base sociale dei regimi, accomunava fenomeni giudicati incomparabili come il nazismo e lo stalinismo. Tuttavia, soprattutto negli ultimi anni, il rermine si è largamente affermato nel linguaggio politico corrente (e anche in quello della sinistra)».

Sabbatucci e Vidorto ci ricordano, in questo breve passo, come la Storia sia sempre frutto di interpretazione ed in una certa misura di “mediazione”, andando a modificarsi anche radicalmente nel corso del rempo. Ciò che una volta poteva sembrare positivo col tempo viene giudicato negativo, e viceversa. Non mancano gli esempi famosi in tal senso: storici che attenuano la crisi dell’Impero Romano nel III secolo, obiettano che l’Italia della Controriforma in fondo stesse bene sotto il dominio spagnolo, senza contare i pennivendoli

che arrivano a giustificare la bontà e le conseguenze positive del Co-

lonialismo europeo degli ultimi secoli. La Storia cambia quindi, ma non sempre ciò avviene ricostruendo fedelmente i fatti. Chi pensa che non valga più al giorno d’oggi l'osservazione per cui la Storia sia scritta dai vincitori, non conosce evidentemente in maniera approfondita la disciplina e pecca notevolmente di ingenuità. Se nella prima parte dell’opera dimostreremo che oggi viviamo in una sorta di moderno totalitarismo, nella seconda parte mostreremo in parte come sia avvenuta in senso schiettamente e sfacciatamente anticomunista questo processo di riscrittura della Storia, provando a spiegare come e perché si sia arrivati oggi alla condizione denunciata dal giovane militante politico Paolo Spena: «Frequentare la scuola negli anni 2000, o anche l’universirà spccialmente nelle facoltà umanistiche, significa subire un bombardamento ideologico senza precedenti, che mira a cancellare c revisionare la storia del movimento operaio, recidendo i legami fra questa storia e le nuove generazioni, che oggi godono sempre di meno dei diritti conquistati proprio dalla lotta di questo movimento. Oggi il movimento operaio e

comunista, dopo la sconfitta storica degli eventi del 1989-91, viene criminalizzato dall'ideologia del sistema nonostante la sua crisi profonda. Una in cui lc vittime diventano i carnefici e e la democrazia diventa il nemico da

che si è autopraclamato vincitore enorme falsificazione della storia, chi ha combattuto per il progresso demonizzare, mentre si pretende

°G. Sabbatucci & V. Vidotto, // 770nd0 contemporaneo, cit., p. 350.

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di raccontare alla gioventù, che oggi vede negato il proprio diritto a

un futuro stabile c dignitoso, che il mondo di oggi è l’unico possibile. Riacquistare la capacità di analizzare in modo critico la realtà presente e passata, smascherando il contenuto di classe e la natura tutta ideologica di ciò che oggi si vuole far passare per neutralità oggettiva, è il primo passo per tornare a vincere»”.

AI termine della lettura della presente opera si inizierà a dubitare di vivere in “democrazia” e di essere realmente liberi, tanto forte è il controllo diretto e indiretto esercitato nella nostra società di massa dai media e da ristrette élite padronali. Siamo ancora liberi di scegliere molte cose, certo, ma secondo limiti pre-dererminati che in fin dei conti non si differenziano notevolmente, rimanendo sempre

all’interno di una serie di strutture e sovrastrutture borghesi. Cogliere come la nostra epoca sia già di fatto una forma di totalitarismo significa riuscire a comprendere l'essenza violenta della nostra società. Ciò non avviene per ragioni “naturali”, bensì per cause determinate ad arte e confacenti al dominio di una manciata di persone sulla

maggior parte dell’umanità. Un dominio fondato sul Terrore delle guerre, della disoccupazione, delle persecuzioni, delle migrazioni,

dell’alienazione, della repressione. Un Terrore spesso auto-imposto, o meglio, accettato apparentemente volontariamente, quasi abbracciato gioiosamente.

Un Terrore figlio di un Totalitarismo di tipo

nuovo: morbido, accogliente, colorato, “liberale” per l'appunto.

Perché andare a rompere le certezze? Perché andare ad incrinare tale meraviglioso sogno capitalistico che tanto benessere ci ha apportato? Si potrebbe rispondere che la Verità viene prima di tutto, ma

c'è un elemento molto più pesante e gravido di conseguenze per tutti: il problema principale è infatti che tale sistema non sta più funzionando. Ciò comporta il rischio che il Totalitarismo attuale,

nient'altro che l’attuale forma con cui si esercita la dittatura della borghesia, torni ad essere assai meno “liberale” di quanto è sraro finora. Diventa necessario, quindi, anzitutto far aprire gli occhi a molti,

attuando una rigorosa critica che potrà svilupparsi con adeguatezza solo nell'arco di tutti i successivi volumi della collana. Al contempo

fin dalla presente opera si intende ricordare che un altro mondo pos-

7 P. Spena, Leguiparazione fra i “totalitarismi” e la criminalizzazione del socialismo, Senzatregua.it, 8 febbraio 2017.

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sibile c'era, in certe parti del mondo c’è ancora, e in altre sarà ancora possibile ricostruirlo, magari molto meglio di come è stato realizzato finora, se si è capaci di imparare dalle lezioni della Storia.

Gli apologeti del sistema capitalista obierteranno che la categoria del “totalitarismo” non sia lecita né ammissibile per descrivere la nostra società odierna, e men che meno facendo riferimento all’Occidente. Che vi sia una diversità qualitativa è indubbio: noi oggi

siamo liberi di poter pubblicare un libro del genere, laddove in altre epoche la libertà di stampa non era garantita, né molto spesso neanche la libertà di pensiero. Tale libertà di cui disponiamo è senz'altro preziosa, e permette di distinguere il totalitarismo attuale da quello nazifascista, il quale si basava anche su un controllo ferreo e censore della cultura e dell’editoria, con modalità in fondo non così differenti

da quelle imposte dalla Chiesa Cattolica sulla gran parte della società

cristiana nel corso della sua Storia. L'offensiva ideologica borghese della seconda metà del ‘900 ha avuto un tale successo da trovare, in-

farti, un precedente storico solo nel controllo esercitato dalla Chiesa Cattolica durante il suo millenario (almeno dal Concilio di Nicea del 325, fino agli scossoni subiti nel XVIII secolo dall’Illuminismo)

dominio esercitato nell’ambito culturale, d'accordo con re e signori dell’epoca schiavistica e poi feudale. Di recente il filosofo Maurizio Ferraris ha parlato della «postverità» come di un concetto utile «4 cogliere l'essenza della nostra epoca»*. Nella sua analisi Ferraris pone in rilievo le novità di un'era caratterizzata dalla «Medialità». Purtroppo il filosofo torinese non coglie il nesso tra la tecnologia e il controllo esercitatovi direrramente e indirettamente dai grandi monopoli, ritenendo forse non più attuale tale questione. Dimostreremo la necessità di rivedere tale assunto. Ferraris coglie bene però le distor-

sioni di una società dominata fin dal modo di pensare da uno scollamento tra ciò che è (ontologia), ciò che viene conosciuto (epistemo-

logia) e i mezzi con cui avviene la trasmissione del sapere (tecnologia). Quando si parla di controllo della comunicazione per mezzo dei media non si può fare a meno di pensare al Ministro nazista della

Propaganda Joseph Goebbels, fedele braccio destro di Hitler. Goebbels non è stato però il primo né l’ultimo a troneggiare in questo

*M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, 11 Mulino, Bologna, 2017, p. 10.

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campo. Oggi il Capitale si è fatto più furbo ed evita di palesare i propri imbrogli in maniera esplicita e chiara. Non esiste più un Ministero della Propaganda, almeno formalmente. Esiste da molto tempo un sistema di controllo mediatico molto più raffinato e, per l'appunto, “liberale”, che consente la permanenza di pensieri critici ed antitetici

alla cultura dominante, seppur relegati in un angolino ben nascosto. Lo «spettro del comunismo» per decenni è stato temuto dalla borghesia e percepito come un'alternativa concreta dai lavoratori di tutto il mondo. Anche nei terribili anni di Hitler, quando si bruciavano i libri dell’ebreo Marx e il dissenso politico era punito con la prigionia, gli operai sapevano di essere costretti al silenzio e a chinare il viso, ma non pochi mantenevano l’idea di un mondo alternativo, esemplifi-

cato dall'esistenza stessa dell'URSS. Così come la Chiesa stroncò per secoli ogni forma di eresia religiosa, alla stessa maniera la borghesia reazionaria guidata da Hitler si lanciò in quella grande guerra colo-

niale di sterminio che avrebbe avuto il doppio pregio di fornire al popolo tedesco il proprio «spazio vitale», ma anche di sradicare una volta per tutte la speranza rimasta viva nella mente di milioni di lavoratori.

Perfino durante il totalitarismo nazista non era insomma stato possibile giungere ad una completa equivalenza tra la “legalità” nazista e la “moralità” interiore dei singoli individui, per usare due con-

cetti nell'accezione kantiana. L'equivalenza tra legalità capitalistica e moralità popolare era stata ancor meno accettata nel XIX secolo, così come mai nella Storia si è assistito ad un'epoca in cui siano mancate sollevazioni sociali in rivolta verso una condizione sociale ritenuta

ingiusta e illegittima. Laddove non sono riusciti millenni di regimi tirannici e nemmeno i

totalitarismi nazifascisti, è riuscito invece per

un breve periodo il totalitarismo “liberale”, capace di annebbiare la mente di miliardi di lavoratori rimasti sul finire del secolo XX privi di un riferimento ideale alternativo. Il crollo dell'URSS ha davvero

coinciso per un certo periodo con la «fine della Storia» nella mentalità delle classi popolari occidentali. La vittoria del capitalismo, ormai naturalizzato e proclamato eterno nel suo dominio, è apparsa netta e straripante. Naturalmente tale dominio, basato sulla sussunzione delle menti e sul loro controllo indiretto, riguarda soprattutto la società

occidentale, la quale gode nel suo complesso dei maggiori frutti della globalizzazione economica capitalistica. Tali discorsi valgono molto meno per i popoli del “Terzo Mondo”, laddove non a caso permangono, in forme diverse e variegate, società e regimi antimperialisti 32

e anticapitalisti. Molto più forte è in tali Paesi la consapevolezza di vivere in un sistema truccato, in cui a guidare le redini del gioco ci sono pochi grandi burattinai seduti su comode poltrone a Washington, New York, Londra, Parigi, Berlino, Roma, ecc. Per i popoli asiatici, latino-americani, africani, il regime subìto è

tutt'altro che “liberale”, ed assai più visibile è la violenza quotidiana esercitata da un imperialismo che ha saputo portare avanti silenzio-

samente le istanze del colonialismo; eppure non manca anche in tali Paesi uno stadio molto avanzato di subalternità verso i dogmi della “democrazia liberale”, del “libero mercato”, del “sogno americano”

e così via. Ciò dipende in una certa misura dagli attuali rapporti di produzione interni a tali Stati, oltre che dalle diseguali relazioni internazionali, ma è anche una conseguenza culturale figlia di un'e-

poca: segno cioè che le difficoltà derivanti dal crollo della grande “utopia” si sono fatte sentire ovunque, anche a causa degli errori e delle tattiche sbagliate dei comunisti. L'odio per l'Impero Statuniten-

se e per gli Occidentali è però sempre più diffuso nel mondo, anche se “a casa nostra”, in Paesi sempre più colonizzati culturalmente, nel senso comune maggioritario non se ne colgono le ragioni.

Questo è in fondo il più grande trionfo dell’imperialismo: la propria mimetizzazione, la propria scomparsa. L'imperialismo esiste (ontologia), ma le principali sovrastrutture tecnologiche e media-

tiche (tecnologia) non ne parlano, quindi non ve ne è cognizione (epistemologia). Ciò che è conosciuto non corrisponde quindi a ciò che è reale. E viceversa. Eppure non si nega l’accesso all’esisrente. Non si impedisce all’individuo di conoscere realmente la realtà. Si

riesce però a convincere la maggior parte del popolo della veridici-

tà della versione dominante propinata. Un'altra piccola parte del popolo, quella più curiosa, furba e consapevole, viene corrotta e

ingaggiata diventando la nuova aristocrazia operaia (si pensi al “filosofo” Marchionne), oppure messa prudentemente ai margini del

sistema mediatico, depistata, derisa, denigrata. Le conseguenze malevoli del Sistema vengono infine spiegate con una serie di tecniche

egemoniche che distolgono lo sguardo dalle cause reali dei problemi individuali e collettivi. In un simile sistema gli uomini e le donne che decidono di

ribellarsi non mancano e non mancheranno mai, perché le volontà “ideali” saranno sempre in ultima istanza determinate dalle costrizioni materiali; la rivolta però perde peso e consapevolezza teorica,

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non disponendo di un'adeguata ideologia emancipatrice capace di

fungere da valida guida per la prassi. Nell’apparente confutazione del marxismo (ideologia “ribelle” ancora in auge negli anni ‘70), i “ribelli” recuperano l’anarchismo, il radicalismo, il populismo, l’astratti-

smo, l’ascetismo, le religioni, gli estremismi, l’individualismo, l’arte, lo yoga e così via: la rivolta si frantuma, si individualizza, diventa

adozione di un differente stile di vita, porta spesso al rifiuto della politica in quanto semplice gestione dell'esistente, non trovando al contempo un'ideologia valida per pensare, e rantomeno costruire, qualcosa di alternativo al capitalismo. Ci fu un tempo in cui chi era comunista, cogliendo forse parzialmente alcuni di tali aspetti, in un momento di sbandamento collettivo, cercò di salvare capra e cavoli scindendo Lenin da Stalin, poi Engels da Lenin, poi Marx da Engels, infine (perché no?) l'ideale

utopistico e filosofico del socialismo dalle rigidità del materialismo storico. La protesta, non più scientifica e sistematica, si faceva astratta e lirico-poetica... certamente non più organizzata in maniera adeguata e di massa. L'irrazionalismo tornava a farla da padrone, e nella confusione generale diventava possibile rilanciare la grande giostra

che aveva caratterizzato la gran parte della Storia umana: gli oppressi, non avendo che un solo paradigma ideologico e determinati valori in

testa, nella smentita generalizzata delle possibilità di poter costruire una società su basi scientifiche, si rassegnarono all’esistente, oppure

cercarono di trovare delle varianti di gestione non riuscendo però a percepire le storture della società. Così come le lotte proletarie nel Medioevo si esprimevano spesso a livello religioso attraverso l’adesione alle “eresie”, così oggi assistiamo al trionfo, nel variegato campo delle sinistre europee, di revisionismi, socialismi utopistici e subalternità capitalistiche di vario tipo. L'inadeguatezza di tali rivolte è rale da

screditare alla radice il senso stesso della rivolta, dando luogo a quel fenomeno pericoloso del “pensiero unico” a cui fortunatamente si sta ormai per porre termine. Il Totalitarismo “liberale” ha i giorni contati. È la stessa recnologia infatti a porre le basi della ricomposizione del nesso tra ontologia ed epistemologia, premessa dialetticamente indispensabile per un'adeguata prassi politica. Se infatti l’imperiali-

smo controlla ancora in maniera ferrea i principali media (televisioni, radio, giornali), non altrettanto può fare con internet, salvo far cadere la propria maschera “liberale”. Il web oggi è una giungla in cui si trova qualsiasi cosa. Come tale, in sé, non è altro che uno strumento 34

tecnologico neutro, con la differenza però qualitativamente e quan-

titarivamente rilevante di essere “democratico”: esso consente cioè a chiunque di poter accedere a determinati contenuti rimasti celati dal grande circo Barnum costruito dai servi del Potere. La Verità Storica e Politica ormai esistono e sono già state svelate, seppur in maniera

sparsa e frammentata, da una grande quantità di uomini probi e donne integerrime. Il lavoro che ritengo di aver svolto con profitto

realizzando /r Difesa del Socialismo Reale, mettendolo a disposizione gratuita sul web, è stato semplicemente di assemblare e far conoscere tale Verità Storica già scoperta da altri. L'aver costruito questa piccola casamatta virtuale mi permette di essere certo del fatto che una

scintilla continuerà sempre a permanere, potendo diffondersi come un virus capace di colpire non il sistema operativo di un pc, bensì la coscienza di chi ama la giustizia e la libertà. Il grande problema sta oggi nel riuscire a diffonderla, questa Verità, sfidando i potenti mezzi a disposizione dell’imperialismo per

mantenere l'egemonia culturale sulle masse popolari. Si tratta di andare contro i pregiudizi, le certezze acquisite nel tempo, le televisioni, i giornali, la Chiesa (e le altre religioni), i ceri politici, gli opinionisti, gli intellettuali, i filosofi, gli economisti, le massime organizzazioni

internazionali, le istituzioni scolastiche e perfino la maggior parte dei libri presenti nelle librerie e nelle biblioteche. Qualunque sia l’esito di questa lotta non ci si potrà aspettare che uno o più libri possano porre termine ad un totalitarismo, o più in generale ad un qualsiasi

regime. Solo la forza dei popoli è tale da poter distruggere un ordine politico, perfino il più spietato, ingiusto e “liberale”. Un totalitarismo

è in fin dei conti, come faceva notare la stessa Hannah Arendt, originato da una certa dose di razzismo e di imperialismo, fase suprema del capitalismo. Nel delineare questa formula del “totalitarismo liberale” anticipo che non si può abbattere un simile regime se non attaccando al cuore il fenomeno dell’imperialismo, il che in Italia significa

porre la questione del socialismo come unica struttura socio-economica concretamente alternativa al capitalismo nel contesto dato,

ossia un Paese ad elevato tasso di sviluppo tecnologico e industriale. Questa però è un’altra storia che qui introdurremo soltanto, necessitando di ulteriori approfondimenti storico-critici sulle falsità raccontate riguardo allo “stalinismo”, al socialismo, ecc. Sarà quindi utile per ora concentrarsi sull’obiettivo iniziale espresso: introdurre nel

lerrore un dubbio sistematico sulle verità che gli sono state raccontate 35

fin dall’infanzia. Chi avrà la pazienza e la voglia potrà aspettare i lavo-

ri successivi che daranno una diversa prospettiva sugli eventi dell’ultimo secolo, potendo constatare personalmente quanto sia stato ra-

dicalmente sfacciato il revisionismo storico che oggi permea il senso comune, nella Resistenza sempre più flebile della “società civile”. 6) IL progetto della “storia del socialismo e della lotta di classe” La base su cui si strutturerà il lavoro sono le elaborazioni e le analisi realizzate nel saggio A cent'anni dalla Rivoluzione d'Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo. La gran parte dei materiali dell'opera verrà scomposta, riassemblata, aggiornata e soprattutto sarà ampliata, da un lato nel prosieguo del recupero

di opere e analisi dimenticate, dall’altro nel confronto critico e nell'esposizione degli studi e delle scoperte scientifiche più recenti. A cent'anni dalla Rivoluzione d'Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo si può considerare una prima bozza, un

tentativo parziale, isolato e pionieristico nella storiografia attuale internazionale, di dare un quadro completo più veritiero sull’ultimo secolo e di analizzare la nostra epoca, indicando alcune vie da percorrere necessariamente per la ricostruzione di un'organizzazione politica rivoluzionaria capace di emancipare la classe lavoratrice e gli

sfruttati di rutto il mondo. La messa a punto organica di rali materiali, con metodo scientifico, e la loro divulgazione nel circuito edi-

roriale saranno elementi decisivi al fine di immetterne le tesi storiche e politiche nel dibattito accademico e delle organizzazioni politiche e sindacali. Questo lavoro si svolge nell’ambito della battaglia culturale

contro il revisionismo storico e l’obiettivo è realizzare una collana a disposizione del movimento proletario internazionale al fine di rimettere al centro del dibattito politico e culturale l'attualità della questione comunista.

La collana verrà pubblicata integralmente per la “La Cirrà del Sole”, storica casa editrice che si caratterizza per il carattere militante delle sue pubblicazioni, tese a divulgare, in un contesto sempre più

sfavorevole, materiali capaci di rilanciare la lotta per il comunismo. Per far fronte alle spese e ai costi di questo progetto si fa appello alla generosirà della classe lavoratrice nelle campagne militanti di raccolta fondi. La crisi politica e culturale del movimento comunista in que36

sti anni ha messo a dura prova non solo la sopravvivenza stessa dei

partiti comunisti, ma anche delle organizzazioni culturali che, in una fase di sempre maggiore egemonia borghese, hanno visto restringersi considerevolmente lo spazio per la diffusione dell'immenso patri-

monio ideologico riconducibile al marxismo lasciatoci in eredità dal secolo scorso. Intendiamo preservarlo dall’oblio e consegnarlo alle nuove generazioni. “La Città del Sole”, che pure ha resistito tra molte difficoltà ritagliandosi un ruolo da protagonista nello spazio residuo di un mercato editoriale in crisi, non è esente dalle difficoltà della fase. Si rende quindi indispensabile sostenere anche economicamente un

lavoro con cui si intende rivoluzionare l’interpretazione della storia dell’ultimo secolo, smentendo minuziosamente il racconto falso e calunnioso dominante sul socialismo e sui comunisti. I prezzi dei

singoli volumi e dell’opera complessiva verranno mantenuti quanto

più possibile accessibili e popolari al fine di favorire la più ampia diffusione. Tutti i ricavi delle opere verranno utilizzati per finanziare le ristampe e il complesso dell’opera fino alla sua conclusione, oltre

che per sviluppare il portale www.intellettualecollettivo.it dove rali materiali verranno messi progressivamente a disposizione per una consultazione libera e gratuita. Ciò vuol dire che sia l’autore che

la casa editrice lavoreranno per i diversi anni necessari a portare a termine il progetto senza ricavi, anteponendo l’obiettivo politico ai

profitti personali e aziendali. La scelta del titolo dato alla collana muove da considerazioni

pragmatiche: Storia del Socialismo e della Lotta di Classe ha un carattere accademico e neutro rispetto all’esplicito fx Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo, che, seppur utile nella prima edi-

zione per una diffusione nell’ambiente militante, ha costituito anche un freno per i pregiudizi radicati nella società. Trattandosi inoltre di

materiali utili per la divulgazione scolastica e accademica si ritiene che tale titolo consenta a docenti e studenti una fruizione più agevole. Il progetto allo stato attuale prevede una distribuzione del lavoro in 10 volumi, ripartiti come segue?.

"I titoli e le descrizioni dei volumi sono indicativi; come tali, sono suscettibili

di variazioni in corso d'opera dei lavori.

37

Volume 1: Il totalitarismo “liberale”. Le tecniche imperialiste per l'egemonia culturale

La descrizione e l’analisi dell’epoca contemporanea. Il mondo a cavallo tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, in cui l'Occidente

è piombato in un regime sempre più invisibile, eppure capace di atcuare un dominio semi-totalitario sulla società grazie a fattori come il

controllo mass-mediatico e dell’informazione, l'intreccio di politica ed economia nel regime imperialista, il ruolo sempre più pervasivo dell’alienazione, il controllo del linguaggio e molti altri fattori più

o meno noti. Nella seconda parte dell’opera si mostra la fallacia dei racconti borghesi e revisionisti sul comunismo, proclamato erroneamente come un fallimento. Si traccia un bilancio storico dell’e-

sperienza storica del socialismo e si indicano alcune necessità per il movimento realmente democratico e progressista internazionale, con particolare riferimento al movimento comunista.

Volume 2: Marx, Engels, Lenin. Dall'utopia al marxismo-leninismo Il valore della teoria rivoluzionaria del marxismo-leninismo, l’unica teoria storicamente vincente. Si offrirà un'introduzione ai

concetti base del marxismo, con approfondimenti su aspetti poco

noti o dimenticati delle opere dei primi teorici socialisti di inizio XIX secolo, superati poi progressivamente dalla costruzione delle tesi di Marx, Engels e Lenin. L'atrenzione sarà concentrata soprattutto sulla presentazione sistematica della teoria e della prassi di questi

tre maestri, le cui opere costituiscono la premessa indispensabile per comprendere le radici culturali della Rivoluzione d'Ottobre e del movimento comunista moderno. Nell’evidenziare le lotte politiche da loro condotte per l'affermazione della teoria rivoluzionaria

si ripresenta la piena validità c attualità del materialismo storico e

dialettico come filosofia organica alla lotta del proletariato, e quindi dell’organizzazione comunista. Si chiude con una riflessione critica

sui limiti, sui problemi e sulle necessità di aggiornare il marxismo-leninismo a seguito dell’insegnamento storico dell'ultimo secolo.

38

Volume 3: La lotta per la sopravvivenza. Urss e Comintern contro imperialismo

e nazifascismo (1917-1945) La storia “riscoperta” della lotta di classe mondiale nel periodo che va dalla Rivoluzione d'Ottobre alla fine della Seconda Guerra Mondiale, che segna l’apogeo dell'URSS e la dimostrazione della vittoria della costruzione del socialismo, attraverso la nascita di un regime proletario capace di difendersi e sconfiggere la violenza feroce dell’imperialismo, lavorando al contempo per diffondere i germi della Rivoluzione nel resto del mondo, attraverso la costruzione

del COMINTERN. Vengono una volta per tutte smentite tutte le falsità e le distorsioni sulla storia sovietica “totalitaria”, spiegando

criticamente la stagione del periodo egemonizzato da Stalin, di cui

si traccia un bilancio complessivo, nella difficoltà di scelte tragiche e difficili dovute in primo luogo alla costruzione di una rete clandestina sovversiva e terroristica sostenuta dalle potenze imperialiste occidentali e controllata da Trockij. Gli errori e gli “orrori” non vengono omessi, ma contestualizzati e descritti, riconducendoli alle loro reali dimensioni e cause. Vi si trovano infine ricostruzioni e fonti poco note sul nazismo.

Volume 4: Storia delle donne e dei femminismi. Patriarcato e socialismo

La storia di classe delle donne, a partire da una riscoperta di un racconto per molti versi ancora celato, nonostante decenni di studi ormai avanzati che ci si propone qui di riassumere e mettere a dispo-

sizione di un pubblico più ampio della ristretta cerchia degli specialisti. Ci si propone di costruire la storia delle modalità con cui la donna ha saputo costruire la propria emancipazione anzitutto dal punto di vista mentale e ideologico, e poi politico. In un volume sintetico la storia della donna dall’antichità ad oggi, con una riflessione sui meri-

ti storici del marxismo e del socialismo per l'avanzamento nell’emancipazione della condizione femminile. Vi si trovano in conclusione anche alcune ricostruzioni e riflessioni sull’attualità della questione di genere e sui problemi filosofici di bioetica ad essa concernenti.

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Volume 5: L'impero degli USA. Il dominio sul “terzo mondo”

Il ritratto dell’impero totalitario degli USA, ricostruito nelle sue vicende essenziali del XIX secolo e, in maniera più dettagliata, del XX secolo, facendo particolare riferimento al periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Dopo aver concentrato l’attenzione sul dominio esercitato all’interno dei propri confini, attuando un con-

trollo pressoché totalitario sul popolo statunitense, viene descritta la politica estera imperialista degli USA, arricchita dalle rivelazioni più recenti scaturite dalle desecretazioni dei documenti del Dipartimento di Stato e della CIA. Si mostrano le tecniche golpiste utilizzate, in particolar modo dalla CIA, in collusione con gli interessi di imprese

finanziarie e industriali statunitensi, per riuscire a mantenere un dominio integrale o un’egemonia sostanziale nella gran parte delle aree

del globo, con particolare riferimento alla quasi totalità dell’Africa, dell’America Latina e dell'Asia, con dinamiche che si prolungano fino ai giorni odierni. Per questi continenti vengono ricostruite le

principali vicende paradigmatiche di singoli Paesi e le loro lotte contro la destabilizzazione occidentale per conquistare una decolonizzazione dapprima politica, poi economica, secondo un processo tuttora in corso.

Volume 6: Ascesa e declino dell'URSS. Guerra fredda, revisionismo, crollo (1945-1991) La ricostruzione delle vicende interne dell’URSS dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla sua dissoluzione, con uno sguardo anche sulle de-evoluzioni successive al ritorno al capitalismo. Vi si

tracciano ritratti dei leader sovietici, degli sviluppi interni della società e del PCUS, analizzando l’intreccio tra politica estera, politica

interna e le principali svolte tattiche e strategiche revisioniste che hanno portato al sostanziale abbandono del marxismo-leninismo,

tanto più enunciato meramente dal punto di vista formale quanto poco rispettato praticamente. Ne è conseguita l’accumulazione di una serie di contraddizioni più o meno marcate, ma sul lungo termi-

ne fatali. Ampia attenzione è dedicata al tema delle cause della caduta 40

dell'URSS e alla questione dell'economia. L'analisi critica si unisce alla ricostruzione degli elementi più progressivi rappresentati dialet-

ricamente dall’URSS durante l’intero periodo della propria esistenza.

Volume 7: L'altro mondo possibile. La resistenza comunista e le sconfitte dell'impero A seguito della sconfitta degli imperialismi nazi-fascisti, del mutato assetto geo-politico internazionale e delle lotte di liberazione nazionali guidare dai comunisti si creano le condizioni per l'avvento di nuovi regimi socialisti in diverse parti del mondo. Il passaggio non

è scontato e ovunque è frutto di aspri conflitti in cui a fomentare la reazione di classe sono le vecchie e nuove forze emergenti dell’imperialismo “liberale”. Vengono qui ricostruite, spogliate dei luoghi comuni e delle maggiori falsità storiche, le vicende storico-politiche e

i principali protagonisti delle democrazie popolari dell'Europa orientale, della Corea del Nord, di Cuba, del Vietnam e della Repubblica

Popolare Cinese. È in particolare su quest'ultima che si concentrano oggi le speranze di chiunque porti avanti la resistenza comunista e antimperialista contro la potenza egemone mondiale, gli USA. Anche in questo caso le ricostruzioni critiche concentrano l’attenzione sui fattori che hanno portato in certi casi alla crisi dissolutiva di alcuni regimi, mentre altri hanno dovuto riscoprire tatticamente forme più elaborate e moderne di “socialismo di mercato”, affermatesi in

particolar modo nelle realtà dei Paesi “in via di sviluppo”. Volume 8: Controstoria d'Italia. Lotte di classe e il ruolo dei comunisti

La ricostruzione della storia d’Italia nel periodo successivo alla Rivoluzione d'Ottobre, la quale ne ha influenzato profondamente

le vicende. Dalla guerra civile di classe tra borghesia e proletariato è scaturito il ventennio della dittatura fascista, che viene qui riscoperto nella sua natura di regime terroristico e totalitario a disposizione

della classe borghese. In questo periodo continuano ad agire con estrema difficoltà i comunisti, che potranno dal dopoguerra sfruttare in pieno le elaborazioni, qui presentate orgagicamente, del genio 41

di Antonio Gramsci, pur “rivisitato” nell’ottica della via italiana al socialismo elaborata da Togliatti. Dal 1943 l’Italia diventa una sorta di semicolonia a sovranità limitata, egemonizzata dagli USA: la rico struzione del periodo della “Prima Repubblica” è tesa a dimostrare questo assunto, oltre che ad analizzare strategie, tecniche ed errori del

movimento comunista italiano, ed in particolar modo del “Partito

nuovo” del PCI. L'analisi muove infine alla contemporaneità, attraverso una ricostruzione critica del periodo della “Seconda Repubblica”, ricongiungendosi con le principali problematiche politiche

odierne figlie di questioni di lungo corso tuttora irrisolte. Volume 9: La lotta “sacra”. Religioni e idealismo contro comunismo La storia complessiva della Battaglia Culturale, dello scontro

filosofico e delle idee, affrontati da un punto di vista di classe e presentati facendo riferimento ad ampi estratti antologici di fonti dirette e storiografia specialistica. Il volume prevede, oltre alla riproposi-

zione delle scoperte culturali di matrice marxista e sovietica riguardanti l’analisi storico-critica delle religioni e delle filosofie idealiste, una ricostruzione dei rapporti assai disarmonici tra il movimento comunista e la Chiesa, con particolare riferimento al suo ruolo conrrorivoluzionario nel XX secolo. Contro ogni forma di concezione

idealistica e irrazionalista della realtà si ripropone l’attualità del ma-

terialismo dialettico come teoria organica della realtà a disposizione del proletariato. Particolare attenzione verrà rivolta al progetto di una

controstoria della filosofia contemporanea, sulla quale è stato fatto finora un lavoro non sufficientemente sistematico.

Volume 10: La decolonizzazione dell'immaginario culturale.

Gli intellettuali organici e la battaglia delle idee Il XX secolo ha portato alla mobilitazione degli intellettuali nella grande lotta tra le istanze del socialismo e quelle del capitalismo. In

misure e forme diverse le principali personalità artistiche e culturali si sono schierate e hanno preso posizioni precise a favore del progresso sociale o dell'ordinamento esistente. Si ricostruiscono qui i ritratti e 42

le descrizioni critiche delle più importanti, facendo particolare arren-

zione ad analizzare criticamente il campo dell’intellighenzia “progressista”, non necessariamente comunista, mettendone in rilievo pregi e

limiti, nell'ambito di una riflessione finale critica sulla progressività o regressività dei revisionismi e delle riproposizioni moderne, in forme

diverse, dell’anarchismo e della socialdemocrazia come alternative alle conquiste del marxismo-leninismo.

Prefazione alla prima edizione!

È arrivato il momento in cui i comunisti e le comuniste rialzino la testa e ricordino anzitutto a se stessi le ragioni della propria Storia. Questo libro è rivolto a qualunque individuo capace di riflettere criticamente e senza pregiudizi, ma in particolar modo ai comunisti, colpiti ormai da decenni di bombardamento mediatico e politico. Una campagna diffamatoria di proporzioni tali da sortire l’effetto di riuscire a colpevolizzare gli stessi comunisti, cancellandone in molti

casi la propria stessa identità, abbandonata, ripudiata, nascosta o ridotta ad un'ideologia più “conforme” ed accettabile per la borghesia, regredendo ad un livello che Marx ed Engels avrebbero descritto trai “socialismi utopistici”. Tutto ciò è inammissibile, ma non è accaduto senza spiegazioni razionali, né è dovuto al caso o alla sorte. Un progetto scientifico e sistematico è stato messo in atto per ridurre i comunisti ad un livello di inconsistenza culturale e politica, al fine di limitarne l’azione politica, l’unica capace nel corso degli ultimi due secoli di spaventare davvero il capitalismo e il potere della borghesia. La

caduta del muro di Berlino e dell'URSS sono stati gli eventi che sono riusciti a far regredire sensibilmente nel mondo la consapevolezza che un altro mondo non è solo possibile, ma era già esistito, funzionava certamente meglio, ed era anche l’unica strada efficace per far progredire tutta l'umanità. Si dirà che non è così, che la Storia ha smentito

la possibilità di costruire un sistema alternativo al capitalismo. Non è vero. Nell'opera che segue, il primo volume (ossia i primi 12 capi-

' Rispetto al testo originale di questa Prefazione alla prima edizione di /n Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo, sono stati apportati solo alcuni leggeri ritocchi stilistici e formali a seguito di un lavoro di revisione.

45

toli) è reso a dimostrare l’esatto opposto, concentrando l’attenzione

soprattutto sulle vicende che conducono dalla Rivoluzione Russa

alla fine dell’Unione Sovietica, con approfondimenti tematici sui temi dei diritti delle donne, del ruolo della Chiesa e delle religioni, e sui principali protagonisti della Rivoluzione (Lenin, Trockij, Stalin).

Chi si aspetta una storia agiografica rimarrà illuso, perché gli errori e gli orrori ci sono senza dubbio stati, ma in entrambi i casi

non nei termini raccontatici dalla borghesia per decenni. Quella che segue non è una mera storia dettagliata delle vicende interne dell’URSS. Quel che abbiamo realizzato è una Storia Politica del socialismo reale, di cui l’URSS è solo un tassello, benché senza dubbio il più importante. Non si pretende di raccontare necessariamente ogni singolo dertaglio, come è stato fatto, peraltro in maniera spesso imprecisa, parziale e poco

neutrale. Si intende offrire anzitutto una

corretta interpretazione dei fatti, spiegando i “perché” delle cose, aiutando così a comprendere alcuni eventi sui quali è caduta la mannaia

del silenzio, oppure presentando correttamente altri che sono stati distorti e rielaborati a causa delle deformazioni politiche svolte da storici compiacenti verso le classi dominanti. Perché la storia dell'URSS è solo un tassello? Perché qui si intende fare un bilancio non solo dell’URSS ma del socialismo reale, ossia di rutri quei regimi (usiamo il termine “regime” nell’accezione marxista, definendo con tale termine ogni forma di “Stato”,

in quanto sovrastruttura necessaria per attuare il dominio di una classe su un’altra) socialisti, o guidati da Partiti comunisti, che

sono una conseguenza del successo e del consolidamento dell’Ottobre Rosso. Per realizzare questo intento si è dovuto ampliare la narrazione su scala mondiale, perché la Rivoluzione d'Ottobre

ha portato i suoi effetti in tutto il globo. Il lettore mediamente informato è già sufficientemente a conoscenza della storia europea, specialmente quella successiva alla Seconda Guerra Mondiale. Qui

si è scelto di conseguenza di tralasciare la storia “ufficiale” dell’Europa Occidentale, concentrando per ovvie ragioni solo l’attenzione sull’Italia, a cui è dedicato ampio spazio, compreso un capitolo

dedicato alla sua storia repubblicana. L'ottica di riferimento è in generale completamente anti-eurocentrica: per troppo tempo si sono giudicati i fatti e le istituzioni di tutto il pianeta ignorando le vicende reali che hanno caratterizzato il cosiddetto “Terzo Mondo”, così come si è steso un velo sui crimini dell’imperialismo perpetuati 46

non solo nell'epoca del colonialismo, ma anche durante gli anni della decolonizzazione, proseguendo fino ai nostri giorni. La necessità di rimuovere questo velo di ignoranza si è manifestata con l'elaborazione di quella che potrebbe definirsi come una

storia dell’imperialismo e della destabilizzazione nel ‘900: questa è l'essenza dei capitoli dedicati all’Asia, all'Africa e all'America Latina:

non delle storie complete dei singoli Stati, ma un tentativo di mostrare alcune vicende paradigmatiche che spieghino la continuità del fenomeno imperialista in ogni angolo del pianeta. Tutto ciò è stato

anticipato da due capitoli dedicati rispettivamente alla politica interna e alla politica estera degli Stati Uniti d'America, in quanto è neces-

sario anche in questo caso mostrare chiaramente quale sia stato, e sia tuttora, il principale nemico dei popoli di tutto il mondo. Infine, si offre ampio spazio ad un'analisi delle principali realtà storiche socia-

liste e progressiste, con capitoli dedicati alle Repubbliche Popolari e Democratiche dell'Europa Orientale, a Cuba e alla Cina. Particolare attenzione si è prestata al tema dell’egemonia culturale, ai quali sono

dedicati il capitolo 22, un omaggio a tutti quegli intellettuali e artisti che hanno messo la propria vita al servizio del progresso sociale, e

il capitolo 23, probabilmente la parte più ambiziosa: un tentativo di attualizzare la ricerca gramsciana per capire quali siano state e quali siano tutt'oggi le tecniche imperialiste usate per mantenere

l'egemonia culturale, ossia come la borghesia sia riuscita a costruire una forma di semi-totalitarismo con cui sta cancellando e riscrivendo la Storia contemporanea per screditare il ruolo dei regimi socialisti.

Il capitolo finale, il 24, tenta di fare un bilancio complessivo di tali esperienze, riaffermando quanto presentato e dimostrato nei capitoli

precedenti, e tentando di evidenziare le problematiche rimaste irrisolte nel marxismo-leninismo. Questa opera è anzitutto una raccolta di fonti: fonti dirette, fon-

ti indirette, fonti storiografiche, analisi e commenti politici. Le parti scritte in prima persona dall’autore sono effettivamente molto poche e non sono mancati anzi contributi esterni boratori, nominati nei Ringraziamenti. Che operazione? Il senso è la constatazione che la andata molto avanti nel corso del tempo, ma

inediti di diversi collasenso ha allora questa ricerca storiografica sia ad essa non sia seguito

un parallelo dibattito pubblico. Ci sono svariate spiegazioni del perché ciò sia avvenuto e non è qui il caso di anticipare un elenco che

emergerà naturalmente dalla lettura del testo. Resta il fatto evidente 47

che nel mondo odierno, caratterizzato da un bombardamento continuo di informazioni e di dati, una serie di opere, autori e tematiche non trovino spazio né a livello mediatico né a livello scolastico. La crisi delle organizzazioni comuniste, diffusa in quasi tutto l'Occidente, ha fatto il resto, impedendo che venisse portato a termine un

progetto complessivo di raccolta di dati e di trasmissione del sapere.

Paradossalmente oggi, nell'epoca dell’informatizzazione di massa e in mancanza di un centro politico aggregatore degli sforzi degli intellettuali critici verso il sistema capitalistico, si pone all’ordine del giorno

non solo il rischio della perdita della memoria storica, ma anche della stessa trasmissione di documenti. Quanti siti internet, blog, pagine

social media, hanno ospitato articoli, saggi, libri interi, professionalmente ben curati e meritevoli, che non hanno trovato diffusione cartacea per mancanza di fondi e capitali? Innumerevoli. Quanti di questi siti e pagine web hanno poi chiuso i battenti, cancellando per sempre? la possibilità di recuperare tali contributi? Molti.

Me ne sono accorto io stesso: per questo lavoro, in cui ho accumulato materiali raccolti in alcuni casi a partire da 5 anni fa (molti dei quali pubblicati sulla pagina facebook “I Maestri del Socialismo”),

i “link” che avevo archiviato per risalire alle fonti riportano ormai a siti non più attivi. Nella dispersione e volatilità delle organizzazioni

comuniste, le sole interessate a diffondere alcuni contenuti di classe, si pone allora il problema storico del rischio di un nuovo Medioevo: tutto quanto realizzato e stampato dal movimento operaio nel corso del ‘900 rischia la cancellazione sistematica da parte della borghesia;

si pensi al fiume di pubblicazione di opere “anti-sistema” avvenuta in Italia negli anni ‘60-’70. Che cosa resta oggi? Rare sono le ristampe, fatte da poche e molto deboli case editrici “impegnate”. Molte invece le opere ormai fuori commercio, disponibili solo “usate” su siti come “Ebay” o, raramente, in una biblioteca comunale ben fornita. Quando un'opera non viene più pubblicata scompare dal dibattito pubblico e

la sua stessa esistenza viene rimossa dalla mente delle persone: “se non è stampato più è perché non ha valore”, questo è un ragionamento comune per l’homo capitalisticus della nostra epoca: se non sei nel mer-

2? E vero che esistono siti internet che periodicamente salvano e consentono di recuperare i contenuti pubblicati sui principali siti web, ma qui si parla della fruibilità a disposizione dell'utente medio, non dello studioso specialista.

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cato significa che sei inutile, che non esisti. Eppure non è così, dato

che ci sono svariati motivi per cui un’opera esce dal mercato editoriale, e non sono ultimi quelli politici, come avremo modo di vedere.

Quel che abbiamo fatto in questo libro è stato allora dare spazio da un lato alle conquiste storiografiche più recenti, anch'esse spesso misconosciute se non ostracizzate per precise motivazioni politiche

(si pensi alla polemica tra Liberazione e il libro su Stalin di Losurdo di qualche anno fa); dall’altro lato si è proceduto alla riscoperta di una serie di testi, autori, notizie “scomparsi”, in certi casi ricopiandone

di proprio pugno alcune parti, in altre sfruttando il lavoro meritorio fatto da altri compagni e compagne. Sia io che loro ci siamo sentiti probabilmente come gli scribi amanuensi che durante l'Alto Medioevo salvaguardavano la cultura Occidentale trascrivendo i testi dai papiri ai manoscritti. Con la differenza sostanziale che mentre in quel

caso si procedeva sistematicamente a rimuovere dalla preservazione tutti quegli autori scomodi per la Chiesa (materialisti, agnostici, atei, eretici, edonisti, ecc.), in questo caso si tratta non solo di salva-

guardare la memoria storica, ma anche di lavorare per la diffusione pubblica di tali materiali, cosa che le principali organizzazioni di

sinistra hanno sistematicamente smesso di fare negli ultimi decenni. Da qui la decisione di mettere a disposizione tutto questo lavoro gratuitamente sul web, al fine di garantirne la maggiore diffusione

possibile. Oggi il web, con il suo carattere di gratuità e capillarità, rimane infatti un argine fondamentale alle derive totalitarie che col-

piscono le società occidentali nel trionfo dei regimi “liberali”. Non è un caso che si cerchi da più parti di limitarne l’accesso, o quanto meno di attuare un controllo sui contenuti che vi circolano. Proprio

nei giorni in cui concludo quest'opera alcuni settori politici, noti per il loro servilismo verso gli USA, hanno lanciato l'allarme sulle “fake news” che si trovano su internet, preparando l'opinione pubblica alla necessità di un intervento statale nella regolamentazione del web. Il

fatto che esistano delle fake news è senza dubbio reale, ma basterebbe una seria analisi critica dei giornali e dei telegiornali per accorgersi

che il problema non sia solo internet, il quale anzi è un medium che consente molto spesso di rispondere in maniera adeguata a tali fenomeni, smentendo “verità ufficiali” attraverso una piattaforma che, se

adeguatamente usata, può far aprire gli occhi a tutti. Per superare il rischio della scarsa professionalità, nel caso della presente opera si è seguito un metodo scientifico: ogni paragrafo pre49

senta le fonti utilizzate in note a piè di pagina. Per tutte quelle prese dal web sono stati accompagnati anche i link appositi, così che il lettore possa costantemente controllare quanto affermato. Un’avver-

tenza ulteriore: è possibile che, specie sulle questioni più marginali, si trovino piccoli errori, refusi, fonti poco affidabili. Il primo motivo

di tutto ciò è dovuto alla volontà di uscire con la pubblicazione nel 2017, anno del centenario della Rivoluzione d'Ottobre. Quest'opera

è frutto del lavoro di una ventina di volontari, senza il supporto di una casa editrice per il lavoro di revisione e sistemazione grafica. Il lettore sia quindi clemente e apprezzi il fatto che una nuova generazione composta da ventenni e trentenni, e quindi come tale cresciuta

pienamente nel mondo “post-moderno” dell’ideologia unica e del trionfo del libero mercato, abbia realizzato questo lavoro totalmente gratuitamente per amore della verità e per militanza politica. Mettiamo quindi le mani avanti: le piccole inesattezze che si potranno

trovare lasciano infatti il rempo che trovano di fronte all’urgenza della necessità di portare tali contenuti presso il più vasto pubblico possibile, cercando di ricostruire una connessione sentimentale che fa largo uso di immagini e foto. Chiunque vorrà potrà segnalare direttamente al sottoscritto eventuali migliorie, correzioni e proposte

di nuovi paragrafi/approfondimenti tematici, così da poter realizzare una seconda edizione ancora più adeguata. Buona lettura. Alessandro Pascale

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Ringraziamenti

Rinnovo i ringraziamenti a tutti coloro che hanno contribuito alla mia crescita intellettuale e politica, e in particolare ai compagni c compagne che hanno collaborato e creduto alla realizzazione del

libro /n Difesa del Socialismo Reale dedicandoci gratuitamente tempo ed energie. Non starò a riportare tutti i nomi farti nei Ringraziamenti presenti all’inizio della prima edizione dell’opera presente sul web. Sappiano tali compagni e compagne che senza la loro spinta e fiducia non avrei trovato la forza, la volontà e l'ambizione (ci vuole anche

questa per fronteggiare le molteplici diffidenze e ostilità di un intero mondo politico e culturale avverso) di concludere questo lavoro. Un ringraziamento inedito devo farlo a Giordano Manes che, credendo fin da subito al progetto editoriale prima ancora di cono-

scermi personalmente, ha permesso che questo libro approdasse sul panorama editoriale. Un ulteriore sentito ringraziamento va al compagno e amico Marco Nebuloni per i preziosi consigli stilistici e formali, per le segnalazioni e i consigli pratici sui contenuti.

Questo libro non sarebbe potuto uscire senza il contributo economico ottenuto con la raccolta fondi di finanziamento della collana Storia del Socialismo e della Lotta di Classe, che terminerà nell'ottobre 2019’. Sono molti i compagni e le compagne che hanno sostenuto economicamente il progetto, contribuendo a raccogliere una cifra sufficiente a garantire la seguente prima tiratura. I ringraziamenti

mici e della casa editrice vanno quindi a: ! Chi volesse contribuire trova tutte le info al link: htps://www.produzionidalbasso.com/project/storia-del-socialismo-c-della-lotta-di-classe/.

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Davide Albanese, Carlo Arduino, Roberto Aurcli, Rosanna Barbuto, Luigi Barozzi, Federico Bartuli, Gian Claudio Brai, Roland Carminelli, Alberto Cattaneo, Oddo Cerri, ‘Ihomas Mascioli Colavecchi, Vincenzo Cuoco, Luca Dalla Guarda, Mirko De Berardinis, Roberto De Luigi, Domenica Di Mauro, Pierluigi Di Rauso, Flavio Di Schiena, Paolo Fabbri, Marco Ferrara, Alberto Ferretti, Marzia Fragili, Giulio Franchini, Francesco Fustaneo, Edoardo Gentile, Graziano Gentiletti,

Angelo Giannetti, Marco Graziani, Claudio Gugliotti, Monia Guidi, Francesco Loffreda, Carlito Marenda, Giorgio Metalli, Stefano Mussuto, Manlio Padovan, Michele Palazzi, Matteo Patrone, Giorgio Pica,

Sebastiano Pruiti, Stefano Randelli, Marcello Silva, Antonio Soga, Fausto Sorini, Marco Tenconi, Angelo Tumino, Giaime Ugliano, Stefano Vertoretti, Roberto Zanetti.

Parte I

«Chi ai nostri giorni voglia combattere la menzogna e l'ignoranza e scrivere la verità, deve superare almeno cinque difficoltà. Deve avere il coraggio di scrivere la verità, benché essa venga ovunque soffocata; l'accortezza di riconoscerla, benché venga ovunque travisata; l'arte di renderla maneggevole come un'arma; l'avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace; l'astuzia di divulgarla fra questi ultimi. ‘Tali difficoltà sono grandi per coloro che scrivono sotto il fascismo, ma esistono anche per coloro che sono stati cacciati o sono fuggiti, anzi addirittura per coloro che scrivono nei Paesi della libertà borghese». (Bertolt Brecht, da Cinque difficoltà per chi scrive la verità, 1934)

1. Le tecniche imperialiste dell’egemonia culturale

«Uno studio di come è organizzata di fatto la struttura ideologica di una classe dominante: cioè l’organizzazione materiale intesa a mantenere, a difendere e a sviluppare il “fronte” teorico o ideologico. La parte più ragguardevole e più dinamica di esso è la stampa in generale: case editrici (che hanno implicito ed esplicito un programma e si appoggiano a una determinata corrente), giornali politici, riviste di ogni genere, scientifiche, letterarie, filologiche, di divulgazione ecc., periodici vari fino ai

bollettini parrocchiali. Sarebbe mastodontico un tale lavoro su scala nazionale [...]. La stampa è la parte più dinamica di questa struttura idcologica, ma non la sola: tutto ciò che influisce o può influire sull’opinione pubblica direttamente o indirettamente le appartiene: le biblioteche; le scuole, i circoli c i clubs di vario genere, fino all’architettura, alla dispo-

sizione delle vie e ai nomi di queste. Non si spiegherebbe la posizione conservata dalla Chiesa nella società moderna, se non si conoscessero gli sforzi diuturni e pazienti che essa fa per sviluppare quotidianamente la sua particolare sezione di questa seruttura materiale dell'ideologia. Un tale studio, farro seriamente, avrebbe una certa importanza: oltre a dare un modello storico vivente di una tale struttura, abituerebbe a un calcolo più cauto ed esatto delle forze agenti nella socierà. Cosa si può contrapporre, da parte di una classe innovatrice, a questo complesso formidabile di trincee e fortificazioni della classe dominante? Lo spirito di scissione, cioè il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica, spirito di scissione che deve tendere ad allargarsi dalla classe protagonista alle classi alleate potenziali: tutto ciò domanda un complesso lavoro ideologico, la prima condizione del quale è l'esatta conoscenza del campo da svuotare del suo clemento di massa umana».

(Antonio Gramsci)!

' A. Gramsci, Quaderni del Carcere, Quaderno II [XX] voce 49, “Argomenti

di cultura. Materiale ideologico”. Come edizione di riferimento si è usata A. Gramsci, Quaderni del carcere (a cura di V. Gerratana), 4 voll., Einaudi, ‘Torino, 1975.

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L’'imperialismo, espressione attuale del capitalismo, è stato ed è

tuttora una realtà oggettivamente funesta per la gran parte dell’umanità. Eppure è scarsissima a livello popolare, cioè soggettivamente, tale consapevolezza e percezione. Ciò è vero in particolar modo per le società occidentali, le quali in buona misura sono allo stesso rempo

complici e vittime dell’imperialismo: sono complici in quanto il loro livello di vita medio, assai elevato se confrontato a quello delle po-

polazioni del “Terzo Mondo”, dipende in ultima istanza dai rapporti di produzione instauratisi su scala globale; sono vittime in quanto

le classi lavoratrici e popolari sono soggette ad uno sfruttamento sempre più gravoso e assoluto, certamente ancora imparagonabile rispetto a quello che si può trovare nei Paesi soggetti a condizioni

socio-economiche (e politiche) assai più esplicitamente violente. In gran parte del mondo vi è molta più consapevolezza delle storture del sistema tra le classi popolari subalterne. Ciononostante anche in tali Paesi spesso non vi è ancora una coscienza tanto elevata da

comprendere la natura di classe del regime subìro. Nel corso di questo libro, con la speranza di essere all'altezza di un compito enunciato oltre 80 anni fa da Antonio Gramsci e mai

completamente adempiuto, cercheremo di indicare alcune direttrici di indagine per capire come riesca il grande Capitale a mantenere un consenso per lo più tacito e silenzioso, eppure necessario e decisivo,

alla conservazione del proprio predominio a livello mondiale. Il discorso riguarda soprattutto la realtà occidentale, dove i comunisti non sono mai riusciti a “sfondare” egemonicamente e politicamente prendendo il potere, arrivando anzi, se non a scomparire, certamen-

te a perdere di peso e rilevanza in molti Paesi. Prima di vagliare le moderne tecniche imperialiste dell’egemonia partiamo da un grande classico uscito dalla Rivoluzione d'Ottobre che si poneva, grosso modo, le nostre stesse domande, fornendo una serie di risposte per

molti versi ancora valide.

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2.I metodi classici identificati dai bolscevichi

Leggiamo ne L'ABC del comunismo di Bucharin e Preobrazenskij': «La società capitalistica è, come abbiamo visto, basata sullo sfruttamento della classe operaia. Una piccola minoranza di uomini domina tutto; la maggioranza degli operai non possiede nulla. I capitalisti comandano; gli operai vengono sfruttati. Tutta la natura della società capitalistica consiste in questo implacabile, sempre crescente sfruttamento. La produzione è una efficace pompa che serve ad attingere il plusvalore. Come questa pompa si mantiene fino ad un certo tempo in efficienza? Perché tollerano gli operai questo stato di cose? A questa domanda non è tanto facile dare senz'altro una risposta. Ma in generale vi sono duc ragioni: in primo luogo, che l'organizzazione ed il potere si trovano nelle mani della classe capiralistica; in secondo luogo, che la borghesia signoreggia spesso la mente della classe operaia. Il mezzo più sicuro di cui si serve a questo scopo la borghesia è l’organizzazione statale. In tutti i Paesi capitalistici lo Stato non è altro che una associazione degli imprenditori.

Prendiamo qualunque Paese, l’Inghilterra o gli Stati Uniti, la Francia o il Giappone. I ministri, gli alti funzionari, i deputati sono dappertutto gli stessi capitalisti, latifondisti, imprenditori e banchieri od i loro fedeli e ben rimunerati servitori: avvocati, direttori di banca, professori, generali, arcivescovi c vescovi. Il complesso di tutti questi dipendenti della borghesia, che abbraccia tutto il Paese e lo domina, si chiama Stato. Questa organizzazione della borghesia ha due scopi: in primo luogo, e ciò è la cosa principale, quello di reprimere tutti i movimenti e lc insurrezioni degli opcrai, di assicurare l’indisturbato sfruttamento della classe operaia

ed il rafforzamento del sistema di produzione capitalistico, ed in secondo

luogo quello di combattere altre simili organizzazioni (cioè altri Stati

' N. Bucharin & Y. Preobrazenskij, £‘A.8.C. del Comunismo, Marxists.0rg, 1919, cap. XV, “Lo Stato Capitalista”.

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borghesi) per la ripartizione del plusvalore spremuto dalla classe operaia. Lo Stato capitalistico è quindi un'associazione di imprenditori, che ga-

rantisce lo sfruttamento. Solo gli interessi del capitale guidano l’artività di questa associazione brigantesca [...].

Lo Stato borghese non è soltanto l’organizzazione più grande e più potente della borghesia, ma anche l’organizzazione più complicata, divisa in numerosi dicasteri, i quali estendono in tutte le direzioni i loro tentacoli. E tutto ciò serve allo scopo principale: la difesa, il consolidamento

e l'espansione dello sfruttamento della classe operaia. Contro la classe operaia lo Stato borghese dispone dei mezzi di coercizione brutale e di quelli dell’asservimento mentale; essi formano gli organi più importanti dello Stato capitalista. I mezzi di coercizione brutale sono soprattutto l’esercito, la polizia e gendarmeria, le carceri ed i tribunali, e i loro organi sussidiari: le spie, gli agenti provocatori, l’organizzazione di crumiri, di sicari ecc. [...]. Lo Stato capitalistico mantiene, oltre l’esercito regolare,

anche un esercito scelto di farabutti lotta contro gli operai. Questi corpi anche la lotta contro la delinquenza personale e materiale dei cittadini”.

ed un corpo speciale addestrato alla (come la polizia) hanno per compito e la difesa della cosiddetta “sicurezza Ma essi servono nello stesso tempo

a perseguitare, arrestare c punire gli operai malcontenti [...]. D'accordo con essi lavora anche una massa di spie, agenti provocatori, crumiri, ecc.

Interessanti sono a questo riguardo i mezzi della polizia segreta americana. Essa sta in stretto contatto con una infinità di “uffici di detective” privati e semi statali. Le famose avventure di Nat Pinkerton non erano in sostanza che imprese contro gli operai. Gli agenti provocatori distribuivano ai dirigenti operai delle bombe, li incitavano ad assassinare i capitalisti, ecc. Questi sgherri assoldano anche schiere di crumiri (in America cessi si chiamano scabes) e bande di sicari armati che hanno il

compito di assassinare operai scioperanti. Non esistono malefatte che questi delinquenti non sarcbbero capaci di compiere al servizio dello Stato “democratico” dei capitalisti americani. Il sistema giudiziario dello Stato borghese è un mezzo di autodifesa di classe della borghesia; la giustizia borghese si vendica in prima linca di coloro che osano intaccare la proprietà capitalistica ed offendere il sistema borghese [...]. Le autorità carcerarie statali ed i carnefici eseguiscono le sanzioni dei tribunali borghesi. ‘lutte queste istituzioni gravano soltanto sui poveri e non sui ricchi. Queste sono le istituzioni dello Stato capitalistico che hanno per

compito di opprimere brutalmente la classe operaia. Fra i mezzi di asservimento spirituale della classe operaia di cui dispone lo Stato capitalistico sarebbero da menzionare i tre più importanti: la scuola di Stato, la chiesa di Stato e la stampa di Stato o sovvenzionata

dallo Stato. La borghesia capisce di non poter reprimere le masse operaie colla sola forza brutale. Fssa vede che è necessario annebbiarne anche il cervello. Lo Stato borghese considera l’operaio come bestia da soma,

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che deve lavorare, ma deve essere messa anche nella impossibilità di mordere. Perciò non soltanto lo si sferza c si uccide quando esso morde, ma lo si addomestica come nei serragli. Perciò lo Stato capitalistico cleva specialisti per l’increrinimento e l’addomesticamento del proletariato: insegnanti borghesi e professori, preti c vescovi, pennaioli e giornalisti borghesi. Questi specialisti insegnano ai bambini sin dalla prima infanzia ad ubbidirc al Capitale, a disprezzare ed odiare i “ribelli”. Si raccontano ai bambini delle favole sulla rivoluzione e sui movimenti rivoluzionari, e

si glorificano gli imperatori, i re, gli industriali ecc. I preti, al soldo dello Stato, predicano dal pulpito che “ogni potere è istituito da Dio”. | giornali borghesi ripetono giorno per giorno questa menzogna ai proletari (i giornali proletari vengono di solito soppressi dallo Stato capitalista).

Come possono gli operai in tali condizioni uscire dal pantano? Un brigante imperialista tedesco ha scritto: “Noi abbiamo bisogno non soltanto delle gambe dei soldati, ma anche dei loro cervelli e dei loro cuori”. Lo Stato borghese è perciò intento a fare dell’operaio un animale domestico, che lavora indefesso e paziente come un cavallo. Lo Stato capitalistico si assicura in questo modo il suo sviluppo. La macchina sfruttatrice funziona, e spreme continuamente plusvalore dalla classe operaia. E lo Stato sta di guardia a che gli schiavi del salariato non si ribellino». Alcuni degli strumenti dello Stato capitalista sono oggi meno utilizzati (ma non eliminati) negli Stati di tipo “liberale” occidentale, ma rimangono ben validi e operativi in molte realtà del cosiddetto

“Terzo Mondo”. Altre tra le più classiche tecniche dell’imperialismo non sono presenti nel passo citato e altre ancora hanno natura più recente o erano al tempo solo in una fase embrionale. Analizziamole

più nel dettaglio.

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3. Razzismo e nazionalismo

«Nel passato “era d'uso” pensare che il mondo da tempi immemorabili fosse diviso in razze inferiori c razze superiori, in negri e bianchi, i

primi refrattari alla civiltà e condannati a essere oggetto di sfrumamento, c i secondi unici depositari della civiltà, chiamati a sfruttare i primi. Oggi

questa leggenda deve essere considerata come sfatata e respinta. Uno dei risultati più importanti della Rivoluzione d'Ottobre è che essa ha inferto un colpo mortale a questa leggenda, dimostrando coi fatti che i popoli non europci, liberati e trascinati nella corrente dello sviluppo sovietico, sono atti non meno dei popoli europei a contribuire allo sviluppo di una cultura veramente progredita c di una civiltà veramente avanzata». (losif Stalin, da // carattere internazionale della Rivoluzione d'Ottobre. Per il decimo anniversario dell’Ottobre, 1927)"

Il razzismo, l'oppressione e la discriminazione contro le persone

sulla base di caratteristiche a loro ascritte, è una delle manifestazioni più repellenti della società borghese. Non è un relitto del passato e neanche un naturale fenomeno dell’essere umano, bensì un'ideologia

di oppressione con una storia specifica e una funzione sociale particolare. Il razzismo si è evoluto col risveglio del colonialismo e lo sviluppo del sistema economico capitalista. A differenza di altre ideologie basate su un principio di esclusione, la svalutazione di altre persone

veniva ora collegata a caratteristiche e capacità giudicate inalterabili. Il razzismo, nella sua storia, ha assunto le forme e le sfaccettature più svariate. In ogni caso, ha continuato a ricoprire lo stesso ruolo per i padroni: quello di giustificare ideologicamente lo sfruttamento

' G. V. Stalin, Opere Complete, vol. 10 (agosto-dicembre Roma, 1956, p. 257.

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1927), Rinascita,

e l’oppressione. Il razzismo, inoltre, non è solo un'oscenità morale ma un principio organizzativo essenziale della società capitalista. Il

mantenimento della struttura dell'economia capitalista richiede che i lavoratori considerino gli altri lavoratori come concorrenti per quanto riguarda il posto di lavoro, lo stato sociale, la scuola, ecc. Questa

è una nota trappola a favore del nazionalismo e del razzismo, i cui effetti Karl Marx? già andava osservando nel diciannovesimo secolo: «In tutti i centri industriali c commerciali dell’Inghilterra vi è adesso una classe operaia divisa in due campi ostili, proletari inglesi e proletari irlandesi. L'operaio comune inglese odia l’operaio irlandese

come un concorrente che comprime il tenore di vita. Egli si sente di fronte a quest'ultimo come parte della nazione dominante e proprio per questo si trasforma in strumento dei suoi aristocratici e capitalisti contro l'Irlanda, consolidando in tal modo il loro dominio su se stesso. L’operaio inglese nutre pregiudizi religiosi, sociali e nazionali verso quello irlandese. Egli si comporta all’incirca come i bianchi poveri verso i negri

negli Stati un tempo schiavisti dell'unione americana. L'irlandese lo ripaga con gli interessi della stessa moneta. Egli vede nell’operaio inglese il corresponsabile e lo strumento idiota del dominio inglese sull’Irlanda. Qucsto antagonismo viene alimentato artificialmente e accresciuto dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, insomma con rutti i mezzi

a disposizione delle classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. Esso è il segreto della conservazione del potere da parte della classe capitalistica. E quest'ultima lo sa benissimo. Il malanno non finisce qui. Esso si riproduce al di là dell'oceano. antagonismo tra inglesi e irlandesi è il fondamento nascosto del conflitto tra Stati Uniti c Inghilterra. Esso rende impossibile ogni seria e sincera collaborazione tra le classi operaie dei due Paesi. Esso permette ai governi dei due Paesi, ogni volta che lo

ritengano opportuno, di togliere mordente al conflitto sociale sia aizzandoli l'uno contro l’altro, sia, in caso di necessità, mediante la guerra tra i due Paesi».

Il razzismo, così facendo, mina alla base l’unico modo per resistere vittoriosamente alle costrizioni giornaliere del sistema: la solidarierà di classe. A dispetto dell’internazionalizzazione del capitalismo, la borghesia esercita il suo dominio nella forma degli Stati nazionali. 2K. Marx, Lettera a Sigfrid Meyer e August Vogt, Londra, 9 aprile 1870, all’interno di K. Marx & EF Engels, Opere, vol. XLIII (Carteggio 1868-1870), Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 720-721.

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Il proletariato, invece, è una classe internazionale, una classe di migranti. Ogni divisione ne indebolisce le lotte e permette un nuovo giro di vite dello sfruttamento. Per questo motivo, compito urgente

dei comunisti è quello di lottare senza compromessi contro le idee razziste. L'unico modo di bloccare l’ingranaggio dello sfruttamento consiste nel superamento del sistema capitalista, che genera il razzismo e lo riproduce giorno dopo giorno. 3.1. La nascita del razzismo colonialista «Il termine curopeo apparve nella letteratura inglese intorno al 1603-1607, in Francia solo nel XVIII secolo (Larousse). Il significato

e l'uso dei termini “curopco” c “razza” coincisero con i picchi più alti del colonialismo. Per distinguersi dai conquistati, spogliati, segrepari o massacrati “nativi” africani, americani e

asiatici, l'’Furopa era necessaria

ai colonizzatori non solo come una terra comune. Essi “scoprirono” non solo l'America, ma, cosa più importante, che loro, gli spagnoli, olandesi, francesi, britannici e altri colonialisti, erano di nazioni diverse ma della stessa razza, la cosiddetta razza bianca curopea. In questo modo le scoperte europee scoprirono gli “europei”. L'Europa moderna non era solamente una realtà sociale ed economica coloniale, ma anche una necessità psicologica per la conquista e l’esproprio dei popoli non-curopei. Quindi anche il razzismo cra cd è intrinseco all'Europa, così come costruita nel sistema capitalista». (L. Vasapollo, H. Jaffe, H. Galarza)? Scrive Marx nel Capirale*: «la scoperta delle terre dell'oro c dell'argento in America, lo sterminio, la riduzione in schiavitù della popolazione indigena, l’incipiente conquista e saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell'A-

frica in riserva di caccia commerciale alle pelli nere, contrassegnano gli albori dell'era di produzione capitalistica. Questi processi idilliaci sono momenti essenziali dell’accumulazione originaria. Segue sulla loro scia la guerra commerciale delle nazioni curopec, che ha come palcoscenico l’orbe terraqueo. Essa si apre con la secessione dei Paesi Bassi dalla Spagna, assume dimensioni gigantesche nella guerra antigiacobina della

*I. Vasapollo, H. Jaffe, H. Galarza, /ntroduzione alla storia e alla logica dell'imperialismo, Jaca Book, Milano, 2005, pp. 26-27. 4K. Marx, // Capitale, vol. 1, UTET} Torino, 2009 [prima ediz. 1974, a cura

di A. Macchioro & B. Maffi], sezione VII, cap. XXIV, pp. 938-939.

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Gran Bretagna, si prolunga nelle guerre dell'oppio contro la Cina, ecc. I diversi momenti dell’accumulazione originaria si ripartiscono ora, più o meno in successione cronologica, soprattutto fra Spagna, Portogallo,

Olanda, Francia c Inghilterra. Alla fine del secolo XVII, in Inghilterra, si combinano sistematicamente nel sisterna coloniale, nel sistema del debito pubblico, nel moderno sistema fiscale e protezionistico. Questi metodi poggiano in parte sulla violenza più brutale, come nel caso del sistema coloniale: tutti però si servono del potere di Stato, della violenza

concentrata e organizzata della società, per stimolare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in quello capitalistico, e per abbreviarne le fasi di trapasso. La violenza è la levatrice

di ogni vecchia società gravida di una società nuova. È essa stessa una potenza economica». E così commenta Gennaro Fabbrocino?: «così nacque la civiltà capitalistica. Per giustificare sul piano morale lo sterminio e la schiavizzazione delle popolazioni “indios”, i colonialisti europei inventarono la curiosa teoria che negava un'anima agli aborigeni e quindi cquiparava l'assassinio di un indiano da parte di un bianco alla macellazione di un capo di bestiame. Un razzismo così grossolano e in-

genuo, fondato su una superstizione a sfondo religioso, bene si addiceva ad una conquista coloniale che si volgeva contro forme di civiltà decisamente inferiori alla civiltà curopca, anche se notevoli in senso assoluto [...]. Avendo a che fare con una civiltà che denunciava apertamente la

propria inferiorità, i fautori di parte intellettuale del palco-colonialismo capitalista non furono certamente costretti ad uno sforzo critico notevole per trovare la giustificazione della conquista coloniale, che d'altra parte si svolgeva sotto il segno dell’evangelizzazione [...]. Il nascente capitalismo

per giustificare le infamie della conquista coloniale non aveva certamente bisogno di inventare l'ideologia razzista. Bastava la superstizione religiosa. Il momento di sostituire a questa la pseudocoscienza verrà più tardi, quando il capitalismo avrà “ingentilito” i propri metodi di dominazione. Soprattutto quando sarà costretto a fare oggetto della sua pirateria colonialista nazioni di evoluta civiltà e di avanzata età storica». Evitiamo di ripetere l’intera storia del nesso tra colonialismo e razzismo, un argomento che viene ancora insegnato nelle scuole, fortunatamente, anche se non sempre con la giusta attenzione.

5Citazioni tratte da G. Fabbrocino, // declino del razzismo, Prometeo, n. 6, III

serie, anno XVII, gennaio 1964.

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3.2. Il nesso storico tra liberalismo e razzismo Decisamente più utile, invece, è comprendere il nesso profondo

dal punto di vita storico che connette la dottrina liberale e il razzismo. Sotto questo aspetto risulta centrale l’opera Controstoria del Li-

beralismo di Domenico Losurdo. Riportiamo di seguito l’estratto di un'intervista all’autore® che presenta alcuni spunti per capire questo nesso. Invitiamo però caldamente a leggere l’opera integrale. «Come chiarisce il mio libro, sia sul piano della teoria che della pratica polirico-sociale, il liberalismo è sorto come celebrazione non della libertà universale ma di una comunità dei liberi ben determinata. In questo senso le clausole d’esclusione (a danno dei popoli coloniali, dei servi della metropoli, ecc.) sono costitutive di questo movimento ideologico e politico. Esse sono state superate, nella misura in cui sono state superate, non per uno spontanco processo endogeno, ma in primo luogo sull'onda della sfida rappresentata dalle gigantesche lotte e di emancipazione e per il riconoscimento sviluppate dagli esclusi. Se si assume il termine “liberalismo” nel senso (ideologico)

caro a Constant e a Berlin, quale affermazione per tutti di una sfera inviolabile di libertà “moderna” o “negativa” per tutti, è chiaro che non si possono definire liberali gli Stati Uniti e l'Inghilterra del Sette e Ottocento: dalla libertà “moderna” o “negativa” erano chiaramente esclusi i pellerossa condannati all'espropriazione e alla deportazione, gli schiavi, i neri in teoria liberi (ancora in pieno Novecento sottoposti ad una violenza terroristica), i servi bianchi rinchiusi arbitra-

riamente nelle case di lavoro ecc.; subiva pesanti limitazioni la stessa libertà “moderna” e “negativa” dei proprietari di schiavi o della classe dominante in genere, che ancora a metà del Novecento era tenuta a rispettare il “divieto di miscegenation”, il divieto di rapporti sessuali c matrimoniali interrazziali. Sc invece per liberalismo si intende l’aurocelebrazione e l’auto-affermazione della comunità dei liberi, con tutti i costi politici c sociali che ciò comporta, è chiaro che gli Stati Uniti e l'Inghilterra del Serre e Ottocento erano società liberali a tutti gli effetti [...]. Le reazioni polemiche alla mia Controstoria del liberalismo non hanno mai messo in discussione l'accuratezza della ricostruzione storica. Le critiche sono tutte di carattere teorico. La prima fa appello allo “storicismo”: se anche ha ereditato vecchi vizi, il liberalismo li avrebbe

“Redazione Arianna Editrice, Controstoria del liberalismo (intervista a Domenico Losurdo), Ariannaeditrice.it, 29 ottobre 2006.

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poi spontaneamente superati. In realtà, è proprio con la modernità liberale che il processo di deumanizzazione dello schiavo raggiunge il suo apice: la schiavitù ancillare cede il posto alla schiavitù-merce su base razziale, e questa trova la sua consacrazione nella Costituzione americana; emerge il primo Stato razziale, che continua a sussistere

anche dopo l'abolizione formale della schiavitù. Tra fine dell'Ortocento e primi decenni del Novecento infuria negli Stati Uniti un

regime di white supremacy (segregazione ad ogni livello, divieto di rapporti sessuali e matrimoniali interrazziali, linciaggi contro i neri che diventano spettacoli di massa ecc.), che non trova paralleli nei Paesi dell'America Latina. [...] Prendendo esplicitamente le distanze da Marx e tanto più

dal “marxismo” volgare, il mio libro si misura col liberalismo a partire per l'appunto dal tema della libertà dell'individuo. Non erano “individui” gli indiani da Washington assimilati a “bestie selvagge della foresta”, né lo erano i neri, destinati ad essere schiavi c ad essere scambiati come merci. Non crano “individui” neppure i lavoratori salariati

della metropoli, considerati c trattati alla stregua di “strumenti vocali” (Burke) o di “macchine bipedi” (Sieyès). E questi non-individui erano

esclusi dal godimento non solo dei diritti politici ma anche di quelli civili. Immediatamente

evidente per i pellerossa e i neri, ciò vale

anche per i servi della metropoli, rinchiusi in quanto “vagabondi” in questa sorta di campo di concentramento che sono le “case di lavoro”,

e a centinaia o migliaia “quotidianamente impiccati per delle inezie”, secondo l'osservazione di Mandeville, il quale però, in nome della

salvezza della “nazione”, esige la condanna a morte anche dei sospetti. Il liberalismo è così poco sinonimo di difesa della libertà dell’individuo che questa finisce con l'essere pesantemente limitata persino per i membri della classe dominante: ancora a metà del Novecento, una trentina di Stati dell’Unione vietavano per legge i rapporti sessuali e matrimoniali interrazziali; il potere politico interveniva anche nella camera da letto! D'altro canto, alla fine dell'Ottocento, due autori tra loro così diversi quali Nietzsche e Oscar Wilde, con giudizio di valore negativo o positivo, considerano il socialismo come un movimento “individualista”, in quanto impegnato nella lotta per il riconoscimen-

to della dignità di “individuo” anche ai cosiddetti strumenti di lavoro, esclusi dalla teoria e dalla pratica liberale. Bisognerà arrendere ancora qualche decennio

(e cioè Lenin c la rivoluzione d'Ottobre)

perché

tale dignità sia riconosciuta anche ai popoli coloniali. Naturalmente, è più facile attenersi al manicheismo oggi imperante. Il risultato è però sotto gli occhi di turti: il liberalismo smarrisce il suo elemento

di grandezza (l’affermazione, sia pur contraddittoria, della necessità della limitazione del potere) per divenire un'idcologia della guerra e del dominio planetario».

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3.3. I morti del “terzo mondo” valeono meno di quelli occidentali Oggi invece possiamo davvero dire che la società occidentale

si sia liberata dal razzismo? In questo passo Canfora” mostra bene l'enorme ipocrisia dei centri di potere occidentali: politica, media e imperialismo sono ancora intrisi di un razzismo sempre meno velato, che ben si coniuga con una volontà di rinnovare il dominio

occidentale neocoloniale sul “Terzo Mondo” trattato nella sostanza come “inferiore”. È questo, di fondo, il principale motivo per cui quando c'è un attentato terroristico in Europa si assiste ad un'enorme mobilitazione mediatica mentre non si riserva la stessa attenzione per le stragi dei popoli asiatici e africani. Leggiamo: «duc centri commerciali a Baghdad sono stati distrutti, all’inizio di luglio 2016, da un attentato suicida dell’ISIS, la potente organizzazione mistico-militare finanziata sottobanco dall’Arabia Saudita, pilastro dell'Occidente. I.c dimensioni dell'enorme carneficina vennero rese note col contagocce. Dopo una settimana si cra quasi a quota 300; moltissimi i minori

tra le vittime. Finito il Ramadan, in tanti si erano precipitati a rifornirsi di generi di prima necessità. Il massacro era voluto ed è riuscito in pieno. Ultimo atto, peraltro, di una catena di attentati mortiferi scoccati dal momento stesso in cui la cosiddetta “coalizione” occidentale aveva terminato la missione di portare “la democrazia” (0, a piacer vostro, “la libertà”) in Iraq. Il bilancio da allora è di molte migliaia di vittime di tali attentati. L’'11 scttembre 2001 duc centri commercial-finanziari furono colpiti a New York — le “torri gemelle” — a seguito di un attentato i cui contorni sono rimasti piuttosto e perciò molto inquietanti. Le vittime furono oltre 2000. L'attentato di New York è sraro assunto, nella retorica occidentalistica, come

tornante epocale della storia universale. È superfluo ricordare i dettagli. La retorica che si alimenta della cattiva coscienza suscita saturazione e rifiuto. Ma qui si vuol osservare che il diverso trattamento riservato ai due episodi — quello di New York e quello di Baghdad — discende certamente da malti fartori (immoralità e asservimento degli organi di stampa ecc.) ma anche, e non meno, dal presupposto, sottinteso, ma sempre operante, che il primo (anzi “primissimo”, trattandosi di New York) mondo è umanità primae chassis e merita urattamento, venerazione ecc. conforme al rango. Gli altri mondi, specie quelli che stanno molto in basso nella piramide, nc meritano assai meno. Costituiscono quasi un fastidio. Specie poi quando si tratta di un Pacse, l'Iraq, che deve la sua cronica c sanguinosa infelicità proprio all'aggressione

"L. Canfora, La schiavitù del Capitale, Il Mulino, Bologna, 2017, pp. 75-77.

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USA. Una volta diviso il mondo secondo gli strati della piramide, viene accantonato questo problema preliminare: sc cioè l'Occidente, in particolare i suoi punti più alti e più ricchi, abbia di per sé e in quanto tali diritto al primato in ogni ambito (ivi compreso, per dirla con Ugo Foscolo, quello dell’“onore di pianti”). Quello che un tempo veniva chiamato — e non con intento elogiativo

— “primo mondo” divora la fetta più grossa in tutti i campi; c nondimeno finge di auspicare l'estensione del proprio modello a tutto il piancra: pur sapendo che, se tale eventualità di realizzasse, in tal caso la condivisione generalizzata

abbasserebbe ipso fiscto lo standard di vita di chi sta in cima alla piramide». Si dice che le morti di centinaia, a volte migliaia di africani e asiatici non facciano notizia. Non si ragiona molto spesso, invece, sul potere che rivestono i media nell’imporre all'attenzione degli

spettatori la scaletta delle problematiche ritenute più importanti su cui occorra riflettere. Ne parleremo meglio più avanti affrontando

il tema dell’agenda-setting. Per ora constatiamo l’evidenza per cui i morti bianchi, non solo europei ma “occidentali” in senso ampio,

valgano per i media molto di più dei morti del “Terzo Mondo”. Il

messaggio indiretto e quasi quotidiano è che un bambino bianco e caucasico valga molto di più di migliaia di bambini “negri” e africani, segno del razzismo neanche troppo implicito propagandato dagli stessi media controllati dall’imperialismo. Alimentare un razzismo inconscio è una preziosa arma utilizzata in favore del Capitale, che

in questa maniera può dividere meglio la classe degli oppressi per via

etnica, favorendo il messaggio della necessità di una “missione civilizzatrice” tesa a portare “democrazia e libertà” ad un “Terzo Mondo” barbaro e selvaggio. Ritorna insomma per via inconscia e subdola un

vecchio topos del colonialismo ottocentesco che si sta riprendendo a tramandare con maggiore forza dopo il 1991, nella crisi di un forte movimento comunista internazionale coerentemente antirazzista

capace di ostacolarne il messaggio culturale con la propria proposta politica e una capacità egemonica quantitativamente ben maggiore

sulla società. Oggi, invece, vige un controllo sempre più totalitario dell’informazione e dei mezzi mediatici da parte dell’imperialismo. 3.4. Il “biopotere” di Foucault In alcuni corsi tenuti negli anni ‘70 il filosofo francese Michel Foucault ha formulato la concezione del “biopotere”, costruendo una

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relazione automatica tra il razzismo e la modernità, astratta dalla

questione della forma di regime politico e statuale scelta. Sfruttando una presentazione di Lorenzo Bernini vediamo come per Foucault «i dispositivo politico della modernità» sia infatti «composto da tre principali componenti: la sovranità, le discipline e il biopotere». Per sovranità si intende «quella logica, messa a punto dalle teorie contrattualistiche moderne, che induce a sussumere le volontà dei sudditi

o dei cittadini di uno Stato sotto la volontà del sovrano che li rappresenta». Le discipline invece sono «quei poteri che agiscono sull'individuo attraverso l'educazione, la formazione, l'addestramento», ossia in generale «quei poteri che producono l'individuo così come lo intende la

modernità, come corpo utile e docile, disciplinato appunto, in grado di vivere in società e di obbedire alle leggi del sovrano», con il conseguente rischio della passività consensuale verso forme di autoritarismo esplicito come il nazifascismo ma anche verso le relazioni produttive sui

luoghi di lavoro. Con “biopotere” invece si intende il «potere dello Stato moderno sulla vita della popolazione», «il governo della popolazione intesa come specie vivente», un potere cioè «che amministra la vita della po-

polazione garantendole sicurezza e proteggendola dai pericoli biologici», come ad esempio «le malattie epidemiche, le malattie endemiche, oppure gli individui pericolosi che minacciano il futuro della specie: gli ebrei, gli zingari, gli omosessuali, gli handicappati, i nemici politici, i nemici di classe, i sabotatori borghesi, o ancora i terroristi o gli “extracomunitari’». Foucault mette in evidenza come «la sinergia di sovranità, discipline

e biopoteri abbia esiti razzisti». Ne consegue una denuncia netta: «per garantire la sopravvivenza, la salute e lo sviluppo della razza cletra, della classe eletta o del popolo eletto, quindi per il loro bene, “bisogna” sopprimere i nemici biologici — gli altri popoli, le altre razze, le altre classi. “Bisogna” sopprimere questi nemici, oppure neutralizzarli in modo che risultino funzionali al benessere del popolo clerro, della razza cletta, o della classe eletta. Oggi ad esempio ci sono necessari badanti, domestici, infermieri, operai e prostitute “extracomunitari”, a cui

concediamo o revochiamo diritti a seconda dei nostri bisogni fisiologici — fino a negare loro il diritto di soggiorno, a rinchiuderli e maltrattarli

nei centri di permanenza temporanei, a espellerli o deportarli quando ci sono superflui»*.

*I.. Bernini, // dispositivo totalitario, all’interno di M. Recalcati (a cura di), for-

me contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, pp. 146-150.

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Fin qui niente da eccepire, se non fosse poi che Foucault accetti l'equivalenza tra hitlerismo e stalinismo, identificando quindi tali dinamiche razziste presenti non solo rel nazifascismo e nelle liberal-democrazie capitaliste, ma anche nello Stato socialista, il che non è solo un tipico errore del “marxismo occidentale”, in questo caso ripetuto da parte di uno dei suoi massimi esponenti del secondo ‘900, ma un vero e proprio falso storico, se si considera che l'URSS fu il primo

Paese moderno ad abolire per legge qualsiasi tipo di discriminazione etnico-razziale.

4.Ilcontrollo totalitario dell’informazione

«Il Prof [Domenico

Losurdo,

ndr]

mi aveva scelto come inter-

prete de La società dello spettacolo, ma dimostrò anche a mc, prove alla

mano, che oggi l’informazione è solo spettacolo. Gli sono riconoscente. Da allora per me, niente è mai stato più come prima e sono finito ad

ingrossare le fila, mio malgrado, di quei cospirazionisti ingenui che prima criticavo e che però — analizzati i fatti — dicono la verità». (Carlo Freccero, 2 luglio 2018)!

La descrizione del mondo fatta da George Orwell in 1984 serviva a screditare il sistema socialista totalitario dell’Unione Sovietica.

In realtà risulta perfetta per il mondo odierno. Partiamo da una constatazione fondamentale: la “libera” informazione è oggi in mano ad un pugno di capitalisti. Il capitalismo e la democrazia liberale

propugnano da sempre l’ideale della libertà di stampa, della pluralità di fonti di informazione e della libertà di pensiero. A parole. Nella realtà, sia a livello mondiale sia ai vari livelli locali, dove prospera il capitalismo si verificano concentrazioni di aziende anche nel settore

delle relecomunicazioni, che comprendono quindi il vasto mondo delle televisioni, dei giornali, delle riviste, dell’editoria, ecc. Tali concentrazioni, nell'epoca della mercificazione totale e del tripudio dell’ideologia neoliberista, logica conseguenza di un imperialismo

che non ha più freni, sono chiaramente detenute da un pugno più o meno ampio di capitalisti.

!C. Freccero, Carlo Freccero: La resistenza di Losurdo al Pensiero Unico, L'Antidiplomatico, 2 luglio 2018.

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Vediamone alcuni esempi: nel maggio 2016 Michael Snyder? ha calcolato che il 90% del consumo “mediatico” medio (circa dieci ore al

giorno) di un normale utente statunitense fosse di fatto proveniente da

aziende affiliate o controllate sostanzialmente da sole sei grandi multinazionali: Comcast, The Walt Disney Company, News Corporation, Time Warner, Viacom e CBS Corporation. Queste, a loro volta, con-

trollano altre aziende di varie dimensioni in un enorme gioco di scatole cinesi. Significativo è l'esempio della News Corporation, un vero e proprio impero mediatico che rimane essenzialmente tale nonostante l'azienda sia stata di recente scorporata in due tronconi per ragioni organizzative. La News Corporation è di proprietà sostanziale di Rupert

Murdoch, che ne detiene la quota di maggioranza relativa, facendo di lui uno degli uomini più ricchi e porenti del mondo controllando organi di informazione e/o intrattenimento in Australia, Regno Unito, USA, Fiji, Papua, India, Paesi Bassi, Russia, Bulgaria, Romania, Serbia, Turchia, Georgia, Polonia, Indonesia, Germania, Italia, praticamente

rutto il Sud America e non solo. Oltre al controllo di centinaia di

piccole riviste locali, questo enorme conglomerato mediatico detiene il controllo delle più importanti aziende mondiali nel settore delle relecomunicazioni e dell'editoria. Ne sono esempi i quotidiani britannici The Sun e The Times; gli statunitensi Te Post e televisione satellitare di Sky in Italia e nel Regno sion e la casa cinematografica 20th Century Fox calcolato che il suo gruppo editoriale raggiunga miliardi di persone, i tre quarti della popolazione

Wall Street Journal, la Unito; la Fox Televinegli Stati Uniti. Si è ogni giorno circa 4,7 globale. Fores stima

nel 2015 il suo patrimonio in 13,9 miliardi di dollari?. Sul potere di Murdoch e sull’intreccio tra potere mediatico e potere politico ha scritto nel 2012 una bella riflessione Vittorio Parsi su Avvenire”, commentando l’avvio di una commissione

2 M. Snyder, 6 Giant Corporations Control The Media, And Americans Consume 10 Hours Of Programming'A Day, Iheeconomiccollapseblog.com, 26 maggio 201 6.

? Fonti usate: Autore Ignoto, Rivoluzione nell'impero Murdoch News Corp si divide in due società, La Stampa (web), 28 giugno 2012; Autore Ignoto, /7mpero globale di Rupert Murdoch,

Corriere della Sera (web), 31 luglio 2007; Wikipedia,

News Corporation; Wikipedia, Rupert Murdoch. 4V, E. Parsi, // caso Murdoch a Londra, metafora di un problema globale. Media e politica, la collusione che danneggia la democrazia, Avvenire (web), 26 aprile 2012.

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d'inchiesta britannica sui rapporti tra la News Corporation e la politica inglese. «Ciò su cui si cerca di far luce non si limita nemmeno all'influenza — straordinaria secondo alcuni, eccessiva secondo altri — che il magnate australiano dci media avrebbe esercitato sulla politica britannica degli ultimi tre decenni. Lo scandalo in cui è rimasto invischiato il gruppo News Corp, una delle maggiori concentrazioni mediatiche del mondo a cui fa capo anche l'emittente televisiva Sky, ha messo in evidenza intatti una serie di contiguità tra forze di polizia, media e politici che neppure una figura controversa come Murdoch riesce ad esaurire. Ed è, evidentemente, qualcosa che non riguarda il solo Regno Unito. È difficile dire chi sia il mazziere tra media e politica nel distribuire le carte di un gioco che con la democrazia ha davvero poco a che fare. In realtà, sembra di poter

dire che questo ruolo può cambiare da Paese a Pacse e persino da fase storica a fase storica. Ciò su cui si possono purtroppo nutrire ben pochi dubbi è il fatto che i sicuri perdenti siano i cittadini, i quali si ritrovano alla mercé di due poteri, con la propria privacy data in pasto a chiunque, senza alcun rispetto sostanziale per la dignità individuale. Non è da ieri che la romantica idea dei media come cani da guardia del potere politico fa acqua. Il giornalismo romantico e indipendente, che si nutre di inchicste e verifiche scrupolose, forse non è mai davvero esistito o esiste solo nei film e nelle lezioni delle scuole di giornalismo. Ma viene da chiedersi

quanto il crescente ruolo giocato dai media nelle nostre società non abbia finito con lo snaturare ancora di più una relazione che già in partenza era fin troppo suscettibile di deragliare. La pervasivirà c la potenza dei media sembrano aver fagocitato la stessa informazione, imponendo un ritmo c una finalità ben diversa da quella che sarebbero adeguate. La potenza dei media non poteva non alletrare il potere della politica c, al contempo, non poteva essa stessa essere tentata dal trasformarsi in potere. La relazione tra media e politica, tra chi controlla i primi e chi vive della seconda, non si è però articolata in quello scontro che alcune anime candide avevano ipotizzato. E neppure ha deter-

minato la sudditanza degli uni agli altri. Troppo forti per essere dominati, troppo deboli per dominare. Ne è emerso un compromesso non scritto, in cui ognuno cerca di trarre il suo vantaggio quando e dove può farlo. Un accordo che produce equilibri contingenti, ma duraturo nell’asservire quel cittadino che pure sarebbe il titolare ultimo del potere: una collusione permanente. L'espressione Grande Fratello a una parte crescente di giovani (ec anche meno giovani, in realtà) evoca ormai un noto (c pessimo) format

televisivo globale e sempre meno è associata al grande romanzo di Orwell e alla sua disperata denuncia del totalitarismo e della sua menzogna. Fppurc, questa confusione è in realtà una perfetta metafora dello stato delle relazioni tra media c politica, del fatto che non sia necessario determinare

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un vincitore affinché la democrazia sia sotto scacco [...]. Chi si aspetti rivelazioni clamorose sul rapporto tra Murdoch e Margaret Thatcher resterà probabilmente deluso. L'attuale baronessa Thatcher non fu e non potrà mai essere ridotta a una invenzione del suddito di un lontano Dominion. Ma è proprio anche grazie alle politiche thatcheriane, al mantra delle liberalizzazioni e privatizzazioni, che il potere dei 17000 dei media è cresciuto in manicra così preoccupante. Al punto da fare interrogare tutti noi sulla

perdurante capacità delle istituzioni democratiche di difendere i cittadini dalle conseguenze negative sul piano politico delle gigantesche concentrazioni di ricchezza. È un tema [...] su cui tutte le democrazie si giocano la

loro credibilità e, in ultima analisi, il loro e il nostro futuro».

4.1. L'oligopolio editoriale in Italia

Analizziamo ora la situazione di un Paese tra i più sviluppati del mondo, l’Italia, attraverso un'eccellente analisi realizzata da Salvatore Vicario nel 2014’, che riproponiamo divisa in tre parti. La prima, qui di seguito, mostra il rasso di concentrazione del mondo editoriale e la capacità di controllo di esso da parte dei grandi monopoli capitalisti: «La Mondadori, è controllata dal Gruppo Fininvest la holding che detiene tutte le proprietà di Silvio Berlusconi che controlla e partecipa al 40,07% alla Mediaset, al 53,06% alla Mondadori, al 100 % al A. C. Milan, al 35,1% al Gruppo Mediolanum, al 100% al Teatro Manzoni c al 2,06 % alla Mediobanca. La Mondadori possiede il 39,27 % de

il Giornale (9° quotidiano per diffusionc) il cui restante 60,73% è di proprietà di Paolo Berlusconi (fratello di Silvio). La stessa Mondadori possiede le Case Editrici: Libreria Mondadori, Giulio Finaudi Editore,

Edizioni Piemme, Sperling & Kupfer. Possiede inoltre la Radio “Radio

101” e i periodici Panorama, TV Sorrisi e Canzoni, Grazia, Donna Moderna, Chi, Flair, Focus, Geo, Interni, Jack, Mens Health, Sale & Pepe,

Starbene, Telepiù, TuStyle, Icon, Wellness, inTavola. L’Espresso di Carlo De Benedetti controlla la casa pubblicitaria A. Manzoni & C., il quotidiano La Repubblica (2° quotidiano per diffusione),

le radio e Tv “Radio Dee Jay” e “TV Dee Jay”, “Radio Capital” e “Radio Capital Tv”, “Repubblica Tv” e “Onda Latina”, i periodici L'Espresso, National Geographic, Le Scienze, Mente, Limes, Micromega, e i quotidiani locali Alto Adige, Trentino, Corriere Alpi, il Centro, Gazzetta di Mantova,

5S. Vicario, / monopoli della comunicazione e la libertà di stampa nel capitali smo, Senzatregua.it, 5 maggio 2014.

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Gazzetta di Modena, Gazzetta di Reggio, il Mattino di Padova, Messaggero Veneto, La Nuova, La Nuova Ferrara, Il Piccolo, La Provincia, Il'Tirreno, La

Tribuna di Treviso, La Città, La Sentinella. Le azioni del gruppo Espresso appartengono al 53.8% alla CIR (Compagnie Industriali Riunite) $.p.A. che è una holding italiana controllata al 46% dalla COFIDE holding finanziaria della famiglia Dc Benedetti, gruppo industriale attivo nell’energia, nci media, nella componentistica auto, nella sanità c negli investimenti non-core (venture capital, private equity e altri investimenti). Il gruppo CIR registra un fatturato di circa 5 miliardi, con circa 14mila dipendenti.

Le principali partecipazioni, oltre al gruppo Espresso, sono la Sorgenia Holding S.p.A che controlla il 79,7% di Sorgenia S.p.A. uno dei principali operatori del mercato libero dell'energia elettrica e del gas naturale. La Sogefi S.p.A. al 58.3%, azienda operante nella componentistica per auto che controlla 4 marchi: TECNOCAR, PURFLUX, FIAAM, FRAM. Infine la KOS S.p.A. al 51.3% che possiede circa 60 strutture sanitarie e 5.059 posti letto. La COFIDE (Gruppo De Benedetti) oltre alla CIR, partecipa alla Società Finanza Attiva S.p.A (89%), alla Banca Intermobiliare di

Investimenti e Gestioni S.p.A., alla Cofide International S.p.A. (100%), alla Cofidefin Servicos de Consultoria Lda. Come azionisti di COFIDE, troviamo anche il Credit Suisse (al 7.66%). Nella CIR troviamo invece come azionisti la Bestinver Gestion (11,3%) e la Norges Bank (2,7%).

Nel Cda del Gruppo Espresso troviamo Scrgio Erede, amministratore di Luxottica (di Del Vecchio, secondo uomo più ricco d'Italia, e tra i suoi maggiori azionisti troviamo la Deutsche Bank); Luca Paravicini Cre-

spi, consigliere della Piaggio dei Colaninno (dove siede accanto a Vito Varvaro, il quale a sua volta è anche nel Cda della Tod's di Diego Della Valle) e figlio di Giulia Maria Crespi, cx direttore editoriale del Corriere ed ex presidente del Fai; e Mario Greco, consigliere di Indesit Company (dove siede anche Emma Marcegaglia) c della Saras di Massimo Moratti (rappresentato anche nel Cda del Corriere attraverso i consiglieri del gruppo Pirelli di proprietà di Tronchetti Provera), una delle massime

società italiane nel settore petrolifero c energetico, di cui possiedono azioni di minoranza anche la Rosneft (compagnia petrolifera del governo russo) ec Assicurazioni Generali.

Passiamo al Gruppo Editoriale RCS che possiede i quotidiani Corriere della Sera (1° quotidiano italiano) e La Gazzetta dello Sport (4° quotidiano italiano), le Case Editrici “Rizzoli”, “Bompiani”, “Fabbri

Edirori”, “Marsilio”, “Lizard”, “RCS Collezionabili”, “SuperPocket”, “Firme ORO”, “Sonzogno”, “Skira”, “Archinto”, “Adelphi”, “Etas”. Inoltre possiede le Radio e Tv, “Radio 105”, “Radio MonteCarlo”, “Virgin”,

“Lei”, “Dove Tv”, e i periodici Oggi, Cucino, Novella, Visto, Astra, Ok, Domenica Quiz, Quiz mese, Sette, Dove, Y&S, Corriere Erboristica, Amica, A, lo, Style, Max, CA casamica, Case da Abitare, Il Mondo, l'Europeo, Costruire, Abitare.

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L’Azionariato della RCS è così composto: Fiat S.p.A. al 20,55% (Famiglia Agnelli), Mediobanca S.p.A. (15,45 %), Diego Della Valle

(8,99%) tramite la Dorint Holding S.p.A. e la Di.Vi. Finanziaria di D. Della Valle&C., la Finsoe S.p.A. al 5.65% tramite la Fondiaria Sai S.p.A., la Milano Assicurazioni, la Saifin S.p.A. e la Siat S.p.A., la Pirelli (5,44%), Intesa Sanpaolo (6,54%), Banco di Napoli, Cassa di Risparmio del Vene-

to, Benetton e l'elenco è ancora lungo. Andando ad analizzare il Cda della RCS troviamo Carlo Pesenti consigliere di Italcementi, Unicredit, Italmobiliare c Mediobanca; Fulvio Conti amministratore delegato e Direttore Generale della società Enel, vicepresidente di Confindustria che nel 2012

ha partecipato alla riunione del Gruppo Bilderberg in Virginia USA. Il Gruppo Editoriale // Sole 24 Ore appartiene alla Confindustria

(quindi diretta espressione dei desiderata dei principali gruppi industriali del Paese) e controlla il quotidiano // Sole 24 Ore (3° quotidiano italiano),

le radio “Radio 24” e “Radio 24 Ore Radiocor”, c i periodici Erglish24, l'Impresa, Aspenia, Ristrutturare, Applicando. Nel suo Cda siedono, fra gli altri, Giancarlo Cerutti, consigliere di amministrazione della Saras (Moratti); Luigi Abete, presidente della BNL (gruppo Paribas); Antonio Favrin,

collega di Cda, in Safilo Group, di Ennio Doris, che siede in Mediolanum della famiglia Berlusconi e in Mediobanca. Gruppo Editoriale “Poligrafici” possiede i quotidiani QN-La Nazione (11° quotidiano italiano), // Resto del Carlino (7° quotidiano italiano), // Giorzo (20° quotidiano italiano) e

i periodici Cavallo, Onda Tivù c L'Enigmistica. Il Gruppo è legato anche a Telecom Italia, Generali Assicurazioni e Gemina (attraverso Massimo Paniccia e Aldo Minucci) e alla Premafin della famiglia Ligresti.

Editore Caltagirone è di proprietà della Famiglia Caltagirone che

possiede la Caltagirone S.p.A. una holding cui fanno capo le attività del gruppo Caltagirone nei settori dei grandi lavori, del cemento, immobilia-

re, finanziario e dell'editoria, Cementir S.p.A. (4° produttore di cemento in Italia e in Turchia, mentre in Scandinavia è il principale produttore di cemento

bianco e calcestruzzo), Vianini Lavori S.p.A. (opera dal

1890 nei settori più avanzati dell’ingegneria civile e nell'industria dei

manufatti in cemento e annovera tra i principali clienti anche la Enel e FS) e Vianini Industria S.p.A. attiva nella realizzazione di strutture (tubi, piloni, prodotti idraulici) in cemento oltre che di materiali per l’arma-

mento ferroviario. Inoltre, partecipa in Assicurazioni Generali, Unicredit, Acea c Grandi Stazioni. Possiedc l'azienda pubblicitaria “PIEMME” e i quotidiani // Messagero (6° quotidiano italiano), Leggo, il Gazzettino (15° quotidiano italiano), Corriere Adriatico, In Città, il Mattino (19° quotidiano italiano) e la Tv “Telefriuli”.

L'“Editrice La Stampa” possiede il quotidiano Za Stampa (5° quotidiano italiano), di proprietà del gruppo Fiat tramite la Holding Itedi con Presidente J. Elkann. L'Unità (giornale del PD) appartiene al gruppo Tiscali società di telecomunicazioni di Renato Soru nel cui consiglio

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d'Amministrazione siede Maurizio Carfagna consigliere di Mediolanum e Victor Uckmar che troviamo anche in Class dei Fratelli Panerai che conrrollano Milano Finanza e Italia Oggi (14° quotidiano italiano). Il Gruppo Tosinvest di Angelucci, proprietario di un impero fatto di cliniche e strutture sanitarie (fra cui l'ospedale S. Raffaele di Roma), possiede i quotidiani

Libero (13° quotidiano italiano) c il Riformista. Senza dimenticare il quotidiano l'Avvenire (10° quotidiano italiano) di proprietà della CEI (Confe-

renza Episcopale Italiana) tramite la Fondazione di Religione “Santi Francesco d'Assisi e Cacerina da Siena” che possiede anche la rete 1V2000. Rimanendo nei maggiori quotidiani possiamo vedere quindi che

nella proprietà e Consiglio d’Amministrazione del Corriere della Sera sono presenti i maggiori gruppi industriali e finanziari (bancari e assicu-

razioni), come la Fiat, Pirelli, Tod's (Della Valle), Gruppo Indesit, Italcementi (Marcegaglia), Iralmobiliare, Acciaierie Lucchini, Telecom, Gene-

rali, Fondiaria, Unicredic, Intesa San Paolo e Mediobanca ecc... A La Repubblica, la Piaggio, Luxottica, la Saras (Moratti) che troviamo anche nel Sole 24 Ore e nel Corriere della Sera ccc..., frutto di uno studio inchiesta effettuato qualche anno fa, si può evidenziare in modo molto chiaro e nitido il complesso groviglio descritto finora considerando inoltre che ogni gruppo ha partecipazioni a vari livelli in altri gruppi finanziari c industriali. Un complesso groviglio di testate, gruppi e nomi di tecnici intermediari (ossia quelle figure come avvocati, consulenti, commercia-

listi, uno linea cioè Essa

che compaiono in questi e quelli Cda a rappresentare gli interessi di o più gruppi) che rappresentano gli interessi di un'unica classe. La editoriale è ciò che distingue una testata giornalistica da un’altra, la missione strategica dalla quale si scelgono e analizzano le notizie. si forma a partire dal proprietario e dal luogo decisionale delle so-

cierà capicalistiche, ossia il Consiglio d’Amministrazione (Cda). Come

abbiamo per l'appunto già visionato (in modo ancora poco approfondito, ma in modo già sufficiente per capire), essi sono composti da gruppi c uomini direttamente legati ai grandi gruppi industriali e finanziari che controllano quindi direttamente l'informazione secondo i propri interessi, facendo passare quello che in realtà è un monopolio per “pluralismo”».

4.2. L'oligopolio televisivo in Italia

Riportiamo ora la seconda parte dell’analisi di Salvatore Vicario”: «Con l'introduzione del Digitale ‘Lerrestre e la diffusione della tv

satellitare a pagamento, vi è ormai un infinito numero di canali televisivi

©Ibidem.

che danno una visione di “pluralismo” di scelta, ma se andiamo ad osservare a chi fanno capo questi canali possiamo facilmente accorgerci come esista in Italia un monopolio composto da Rai-Mediaset-ll Media—Sky Italia, che possiedono un'ampia gamma di canali e assorbono la quasi totalità del mercato e della pubblicità. La Rai è di proprietà statale (dello Stato borghese), nel cui Cda

siedono uomini e donne delle maggiori organizzazioni politiche in Par-

lamento, quindi i Partiti che rappresentano gli interessi dell’oligarchia finanziaria nel suo complesso. Sette consiglieri vengono eletti dalla Commissione parlamentare di vigilanza e duc dal Ministero dell'Economia e delle Finanze che è il maggior azionista della Rai, tra cui il Presidente del CdA. Osservando l’attuale Cda prendiamo come esempio, Luisa l'odini,

imprenditrice in quota Forza Italia, proprietaria della “Todini Costruzioni S.p.A”. c allo stesso tempo principale gruppo italiano nel della Fondazione Italia-USA. che operano nel mercato dei

membro del settore delle La Rai a sua media e del

Cda della Salini Impregilo, il costruzioni. È anche membro volta controlla diverse società broadcasting: Rai Pubblicità

(prima Sipra, concessionaria per la pubblicità sulla Rai), RaiNet (che

gestisce i siti Rai), Rai Way, Rai World, Rai Cinema (produzione, acquisizione e gestione dci diritti dei prodotti audiovisivi sui canali della filiera cinematografica) e la 01 Distibution (settore della distribuzione col quale controlla dirertamente lo sfruttamento commerciale dei film). Alla Rai sono collegate la San Marino Tv, Tivù S.r.l. (piattaforma satellitare gra-

tuita, partecipata in modo paritario da Rai c Mediaset al 48% e al 4% da Telecom Italia) e Euronews che riunisce a livello europeo le tv pubbliche,

che rappresenta gli interessi delle oligarchie curopce che controllano le Tv statali dei vari Paesi dell'UE. Il Gruppo Mediaset, come prima detto, è controllata dalla Holding Fininvest della famiglia Berlusconi. È un'impresa multinazionale, con filiali in Spagna e Paesi Bassi, c ha come presidente Fedele Confalonieri,

presente sul Digitale Terrestre e nel settore della Pay-Tv, detiene l’intera

rete di trasporto per la diffusione del segnale televisivo per la diffusione del Digitale Terrestre attraverso Elettronica Industriale. Possiede oltre lc reti generaliste e commerciali anche (tra le altre) la Medusa Film e la Taodue (film), c la Endemol (con sede nei Paesi Bassi) che produce format

televisivi per rutto il mondo. Pubblitalia è la concessionaria esclusiva di pubblicità del Gruppo Mediaset, che è leader della raccolta pubblicitaria, ce tramite la sua controllata Publieurope gestisce la vendita di spazi pubblicitari su più di venti canali televisivi curopei, tra cui quelli del secondo gruppo radio televisivo europeo ProSiecbenSar.1 Media, presente in 13 Stati. AI Gruppo Mediaset partecipano i principali istituti di credito ita-

liani e alcuni investitori stranieri, tra cui il Principe AI-Walced, 26° uomo più ricco del mondo. Con il programma ADR (American Depositary Receipt) fa parte del mercato finanziario americano con la JPMorgan

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Chase come banca depositaria. Con la società Media Shopping (e l’omonimo canale televisivo) detiene il primato nel mercato delle vendite a

distanza con oltre 900 punti vendita nel settore della Grande Distribuzione italiano, tra cui Carrefour, Auchan, Billa, Iper e Autogrill. Possiede

inoltre anche 8 canali televisivi in Spagna attraverso il Grupo Gestevision Telecinco (50,13%), così come in Nordafrica con il canale Nessma e in

Cina con il canale Sportnet Media e China Sport Programs Network. Telecom Italia Media, è una società controllata al 77,7 % da Telecom Italia, 7° gruppo economico italiano e principale azienda italiana

delle telecomunicazioni che tra i suoi azionisti ha la holding italo-spagnola Telco S.p.A. composta da Mediobanca, Assicurazioni Generali, Intesa Sanpaolo e Telefonica. Nel Cda di Telecom Italia troviamo Jean P. Fitoussi presente anche nel consiglio di sorveglianza di Banca Intesa Sanpaolo, Renato Pagliaro, banchiere, presidente di Mediobanca, vicepresidente di RCS MediaGroup e membro del Cda della Pirelli, Gennaro Miccichè, Direttore Generale di Intesa Sanpaolo e Amm. Delegato di Banca IMI, Gabriele Galateri di Genola, presidente di Assicurazioni Generali e Tarak Ben Ammar, capitalista tunisino proprietario della società di produzione e distribuzione francese Quinta Communications, della holding Holland Coordinator & Services Bv (HC&S),

di Prima TV con il 95%, della

The Weinstein Company con il 20%, della Fagle Pictures con il 75%, della Lux Vide con il 25%, di International Entertainment con l’8,6%, di Europa TV con il 51%, di On-tv e di Nessma Tv con il 25%, socio a vari livelli di Murdoch, Kirch e Berlusconi, nonché membro del Cda di Mediaset, Assicurazioni Generali e Mediobanca nonché consulente

del principe saudita Al-Waleed. La Telecom Italia Media S.p.A. possiede la TM News, agenzia giornalistica multicanale, partener italiana del network americano CNN, con redazioni in Europa, a Budapest, Bruxelles e Mosca, ed una a New York (USA), distribuendo notizie video per i principali quotidiani italiani nella versione on-line, tra cui Corriere della

Sera, La Repubblica © La Stampa oltre a emittenti come Rai, Mediaset, La 7, Sky e Telenorba. La ‘Telecom Italia Media SpA ha ceduto di recente la MTV Italia Srl che adesso è controllata dalla MTV Networks Furope del gruppo Viacom Media Nerworks una società americana che possiede numerosi canali TV e aziende internet in tutto il mondo. La MTV Italia Srl produce le emittenti MTV, Comedy Central, Nick e Nickelodeon,

presenti nel settore Digitale Terrestre, Satellitare, pay c free. Fino a meno di un anno fa, faceva parte della ‘lelecom Italia Media anche La 7, ora di proprietà della Cairo Comunication di Urbano Cairo (pres. anche del Torino Calcio), che si occupa della vendita degli spazi pubblicitari con con-

cessioni nel gruppo RCS (/o Donna, Oggi e TV Sette) e nei mensili dell’Editoriale Mondadori, c possiede anche due settimanali: Dipit e Dipig TV. Infine, (non certo ultimo per importanza) Sky Italia (che assumia-

mo come esempio delle grandi multinazionali del settore), che fa parte 79

della News Corporation del gruppo Murdoch, uno dei primi quattro conglomerati mediatici degli Stati Uniti, che controlla un gran numero di società del settore della comunicazione in tutto il mondo. Dall'Editoria (HarperCollins) e Zondervan, ai quotidiani (7he Sun, 7he Sunday

Times, The Times, New York Post, The Wall Street Journal, ‘The Australian), le Stazioni Radio (Radio City in India, Radio Veronica nei Paesi Bassi, Nasche e Best FM in Russia), la produzione cinematografica (20th Cen-

tury Fox, Fox Searchlight Pictures), le televisioni (Fox, Independent Tclevision, News Corp Europe che controlla canali in Bulgaria, Italia, Romania, Serbia, Turchia, Georgia, Polonia, Israele) la televisione satellitare (Sky Digital Regno Unito, Sky Italia, Foxtel Australia, Sky Deutschland Germania, Star Tv Asia, Phoenix Satellite Tv Hong Kong), la televisione via Cavo (basta citare tutta la catena FOX negli USA e in Sud America),

per finire con Internet (Indya — portale indiano, IGN Entertainment portale internet, Grab.com, news.com.au — portale d'informazione australiano, casa.it, whatifsports.com, sibellusmusic.com). Come la News

Corporation del gruppo Murdoch, vi sono altre (poche) corporation che controllano una grandissima quantità di ‘T°v, giornali, case editrici e produzione cinematografica ecc... Sky Italia è il risultato della fusione di Stream, Telecom Italia e la pay-tv da lui fondata».

4.3. I monopoli di internet La terza parte dell'analisi non riguarda prettamente l’Italia ma apre ad un discorso più ampio, affrontando il tema di internet e

mostrando come anche in questo caso ci siano elementi di riflessione importanti riguardo un medium che viene comunemente ritenuto completamente libero ed estraneo a pressioni economiche. Prosegue

dunque Vicario”: «Anche Internet si regge sui grandi monopoli del settore come Go-

ogle, Microsoft, Twitter o Facebook ecc... che controllano le principali reti. Questi ci consegnano risultati di ricerca che influenzano il modo di fruire internet e di ricevere informazioni, e quindi attraverso la rete,

il mondo. Dall’evoluzione da Internet 1.0 (pagine web di sola lettura) a Internet 2.0 (Web social nella quale si può interagire, come creatore e consumatore di contenuti) vi sono stati grandi cambiamenti. Internet si

regge su monopoli che seguono la logica dell'aumento del profitto e non cerro quella della libera circolazione di idee, dove regnano le logiche di

7 Ibidem.

80

mercato e delle gerarchie conseguenti, tutto il contrario quindi di quello che ci vogliono far apparire come un piano orizzontale. Come ogni prodotto che nasce in seno al capitalismo, anche in questo campo l’obiettivo è quello di soddisfare non le necessità delle masse, ma assicurare enormi

somme milionarie a coloro che ne sono proprietari. La fonte principale nella rete è la pubblicità, e le attuali piattaforme, in particolare le più generaliste (Facebook, Google+...) settorizzano al massimo la popolazione.

Le reti sociali, sono nella pratica un'immensa base di dati che permettono alle imprese private di realizzare campagne pubblicitarie roralmente adattate e dettagliare. Esiste una grande compravendita di dati che gira tutto intorno ai grandi social media che sono forse la prima forma di profitto che utilizza la tendenza umana alla cooperazione e alla condivisione di informazioni. Ad esempio Facchook si muove come se volesse inglobare tutta la rete e sostituirsi ad essa. Ognuno dei milioni di utenti che usa Facchook, ogni giorno produce contenuti per il network, di fatto lavora

senza accorgersene e senza essere pagato, produce valore senza tradursi in salario, ma solo in profitto per altri (i proprietari dei mezzi di produzione che vendono i dati sensibili, i pattern della navigazione ecc.) ossia coloro

che fanno soldi col lavoro dei primi. L'informazione, è merce. La comunità che usa Facebook produce informazione (sui gusti, sui modelli di consumo, sui trend di mercato)

che il capitalista impacchetta in forma di staristiche c vende a soggetti terzi c/o usa per personalizzare pubblicità, offerte e transazioni di vario genere. Ma queste grandi società private che operano su internet, come Google e Facebook, non usano soltanto l'enorme quantità di dari disponibili relativi agli utenti come fonte di reddito, ma esse sono in grado di esercitare un controllo preciso sulle masse. Circa il 70% delle comunicazioni via internet nel mondo sono nelle mani di una sola società americana: Level 3 Communications, a cui seguono AT&/T, British

Telecom e ‘Telefonica ecc. È l’oligarchia finanziaria quella che finanzia la costruzione di immense infrastrutture fisiche, necessarie al funzionamento di internet, che non è “un qualcosa di virtuale” ma è fatto di cavi, satelliti, torri, server in tutto il mondo, brevetti. Con questi mezzi pertanto poche società controllano miliardi di persone, di informazioni e influenzano gli eventi. Basti pensare solo che Google ha acquisito dal 2001 ad oggi, 147 aziende».

Di fronte a tali dati non stupisce il peso enorme che hanno

acquisito dal punto di vista non solo economico ma anche politico tali multinazionali, come mostrato nel 2018 dall'esplosione del caso

“Cambridge Analytica”: si allude all'utilizzo di oltre 87 milioni di dati rratti dal social network Facebook, usati per cogliere «gusti, paure,

speranze» di milioni di elettori, «per modellare su ciascuno di loro una 81

campagna propagandistica subdola ed efficace»8. Nel novembre 2016,

in un'elezione presidenziale giocata sul filo di lana, Trump diventa il nuovo leader degli USA anche avendo potuto permettersi di assoldare Alexander James Ashburner Nix, il giovane CEO di Cambridge Analytica assoldato per «profilare» e «targetizzare» 220 milioni di americani, cioè tutti gli adulti con diritto di voto, al modesto costo

di 15 milioni di dollari. Cosa vuol dire? Lo spiega Fabio Amato in un'inchiesta approfondita: «gli elettori di un determinato quartiere, area, contea 0 Stato vengono stratificati per censo, orientamento politico, propensione al voto, acquisti, comportamenti. lutto è raccolto e organizzato in grandi database. I messaggi politici da sottoporre, a quel punto, se non personalizzati, sono altamente strutturati: nel tuo quartiere le fogne non vanno? Colpa del governatore democratico. Sono aumentati i furti? Lotriamo per il tuo diritto ad avere armi. È via così: alla rappresentanza sul territorio si sostituisce la politica on demand. Decine di migliaia di messaggi diversi dicono una cosa sola: conosco il tuo problema e ri darò ciò di cui hai bisogno»?. Conclusioni? «quel che si può dire con evidenza scientifica è che colossi come Facebook e Google sono in grado di orientare il voto. Soprattutto quello degli indecisi. Il primo per motivi legati al mezzo: per ragioni facilmente comprensibili, sui social network i contenuti più condivisi sono quelli di minore spessore e complessità. Il che regala un vantaggio competitivo a messaggi semplici, diretti, accattivanti e divertenti. Il populismo, in

buona sostanza, ha una corsia preferenziale nella circolazione delle idee. Quel che a un elettore con un’'ideologia strutturata appare ridicolo, per un elettore acerbo può essere simpatico o accattivante [...]. Per quanto

riguarda Google, il meccanismo è semplice c non necessita di demiurghi né complotti. Il professor Robert Epstein, psicologo dell'American In-

stitute for Behavioral Research and Technology, sostiene che il motore di ricerca possa “determinare più del 25% delle elezioni nazionali”. Epstein c colleghi hanno studiato per anni l’effetto che le informazioni positive

* Fonti usate: M. Pennisi, Cambridge Analytica, Facebook ammette: «Gli coinvolti sono 87 milioni». Zuckerberg: mio errore, Corriere della Sera (web), 4 2018; B. Ruffilli, Facebook sospende Cambridge Analytica: ha usato i dati di 50 ni di utenti per influenzare le elezioni americane, La Stampa (web), 17 marzo

utenti aprile milio2018.

“E Amato, Cambridge Analytica, ecco come ha sfruttato i big data perspingere l'elezione di Trump. L'inchiesta di FaMilleniuM, Il Fatto Quotidiano (web), 18 marzo 2018. 82

hanno sugli elettori indecisi che fanno ricerca in proprio per orientarsi tra i candidati. Risultato: indipendentemente da quale fosse il candidato

di riferimento, l’accesso a informazioni positive attraverso il motore di ricerca aumentava la possibilità di votare per X in media del 48%.

Epstein ha chiamato questo valore Vote Manipulation Power: potere di manipolazione del voto».

Riportiamo infine quanto affermato dal portale di informazione “Sirialibia.org”!°, utile a ricordare quanto il web sia tenuto in considerazione dall’imperialismo per manipolare l'opinione pubblica anche nell’ottica di favorirne una lettura inconsciamente (o direttamente) favorevole agli interventi guerrafondai occidentali: «secondo

vari studi, le organizzazioni governative

USA

(e gli

istituti, organizzazioni e fondazioni ad esse aggregate) spenderebbero annualmente una cifra stimata tra i 400 e gli 800 milioni di dollari per promuovere, tramite la Rete, le guerre dell'Impero. Un lavoro condotto, spesso con maestria, da legioni di giornalisti, pubblicitari, esperti in video e che gli ignari urenti della Rete (un miliardo di persone solo Facebook) provvedono a diffondere in ogni dove».

4.4. Il caso dell'Africa L'Africa è stato uno dei continenti più martoriati dall’imperia-

lismo e dal colonialismo. Ancora oggi gli interessi occidentali sono fortissimi e molti Paesi sono controllati più o meno direttamente o indirettamente dall’imperialismo per mezzo di governi compiacenti o delle pressioni delle multinazionali occidentali. Anche in questo caso tale politica di dominio si concretizza in un forte controllo

mediatico nel settore dell'editoria e delle telecomunicazioni, come spiega Carlos Lopes Pereira": «L'imperialismo rafforza il suo potere economico sui mezzi di comunicazione di massa nell'Africa sub-sahariana, accentuando così la sua influenza ideologica su milioni di africani. Questa strategia contribuisce in Africa al consolidamento di gruppi di media legati al business in di-

'° E S. (webmaster Sirialibia.org), La guerra e la rete, Sirialibia.org, 2013.

""C. Lopes Percira, Meios de comunicagdo e capitalismo em Africa, Avante! (web), 7 gennaio 2016.

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versi settori e associati al grande capitale internazionale. Tale situazione, che aumenta la concentrazione della proprietà e sottrae indipendenza ai mezzi di comunicazione privati africani, non ha impedito ma facilitato la crescente penetrazione c l'influenza dei colossi dell’intormazione, soprattutto statunitensi, a sud del Sahara. Un articolo pubblicato su

Pueblos - Revista de Informacion y dibattito, dal giornalista e ricercatore Sebastian Ruiz, legato all'Università di Siviglia, conferma queste tendenze. Lo studio indica che l’industria mediatica sub-sahariana sta vivendo una fase “vivace” e accompagna la crescita economica del continente, dove l’accesso alle tecnologie dell’informazione continua tuttavia a

essere “asimmetrico”: di Paese in Paese e a livello di ogni singolo Paese in funzione delle esacerbate disuguaglianze sociali. Due segnali che testimoniano questo fatto: i circa 200 periodici pubblicati attualmente nella Repubblica Democratica del Congo e le centinaia di venditori ambulanti di giornali che danno forma al pacsaggio urbano di Nairobi, vendendo

giornali in molte lingue: dall’inglese all’arabo, passando per lo swahili. L'articolo Le fila dei media in Africa a sud del Sabara, rivela l’emergere di raggruppamenti di media nel continente e come questi, per vendere meglio notizie, film, video, dischi o riviste, stabiliscano alleanze commerciali con partner stranieri. La sudafricana Naspers, ad esempio, controlla 23 riviste (comprese le più lette della stampa rosa), sette quotidiani e il colosso televisivo DSTV. Con oltre un secolo di vita, questa

multinazionale del Sudafrica — che ha attraversato il regime dell'apartheid e si è adattata ai tempi che cambiavano — vende servizi in più di 130 Paesi. Tra questi è compreso il Brasile (dove è di proprietà della influente casa editrice Abril), la Cina (associata a Tencent, con servizi Internet c tele-

fonia mobile) e la Russia (dove ha azioni della società DST, proprictaria del portale internet Mail.ru). In Kenya, la Nation Media Group (NMG),

fondata mezzo secolo fa, è in Africa orientale il più grande raggruppamento ed è uno dei più grandi del continente. È presente con televisioni, radio c giornali in Kenya, Tanzania, Uganda e Rwanda. Il suo maggiore azionista è il Fondo Aga Khan per lo Sviluppo Economico, che a sua volta

è parte dell’Aga Khan Development Nerwork, con sede a Ginevra. Questa seruttura ha interessi in 30 Paesi in Africa, Asia e Medio Oriente, in settori che spaziano dall'ambiente al microcredito, dalla sanità all'istruzione, alla

cultura. Legaca, chiaramente, al leader miliardario degli sciiti ismailiti. mici caso due zina

Anche nell’Africa sub-sahariana il capitale di diversi settori econopenetra in modo palese e controlla i mezzi di comunicazione, è il di IPP Media Group, in Tanzania. Possiede 10 quotidiani nazionali, delle più popolari stazioni televisive dell’Africa orientale e una dozdi stazioni radio. Allo stesso tempo possiede Bonite Bottlers, il solo

imbottigliatore di prodotti Coca-Cola nel nord della Tanzania c della marca di acqua in bottiglia Kilimanjaro, la più venduta nel Paese. Invece IPP Resources dello stesso gruppo, possiede miniere d’oro, di uranio,

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rame, cromo e carbone. Un ultimo esempio illustra come “la globalizzazione dei media nel continente africano è in un momento di crescente dinamismo e le sue pratiche sono legate ai processi capitalistici globali”. In Nigeria, la più grande economia dell’Africa, il raggruppamento più importante è il Daar Communications PLC, uno dei pionieri della televisione satellitare, dal 1996: African Independent Televison (AIT). È stato

lanciato successivamente negli Stati Uniti, Messico, Caraibi e in cutta Europa. Il suo presidente, Raymond Dokpesi, è anche a capo di un consorzio di banche guidato da Union Bank Plc, di capitale per lo più inglese. Con una tale situazione non è sorprendente che Sebastian Ruiz confermi

che l'Africa “è invasa dai contenuti dei mass media e con essi dalla filosofra, dai valori e da diverse visioni del mondo, in particolare degli Stati Uniti". Sottolinea che al centro dell'impero, cinque grandi aziende legate alle élite politiche ed economiche (Time Warner, Disney, News Corporation, Berrelsmann e Viacom), controllano il 90% dei mezzi di comunicazione. E le loro ramificazioni raggiungono tutto il mondo. Anche l'Africa».

4.5. Il potere dei media e la teoria dell'agenda setting Una volta mostrato il grado di concentrazione del settore delle

relecomunicazioni, è lecito da parte del lettore mettere in discussione un assunto fino ad ora rimasto implicito: non è possibile affermare che le persone credano ciecamente e acriticamente a tutto ciò che viene

espresso dai media. Tutti ascoltano, leggono e vedono i fatti riportati per poi sviluppare un proprio pensiero al riguardo, frutto dell’intera-

zione con amici, familiari, colleghi di lavoro, o dell’approfondimento attraverso altre fonti. Non è qui possibile svolgere una disanima sul dibattito intellettuale, in particolare del secondo Novecento, sul potere effettivo dei media di influenzare i cittadini. Riteniamo tuttavia che la teoria sociologica nota come “agenda setting” abbia una valenza

immensa, verificabile e constarabile empiricamente ogni giorno. Per chiarirne il contenuto, ci aiutiamo con una scheda tecnica"? sul tema: «La teoria dell'agenda setting [d'ora in avanti a.s., ndr], avanzata nel 1972 da Maxwell McCombs e Donald Shaw, sostiene che i mass

media predispongono per il pubblico un certo “ordine del giorno” degli

'* M. Britto Berchmans, Agenda setting, in È Lever, 1 C. Rivoltella, A. Zanacchi (a cura di), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, aggiornato al 19 novembre 2017.

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argomenti cui prestare attenzione. A lungo gli studiosi hanno dibattuto su quanto i media possano comunicare alle persone cosa è importante e cosa deve essere preso in considerazione. Già nel 1922 Walter Lippmann, nell'ormai famoso Public Opinion, sottolineava come il pubblico dei media di fatto non si trovi dinanzi agli eventi reali, ma a pseudo-cventi, in pratica “alle immagini che ci facciamo nella nostra mente”. Sin dalla selezione e rappresentazione quotidiana delle notizie, i media modellano la realtà sociale. Essi sono in grado di strutturare i nostri pensieri e di portarci a un mutamento cognitivo. Ordinano e organizzano il mondo per noi, inducendoci a prestare attenzione a certi eventi piuttosto che ad altri. Possono anche non riuscire a dirci cosa o come pensare, ma riescono sicuramente a dirci intorno a quali remi pensare qualcosa. Questa è la funzione di a.s. svolta dai media, in particolare da quelli informativi [....]. La ricerca ha dimostrato che le persone più portate a lasciarsi influenzare dai media sono quelle che hanno un maggiore bisogno di orientamento. La questione che inevitabilmente emerge a questo punto è la seguente: chi è veramente in grado di condizionare l'agenda dei media? [...]. Negli ultimi anni, anche Shaw e McCombs hanno ammesso che i

media hanno il potere di influenzare il modo in cui pensiamo, soprattutto attraverso il processo di priming e framing. Nel primo caso, si tratta di

quel “processo psicologico nel quale l'enfasi attribuita dai media è in grado non solo di aumentare l’importanza di una data questione, ma anche di ‘in-

nescare’ nel pubblico il ricordo delle informazioni precedentemente acquisite su quella questione”; poiché tutti i membri del pubblico, e non solo quelli che hanno più bisogno di orientamento, sono soggetti a questo processo, esso si rivela particolarmente dinamico cd efficace. Con il processo di framing (inquadramento, focalizzazione), invece, alcuni eventi vengono messi in primo piano, mentre altri passano inosservati».

Fermiamoci qua. Chiaramente gli autori non collegano questa tematica alla questione dell’imperialismo e mantengono un discorso astratto e “neutro” in cui considerano diverse variabili che siano

capaci di condizionare i media. Le principali sono riassumibili da parte loro come quelle del mercato, delle esigenze del pubblico, dei temi posti all'attenzione pubblica da parte del ceto politico. Questi condizionamenti reciproci possono valere però in una condizione

di corretto funzionamento di un sistema quanto meno democratico liberale e concorrenziale. Tali condizioni non sembrano però sussistere nel momento in cui, come abbiamo appena mostrato, la quasi totalità dei mass-media risultano controllati da una manciata di multinazionali. Né rantomeno possono valere in una condizione di crisi sociale, politica, economica e culturale acuta, che colpisce 86

costantemente una quota importante della popolazione dei Paesi capitalistici. In un contesto imperialista il potere dei media reazionari diventa quindi determinante nella capacità di condizionare quotidianamente milioni (miliardi?) di persone, attraverso un’azione

egemonica di lungo corso che Gramsci ha definito come “rivoluzione passiva”. Ci troviamo insomma nel pieno dell’arena della lotta di

classe culturale, con tutte le conseguenze che ciò comporta, come vedremo nei prossimi capitoli. Per ora diamo spazio, invece, ad una serie di altre preziose fonti che chiariscono, in maniera meno scien-

tifica ma assai pragmatica, alcune strategie messe in atto dai mass media, più o meno coscientemente.

4.6. 10 Strategie della manipolazione Il seguente decalogo è stato spesso attribuito erroneamente, anche da fonti illustri, a Noam Chomsky". In realtà il filosofo statunitense,

pur accettando la sostanza delle affermazioni qui sintetizzate, non ha scritto direttamente il testo, il quale è invece opera del francese Sylvain Timsit, che lo ha elaborato nel 2002". In ogni caso è un elenco che merita senz'altro di essere letto e su cui occorre riflettere criticamente: «l. La strategia della distrazione. L'elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel deviare l’attenzione del pubblico dai problemi importanti c dei cambiamenti decisi dalle élite politiche cd economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazioni di continue distrazioni c di informazioni insignificanti. La strategia della distrazione è anche indispensabile per impedire al pubblico d’interessarsi alle conoscenze essenziali, nell’area della scienza,

dell'economia, della psicologia, della neurobiologia e della cibernetica.

“Mantenere l'attenzione del pubblico deviata dai veri problemi sociali, imprigionata da temi senza vera importanza. Mantenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza nessun tempo per pensare, di ritorno alla fattoria

come gli altri animali”. (citato da Armi silenziose per guerre tranquille)!?.

*L Rocco, La bufala del decalogo di Noam Chomsky, Luciarocco.it, 13 gennaio 2015.

14S. Timsit, Strarégies de manipulation, Sity.net, 2002. '°Tale documento, datato maggio

1979, è stato trovato il 7 luglio 1986 in

una fotocopiatrice della IBM acquistata ad un'asta di attrezzature militari. Pubbli-

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2. Creare problemi c poi offrire le soluzioni. Questo metodo è anche chiamato “problema-reazione-soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desidera far accettare. Ad esempio: lasciare che si dilaghi o si intensifichi la violenza

urbana, o organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che sia il pubblico a richiedere le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito della libertà. O anche: creare una crisi economica per far accettare come un male necessario la retrocessione dci diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici. 3. La strategia della gradualità. Per far accettare una misura inaccettabilc, basta applicarla gradualmente, a contagocce, per anni consecutivi. È in questo modo che condizioni socio-economiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte durante i decenni degli anni ‘80 e ‘90:

Stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione in massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, ranti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero state applicate in una sola volta.

4. La strategia del differire. Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria”, ottenendo l'accettazione pubblica, nel momento, per un'applicazione

futura. È più facile accertare un sacrificio futuro che un sacrificio immediato. Primo, perché lo sforzo non è quello impiegato immediatamente. Secondo, perché il pubblico, la massa, ha sempre la rendenza a sperare

ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. Questo dà più tempo al pubblico per abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento. 5. Rivolgersi al pubblico come ai bambini. La maggior parte della

pubblicità diretta al gran pubblico, usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione debolezza, come se deficiente mentale. si rende a usare un

particolarmente infantile, molte volte vicino alla lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un Quanto più si cerca di ingannare lo spettatore, più tono infantile. Perché? “Se qualcuno si rivolge a una

persona come se avesse 12 anni o meno, allora, in base alla suggestionabilità, lei tenderà, con certa probabilità, a una risposta 0 reazione anche sprovvista di senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno”. (vedere Armi silenziose per guerre tranquille) 6. Usare l’aspetto emotivo molto più della riflessione. Sfruttate l'emozione è una tecnica classica per provocare un corto circuito su

cato in appendice al libro Be4o/4 a Pale Horse di William Cooper, Light l'echnology Publishing, 1991, lo si trova gratuitamente sul web con una rapida ricerca.

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un'analisi razionale e, infine, il senso critico dell'individuo. Inoltre, l’uso del registro emotivo permette di aprire la porta d'accesso all’inconscio

per impiantare o iniettare idce, desideri, paure e timori, compulsioni, 0 indurre comportamenti. 7. Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità. Far sì che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie e i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù. “La qualità dell'educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza dell'ignoranza che pianifica tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare dalle classi inferiori”. (vedere Armi silenziose per guerre tranquille) 8. Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità. Spingere il pubblico a ritenere che è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti...

9. Rafforzare l’auto-colpevolezza. Far credere all'individuo che è soltanto lui il colpevole della sua disgrazia, per causa della sua insufficiente intelligenza, delle suc capacità o dei suoi sforzi. Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, l'individuo si auto-svaluta e s'incolpa, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l’inibizione della sua azione. E senza azione non c'è rivoluzione! 10. Conoscere gli individui meglio di quanto loro stessi si conoscono. Negli ultimi 50 anni, i rapidi progressi della scienza hanno generato

un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e quelle possedute e utilizzate dalle èlite dominanti. Grazie alla biologia, la neurobiologia, c la psicologia applicata, il “sistema” ha goduto di una conoscenza avanzata dell'essere umano, sia nella sua forma fisica sia psichica. Il sistema è riuscito a conoscere meglio l'individuo comune di quanto egli stesso si conosca. Questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un controllo maggiore e un gran potere sugli individui, maggiore di quello che lo stesso individuo esercita su sc stesso».

4.7. Propaganda imperial-nazista? «È ovvio che la gente non vuole la guerra. Perché mai un povero contadino dovrebbe voler rischiare la pelle in guerra, quando il vantaggio maggiore che può trarne è quello di tornare a casa rutto intero? Certo, la gente comune non vuole la guerra: né in Russia, né in Inghilterra c ncanche in Germania. È scontato. Ma, dopo tutto, sono i capi che decidono la politica dei vari Stati e, sia che si tratti di democrazic, di dittature fasciste,

di parlamenti o di dittature comuniste, è sempre facile trascinarsi dietro il popolo. Che abbia voce 0 no, il popolo può essere sempre assoggettato

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al volere dei potenti. È facile. Basta dirgli che sta per essere attaccato e accusare i pacifisti di essere privi di spirito patriotrico e di voler esporre il proprio Paese al pericolo. Funziona sempre, in qualsiasi Paese». (Hermann Gòring, il numero 2 del Partito Nazista dopo Hitler)'°

«Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà

una verità». (Joseph Goebbels, ministro della Propaganda del Terzo Reich dal 1933 al 1945)!”

I princìpi che riportiamo sono una trasposizione italiana ridotta

del più ampio manifesto di propaganda prodotto da Goebbels!*, ma che ben esprime il senso: comunicazione unilaterale, martellante e con i paraocchi. Oggi verrebbe definita da molti come “populista”: «1. Principio della semplificazione e del nemico unico. È necessario adottare una sola idca, un unico simbolo. E, soprattutto, identificare l'avversario in un nemico, nell'unico responsabile di tutti i mali. 2. Principio del metodo del contagio. Riunire diversi avversari in una sola categoria o in un solo individuo. 3. Principio della trasposizione. Caricare sull’avversario i propri errori e difetti, rispondendo all’atracco con l’atracco. Se non puoi negare le cattive notizie, inventane di nuove per distrarre. 4. Principio dell’esagerazione c del travisamento. Trasformare qua-

lunque aneddoto, per piccolo che sia, in minaccia grave. 5. Principio della volgarizzazione. Tutta la propaganda deve essere popolare, adattando il suo livello al meno intelligente degli individui ai quali va diretta. Quanto più è grande la massa da convincere, più piccolo deve essere lo sforzo mentale da realizzare. La capacità ricettiva delle masse è limitata e la loro comprensione media scarsa, così come la loro memoria. 6. Principio di orchestrazione. La propaganda deve limitarsi a un piccolo numero di idee e ripeterle instancabilmente, presentarle sempre

sotto diverse prospettive, ma convergendo sempre sullo stesso concetto. Senza dubbi o incertezze. Da qui proviene anche la frase: “Una menzogna ripetuta all'infinito diventa la verità”.

'‘*Wikipedia, Hermann Gòring.

!” Ibidem. "*L. W. Doob, Goebbels' Principles of Propaganda, "Ihe Public Opinion Quarterly, vol. 14, n. 3, Oxford University Press on behalf of che American Association for Public Opinion Research, autunno 1950, pp. 419-442. Qui si è fatto riferimento ad una adeguata sintesi in italiano, intitolata / principi della propaganda di Goebbels da non seguire.

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7. Principio del continuo rinnovamento. Occorre emettere costantemente informazioni e argomenti nuovi (anche non strettamente pertinenti) a un tale ritmo che, quando l'avversario risponda, il pubblico sia

già interessato ad altre cose. Le risposte dell'avversario non devono mai avere la possibilità di fermare il livello crescente delle accuse. 8. Principio della verosimiglianza. Costruire argomenti fittizi a partire da fonti diverse, attraverso i cosiddetti palloni sonda, o attraverso informazioni frammentarie.

9. Principio del silenziamento. Passare sotto silenzio le domande sulle quali non ci sono argomenti e dissimulare le notizie che favoriscono l'avversario. 10. Principio della trasfusione. Come regola generale, la propaganda opera sempre a partire da un substrato precedente, si tratti di una mitologia nazionale o un complesso di odi e pregiudizi tradizionali. Si tratta di diffondere argomenti che possano mettere le radici in atteggiamenti primitivi. 11. Principio dell’unanimità. Portare la gente a credere che le opinioni espresse siano condivise da tutti, creando una falsa impressione di unanimità».

Leggendo questi principi si pensa alla dittatura mediatica,

eppure sono tuttora usati da molti. Le tattiche mediatiche di propaganda fondate sulla menzogna utilizzate dai nazisti sono le stesse utilizzare oggi dall’imperialismo occidentale, sia per influenzare le idee politiche delle masse sia per sponsorizzare i famosi marchi delle multinazionali con pubblicità martellanti.

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5.I mass-media al servizio

dell’imperialismo guerrafondaio

«L'ignoranza delle masse popolari nel campo della politica estera è as-

sai più diffusa che nel campo della politica interna. Il “segreto” delle relazioni diplomatiche è accuratamente osservato anche nei Paesi capitalistici più liberi, nelle repubbliche più democratiche. L'inganno delle masse popolari è magistralmente elaborato per quanto riguarda gli “affari” della politica estera e crea le peggiori difficoltà alla nostra rivoluzione. Milioni di copie di giornali borghesi diffondono dappertutto il veleno dell'inganno». (Vladimir Lenin, Za politica estera della Rivoluzione russa, 14 (27) giugno 1917)" Partiamo dalla conclusione di un articolo (che meriterebbe let-

tura integrale) di James F. Tracy?: «La condizione socio-politica attuale e la soppressione della democrazia popolare sono trionfi delle moderne tecniche di propaganda». 5.1. La fabbrica del falso nella storia più recente La realtà storica degli ultimi decenni ci dice che di fronte alla

crescita di importanza dell’opinione pubblica e alla sua refrattarietà a legittimare interventi militari ingiustificati, ogni tipo di intervento imperialista guerrafondaio è stato preceduto da una accurata campa-

gna di disinformazione guidata dal potere politico e portata avanti da media compiacenti. Michel Collon è un giornalista belga che si è

'V. Lenin, Opere Complete, vol. XXV (giugno-settembre 1917), Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 77. 2]. E ‘Tracy, War, Media Propaganda and the Police State, Global Research.ca, 29 settembre 2014.

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occupato molto della rematica. Nel 2011, ragionando sulle modalità con cui i media occidentali hanno “documentato” le più recenti guerre portate avanti dai Paesi occidentali, Collon® ha identificato queste

quattro regole basilari della guerra di propaganda: «1. Nascondere gli interessi. I nostri governi si battono per i diritti umani, la pace o qualche altro nobile ideale. Non presentare mai la guer-

ra come un conflitto tra opposti interessi sociali ed economici. 2. Demonizzare. Per ottenere il sostegno dell'opinione pubblica, ogni guerra va preparata attraverso una menzogna mediatica spettacolare. Poi bisogna continuare a demonizzare l'avversario soprattutto reiterando immagini di atrocità. 3. Tacitare la Storia! Nascondere la storia e la geografia della regio-

ne rende incomprensibili i conflitti locali, scatenati ed alimentati dalle grandi potenze stesse. 4. Organizzare l’amnesia. Evitare di rammentare precedenti gravi manipolazione dei media, che renderebbero il pubblico troppo sospettoso».

Sempre lo stesso Collon‘ nel 2008 aveva fatto un piccolo inventario di alcuni casi recenti del secondo Novecento che testimoniano come alla base di un intervento imperialista ci sia sempre stata una preparazione dell'opinione pubblica per mezzo di false notizie. Pren-

diamo spunto per presentare alcuni casi in formato sintetico, mentre ad altri più recenti daremo un rilievo maggiore: «Vietnam (1964-1975)

Menzogna mediatica: il 2 c il 3 agosto il Vietnam del Nord ha attaccato due imbarcazioni statunitensi nel Golfo del Tonchino.

Ciò che abbiamo saputo in seguiro: l’artacco non è mai esistito. È stato un'invenzione della Casa Bianca. Obiettivo reale: impedire l’indipendenza del Vietnam e mantenere la dominazione statunitense sulla regione. Conseguenze: milioni di vituime, malformazioni genetiche (agente arancio), enormi problemi sociali. Granada (1983)

Menzogna mediatica: si accusa la piccola isola dei Caraibi di costruire una base militare sovietica c di mettere in pericolo la vita di medici statunitensi.

* M. Collon, Le regole della propaganda di guerra, Michelcollon.info, 22 marzo 2011.

‘M. Collon, 10 guerre, 10 menzogne mediatiche. Piccolo inventario della disinformazione, Michelcollon.info, 15 maggio 2008.

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Ciò che abbiamo saputo in seguito: totalmente falso. Il presidente Reagan ha costruito il pretesto da cima a fondo. Obiettivo reale: impedire le riforme sociali e democratiche del Primo Ministro Bishop (che è stato assassinato).

Conseguenze: repressione brutale c ristabilimento dell'influenza di Washington. Panama (1989)

Menzogna mediatica: l'invasione aveva come pretesto la cattura del presidente Noriega per traffico di droga. Ciò che abbiamo saputo in seguito: Noricga era un prodotto della CIA ma reclamava la sovranità del canale al momento della cessazione della concessione agli USA. Intollerabile per gli Stati Uniti.

Obiettivo reale: conservare il controllo starunitense su questa via di comunicazione strategica. Conseguenze: i bombardamenti statunitensi hanno ucciso tra i 2.000 e i 4.000 civili, ignorati dai mezzi di comunicazione. [...] Somalia (1993)

Menzogna mediatica: Kouchner “sale sulla scena” come eroe di un intervento umanitario.

Ciò che abbiamo saputo in seguito: quattro società statunitensi avevano comperato un quarto del sottosuolo somalo, ricco di petrolio. Obiettivo reale: controllare una regione militarmente strategica. Conseguenze: non riuscendo a controllarla, gli Stati Uniti sottoporranno la regione ad un caos interminabile».

5.2. 1989: Romania, Cecoslovacchia e Cina

Concentriamoci ora con maggiore meticolosità a confermare l'assunto espresso nel precedente capitolo, analizzando alcune

vicende paradigmatiche della storia contemporanea (e del sociali-

smo reale), che mostrano bene l’importanza decisiva del controllo dell’informazione per scatenare quelle che oggi vengono chiamate

“rivoluzioni colorate”. Riportiamo un lungo ma fondamentale testo di Losurdo? a tal riguardo:

°D. Losurdo, L'industria della menzogna quale parte integrante della macchina di guerra dell'imperialismo, Domenicolosurdo.blogspot.it, 4 settembre 2013. AI testo sono stati modificati i sottotitoli. Il testo rermina alla fine di “2003: la seconda guerra del golfo”.

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«Nella storia dell'industria della menzogna quale parte integrante dell'apparato industriale-militare dell’imperialismo il 1989 è un anno di svolta. Nicolae Ceausescu è ancora al potere in Romania. Come rovesciarlo? I mass media occidentali diffondono in modo massiccio tra la popolazione romena le informazioni e le immagini del “genocidio” consumato a Timisoara dalla polizia per l'appunto di Ceausescu. Cos'era avvenuto in realtà? Avvalendosi dell'analisi di Debord relativa alla “società

dello spettacolo”, un illustre filosofo italiano (Giorgio Agamben) ha sinrerizzato in modo magistrale la vicenda di cui qui si tratta: “Per Za prima volta nella storia dell'umanità, dei cadaveri appena sepolti o allineati sui tavoli delle morgues {degli obitori] sono stati dissepolti in fretta e torturati

per simulare davanti alle telecamere il genocidio che doveva legittimare il nuovo regime. Ciò che tutto il mondo vedeva in diretta come la verità vera sugli schermi televisivi, era l'assoluta non-verità; e, benché la falsificazione fosse a tratti evidente, essa era tuttavia autentificata come vera dal sistema

mondiale dei media, perché fosse chiaro che il vero non era ormai che un momento del movimento necessario del falso. Così verità e falsità diventavano

indiscernibili e lo spettacolo si legirtimava unicamente mediante lo spettacolo. Timisoara è, in questo senso, l'Auschwitz della società dello spettacolo: e come è stato detto che, dopo Auschwitz, è impossibile scrivere e pensare come prima, così, dopo Timisoara, non sarà più possibile guardare uno schermo televisivo nello stesso modo” |...].

Il 1989 è l’anno in cui il passaggio dalla società dello spettacolo allo spettacolo come tecnica di guerra si manifestava su scala planetaria. Alcune settimane prima del colpo di Stato ovvero della “rivoluzione da Cinecittà” in Romania

[...], il 17 novembre

1989 la “rivoluzione

di velluto” vrionfava a Praga agitando una parola d’ordine gandhiana:

“Amore e Verità”. In realtà, un ruolo decisivo svolgeva la diffusione della notizia falsa secondo cui uno studente era stato “bruza/mente ucciso” dalla polizia. A vent'anni di distanza lo rivela, compiaciuto, “un giornalista e leader della dissidenza, Jan Urban”, protagonista della manipolazione: la

sua “menzogna” aveva avuto il merito di suscitare l'indignazione di massa e il crollo di un regime già pericolante [...].

Qualcosa di simile avviene in Cina: l°8 aprile 1989 Hu Yaobang, segretario del PCC sino al gennaio di due anni prima, viene colto da infarto nel corso di una riunione dell'Ufficio Politico e muore una setti-

mana dopo. Dalla folla di piazza Tienanmen il suo decesso viene collegato al duro conflitto politico emerso anche nel corso di quella riunione

[...]; in qualche modo egli diviene la vittima del sistema che si tratta di rovesciare. In tutti e tre i casi, l'invenzione e la denuncia di un crimine sono chiamate a suscitare l’ondata di indignazione di cui il movimento di rivolta ha bisogno. Sc consegue il pieno successo in Cecoslovacchia e Romania (dove il regime socialista aveva fatto seguito all'avanzata dell’Armata Rossa), questa strategia fallisce nella Repubblica popolare

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cinese scaturita da una grande rivoluzione nazionale e sociale. Ed ecco

che tale fallimento diviene il punto di partenza di una nuova ec più massiccia guerra mediatica, che è scatenata da una superpotenza la quale non tollera rivali o potenziali rivali e che è tuttora in pieno svolgimento. Resta fermo che a definire la svolta storica è in primo luogo Timisoara,

“l'Auschuwitz della società dello spettacolo” ».

5.3. 1991: la Guerra del Golfo Proseguiamo con Losurdo: «Due anni dopo, nel 1991, interveniva la prima guerra del Golfo. Un coraggioso giornalista statunitense ha chiarito in che modo si è verificata “/a vittoria del Pentagono sui media” ovvero la “colossale disfatta dei media a opera del governo degli Stati Uniti”. Nel 1991 la situazione non era facile per il Pentagono (e per la Casa Bianca). Si trattava di convincere

della necessità della guerra un popolo su cui pesava ancora il ricordo del Vietnam. E allora? Accorgimenti vari riducono drasticamente la possibilità per i giornalisti di parlare direttamente coi soldati o di riferire direttamente dal fronte. Nella misura del possibile rutto dev'essere filtrato: il puzzo della morte e soprattutto il sangue, le sofferenze e le lacrime della

popolazione civile non devono fare irruzione nelle case dei cittadini degli USA (e degli abitanti del mondo intero) come ai tempi della guerra del Vietnam. Ma il problema centrale e di più difficile soluzione è un altro: in che modo demonizzare l'Iraq di Saddam Hussein, che ancora qualche

anno prima si era reso benemerito, agli occhi degli USA, aggredendo l’Iran scaturito dalla rivoluzione islamica e antiamericana del 1979 e incline a far proseliti nel Medio Oriente. La demonizzazione sarebbe risultata tanto più efficace se al tempo

stesso si fosse resa angelica la vittima. Operazione tutt'altro che agevole, e non solo per il fatto che dura o impietosa era in Kuwait la repressione di ogni forma di opposizione. C'era qualcosa di peggio. A svolgere i lavori più umili erano gli emigrati, sottoposti a una “schiavità di fatto”, e a una schiavitù di fatto che assumeva spesso forme sadiche: non suscitavano particolare emozione i casi di “serbi scaraventati giù dal terrazzo, bruciati o accecati o picchiati a morte”. E, tuttavia... Generosamente o favolosamente ricompensata, un'agenzia pubblicitaria trovava un rimedio a tutto. Essa denunciava il fatto che i soldati iracheni tagliavano le “orecchie” ai kuwaitiani che resistevano. Ma il colpo di teatro di questa campagna era un altro: gli invasori avevano fatto irruzione in un ospedale “rimzuo-

vendo 312 neonati dalle loro incubatrici e lasciandoli morire sul freddo pavimento dell'ospedale di Kuwait City” [...]. Sbandicrara ripetutamente dal presidente Bush sr., ribadita dal Congresso, avallata dalla stampa più

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autorevole e persino da Amnesty International, questa notizia così orripilante ma anche così circostanziata da indicare con assoluta precisione il numero dei morti, non poteva non provocare una travolgente ondata di indignazione: Saddam era il nuovo Hitler, la guerra contro di lui era non solo necessaria ma anche urgente e coloro che a essa si opponevano o recalcitravano erano da considerare quali complici più o meno consapevoli del nuovo Hitler! La notizia era ovviamente un'invenzione sapientemente prodotta e

diffusa, ma proprio per questo l'agenzia pubblicitaria aveva ben meritato il suo denaro. La ricostruzione di questa vicenda è contenuta in un capitolo del libro qui citato dal titolo calzante: Reclamizzare i neonati (Selling Babies). Per la verità, a essere “reclamizzati” non furono soltanto i neonati. Proprio agli inizi delle operazioni belliche veniva diffusa in tutto il mondo l’immagine di un cormorano che affogava nel petrolio sgorgante dai pozzi fatti saltare dall'Iraq. Verità o manipolazione? A provocare la catastrofe ecologica era stato Saddam? È ci sono realmente cormorani in

quella regione del globo e in quella stagione dell’anno? L'ondata dell’indignazione, autentica e sapientemente manipolata, travolgeva le ultime resistenze razionali».

5.4. 1999: la distruzione della Jugoslavia Ancora Losurdo: «Facciamo un ulteriore salto in avanti di alcuni anni e giungiamo così alla dissoluzione o piuttosto, allo smembramento della Jugoslavia. Contro la Serbia, che storicamente era stata la protagonista del processo di unificazione di questo Paese multietnico, nei mesi che precedono i bombardamenti veri e propri si scatenano una dopo l’altra ondate di bombar-

damenti multimediali. Nell'agosto del 1998, un giornalista americano e uno tedesco “riferiscono dell'esistenza di fosse comuni con 500 cadaveri di albanesi tra cui 430 bambini nei pressi di Orahovac, dove si è duramente

combattuto. La notizia è ripresa da altri giornali occidentali con grande rilievo. Ma è tutto falso, come dimostra una missione d'osservazione della UF° [...]. Non per questo la fabbrica del falso entrava in crisi. Agli inizi del 1999 i media occidentali cominciavano a tempestare l'opinione pubblica internazionale con le foto di cadaveri ammassati al fondo di un dirupo e talvolta decapitati e mutilati; le didascalie e gli articoli che accompagnavano tali immagini proclamavano che si trattava di civili albanesi inermi massacrati dai serbi. Sennonché: “I massacro di Racak è raccapricciante,

© Ibidem.

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con mutilazioni e teste mozzate. È una scena ideale per suscitare lo sdegno dell'opinione pubblica internazionale. Qualcosa appare strano nelle modalità dell'eccidio. | serbi abitualmente uccidono senza procedere a mutilazioni [...f. Come la guerra di Bosnia insegna, le denunce di efferatezze sui corpi,

segni di torture, decapitazioni, sono una diffusa arma di propaganda [.../. Forse non i serbi ma i guerriglieri albanesi hanno mutilato i corpî” [...]. O, forse, i cadaveri delle vittime di uno degli innumerevoli scontri tra gruppi armati erano stati sottoposti a un successivo trattamento, in

modo da far credere a un'esecuzione a freddo e a uno scatenamento di furia bestiale, di cui era immediatamente accusato il Paese che la NATO si apprestava a bombardare [...]. La messa in scena di Racak era solo l'apice di una campagna di disinformazione ostinata e spietata. Qualche anno prima, il bombardamento del mercato di Sarajevo aveva consentito alla NATO di ergersi a suprema istanza morale, che non poteva permettersi di lasciare impunite le “atrocità” serbe. Ai giorni nostri si può leggere persino

sul Corriere della Sera che “fu una bomba di assai dubbia paternità a fare strage nel mercato di Sarajevo facendo scattare l'intervento NATO" [...]. Con questo precedente alle spalle, Racak ci appare oggi come una sorta di ricdizione di l'imisoara, una riedizione prolungarasi per alcuni anni. E, tuttavia, anche in questo caso il successo non mancava. L'illustre filosofo che nel 1990 aveva denunciato “l'Auschwitz della società dello spettacolo” verificatasi a Timisoara cinque anni dopo si accodava al coro dominante, tuonando in modo manicheo contro “5 repentino slittamento delle classi dirigenti ex comuniste nel razzismo più estremo (come in Serbia, col programma di ‘pulizia etnica)” [...]. Dopo aver acutamente analizzato la tragica indiscernibilità

di “verità e falsità” nell'ambito della società dello spettacolo, egli finiva col confermarla involontariamente, accogliendo in modo sbrigativo la versione (ovvero la propaganda di guerra) diffusa dal “sistema mondiale

dei media”, da manipolazione; del movimento egli si limitava

lui precedentemente additato come fonte principale della dopo aver denunciato la riduzione del “vero” a “momento necessario del falso”, operata dalla società dello spettacolo, a conferire una parvenza di profondità filosofica a questo

“vero” ridotto per l'appunto a “momento del movimento necessario del falso”. Per un altro verso, un elemento della guerra contro la Jugoslavia, più che a ‘l'imisoara, ci riconduce alla prima guerra del Golfo. È il ruolo

svolto dalle public relations: “Milosevic è un uomo schivo, non ama la pubblicità, non ama mostrarsi 0 tenere discorsi in pubblico. Sembra che alle prime avvisaglie di disgregazione della Jugoslavia, la Ruder&Finn,

com-

pagnia di pubbliche relazioni che stava lavorando per il Kuwait nel 1991,

gli si presentasse offrendo i suoi servizi. Fu congedata. Ruder&Finn venne assunta invece immediatamente dalla Croazia, dai musulmani di Bosnia e dagli albanesi del Kosovo per 17 milioni di dollari all'anno, per proteggere e incentivare l'immagine dei tre gruppi. E fece un ottimo lavoro! James Harf, direttore di Ruder&Finn Global Public Affairs, in un'intervista [...] affer-

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mava: Abbiamo potuto far coincidere nell'opinione pubblica serbi e nazisti [...J. Noi siamo dei professionisti. abbiamo un lavoro da fare e lo facciamo. Non siamo pagati per fare la morale” (Toschi Marazzani Visconti 1999)»”.

5.5. 2003: la seconda Guerra del Golfo Ecco infine come Losurdo affronta la guerra irachena:

«Veniamo ora alla seconda guerra del Golfo: nei primi giorni del febbraio 2003 il segretario di Stato USA, Colin Powell, mostrava alla

platea del Consiglio di Sicurezza dell'ONU le immagini dei laboratori mobili per la produzione di armi chimiche e biologiche, di cui l’Iraq sarebbe stato in possesso. Qualche tempo dopo, il Primo Ministro inglese, Tony Blair, rincarava la dose: non solo Saddam aveva quelle armi, ma

aveva già elaborato piani per usarle ed era in grado di attivarle “in 45 minuti”. È di nuovo lo spettacolo, più ancora che preludio alla guerra, costituiva il primo atto di guerra, mettendo in guardia contro un nemico di cui il genere umano doveva assolutamente sbarazzarsi. Ma l’arsenale delle armi della menzogna messe in atto o pronte per l’uso andava ben

oltre. AI fine di “screditare il leader iracheno agli occhi del suo stesso popolo” la CIA si proponeva di “diffondere a Baghdad un filmato in cui veniva rivelato che Saddam era gay. Il video avrebbe dovuto mostrare il dittatore iracheno mentre faceva sesso con un ragazzo. Doveva sembrare ripreso da una telecamera nascosta, come se si trattasse di una registrazione clandestina”. A essere studiata era anche “l'ipotesi di interrompere le trasmissioni della

televisione irachena con una finta edizione straordinaria del telegiornale contenente l'annuncio che Saddam aveva dato le dimissioni e che tutto il potere era stato preso dal suo temuto e odiato figlio Uday"»*.

È interessante a tal riguardo aggiungere quanto ha scritto John

Newsinger?, professore di Storia alla Bath Spa University: «a seguito dell’invasione anglo-americana, l'Iraq è diventato sul serio la cabina di pilotaggio di varie attività rerroristiche, nonché un potente simbolo utile per attirare appoggi e simpatie ad al-Qaida. Gli attentati

? Ibidem. 8Ibidem. °J. Newsinger, // libro nero dell'impero britannico, Maut — 21 Editore, Paler-

mo, 2014, pp. 313-314.

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del luglio 2005 a Londra, ad esempio, furono concepiti in risposta all'invasione dell’Iraq e non avrebbero avuto luogo sc non fosse stato per la partecipazione di Blair alla guerra americana. [...] tutte le guerre coloniali

si fondano su bugie. Chi è più forte può giustificare le proprie guerre di aggressione ai danni di chi è più debole mentendo riguardo alla minaccia

costituita da quest'ultimo, oppure in merito all'entità degli olcraggi subìti, come avvenne per gli attacchi alla Cina nel 1842 e nel 1857, alla Birmania nel 1852 e all'Egitto nel 1882. L'invasione di Suez del 1956 fornisce un esempio eclatante di mendacità ufficiale. Davvero sorprendente, in

effetti sbalorditivo, sarebbe stato se i governi di Bush c Blair non avessero mentito! L'amministrazione Bush prese la decisione di invadere l'Iraq all’inizio del 2002 c Blairsi impegnò in favore dell’attacco nell’aprile dello stesso anno. Una volta impegnatosi in tal senso, tutte le azioni successive di Blair furono volte a convincere l'opinione pubblica che Saddam Hussen costituiva un pericolo imminente, che era lui il vero aggressore e che quella sarebbe stata una guerra per la democrazia. Se insistette affinché Bush cercasse l'approvazione dell'Onu fu per ragioni interne: per puntellare il sostegno di cui già godeva, ben sapendo che gli americani avrebbero invaso l'Iraq a prescindere e che le truppe britanniche avrchbero combattuto al loro fianco. Gli ormai famigerati dossier, quello del

settembre 2002 intitolato Le armi di distruzione di massa dell'Iraq e quello del febbraio 2003 intitolato /rag: i suoi strumenti di copertura, menzogna e intimidazione, furono dei cinici tentativi di manipolazione dell'opinione pubblica e di... intimidazione — ebbene sì! — dei parlamentari laburisti. Il fatto è che, sc l'Iraq avesse davvero avuto le armi di distruzione di massa del cui possesso era accusato, non ci sarebbe stata nessuna invasione».

Ancora, a sottolineare il “sottile” controllo mediatico da parte del regime: «Il 29 maggio del 2003, dopo che l'Iraq era già stato occupato, il programma della Bbc “Today” mandò in onda un servizio del giornalista Andrew Gilligan, che rivelava come Alistair Campbell avesse “reso più sexy” — in altri parole, notevolmente abbellito — il famoso dossier del sctcembre 2002. Era lo scoop del decennio, ma finì con il costare il posto a Gilligan; si dimisero dalla Bbc sia Greg Dyke (direttore generale) che Gavyn Davies (presidente del consiglio di amministrazione); e lo scienziato

governativo David Kelly si suicidò [...]. Scrive Dyke nelle sue memorie: “Campbell aveva trasformato Downing Street in un posto simile alla Casa Bianca ai tempi di Nixon, nel senso che o eri con loro oppure contro di loro. Se li contrastavi su qualsiasi cosa diventavi il nemico"»"°.

"Ivi, pp. 315-316.

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5.6. 2011: la devastazione della Libia

Per raccontare le bugie messe in atto nel caso libico ci appoggiamo ad un articolo di Vladimiro Giacché!', che nel 2012 ha pubblicato La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea, un libro dedicato al tema qui trattato. Leggiamo cosa ci ricorda Giacché su come sia stata legittimata la campagna interventista: «La verità viene mutilata quando nel trattare di un evento non si fa menzione del contesto in cui si colloca, delle circostanze, di ciò che gli sta attorno. O, semplicemente, la si racconta a metà [...]. Nel caso libico esi-

ste un episodio [...] si tratta della famosa foto che il 22 febbraio i media di tutto il mondo hanno rilanciato con grande evidenza sotto il nome di “fosse comuni in Libia”. Quello che la foto riprende è in realtà un normale cimitero in cui si stanno preparando alcune tombe singole, ma gli scatti che hanno fatto il giro del mondo non consentono di capirlo. Ma c'è di più: come ha rivelato il giornalista Rai Amedeo Ricucci, le stesse foro erano già stare messe in rete mesi fa. Lo stesso Ricucci a questo proposito

ha raccontato un episodio interessante. Il caporedattore di un'importante

agenzia di stampa italiana, accortosi della bufala, ha farro presente al suo direttore che si trattava di foto vecchie. La risposta del direttore è stata: “[questa notizia] gli altri la danno, non possiamo bucare”. Questo meccanismo è tutt'altro che nuovo. Il 26 e 30 maggio 2004, il New York Times fece autocritica sull’atteggiamento tenuto nei confronti della guerra in Iraq, ammettendo — in un editoriale firmato dalla direzione del quotidiano € poi in un articolo del garante dei lettori — che alcuni articoli “n0n erano stati rigorosi a sufficienza”, e si erano giovati di fonti “discuribili”. Di più: il quotidiano ammise che la copertura offerta era stata un fallimento

“non individuale ma istituzionale”: un “fallimento” fatto anche di titoli strillati in prima con notizie false. In quel contesto il New York Times fece riferimento anche all’“ansia di scoop”, quale movente che avrebbe indotto a pubblicare notizie senza verificarne in misura adeguata l’artendibilità. Anche Franck de Veck (ex direttore del settimanale tedesco Die Zeit)

ha attribuito una parte della colpa delle notizie false pubblicate nel caso iracheno alla necessità per i giornali di decidere rapidamente cosa mettere

in pagina: “meglio un'opinione, anche non suffragata da prove, che nessuna”. Lo stesso è avvenuto nei primi giorni dei disordini in Libia. Se tutti i giornali aprono sui 10.000 morti in Libia, notizia lanciata dalla televisione

saudita Al-Arabiya il 24 febbraio e assolutamente inverificabile, io — giornali-

"VW. Giacchè, La fabbrica del falso e la guerra in Libia, Resistenze.org, 14 maggio 2015.

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sta della redazione x — che faccio? “rendo un buco” o la metto anch'io? Da un punto di vista di etica dell’informazione, la scelta dovrebbe essere ovvia: non la metto. In pratica succede quasi sempre il contrario: perché il fatto che tutti mettano una notizia non verificata mi copre se risulterà non vera. E in effetti,

la notizia in questione si è rivelata falsa, come false erano le generalità dei presunti funzionari della Corte Penale Internazionale che ne sarebbero stati la fonte. Ma ha contribuito a creare il clima psicologico per predisporre l’opinione pubblica occidentale alla decisione di effertuare un intervento militare in

Libia. Lo stesso vale per l’episodio raccontato da Ricucci, con l'aggravante — in quel caso — che la verifica cera stata fatta e aveva daro csito negativo. Il mosaico delle verità dimezzate (le presunte atrocità commesse dai soldati di Gheddafi, mentre ovviamente i soldati lcalisti ammazzati o umiliati dai rivoltosi della Cirenaica non vengono mostrati, o — quando lo sono — vengono etichettati come “mercenari”) e delle pure e semplici falsità finisce per comporre una più generale verità messa in scena. Una rivolta tribale è trasformata in rivoluzione democratica, gli scontri armati tra ribelli e truppe regolari sono trasformati in “genocidio” ad opera di queste ultime (memorabili alcuni vitoli in prima del Fatto Quotidiano), c un personaggio come Gheddafi si trasforma, da un giorno all’altro, da affidabile partner d'affari a una via di mezzo tra Adolf Hider e Idi Amin Dada; ovviamente, in parallelo alla demonizzazione del dittatore, c'è l’idealizzazione degli insorti, che attinge vette di notevole lirismo. Lo prova tra gli altri un titolo di Repubblica del 23 marzo: “Al fronte in sella a una Kawasaki i sorridenti guerrieri della rivoluzione”; con tanto di sottotitolo

rock: “Un inno ispirato a Jim Morrison per l'esercito della nuova Libia”. Il messaggio sottinteso di questa ridicola propaganda di guerra: loro sono come noi, Gheddafi e i suoi sono dei barbari o — come purc è stato detto — “beduini”».

5.7.2013: I nazisti al potere in Ucraina Per quanto riguarda il caso ucraino tutto ha inizio sul finire del 2013. Il presidente ucraino Yanukovich e il suo governo si trovano ad un bivio, dovendo sostanzialmente scegliere la direzione strategica da far prendere al proprio Paese: da una parte l'integrazione con l’Unione Europea, dall’altra la collaborazione storica con la Russia. Tra il 30

novembre e il 17 dicembre Yanukovich rifiuta la proposta europea, impostata sostanzialmente sulle ricette tipicamente liberiste, e accoglie invece l'accordo con Putin, più vantaggioso economicamente!?.

!° A. Mazzone, La Russia batte l'Europa e si compra l'Ucraina, Panorama (web), 18 dicembre 2013.

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Apriti cielo. Yanukovich viene dipinto immediatamente come un dittatore che si oppone ai diritti, alla libertà e alla democrazia garan-

titi dall'Unione Europea. Yanukovich sicuramente non è Lenin né un santo, ma è quantomeno difficile detinirlo dittatore, in quanto regolarmente eletto nelle elezioni del 2010, riconosciute dall’OCSE

come «elezioni trasparenti»!?. Godendo di una maggioranza strut-

turara in particolare sul consenso delle regioni orientali (quelle più “russofone”) governa un Paese cercando di mantenere una posizione di equilibrio tra UE e Russia, sfruttando pragmaticamente la rivalità crescente tra le due aree geopolitiche per trarne il massimo vantaggio economico; è ben consapevole, inoltre, della difficoltà di poter orientare nettamente in una precisa direzione strategica un Paese

spaccato in due non solo politicamente ma anche culturalmente (ad ovest gli ucraini simpatizzanti della Tyrmoshenko, ad est le componenti russe e/o filorusse). La decisione di rimanere sotto l’alveo di Mosca porta all’esplosione di alcune manifestazioni di protesta (ribattezzate Euromaidan) che i nostri media hanno subito presentato come non-violente, popolari, di massa e diffuse in tutta Ucraina. Mobilitazioni che sarebbero state ingiustificatamente represse con

la forza e con l’utilizzo dei cecchini... In realtà tali manifestazioni degenerano spesso e volentieri nella truce violenza", il che comporta

inevitabilmente una reazione delle forze dell'ordine. In esse emerge

con forza il ruolo giocato dai nazifascisti (in particolar modo dai partiti Svoboda e Pravy Sector, descritti come i corrispondenti ideologici degli italiani Forza Nuova e CasaPound), che caratterizzano

i movimenti in chiave esplicitamente anticomunista, contro il ruolo

di pacificazione giocato dal Partito Comunista Ucraino. Le proteste inoltre sono localizzate principalmente nell’ovest del Paese, ossia

nella zona ucraina più filo-occidentale che aveva dato la maggioranza relativa alla Tymoshenko. Per quanto riguarda i cecchini è altamente probabile che fossero in realtà paramilitari di Euromaidan. Tale sconcertante verità emerge infatti dall’intercettazione di un dialogo tra Catherine Ashton, Alto Rappresentante per la Politica Estera e

Autore Ignoto, Ucraina, Yanukovich vince di misura. L'Osce: “Elezioni trasparenti”, La Repubblica (web), 8 febbraio 2010.

!4 P. Sorbello, Ucraina: violenza sulla piazza, L'Indro, 23 gennaio 2014.

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Difesa dell'UE, e Urmas Paet, ministro degli esteri dell’Estonia'?. Fu insomma architettata una strategia della rensione per far ricadere le

colpe sul governo e screditarlo agli occhi dell'opinione pubblica e del mondo intero. Un inganno che sul momento è servito a simpatizzare

per la causa degli “oppressi” ma che ha avuto il prezzo carissimo di 94 morti e oltre 900 feriti. La strategia funziona perfettamente, tanto che i media possono

alfine esultare per la cacciata del «dittatore» e per «l'avvento della democrazia», omettendo però di ricordare che in questo clima di tensione, la fuga di Yanukovich (avvenuta il 22 febbraio 2014) avviene senza aver dato dimissioni formali, ranto da rendere problematico

definire il cambio di governo successivo come legittimo. In questi casi c'è chi parla di rivoluzione e chi di golpe. Difficile però parlare

di rivoluzione per un governo che vede tra i suoi membri oligarchi e nazifascisti, favorendo una repressione di massa dei comunisti (fino

alla loro completa messa fuorilegge)!® e agli ebrei!” mentre si discute di togliere diritti e autonomie alle regioni in cui la maggioranza demografica è composta dalle popolazioni russe. Proprio queste regioni sono quelle che decidono di opporsi più duramente al nuovo

regime, avviando inizialmente pratiche pacifiche ed istituzionali. È il caso del referendum secessionista della Crimea, svoltosi il 16 marzo 2014 e giudicato subito come illegittimo, anzi come una manovra imperialista di Putin, condannato come aggressore, terro-

rista e dittatore che bisogna punire al più presto con sanzioni severe.

C'è da chiedersi come un giorno si possa parlare di rivoluzione e il giorno dopo condannare come antidemocratico un referendum che ha visto un'affluenza del 90% della popolazione e che ha dato come responso un 96% favorevole al ritorno della regione alla Russia. Si

'° G. Masini, Kiev, ecco la telefonata choc che scredita il nuovo governo. Chi ha pagato i cecchini?, Il Giornale (web), 5 marzo 2014. ‘© R. Allertz (a cura di), Avviate in Ucraina le procedure per la messa al bando dei comunisti, Marx21.it, 24 luglio 2014. !AC-Solidarité Internationale PCE, Le associazioni ebraiche ucraine denunciano le azioni antisemite dei manifestanti di estrema destra “filo-europei”, Mar21.it, 11 febbraio 2014; per un ulteriore riscontro su un sito più “ncutro” si veda Autore Ignoto, Ucraina, attacco a una sinagoga sul Mar Nero. Scoppia un incendio, è il secondo attacco a un tempio ebraico, Il Messaggero (web), 20 aprile 2014.

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parla di ritorno perché la Crimea è storicamente una regione russa, donata da Chrustév alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina nel

1954. Non c'è dubbio, però, che a pesare nella scelta del popolo di Crimea siano stare anche considerazioni materiali e ideali: promesse

di miglioramenti dei salari e delle pensioni, di introduzione del TFR e di garanzia della tutela della regione come Stato laico, multietnico,

multireligioso e antifascista. Tutto il contrario insomma di quel che offre il governo degli oligarchi ucraini. Stimolati dall’esempio della Crimea, presto si ribellano anche le regioni del Donbass, segnando

la nascita delle Repubbliche Popolari di Donetsk e di Lugansk (successivamente riunitesi nell'Unione delle Repubbliche Popolari di

Novorossija)! sostenute da un moto di resistenza popolare in cui i comunisti sono in prima linea (tra loro anche il comandante Moz-

govoj, che verrà ucciso il 23 maggio 2015), riuscendo a far approvare anche importanti richiami filosovietici nelle Costituzioni provvisorie che vengono adottare. In questo contesto è innegabile che Putin abbia manovrato diplomaticamente e militarmente per favorire e fomentare tali rivolte. È normale, d’altronde, che non potesse accettare

passivamente un colpo di Stato teso ad introdurre a pochi chilometri

da Mosca un governo comprendente membri nazisti e totalmente asservito all'UE e alla NATO. Chomsky ha spiegato perfettamente il concetto: è come se il Patto di Varsavia fosse stato allargato al Sud America e fosse oggi in trattativa con Messico e Canada. Come rea-

girebbero gli USA? Ne consegue una guerra cruenta dovuta alla volontà del nuovo governo ucraino di prevenire successivi atti secessionisti. I nostri media si guardano bene però dal descrivere nel derraglio il sanguinoso

conflitto, attribuendo violenze bipartisan anche ad atti di particolare ferocia su cui la responsabilità è fin da subito chiara. Il caso più clamoroso è l’efferato massacro di Odessa del 2 maggio 2014”, nel

quale muore anche il giovane comunista Vadim Papura (diventato un

'*A. Benajam, Cost la “Novorossija”?, 11 settembre 2014. Autore Ignoto, Chomsky: “L'Ucraina nella Nato? Come se il Patto di Varsavia si fosse allargato a Canada e Messico”, L'Antidiplomatico, 16 aprile 2015. 20 Si veda a riguardo D. Scalea, La strage di Odessa e la stampa italiana: censura di guerra?, Huffington Post (web), 5 luglio 2014 e L. ‘l'irinnanzi, La strage di Odessa

e le ipocrisie dell'Occidente, Panorama (web), 9 maggio 2014.

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simbolo della repressione)?! di cui sono disponibili svariate immagini

sul web che mostrano la crudeltà sadica degli assassini nazifascisti. Non mancano testimonianze sul fatto che i maggiori crimini siano stati compiuti dalle forze dell’esercito ucraino che non hanno esitato

ad utilizzare bombe cluster, fosforo bianco e truppe paramilitari naziste. Violenze tali che non sono mancati molteplici casi di insubordinazione e diserzione di massa tra i soldati ucraini, incapaci di

capire il senso del conflitto??. È stato dato ampio risalto mediatico all’interventismo di Putin e della Russia nelle vicende militari, oltre che in quelle politiche, su

tutta la guerra civile ucraina. Si è parlato molto meno però dell’in-

terventismo occidentale su rutra la vicenda, nonché delle pesanti responsabilità dell'UE e degli USA per quanto riguarda l’inasprimento del conflitto. Eppure, fin dall’inizio, le manifestazioni di Euromaidan

sono state fomentate e incentivate dalla presenza attiva a Kiev di vari statisti occidentali, tra cui spicca la presenza del senatore repubblicano statunitense Joseph McCain, più volte sul palco insieme a Oleh Tyahnybok, leader della formazione neonazista Svoboda. Victoria

Nuland, portavoce del Dipartimento di Stato USA, ha presenziato a diversi incontri con esponenti politici golpisti. Non sono mancate posizioni di sostegno ai golpisti da parte del presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz”, seguito a ruota anche da Mario Pittella, capogruppo parlamentare dell'Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici (eletto tra le file del PD). Questo interventismo politico incondizionato affonda le radici su una preparazione meticolosa del golpe durata anni. È stato accertato che le “squadracce” neonaziste che hanno imperversato a Kiev sono state addestrate nei campi NATO dell'Estonia almeno dal 2006. La già citata Victoria

Noland dichiarò pubblicamente già nel dicembre 2013 che gli USA

2! Partito Comunista di Ucraina, Vadim Papura, giovane comunista vittima del massacro fascista di Odessa, Marx21.it, 6 maggio 2014. 2 1. Tirinnanzi, Diserzioni nell'esercito ucraino, in 400 sconfinano in Russia, Panorama (web), 5 agosto 2014.

25. Pieranni, Schule: «Sì, trattiamo anche con Svoboda», Il Manifesto (web), 27 febbraio 2014. " Rete Voltaire, / manifestanti di Maidan addestrati dalla NATO nel 2006, Voltairenet.org, 7 febbraio 2014.

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avevano investito 5 miliardi di dollari nelle vicende ucraine”. A chiudere i sospetti e a dare garanzie di verità è un'intercettazione rivelata da Wikileaks che conferma come il golpe sia stato orchestrato almeno dal 2010. In una telefonata Viktor Pynzenyk (ex ministro delle

finanze e ora parlamentare membro del partito Oudar che fa capo a Vitali Klitschko) spiegava all’ambasciatore americano la lunga serie di misure antisociali (privatizzazioni, riforme pensioni, aumento

prezzi risorse energetiche, diminuzione Stato sociale, ecc.) che erano disponibili a concedere per l'ingresso nell’UE?6. 5.8. Il caso dell’Osservatorio Siriano peri Diritti Umani Finora abbiamo analizzato una serie di dati che mostrano il tasso

di concentrazione e il pericolo solo potenziale per il livello politico. Mostriamo ora un caso palese in cui tale intreccio perverso tra con-

trollo mass-mediatico e potere politico va a braccetto con le esigenze dell’imperialismo: è il caso della Siria dell’epoca del governo di Bashar al-Assad (salito al potere nel 2000), ed in particolar modo dal 2011, quando una serie di manifestazioni ha iniziato a degenerare in una sostanziale guerra civile in cui il settore dei “ribelli” è stato presto egemonizzato dai settori integralisti islamici. Tutte le notizie che per

anni sono arrivate su crimini e stragi perpetrati in Siria dal governo di al-Assad sono state riportate a gran voce dai nostri media, ben consci

che la provenienza fosse l’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani. Cos'è davvero questo ente? In realtà la domanda è mal posta, perché

dovremmo chiederci chi è questo Osservatorio. Non si tratta infatti di un'organizzazione indipendente composta da reporter liberi che informano il mondo sulla situazione siriana, ma di una singola persona che

vive a Coventry, cittadina inglese a nord-ovest di Londra. In pratica tutte le informazioni targate Osservatorio Siriano dei Diritti Umani

che giungono alle redazioni estere dei giornali arrivano non dalla Siria, ma dall’ufficio del signor Rami Abdel Raman, che dice di avvalersi di

25 (3. Rossi, Gli Usa dinanzi alla crisi ucraina: le gaffe di Victoria Nuland, il realismo di Henry Kissinger, Secolo d'Italia (web), 18 marzo 2014. 2% Wikileaks, Former Tymoshenko insider calls her destructive, wants her out of

power, Wikilcaks.org, 24 febbraio 2010. 108

almeno quattro collaboratori. Versione tra l’altro sostenuta anche dal New York Times. Un uomo comunque ben informato sulla situazione, nonostante viva in Inghilterra? Talmente tanto da doversi celare per

sicurezza dietro uno pseudonimo, visto che il suo vero nome è Osama Suleiman, fuggito dalla Siria nel 2000 dopo l’arresto di due sodali

legati alla Fratellanza Musulmana, accusati di attività contro lo Staro. E proprio il New York Times rivela che la casa in cui vive il signor Suleiman è una gentile concessione del Governo di Londra. Lo stesso quotidiano americano, pur sostenendo la bontà delle informazioni

fatte circolare dall’Osservatorio, sostiene poi che a finanziarne le attività sarebbe proprio uno «Stato europeo». Chissà quale visto dove vive e considerato che il 21 novembre 2011 Suleiman viene immortalato mentre lascia il Ministero degli Affari Esteri e del Commonwealth. Il portavoce del ministero russo degli esteri, Alexander Lukashevich, per rimarcare l'autorevolezza del personaggio, lo ha definito «uz

uomo con nessuna formazione di diritto internazionale né di giornalismo». D'altronde quando il giornalista Nimrod Kamren si recò a trovarlo per

Russia Today nella sua abitazione di Coventry, lo trovò in un negozio vicino e alla richiesta di delucidazioni sull’Osservatorio da lui diretto si

sentì rispondere: «0 sono un'organizzazione mediatica. lo lavoro da casa mia, la mia casa privata». Notare il singolare: «non sono». Nel 2014, poi, il quotidiano francese Le Monde pubblica un articolo dal titolo La credi-

bilità perduta di Rami Abdel-Rabman, direttore dell'Osservatorio siriano dei Diritti dell'Uomo. Un titolo che rivela come Raman, alias Suleiman,

non goda di grande considerazione neppure tra gli oppositori al governo di Assad. Ecco quanto riporta il portale Difesa Online sull’Osservatorio: «non è una ONG qualunque, ma un'enigmatica organizzazione con sede a Londra, divenuta rapidamente l’unico portavoce ascoltato in Oc-

cidente dei report di guerra siriani. Il suo leader, Rami Abdel Rhaman, è indicato dal governo siriano come attivista dell'opposizione, mentre fonti non verificate alludono esplicitamente a collaborazioni con servizi occidentali (inglesi). Lo scopo sarebbe screditare agli occhi dell'opinione pubblica mondiale il governo di Damasco, agendo magari in previsione di una futura iniziativa giudiziale penale internazionale contro le sue figure politiche di rilievo». Il risultato è stato screditare scientificamente un governo al fine di delegittimarlo e farlo cadere con ogni mezzo. Ciononostante il 3

giugno 2014 Bashar al-Assad è stato rieletto, sostenuto dal Partito 109

Bath, Presidente della Siria con 10.319.723 voti (1°88,7%) per un terzo mandato di 7 anni. Il governo siriano ha sottolineato come l'affluenza, limitata solo alle aree in mano ai governativi, sia stata da record sia nel Paese sia all’estero, con voto regolare in ogni città siriana, mentre per USA e CNS si sarebbe trattato di una «farsa costruita nel sangue», accusando gli altri candidati di essere dei «burattini» di Assad. Il voto è stato riconosciuto da 30 Stati tra cui Russia, Sudafrica, Brasile, India, Venezuela, Cuba e Iran legitrtimando in ambito internazionale l'elezione di Assad””.

5.9. I giornalisti al servizio dell'imperialismo

Per trarre una conclusione da quanto detto finora ci sembra interessante riportare un piccolo grande classico, un articolo di Pierro Secchia del 19508 che mostra come certe modalità di “disinformazione” sistematica da parte dell’imperialismo fossero già ben chiare per i comunisti dell’epoca: «Non da oggi la stampa è un potente strumento di cui si serve la classe dominante per mantenere la sua dittatura. Il grande capitale non

domina solo con le banche, i monopoli, il potere finanziario, il tribunale e la polizia, ma con i mezzi quasi illimitati della sua propaganda e della corruzione ideologica. Mai, però, come oggi il malcostume della stampa

capitalista si è manifestato in forme così volgari e abiette. Vi fu un'epoca, agli inizi dell'età moderna, fino alle rivoluzioni del secolo XVIII in cui,

come ebbe a scrivere Lenin, la lotta per la libertà di stampa ebbe la sua grandezza perché cra la parola d’ordine della democrazia progressiva in lotta contro le monarchie assolute, il feudalesimo e la Chiesa. Ma nella fase di decadenza del capitalismo la stampa conservatrice e reazionaria ha perduto ogni senso morale e ogni pudore. Il giornalismo al servizio dei gruppi imperialisti è una forma corrente di prostituzione. Il capitalismo in putrefazione ha bisogno per reggersi di mentire continuamente. La re-

? Fonti usate: Autore Ignoto, Berlino: “L'Osservatorio siriano dei diritti umani

non è sul campo, è a Londra. Tutto quello che dice non riflette la verità”, L'Antidiplomazico, 5 aprile 2017; . Carlucci, Osservatorio siriano dei diritti umani: sma-

scherato l'imbroglio finanziato dalla UE, Mondialisation.ca, 18 aprile 2013; S. Caputo, L'Osservatorio Siriano per i Dirimi Umani è un'impostura che ha sede a Landra, Il Giornale (web), 28 ottobre 2015; Wikipedia, Bashar al-Assad.

2 P. Secchia, / crociati della menzogna, Rinascita, n. 8-9, 1950.

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altà lo accusa: dunque deve essere falsificara. La fabbrica della menzogna è diventata arte, tecnica, norma di vita. Non si deve sottovalutare il pericolo rappresentato dalla propaganda e dalle menzogne del nemico. La menzogna, anche la più grossolana riesce sempre, soprattutto quando è insistentemente ripetuta, a ingannare una parte dell'opinione pubblica. La ripetizione sino all’abbrutimento su quasi tutti i giornali e alla radio della stessa notizia falsa, riesce quasi sempre a disorientare, a creare confusione, a falsare il giudizio non solo degli ingenui, ma anche di molte persone di spirito. Quanti, ad esempio, il 25 giugno [...] e dopo, hanno finito per credere che i corcani del Nord

avessero aggredito i coreani del sud! Non l’hanno detto e ripetuto ogni giorno, ogni ora con esasperante monotonia la radio e il 90 per cento dei giornali? Ciò che è stampato, nero su bianco, ha sempre agli occhi del grande pubblico un valore di verità. Questa tecnica della menzogna ereditata dall’hitlerismo e dal fascismo è merodicamente applicata e monopolizzata dalla propaganda americana. La stampa è diventata, nei Paesi del Patro atlantico, un'industria di montaggio con produzione standardizzata. I remi ideologici arrivano dall'America assieme ai carri armati: si tratta della parte ideologica del piano Marshall. Veramente non so sc si possa parlare di ideologia, giacché non si tratta mai di argomentazione seria, ma di disinformazione, di propaganda subdola che non tende a convincere i più intelligenti, ma che ha lo scopo dichiarato di conquistare la parte più arretrata, di influire sulla parte meno esperta del pubblico e di soddisfare i gusti più bassi. l'utta la “propaganda” organizzata in tutti i Pacsi capitalisti dell'imperialismo americano o dalle sue agenzie è un cumulo di menzogne. Basta dare uno sguardo alla stampa dei vari Pacsi per accorgersi che gli stessi temi vengono trattati in Inghilterra, in Francia, in Italia, in Belgio, che le stesse parole d'ordine, gli stessi slogan vengono lanciati dappertutto contemporancamente. Ultima c più recente, la crociata della verità è stata iniziata da ‘Truman e condotta per suo ordine in tutti i Paesi legati dal Parto atlantico. In Italia come in Inghilterra, come in Francia viene condotta la stessa campagna, sugli stessi temi, nella stessa forma, con gli stessi argomenti, con eguali parole: quinte colonne, traditori della patria, ecc. ecc. Gli scioperi vengono presentati come sabotaggio, le lotte sociali come complotti, l'opposizione alla politica di guerra come tradimento [...]. Nel campo dell’azione ideologica c propagandistica gli imperialisti americani agiscono in Italia direttamente e indirettamente senza risparmio di mezzi: direttamente con l'invio in Italia di una abbondante letteratura che va dal quotidiano, al settimanale, al rotocalco, al romanzo a fumetti, ai giornaletti per fanciulli, alle edizioni italiane del Reader Digest, del Life, del New Week, del Time, cce.; indirettamente col

progressivo accaparramento pel tramite del partito clericale dominante, di tutta la stampa italiana. Milioni di italiani che ogni giorno leggono

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Il Messaggero, Il Corriere della Sera, Il Giornale d'Italia, La Stampa, Il Tempo, ecc., ignorano che tutte le notizie provenienti dal mondo intero e pubblicate su questi giornali vengono confezionate nelle cucine di Hearst e degli altri agenti dell’imperialismo americano. Attualmente si pubblicano in Italia 105 quotidiani dei quali 50 di partito o cosiddetti politici e il rimanente chiamati comunemente “indipendenti” o di “informazione” nonostante la loro smaccata faziosità [...]. I quotidiani democratici non

sono più di quindici [...]. Subito dopo la liberazione la situazione era molto più favorevole per la stampa democratica, ma progressivamente il grande capitale italiano c americano, per mezzo del partito dominante, delle banche e di alcune imprese editoriali è venuto impossessandosi della grande maggioranza dei giornali decidendo della loro vita e della loro morte. Il Corriere della Sera è tornato ai Crespi, /{ Messaggero di Roma

e Il Secolo XIX appartengono ai Fratelli Perrone, /{ Tempo ad Angiolillo

cd a Campilli, 7! Giornale d'Italia alla Banca dell'Agricoltura c al conte Armenise, La Stampa alla Fiat, // Risorgimento, Il Roma e Il Mattino di Napoli all'armatore Lauro e al Banco di Napoli, la Gazzetta del Popolo alla società Idroelettrica Piemonte, // Corriere Lombardo all’industriale Cella, // Gazzettino di Venezia già del conte Volpi di Misurata al senatore Mentasti e così via. La libertà di stampa sancita dall’art. 21 della Costituzione, tende così a diventare una beffa. Quale libertà di stampa vi può essere in un Paese dove la grande maggioranza dei giornali sono proprietà

monopolistica del partito clericale, del Vaticano e dei grandi industriali dei quali esprimono la politica e gli interessi?».

5.10. Libertà di stampa negli USA: il caso di Seymour Hersh Possibile, d’altronde, che tutti i giornalisti siano venduti o conniventi con questa “fabbrica del falso”? Proponiamo un esempio illustre di come faccia l'imperialismo a mantenere il controllo mediatico

anche in presenza di coraggiosi dissenzienti che rifiutino la versione ufficiale. Leggiamo, attraverso uno spezzone di articolo di Zoltan Zigedy??, del caso del giornalista statunitense Seymour Hersh: «ha vinto ben più di una dozzina dei più prestigiosi premi giornalistici degli Stati Uniti, tra cui il Pulitzer e cinque premi Polk. Responsabile delle rivelazioni sulle atrocità di My Lai e Abu Ghraib, Hersh è stato inserito dal 2013 nella lista nera dell’editoria Usa. I suoi resoconti della guerra siriana e dell'assassinio di Osama Bin Laden per mano statuni-

Z.. Zigedy, Giornalisti o cortigiani?, Resistenze.org, 21 gennaio 2016.

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rense, sono stati pubblicati all’estero nella London Review of Books, dal momento che il suo precedente editore, Ye New Yorker, e altre restare degli Stati Uniti rifiutarono di accettarli. Sorprendentemente nessuna tra

le associazioni e organizzazioni giornalistiche o sostenitori della “libertà di stampa” ha levato un segno di protesta contro questo ostracismo verso uno dei suoi più stimati colleghi. Appaiono regolarmente sul New York Review of Books o come annunci a pagamento sul New York Times, lettere di protesta collettiva sulla presunta repressione dei media nei Paesi socialisti o nei Paesi critici verso la politica degli Stati Uniti; eppure questi

stessi giornalisti indignati, esperti e accademici restano in assordante silenzio quando si tratta di Seymour Hersh. Ancora più scandalosa è la mancanza di qualsiasi serio sforzo da parte della stampa di confermare o confutare le affermazioni di Hersh. La sua contro informazione sulla morte di Bin Laden in contrasto con quella ufficiale dell’amministrazione Obama, ben pubblicizzata e opportunista a un livello imbarazzante,

potrebbe essere facilmente valutata seguendo i fili del ragionamento di Hersh. Invece, la stampa ha intervistato un manipolo di funzionari di governo e sostenitori di Obama e ha lasciato intatta la versione ufficiale. Ancora più eclatanti, da alcune indagini indipendenti di Hersh sul gas sarin, affiorano clementi che suggeriscono fortemente come possa aver ragione nell’imputare la gasificazione di civili ad alleati degli Stati Uniti nella crociata anti-Assad. Sia l'agenzia delle Nazioni Unite che una commissione turca hanno contestato le affermazioni sensazionali di questa

presunta barbarie del governo siriano, argomentazione usata dagli Stati Uniti per pretendere un cambiamento di regime. Tuttavia, nessun gran-

de mezzo di comunicazione degli Stati Uniti ne ha parlato: un affronto vergognoso all’integrità giornalistica».

Un affronto aggravato dal tentativo di sottrarre ogni tipo di valore e integrità professionale a Hersh, attraverso una sistematica

denigrazione poggiante su accuse di incompetenza, complottismo e altre affermazioni tese a screditarne l’operato?”. Sotto accusa è so-

prattutto la sua versione alternativa della morte di Bin Laden. Cosa diceva Hersh a riguardo? Secondo Hersh l’intelligence pachistana aveva catturato Bin Laden fin dal 2006 e lo teneva nascosto ad Abbottabad, non lontano dall’accademia militare, con la complicità e il sostegno del governo saudita, per usarlo come arma di ricatto in

* Ne è un esempio l'articolo di /nternazionale firmato dal vice-direttore: J. Zanchini, // passo falso di Seymour Hersh sull’uccisione di Bin Laden, Internazionale (web), 13 maggio 2015.

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negoziati futuri. Ma quando un alto ufficiale pachistano ha rivelato agli statunitensi la verità su Bin Laden, il governo di Islamabad ha

proposto a Washington un accordo: voi organizzate un finto blitz per uccidere il capo di AI Qaeda e noi faremo finta di nulla. In cambio, l'’amministrazione Obama avrebbe dato al Pakistan più aiuti militari e un ruolo politico maggiore nel futuro dell'Afghanistan. Il non detto in questo discorso è che gli USA avrebbero avuto ancora anni (Bin

Laden venne ufficialmente ucciso il 2011) per giustificare la propria presenza militare in Afghanistan e Iraq.

6. Leelogio dell'ignoranza e la distruzione della cultura

«Sc non state arrenti, i media vi faranno odiare le persone che ven-

gono oppresse c amare quelle che opprimono!» (Malcolm X)' «La gente, efficacemente manipolata ed organizzata, è libera: ignoranza, impotenza ed eteronomia introietrata costituiscono il prezzo della sua libertà». (Herbert Marcuse)?

Che l'ignoranza del popolo sia una delle condizioni migliori per il prosperare dei potenti è storia vecchia quanto l'umanità. Tale problema, quanto meno in Occidente, si credeva però risolto con l'avvento del libero accesso all’istruzione di massa. In realtà non basta saper leggere e scrivere per sfuggire all’ignoranza e acquisire una cul-

tura minima capace di trasformare un individuo in un consapevole cittadino. Sempre più si parla invece del fenomeno dell’analfabetismo funzionale. Simona Mineo, ricercatrice per l’INAPP (“Istituto Na-

zionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche”; ex ISFOL) spiega che «chi è analfabeta funzionale non è incapace di leggere ma, pur essendo in

grado di capire testi molto semplici, non riesce a elaborarne e utilizzarne le informazioni»>. Parliamo quindi di competenze abbastanza basiche,

come capire da cima a fondo un articolo di giornale. La cosa più

inquietante è che a questo livello il discorso non riguarda la libertà

' Citato in A. Haley, Ze Auzobiography of Malcolm X, Ballantine Books, New York, 1999, p. 67. 2 H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, ‘Torino, 1974, Prefazione politica.

® E. Murgese, Analfabeti funzionali, il dramma italiano: chi sono e perché il nostro Paese è tra i peggiori, L'Espresso (web), 21 marzo 2017.

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di espressione, ma uno stadio molto basso di possibilità cognitiva. I rapporti realizzati dall’OCSE parlano di una percentuale della popo-

lazione affetta da tali problemi assai elevata. In Italia si parla di circa il 30%, anche se secondo il celebre linguista Tullio De Mauro, che scriveva nel 2014 ragionando complessivamente sul tema dell’anal-

faberismo di ritorno, «solo il 30 per cento degli adulti ha un rapporto sufficiente con lettura, scrittura e calcolo. Gli altri si muovono solo in un orizzonte ristretto, subendo quel che succede senza saper capire e reagiro»!. Una buona parte del Paese è insomma impossibilitata a farsi un'idea completa di un frammento di testo scritto. Gran parte del

Paese è incapace di verificare una notizia risalendo alle fonti tramite un motore di ricerca. Siamo abituati a indignarci per la carenza di alfabetizzazione dei Paesi meno sviluppati, ma la verità è che il pro-

blema dell’analfaberismo cresce e si evolve di pari passo anche in Occidente. Il problema non riguarda infatti solo l’Italia, ma percentuali comunque elevate (dal 10% al 25%) si riscontrano anche in altri Pa-

esi “sviluppati”. Di fronte a tali cifre il discorso sul potere mediatico

fatto in precedenza acquista maggiore peso e rilevanza e il cerchio si chiude. In questa situazione l’istruzione pubblica, gratuita e libera, resta uno dei baluardi fondamentali da difendere e rinsaldare, ben consapevoli che il suo solo mantenimento è insufficiente per invertire

la rotta, ma diventa condizione assolutamente necessaria come punto di partenza. L'attacco all'istruzione pubblica appare quindi come uno dei grimaldelli fondamentali per favorire l'acquisizione da parte della maggioranza della popolazione di un’alfaberizzazione basica e tecnica ma non “critica”, non capace cioè di cogliere le contraddizioni di un messaggio mediatico o politico complesso. Per dirla in termini più semplici: un analfabeta funzionale farà certamente ancora più farica a comprendere le questioni della politica estera e sarà molto

più propenso ad accogliere la versione ufficiale proposta, oppure a disinteressarsi roralmente della questione. Non c’è da stupirsi se la

diffusione dell’analfaberismo funzionale faccia quindi comodo alle classi dominanti e all'imperialismo. Un popolo che non è in grado

di interagire con la società dell’informazione è un popolo eccellente

4. Palisi, «Così gli italiani ridiventano somari». Tullio De Mauro spiega l'analfabetismo di ritorno: «Regrediamo se il cervello non si allena», Il Mattino (web), 29 maggio 2014.

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da prendere in giro. Un'ipotesi del genere è già srara farra in passato d’altronde, e non da un bolscevico, bensì da un Padre costituente della Repubblica italiana.

6.1. Ipotesi su come distruggere la scuola pubblica Tale Padre costituente è Piero Calamandrei, che nel 1950° ragionava così sul tema: «Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuole fare la marcia su Roma c trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sorto il fascismo c'è stata. Allora il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le

scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. T.ascia che si anemizzino c comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Fd allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori, si dice, di quelle di Stato. È magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole privare. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le

scuole di Stato per dare prevalenza alle scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi, ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non

° P. Calamandrei,

Discorso al III congresso dell’Associazione Difesa

Scuola Nazionale, 11 febbraio 1950, Roma.

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hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burletre.

Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico».

6.2. Le ragioni di classe della distruzione della scuola pubblica Restiamo sempre sul contesto italiano e dopo il testo di Cala-

mandrei leggiamo questo estratto da un’opera di Domenico Losurdo risalente al 19945;

«Sc negli anni della Prima Repubblica e tanto più in quelli dell’odiata “contestazione”, le parole d'ordine relative alla scuola erano mobilità sociale, uguaglianza di chances, sapere critico, ora esse sembrano essersi rovesciate nel loro contrario: adattamento all’esistente, mercato del lavo-

ro, riproduzione delle disuguaglianze sociali. Il finanziamento pubblico della scuola privata che, in spregio alla Costituzione, sembra profilarsi e che comunque non si è ancora realizzato solo per difficoltà di bilancio, tale finanziamento va allora ben al di là del tentativo di cattura degli ambienti cattolici: esso sta a significare la cancellazione anche formale di

uno spazio pubblico di uguaglianza sottratto al mercato (finora legittimato a intervenire soltanto nella fase successiva, quella dell'inserimento nel mondo del lavoro), la cancellazione di uno spazio a cui si accede in virtù di un diritto di cui già il bambino è titolare. Dal diritto soggettivo del bambino a una scuola che gli procuri l'uguaglianza di chances e il sapere necessario ai suoi compiti di cittadino l’accento ora si sposta al diritto della famiglia di scegliere liberamente la scuola che preferisce, a

seconda delle proprie preferenze ideologiche e delle proprie possibilità finanziarie: è il doppio trionfo del mercato, chiamato a determinare il contenuto dell'istruzione in base alle esigenze dell'industria e legittimato a determinare sin dall’inizio, e senza infingimenti, la collocazione sociale

di ogni individuo. La figura del cittadino viene totalmente sostituita prima da quella del consumatore di servizi scolastici (che, sia chiaro,

verranno offerti sul mercato non solo dalla Chiesa, ma anche, c in misura crescente, dall'industria c dalla ricchezza privata) e del venditore della sua mano d’opera o “mente d'opera” poi. [...]. In Mandeville [filosofo liberale di inizio ‘700] possiamo leggere: “Il benessere e la felicità di ogni Stato e di ogni regno richiedono che le conoscenze di un lavoratore povero siano ristrette nei limiti del suo lavoro e non

6 D. Losurdo, La seconda Repubblica. Liberismo, federalismo, postfascismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1994, pp. 33-36.

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travalichino mai (almeno per quanto riguarda le cose concrete) il confine di ciò che interessa la sua occupazione. Quante più cose del mondo e di ciò che è estraneo al proprio lavoro 0 impiego conosce un pastore, un aratore o qualsiasi

altro contadino, tanto meno sarà adatto a sopportare le fatiche e le durezze del proprio lavoro con gioia e soddisfazione”, e cioè tanto più sarà, per

usare il linguaggio odierno, “disadattato”. Certo, l’impetuoso sviluppo della rivoluzione industriale e tecnologica esige “zz4n0 d'opera” c “menti d'opera” con una qualificazione nettamente superiore rispetto al passato,

e tuttavia la scuola continua a essere pensata a partire dalle medesime preoccupazioni di stabilità sociale e di riproduzione delle esistenti differenze di classe (fatta salva, sintende, la possibilità per la classe dominante

di cooptare gli individui più capaci delle classi subalterne). Secondo Mandeville, l'equilibrio della società esige che i “poveri laboriosi” rimangano “ignoranti di tutto ciò che non riguarda direttamente il loro lavoro”. La diffusione dell’istruzione a livello popolare può solo stimolare un atteggiamento pretenzioso c ambizioso, minando il senso della tranquilla accettazione della propria condizione e del proprio destino di duro lavoro: “La conoscenza allarga e moltiplica î nostri desideri e quanto meno cose

un uomo desidera, tanto più facilmente si può provvedere alle sue necessità”». 6.3. Il sistema scolastico statunitense Si parla spesso del sistema scolastico statunitense come una

delle punte di eccellenza a livello mondiale. Ciò è vero solo per il suo settore privato, riservato alle classi economicamente privilegiate. Nel dettaglio tale è la situazione negli USA: «il prezzo medio di una laurea in un'università pubblica è 80.000 dollari. L'Insegnamento Superiore è un'autentica miniera d’oro per i banchieri. Praticamente tutti gli studenti hanno debiti astronomici, maggiorati dagli interessi, che richiedono in media 15 anni per essere saldati. In questo periodo, gli alunni si trasformano in servi delle banche e dei debiti, essendo spesso costretti a contrarre nuovi prestiti per pagare quelli vecchi. Tra il 1999 e il 2014, il debito totale degli studenti statunitensi ha raggiunto 1,5 trilioni di dollari, con un aumento vertiginoso del 500%».

Ciò spiega anche il profondo analfabetismo e l'ignoranza pre-

senti negli USA, dove pochi possono permettersi un'istruzione adeguara (la scuola pubblica infatti cade a pezzi, sostenuta da scarsissimi fondi). Il risultato è questo: «sono di più gli americani che credono nel diavolo di quelli che credono in Darwin. La maggioranza degli americani è scettica, almeno

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per quanto riguarda la teoria dell'evoluzione, a cui crede solo il 40% della popolazione. Mentre l’esistenza di Satana e dell'inferno risulta perfettamente plausibile per oltre il 60% degli americani»”. Ogni quattro anni il sistema “democratico” americano elegge

l’uomo più potente del mondo con questi presupposti. Non stupisce che la borghesia riesca a mantenere intatto il proprio dominio ingan-

nando facilmente il popolo. 6.4. Scuola borghese e scuola socialista

Riportiamo ora alcuni spunti provenienti dall’ABC del Comunismo® sulle differenze tra la scuola borghese e scuola socialista: «Nella società borghese la scuola persegue tre scopi principali: educare la giovane generazione dei lavoratori a uno spirito di devozione e di rispetto verso il regime capitalistico; preparare, fra la gioventù, delle

classi dirigenti di ammaestratori “istruiti” per il popolo lavoratore; servire la produzione capitalistica, utilizzando la scienza per perfezionare la tecnica industriale ed aumentare il profitto dei capitalisti [...]. Irinse-

gnamento nelle scuole primarie borghesi viene impartito seguendo un certo programma, conforme ai fini di “ammaestramento capitalistico”

degli allievi. Tutti i libri scolastici sono scritti nello stesso spirito. La borghesia si serve, con il medesimo fine, di tutta la letteratura borghese, opera di uomini che considerano il sistema capitalistico naturale, eterno e migliore di ogni altro possibile ed immaginabile sistema. Così gli allievi erano impercettibilmente impregnati di psicologia borghese e pieni di ammirazione per tutte le virtù borghesi, imbevuti di rispetto verso la ricchezza, la gloria cdi titoli onorifici, desiderosi di far carriera e bramosi di diventare dei bravi egoisti [...]. La società borghese persegue

il suo secondo scopo rendendo l’istruzione secondaria e quella superiore inaccessibile alle classi lavoratrici. Questa istruzione (soprattutto quella superiore) comporta grosse spese che gli operai non possono permettersi.

Gli insegnamenti secondari c superiori durano dicci anni e più e sono, anche per questa ragione, inaccessibili al lavoratore, obbligato per venire incontro ai bisogni della sua famiglia a mandare i propri figli ancora molto giovani in fabbrica o nei campi, o a farli lavorare in casa. Le scuole

? A. Santos, Dieci cose scioccanti che si devono sapere sugli Stati Uniti, Marx21. it, 21 aprile 2014.

N. Bucharin & Y. Preobrazenskij, L'A. BC. del Comunismo, cit., capp. 76-84.

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secondarie e superiori si trasformano, in realtà, in istituti d'istruzione

per la gioventù borghese. Quest'ultima viene qui preparata a prendere il posto dei genirori, sfruttatori, funzionari e tecnici dello Stato borghese.

L'insegnamento, in queste scuole, rivela netramente un carattere di classe. Se questo carattere non si manifesta in modo tanto esplicito nell’insegnamento della materia o delle scienze naturali, appare, invece, molto chiaramente in quello delle scienze sociali, proprio quelle che formano la mentalità degli alunni. L'economia politica viene insegnata alla maniera borghese, con mezzi perfezionati per confutare la dottrina economica di Karl Marx. Anche la sociologia e la storia sono impartite con uno spirito prettamente borghese. La storia del diritto è coronata dal diritto borghese, considera-

to il diritto naturale “dell’uomo e del cittadino”, ecc. Riassumendo, nelle scuole secondarie e superiori (lc Università) i figli della borghesia apprendono tutto ciò che è necessario alla società borghese per conservare il suo sistema di sfruttamento. Se, eccezionalmente, qualche figlio di lavoratore arriva all’Università, l'organismo sociale borghese lo distacca dalla sua classe originaria e gli somministra una psicologia borghese: così gli ingegni migliori dei lavoratori servono, in definitiva, ad opprimere la loro classe. Il suo terzo scopo la borghesia lo persegue in questo modo: in una società divisa in classi la scienza si allontana dal mondo del lavoro. Non solo essa è proprietà delle classi possidenti, ma diventa anche la professione di gruppi assai ristretti. L'insegnamento e le ricerche scientifiche sono nettamente scparati dal lavoro. Per applicare alla produzione i progressi della scienza, la società borghese è costretta a fondare istituti destinati ad urilizzare per la tecnica le scoperte scientifiche e le scuole tecniche che permettano di mantenere la produzione al livello del progresso della “scienza pura”, cioè separata dalla vita cconomica. I politecnici forniscono inoltre alla società capitalistica, non solo un personale tecnicamente istruito, ma anche dei sorveglianti e dei direttori della classe operaia. Per assicurare lo scambio dei prodotti, la borghesia crea anche delle scuole di commercio, degli istituti commerciali, ecc. Nella società comunista, gli istituti d’istruzione, legati alla produzione in generale, continueranno ad esistere. Ogni cosa che si collega alla produzione borghese dovrà fatalmente scomparire. Conserveremo tutto ciò che contribuisce allo sviluppo della scienza, c sopprimeremo tutto ciò che separa la scienza dal mondo del lavoro. Manterremo l'insegnamento tecnico, ma climi-

neremo ciò che lo divide dal lavoro manuale. Proteggeremo la scienza e svilupperemo la sua applicazione alla produzione, ma rimuoveremo gli ostacoli che il regime capitalistico innalzava, contro questa applicazione, quando la riteneva per lui svantaggiosa |...].

La società borghese considera il bambino come proprietà dei genitori. Quando i genitori dicono “mio figlio” o “mia figlia” essi non acrribuiscono a questa parola solo un senso familiare, ma vogliono esprimere anche

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il loro diritto d’educare i figli a proprio piacimento. Dal punto di vista socialista, questo diritto è infondato. Nessun essere è di per sé indipendente. Egli appartiene alla società, al genere umano. Solo grazie all'esistenza della

società ogni individuo può vivere e svilupparsi. Perciò il bambino non apparticne soltanto ai suoi genitori, ma anche alla società, grazie alla quale

può vivere. Quest'ultima possiede un diritto primordiale e fondamentale sull'educazione dei bambini. Bisogna dunque biasimare duramente ed climinare la pretesa dei genitori di servirsi dell'educazione familiare per trasmettere le proprie ristrette vedute ai loro figli. La società resta libera d’affidare l’educazione dei bambini ai genitori, ma quanto prima potrà intervenire essa stessa, tanto meno ci sarà bisogno di lasciare questo compito educativo ai genitori, dal momento che la capacità d’educare i figli è molto meno diffusa di quella necessaria per metterli al mondo. Su cento madri, una 0 due soltanto sono capaci d'essere delle buone educatrici. L'avvenire è dell'educazione sociale. Questo sistema educativo permetterà alla società

comunista di formare nel modo migliore la generazione fumira, con il minimo dispendio di tempo e d'energie. L'educazione sociale non è necessaria solo dal punto di vista pedagogico. Essa offre anche vantaggi economici. Centinaia, migliaia, milioni di madri saranno così disponibili per la produzione c potranno sviluppare la loro cultura personale. Verranno pure dispensate dal degradante lavoro domestico e dall’infinita quantità di

occupazioni che l’educazione familiare dei loro figli comporta. Per queste ragioni il potere sovietico intende creare tutta una serie di istituti destinati al continuo miglioramento dell'educazione sociale, che, poco a poco, verrà impartita in comune. Tali sono i giardini d’infanzia, dove danno i loro figli a specialisti dell'educazione prescolastica; i focolari (0 asili infantili), specie

di giardini d’infanzia, ma concepiti per un soggiorno più lungo; le colonie, dove vivono e sono educati i bambini separati per molto tempo, o per sempre, dai loro genitori. A questi bisogna aggiungere i nidi d'infanzia, cioè gli istituti in cui vengono educati i bambini fino all’età di quattro anni, o nei quali sono custoditi mentre i loro genitori si trovano al lavoro [...].

Gli istituti prescolastici sono creati per i bambini di età inferiore ai sette anni. Bisogna che l'educazione e l’istruzione siano entrambe impartite dalla scuola. L'istruzione dovrà essere obbligatoria, ciò rap-

presenta un enorme progresso rispetto all’epoca zarista; essa deve essere anche gratuita, costituendo così un notevole passo in avanti persino nei confronti dei Paesi borghesi più progrediti, dove solo l’istruzione primaria è gratuita. L'insegnamento deve, naturalmente, essere uguale per tutti: in tal modo verranno aboliti i privilegi di certi gruppi della popolazione in questo campo ed in quello dell'educazione. L'istruzione universale, uguale per tutti ed obbligatoria, deve essere impartita a tutta

la gioventù fra gli otto e i diciassette anni. Bisogna che la scuola sia unica. Ciò significa, in primo luogo, che si deve abolire la separazione per sesso.

Occorre poi climinare quella divisione della scuola in istituti superiori,

122

secondari c primari, i cui programmi non sono affatto adatti gli uni agli altri. È necessario sopprimere pure la distinzione fra istruzione generale ed istruzione professionale, la divisione in scuole accessibili a tutti e scuole riservate alle classi privilegiate. La scuola unica deve rappresentare un'unica scala che ogni allievo possa salire, cominciando dal gradino più basso, il giardino d’infanzia, per arrivare al più alto, l’Università. La cultura generale e l'istruzione scientifica saranno obbligatorie per tutti. È evidente che la scuola unica è l'ideale di ogni accorto pedagogista, essa rappresenta pure la sola scuola possibile nella società socialista, cioè in una società senza classi che miri al futuro [...]. La scuola della repubblica

socialista deve essere la scuola del lavoro, cioè il luogo dove l’insegnamento c l'educazione vengono collegati al lavoro e s'appoggiano ad esso. Ciò è importante per molte ragioni.

Innanzitutto, per la buona riuscita dell’insegnamento stesso. Il bambino apprende con più facilità, serietà e soddisfazione, non quello che gli viene esposto dal libro o dalle spiegazioni del maestro, ma ciò che acquisisce con la pratica del lavoro manuale. Si comprendono più facilmente le scienze naturali cercando di servirsi della natura circostante. Nelle scuole borghesi più moderne si è già cominciato a collegare l’insegnamento al lavoro, ma quest'opera non può essere portata a termine perché il regime borghese educa coscientemente degli elementi parassiti, e separa, secondo un principio insormontabile, il lavoro manuale da

quello intellettuale. Il lavoro manuale favorisce lo sviluppo fisico del bambino e quello intellettuale le sue attività mentali. È provato dall’esperienza che il tempo impiegato nel lavoro manuale all’interno della

scuola non riduce, ma al contrario accresce il progresso intellettuale dei bambini. Insomma, la scuola unica del lavoro rappresenta una realtà necessaria nella società comunista, dove ogni cittadino deve conoscere, almeno in modo elementare, mtre le professioni. In questa società non esisteranno

né corporazioni

chiuse,

né professioni

inaridite, né gruppi

dediti alla loro sola specializzazione. Anche lo scienziato più geniale deve essere, nello stesso tempo, un abile operaio. All’alunno che esce dalla scuola comunista del lavoro la società dice: “7 non sei costretto a diventare uno scienziato, ma hai il dovere d'essere un produttore”. Partendo dai giochi nel giardino d’infanzia, il bambino deve passare, poco a poco,

al lavoro, quasi fosse il naturale proseguimento dci suoi giochi, in modo d’abituarsi, fin dall'inizio, a non considerarlo una spiacevole necessità o una punizione, ma una manifestazione naturale e spontanea delle sue attitudini. Bisogna che il lavoro divenga un bisogno, come il bere 0 il mangiare. È necessario, dunque, che la scuola comunista diffonda e sviluppi questo bisogno [...].

Prescindendo dalla lotta contro l'ignoranza, è necessario che il popolo sovietico compia grandi sforzi per dare alla popolazione, soprattutto adulta, la possibilità d’istruirsi con i propri mezzi. Perciò si sono

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create biblioteche per soddisfare i bisogni del lettore operaio, vengono

organizzati dappertutto circoli popolari, case del popolo e club, e sono state fondate Università popolari. ll cinema, che sotto il regime borghese serve solo al erricchire i suoi proprietari e a demoralizzare le masse popolari, gradualmente si trasforma, benché, secondo noi, troppo lentamente, in un efficace strumento d'istruzione e d’educazione delle masse allo spirito socialista e materialista dialettico. Ogni

specie di corso gratuito è accessibile a tutti ed è, grazie alla diminuzione delle ore di lavoro, al servizio dei lavoratori. In futuro organizzeremo viaggi per i lavoratori durante le loro ferie, al fine di far loro conoscere il proprio Pacse e quelli stranieri. Questi viaggi avranno un valore educativo e rafforzeranno molto i legami fra i lavoratori di tutti i Paesi».

6.5. La riforma scolastica necessaria per creare menti critiche Nel tracciare alcune considerazioni su questo tema si può rimarca-

re che nella società occidentale odierna la prima necessità, per garantire un progresso umanista, sia quella di ridare centralità alle materie umanistiche e non soltanto a quelle tecniche. In una società borghese i progetti di alternanza scuola-lavoro, come ad esempio sono stati concepiti e realizzati recentemente in Italia, servono ad educare acriticamente le nuove generazioni a forme di lavoro manuale non specializzato, non

sindacalizzato e privo di diritti. Tali programmi servono dunque solo a perpetuare la divisione in classi della società, come emerge peraltro anche dai rapporti OCSE, i quali mostrano come tuttora la mobilità

sociale sia assai scarsa anche a causa della conformazione attuale del sistema scolastico”. Scopo dei comunisti, sia in un sistema capitalista sia in un sistema socialista, deve essere quello di favorire la crescita di un intellettuale collettivo. A tal fine è fondamentale l’insegnamento della disciplina che più di tutte riesce a favorire la costruzione di uno spirito critico: la filosofia. Non è un caso che la riforma Gentile prevedesse

che tale disciplina fosse riservata solo ai licei, mentre per gli altri livelli e tipologie di scuole bastassero i rudimenti della religione impartiti da insegnanti scelti dalla Chiesa cattolica. Una riforma essenziale diventa

quindi l'eliminazione completa dell’insegnamento della religione dalle scuole. Al suo posto occorre introdurre l'educazione civica e filosofica,

* G. De Michele, / rapporto OCSE,

Lavoroculturalc.org, aprile 2017.

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la scuola di classe è la società classista,

iniziando a presentare la disciplina filosofica per via tematica partendo dalle questioni etiche, economiche, politiche, sociali, culturali; tutte

le scuole secondarie di secondo grado dovrebbero infine prevedere lo stesso corso di filosofia. L'intera popolazione deve tendere non solo al superamento della distinzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, ma deve conquistare gli strumenti critici e analitici necessari per far progredire culturalmente se stessa e la società nel suo complesso. 6.6. I manuali scolastici della borghesia Un altro aspetto indispensabile dell’egemonia imperialista è la struttura dei manuali scolastici, sempre più improntati al ripristino di una concezione puramente borghese e filocapitalista, in particolar modo in ambito umanistico. Su questo fronte regna sovrano il revisionismo storico. Negli anni del secondo dopoguerra, in un clima

culturale fondato su un formale antifascismo organico, si poteva trovare un equilibrio nei manuali di testo, ed in particolar modo in

quelli di Storia. Oggi la sproporzione è invece evidente: il comunismo e l'URSS sono schiacciati in quasi tutti i manuali di Storia in

un capitolo dedicato ai totalitarismi, a fianco della Germania nazista e dell’Italia fascista. Gli argomenti e le informazioni aggiornate e più imparziali sulla storia sovietica risultano pressoché introvabili e rimangono di possibile trattazione solo nel caso in cui uno studente abbia la possibilità casuale di trovare un docente particolarmente acculturato o progressista. In mancanza di tale episodica condizione, milioni di studenti ogni anno imparano meccanicamente la nozione per la quale il comunismo e il socialismo siano state delle ideologie totalitarie, o tutt'al più delle belle utopie tradite da una serie di dege-

nerazioni violente e sanguinarie. La situazione non migliora neppure in ambito universitario. Seppure permangano facoltà e professori

capaci di andare controcorrente rispetto alla tendenza generale, la prassi è srata di far propria la visione promossa furbescamente da

Hannah Arendr. Le possibilità che gli studenti più acculturari possano conoscere altri approcci sono sistematicamente in questo caso dall’imposizione di testi universitari unico. In ambito economico è stata cancellata quasi la possibilità di studiare criticamente la disciplina in

ostacolate anche stampati a senso completamente maniera marxia-

na. In ambito filosofico, infine, il marxismo, che è arrivato ad essere

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(ed è tuttora, considerando la Cina) la filosofia dominante nel mon-

do per una percentuale variabile tra il 20% e il 30% della popolazione mondiale, viene ridotto ad uno studio semplificato e banalizzato di Marx, mentre assai raramente viene approfondito nei suoi sviluppi (Engels, Lenin, Gramsci, Mao, Stalin, la Scuola di Francoforte, ecc.).

In Italia il manuale scolastico di filosofia più usato è tuttora l’Abbagnano-Fornero, adottato dalla larga maggioranza degli insegnanti.

In rale manuale lo spazio concesso al marxismo è ridotto all’osso: allo sviluppo del marxismo nel ‘900 viene riservata quasi la medesima attenzione che agli sviluppi delle filosofie ebraiche o a quello di un pensatore cattolico reazionario come Jacques Mauritain. Un grande autore come Engels viene trattato in una paginetta, bistrattato come un dogmatico. Un genio come Paul Lafargue, autore di opere come

Il diritto all'ozio e La religione del Capitale, non viene neanche cirato marginalmente... Non ci sarebbe da stupirsi se in un futuro prossimo lo stesso Marx venisse rimosso dalle indicazioni ministeriali dei programmi dell’ultimo anno dei licei. Per prevenire ogni problema, infine, la tendenza è quella di ridurre le ore dedicate allo studio della Storia (passate anche in molti licei da 3 a 2 settimanali), tanto che

risulta spesso quasi impossibile riuscire ad andare oltre il periodo della Seconda guerra mondiale. In ambito filosofico vige più o meno

lo stesso discorso: la tendenza generale è quella di concentrarsi su pochi autori del XIX secolo (la gran parte dei quali reazionari: Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, Bergson) svolgendo pochissimo

il pensiero del XX secolo. Tale tendenza, constatabile empiricamente da qualsiasi studente italiano di un liceo, non è solo italiana. Negli ultimi anni, in polemica politica con la costruzione del canone filosofico dominante, un professore francese di storia e filosofia, Michel Onfray, ha realizzato una Controstoria della filosofia tesa a restituire

spazio a tutti quegli autori marerialisti, edonisti, libertari e rivoluzionari che sono stati sistematicamente cancellati o ridotti all'osso nella manualistica scolastica. La nostra epoca sta assistendo ad una siste-

matica cancellazione totale di un punto di vista radicalmente “altro” in ambito storico e filosofico. Ne è un esempio la difficoltà di trovare in commercio la Storia Universale dell’Accademia delle Scienze

dell'URSS, un lavoro imponente che ha ricevuto in passato le lodi di studiosi come Luciano Canfora, Franco Cardini, Giuseppe Galasso, Jacques le Goff e non solo. Si provi invece a rintracciare un manuale scolastico di storia o di filosofia di quelli usati in URSS. Introvabili. 126

7. La battaglia filosofica

«Dobbiamo comprendere che in mancanza di una base filosofica solida non vi sono scienze naturali né materialismo che possano resistere all’invadenza delle idee borghesi e alla rinascita della concezione borghese del mondo. Per sostenere questa lotta e condurla a buon fine

lo studioso di scienze naturali deve essere un materialista moderno, un sostenitore cosciente del materialismo rappresentato da Marx, vale a dire che deve essere un materialista dialettico. Per raggiungere questo obiettivo i collaboratori [...] debbono organizzare uno studio sistematico

della dialettica di Hegel dal punto di vista materialista, vale a dire della dialettica che Marx ha applicato praticamente nel suo Capitale e nei suoi

scritti storici e politici». (Vladimir Lenin, // significato del materialismo militante, Pod Znamenem Marksizrna, n. 3, 12 marzo 1922).

«Come la filosofia trova nel proletariato le suc armi materiali, così il proletariato trova nella filosofia le sue armi intellettuali; e, quando il lampo del pensiero avrà penetrato completamente questo ingenuo terreno popolare, i tedeschi si cmanciperanno diventando uomini. Riassumiamo il risultato. L'emancipazione pratica della Germania non è possibile se non nell'ambito di quella teoria che proclama l’uomo la più

alta essenza dell’uomo. La Germania non potrà emanciparsi dal Medioevo, se non emancipandosi nello stesso tempo dai parziali superamenti del Medioevo. In Germania non si può abolire nessuna specie di servitù senza abolire tutta la servitù. La Germania radicale non può fare la rivoluzione, senza compicerla dalle radici. L’emancipazione del tedesco è l'emancipazione dell’uomo. La filosofia è la testa di tale emancipazione, il proletariato ne è il cuore. La filosofia non può realizzarsi senza l’eliminazione del proletariato, il proletariato non può eliminarsi senza la

'V. Lenin, Opere Complete, vol. XXXIII (agosto 1921-marzo 1923), Editori Riuniti, Roma, 1967, pp. 210-211.

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realizzazione della filosofia». (Karl Marx, da Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione)?.

Tutti i grandi maestri del socialismo sono stati anche filosofi, avendo assimilato bene l'insegnamento marxiano della filosofia come

prima arma del proletariato. Non stupisce insomma che tuttora gli Stati borghesi non la vogliano insegnare in tutte le scuole. Alla bor-

ghesia serve un popolo di analfabeti disfunzionali, non certo un esercito di lavoratori coscienti dei propri diritti e della propria condizione

di lavoratori salariati soggetti ad un ordine padronale. In questo capitolo si vuole solo ribadire come una delle armi più potenti dell’egemonia culturale dell’imperialismo sia la conquista degli intellettuali. La battaglia filosofica non è appariscente e non fa rumore a livello mediatico, ma si svolge silenziosamente per lo più nelle università, nelle scuole, sulle riviste e nelle scelte editoriali con cui si

decide quali libri stampare e come organizzare i manuali scolastici di vario tipo. Eppure è una lotta fondamentale, con cui si combatte

sul lungo termine la conquista delle menti e la capacità di incidere egemonicamente nella società. Il materialismo dialettico oggi in

Occidente è stato ridotto ad una burla, ad uno scherzo ossificato, rigido, dogmatico; i professori più progressisti lo ritengono una cre-

arura riconducibile alle rigidità di Engels o alla schizofrenia di Stalin di contro ai progressi molto più stimolanti del materialismo storico marxiano e degli sviluppi del marxismo occidentale. Quasi nessuno però conosce davvero il materialismo dialettico. In parte perché non lo si insegna nei programmi scolastici (neanche in quelli universitari), in parte perché è stato espunto dalla stessa cultura comunista nell’ambito della “desralinizzazione”. Occorrerebbe quindi tornare a leggere e studiare non solo le opere più puramente filosofiche di Marx, Engels, Lenin, Stalin, Mao,

ma anche ottime introduzioni

e compendi come i Principi elementari di filosofia di G. Politzer o

La filosofia marxista-leninista di A. Sceptulin. Sarebbe soprattutto necessaria la messa a punto di un manuale critico che tracci una sroria della filosofia secondo un punto di vista materialista dialettico,

2 K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, Annali franco-tedeschi, febbraio 1844, all’interno di K. Marx & E Engels, Opere, vol. III (1843-1844), Editori Riuniti, Roma, 1976, p. 203.

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ovvero marxista-leninista. Il modello migliore per realizzare un simile progetto è stato offerto da La distruzione della ragione di Lukàcs, il quale si “limita” però ad analizzare la filosofia tedesca del XIX secolo e parte di quella del XX secolo.

Oggi servirebbe un’opera ampia che sia in grado di fungere da riferimento per studenti e insegnanti nell’acquisizione di un punto di vista alternativo sulla storia della filosofia e sugli autori insegnati. Al-

cuni tentativi pregevoli sono stati fatti negli ultimi anni, ad esempio da Costanzo Preve, dal già citato Onfray (il di vista anarchico) e in tempi più recenti il Marx e i filosofi rossi realizzato da Roberto Lorenzo Leoni e disponibile gratuiramente

quale parte da un punto misconosciuto Pitagora, Sidoli, Daniele Burgio e sul web?. L'impressione

è però che su questo fronte molto lavoro debba ancora essere svolto al fine di far emergere pienamente la natura di classe reazionaria di svariati filosofi entrati nel senso comune e diventati spesso punti di riferimento di molti intellettuali di sinistra. Si pensi, ad esempio, al

peso che ha avuto il concetto del “post-moderno” nell’anticipare a fine anni ‘70 la “fine delle ideologie”, oggi uno dei cavalli di bartaglia per giustificare l’antipolitica imperante. Come ha già messo bene in rilievo Domenico Losurdo in molte sue opere, è stato in questo periodo che una delle vittorie ottenute dal-

la classe dominante borghese sia stata quella di aver riagganciato i mo-

vimenti popolari di protesta ad un pensiero socialista utopistico, con conseguenze politiche devastanti, come spiega in questo passo Polin: «chiunque possiede un potere è necessariamente cattivo, afferma in sostanza la filosofia dei Lumi, che crede così di ricollegarsi a Platone,

ma in realtà dice tutt'altro. Poiché per Platone non cera il potere che era in sé cattivo, ma l’uomo, o meglio quanto di cattivo o di passionale vi era nell'uomo che nel potere aveva occasione di rivelarsi. Ben diversa è la filosofia moderna [borghese e idealista, ndr] del potere, per la quale il potere è intrinsecamente corruttore: il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe assolutamente, perché il potere è la superiorità riconosciuta ad un uomo su altri uomini, cioè l'immediata rottura di un equilibrio egalitario che solo è adatto ad assicurare a ciascuno la sua libertà. Il semplice fatto che un uomo abbia potere su un altro uomo è in sé malvagio»!.

3 R. Sidoli, D. Burgio, L. Leoni, Pitagora, Marx e i filosofi rossi, Mondorosso. wordpress.com.

"C. Polin, // totalitarismo, Armando Armando, Roma, 1984, p. 26.

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Se lo stesso Polin all’inizio degli anni ‘80 poteva affermare che «il totalitarismo è forse, molto semplicemente, il materialismo», non bisogna pensare ad una casualità, bensì ad una strategia di lungo termine, favorita a tavolino dai think tank internazionali a disposizione della borghesia.

Sarà quindi necessario in tal senso dedicare un'analisi molto approfondita che in questa sede non è possibile fare, ma che riguarderà in particolar modo uno degli ultimi volumi della collana di cui fa parte questa opera.

*Ivi, p. 101.

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8. Il controllo del linguaggio

«La propaganda esplicita, per quanto martellante fino all’ossessività, da sola non è in grado di spiegare nulla. Per essere efficace la propaganda presuppone un ambiente cognitivo, un cco-sistema linguistico, già predisposto ad accoglierla e a trasformarla in prassi quotidiana, in senso comune [...]. La lingua è il medio, l'ambito della

mediazione fondamentale. È la sorgente della “donazione” originaria, è lei che “ci da” il mondo, è lei che fornisce l'orizzonte di senso nel quale le cose del mondo si manifestano. I significati, nella loro determinatezza [...] prendono rilievo su di uno sfondo dato per scontato,

che, indipendentemente dal suo contenuto, ogni atto comunicativo continuamente e silenziosamente ribadisce [...]. Le “cause” materiali

del fenomeno totalitario, le cause economiche, sociali o politiche, sono sicuramente altrove e spetterà allo storico rintracciarle e denunciarle,

ma l’efficacia sulle anime del totalitarismo passa attraverso “le singole parole, le locuzioni, le forme delle frasi ripetute milioni di volte”. Un anno

dopo, Orwell, senza conoscere affatto la tesi di Klemperer, sottoscriverà in toto questa analisi». (Rocco Ronchi)'

Altra arma potente con cui l'imperialismo attua la propria egemonia culturale è quella del controllo del linguaggio. Vediamone le modalità attraverso l’analisi che segue?.

'R. Ronchi, Parlare in neolingua, all’interno di M. Recalcati (a cura di), for-

me contemporanee del totalitarismo, cit., p. 46. * Pubblicato come A. Pascale, Le parole della borghesia, Marx21.it, 18 novembre 2015, il saggio comprende i sotto-capiroli successivi terminando con “Le parole sono importanti”. Rispetto alla pubblicazione originaria sono state apportate minime modifiche contenutistiche e stilistiche; sono stati inseriti alcuni sottotitoli per agevolare la lettura.

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8.1. L'analisi del linguaggio nella tradizione marxista Megadirettore: «Fantozzi, è solo questione di intendersi, di terminologie... Lei dice “padroni” e io “datori di lavoro”, lei dice “sfruttatori” e io dico “benestanti”, lei dice “morti di fame” e io “classe meno abbiente”. Ma per il resto la penso esattamente come kci [...]. Io, come lei, sono un uomo illuminato, e sono convinto che a questo mondo ci sono molte ingiustizie da sanare. la penso esattamente come lei, e come il nostro caro dipendente Folagra». Fantozzi: «Ma, scusi, Sire... Non mi vorrà dire che lei è... Scusi il termine, sa... “Comunista"?!?» [Trema l’intera stanza, come colpita da un sisma] Megadirettore: «Beh... Proprio “comunista”, no... Vede, io sono un “medio progressista”.» (dal film Fantozzi, regia di Luciano Salce, 1975)

La questione del linguaggio non è secondaria per le classi dominanti, anzi è uno degli strumenti funzionali al mantenimento del

proprio dominio sulle classi subalterne. Nel marxismo, benché non sia stata formulata una teoria della lingua e del linguaggio, si possono

trovare indicazioni e premesse orientative per procedere in questo senso e per comprendere, tra l’altro, l’uso che del linguaggio viene fatto da parte delle classi dominanti al fine di conservare il proprio pre-

dominio politico, culturale e ideologico. Esempi di tale uso sono forniti dai modi linguistici adottati dai mezzi di comunicazione di massa (mass media), da molti testi scolastici e dalle espressioni adoperate

nell’ambito dei vari settori specialistici della cultura, della produzione e della pubblica amministrazione (leggi, decreti, circolari, ecc.)?. Scrive Romano Luperini: «il potere, per Gramsci, non si regge solo sulla forza della coercizione, ma anche sull’egemonia culturale. Lo studio del potere si configura nel suo pensiero come analisi di un’egemonia che passa anche attraverso il linguaggio. Pur essendo vissuto in un'età assai diversa da quella attuale, caratterizzata dalla rivoluzione informatica, Gramsci è stato infatti il primo ad avvicinarsi a una verità che è ormai sotto gli occhi di tutti: fra potere del linguaggio c linguaggio del potere non c'è più alcuna differenza. Il potere, per un verso, è sempre più espressione della produzione-diffusione del linguaggio come merce; per un altro, di conseguenza,

3 E. Mascitelli, Dizionario dei termini marxisti, Vangelista, Milano, 1977, voce “Lingua e linguaggio”, pp. 190-192.

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è sempre più consustanziato con il linguaggio, è linguaggio. Il feticismo del linguaggio che nasce e si sviluppa nelle università occidentali non è che l’altra faccia del feticismo della merce. Ciò comporta una prima conseguenza: una rivoluzione in Occidente non è concepibile se non come rivoluzione culturale. Con il suo discorso sul potere come egemonia culturale, Gramsci dà un potente contributo a questo tipo di coscienza»*.

Stalin ricordava in una delle sue ultime opere che: «la lingua, in quanto mezzo di comunicazione degli uomini in seno ad una società, serve in eguale maniera tutte le classi della società

e mostra a questo riguardo una sorta di indifferenza verso le classi. Ma gli uomini, i singoli gruppi sociali e le classi sono lungi dall’essere inditferenti nei confronti della lingua. Fssi si sforzano di utilizzare la lingua

per i loro interessi, di imporle il loro particolare lessico, i loro particolari termini, le loro particolari espressioni»'.

Molti anni prima già Lenin polemizzava sull'utilizzo serumen-

tale di certe parole d’ordine: «La libertà è una grande parola, ma sotto la bandiera della libertà dell'industria si sono fatte le guerre più brigantesche, sotto la bandiera della libertà del lavoro i lavoratori sono stati costantemente derubati»®.

Una pratica stigmatizzata e immortalata in termini poetici

anche da Bertolt Brecht in una delle sue opere più famose: «Siamo sempre di meno. Le nostre / parole d'ordine sono confuse. Una parte delle nostre parole / le ha stravolte il nemico fino a renderle / irriconoscibili»’. Da tutto ciò si capisce come Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini

abbiano potuto in tempi recenti denominare i propri movimenti politici reazionari “Popolo delle Libertà” e “Futuro e Libertà”, appropriandosi indebitamente di due parole (“popolo” e “libertà”) da sempre patrimonio della tradizione culturale progressista. Si potreb-

be aggiungere che la stessa parola “democrazia”, che oggi nel senso comune rende ad esprimere saldamente l’idea di un regime politico

‘R. Luperini, / quaderni di acquallagola, suppl. di Trentadue— l'Ecoapuano (a cura di ANPI e Fiap di Carrara), n. gennaio-febbraio 2015.

*). Stalin, Riguardo al marxismo nella linguistica, Pravda, 20 giugno 1950. “V. Lenin, Che Fare?, Editori Riuniti, Roma, 1970, p. 38. “B. Brecht, A chi esita, 1937.

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liberale borghese fondato sul pluripartitismo parlamentare, non sia altro che il risultato di un processo di semantizzazione ottenuto al termine di un secolo (il “secolo breve”) in cui a scontrarsi sono stati

due differenti modelli di democrazia proposti dai sistemi socialisti e capitalisti. I Paesi socialisti novecenteschi infatti, definiti come “totalitari”, “dittatoriali” o “dispotici” dalla borghesia, hanno sempre ribadito fin dal proprio nome (si pensi ad esempio alla “Repubblica

Democratica Tedesca”) la volontà di garantire una reale democrazia, fondata sulla partecipazione popolare e sul primato dei diritti sociali rispetto a quelli politico-civili, condizione considerata essenziale per poter estendere la democrazia a livelli più elevati. Ma questo paradigma ideologico è uscito vinto in Occidente, in particolar modo dopo la sconfitta subìta con la caduta del muro di Berlino e tutti gli eventi conseguenti.

Da segnalare ciò che pensa Noam Chomsky del termine “democrazia” così come viene usato dalle classi dominanti: «la parola “democrazia” assume un significato orwelliano quando viene usata in svolazzi retorici o in normali servizi giornalistici per indicare gli sforzi degli Stati Uniti di stabilire forme di governo “democra-

tiche”. Il rermine indica i sistemi in cui il controllo delle risorse c degli strumenti di violenza attribuisce il potere agli elementi funzionali ai bisogni della potenza statunitense»*. E ancora:

«dalla paradossale concezione di democrazia imposta dagli interessi delle élite, deriva poi l’altrettanto paradossale distinzione tra “Stari democratici” (o “moderati") e “Stati fuorilegge” (rogue states). Esiste un

doppio uso del termine “stato fuorilegge”: uno di tipo propagandistico, applicato ai nemici in genere, e uno letterale, applicabile agli Stati che non si considerano vincolati alle leggi internazionali»?.

L'uso politico del linguaggio è quindi un elemento di primaria

considerazione, in grado di agire sul lungo termine in senso profondo sull’ambito culturale più o meno inconscio delle persone. Non a caso

N. Chomsky, La fabbrica del consenso, Milano, Marco Tropea Editore, 1998, pp. 431-432 "N. Chomsky, Egemonia americana e “Stati fuorilegge”, Bari, Edizioni Dedalo, 2001, p. 15.

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Lenin ricordava pedagogicamente la necessità di imparare «a discernere, sotto qualunque frase, dichiarazione e promessa morale, religiosa, politica e sociale, gli interessi di queste 0 quelle classi», al fine di evitare di essere

sempre politicamente «vittime ingenue degli inganni e delle illusioni»!0. O, per dirla alla Don Milani: «l'operaio conosce 100 parole, il padrone 1000, per questo è lui il padrone». Superfluo quindi ribadire la necessità di studiare, ricercare e approfondire, per conoscere e capire la realtà. 8.2. La “neolingua” dell’imperialismo «La neolingua è una lingua artificiale progettata [...] non solo per “dirigere” il pensiero secondo lc suc intenzioni, ma soprattutto per rendere impossibile a priori l'articolazione di una divergente visione del mondo». (Rocco Ronchi)!

Chi ha lavorato con particolare tenacia sullo smascheramento e sull'analisi del linguaggio utilizzato dalla borghesia per sostenere

i propri interessi di classe è Chomsky, il quale ha strutturato una teoria sulla neolingua che sostanzialmente riprende, dandole un

impianto più strutturato e scientifico, la provocazione orwelliana. George Orwell,

nell'’indimenticato romanzo

/984,

immaginava

una neolingua omnipervasiva, capace di attaccare il pensiero e di distruggerlo sul nascere; Chomsky condivide questa impostazione affermando che «i termini del discorso politico sono studiati in modo da impedire di pensare»'?. Vediamo come concretamente ciò avviene

osservando le modalità con cui l'imperialismo oggi agisce linguisticamente secondo due direttrici principali: la giustificazione dei propri piani guerrafondai e l’occultamento dei meccanismi perversi

delle politiche economiche neoliberiste. “La guerra è pace! dice uno degli slogan del Partito di potere nel romanzo orwelliano!3. Ed oggi

!°V. Lenin, 7re fonti e tre parti integranti del marxismo, Prosvestcenie, n. 3,

marzo 1913, all’interno di V. Lenin, Opere Complete, vol. XIX (marzo-dicembre 1913), Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 13. " R. Ronchi, Rerlere in neolingua, all'interno di M. Recalcati (a cura di), Forme contemporanee del totalitarismo, cit., p. 45.

N. Chomsky, Capire il potere, Milano, Marco ‘Tropea Editore, 2002, p. 71. 13 Sul tema si trovano diverse analisi sulla “neolingua” immaginata da Orwell.

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una delle maggiori giustificazioni agli interventi militari è proprio quella di agire per la pace; non a caso non si parla mai esplicitamente di “querre” bensì di “missioni umanitarie”, “guerre di liberazione”,

“esportazione della democrazia” e così via. Modi pratici per fare guerre senza dichiararle e senza aver nulla da temere da parte dell'opinione pubblica. Un'altra espressione continuamente messa in gioco è “pro-

cesso di pace”. La risposta sferzante di Chomsky: «Secondo la logica e il dizionario, “processo di pace” significa “processo che conduce alla pace”. Ma non è in questo senso che la adoperano i media. Essi la usano per indicare qualsiasi cosa gli Stati Uniti stiano facendo in qualsiasi momento

e circostanza, e, anche in questo caso,

senza eccezioni [...]. Il processo di pace è ciò per cui si adoperano gli

Stati Uniti, per definizione»!4. Qualora ci siano moti di resistenza da parte delle popolazioni e dei governi autoctoni è immediato il disconoscimento anzitutto linguistico, che riduce i resistenti in “terroristi”, cui si contrappongono

le “forzeltruppe alleate”’?. La stessa tattica usata dai nazisti tedeschi quando durante la Seconda Guerra Mondiale definivano i nostri

partigiani “banditen”. Da notare infine perfino l’abusato ricorso al termine “rivoluzione” (e recentemente “primavera” riferito ai sommovimenti arabi) per descrivere veri e propri colpi di stato orchestrati dai servizi segreti stranieri (il caso ucraino è un esempio esemplare). Ma

l'imperialismo agisce anche per rimuovere con ogni mezzo la natura di sfruttamento economico intensivo perpetrata dall’imperialismo. Evi-

denziamo la rimozione di una serie di termini che fino a pochi decenni fa erano di uso quotidiano perfino nel nostro Paese, a partire dallo stesso concerto di “imperialismo”, che ormai si trova solo nei libri di storia contemporanea. Assieme a tale parola sono stati rimossi una

Ad esempio è una buona elaborazione quella di V. Barabino, // linguaggio dell'utopia. Analisi della neolingua in 1984 di G. Orwell, Intercom, n. 142-143, 8 giugno 1998. ‘N. Chomsky, Capire il potere, cit., p. 74; aggiungendo anche: «È un'asserzione che colpisce molto, visto che negli anni Ottanta gli Stati Uniti sono stati il maggior fattore negativo nel contrastare due importanti processi di pace, in America centrale e nel Medio Oriente». '5 Per approfondire sul tema si può vedere ad esempio P._ Cammerinesi, “Guerra è pace” ovvero come ti manipolo il linguaggio, Coscienzainrete.net, 25 sertembre 2014.

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serie di termini rimasti ancorati alla manualistica scolastica o a quello che viene spregiativamente giudicato antiquariato marxista: questo il

destino riservato a parole come “sfruttamento”, “colonialismo”, “neocolonialismo”, “delocalizzazione”, “monopoliololigopolio”, “ deindustrializzazione” sostituiti da concetti molto più neutri (e anzi di valore positivo) come “cooperazione”, “politiche/piani di sviluppo”, “investimenti

esteri”, “riqualificazionelriprogettazione industrialelfinanziaria”, ecc. Ho Chi Minh sintetizzava così la questione: «Per nascondere

la bruttezza del suo regime di sfruttamento criminale, il capitalismo coloniale decora sempre la sua bandiera del male con l'idealistico motto: Fraternità, Uguaglianza, ecc.»°.

8.3. L'incomprensibile gergo del capitalismo finanziario Per ogni altra evenienza l'economia finanziaria ricorre ad un particolare linguaggio specialistico che si struttura in ogni Paese con caratreristiche diverse, anche se con un tratto in comune: l’estrema difficoltà

per un lavoratore medio, pur acculturato, di penetrare e comprendere bene una serie di termini inglesi (“spread”, “fuzure?”, “bond”, “traded funds”, “credit crunch”, ecc.) che non è inverosimile ritenere apposita-

mente riprodotti nella forma straniera al fine di renderne più difficile la comprensione. La dimostrazione starebbe nel fatto che altri Paesi come Francia e Spagna non esitano a tradurre nelle relative lingue i termini specialistici inglesi. In quei Paesi, oltre ad essere presente un maggiore orgoglio patriottico, si può notare come sia rimasta una maggiore consapevolezza popolare di certi meccanismi, tant'è vero che in Francia nei telegiornali si parla ancora tranquillamente di “patronat”, ossia di “padronato”, termine che in Italia è stato bandito a scapito dei vari “datori

di lavoro”, “classe imprenditoriale” o facendo ricorso semplicemente alla sigla “Confindustria”. A proposito di Confindustria: se prendiamo in esame la dicotomia “interessi particolari” “interessi collettivi” scopriamo che il meccanismo mediatico dominante è il seguente: «noi chiamiamo “interessi particolari” quelli dei lavoratori, delle

donne, dei neri, dei poveri, degli anziani, dei giovani: in altre parole,

“Ho Chi Minh, Uguaglianza!, L'Humanité, 1 giugno 1922, disponibileall’internodi Ho Chi Minh, Scritti, lettere, discorsi. 1920-1967, Feltrinelli, Milano 1968, p. 20.

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dell'intera popolazione. Esiste un solo settore della comunità al quale non vengono mai attribuiti “interessi particolari”, ed è quello dei grandi gruppi di potere economico, industriale e degli affari in generale, perché

questi si identificano con l’“interesse nazionale” ».

Non stupisce che Karl Marx si infuriasse contro quei borghesi che hanno «una loro lingua», «prodotto della borghesia» e come

tale permeata di uno spirito di mercantilismo e di compravendita, influenzando il suo genero Paul Lafargue nel sostenere che «il linguaggio artificiale che contraddistingue l'aristocrazia... sè distaccato

dalla lingua dell'intera nazione, la lingua che parlavano sia i borghesi che gli artigiani, sia la città che la campagna». Ricordiamo infine la posizione di Stalin: «gli uomini, i singoli gruppi sociali e le classi sono lungi dall'essere indifferenti nei confronti della lingua. Essi si sforzano di utilizzare la lingua per i loro interessi, di imporle il loro particolare lessico, i loro particolari termini, le loro particolari espressioni. Da questo punto di vista si distinguono in maniera particolare gli strati superiori delle classi agiate, che hanno perso i contatti col popolo e lo detestano: l'aristocrazia di corte, gli strati più alti della borghesia. Vengono così creati dialetti “classisti”, gerghi, “linguaggi” di salotto»"8.

La non-comprensibilità media del linguaggio economico-finanziario viene però calata nell’ottica di familiarizzare il cittadino medio con tali ambienti: il capitalismo nasconde la propria struttura socio-economica e tende a presentarsi come un ordine naturale, astorico ed eterno. Ciò deve trasparire quindi anche nel linguaggio,

trasformando quasi il modo di produzione economico in un membro della famiglia, da coccolare e accudire come fosse un bambino o un animaletto tenero ma che ogni tanto fa le bizze. Scrive a riguardo Zaira Fiori!?; «Facendo riferimento ad alcuni esempi individuati in testate quali

La Repubblica o Il Corriere della Sera, è stata notata la presenza di metafore che fanno riferimento a particolari categorie della vita reale. Ad

N. Chomsky, Capire il potere, cit., p. 66. '* Per tutte e tre le citazioni ci si è rifatti a J. Stalin, Riguardo al marxismo nella linguistica, cit.

!° Z. Fiori, Il linguaggio dell'economia e della finanza, Vraduzione-testi.com.

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esempio, metafore che fanno riferimento alla sfera della salute, come l’espressione largamente utilizzata “economie in salute” per fare riferimento a nazioni che non presentano particolari difficoltà da un punto di vista economico-finanziario; oppure la parola “contagio”, usata in particolare per esprimere la paura o il rischio di un fallimento come quello che ha investito la Grecia. Ed ancora, espressioni che fanno riferimento alla meteorologia, come l’espressione “turbolenza”, per indicare situazioni di disordine e instabilità, in modo particolare per quanto riguarda i mercati finanziari. Per non parlare delle espressioni che fanno riferimento alla sfera bellica, come l'utilizzo del verbo “combattere”, impicgato in contesti

in cui la crisi economica e i problemi ad essa collegati vengono delineati come il nemico da sconfiggere».

Vediamo cosa dice una fonte autorevole come l’Enciclopedia Treccani, che mette in rilievo: «un’accresciuta distanza della lingua economico-finanziaria italiana, specialmente in testi di livello semispecialistico (saggistica, pub-

blicistica, ecc.), dalla lingua comune e quindi una accresciuta difficoltà di comprensione da parte dei non specialisti [...]. Certo, non sono

mancate opere di economisti (Luigi Einaudi, Umberto Ricci, Giovanni Demaria, Federico Caffè, Claudio Napoleoni e Piero Sraffa, nei suoi non numerosi scritti in italiano) scritte in una prosa italiana pienamente comprensibile ed efficace, ma è altrettanto vero che i raffronti sul

grado di leggibilità dci testi economici (non solo saggistici ma anche di livello divulgativo) rispetto a quelli di altri ambiti disciplinari hanno indicato che il settore dell'economia è quello “con l'indice di leggibilità di gran lunga più basso” |...]. Ciò ha determinato la larga diffusione, la crescente fortuna c la forte influenza di periodici e soprattutto di quotidiani con pagine c/o inserti interamente dedicati a temi economico-ftnanziari. Anche a questo livello divulgativo, però, abbondano, come peraltro già nelle cronache finanziarie dei primi decenni del Novecento [...] locuzioni e termini stranieri, con la solita prevalenza dell'inglese e

con spiccata preferenza per i tecnicismi collaterali (Gear trap “trappola

al ribasso”, lett. “trappola per orsi”; operazioni cross-border “transazioni compiute solo tra partner internazionali”; [...]) c i neologismi (specie quelli più recenti [...]) che trovano forse una duplice ragione come modalità di richiamo al lettore e come ostentaro segnale di competenza tecnica c, quindi, di autorevolezza»?.

° Enciclopedia Treccani, “Economia, lingua dell’”, a cura di 1). Proietti, Enciclopedia dell’Italiano (2010).

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8.4. Come parla la politica (borghese) italiana Andando oltre il livello degradante del linguaggio politico attuale in Italia (distante lunghezze siderali rispetto a quello della Prima Repubblica),

molti specialisti del settore, come Gustavo

Zagrebelsky, hanno segnalato il mutamento di significato di certe parole o l'introduzione di parole nuove, per lo meno di nuovo significato: «Per esempio, l’“amore”, di cui si è fatto di recente grande sfoggio (“L'Italia è il Paese che amo”, “amo ancora questo Paese”), è una parola

sconosciuta al vecchio linguaggio politico, che parlava preferibilmente di “solidarietà” o di altre virtù sociali. È al posto della novecentesca e idcologica “lotta di classe” è stata riesumata l’otrocentesca “invidia sociale”, che bolla la protesta col giudizio negativo che merita un sentimento basso e

casereccio come l’invidia. Sono cambiati anche gli indici di frequenza c “libertà” (da regole, “lacci e laccioli”) è parola più usata di “giustizia”, in

precedenza forte soprattutto in unione con l'aggettivo “socizle” [...). Una singolare trasformazione ha coinvolto anche la sfera dello “Stato” e della cosa pubblica, con una prevalenza dei contorni negativi (“i/ peso, #/ costo dello Stato”) su quelli positivi (“servizio pubblico”). Si sono moltiplicati i

modi per dileggiare la “vecchie” politica organizzata (“teatrino della politica”, il “dire” contro il “fare”) ed esaltare quella diretta, realizzata con l'affidamento della guida a un leader indiscusso e padronale»?!.

Oltre a tali aspetti è stata segnalata la sempre maggiore dipendenza da altri linguaggi, tra cui «quello dell'economia (“PIL*, “spread”,

“deficit”, “derivati”, ecc.) e soprattutto quello giornalistico (“il governo galleggia”, “Letta-bis”, “crisi al buio)». Qualche anno fa Omar Calabrese si concentrava sullo slittamento semantico di dieci parole, con risultati per noi particolarmente interessanti nei casi di “radicale”, “moderato” e “riformista”*?. La

conclusione che ne traeva era che fossero messi in atto:

2" V. Coletti,

L'italiano della politica, Accademiadellacrusca.it,

settembre

2013. Da cui è tratta anche la citazione successiva. 22 Sulla risemantizzazione di tali termini si era espresso precedentemente già Chomsky così: «“Moderato"” è un termine che significa “ligio agli ordini degli Stati Uniti”, in contrapposizione a “radicale”, che significa “non ossequiante agli ordini degli Stati Uniti». Vedi N. Chomsky, Capire il potere, cit., p. 75. 140

«due tipi di strategia discorsiva nell’attuale linguaggio politico, con una prevalente sistematicità da parte della destra. Il primo consiste non solo nell’elaborazione di un uso linguistico (stile comunicativo, idioletti e socioletti di appartenenza) fondato sulla neutralizzazione semantica c sull'eventuale riformulazione dei significati lessematici, ma anche nello spostamento di intere porzioni del sapere comune, che sono anestetizzate, spostate, deviate. Nel secondo caso, invece, ci troviamo dinanzi a un lavoro stilistico ancor più sottile, che tende a costruire una dimensione passionale

del discorso, disforizzandolo o cuforizzandolo a seconda della bisogna. Questa seconda rendenza si appoggia fortemente sui media, che per natura la seguono costantemente. Quel che ne deriva è che il discorso politico, oggi, produce forme di manipolazione degli utenti di grandissima efficacia, basate sostanzialmente sull’abbassamento delle consapevolezze linguistiche e culturali della popolazione. A mio avviso, l’unico progetto che rimane a

coloro che ancora tengano alla cultura come visione critica dei fenomeni che ci circondano è quello di lavorare sull'analisi e sullo smascheramento.

Insomma, se mi si consente una citazione marxiana fuori tempo e fuori moda: “l rivoluzione non cè stata; bisogna ancora leggere molto"»®.

È incomprensibile la dinamica di come tutto ciò avvenga con successo senza aver chiara la situazione di oligopolio dell’informazione che riguarda principalmente i settori della televisione e della stampa. Telegiornali, talk show, riviste, giornali, mostrano un appiattimento del lessico con scelte che appaiono sorprendenti per la loro

uniformità e semplificazione. Il fenomeno era notato già nel 1950 da Pietro Secchia, nell’articolo / crociati della menzogna. Che la libertà di stampa sia limitata da alcune parole d’ordine più o meno imposte dall'alto è confermato da un esempio recente che testimonia il livello di partigianeria che possa assumere l’informazione italiana: ci si rife-

risce al fatto che il dominio territoriale rivendicato dall’ISIS sia stato sempre presentato dai media come “/'autoproclamato Stato islamico”, per rimarcarne il non-riconoscimento da parte dell'Occidente. Questo esempio di meticolosa precisione terminologica si scontra con

l'assoluta arbitrarietà con cui i media attribuiscono le sigle politiche auto-attribuitesi dai partiti politici italiani. Se è vero, infatti, che l’auto-proclamazione di un'etichetta possa non corrispondere alla

20. Calabrese, Dieci parolechehanno confuso l’Italia, all’interno di F Montanari, Politica 2.0. Nuove tecnologie e nuove forme di comunicazione, Carocci, Roma, 2010.

Vedi Cap. 5.9. 141

realtà (e chi scrive concorda certamente sul fatto che l’ISIS sia tutto meno che la rappresentazione coerente di uno Stato islamico), perché si continua ad accettare la categorizzazione del PD come partito di

“sinistra”? Non sarebbe più corretto parlare, usando lo stesso metro di giudizio, dell’“4utoproclamata sinistra del PD”?

Entrano in gioco qui fattori che fanno parte della battaglia politica quotidiana: perché il M5S può essere etichettato come “m0vimento” e non come “partito”, nonostante abbia uno statuto, una struttura e dei capi dichiarati? Perché ci si dimentica spesso e volentieri di dire che CasaPound è un’organizzazione “fascista”? Perché si continua a parlare impropriamente di “classe politica” invece di “ceto politico”, come sarebbe più corretto dire? È necessario poi ricordare l’uso smodato del termine “casta”, esteso impropriamente a tutti i partiti politici così da eliminare strutturalmente le differenze tra i

concetti di “destra” e “sinistra”, favorendo il dilagare di ideologie populiste e corporativiste? Perché non compaiono quasi mai, se non

in qualche spazio angusto e ghettizzato, parole come “liberismo”, “keynesismo” , “socialismo”, “comunismo”, ad indicare le diverse possi-

bilità in cui si possa articolare l'indirizzo economico di un Paese? Si

potrebbe continuare a lungo in questo elenco, ma fermiamoci qua, sperando che quanto detto finora basti a creare un dubbio sistematico verso il linguaggio usato dai media, dietro cui si nascondono in

realtà sempre precisi scopi politici. 8.5. Le parole sono importanti Bizanti: «Tu sai quante copie tira // Giornale, è vero?» Roveda: «Cinquecentomila.»

Bizanti: «Tutta l'opinione che conta nel paese. Sì, gente che magari legge anche altri giornali, di altro colore, ma che alla fin fine si rivolge a

noi, al Giornale, per sentire dalla sua voce una parola pacata e definitiva. E questa voce, Roveda, dev'essere sempre la stessa, dalla prima riga dell’editoriale all'ultimo annuncio economico.» Roveda: «Sì, sono d'accordo.» Bizanti: «Chi è il nostro lettore? È un uomo tranquillo, onesto, amante dell’ordine, che lavora, produce, crea reddito. Ma è anche un

uomo stanco, Roveda, scoglionato. I suoi figli invece di andare a scuola fanno la guerriglia per le strade di Milano. | suoi operai sono sempre più prepotenti, il Governo non c'è, il Paese è nel caos. Apre il giornale per

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trovare una parola serena, equilibrata, c che cosa ci trova? Il tuo pezzo, Roveda. Ho copiato parola per parola il tuo occhiello e il tuo titolo: “Disperato gesto di un disoccupato. Si brucia vivo padre di cinque figli”. Ora, io non sono Umberto Eco e non voglio farti una lezione di semantica applicata all'informazione, ma mi pare evidente che la parola “disperato” è gonfia di valori polemici. Se poi me lo unisce alla parola “disoccupato”, “disperato disoccupato”, be’, allora ci troviamo di fronte a una vera e propria provocazione.»

Roveda: «Ma...» Bizanti: «Compiuta la quale, tu prendi questo pover'uomo di lertore, e gli sbatti in faccia cinque orfani e un cadavere carbonizzato. No, dico, cosa vogliamo farne di questo pover'uomo di lettore, un nevrotica? Gli ha forse dato fuoco lui? Vogliamo vedere di rifare insieme questo titolo? Può capitare a tutti di sbagliare, no? Scrivi: “Drammatico suicidio”. “Drammatico suicidio”, due parole, “di...” Cos'è un calabrese il poveretto?» Roveda: «Sì...»

Bizanti: «Ecco, “... di un immigrato”, “immigrato”, una parola sola, che contiene implicitamente il “disoccupato” e il “padre di cinque figli" ma dà anche un'informazione in più.» Roveda: «Certo...» Bizanti: «Il succo della notizia, la sintesi: il lettore apre il giornale, guarda, se gli va legge sc non gli va tira via, ma senza la sensazione che gli vogliamo rompere i coglioni. Senza sentirsi lui responsabile di turti i morti che ci sono ogni giorno nel mondo. Comunque il pezzo è eccellente. Sì, magari c'è qualche parolina in più, qualche aggettivo da limare, per esempio quel “/icenziato”.»

Roveda: «“Rimasto senza lavoro”...?» Bizanti: «Rimasto senza lavoro”, bravo. Dacci dentro Roveda, che la stoffa c'è. Adesso lo ricopi, e lo porti direttamente in composizione. Vai.» (dal film Sbatti il mostro in prima pagina, regia di Marco Bellocchio, 1972)

Alla luce di quanto esposto finora verrebbe da chiedersi se non

sia il caso di tornare ad utilizzare le parole che sono necessarie per definire le cose come sono, piuttosto che cercare nuovi linguaggi e

nuove “narrazioni” che nulla fanno per svelare il grande inganno quotidiano perpetuato nei confronti di milioni di proletari sottomessi anzitutto culturalmente prima ancora che economicamente e socialmente. Chiaramente però questa provocazione non pretende

di esaurire in poche righe un tema, quello della comunicazione politica e della propaganda, che richiederebbe ben altre riflessioni di quelle che ha saputo mettere in campo la variegata sinistra italiana negli ultimi decenni. Quest'ultima dovrebbe anzitutto interrogarsi

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sulla propria stessa identità, sulla quale tali dinamiche linguistiche influiscono certo non poco: cosa vuol dire infatti “sinistra italiana”

oggi in un contesto in cui la maggioranza della società identifica il concetto di sinistra con l’organizzazione del PD? Che cosa signifi-

cava “sinistra” invece in questo stesso Paese 50 anni fa? È accettabile che perfino in documenti politici di partiti comunisti si trovino

espressioni desolanti come “sinistra radicale”, termini imposti dalla borghesia con una risemantizzazione estremistica e denigratoria? Forse il percorso culturale da seguire l'aveva avviato assai bene una personalità che pure marxista non era: Luciano Gallino, il quale, in polemica anche terminologica, aveva denominato uno dei suoi

ultimi libri La lotta di classe dopo la lotta di classe’, non esitando a spiegare la realtà utilizzando le parole e le categorie del marxismo. «Le parole sono importanti», diceva Nanni Moretti in un suo famoso film [Palombella rossa, 1989]. In quell’occasione aveva ragione da vendere.

8.6. “Parlar chiaro, parlar facile” Luciano Gruppi (Torino, 8 novembre 1920 — Albano Laziale, 19 agosto 2003) è stato un politico e studioso italiano, militante e

dirigente del PCI dal 1943 sino allo scioglimento del Partito. Dopo alcuni anni nel PDS-DS, lascia il Partito di D'Alema, Veltroni e Fas-

sino per iscriversi a Rifondazione Comunista. È stato per parecchi anni membro del Comitato Centrale del PCI, della Commissione Centrale di Controllo e direttore dell'Istituto di studi comunisti

“Palmiro Togliatti” di Frattocchie. In questo articolo, Parlar chiaro, parlar facile, delinea il giusto atteggiamento che devono avere i comunisti nello scrivere e nel parlare: essere sempre chiari e semplici,

senza però banalizzare l'argomento di cui si discute. «La questione del linguaggio, del modo in cui i giornali (ma anche gli oratori, o i dirigenti che prendono la parola in riunioni), parlano al loro pubblico, è diventata acuta, se si considera il numero di lettere che

L'Unità riceve in proposito. La lamentela contro le parole difficili, è assai

5. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari, 2012. 2 L. Gruppi, Parlar chiaro, parlar facile, L'Unità, 10 ottobre 1979. Introduzione del paragrafo e selezione dei brani dell’articolo a cura di Simone Grecu.

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diffusa [...]. Il fenomeno, del resto, non riguarda solo noi, ma tutta la

società italiana, la nostra “cultura”: si tratta di uno dei ranti sintomi di imbarbarimento [...]. Credo ci si debba sforzare di essere chiari sempre,

facili il più che si può. Vi è un prezzo che non si può pagare: non trattare

di un problema (economico, filosofico, scientifico) perché esso è difficile. Sarcbbe un'offesa ai lettori, un venir meno alla lotta per l'egemonia del movimento operaio. Oppure tratrarlo semplificandolo a tal punto da falsarne i termini. Parlare con chiarezza, e possibilmente in modo facile,

non può tradursi in un impoverimento del linguaggio. Proprio le attuali astruserie, invece, rappresentano un impoverimento del linguaggio [...]. Il movimento

operaio, il Partito comunista deve parlare a tutti! [...].

Elevare le masse ad un nuovo livello di cultura significa modificare, innovare quella cultura che, a contatto delle masse, deve rispondere a nuovi problemi, si arricchisce di nuovi contenuti. Ciò pone non solo problemi di contenuti, ma di forma (lc due cose non sono separabili), di linguaggio. La riforma intellettuale e morale, di cui Gramsci parlava, che abbiamo riproposto con vigore, esige anche un linguaggio capace di esprimerla [...]. La via della chiarezza è quella della concretezza. Orbene, il vizio accademico di pensare che ciò che è chiaro e semplice è inevitabilmente superficiale, e solo ciò che è oscuro e arduo può essere profondo ed originale. "l'ale vezzo, tale morbo dissolvitore, ci è rimasto in parte attaccato. Vincerlo è una delle condizioni del rapporto cra intellettuali e

lavoratori, tra organi dirigenti del partito e basc, soprattutto tra partito e masse. È una delle condizioni indispensabili della riforma intellettuale

e morale, della creazione di una cultura veramente nazionale e popolare, che non può formarsi ove il movimento operaio non sappia realizzare

tutta la propria capacità dirigente, anche al livello delle idee c... delle parole con cui esprimerle».

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9. L'uso strumentale di libertà, democrazia, diritti umani

È noto che i Paesi socialisti sono stati attaccati in vario modo, ma

dal punto di vista propagandistico le accuse di totalitarismo sono state sostenute principalmente con il fatto che in quei Paesi non vi fossero libertà, democrazia e diritti umani. Proviamo a ragionare su tali concetti che costituiscono un potente strumento dell’egemonia imperialista: per anni, infatti, tramite la martellante propaganda mediatica occiden-

tale si è fatto credere che bombardare interi Paesi e commettere crimini contro l'umanità a scopo “umanitario”, sarebbe un mezzo giustificabile e necessario per un radioso avvenire. Tutte le guerre e gli interventi armati vengono abilmente mascherati da “missioni di pace”, o “interventi

umanitari”, visto che parlare apertamente di guerra imperialista e neocolonialismo è fortunatamente ancora impossibile. Tra le motivazioni più propagandate delle guerre imperialiste ci sono le affermazioni che vengano fatte per la “democrazia”, per i “diritti umani”, per la “libertà”. Dopo aver analizzato la questione formale-linguistica, analizziamo ora

uno per uno questi concetti nella loro sostanza reale.

9.1. “Democrazia, storia di un'ideologia” Il capolavoro di Luciano Canfora, Democrazia. Storia di un'ideologia', analizza il complesso rapporto della democrazia con il tema della libertà, oltre che il suo cammino attraverso la nascita delle istituzioni

europee. Canfora parte da una premessa sulla favola della democrazia intesa come invenzione dell’Atene periclea, ma vola ben presto nel

'L. Canfora, Democrazia. Storia di un'ideologia, Laterza, Roma-Bari, 2008.

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cuore della contemporaneità, ricollegandosi alla rivoluzione francese del 1789 e ai fatti conseguenti, mostrando per filo e per segno tutte le contraddizioni delle cosiddette “democrazie liberali” europee: la storia recente di Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia viene analizzata

minuziosamente mostrando di fatto come ben rari siano stati i momenti di effettiva democrazia vigenti in tali Paesi e che solo in tempi recenti essi si siano appropriati del concetto stesso della “democrazia”,

a lungo rigettato, o orchestrato in modalità tali da favorire di fatto ristrette oligarchie possidenti. Analisi particolarmente interessanti e approfondire riguardano anche il tema della democrazia in conseguenza degli strappi rivoluzionari del 1789 e del 1917: i confronti tra Rivoluzione francese e Rivoluzione russa sono costanti e utili per smentire

molti luoghi comuni su tali eventi e sulle costruzioni statali ad essi conseguenti. Troneggia in tutto il percorso una costante consapevolezza: lo sviluppo verso la democrazia è conseguenza primaria della forza delle organizzazioni socialiste e comuniste, sia su scala nazionale che globale. Non manca a tal riguardo un'analisi interessante delle democrazie popolari dell’ Europa orientale, oltre che della stessa URSS, così come di diversi eventi fondamentali della storia del movimento operaio.

Un libro eccezionale insomma, capace di tracciare dei percorsi di lettura della storia contemporanea che travalicano quelli proposti dalla storiografia liberale dominante,

dandoci

un'analisi sincera

della complessità storica, politica, sociale e culturale degli ultimi due secoli. Da segnalare che per tali ragioni il libro, commissionato da Jacques Le Goff nell’ambito della serie intitolata “Fare l'Europa”, venne censurato in Germania, dopo essere stato pubblicato in Italia, Spagna e Francia. Per frenarne la diffusione si è accusato Canfora di avere trattato il rema con eccessive simpatie verso l'URSS, Stalin e il

comunismo (e quindi per il “totalitarismo”), distorcendo documenti ed esagerando con certi paragoni storici ed interpretazioni storio-

grafiche. A tali accuse, fondate su argomentazioni ridicole, Canfora

ha risposto dettagliatamente nella seconda edizione del volume. È perfettamente normale che la borghesia svolga il lavoro di infamare chi cerca di mostrare che la realtà e la verità dei processi storici non corrispondono alla grande narrazione inventata dagli scribacchini al

soldo del grande Capitale. Questo non è altro che un motivo in più per leggere e diffondere tale opera il più possibile. Proviamo ora a tracciarne una sintesi, al fine di fornire una dimostrazione concreta

delle elaborazioni di Canfora. 148

9.2. L'evoluzione verso i diritti e la democrazia nel ‘900 Gli studiosi borghesi rendono a operare la distinzione classica tra tre regimi politici principali: nazifascismi, democrazie popolari (regimi comunisti) e democrazie liberali. In questa tripartizione ab-

biamo visto come si tenda a squalificare i primi due accomunandoli sotto la categoria del “totalitarismo”, mentre si tende a privilegiare

l’idea che i diritti e le libertà siano stati garantiti solo nelle democrazie liberali. Lasciamo da parte la critica marxiana della democrazia liberale e analizziamo i fatti storici: in realtà il nesso tra democrazia e liberalismo non è sempre stato tale, ma è una costruzione storica assai recente, diventata di massa solo dopo la Seconda guerra mondiale in chiave anticomunista. Ancora per tutto il XIX secolo, infatti, i

liberali proclamano la libertà in antitesi alla democrazia intesa come suffragio universale e diritti per tutti. Il liberalismo viene invece presentato come un “giusto mezzo” tra gli estremi della monarchia assoluta (tirannia) e il regime giacobino ultra-egualitario e democratico.

Il modello ideale dei liberali è quindi la monarchia costituzionale, fondata su principio di rappresentanza, suffragio ristretto su base censitaria e diritti civili ma non sociali. In questo modello emergono le questioni dell’inclusione e della libertà. Chi deve poter godere dei

diritti secondo l'ideologia liberale? Non le donne, per le quali vige la questione femminile portata avanti dalle suffragette e dai movimenti femministi socialisti. Non i popoli coloniali e le etnie-nazioni non europee: permane a lungo anche da parte di Gran Bretagna e USA la questione della schiavitù, la segregazione razziale e un profondo razzismo. Anche dopo l'abolizione formale della schiavitù (1833 per la Gran Bretagna, 1865 per gli USA) tali fenomeni continuano nelle

colonie, diminuendo solo quando i bianchi si trovano in maggioranza demografica: di qui l’autogoverno concesso dagli inglesi a Paesi come Canada, Australia e Nuova Zelanda. La restrizione dei diritti ai

popoli coloniali resta effettiva in molti casi fino agli anni ‘60-‘70 del Novecento. La terza restrizione imposta dai liberali nel godimento dei diritti riguarda i poveri: è cioè la questione del censo; il liberalismo a lungo ha rifiutato la democrazia di massa, considerando

il

godimento dei diritti politici solo ai possidenti. Ancora nel 1861 il suffragio universale è rigettato da John Stuart Mill. Risale al 1848 a Parigi il primo governo provvisorio repubblicano-socialista in cui en-

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tra un operaio (Martin, detto Albert). Uno dei maggiori teorici della democrazia liberale, Tocqueville, in La democrazia in America (1840)

esalta il modello degli USA schiavista opponendosi strenuamente al movimento socialista (in particolar modo all'affermazione dei diritti

sindacali) e al suffragio universale. Tocqueville non esita invece ad appoggiare le guerre coloniali per l’esportazione della civiltà. Il suo punto di vista è quello del primato della libertà inteso come difesa

della proprietà individuale. In tal senso diventa possibile tracciare una linea di continuità tra Tocqueville, Disraeli, Gobincau, USA e Hitler. Il superamento delle restrizioni ai diritti viene rivendicato tra

‘800 e ‘900 progressivamente attraverso la primaria richiesta dell’allargamento del suffragio: anzitutto è fondamentale il ruolo della II Inrernazionale (1889-1914) nella rivendicazione del suffragio universale

maschile. I partiti di massa moderni nascono in tutto l'Occidente in reazione all'espansione dei socialisti, i primi a fondare organizzazioni popolari di massa. Per quanto riguarda il raggiungimento del suffragio

universale assoluto (ossia per le donne e i popoli coloniali) è invece decisivo il ruolo svolto dalla III Internazionale e dalle organizzazioni comuniste, come abbiamo già visto. Canfora mostra bene come solo

un regime elettorale proporzionale (a dispetto di quello maggioritario) sia però realmente democratico e rale diventa la rivendicazione storica dei comunisti

nel ‘900, ottenuta però solo in brevi periodi

storici anche nelle democrazie liberali più avanzate. I diritti politici sono diventati la base di rivendicazione dei diritti sociali, ossia:

- la tassazione progressiva e patrimoniale è stata ferocemente

osteggiata dai liberali; - l'espansione del welfare stare (pensioni, assicurazioni sociali, diritti sindacali, istruzione, sanità, trasporti) è stata ottenuta sotto la

pressione di una durissima lotta di classe; - per pervenire al controllo macroeconomico da parte degli enti pubblici (pianificazione, keynesismo e abbandono del liberismo) e ad

un nuovo concetto di liberalismo (1945-75) sono stati determinanti lo stimolo dato dall’esempio dell’URSSe la crisi del modello liberista (1929) che aveva precipitato il mondo verso la Seconda guerra mondiale. In generale l’intreccio tra il liberalismo e l’antifascismo è figlio soltanto della Seconda guerra mondiale ed è la base delle costituzioni antifasciste; l'innesto dell’idea della “democrazia sociale” in Occidente

nasce dall’incontro tra ideologie liberali e socialiste in un processo appoggiato dall’URSS di Stalin ma ostacolato dalla Guerra Fredda

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(1945-1991): le democrazie liberali, infatti, continuando ad essere

Paesi imperialisti hanno favorito l'avvento di dittature in chiave anticomunista in ogni parte del mondo e mantenuto il “fattore K”

(ostracizzazione verso i comunisti al governo) in Europa occidentale. La Germania occidentale non ha esitato a recuperare i nazisti in ottica anticomunista mentre in Francia, già nel 1958, Charles De Gaulle è

giunto a smantellare la Costituzione antifascista, abolendo il sistema

elettorale proporzionale e ripristinando un sistema elettorale uninominale che consente oggi ad un candidato che ha ottenuto poco più di un quarto dei voti validi al primo turno di accaparrarsi oltre il 70% dei seggi parlamentari. Storicamente i liberali si sono insomma

trovati molto più a proprio agio a fianco dei fascisti piuttosto che dei comunisti. Tra le tendenze più recenti (dagli anni ‘80 ad oggi) si può notare il ritorno della coincidenza tra liberalismo e liberismo, con il

conseguente abbandono del paradigma della democrazia sociale; a livello elettorale si privilegia sempre più il ritorno a sistemi elettorali

maggioritari con soglie di sbarramento, alla democrazia indiretta e alla restrizione del suffragio (si pensi al caso dell'UE). In assenza di un forte movimento comunista e del blocco sovietico a fare da pungolo per

lo sviluppo dci diritti sociali, insomma, le democrazie liberali stanno regredendo al loro livello ottocentesco. La retorica democratica con

cui si pretende di giudicare il resto del mondo, mai stata credibile nel corso del ‘900, diventa sempre più un insulto all’intelligenza umana.

9.3. L'inganno delle guerre umanitarie «Uno stato di guerra costante è il clima naturale della dittatura totalitaria» (Sigmund Neumann)?

Leggiamo ora questo articolo di Danilo Zolo del 2011? che tracciava all’epoca un bilancio delle guerre umanitarie più recenti: «A differenza degli animali, l'homo sapiens fa strage continua dei suoi simili e mostra di non saperlo o di non volerlo sapere. Egli sembra

? Citato in S. Forti, // totalitarismo, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 31. 3 D. Zolo, L'inganno delle guerre “umanitarie”, Alfabeta2, n. 14, novembre 2011.

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ignorare, per esempio, che fra l’inizio dell'Ottocento e la prima metà del Novecento oltre 150 milioni di uomini e di donne sono morti in guerre c in altri feroci conflitti, in gran parte nell’area europea. E le stragi sono continuate e continuano tuttora nonostante la garanzia formale del diritto e delle istituzioni internazionali. Dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale, appena spenti i bagliori delle esplosioni atomiche di

Hiroshima e Nagasaki, la Carta delle Nazioni Unite aveva definito la guerra come un “flagello” (scourge) che la comunità internazionale era impegnata a cancellare per sempre dalla storia umana. La realtà è stata molto diversa [...]. Se si adotta un approccio minimamente realistico,

le motivazioni effettive delle “guerre globali” dell'ultimo ventennio possono essere agevolmente individuate. Accanto a interessi elementari come l’approvvigionamento delle materie prime, la sicurezza dei traffici marittimi e aerei, la stabilità dei mercati, in particolare di quelli finanziari, emergono in primo piano le fonti energetiche delle quali il Medio-Oriente è ricchissimo: il petrolio e il gas naturale, anzitutto. È

se si pensa alle guerre scatenate dagli Stati Uniti, non si può che riferirle a un progetto di occupazione neoimperialistica del Mediterraneo orientale, del Medio-Oriente e dell'Asia centrale secondo la logica del Broader Middle East. Una limpida conferma degli obiettivi reali delle “guerre globali” viene dalle motivazioni formalmente avanzate dalle potenze occidentali. Si tratta di motivazioni infondate c, spesso, del rucro illegali, come provano le dichiarazioni con le quali la NATO - di

fatto gli Stati Uniti — ha giustificato la guerra del 1999 per la conquista del Kosovo. E si è trattato di una guerra finalizzata a risolvere una guerra civile all’interno di uno Stato. È questo tipo di intervento è notoriamente escluso dalla Carta delle Nazioni Unire. E altrettanto può dirsi della guerra contro la Libia che gli Stati Uniti hanno deciso [...]

in collaborazione con la Francia, l'Inghilterra e l’Italia. Si è trattato di una aggressione in perfetta sintonia con la guerra per il Kosovo, con le medesime motivazioni, con gli stessi obiettivi “umazizeri”, con la stessa NATO, sempre pronta a bombardare senza limiti Pacsi c città.

Per quanto riguarda la guerra per il Kosovo c'è da dire che la formula humanicarian intervention, con cui è stata identificata dal Presidente Bill Clinton, esprime in realtà una volontà aggressiva e opportunistica,

al di fuori di ogni rispetto del diritto internazionale e delle funzioni delle Nazioni Unite. La NATO ha fatto da copertura a una operazione di estremo interesse per gli Stati Unici, che non a caso dall’alto del cielo hanno bombardato per 78 giorni la Serbia e il Montenegro, facendo strage di migliaia di persone innocenti. Un intervento armato per “ragioni umanitarie” ha comportato oltre diecimila missioni d'attacco da parte

di circa mille aerei e l’uso di oltre 23 mila ordigni esplosivi, fra missili, bombe e proiettili all’uranio impoverito. Il risultato è ben noto: gli Stati Uniti hanno costruito nel cuore del Kosovo l'imponente base militare

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di Camp Bondstcel, che oggi ospita circa 7.000 soldati ed è quasi certamente dotata di armi nucleari. La guerra che gli Stati Uniti, assieme ai

loro alleati europei, hanno scatenato contro la Libia è la prova della loro volontà di porre sotto il proprio controllo l’intera area mediterranea oltre che il Medio-Oriente e il Sud-Est asiatico. Gli Stati Uniti cercano di nascondere la loro vocazione neocoloniale e neoimperiale sotto il mantello dell’ennesima humanitarian intervention. È sufficiente una rapida lettura della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza del 17 marzo 2011, con la quale si è deciso il No-Fly Zone contro la Libia, per cogliervi una grave violazione della Carta delle Nazioni Unite. La violazione della Carta è evidente se si tiene presente che il comma 7 dell'art. 2 stabilisce che “nessuna disposizione del presente Statuto autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengano alla competenza interna di uno Stato”. È dunque indiscutibile che la “guerra civile” di competenza interna alla Libia non era un evento di cui poteva occuparsi il Consiglio

di Sicurezza. Nulla è cambiato nella strategia egemonica degli Stati Uniti c questo avrà rilevanti conseguenze nei confronti del popolo libico che si finge di voler salvare dalle violenze di un dittatore [...]. L'ideologia

occidentale della humanitarian intervention coincide con una strategia

generale di promozione degli “interessi vitali” dei Paesi occidentali. Un progetto di pacificazione del mondo richiederebbe una severa riflessione autocritica sulle radici dell'orrore che l'Occidente si è rivelato capace di produrre in un recente passato — dalle guerre coloniali ai Lager nazisti e l’Olocausto, a Hiroshima e Nagasaki — e si mostrano ancora oggi capaci di produrre. E occorrerebbe una cultura politica euroamericana orientata a un dialogo paritetico con le altre civiltà, a cominciare dal mondo arabo-islamico, in modo da fare del Mediterraneo un crocevia della pace».

9.4. Le rivoluzioni colorate in nome della libertà Nel 2007 Domenico Losurdo pubblicava un preziosissimo

libro, La non-violenza. Una storia fuori dal mito", in cui dedicava i capitoli conclusivi alle “rivoluzioni colorate” avvenute ad esempio in Georgia nel 2003, quando l'allora premier Shevardnadze fu obbligato a dimettersi per lasciare il posto ad un governo più compiacente verso gli occidentali. Losurdo faceva notare come la tecnica usata fosse la stessa di quella con cui si cercò di incrinare il potere cinese nella

‘D. Losurdo, La son-violenza. Una storia fuori dal mito, Y.aterza, Roma-Bari, 2010.

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rivolta di Tienanmen (1989)’ e che nello stesso periodo ebbe successo nella caduta dei Paesi socialisti dell'est Europa. In molri hanno notato poi dei parallelismi sospetti con diverse altre “rivoluzioni”

messe in atto negli anni Duemila in altri Paesi dell’area post-sovietica: Armenia, Kirghizistan, l'Ucraina (2004 e poi 2013)°. Di farro

tutti questi rivolgimenti politici sono caratterizzati da una medesima metodologia, chiamata per l'appunto “rivoluzione colorata”, su cui si sono studiate e precisate a fondo le caratteristiche: controllare l’informazione e una serie di ONG operanti dentro e fuori il territorio; utilizzare situazioni di malcontento per scatenare e guidare rivolte apparentemente non-violente (per le quali è più facile simpatizzare);

utilizzare squadre specializzate, facendo leva se necessario sugli estremismi nazionalistici o religiosi; non limitarsi ad ottenere riforme e

concessioni ma perseguire senza esitare la presa del porere.” Tale casistica, lungi dall’essere causale o segreta, è stata scientemente reorizzata negli anni ‘80 dall’intellettuale Gene Sharp, ridefi-

nito “il Clausewitz della guerra non-violenta”. Nel 1983 Sharp fonda l’Albert Einstein Institution (AEI) grazie al sostegno finanziario di una serie di istituti filo-governativi

americani come NED,

NDI, IRI,

Freedom House e varie fondazioni riconducibili al miliardario George Soros?. Il risultato più importante del lavoro di questa associazione è

stato la pubblicazione, avvenuta nel 1993, dell'opera Dalla dittatura alla democrazia (da cui anche il film di grande successo How to start a revolution del 2011): un manuale in 198 punti di lotta «reglisticamen-

5 D. Losurdo, Le rivoluzioni colorate e la Cina. Da Tienanmen a Hong Kong, Marx21.it, 1 ottobre 2014.

6Si vedano a riguardo alcuni articoli che seguono questo schema, quali S. Schembri, Furono reali 0 pilotate le rivoluzioni colorate nell'ex URSS?, Puntoconti-

nenti.it, 31 luglio 2014, o anche M. L. Andriola, Ucraina: l'ombra di Otpor e delle Ong sulle “rivoluzioni colorate” floamericane, L'Interferenza, 28 maggio 2014. ? Per un approfondimento si può vedere: Fondazione di Cultura Strategica, Rivoluzioni colorate come strumento di trasformazione geopolitica, CIVG, 26 aprile 2014; sulle ONG invece A. Korybko, Wanted: NGO Whistleblowers, Thesaker.it, 15 giugno 2015. # Per un quadro completo si consiglia il pezzo molto dettagliato È. Mangano, Otpor - Rivoluzioni colorate, Fattidarte.wordpress.com, 5 gennaio 2018. Anche Giulietto Chiesa espose l'argomento pubblicamente in G. Chiesa, Ucraina: in attesa del premio Nobel per la pace a Gene Sharp”, Il Fatto Quotidiano (web), 4 marzo 2014.

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te» non-violenta, che venne tradotto in decine di lingue (tra cui molte di quelle delle minoranze etniche in Cina) e che è disponibile gratui-

tamente anche online?. È significativo che nel corso degli anni diversi ricercatori dell’AEI siano stati avvistati sia a Tienanmen sia in alcune insurrezioni anti-russe. A questo punto dovrebbe essere chiaro come la strategia studiata da Sharp sia diventata di fatto il modus operandi preferito dagli USA per destabilizzare un Paese e porlo sulla propria orbita egemonica, attraverso un sistema che consente di rimanere nell’ombra senza dover far ricorso a rischiosi, sanguinosi e costosi con-

fitti militari, i quali vanno intrapresi solo come ultima ratio, qualora ci siano condizioni e necessità stringenti, e attraverso la strategia del Leading from behind, ossia del coinvolgimento ampio di Paesi attra-

verso alleanze facenti perno su NATO o ONU, al fine principale di limitare i danni d'immagine e mascherare l'aggressione imperialista. Esagerazioni? Complottismo? No, è sufficiente analizzare

alcuni documenti per attestare la credibilità di vali tesi. A partire dal Memorandum n. 40 del Consiglio di Sicurezza Nazionale degli USA riunito da Kissinger nel 1970, che sanciva la strategia «di basso

profilo» da adottare per destabilizzare il Cile socialista di Salvador Allende'°. 5 punti che prevedevano la creazione del caos economi-

co, l'autorizzazione ad azioni paramilitari, un'offensiva di propaganda, il finanziamento di settori dell’estrema destra, l’infiltrazione

e divisione dall’interno della sinistra cilena. Uguali tattiche furono

adottate negli anni precedenti e successivi dalla CIA (su preciso mandato presidenziale) contro decine di Paesi di tutto il mondo,

come è stato mostrato ampiamente dalla lettura dei capitoli precedenti. Ancora nel 2004, in un cablo diplomatico del 9 novembre 2006 diffuso da Wikileaks, l'ambasciatore statunitense rivelava le direttive del “Piazzo di 5 punti contro il Governo Bolivariano”, che

prevedevano tra le altre cose l’infiltrazione nella base politica chavista, la protezione degli affari vitali degli Stati Uniti e l’isolamento

internazionale di Chavez. È recente infine la rivelazione di Raul Capote, nell'opera Un altro agente all’Avana. Le avventure di un in-

"G. Sharp, Dalla dittatura alla democrazia. Come abbattere un regime. Ma-

nuale di liberazione nonviolenta, Chiarelettere, Milano, 2011. "Per questo e i fatti successivi si fa riferimento a C. Fazio, // conflitto Stati Uniti/Venezuela e il VII Vertice delle Americhe, Resistenze.org, 27 marzo 2015.

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filtrato nella CIA, dei tentativi statunitensi di destabilizzare tuttora il governo cubano attraverso la creazione di gruppi di opposizione sociale e il controllo dell’informazione!'. Le rivoluzioni colorate sono insomma nient'altro che lo strumento più raffinato di cui di-

spone oggi l'imperialismo per imporre il proprio dominio su Paesi sovrani refrattari ad accettare certe misure politiche o economiche. Tale casistica rientra nell’armamentario della cosiddetta “guerra

psicologica” ma viene amplificata enormemente grazie al controllo mediatico pressoché totalitario e alla mancanza di un forte circuito

di quella che una volta veniva definita “controinformazione”. Anche in questo caso ha pesato enormemente in Occidente la crisi del movimento comunista, pilastro della lotta antimperialista.

9.5. I comunisti e la questione dei “diritti umani”

Dagli anni ‘70 gli USA (in particolar modo il presidente “democratico” Carter) iniziarono una campagna sistematica per denunciare la violazione dei diritti umani da parte dell'URSS. Gli USA non sono proprio i rappresentanti più credibili dei diritti umani, né in

casa propria né nel resto del mondo. L'accusa, però, entrata nella

mentalità comune, merita risposta approfondita. Proponiamo a tal riguardo un articolo di Ana Escauriaza Del Pueyo"?: «I Diritti Umani sono, nei nostri tempi, una graziosa postilla nella bocca delle varie forze politiche. Sono, inoltre c paradossalmente, una scusa che sembra giustificare quasi tutto. A prima vista, si può affermare che i Diritti Umani (DDUU

d’ora in poi) sono tutto e niente. Tutto

perché sembra che siano diventati quell’ideale di condizione minima di cui ogni persona deve godere e che ogni Stato deve assicurare (condizione che sembra, almeno sulla carta, già raggiunta, visto che tutti gli Stari membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite hanno ratificato almeno uno dei trattati internazionali sui diritti umani e considerato che

di fatto l'’80% di loro ne ha ratificari almeno quattro) e quindi il nulla perché sono l’argomento sulla bocca di tutti ma, se ci soffermiamo a

!"G. Colotti, «Sorro stato un agente cubano infiltrato all'interno della Cia», Il Manifesto (web), 30 maggio 2015. 12 A. Escauriaza Del Pueyo, / comunisti e la questione dei Diritti Umani, Resi-

stenze.org, 29 gennaio 2014.

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riflettere, difficilmente troveremo casi nei quali essi vengono rispettati. È così Paesi sono stati invasi, massacrati e saccheggiati in nome dei “Diritti Uman?”. Inoltre, andando più a fondo nella questione e affrontandola dal punto di vista accademico, vediamo che esistono diversi tipi di DDUU in teoria. Difatti, il mondo accademico distingue tra DDUU di prima generazione (anche conosciuti come DDUU civili e politici), di seconda generazione (detti anche sociali, culturali ed economici) e di terza genc-

razione (un insieme meno omogeneo dei precedenti che potremmo qualificare come “diritti di solidarietà”). Gli accademici, inoltre, collegano i DDUU di prima generazione con il liberalismo e quelli di seconda con le ideologie socialiste. Sostengono, inoltre, che nei Paesi socialisti i DDUU

sociali, culturali ed economici sono stati salvaguardati ralmente da far scomparire quelli politici e civili. Propongono, come esempi a sostegno della loro tesi, aneddoti come il dibattito che accompagnò la redazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (DUDU). Cosa c'è di

vero nella svalutazione o persino nella non accettazione dei diritti civili e politici da parte dei marxisti? Perché rifiutano qualcosa di, a priori, così sano come i DDUU?

Procediamo per gradi. Poco più di un secolo prima della firma della DUDU, Marx già ci parlava dei Diritti Umani nella sua opera Sulla questione ebraica (1843). Vediamo cosa diceva il padre del socialismo

scientifico riguardo il voto negli Stati Uniti: “Lo Stato in quanto Stato annulla, ad es., la proprietà privata, l'uomo dichiara soppressa politicamente la proprietà privata non appena esso abolisce il censo per l'eleggibilità attiva e passiva, come è avvenuto in molti Stati nordamericani. Hamilton interpreta

assai giustamente questo fatto dal punto di vista politico: ‘La grande massa ha trionfato sopra i proprietari e la ricchezza monetaria [...|. Tuttavia, con l'annullamento politico della proprietà privata non solo non viene soppressa la proprietà privata, ma essa viene addirittura presupposta [...J. Nondimeno lo Stato lascia che la proprietà privata, l'educazione, l'occupazione operino nel loro modo, cioè come proprietà privata, come educazione, come occupazione, e facciano valere la loro particolare essenza”. In primo luogo, cioè, Marx segnala che l'accettazione dei Diritti Umani presuppone un'accettazione sulla carta che non si realizza nella pratica c, per tanto, ha come immediata conseguenza la falsa convinzione della loro esistenza da parte dei lavoratori. La DUDU, senza andare più

lontano, funge da velo, come tentativo di estinguere le rivendicazioni sociali. Se abbiamo per iscritto (ed il nostro governo ha ratificato) una

lista di diritti dei quali noi ora siamo sprovvisti (per via della situazione economica, della congiuntura storica, del colore politico del governo...), perché non aspettare che l’ostacolo che impedisce la loro affermazione scompaia e sperare che, in futuro, noi possiamo godere di essi? Questa è la domanda che, tanto all'epoca quanto ora, la borghesia ha voluto che tutti i lavoratori si facessero. Peccato che pensare una cosa simile è

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come essere certi che mettendo un cartello che recita “vietato mangiare le pecore”, il gregge sia in salvo dai famelici lupi...

Senz'alcun dubbio la critica fondamentale marxista ai Diritti Umani viene dopo. Facendo ancora riferimento all'opera Sulla questione

ebraica: “L'uomo in quanto membro della società civile, l'uomo non politico, appare perciò necessariamente come l'uomo naturale [...]. L'uomo, in quanto è membro della società civile, vale come uomo vero e proprio {...}. L'uomo reale è riconosciuto solo nella figura dell'individuo egoista”. Che vuole dire Marx qui? Semplicemente che i DDUU non sono né umani (o almeno non di tutta l'umanità), né universali. Sono diricri

della borghesia, per la borghesia e pertanto i diritti civili e politici proteggono gli interessi di questa classe sociale (diritto alla proprietà privata, diritto alla libertà - che include la libertà di contrattazione, la libertà di

produzione... - il diritto alla libertà politica - che va inteso, all’interno del suo contesto storico, come una rivendicazione della borghesia ad accedere alle sfere politiche riservate, un tempo, soltanto alle classi nobiliari...). Ma cosa importa se sono diritti creati dalla borghesia, se poi ne beneficiano anche i lavoratori? Qui non resta altro che rispondere a

questa domanda, con un’altra domanda: esiste la libertà dell'individuo quando l’unica cosa che quest'ultimo può fare è “scegliere” quale imprenditore lo sfrutterà? Ha libertà lo studente espulso dall'università che può “scegliere” tra fare uno stage, un corso o lavorare gratis? O, per essere ancora più macabri, se si riferiscono alla libertà che ha una famiglia di lavoratori che, sfrattata dalla propria casa, può scegliere in che panchina dormire o sotto quale ponte ripararsi?

Pertanto, ha senso no. Sì, se li reseringiamo lizzarli. Ecco, quindi, la si può parlare di DDUU

parlare di diritti civili e politici in astratto? Sì c a una classe sociale e no, se vogliamo universaprima risposta: noi marxisti sosteniamo che non e che ratificarli con qualunque legge o trartaro

internazionale costituisce un atto di ipocrisia, in quanto non esistono

né possono esistere tali diritti nell’attuale regime economico. Mutuando la storica frase di Lenin, ci chiediamo quindi: Diritti umani? Per chi? Infine, se nei Paesi socialisti è stata raggiunta una situazione tale da assicurare a tutti i DDUU (tanto quelli di prima, quanto quelli di seconda generazione), perché esiste la credenza - fondata o no - che in questi Paesi i DDUU civili e politici non abbiano valore? Perché i Paesi socialisti,

ai loro tempi, spingevano più per l’affermazione dei DDUU sociali, economici e culturali, lasciando in secondo piano quelli politici e civili? Potremmo pensare: che senso ha includerli, se stiamo già assicurando non solo questi, ma molto di più? Per trovare la risposta, dobbiamo tornare a concetti già trattati in questo testo. Abbiamo visto chei diritti civili e politici non sono niente se non accompagnati da diritti minimi sociali ed economici; al contrario, una volta conseguiti questi ultimi, è

impossibile che gli altri svaniscano. Noi comunisti, cioè, difendiamo (c

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corroboriamo con le esperienze dei Paesi socialisti) che la consecuzione dei DDUU cconomici, culturali c sociali (che, per inciso, possono essere

ottenuti soltanto nei Paesi socialisti) presuppone l'estensione immediata dei diritti politici c civili, poiché l’unica barriera che hanno questi ultimi alla propria realizzazione piena è l'assenza dei primi. Le uniche barriere alla libertà che ha il lavoratore sono quelle che gli impongono i borghesi e lo Stato borghese; una volta che queste spariscono, si realizza l’integrazione del proletariato nella società e con essa tutti i suoi diritti. Per questo noi comunisti diciamo che non ci sono DDUU di prima o seconda gencrazione, bensì diritti della borghesia e diritti del proletariato. E l’esistenza degli uni impedisce la realizzazione degli altri».

9.6. Libertà per chi? Sul tema della libertà ci si è già in parte espressi nel capitolo

dedicato all'analisi del concetto di democrazia. Vediamo ora però di capire meglio il punto di vista marxista sulla questione. Per farlo utilizziamo un estratto di un testo di Al Szymanski estratto dall’opera Human Rights in the Soviet Union">: «Per usare le parole di Leon Whipple: “Chi ha i potere dispone delle libertà civili”. T.enin esprimeva lo stesso principio: “/ grandi problemi

della libertà politica [e della lotta di classe] vengono risolti in definitiva soltanto con la forza”. Porre la questione in termini di “libertà” contro “repressione” è, in ultima analisi, scorretto, perché nel mondo reale, la libertà di un gruppo di realizzare i propri interessi implica la soppressione della libertà di un altro gruppo. La libertà poggia sulla classe. Christopher Caudwell ha sostenuto: “Ciò che per il proletariato è

libertà - l'annientamento di quelle istituzioni borghesi e delle relazioni che li tengono imprigionati - per la borghesia è necessariamente una costrizione, un freno, così come la libertà borghese genera assenza di libertà per i lavoratori.

I due concetti di libertà sono inconciliabili. Una volta che il proletariato sia al potere, tutti i tentativi di ristabilire i rapporti sociali borghesi saranno altrettanti attacchi contro la libertà del proletariato e saranno respinti ferocemente come accade sempre quanto gli uomini respingono gli attacchi alla propria libertà. Questo è il significato della dittatura del proletariato. Questo è il motivo per cui, sotto la dittatura del proletariato, c'è censura, durezza ideologica e tutti gli altri dispositivi sviluppati dalla borghesia nell'evoluzione dello stato repressivo che assicura la propria libertà”.

* Riportato su Bcampisi, Libertà per chi?, Resistenze.org, 27 aprile 2015. 159

Come si giudica la superiorità di un diritto? Il diritto di vivere in

qualsiasi Paese è superiore al diritto ad un'adeguata assistenza sanitaria? Îl diritto di un medico a emigrare da un Paese socialista meno sviluppato,

per guadagnare $ 75.000 all'anno in un Paese capiralista altamente sviluppato è superiore al diritto di un bambino contadino di essere curato da una malattia potenzialmente fatale? Si tratta evidentemente di una questione di classe. Un Paese povero che fa una rivoluzione socialista deve, necessariamente, portare i suoi intellettuali e professionisti a servire i bisogni delle persone, limitando i loro privilegi relativi c riorientarli verso il soddisfacimento dei bisogni dei poveri. Dal punto di vista del

medico appartenente alla classe medio-alta, è del tutto corretto che egli rirenga di avere il diritto di emigrare verso il Paese che sceglie in qualsiasi momento. Ma dal punto di vista dei contadini (il cui lavoro ha fornito i mezzi al medico perché ottenesse la formazione sanitaria), è un diritto esigere che siano i loro bisogni ad essere serviti piuttosto che, ad esempio, quelli della classe media americana... È una questione di diritto contro diritto: una questione di classe. La rivendicazione di un gruppo della superiorità del proprio diritto rispetto a quello di un altro gruppo non si basa su criteri astratti o assoluti, ma piuttosto su quale rivendicazione sia maggiormente progressista in un dato momento. Ossia quella che meglio realizza la libertà sostanziale delle maggior parte delle persone, che genera la migliore qualità della vita per tutti, il più alto livello di dignità umana, i servizi e

la sicurezza sociale più avanzati, la maggiore partecipazione alle decisioni che riguardano la propria vita... La libertà della classe capitalista di dire ciò che vuole, andare dove vuole, ecc, è in contrasto con il diritto dei lavoratori a dire ciò che vogliono, andare dove vogliono, ecc. Cosa che diventa vividamente chiara in tempi di instabilità, guerra e declino dell’egemonia ideologica capitalistica, quando, in genere, le libertà

formali sono sospese. La libertà di espressione e di azione di una classe entra in conflitto necessariamente con quella di un’altra, così come la libertà dei razzisti bianchi di fare propaganda contro i neri entra necessariamente in contrasto con la libertà dei neri di godere dei diritti e delle libertà civili. Solo quando vi sia realmente una società senza classi, una società senza Stato, senza i mezzi per sopprimere le libertà altrui, la tolleranza verso tutte le opinioni diventa, di per sé, un obiettivo progressivo e ragionevole. Solo allora, quando le idee non siano più basate sulla classe, quando siano praticamente eliminate le discriminazioni clitarie di marca razzista, sessista, individualista, quando tutte le persone aderiscano pienamente a rapporti sociali cooperativi, può

esistere un “mercato veramente libero delle idee” dove le idee possano essere giudicate per i loro meriti e non sulla base degli interessi di classe e dei pregiudizi, e darsi quindi la situazione in cui nessuno debba o possa decidere dei limiti delle libertà altrui, praticabili effettivamente».

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9.7. La scissione culturale tra libertà e giustizia sociale Di seguito, un importante estratto di un’opera fondamentale di

David Harvey! che spiega bene quando sia avvenuta all’interno della cultura di sinistra la scissione culturale tra libertà e giustizia sociale e le conseguenze rovinose che ciò ha avuto per le organizzazioni

rivoluzionarie, facendo venir meno quell’indispensabile disciplina individuale al servizio del progetto collettivo: «I valori della libertà individuale e della giustizia sociale non sono, però, necessariamente compatibili. Il perseguimento della giustizia sociale presuppone solidarietà sociali c una propensione a sublimare le esigenze, i bisogni e i desideri individuali nell'ambito di una lotta più generale, per esempio per l'uguaglianza sociale o la giustizia ambientale. Nel movimento del ‘68 gli obiettivi che riguardavano la giustizia sociale c quelli relativi alla libertà individuale si fondevano con qualche difficoltà. L'attrito divenne più che mai evidente nella tensione che caratterizzò i rapporti tra la sinistra tradizionale (organizzazioni dei lavoratori e partiti politici a favore delle solidarietà sociali) e il movimento studentesco, desideroso di libertà individuali. Il sospetto e le ostilità che separarono queste due componenti in Francia (per esempio il Partito Comunista c

il movimento studentesco) durante i fatti del ‘68 rappresentano un caso indicativo. Anche se non è impossibile colmare tali divergenze, non è però difficile accorgersi che possono anche essere più profonde. La retorica neoliberista, con la sua enfasi sulle libertà individuali, è in grado di scparare il libertarismo, le politiche dell’identità, il multiculturalismo c il consumismo narcisistico dalle forze sociali che perseguono la giustizia sociale tramite la conquista del potere. Da tempo si è dimostrato estremamente difficile per la sinistra statunitense, per esempio, costruire la disciplina collettiva necessaria per un'azione politica tesa alla conquista della giustizia sociale senza recare offesa all’aspirazione dei partecipanti a libertà individuali e a un pieno riconoscimento ed espressione delle identità particolari. Il neoliberismo non ha creato queste distinzioni, ma ha potuto facilmente sfruttarle, se non fomentarle [...].

Appropriandosi delle idce di libertà individuale e volgendolce contro

le pratiche interventiste e regolatorie dello Stato, gli interessi della classe capitalista potevano sperare di proteggere, e anche di restaurare, la loro posizione. Il neoliberismo era del tutto funzionale a questo compito idcologico, ma doveva trovare sostegno in una strategia pratica che po-

4 D. Harvey, Breve Storia del Neoliberismo, Il Saggiatore, Milano, 2005, pp. 53-55.

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nesse l'accento sulla libertà di scelta del consumatore, non solo rispetto a prodotti specifici, bensì anche rispetto a stili di vita, modi d'espressione e un'ampia gamma di pratiche culturali. La neoliberalizzazione richie-

deva, politicamente ed economicamente, la costruzione di una cultura populista neoliberista, basata sul mercato, fatta di consumismo differenziato e libertarismo individuale. In quanto tale si è dimostrata più che compatibile con la corrente culturale chiamata “postmodernismo”, che per molto tempo era rimasta in posizione subalterna, ma che ora poteva

emergere pienamente come una dominante culturale e intellettuale. La sfida messa a punto con grande sottigliezza dalle corporazioni e dalle classi dominanti negli anni Ottanta fu questa».

9.8. La libertà intesa come liberazione della sessualità Collegata alle rematiche precedenti e a quelle successive delle rivoluzioni colorate è stata la strumentalizzazione più o meno consapevole di alcuni movimenti femministi, libertari e LGBTQI

del tema della libera sessualità, assorta per molti ad unico criterio discriminante per stabilire la giustezza o meno di un regime. Tale

concezione affonda a piene mani, più o meno coscientemente, negli ideali propugnati da W. Reich e dal primo Marcuse, che vedevano

nella liberazione dell’eros la premessa fondamentale per un'emancipazione individuale dall’alienazione. La censura dei comportamenti

libertini sarebbe invece venuta dai sistemi fascisti e borghesi. Oggi è evidente che non è così. Se ne è accorto anche lo stesso Marcuse in un secondo tempo, capendo che «questa società cambia tutto ciò che

tocca in una fonte potenziale di progresso e di sfruttamento, di fatica miserabile e di soddisfazione, di libertà e d'oppressione. La sessualità non fa eccezione».!® Senza la pretesa di voler certamente definire la questione della libertà della sessualità un tema reazionario o retrogrado, si vuole stigmatizzare l'atteggiamento unilaterale che porta ad

adottare quest'ottica come unica via per la liberazione individuale. Su questo tema proponiamo quindi, senza la pretesa di concludere l'argomento ma come spunto alla riflessione, un estratto di un arti-

' Riportato in Wikiquote, Herbert Marcuse. Per un approfondimento sull’cvoluzione del paradigma di Marcuse sulla sessualità si è fatto riferimento al cap. dedicaro all'autore all’interno di N. Abbagnano & G. Fornero, La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia, 3 voll., Paravia-Pcarson, Milano-Torino, 2012.

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colo di Alessandra Ciattini che ha posto di recente la questione in un articolo intitolato Lingannevole abbaglio della libertà sessuale!®: «Sebbene siamo ormai del tutto assuefatti ai contenuti surrettiziamente o esplicitamente sessuali della pubblicità, degli spettacoli che i mass media propongono a chi, estenuato dal lavoro, cerca semplicemente qualcosa che lo distragga dai problemi angosciosi da cui siamo circondati, non possiamo non distanziarci da questa ubriacatura, cercando di claborare una qualche riflessione critica. Come scrive Luciano Canfora la libertà sessuale costituisce “il valore assoluto” nella società contemporanca [...] c sarebbe opportuno chiederci perché, dal momento che gli

esseri umani hanno tante altre potenzialità che li potrebbero stimolare al raggiungimento di gratificazioni assai diverse tra loro [...]. Il primo tema che mi sembra opportuno trattare è che la libertà sessuale in tutte le sue forme è stata ormai concessa, perché certamente non mette in discussio-

ne l'assetto costituito, che invece nega in maniera netta tutta una serie di libertà connesse ad importanti diritti riconosciuti solo sul piano formale. Infatti, noi non siamo liberi di migliorare le nostre conoscenze, se non abbiamo mezzi propri per farlo, non siamo liberi di vivere una vita decorosa se non siamo in grado di procacciarci un'abitazione e un lavoro, non siamo liberi di essere curati, perché le strutture sanitaric sono in sfacelo c i medici di base, in molti casi, non fanno nessuna visita approfondita. Non siamo liberi di esprimere il nostro parere su questioni di dirimente importanza come la pace e la guerra, la politica economica, le alleanze militari; possiamo soltanto ogni tanto eleggere un “nostro” rappresentante adeguatamente scelto dai quei gruppi di potere, che potrei definire solo con parole assai forti. Inoltre, la maggiore libertà sessuale apparentemen-

re diffusa e accompagnata da aspetti di rutt'altro segno (come lo sfruttamento sessuale), non è scaturita solo dalle lotte degli individui, ma anche

dall’indebolimento delle funzioni economico-sociali della famiglia. Che, altra parte, la libertà sessuale non avrebbe prodotto trasformazioni radicali nelle relazioni di potere, era assai facile da prevedere per due ordini di ragioni: da un lato, i nuovi soggetti (dopo la cosiddetta

scomparsa della classe operaia), ossia le donne, gli omosessuali, i transessuali, i disabili, le entità locali, gli “altri” etc. non rivestono nessun ruolo

chiave nell'attuale assetto sociale. Infatti, esso si regge sull’opposizione capitale/lavoro, la quale oggi si concreta in nuove forme di schiavitù. Certo si potrebbe e si dovrebbe dire che le donne, allevando i figli, sobbarcandosi dei lavori domestici, accudendo gli anziani, sono certamente indispensabili al mantenimento dello status g0; ma la netta contrappo-

“A. Ciactini, L'ingannevole abbaglio della libertà sessuale, La Città Futura, 15 luglio 2017.

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sizione fatta tra uomini c donne, quasi appartenessimo a specie differenti, partorita dal cosiddetto pensiero della differenza, ha fatto sì che il fronte dci lavoratori salariati sia stato spaccato in due metà. E ciò è avvenuto perché ci si è illusi che la condizione della donna migliorasse senza cam-

biare il contesto nel quale era innestata. Infatti, sc la donna è sfruttata come donna, in primis è sfruttata come lavoratrice e il suo disvalore deriva da questa prima asimmetria [...]. Lo stesso discorso — credo — vale per le altre minoranze, che non possono veder mutare sostanzialmente

le loro condizioni di vita, se non si abbandona allo stesso tempo questo modello sociale volto alla mercificazione di tutto, corpi umani compresi, spesso intesi come qualcosa di sconnesso dalla persona presa nella sua integralità. Del resto, senza tale lacerante scissione i corpi non potrebbero essere trasformati in oggetti e il singolo non potrebbe inseguire i diversi piaceri personalizzati, ma superficiali, che gli offre la società dei consumi e che gli impediscono volutamente di pensare e di riflettere. Tale atteggiamento nei confronti del corpo umano salta agli occhi dinanzi all'espressione “utero in affitto”, che addirittura astrac un organo sia dal corpo da un individuo oltre che dalla sua persona complessiva [...]. Sia-

mo di fronte a un nuovo modello di umanità — non sono certo io a dirlo — che ha rinunciato alla sublimazione e alla consapevole riappropriazione delle motivazioni inconsce del nostro agire, lasciandosi andare alla soddisfazione di un qualsivoglia stimolo, evitando di lasciarsi coinvolgere integralmente. In questo senso l’amore non è più di moda, perché trop-

po impegnativo e richiedente la lunga durata. Questa convinzione, in passato attribuita quasi esclusivamente agli individui di sesso maschile, è diventata oggi una rivendicazione dello stesso genere femminile, che vede in tale atteggiamento una conquista e una forma di emancipazione».

9.9. La posizione di Lenin sul libero amore

In stretto collegamento con quanto affermato dalla Ciattini, presentiamo di seguito un estratto da Lenin e il movimento femminile scritto da Clara Zerkin nel 1925"! Si vedrà che la tematica non è nuova nel movimento comunista. Vediamo che tipo di risposte vi ha dato Lenin: «Molti accusano anche me di filisteismo. Ma ciò non mi turba. Gli

uccellini appena usciti dall’uovo delle concezioni borghesi, si credono sempre terribilmente intelligenti. Bisogna rassegnarsi. Il movimento

!?C. Zetkin, Lenin e il movimento femminile, Marxists.org, 1925.

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dei giovani è anch'esso contaminato dalla tendenza moderna e dalla predilezione smisurata per i problemi sessuali. [...] Mi hanno detto che

i problemi sessuali sono anche un argomento favorito delle vostre organizzazioni giovanili. Non mancano mai relatori su questo argomento. Ciò è particolarmente scandaloso, particolarmente deleterio per il movimento dei giovani. Questi argomenti possono facilmente contribuire ad eccitare, a stimolare la vita sessuale di certi individui, a distruggere la salute e la forza della giovinezza. Voi dovete lottare anche contro questa tendenza. Il movimento delle donne c quello dei giovani hanno molti punti di contatto. 1.c nostre donne comuniste devono fare dovunque, insieme coi giovani, un lavoro sistematico. Ciò avrà per effetto di elevarle, di trasportarle dal mondo della maternità individuale in quello della maternità sociale. È necessario contribuire ad ogni risveglio della vita sociale e dell'attività della donna, per consentirle di clevarsi al di sopra

della mentalità ristretta, piccolo-borghese, individualista della sua vita domestica e familiare. Anche da noi, una gran parte della gioventù lavora

assiduamente a rivedere la concezione borghese della “morale” nei problemi sessuali. Ed è, debbo dirlo, l’elite della nostra gioventù, quella che realmente promette molto. Come voi avete rilevato, nelle condizioni create dalla guerra e dalla rivoluzione, gli antichi valori ideologici crollano, perdono di forza. I nuovi valori non si cristallizzano che lentamente, con la lotta. Le concezioni sui rapporti tra l’uomo ec la donna sono sconvolte, come anche i sentimenti e le idee. Si delimitano di nuovo i diritti dell’individuo e quelli della collettività c, quindi, i doveri dell'individuo. È un

processo lento e spesso doloroso di deperimento e di degenerazione. Ciò è egualmente vero nel campo dei rapporti sessuali, per il matrimonio e la famiglia. La decadenza, la putrefazione, la melma del matrimonio borghese, con le sue difficoltà di scioglimento, con la libertà per il marito c la schiavitù per la moglic, la menzogna infame della morale sessuale e dei rapporti sessuali riempiono gli uomini migliori di un disgusto profondo.

Il giogo che le leggi dello Stato borghese fanno pesare sul matrimonio c la famiglia aggrava ancora il male e rende i conflitti più acuti. È il gioco della “sacrosanta proprietà” che sanziona la venalità, la bassezza, l’oscenità. E. l'ipocrisia convenzionale della società borghese “per bene” fa il resto. La gente comincerà a rivoltarsi contro queste deformazioni della

natura. È nell'epoca in cui vacillano Stati potenti, le antiche forme di dominazione scompaiono, tutto un mondo sociale perisce, i sentimenti

dell'individuo isolato si modificano rapidamente. Si diffonde una sete ardente di facili piaceri. Le forme del matrimonio c i rapporti tra i sessi nel senso borghese non soddisfano più. In questo campo si approssima una rivoluzione che corrisponde alla rivoluzione proletaria. Si capisce che tutta questa matassa straordinariamente intricata di questioni preoccupi

profondamente tanto le donne quanto i giovani. Gli uni c le altre softrono particolarmente dell'odierna confusione dei rapporti sessuali. La

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gioventù protesta contro questo stato di cose con la foga chiassosa propria dell'età. È comprensibile. Nulla sarebbe più falso che predicare alla gioventù l’ascetismo monastico e la sanità del sudiciume borghese. Ma non è bene, secondo me, che i problemi sessuali, posti in primo piano da cause naturali, divengano in questi anni la preoccupazione principale dei

giovani. Le conseguenze talvolta potrebbero essere fatali. Nel suo nuovo atteggiamento nei riguardi delle questioni concernenti la vita sessuale, la gioventù si richiama naturalmente ai principi, alla teoria. Molti qualificano la loro posizione come “rivoluzionaria” e “comunista”. Essi credono sinceramente che sia così. A noi vecchi non ce la danno a intendere. Benché io non sia affatto un asceta malinconico, questa nuova vita sessuale della gioventù, e spesso anche degli adulti, mi appare molto spesso come del tutto borghesc, come uno dei molteplici aspetti di un lupanare borghese. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la “libertà dell'amore”, così

come noi comunisti la concepiamo. Voi conoscere senza dubbio la famosa reoria secondo la quale, nella società comunista, soddisfare i propri istinti sessuali e il proprio impulso amoroso è tanto semplice e tanto insignificante quanto bere un bicchier d’acqua. Questa teoria del “bicchier d'acqua” ha reso pazza la nostra gioventù, letteralmente pazza. Essa è stata fatale a molti giovani e a molte ragazze. I suoi sostenitori affermano che è una teoria marxista. Bel marxismo quello per cui tutti i fenomeni e tutte le modificazioni che intervengono nella sovrastruttura ideologica della società si deducono immediatamente, in linca diretta c senza alcuna riserva, unicamente dalla base economica! La cosa non è così semplice come ha l’aria di esserlo. Un certo Friedrich Engels, già da molto rempo, ha sottolineato in che consiste veramente il materialismo storico. Io considero la famosa teoria del “bicchier di acqua” come non marxista e antisociale per giunta. Nella vita sessuale si manifesta non solo ciò che noi deriviamo dalla natura ma anche il grado di cultura raggiunto, si tratti di cose clevate o inferiori. Engels, nella sua Origine della famiglia,

mostra l’importanza propria dello sviluppo c dell’affinamento dell'impulso sessuale in rapporto all'individuo. I rapporti tra i sessi non sono semplicemente l’espressione del giuoco della economia sociale e del bisogno fisico, dissociati in concetti mediante un'analisi psicologica. La tendenza a ricondurre direrramente alla base economica della società la modificazione di questi rapporti, al di fuori della loro relazione con tutta l'ideologia, sarebbe non già marxismo, ma razionalismo. Cerco, la seta deve essere tolta. Ma un uomo normale, in condizioni ugualmente normali, si butterà forse a terra nella strada per bere in una pozzanghera di acqua sporca? Oppure berrà in un bicchiere dagli orli segnati da decine di altre labbra? Ma il più importante è l’aspetto sociale. Infatti, bere dell’acqua è una faccenda personale. Ma,

nell'amore, vi sono interessate due persone e può venire un terzo, un nuovo

essere. È da questo farro che sorge l'interesse sociale, il dovere verso la colletrività. Come comunista, io non sento alcuna simpatia per la teoria del

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“bicchier d'acqua”, benché porti l'etichetta del “bero amore”. Per di più, oltre a non essere comunista, questa teoria non è neppure nuova. Voi vi

ricordate certamente ch'essa è stata “predicata” nella letteratura romantica verso la metà del secolo passato come “emancipazione del cuore”, che la pra-

tica borghese cambiò poi in “emancipazione della carne”. Allora si predicava con maggior talento d’oggi. Quanto alla pratica, non posso giudicarne. lo non voglio affatto, con la mia critica, predicare l’ascetismo. Sono lontanissimo da ciò. Il comunismo deve apportare non l’ascetismo, ma la gioia di vivere e il benessere fisico, dovuti anche alla pienezza dell'amore. Secondo me l’eccesso che si osserva oggi nella vita sessuale non produce né la gioia né il benessere fisico ma, al contrario, li diminuisce. Ora, in tempi rivolu-

zionari, ciò è male, molto male. La gioventù particolarmente ha bisogno della gioia di vivere c del benessere fisico. Sport, ginnastica, nuoto, escursioni, ogni sorta di esercizi fisici, variari interessi intellettuali, studi, analisi, ricerche: imparare, studiare, ricercare quanto più è possibile in comune. Tutto ciò darà alla gioventù molto di più delle teorie e delle discussioni interminabili sulla questione sessuale, sulla cosiddetta manicra di “godere la vita”. Mente sana in corpo sano. Né monaco né don Giovanni e nemmeno, come mezzo termine, un filisteo tedesco. Voi conoscete bene il vostro

giovane compagno Huz. È un giovane perfetto, ricco di doti, ma remo che non ne venga nulla di buono. Si agita e si getta da un'avventura amorosa ad un'altra. Ciò è un male, per la lotta politica e per la rivoluzione. lo non garantirci, riguardo alla sicurezza e alla fermezza nella lotta, delle donne il cui romanzo personale si intreccia con la politica, né degli uomini che

corrono dietro ad ogni gonnella e si lasciano incantare dalla prima ragazza. No, questo non è compatibile con la Rivoluzione. [...] La rivoluzione esige concentrazione, tensione delle forze. Dalle masse e dagli individui. Essa

non può tollerare stati orgiastici, del genere di quelli propri delle eroine e degli eroi decadenti di D'Annunzio. Gli eccessi nella vita sessuale sono un segno di decadenza borghese. Il proletariato è una classe che sale. Non ha bisogno di inebriarsi, di stordirsi, di eccitarsi. Non chiede di ubriacarsi né con eccessi sessuali né con alcol. Non deve dimenticare e non dimenticherà

la bassezza, il fango e la barbarie del capitalismo. Attinge i suoi maggiori impulsi alla lotta dalla situazione della sua classe e dall’ideale comunista. Ciò che gli è necessario è la chiarezza ed ancora una volta la chiarezza. Così, lo ripeto, niente debolezza, niente sciupio o distruzione di forze. Dominarsi, disciplinare i propri atti non è schiavitù, neanche in amore».

9.10. Alcol e droghe, le libertà deviate «Tutte le lusinghe, tutte le possibili tentazioni si uniscono per spingere gli operai all’ubriachezza. L'acquavite è per essi quasi la sola fonte di piacere, e tutto congiura per metterglicla a portata di mano.

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l'operaio ritorna a casa stanco ed esaurito dal suo lavoro; trova un'abitazione priva di ogni comodità, umida, sgradevole e sudicia; ha un acuto bisogno di una distrazione, deve avere qualcosa per cui valga la pena di lavorare, che gli renda sopportabile la prospettiva delle fatiche

del giorno successivo; il suo umore depresso, insoddisfatto e ipocondriaco che nasce già dalle sue precarie condizioni di salute, soprattutto dalla cattiva digestione, viene spinto oltre i limiti del tollerabile dalle sue condizioni generali di vita, dall’insicurezza dell’esistenza, dalla

dipendenza assoluta dai capricci del caso, dalla incapacità di fare personalmente qualcosa per dare sicurezza alla propria posizione; il suo fisico logorato, indebolito dall’aria viziata e dalla cattiva alimentazione, chiede prepotentemente uno stimolo dal di fuori; il suo desiderio di

compagnia può essere soddisfatto solo in un'osteria, egli non ha assolutamente altro luogo dove incontrare i suoi amici; e con tutto questo l’operaio non dovrebbe sentire fortissima la tentazione di ubriacarsi, dovrebbe essere capace di respingere gli allerramenti del bere? AI contrario in simili circostanze esiste una necessità fisica e morale, per cui una grande parte degli operai deve soggiacere all’alcol. E, prescindendo dai fattori più propriamente fisici, che spingono l’operaio a bere, l’esempio della maggioranza, l'educazione trascurata, l'impossibilità di

proteggere i giovani dalla rentazione, in parecchi casi l'influsso diretto di genitori ubriaconi che danno l’acquavite ai propri figli, la certezza di poter dimenticare per qualche ora nell’ebrictà la miseria e il peso della vita; queste e centro altre circostanze agiscono così fortemente che in verità non si può rimproverare agli operai la loro predilezione per l’acquavite. L'ubriachezza in questi casi cessa di essere un vizio del quale si possa rendere responsabile il vizioso, diviene un fenomeno, la conseguenza necessaria e inevitabile di determinate condizioni nei con-

fronti di un oggetto che, almeno riguardo a queste condizioni, è privo di volontà. Coloro i quali hanno fatto dell’operaio un puro e semplice oggetto ne portino la responsabilità. Ma come è inevitabile che un gran

numero di operai cada vittima dell’ubriachezza, così è anche inevitabile che l’alcol eserciti i suoi effetti distruttivi sullo spirito e sul corpo delle sue vittime». (Friedrich Engels, da La situazione della classe operaia in

Inghilterra, 1845)"*.

Alcol e droghe leggere, assunti in proporzioni libertine ed esagerate, sono diventati strumenti potenti di assuefazione e distrazione

'8 E Engels, da La situazione della classe operaia in Inghilterra, 1845, all’in-

terno di E Marx & E Engels, Opere, vol. IV (1844-1845), Editori Riuniti, Roma,

1972, p. 335.

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soprattutto per le fasce sociali più giovani. Se è evidente, infatti, che tali svaghi sollevino l’individuo dalle miserie e dalle insicurezze prodotte dal capitalismo, è altrettanto vero che distolgano sempre più

dalla capacità di mettere in campo una seria organizzazione di lotta. L'uso eccessivo di alcol e droghe destabilizza l'individuo compromettendone sul lungo termine le capacità psico-fisiche, tanto necessarie

per mantenere la lucidità e il discernimento critico in un mondo totalitario in cui dominano l'inganno e la falsificazione. Questo discorso non riguarda solo ragazzi “annoiati” o delusi dalla società, ostili ai “massimi sistemi” e incapaci di affrontare i primi fallimenti individuali. Ad essere colpiti dal fenomeno sono anche lavoratori adulti, se non anziani, il che ne fa un problema di classe, come emer-

geva da un'inchiesta di Loris Campetti pubblicata su /{ Manifesto nel 2008'°, di cui riportiamo un estratto: «Nel 2008 ci sono realtà industriali importanti in cui addirittura il 50% dei lavoratori si fa di cocaina c, in misura minore; di eroina e di ogni sostanza capace di rendere più tollerabile una “vita di merda”, o meglio, di far sognare un'improbabile fuga da essa. Di merda è il lavoro così come la normalità delle relazioni in Paesi privi di vita sociale, che concedono ben poco alle speranze di futuro e di cambiamento, ci raccontano le tute blu. Ci si fa per lavorare, per sballare, per fare l’amore. Ci si fa alla catena di montaggio, in discoteca con gli amici, a letto con la moglie per migliorare le prestazioni sessuali; poi arriva la dipendenza e con essa lo spaccio per pagarsi la dose. Operai e operaie, capi c sorveglianti, adescati in fabbrica da altri operai: una “pista” nei cessi della fabbrica tanto per provare, l’esaltazione e il cuore che batte a mille, l'adrenalina che all’inizio fa persino aumentare la produzione, infine la consuetudine. Si lavora di notte per guadagnare trecento curo in più, 1.400 invece di 1.100 euro buoni per affrontare l'astinenza c la crisi della quarta settimana. La notte ci sono meno controlli, “tu fi è picchi di produzione e i capi non ti rompono il cazzo”».

Un discorso ancora peggiore occorre fare per le droghe pesanti, che distruggono in maniera assai più rapida la salute psico-fisica di un individuo, tanto da renderne le conseguenze politiche insoppor-

tabili per i comunisti anche di fronte al più piccolo consumo. Non è un caso che la diffusione di droghe pesanti sia stata utilizzata fin dagli

anni ‘70 sia negli USA per stroncare l’organizzazione delle Black

"L. Campetti, Quarzo “tira” la classe operaia, Il Manifesto, 16 maggio 2008.

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Panthers?°, sia negli altri Paesi, tra cui l’Italia. Lo spiega molto bene l'estratto di articolo? che segue: «Continuità. Da questo occorre partire c questo va sempre tenuto

bene in mente per non fare dell’antifascismo un fattore di liturgia ma un fronte di lotta anche in tempi come questi. Ad esempio perché Milano è la città dove un commando

(misto?) uccise nel 1978 Fausto e Iaio, due

giovani attivisti del Centro Sociale Leoncavallo che stavano conducendo una inchiesta proprio sui legami tra i fascisti e il boom dello spaccio di eroina nel territorio milanese. E anche su questo le date sono importanti. 11 1978 non è un anno qualsiasi. Dai verbali della Commissione parlamentare antimafia della XI legislatura, presieduta da Luciano Violante, il boss mafioso Tommaso Buscetra, nella dodicesima seduta della Commissione riferisce che il traffico di stupefacenti in Italia era iniziato solo nel 1978, benché fosse risaputa sin dalla relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, della VI legislatura, l’attività di narcotraffico della mafia siciliana strutturata da anni da Lucky Luciano in direzione degli Stati Uniti (la sola New York, negli anni ‘50, necessitava di almeno 100 kg di eroina al giorno, fornita ai Gambino dai clan palermitani). La crescita del traffico di droga, rispetto al contrabbando, secondo Buscetta, costituì una vera e propria rottura epocale del sistema dei valori della mafia rradizionale, che implicò anche

i principi dell’affiliazione, portando alla luce le famiglie più grosse e numerose, quelle che potevano contare su più parenti emigrati all’estero cd

in Italia. Il 1978 è dunque un anno decisivo, uno spartiacque temporale per il boom della diffusione dell'eroina nel nostro Paese strettamente connesso alla storia dei movimenti e del conflitto sociale. L’anno prima, il 1977, un ampio c combattivo movimento si era diffuso in tutte le principali aree metropolitane contro la politica dei sacrifici e il governo del compromesso storico DC-PCI. Decine di manifestazioni, scontri, morti nelle piazze, il comizio di Lama contestato

all’università di Roma, i primi vagiti dei gruppi clandestini della sinistra. Contro quel movimento fu scatenata una controffensiva violenta in cui gli apparati dello Stato misero in campo tutto l’armamentario di cui disponevano, inclusi i gruppi neofascisti e malavitosi (non a caso a Roma sono gli anni della crescita della “Banda della Magliana”). Lo spaccio massiccio di eroina “a prezzi stracciati” nei quartieri popolari e nei settori

giovanili è parte di questa controffensiva. L'idea era stata elaborata solo

2 A. De Vito, Operazione Bluemoon. Eroina di Stato, Contropiano, 30 dicembre 2016. 2 Redazione Contropiano, Milano. Nuove conferme sui legami tra fascisti, criminalità e traffico di droga, Contropiano, 18 aprile 2014.

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qualche anno prima. A rivelarlo è un fascista interrogato per la Strage di Brescia, Roberto Cavallaro. Arrestato ed inquisito dalla magistratura nell’ambito dell'indagine sul fallito golpe, riferì agli organi inquirenti che, nel 1972, mentre si trovava in addestramento in Francia, apprese dell’esistenza di una operazione segreta della CIA in Italia, denominata Blue Moon, con l’obiettivo della diffusione delle sostanze stupefacenti a base di oppiacei tra i giovani delle principali città italiane e per sviluppare disgregazione sociale, con l’obiettivo di diffondere il consumo di droga negli ambienti sociali vicini all'area della contestazione studentesca, fiaccandone le velleità rivoluzionarie cd esaltandone gli istinti individualisti ed anarcoidi, come già era stato sperimentato con successo negli USA. L'operazione Blue Moon “era condotta in Italia dai servizi statunitensi utilizzando uomini e strutture che facevano capo alle rappresentanze ufficiali di quel Paese in Italia”».

10. La religione e il terrorismo

Sul ruolo socio-politico e sulle caratteristiche culturali delle religioni si avrà modo di concentrare l’attenzione in uno dei futuri volumi. Per ora è cosa utile ribadire schematicamente alcuni loro rilevanti aspetti ideologici che le rendono alleate del totalitarismo: - il rifiuto aprioristico della violenza, ossia l’esaltazione della non-violenza;

- l’apriorismo della fede sulla ragione con il conseguente disprezzo della scienza;

- l'esaltazione del buon senso e dell’ordine presente; - il corporativismo e l’interclassismo; - l’individualismo esistenzialista precedente ad ogni etica collerrivista. Queste tematiche ideologiche diventano possenti armi cultu-

rali usate dall’imperialismo per la battaglia culturale quotidiana. Aggiungiamo che oltre all’azione culturale di lungo periodo esercitata attraverso l’aspetto più blando delle religioni, si constata che negli ultimi decenni queste siano diventate uno strumento fondamentale usato dall’imperialismo nella loro versione più intransigente, intendendo con questo le loro radicalizzazioni estremiste. A tal riguardo citeremo un articolo che traccia il tema del nesso tra il terrorismo e l’imperialismo. Vediamo ora brevemente i punti sopra elencati, concentrando l’attenzione in particolar

modo sul ruolo della Chiesa catrolica e sul complesso della dottrina cristiana, tuttora complessivamente la religione egemone socialmente e culturalmente nella società occidentale e in buona parte del “Terzo Mondo”.

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10.1. La “non-violenza” «Sono i comunisti contrari al movimento degli Arditi del popolo? ‘Tutt'altro: essi aspirano all’armamento del proletariato, alla creazione di una forza armata proletaria che sia in grado di sconfiggere la borghesia e di presidiare l’organizzazione e lo sviluppo delle nuove forze produttive generare dal capitalismo». (Antonio Gramsci, 1921)".

«Nella storia non si può ottenere nulla senza violenza e senza ferrea spietatezza». (Friedrich Engels) «Noi non abbiamo riguardi. Noi non ne attendiamo da voi. Quando sarà il nostro rempo non abbelliremo il terrore». (Karl Marx)”.

L'assunto fondamentale da cui occorre partire è la contraddizione di fondo tra la violenza della struttura capitalista (che in

varia maniera e misura causa morte, devastazione e barbarie in

ogni angolo del globo) e la facciata ideologico-morale borghese apparentemente fondata sui valori della libertà, della pace, della democrazia e della tutela dei diritti umani. Come nel peggior incubo orwelliano la borghesia afferma di portare la pace facendo ricorso

alla guerra, il progresso attraverso l'imposizione dello sfruttamento capitalistico, la difesa della natura attraverso la cessione delle risorse

all'uso spregiudicato delle aziende capitalistiche. A questo pensiero occorre contrapporre la morale rivoluzionaria del proletariato, per

la quale l’obiettivo rivoluzionario socialista è il fine ultimo che definisce il canone della moralità e quindi la “bontà” dei mezzi usati per giungervi. Occorre quindi rigettare in linea di principio l'ideologia nefasta della non-violenza, che in Italia il revisionismo

ha diffuso in maniera nefasta, ricordando come mai nel corso della storia la borghesia abbia evitato di ricorrere in ultima istanza alla violenza per reagire alla minaccia comunista. La violenza non deve

certo diventare lo strumento prediletto dal partito comunista, specie in un sistema liberale democratico in cui è apparentemente possibile una via pacifica al socialismo. Deve però cessare il rifiuto aprioristico (mentale prima di tutto) verso il ricorso alla violenza, la quale va invece osteggiata oggi puramente per una questione

‘A. Gramsci, Gli Arditi del Popolo, L'Ordine Nuovo, 15 luglio 1921. * Citazioni tratte da C. Polin, // totalitarismo, cit., pp. 12-13.

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tattica. Una buona sintesi è costituita da queste considerazioni di

Noam Chomsky: «Qualsiasi persona razionale acconsentirebbe che la violenza non è legittima a meno che le conseguenze di tale azione siano tali da far

eliminare una malvagità ancora maggiore. Poi, naturalmente, ci sarà gente che andrà oltre c dirà che generalmente ci si deve opporre alla violenza indifferentemente da tutte le conseguenze possibili. Penso che una tal persona asserisca una di queste due cose: sia dice che il ricorso alla violenza è illegittimo anche se ha come conseguenza l'eliminazione di una maggiore malvagità; o dice che in nessuna circostanza immaginabile si potrà mai eliminare una maggiore malvagità. La seconda è un presupposto autentico ed è indubbiamente falso. Si possono immaginare e trovare facilmente le circostanze in cui la violenza elimina una maggiore malvagità. Quanto alla prima, è una sorta di giudizio morale irriducibile secondo cui non si dovrebbe ricorrere alla violenza anche se eliminasse una maggiore malvagità. E questi giudizi sono disarmanti in una discussione. Posso dire soltanto che a me sembrano immorali».

10.2. L'irrazionalismo e la fede Le religioni nascono e si fondano su un messaggio irrazionale

fondato sulla fede verso l’esistenza di qualcosa che l'essere umano non può comprendere completamente né oggi né mai. Le religioni tendono insomma in ultima istanza a relegare il razionalismo in secondo piano rispetto alla fede, favorendo la diffusione di una mentalità fideistica che tende all’introiezione di un pensiero acritico e

propenso a privilegiare una fonte di auctoritas, la quale è stata spesso utilizzata nell'arco della Storia per diffondere un'idea del diritto na-

turale consona e adeguata alle classi dominanti. Se Dio viene prima di ogni altra cosa, infatti, ne deriva che non può che aver creato un ordine fondato su leggi divine e naturali (razionali perfino, secondo la teologia dominante). Se le cose stanno come stanno occorre insomma rispettarle, perché in una certa misura figlie dell’ordine razionale voluto da Dio. L'irrazionalità della fede in un'esistenza mitica, onnipotente e primordiale, serve allora agli oppressori a giustificare

“AA.VV., The Legitimacy of Violence as a Political Act? Noam Chomsky debates with Hannah Arendt, Susan Sontag, et al., Chomsky.info, 15 dicembre 1967.

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razionalmente l'ordine esistente, lasciando agli oppressi la sola speranza di una felicità futura, in una seconda esistenza ultraterrena di

cui però nessuno ha una prova razionale da esibire. I detentori della parola di Dio, ossia le caste religiose, di qualsiasi formato e colore esse siano, detengono così un enorme potere, per millenni perno di veri c propri totalitarismi capaci di espungere con la forza e con il

consenso dalle masse ogni pensiero e teoria estranea all’ottica religiosa. Tuttora l’ideologia religiosa è potente e attrattiva soprattutto per i più disperati, che in questa maniera possono ambire ad un mondo

migliore almeno in un’altra esistenza. Questa credenza, diventata una “scommessa” per molti individui, aiuta insomma a sopportare il tran tran quotidiano e ad accettare la situazione vigente. La fede e l’irra-

zionalismo diventano quindi i più imponenti ostacoli alla diffusione di un messaggio rivoluzionario teso a liberare l’uomo dalle proprie catene. Non è un caso che storicamente le organizzazioni religiose siano sempre state ostili ai movimenti rivoluzionari proletari, ed in particolar modo negli ultimi secoli ai movimenti socialisti e comunisti. Rimane ancora da portare a termine e da far rispettare su tutto

il globo il motto oraziano ripreso da Kant, «sapere 4ude»: abbi il coraggio di conoscere! Abbi il coraggio di mettere in gioco te stesso e le tue credenze! Ben si comprende quindi perché Lukàcs abbia costruito uno dei suoi capolavori, La distruzione della ragione, identificando le varie forme di irrazionalismo e fideismo residui delle religioni presen-

ti nella filosofia tedesca dell’epoca contemporanea. Il discorso di un marxista è necessariamente sempre complesso, articolato e richiede l'accettazione da parte dell’interlocutore del discorso razionale. Un

requisito non scontato. În mancanza di tale premessa il risultato non potrà che essere sempre quello già descritto da Gramsci*: «Disabituati al pensiero, contenti della vita del giorno per giorno, ci troviamo oggi disarmati di contro alla bufera. Avevamo meccanizzato la vita, avevamo meccanizzato noi stessi. Ci accontentavamo di poco: la conquista di una piccola verità ci riempiva di vanta gioia come se avessimo conquistato tutta la verità. Rifuggivamo dagli sforzi, ci sembrava inutile porre delle ipotesi lontane e risolverlc, sia pure provvisoriamente. Eravamo dei mistici inconsapevolmente. O davamo troppa importanza alla realtà del momento, ai fatti, o non ne davamo loro alcuna. O erava-

4 A. Gramsci, Letture, Il Grido del Popolo, 24 novembre 1917.

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mo astratti perché di un farro, della realtà facevamo tutta la nostra vita, ipnotizzandoci, o lo eravamo perché mancavamo completamente di senso storico, e non vedevamo che l'avvenire sprofonda le sue radici nel presente e nel passato, c gli uomini, i giudizi degli uomini possono fare

dei salti, devono fare dei salti, ma non la marcria, la realtà economica e morale. Tanto più grande è il dovere attuale di porre un ordine in noi [...]. Gli errori che si sono potuti commettere, il male che non si è po-

tuto evitare non sono dovuti a formule o a programmi. L'errore, il male cra in noi, era nel nostro dilettantismo, nella leggerezza della nostra vita, era nel costume politico generale, dei cui pervertimenti anche noi parrecipavamo inconsapevolmente [...]. Cambiare le formule non significa nulla. Occorre che cambiano noi stessi, che cambi il metodo della nostra azione. Siamo avvelenati da un'educazione riformistica che ha distrutto il pensicro, che ha impaludato il pensiero, il giudizio contingente, occasionale, il pensiero eterno, che si rinnova continuamente pur mantenendosi immutato [...]. Progrediamo per intuizioni più che per ragionamenti;

c ciò porta a una instabilità continua, a una continua insoddisfazione: siamo dei temperamenti più che dei caratteri. Non sappiamo mai ciò che i nostri compagni potranno fare domani; siamo disabituati al pensare concreto, e perciò non sappiamo fissare ciò che domani si debba fare, e se lo sappiamo per noi, non lo sappiamo per gli altri, che ci sono compagni di lotta, che dovranno coordinare i loro sforzi ai nostri sforzi».

La conclusione inevitabile di una fede irrazionalistica è il ripudio, totale o parziale, di un approccio scientifico riguardante qualsiasi questione, non solo quelle fisiche e chimiche, ma anche quelle sociali, economiche e politiche. Trionfa l'opinione della grande e

piccola autorità con gli annessi pregiudizi e luoghi comuni dovuti ad interessi e ignoranza. Viene demolito invece lo spirito critico (e autocritico), l'atteggiamento severamente scientifico e serio. In un ordine costruito su tali basi non trionfa solo un ordine reazionario, ma muore anche la civiltà scientifica e si torna ad un passato in cui

scienziati come Galilei erano costretti ad abiurare. Un errore in cui sono caduti purtroppo anche i sovietici con il caso Lysenko.

10.3. Buon senso e status quo Collegato al discorso precedente è quello che riguarda le categorie del buon senso e dello status guo: perché stare ad ascoltare i

“professoroni”, “perdere tempo” sui libri, sulla teoria, sui massimi sistemi? In fondo nella vita basta un po’ di buon senso, il quale legit177

tima lo status quo, ossia la situazione attualmente dominante. Trockij demolisce questo punto di vista?: «In un ambiente sociale stabile, il buon senso si rivela sufficiente per fare del commercio, curare degli ammalati, scrivere articoli, dirigere un sindacato, votare in parlamento, fondare una famiglia, crescere e moltiplicare. Ma non appena esso tenta di uscire dai suoi confini naturali per intervenire sul terreno delle generalizzazioni più complesse, si mostra per quel che è: il conglomerato dci pregiudizi d’una certa classe in una certa epoca. La pura c semplice crisi del capitalismo lo sconcerta; dinanzi alle catastrofi che sono le rivoluzioni, le contro-rivoluzioni e lc guerre, il buon senso non è che un imbe-

cille rondo tondo. Per penetrare i turbamenti “catastrofici” del corso “normale” delle cose, occorrono più alte qualità intellettuali, la cui

espressione filosofica non è stara dara, sin qui, che dal materialismo dialettico [...]. Il buon senso procede per mezzo di grandezze invariabili in un mondo in cui di invariabile non c'è che la variabilità. La dialettica, al contrario, considera i fenomeni, le istituzioni, le norme nella loro formazione, nel loro sviluppo e nel loro declino. L'atteggiamento dialettico nei confronti della moralc, prodotto funzionale e transitorio della lotta di classe, sembra “amorale” agli occhi del buon

senso. E tuttavia, non vi è nulla di più duro, di più meschino, di più presuntuoso e cinico che la morale del buon senso!».

In questo passo, invece, Gramsci‘ collega il buon senso al tema della fede: «nelle masse in quanto tali la filosofia non può essere vissuta che

come una fede. Si immagini del resto la posizione intellettuale di un uomo del popolo; egli si è formato delle opinioni, delle convinzioni, dei criteri di discriminazione e delle norme di condotta. Ogni sosteni-

tore di un punto di vista contrastante al suo, in quanto è intellertualmente superiore, sa argomentare le suc ragioni meglio di lui, lo mette in sacco logicamente ecc.; dovrebbe perciò l’uomo del popolo mutare le sue convinzioni? Perché nell’immediata discussione non sa farsi valere?

Ma allora gli potrebbe capitare di dover mutare una volta al giorno, cioè ogni volta che incontra un avversario ideologico intellettualmente

SL. Trockij, La loro morale e la nostra, Nuove Edizioni Internazionali, Milano, 1995, pp. 58-60. “A. Gramsci, Quaderni del Carcere, cit., Quaderno 11 [XVIII], voce 12, “Ap-

punti per una introduzione c un avviamento allo studio della filosofia c della storia della cultura”.

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superiore. Su quali elementi si fonda dunque la sua filosofia? e specialmente la sua filosofia nella forma che per lui ha maggiore importanza di norma di condotta? L'elemento più importante è indubbiamente di carattere non razionale, di fede. Ma in chi e che cosa? Specialmente nel gruppo sociale al quale appartiene in quanto la pensa diffusamente come lui: l’uomo del popolo pensa che in tanti non si può sbagliare, così in tronco, come l'avversario argomentatore vorrebbe far credere;

che egli stesso, è vero, non è capace di sostenere e svolgere le proprie ragioni come l'avversario le sue, ma che nel suo gruppo c'è chi questo saprebbe fare, certo anche meglio di quel determinato avversario ed

egli ricorda infatti di aver sentito esporre diffusamente, coerentemente, in modo che egli ne è rimasto convinto, le ragioni della sua fede. Non ricorda lc ragioni in concreto e non saprebbe ripeterle, ma sa che csistono perché le ha sentite esporre e ne è rimasto convinto. L'essere stato convinto una volta in modo folgorante è la ragione permanente del permanere della convinzione, anche se essa non si sa più argomentare. Ma queste considerazioni conducono alla conclusione di una estrema labilità nelle convinzioni nuove delle masse popolari, specialmente sc queste nuove convinzioni sono in contrasto con le convinzioni (anche nuove) ortodosse, socialmente conformiste secondo gli interessi gene-

rali delle classi dominanti. Si può vedere questo riflettendo alle fortune delle religioni e delle chiese [...]. Sc ne deducono determinate necessità

per ogni movimento culturale che tenda a sostituire il senso comune e le vecchie concezioni del mondo in generale: 1) di non stancarsi mai dal ripetere i propri argomenti (variandone

letterariamente la forma): la ripetizione è il mezzo didattico più efficace per operare sulla mentalità popolare; 2) di lavorare incessantemente per elevare sempre più vasti strati popolari, cioè per dare personalità all’amorfo elemento di massa, ciò che significa lavorare a suscitare élite di intellettuali di un tipo nuovo che sorgano direrramente dalla massa pur rimanendo a contatto con essa per diventarne le “stecche” del busto.

Questa seconda necessità, se soddisfatta, è quella che realmente modifica il “panorama ideologico” di un'epoca». Dato che il buon senso

porta a ritenere che l'opinione dominanP

te sia la migliore possibile, si rende ad accettare l’ordine esistente ed anzi a legittimarlo, rifiutando quasi istintivamente l’idea che possa essere modificato in meglio. Si ha quindi il timore dei cambiamenti e anche gli appartenenti alle classi dominate introiettano e fanno

proprio il punto di vista del padrone. Si conferma così l'assunto marxiano che le idee dominanti siano le idee delle classi dominanti, in un circolo sostenuto dalle religioni. 179

10.4. Corporativismo e interclassismo Le religioni hanno sempre privilegiato un'ottica tendente al

corporativismo: nonostante l'ammissione che vi siano differenze di classe, di ricchezza, di ceto, ecc., tutti quanti sono figli di Dio. La pace, la giustizia, la fratellanza, concetti che le religioni certamente condividono e propagandano, non si raggiungono attraverso l’u-

nione di una parte del popolo contro un'altra parte ma attraverso l’azione individuale. Questo afferma la Chiesa, la quale ha quindi sempre respinto un'idea cardine del marxismo: il concetto della lotta di classe. Al suo posto ha proposto piuttosto un approccio interclassista e corporativo, non a caso lo stesso ripreso dal regime fascista, utile per far credere che si sia tutti uguali e si lavori per il bene comune, di-

menticando le differenze di potere economico e sociale e le gerarchie imposte. Per spiegare meglio l’ostilità della Chiesa cattolica verso il

marxismo e la lotta di classe usiamo ampi stralci di un articolo di Maurizio Moscone”: «Il magistero sociale della Chiesa, al quale Papa Bergoglio ha sempre pienamente aderito, insegna che l'origine dei mali esistenti nel mondo va ricercata non nelle strutture economiche e sociali ingiuste, ma

nel “cuore” dell’uomo, che può essere risanato soltanto da Gesù Cristo, vivente nella Chiesa. È scritto nel Vangelo: “ciò che esce dall'uomo, questo

sì contamina l'uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo”. Alcuni teologi sostengono che il marxismo, anche nella sua versione leninista, possa essere accettato dai cristiani come uno strumento

scientifico utile per realizzare il cambiamento sociale, prescindendo dalla sua visione atea e materialistica della realtà. Afferma Carmona: “il marxismo leninismo non può essere accettato dal cristiano come una filosofia

integrale, poiché egli possiede una sua concezione del mondo e dell'uomo che è trascendente e umanista, però può utilizzare il marxismo leninismo come

un mezzo utile per il cambiamento sociale dato che si è dimostrato un mezzo efficiente e umano. Non per questo il marxismo leninismo sarà accettato nella sua totalità, ma piuttosto nei suoi elementi scientifici storicamente provati che configurano una Praxis di costruzione umanista di nuova società [...]”.

7 M. Moscone, // Papa, la teologia della liberazione, il marxismo, Zenit.org, 27 aprile 2013.

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Secondo Popper la teoria di Marx è “olistica”, cioè fornisce un'interpretazione totalizzante dell’uomo e della società. Questa interpretazione totalizzante è arca e marerialistica ed è il fondamento teorico-pratico del comunismo e del socialismo, entrambi concordemente condannati da tutti i Papi. Il primo Papa che si pronunciò con un'enciclica contro “le tenebrose insidie” del comunismo fu Pio IX nel 1846, quando ancora non era stato pubblicato il Manifesto del Partito Comunista (1848). Nell’enciclica Qui Pluribus (1846) viene sottolineato che il comunismo non rispetta il diritto naturale, sconvolge l'ordine sociale, è violento e

perseguita ogni religione. È scritto: “a questo punta la nefanda dottrina del Comunismo,

come dicono, massimamente avversa al diritto naturale;

una volta che essa sia ammessa, i diritti di tutti, le cose, le proprietà, anzi la stessa società umana si sconvolgerebbero dal fondo. A questo aspirano le tenebrose insidie di coloro che, in vesti di agnelli, ma con animo di lupi, sinsinuano con mentite apparenze di più pura pietà e di più severa virtù e disciplina: dolcemente sorprendono, mollemente stringono, occultamente uccidono; distolgono gli uomini dalla osservanza di ogni religione, e fanno scempio del gregge del Signore”. Nel 1849 Pio IX scrisse un’altra enciclica, Nostis et nobiscum, nella quale affermò che il comunismo e il socialismo, appellandosi falsamente agli ideali di libertà e di uguaglianza, violano tutti i diritti umani c divini, istigano gli operai alla violenza e li utilizzano per rovesciare governi legittimamente costituiti, per depredare le proprietà altrui e, in particolare, i beni della Chiesa. È scritto: “£ per ciò che riguarda questi corrotti sistemi e dottrine, è già noto a tutti che essi, abusando dei nomi di libertà e di uguaglianza, cercano di insinuare nel volgo gli esiziali principi del Socialismo e del Comunismo. È evidente poi che gli stessi maestri del Comunismo e del Socialismo, sebbene agiscano per via e con metodi diversi, hanno infine quel comune proposito di far sì che gli operai [...] si agitino in continue turbolenze e a poco a poco si addestrino a più gravi delitti; intendono poi valersi

dell'opera loro al fine di abbattere il governo di qualunque superiore autorità, di rubare, saccheggiare, invadere dapprima le proprietà della Chiesa e

poi quelle di tutti gli altri; di violare infine tutti i diritti divini e umani, distruggendo il culto divino e sovvertendo l'intera struttura della società civile”. Leone XIII nel 1891 scrisse l’enciclica Rerum Novarum, nella quale

viene affrontata la “questione sociale” cd è condannato sia il liberalismo selvaggio che il socialismo, perché il primo non rispetta la dignità della persona considerandola non come il fine, ma come lo strumento dello sviluppo economico, e il secondo, nato come reazione alle condizioni

di sfrurramento dei lavoratori presenti nei sistemi capitalistici, incita gli operai alla lotta di classe e quindi all'odio verso i padroni, proponendo la trasformazione della proprietà da privata a collettiva c danneggiando così non soltanto i legittimi proprietari, ma anche gli stessi operai. È scritto: “A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri

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l'odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo

del municipio e dello Stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale in collettiva, e con uguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono che il male sia radicalmente riparato. Ma questa via, invece che risolvere le contese, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze dello Stato, e scompiglia tutto l'ordine sociale. Con l'accumulare pertanto ogni proprietà particolare, i socialisti, togliendo all'operaio la libertà di investire le proprie mercedi, gli rapiscono il diritto e la speranza di trarre vantaggio domestico e di migliorare il proprio stato, e ne rendono perciò infelice la condizione”».

10.5. L'esistenzialismo individualista

In che senso l’esistenzialismo è un'arma della reazione e qual è il collegamento con la Chiesa? Partiamo da quest'ultimo punto: per

la Chiesa e la dottrina cristiana, ma più in generale per le principali religioni, il valore della vita umana individuale è assoluto e prioritario rispetto ad ogni altro aspetto della realtà. Vedendo la questione in questi rermini non sembrerebbe esserci niente da obiettare, tanto più che è stato lo stesso Ernesto Guevara ad affermare che «ha più valore,

un milione di volte, la vita di un solo essere umano che tutte le proprietà dell’uomo più ricco della terra»*. Il risultato cui giunge la Chiesa è a tratti paradossale. Nella dottrina cristiana è inconcepibile e inaccerta-

bile, ad esempio, che si possa uccidere un qualsiasi essere umano, fosse pure il più spregevole, perfino se questo dovesse servire a salvare un milione di bambini innocenti. Posti di fronte ad una scelta del genere

il cristiano dovrebbe astenersi dall’azione, rimanendo quindi in una inazione dalla bellezza formalmente ineccepibile ma sostanzialmente indifferente ai drammi conseguenti. Questa posizione etica, di tipo formale categorico (e quindi molto simile all’ottica dell’imperativo categorico kantiano) si collega inevitabilmente con il tema del rifiuto della violenza e della lotta di classe. Il modo migliore per non turbare l’ordine sociale, lo abbiamo detto, è rifiutare la lotta di classe, evitando di fomentare gli istinti

* Citato in Wikiquote,

Che Guevara.

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violenti degli sfruttati. In questa maniera si eviterà di assumersi le

responsabilità individuali degli inevitabili dilemmi etici postisi di fronte alla prassi politica quotidiana. In questa concezione, che gioca

sul valore della vita umana, in realtà si rimane inerti verso le violenze quotidiane del capitalismo, che sancisce tuttora la morte silenziosa

per fame e malattie di 24 mila persone ogni giorno. La risposta della Chiesa a riguardo è la preghiera, la carità o l'invito ai governanti e ai cittadini ad essere più saggi. Democraticamente e in maniera non violenta. Nel frattempo però i morti si accumulano e ogni violenza,

sia pur difensiva, che possa scaturire da un’intensificazione della lotta di classe, viene condannata, indifferentemente che essa venga agita da chi cerchi di liberarsi dalle proprie catene o da chi invece cerchi di mantenerle in essere. Le morti derivanti dai regimi comunisti andrebbero viste renendo a mente questa domanda: chi è morto? Perché? Quali sarebbero

state le conseguenze se ciò non fosse avvenuto? Non si intende certo dire che sia augurabile la morte di qualsivoglia “nemico del popolo”, né tale è srara l’azione svolta dai bolscevichi. Si constata però che la Storia dell'umanità è una storia di violenza estrema, di stragi quoti-

diane, in certi casi visibili e in altri (molto più spesso) invisibili, specie durante l’epoca capitalistica, i cui effetti perversi sulla società sono scientemente occultati, negati o minimizzati. Per quanto sia vero che

occorra cercare di salvaguardare ogni singola esistenza umana, questo assunto rimane formale e opaco se non viene calato nella realtà storica e politica quotidiana. In certi casi, in condizioni estreme, i governanti di un Paese si sono trovati nella Storia di fronte a drammatiche scelte di radicale aut-24t. Chi nega questo aspetto nega la realtà della Storia in nome di un ideale che rimane a quel punto solo astratto. C'è un altro aspetto da segnalare riguardo all’esistenzialismo: esso fiorisce nel XIX secolo con Kierkegaard, il quale non a caso è

profondamente cristiano. L'esistenzialismo viene definito dall’enciclopedia Treccani? come un insieme di autori e filosofie che hanno insistito «sull'insensatezza, l’assurdo, il vuoto che caratterizzano la con-

dizione dell'uomo moderno e sulla solitudine di fronte alla morte’ in un mondo che, sia come ambiente naturale sia come società e realtà storica,

è diventato a lui completamente estraneo o addirittura ostile». È facile

* Enciclopedia ‘!reccani, “esistenzialismo”, Dizionario di filosofia (2009).

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immaginare che da questo punto di partenza le religioni abbiano

gioco facile anzitutto nel rimuovere le cause socio-economiche del disagio individuale, poi nello spostare la risposta per la risoluzione

del problema: dalla lotta collettiva al ripiego individuale verso la fede e l’irrazionalismo religioso. In un mondo che appare degradato sotto ogni aspetto viene infatti a perdere di senso la speranza di un miglioramento della propria individualità.

Tn un mondo in cui niente più abbia davvero importanza non ha importanza neanche la presenza degli altri, né quindi le ingiustizie e i soprusi subìti da chi ci circonda. Da questa posizione nichilista le religioni intervengono con la risposta che conosciamo, ma si possono anche formulare risposte diverse, ancor più reazionarie (Nietzsche) oppure progressiste (Feuerbach e Marx). Dall’esistenzialismo è partito

Sartre, che ha poi formulato un'etica dell'impegno politico. Da segna-

lare però che tale filosofia fu duramente denunciata dai bolscevichi: «Esemplare fu la polemica ideologica e culturale condotta da Zdanov contro l’esistenzialismo sartiano, identificato come cavallo di ‘Troia della reazione nel campo delle forze progressive. Partendo dall’assunto che la reazione aveva un bisogno assoluto di una filosofia sofistica e misti-

ficante, che le permettesse di contaminare il più gran numero di uomini che sognano la giustizia e una vita migliore, Zdanov sostenne che funzione precipua di tale filosofia era quella di inculcare negli uomini la mancanza di fede nelle proprie forze, l'indifferenza per le idee di avanguardia, il dubbio di poter arrivare a risultati positivi per mezzo degli sforzi collettivi degli operai e di tutta l’umanità, lo spirito di capitolazione»!0.

Oggi nelle società occidentali si assiste ampiamente ad un

trionfo silenzioso dell’esistenzialismo individualista, perfetto arredo del sistema non solo capitalista ma imperialista nel senso più guer-

rafondaio. La stessa religione cattolica, dopo aver favorito in ottica anti-marxista questa filosofia, oggi si trova in difficoltà nel cercare di arginarla, cercando di colmare il nichilismo imperante con i propri valori. Nelle società opulente del Capitale, però, la secolarizzazione avanza imperiosa e diventa la nuova religione, come già intravisto

dall'ultimo Pasolini prima di morire. L'esistenzialismo individualista è una filosofia che è entrata inconsapevolmente nel senso comune in !"E, Barone & A. Viola, Gli insegnamenti di Zdanov, Resistenze.org, 31 agosto 2014. 184

Occidente, favorendo non solo edonismo e amoralismo ma anche

disimpegno e apoliticismo. Nel “Terzo Mondo”, invece, dove le pre-

occupazioni delle popolazioni non sono le merci capitalistiche ma la sopravvivenza quotidiana, vige ancora una lettura religiosa diversa:

un'etica collettivista e del sacrificio individuale che ben si coniuga con le istanze degli integralismi e fondamentalismi. Per loro vale an-

cora l’idea marxiana che la religione, vista come atto di rivolta, possa offrire una felicità nell’aldilà, daro che viene negata nel presente.

10.6. Il terrorismo e i fondamentalismi religiosi

Oltre ai loro aspetti “ideologici”, quindi, le religioni sono tuttora utili serumenti del Capitale, in modo ancor più appariscente nelle loro versioni integraliste ed estremiste. Lo spiega bene Alberto Rabilotta!', giornalista argentino-canadese: «Nel 1972, quando iniziai collaborare con Prensa Latina e scrivevo alcune note per i media messicani - £/ Dia ed Excébior -, un collega canadese mi riferì di un incontro molto discreto fra i responsabili delle politiche di informazione del sistema radio a onde corte della NATO che avrebbe avuto luogo in un albergo di Montreal. In tale occasione sarebbe stato presentato “n nuovo piano” di lotta ideologica contro l'URSS e gli

altri Pacsi socialisti, ma ora si può affermare che ciò che venne detto c pianificato in questo incontro ampliò su scala globale e a tutti i terreni

possibili la lotta ideologica caratteristica del confronto bipolare della Guerra Fredda. La riunione era in realtà una lunga serie di presentazioni dei responsabili della linca informativa cd editoriale di queste radio, in particolare di Voice of America e Radio Free Europe/ Radio Liberty, che formularono le modalità con cui organizzare la narrazione e la credibilità della propaganda contro l'URSS e il comunismo,

ma in realtà anche

contro rutti i Paesi che a quel tempo reclamavano una vera indipendenza, un nuovo ordine economico mondiale, la fine del razzismo e della discriminazione razziale in tutte le sue forme. In poche parole, contro

quelli che assumevano posizioni antimperialiste ed erano visti come alleati dell'URSS. La nuova offensiva ideologica dell'impero e il contenuto della sua propaganda, secondo gli ideologi dell'apparato propagandistico

della NATO in quella riunione a Montreal, avrebbe dovuto raggiungere

"A. Rabilotta, Da quando Usa e Nato patrocinano il terrorismo?, Resistenze. org, 14 gennaio 2015.

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e radicarsi nei settori della popolazione verso cui doveva essere diretta: musulmani c nazionalisti radicali in alcune regioni dell'URSS c di aleri Paesi socialisti; ebrei sionisti (i refuscnik) russi che volevano emigrare in

Israele c cattolici conservatori nei Paesi baltici, in Polonia e altri ancora. Ciò che in realtà si cercava di ottenere in quelle società socialiste e laiche era di alimentare - quindi finanziare e organizzare - il “rinascimento” delle credenze c delle pratiche religiose radicali che entrano in conflitto

diretto con la società e il potere politico, e con il nazionalismo provocare rivendicazioni o contraddizioni nelle società e nelle regioni suscettibili di separatismo, il che presupponeva la creazione di situazioni di scontro civile, poliziesco e persino militare.

Il seme dello “scontro di civiltà”, piantato dalla propaganda della NATO e adottato senza riserve dai sempre più concentrati mezzi di stampa dei Paesi capitalisti, giustificò la creazione di Al-Qacda per combattere i sovietici e i gli afgani progressisti in Afghanistan e, con il crollo dell'URSS e del campo socialista europeo, è staro ampiamente utilizzato nci Balcani per la divisione della (ex) Jugoslavia e in seguito per fomentare gli attacchi terroristici e il conflitto in Cecenia, in Daghestan c nelle altre regioni dell'ex Unione Sovictica, incluso il recente caso dell'Ucraina. Stato ufficialmente atco, l’URSS cra in realtà uno Stato socialista multinazionale e multiculturale, dove convivevano molte nazionalità c

religioni, dagli ortodossi cristiani ai musulmani, passando per gli ebrei c i cattolici, tra gli altri. Questa era l'apparente forza dell’internazionalismo proletario, come si diceva a Mosca, ma anche la sua principale debolezza agli occhi della dirigenza imperialista. Va ricordato però che il confronto creato dalle ambizioni imperialiste degli Stati Uniti non si riduce alla

Guerra Fredda tra Mosca e Washingron, dato che in Medio Oriente e in Asia predominavano — a cominciare dai primi anni ‘70 — e come risultato della decolonizzazione e del consolidamento del movimento dci Paesi non-allineati, gli Stati laici nei quali convivevano, sotto regimi politici differenti, le più diverse culture, nazionalità e religioni. In altre parole, si era all'apice della lotta per eliminare ogni forma di discriminazione razziale, inclusi l’apartheid sudafricano e il sionismo, che culminò nella

votazione della risoluzione 3379 dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel novembre 1975, annullata il 16 dicembre 1991, otto giorni

dopo la dissoluzione dell'URSS, dalla risoluzione 4866. È in questa

congiuntura storica che i Paesi non-allincati, con l'appoggio del campo socialista, esigettero la creazione di un “nuovo ordine economico mondiale” che ponesse fine ai diseguali “termini di scambio” per potere quindi accedere allo sviluppo socio-economico, e lottarono presso l'Unesco per stabilire un “uovo ordine mondiale dell'informazione e della comunicazione”, iniziative che l'imperialismo ed i suoi alleati riuscirono a sconfiggere.

Ma ora, a distanza di anni c documenti alla mano, possiamo comprendere che questo fu anche il momento in cui gli Stati Uniti ed i

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loro alleati in Furopa e in Giappone lanciarono dai circoli di potere la narrazione per giustificare economicamente e politicamente lo smantellamento del sistema del welfare (l'intervento dello Stato in economia per garantire un certo sviluppo socio-economico), con l’obiettivo (alla fine raggiunto negli ultimi duc decenni) di porre lo Stato al servizio esclusivo

dei capitalisti e poter così tornare al liberalismo del XIX secolo e alle vecchie pratiche imperialiste e colonialiste. Da questo punto di vista, era il momento propizio perché l'imperialismo ed i suoi alleati della NATO ampliassero il contesto e la copertura geografica della Guerra Fredda, garantendo la continuità nel passaggio dal confronto tra un sistema capitalista-imperialista e un sistema socialista, alla preparazione dell’cspansione imperialista del sistema neoliberale che già stava “bollendo”. Non è un caso che sia stato nel 1973 che David Rockefeller, assistito da Zbigniew Brzezinski, consigliere per la politica estera del presidente democratico Jimmy Carter, creò la Commissione trilaterale, che serviva per trasmettere ai più alti livelli la nuova offensiva ideologica dell'impero e della NATO. I documenti della Commissione trilaterale, in particolare The Crisis of Democracy del 1975, dovrebbero essere letti alla luce degli eventi attuali e recenti, per provare, fuori da qualsiasi teoria complot-

tista, che fu allora e in modo piuttosto pubblico, che si stabilirono le lince dell'offensiva politica c ideologica dell’imperialismo per stabilire l'egemonia nella sua fase neoliberista, compresa la liquidazione della

democrazia liberale con un qualche contenuto reale nelle società dei Paesi del campo occidentale, come stiamo vedendo oggi. Questo spiega anche la continuità, da allora fino ad oggi, dell'offensiva ideologica c delle

politiche destinare a minare le società e distruggere gli Stati dell’Unione Sovietica e dei restanti Pacsi socialisti, c ora di Russia, Cina ed altri Pacsi in via di sviluppo o emergenti, che possono costituire il principale ostacolo all’egemonia neoliberale. Mentre data 1979 il primo caso documentato in cui gli Usa cd i loro alleati crearono, addestrarono e convertirono gli estremisti islamici

in “combattenti per la libertà” per combattere in Afghanistan contro i sovierici e gli afgani progressisti, non passò molto tempo prima che gli Stati Uniti effettuassero operazioni illegali con i narcotrafficanti in America Latina per armare e finanziare i “combattenti per la libertà" che lottavano contro i sandinisti in Nicaragua, politica che portò alla creazione dei “car-

telli” del narcotraffico e all'espansione della criminalità, della corruzione e della violenza nella regione. Politiche simili sono stati seguite da allora in decine di Paesi in Asia, Medio Oriente e Africa, spesso con l’assistenza c il finanziamento dell'Arabia Saudita e il sostegno di Israele (come nel

caso lran-Contras), il che conferma che il diabolico piano del “divide et impera”, del distruggere gli stati e le società che difendono la loro sovranità nazionale, è stato sistematicamente applicato sia dall’apparato della propaganda statunitense e NATO, come dalle sue agenzie di sovversione

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e spionaggio. Niente di nuovo o sorprendente se si pensa che dalla fine

della Seconda guerra mondiale, attraverso la “Operazione Gladio”, Stati Uniti e NATO mantennero contatti e legami con le forze ultra-nazionaliste che avevano sostenuto o partecipato ai vari regimi nazi-fascisti

curopci e che ora servono nei Paesi baltici e in Ucraina - dove controllano gli apparati statali di sicurezza - per la politica di scontro con la Russia».

Risulta quindi condivisibile il seguente giudizio di tre prestigiosi accademici: «le guerre etniche e di religione, lanciate o fomentare, sono sempre ‘ state una copertura di interessi politico-economici. I fondamentalismi, sia quelli che giustificano guerre, sia quelli alla base di atti terroristici, sia che usino l'islam, il cristianesimo, l'ebraismo o l’induismo, sono una

sovversione, non una conseguenza della cultura religiosa che fa parte del tessuto di una popolazione e di una tradizione che invece permette la convivenza con membri di altre religioni. Anche i fondamentalismi

contemporanei vanno perciò visti come strumenti dell’imperialismo»"?.

!: L. Vasapollo, H. Jaffe, H. Galarza, /ntroduzione alla storia e alla logica dell'imperialismo, cit., pp. 90-91.

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11. L’alienazione consumistica

«Soddisfatto il primo bisogno, l’azione del soddisfarlo e lo stru-

mento già acquistato di questo soddisfacimento portano a nuovi bisogni: e questa produzione di nuovi bisogni è la prima azione storica». (Karl Marx & Friedrich Engels)".

«Il consumismo altro non è che una nuova forma totalitaria — in quanto del tutto totalizzante, in quanto alienante fino al limite estremo

della degradazione antropologica, o genocidio (Marx) — e che quindi la sua permissività è falsa: è la maschera della peggiore repressione mai esercitata dal potere sulle masse dci cittadini». (Pier Paolo Pasolini).

«Ci sarà, in una delle prossime generazioni, un metodo farmacologico per far amare alle persone la loro condizione di servi e quindi produrre dittature, come dire, senza lacrime; una sorta di campo di

concentramento indolore per intere società in cui private di farro delle loro libertà, ma ne saranno quanto verranno sviate dalla volontà di ribellarsi per ganda o del lavaggio del cervello, 0 del lavaggio del

le persone saranno piuttosto felici, in mezzo della propacervello potenziato

con metodi farmacologici. E questa sembra essere la rivoluzione finale». (Aldous Huxley)}.

'K. Marx & E Engels, L'ideologia tedesca, 1846, all’interno di K. Marx & E

Engels, Opere Scelte (a cura di L. Gruppi), Editori Riuniti, Roma, 1979, p. 241. 2 PP. Pasolini, Non aver paura di avere un cuore, Corriere della Sera, 1 marzo

1975. *Citata in Wikiquote, A/4ous Huxley, che riporta come fonte una conferenza tenuta nel 1961 alla UCSFE School of Medicine di San Francisco, citata in D. L.ivingstone, 7ranshumanism: The History ofa Dangerous Idea, Sabilillah Publications,

2015, p. 179.

189

Nell’analisi marxiana il concetto dell’alienazione riguarda soprattutto l'ambito lavorativo, senza però andare ad approfondire molto le conseguenze psico-culturali in connessione alla società e al

conseguente sistema economico capitalistico. Aiutiamoci a definire la questione con una definizione tratta da un dizionario” apposito: «Marx elaborò il proprio concetto di alienazione che comprendeva le forme diverse del fenomeno nella sfera del lavoro, nell’ambito delle

relazioni tra gli uomini e nell'immagine di se stessi che gli uomini costruiscono; in ogni caso il termine di alienazione mantiene il suo significato generale di separazione dall'uomo di ciò che materialmente e spiritualmente gli appartiene a vantaggio di qualcosa che si trova fuori dall'uomo stesso. Nella sfera del lavoro, l'alienazione si manifesta in primo luogo

all’interno della natura stessa di questa attività che in luogo di essere lo strumento per soddisfare le necessità delluomo è un mezzo diretto a realizzare altri scopi e cioè il guadagno immediato; conseguentemente il prodotto del lavoro diventa un oggetto estranco al lavoratore, non gli appartiene e contribuisce a costituire un mondo di oggetti regolati da leggi proprie e sfuggito al controllo di chi ha contribuito a costruirlo. In altri termini si è di fronte a un’espropriazione generalizzata dell'umanità a beneficio dell'oggetto merce al cui possesso è diretto ogni sforzo, in modo tale che la stessa vita interiore dell’individuo viene immiscrita fino a uno stadio pressoché animalesco [...].

L’alienazione del lavoro è la forma più importante di alicnazione sulla quale si fondano o alla quale si riconnettono tutte le altre forme. Nel lavoro alienato intelligenza e capacità di decisione vengono eliminati, il lavoratore compie meccanicamente le azioni necessarie alla produzione di oggetti che non gli appartengono e dei quali caratteristiche e destinazione sono state decise altrove senza la sua partecipazione e per finalità a lui estranee. Lo scopo dell’esistenza umana appare rovesciato: il lavoro non è più il mezzo attraverso il quale gli uomini realizzano se stessi migliorando le condizioni materiali e spirituali della loro esistenza, ma un puro mezzo per sopravvivere; paradossalmente “i lavoratore vive

soltanto per guadagnarsi da vivere”. La teoria marxiana dell'alienazione, a differenza delle precedenti riflessioni sull'argomento, colloca il fenomeno

all’interno dei rapporti di produzione dell’attuale società che impediscono ta l’altro lo sviluppo armonico e globale dell’uomo, e spingono invece a forme di sviluppo umano irregolare c parziale alle quali soggiacciono anche se in modi c misure diverse gli stessi uomini che appartengono alle

‘E. Mascitelli, Dizionario dei termini marxisti, cit., voce “Alienazione”, pp. 18-19.

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classi al potere [...]. Ampiamente ripresi dopo il ritrovamento dei Manoscritti economico filosofici del 1844, avvenuto negli anni trenta, i temi marxiani dell’alicnazione sono stati oggetto di un gran numero di studi

c di interpretazioni diverse, spesso collegate, appunto perché riguardanti la genesi della condizione attuale dell’esistenza umana, con le correnti

dell'esistenzialismo contemporaneo. Approfondimenti e arricchimenti della teoria dell’alienazione sono stati compiuti da vari studiosi c in particolare da quelli che nel loro insieme appartengono a quell’indirizzo di pensiero noto come hegelo-marxismo o marxismo occidentale. La teoria dell’alicnazione è anche stata il luogo di incontro per confrontare

le teorie di Freud con quelle marxiane c marxiste».

L'alienazione è oggi uno strumento fondamentale dell’imperiali-

smo perché è quello che più di tutti è stato in grado di egemonizzare le menti, proporre uno scopo quotidiano della propria vita individuale

(accumulare merci) e distogliere l’attenzione dalle profonde contraddizioni scaturite dal sistema capitalistico a livello locale e mondiale. Ne

consegue, non necessariamente ma sostanzialmente, una degradazione anche esterico-morale dell'agire umano, ben riassunta dall’aforisma attribuito a Majakévskij secondo cui «un tempo i produttori di auto le costruivano per poter comperare dei quadri; oggi i pittori fanno dei quadri

per potersi comprare delle auto». Ma soprattutto una degradazione etica che conduce ad un'insoddisfazione perenne, scaturita dalla creazione di sempre nuovi “bisogni indotti”, cioè bisogni che non nascono spon-

taneamente nell’uomo, ma che vengono fatti sorgere nell’individuo dalle imprese, soprattutto attraverso la pubblicità, al fine di stimolare le vendite dei propri prodotti. Senza la pretesa di chiudere l'argomento pubblichiamo di seguito alcuni materiali che possano chiarire meglio alcuni di questi aspetti. Cominciamo dal seguente, lungo ma signifi-

cativo, estratto, che introduce in maniera brillante la questione introducendo alcuni ragionamenti che spaziano tra psicologia e sociologia: «Il centro dell’esistenza autonoma dell’uomo è formato da molte cose: il senso della propria identità, la convinzione di essere un individuo unico, la capacità di rapporti durevoli e significativi, il senso di essere stati formati da una storia individuale, il rispetto per il proprio lavoro e il piacere che se ne trae, i ricordi, i gusti, i piaceri personali. Queste prerogative ci permettono di accettare le richieste ragionevoli della società

senza smarrire la nostra idca di noi stessi, anzi nc fanno un'esperienza remuncratrice, spesso creativa. Dunque, non un rifiuto aprioristico dell’in-

tegrazione c dei cambiamenti, che sono necessari, ma una richiesta metodologica di cenere presenti rutte le variabili in gioco: prima di ogni altra, 191

l'autonomia individuale. Finora si è fatto gionevole richiesta, e il progresso tecnico siasi grado di integrazione possibile. Gli sono sotto gli occhi di tutti, tuttavia per

molto per ragionare questa raha superato di gran lunga qualeffetti derivati dallo squilibrio comprenderne appieno la por-

tata bisogna considerare che se prendere decisioni crea l’Io, la costrizione alla passività lo disintegra. Questo spiega il fenomeno della regressione e segnala il pericolo insito nell'accettare beni di consumo mai richiesti e ricercati, da altri voluti e prodotti senza minimamente tenere conto dei

nostri reali bisogni; qualsiasi impresa di qualunque tipo, cioè, realizzata senza il nostro consenso, cd il nostro contributo, lungi dal portarci vantaggi, ci annulla. L'indicazione pratica ricavabile, possiamo riassumerla così: i nostri bisogni ed i nostri problemi vanno soddisfatti c risolti con

il nostro personale intervento, c la complessità della vita moderna non deve rappresentare un alibi per chi tende a dimenticare il singolo per tale via acuendogli, in buona o cattiva fede, molti disturbi di natura emotiva. Giacché, infinc, la possibilità di risolvere detti disturbi dipende dal grado di integrazione della personalità, sentirsi esclusi equivale ad ammalarsi. Le tecniche per escluderci sono molto progredite e possiamo sentirci esclusi non solo quando ci è impedito di operare una scelta, bensì anche quando le scelte proposteci sono innumerevoli, labirintiche; allora psicologicamente si rimane insoddisfatti. Fare poche scelte, ma precise c perfettamente controllate da noi invece ci dà veramente benessere e soddisfazione. La civiltà di massa non consente soddisfazioni del genere, accresce la sensazione di incertezza sulla propria identità, la situazione di una limitata autonomia, rende molto difficile sviluppare i rapporti personali, cd il

moltiplicarsi di babiloniche combinazioni paralizza le nostre energie. Ci accorgiamo che quando sono possibili molti modi di vita, molte scelte, il modo di vita scelto non appare più molto importante. La società moderna

favorisce inoltre l'illusione d'una maggiore libertà, che rende catastrofica l’esperienza di non riuscire a soddisfare i propri desideri. Il risultato più grave è un’insicurezza penosa, il bisogno d'assistenza. Ma chi possiede l’insospettabile autorità morale ed intellettuale per consigliarci? Una simile autorità risulta assente. La vanificazione di sagge direttrici si fa sentire

quando dobbiamo operare delle scelte nel caos dei nostri desideri istintivi, praticamente impedendocelo. Da ciò i timori suscitati da una società prevista nel prossimo futuro “ir cui le persone non reagiscono più spontaneamente e automaticamente ai capricci della vita, ma siano pronte ad accettare senza critiche le soluzioni proposte dagli altri” [Bettelheim, ndr). Un altro timore

ben fondato può dirsi la sensazione che si continuino ad uniformare tali soluzioni al progresso tecnico senza tener conto di quanto possono costare

alla nostra libertà. Ritorna il problema dell'autonomia: i cambiamenti per essere validi, debbono essere lenti, debbono venire assorbite dalle persone

in modo non traumatico. In generale, un'evoluzione molto rapida delle condizioni economiche e sociali rende estremamente difficile conservare

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una personalità autonoma; in particolare, le persone dotate di scarsa autonomia, quasi in preda ad una cupidigia da annientamento, accettano qualsiasi novità. Possiamo considerarci di fronte ad una reazione a catena: il rapido cambiamento accresce il numero delle persone senza autonomia, e tale massa, accrescendosi, rende possibile un'ulteriore accelerazione del processo di trasformazione, aumentante a sua volta gli uomini privi di autonomia. Una siffatta cloaca negherà per sua stessa natura alienata ogni vocazione individuale c, nel campo delle libere attività già emarginate

dall'industria, le ripercussioni saranno gravissime. Riportandoci a quanto già esposto riguardo al disagio dell’operaio provocato dalla sua impossibilità di influire sull’intero processo produrrivo, c allargando il discorso alle actività terziarie ed ad altre attività, bisogna qui aggiungere che nel nostro mondo molti scelgono la loro occupazione per ragioni nevrotiche e non seguendo la loro inclinazione, perché hanno dissociato le scelte spontanee dall'attività praticata per vivere. Da qui un'altra contraddizione subordinata: siamo convinti dell'importanza del lavoro giacché il lavoro provvede al nostro sostentamento, ma questo lavoro è talmente noioso ed estraneo ai nostri veri interessi da portarci intimamente a disprezzarlo; quindi il lavoro è importante e nello stesso tempo non importante. La contraddizione si sdoppia dopo il lavoro: il tempo libero rappresenta lo scopo del lavoro ed è perciò molto importante, ma dato che si crede diffusamente alla preminenza di guadagnarsi da vivere, anche il tempo libero non è importante e importante nello stesso tempo. Ne derivano insoddisfazioni e conflitti. L'eclissi delle vocazioni si svolge sorto il segno della tetra equazione inconscia tra danaro e posizione sociale, sentita al limite come un'autentica ragione del proprio agire. Il mito della ricchezza, stante l'impossibilità di investimenti libidici negli oggetti del proprio lavoro, prende forza e rappresenta la tavola a cui nel naufragio ci si aggrappa. E di vero naufragio psicologico si tratta quando si avverte l’importanza della nostra persona trascurabile in un processo molto complicato per ottenere e distribuire il prodotto finito, trascurabilità che significa pronta sostituibilità non solo nei lavori ripetitivi, seriali,

ma anche nei grandi laboratori di ricerca. Le grandi aziende sono sentite, allorché si guarda a chi le guida, provviste di cento teste cd il controllo sui sottoposti senza volto, remoto. Ecco un altro fattore d’alienazione: la distanza vera o immaginaria. Distanza che si trova nella struttura del sistema politico e dell'apparato burocratico come nelle moderne imprese tecnologiche. Troppi ostacoli perché l’uomo possa ribellarsi quando sente manipolato il suo destino. E così, accettando il contagio della passività, si

defila nella massa e si rassegna alla depersonalizzazione: sentire d'avere ragione non l’aiuta, gli procura solo un supplemento di sfiducia su se stesso. l’effetto debilitante della distanza, rafforzato da quello del tempo (dittatori, capi di Stato democratici e persone importanti, consciamente o inconsciamente si fanno aspettare, e chi aspetta ha da una parte l’im-

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pressione della loro potenza e dall'altra quella della propria inferiorità) produce una sottile e dolorosa deformazione: spinge al tentativo di raggiungere una completa realizzazione di sé non più nel campo del lavoro e dei rapporti interumani, bensì nella vita privata. Per riuscire però bisognerebbe organizzare autonomamente tutta la propria vita, ce in parti-

colare le attività dedicate al piacere. Cinema, spettacoli televisivi, sport e consimili tipi di divertimento allora intervengono a frustrare il tentativo

di fare esperienze originali e di risvegliare in sé la ricerca di qualcosa di importante, anzi “sono in massima parte ideati allo scopo di impedire che

queste esperienze si verifichino” {Berrelheim, ndr]. Perduta la fondamentale capacità di regolare il lavoro, l’uomo smarrisce anche la libertà nei diver-

timenti. Bettelheim sottolinea la grande importanza rivestita dalle scelte autenticamente personali dallo stile di vita significativo ed individuale e mette in guardia contro i tarati pseudo-piaceri del conformismo. Trascu-

rare la ricerca d'autenticità nel gusto ec nello stile di vita significa rinchiudersi dentro un cerchio sterile quand’anche ci fossero molte epidermiche inconcludenti e prefabbricate variazioni nello svolgimento quotidiano. Fallito anche il tentativo di trovare autonomia personale nella sfera privata, quali stimoli troverà l’uomo per operare in modo utile? Ci penserà la società a strapparlo dalla sua svogliatezza usando su di lui

pressioni sempre più forti: lo farà non importa se coercitivamente 0 con mezzi di persuasione, non per carità e solidarietà, ma semplicemente per

garantirsi il grado di cooperazione di cui ha bisogno. Il moderno Stato di massa usa per esercitare il suo controllo una tecnica basata sulla burocrazia impersonale, sulla dittatura impersonale del gusto e su molti fonti

di informazione anonime. I mezzi di comunicazione di massa (i giornali, le radio, cinema, televisione, pubblicità) richiamano le popolazioni dall’inerzia in cui sono state gettate solo per rigettarvele subito dopo che hanno prodotto e consumato la propria parte. Forse per sfuggire al pessimismo, Bettelheim ipotizza senza troppa convinzione anche uno Stato di massa buona per riconoscere subito dopo che negli Stati di massa conosciuti, tanto i freni inibitori autonomi quanto le profonde soddisfazioni, sembrano destinate ad indebolirsi di generazione in generazione. Da qui la crescente violenza nel seno della società che richiede controlli esterni

sempre più forti. Nel calcio, chi ha qualche volta assistito ad un'invasione di campo sa molto bene di che è capace questa violenza. Inerzia e violenza appaiono irrefutabilmente i ripugnanti estremi tra i quali oscilla la nostra società e si capisce che qualora non si interverrà modificando le attuali strutture sociali, i rentativi già in atto dello Stato di massa per liberarci da alcune tendenze istintive non porteranno alcun giovamento»”.

3 G. Amedeo, La passione astratta. La sostituzione dell'arte con lo sport nella società di massa neo-capitalistica, Laboratorio Edizioni, Napoli, 1980, pp. 80-84.

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11.1. La pubblicità strumento di educazione al capitalismo Ha scritto il grande scrittore Eduardo Galeano®: «le masse dei consumatori ricevono ordini in una lingua universale: la pubblicità è riuscita a fare quello che l'Esperanto volle ma non riusci. Chiunque, in qualunque posto, capisce i messaggi che il televisore trasmette. Nell'ultimo quarto di secolo, nel mondo, le spese per la pubblicità sono raddoppiate. Grazie questi massicci investimenti, i bambini poveri bevono sempre di più Coca Cola e sempre meno latte, cd il tempo

dedicato all’ozio sta diventando tempo per il consumo obbligatorio. Tempo libero, tempo prigioniero: le case molto povere non hanno un letto, ma hanno un televisore, ed il televisore ha la parola. Comprato a

rate, quel piccolo animale dimostra la vocazione democratica del progresso: non ascolta nessuno, ma parla a tutti. Poveri e ricchi conoscono, così, le virtù delle automobili ultimo modello, e poveri e ricchi vengono a sapere dei vantaggiosi tassi di interesse che offre questa o quella banca. Gli esperti sanno trasformare le merci in un magico sistema contro

la solitudine. Le cose hanno attributi umani: accarezzano, accompagnano, comprendono, aiutano, il profumo ti bacia e l'auto è l’amico che non ti tradisce mai. La cultura del consumo ha fatto della solitudine il più lucroso dei mercati. I vuoti nel petto si riempiono colmandoli di cose, o sognando di farlo. FE le cose non solo possono abbracciare: possono essere anche simboli di ascesa sociale, salvacondotti per attraversare le dogane della società divisa in classi, chiavi che aprono le porte proibire. Quanto più sono esclusive, meglio è: le cose ti selezionano c ti salvano dell’anonimaro moltitudinario. La pubblicità non informa sul prodotto che vende, o raramente lo fa. Quello è il meno. La sua funzione principale consiste nel compensare frustrazioni ed alimentare fantasie: Lei, chi vuole diventare acquistando questo dopobarba? Il criminologo Anthony Platt ha osservato che i delitti della strada non sono solamente frutto dell’estrema povertà. Sono anche frutto dell'etica individualista. L'ossessione sociale del successo, dice Platt, incide decisivamente sull’appropriazione illegale delle cose. lo ho sempre sentito dire che il denaro non fa la felicità, ma qualunque telespettatore povero ha molte ragioni

per credere che il denaro produca qualcosa di molto simile ranto che la differenza è rema da specialisti [...].

Il mondo dove le cose si c privatizzano fa poco crano

intero vende a trasformarsi in un gran schermo televisivo, guardano ma non si toccano. Le merci in offerta invadono gli spazi pubblici. Le stazioni di autobus e treni, che fino a spazi d'incontro, si stanno trasformando in spazi di esibi-

“E. Galeano, L'impero del consumo, Resistenze.org,

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12 maggio 2010.

zione commerciale. Lo shopping center, o shopping mall, vetrata di tutte le vetrate, impone la sua presenza dominante. Le moltitudini accorrono, in pellegrinaggio, in questo gran tempio delle messe del consumo. La

maggioranza dei devoti contempla, in estasi, le cose che le loro tasche non possono pagare, mentre la minoranza che compra, si sottomette al bombardamento dell’incessante ed estenuante offerta. La folla che sale e scende per le scale mobili, viaggia per il mondo: i manichini vestono come a Milano o Parigi e le macchine suonano come a Chicago, e per

vedere e sentire non è necessario pagare alcun biglietto. I turisti venuti dai paesi dell'interno, o dalle città che non hanno ancora meritato queste benedizioni della felicità moderna, posano per la foto, ai piedi delle più famose marche internazionali, come prima posavano nella piazza di paese, ai piedi della statua dell’eccelso. Beatriz Solano ha osservato che gli abitanti dci quartieri suburbani accorrono al center, allo shopping center, come prima accorrevano al centro. La tradizionale passeggiata di fine settimana al centro della città, tende ad essere sostituita con l’escursione a questi centri urbani. Lavati, stirati e pectinati, vestiti coi i loro migliori abiti, i visitatori vengono ad una festa dove non sono invitati, ma possono curiosare. Famiglie intere intraprendono il viaggio nella capsula spaziale che percorre l'universo del consumo, dove l'estetica del mercato ha progettato un paesaggio allucinante di modelli, marche ed etichette. La cultura del consumo, cultura

della cosa effimera, condanna tutto al disuso mediatico. Tutto cambia al ritmo vertiginoso della moda, posta al servizio della necessità di vendere. Le cose invecchiano in un lampo, per essere rimpiazzate da altre cose di vita fugace. Oggi, dove l'unica cosa che rimane è l'insicurezza, le merci, fabbricate per non durare, risultano tanto volatili come il capitale che li finanzia ed il lavoro che li genera. Il denaro vola alla velocità della luce: ieri stava là, oggi sta qui, domani chi sa, ed ogni lavoratore è un porenziale disoccupato. Paradossalmente, gli shopping center, regni della fugacità, offrono la più grande illusione di sicurezza. Essi resistono fuori del tempo, senza età e senza radice, senza notte e senza giorno, senza memoria, ed esistono fuori dello spazio, oltre le turbolenze della pericolosa realtà del mondo. I padroni del mondo usano il mondo come se si potesse buttare via: una merce di vita effimera che si esaurisce come si esauriscono, appena nate, le immagini che spara la mitragliatrice della televisione, le mode e gli idoli che la pubblicità lancia, senza tregua, sul mercato».

11.2. L'irrazionalità sociale delle pubblicità «Le persone si riconoscono nelle loro merci; trovano la loro anima nella loro automobile, nel giradischi ad alta fedeltà, nella casa a duc piani, nell’attrezzatura della cucina. Lo stesso meccanismo che lega

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l'individuo alla sua società è mutato, e il controllo sociale è radicato nei nuovi bisogni che esso ha prodotto». (Herbert Marcuse).

Nel 2015 la spesa pubblicitaria globale si è attestata circa sui 545 miliardi di dollari. Una cifra tanto spaventosa quanto irrazionale. Occorre ricordare che questa spesa, che contribuisce a determinare l’onnipresenza della pubblicità in ogni aspetto della vita quotidiana, con il conseguente bombardamento costante dell’idea che qualsiasi

cosa possa e debba diventare una merce, viene di fatto finanziato dal consumatore con l'aumento del prezzo del prodotto: la pubblicità «è la prima imposta diretta» e costituisce secondo Yves Frémion una vera e propria arma di distruzione di massa che «uccide ogni attività

intellettuale e cittadina lasciando vivere nell'individuo i soli riflessi del consumo, come i cani di Pavlov. Dubbio, pensiero, interesse pubblico, senso collettivo e solidarietà, tutto viene spazzato via in quanto ostacolo al pensiero unico: acquistare»? L'economista marxista Paul Baran'° ha tracciato un'analisi accu-

rata del fenomeno pubblicitario, mostrandone più di tutti la profonda natura di classe: in condizioni di oligopolio, infatti, la concorrenza può essere esercitata sulla qualità dei prodotti e sul loro prezzo, ma si tende a privilegiare la pubblicità e altri aspetti come l’obsolescenza programmata fisica e/o morale. In tal senso «i/ secolare aumento delle spese pubblicitarie è un sintomo del secolare... declino della concorrenza nei prezzi». Già negli anni ‘60 negli USA si spendeva circa il 4% del reddito nazionale in pubblicità: uno spreco di risorse che si sarebbe potuto utilizzare per favorire la piena occupazione. Baran chiude il cerchio così: «i difensori della pubblicità sostengono che, stimolando i consumi e gli investimenti, essa svolge un ruolo indispensabile nel funzionamento

“H. Marcuse, L'uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1967, p. 23. *Autore Ignoto, La spesa pubblicitaria mondiale crescerà del 5% nel 2015 e del 6% nel 2016 spinta da mobile advertising, social media e programmatic buying. Lo dice l'Advertising Expenditure Forecasts di ZenithOptimedia Worldwide, Youmark.it, 2014. *Y. Frémion, La pubblicità è più efficace delle bombe: i crimini pubblicitari nella guerra moderna, all’interno di AA_VV., Il libro nero del capitalismo, Marco Tropea Editore, Milano,1999, pp. 524, 534.

'Il testo che segue riassume il capitolo “Tesi sulla pubblicità”, in P. A. Baran, Saggi Marxisti, Binaudi, Torino, 1976, pp. 225-238.

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dell'economia capitalistica. In base all'esperienza americana, questo argomento ci sembra valido. È quasi certo che la cronica sottoutilizzazione delle risorse che ha afflitto gli Stati Uniti per più di una generazione sarebbe ora molto più grave se non fosse intervenuto, nel frattempo, lo spetracoloso sviluppo della pubblicità. Se questa affermazione è corretta, ne consegue che i tentativi di abolire o di ridurre la pubblicità potrebbero

avere conseguenze gravemente dannose, sc non fossero accompagnati da una pianificazione vasta ed efficace in vista del conseguimento di un’occu-

pazione piena e socialmente desiderabile. Questo è un punto che icritici della pubblicità trascurano regolarmente e a cui bisognerebbe certamente dare gran peso nella elaborazione di una nuova politica per la pubblicità».

Un altro effetto deleterio della dipendenza pubblicitaria dei mezzi di comunicazione di massa:

«gli utenti pubblicitari, che cercano naturalmente di raggiungere il più vasto pubblico possibile, si preoccupano di evitare di inimicarsi ogni potenziale cliente e perciò preferiscono che i mezzi di comunicazione seguano una linea conservatrice e non polemica nella loro politica editoriale o di programmazione». Per quanto riguarda la sfera valoriale per Baran: «il danno più grave della pubblicità sta proprio nel farro che essa mette continuamente in mostra la prostituzione di uomini e donne che prestano la loro intelligenza, la loro voce e la loro abilità artistica a scopi in cui non credono, e nel fatto che essa insegna la fondamentale mancanza di significato di rutre le creazioni della mente: parole, immagini

e idee. Il vero pericolo della pubblicità è che essa contribuisce a minare, e infine a distruggere, i nostri beni non materiali più preziosi: la fiducia nell’esistenza di scopi significativi dell'attività umana c il rispetto dell’integrità dell’uomo».

11.3. Il fenomeno dell'obsolescenza programmata Baran nelle righe precedenti ha fatto accenno al fenomeno dell’obsolescenza programmata. È utile approfondire l'argomento a

partire da alcune domande semplici: vi siete mai chiesti perché certi giocattoli si rompono subito? Perché è così faticoso trovare pezzi di ricambio per un elettrodomestico? Perché il computer che avete in casa dopo pochi mesi è già diventato un pezzo da museo? La risposta si trova appunto nel concetto dell’obsolescenza programmata. 198

Significa che vi sono prodotti che vengono progettati e costruiti per durare poco, rompersi in fretta ed essere così continuamente sostituiti. Il ragionamento è impietoso ma chiaro: il sistema capitalista che

regola la nostra società si sostiene solo se si continua a “consumare” senza sosta e per avere la certezza che ciò avvenga occorre creare il “bisogno”, la “necessità”. Quindi, cosa c'è di più efficace del mettere a disposizione dei consumatori oggetti pensati e realizzati per durare poco, in modo che vengano costantemente ricomprati? In termini tecnici l’obsolescenza programmata è la definizione dei sistemi produttivi che includono nei loro progetti caratteristiche tali da rendere

non più funzionante o obsoleto un prodotto nei tempi che l'azienda stessa ritiene giusti per provocare un nuovo acquisto dello stesso bene di consumo. Naturalmente questo principio tende a funzionare meglio quando il produttore ha un oligopolio del prodotto. Lo sco-

po dunque è quello di non trovarsi alla saturazione di un mercato, costringendo le aziende alla riduzione della loro produzione, ma, al

contrario, di fare in modo che la domanda dei prodotti si rinnovi periodicamente in modo da creare un flusso continuo (e magari in

crescita) della richiesta di un bene. Ci sono molte prove a testimonianza che questo sistema è stato applicato in molti settori produttivi

e da molte aziende. L'azione di programmazione dell’obsolescenza si può realizzare in due modi: mettendo in commercio prodotti di scarsa qualità, per cui il guasto si manifesterà nei tempi voluti e molto facilmente, oppure con la frequente produzione di nuovi modelli

dello stesso bene di consumo, sollecitando, tramite campagne di marketing, il desiderio da parte dei consumatori di impossessarsi del nuovo decantato modello. Nel 1924 il cartello mondiale dei produttori di lampadine, Phocebus, decide di ridurre la durata della vita dei bulbi a incandescenza da 2.500 a 1.000 ore. Il primo esempio di obsolescenza programmata garantisce ai produttori un evidente beneficio economico, grazie alle

vendite che in breve tempo raddoppiano, a cui si contrappone però un maggiore impatto ambientale per la duplicazione dell’uso delle risorse naturali e della quantità di rifiuti prodotti. Sono gli anni in cui la produzione di massa inizia a immettere nel mercato grandi quantità di prodotti che i cittadini, embrione dell’attuale società dei consumi, iniziano ad acquistare più per piacere che per reale

bisogno. Nel 1928 un articolo su una rivista per pubblicitari interpreta i prodotti di qualità che non si logorano come una tragedia 199

per il business, perché non in grado di garantire la continuità delle

vendite. L'inquietante allarme trova in breve conferma, nella realtà e nella finzione. Sono gli anni ‘40 e la Dupont inventa una fibra resisrentissima, il nylon, materiale di base per collant che si dimostrano

però essere troppo robusti, tanto da costringere il colosso chimico ad assegnare a un gruppo di ingegneri il compito di trovare come ridurne la resistenza e quindi la vita utile. Nel 1951 il film Lo scandalo del

vestito bianco, narra la storia dell’inventore di una fibra irresistibile, troppo simile alla vicenda del nylon per apparire casuale, costretto a

rinunciare alla propria rivoluzionaria scoperta di fronte alle minacce dei produttori e dei lavoratori dell’industria tessile. Nel 2003 la Apple ha perso una causa svolta come “class action” in USA perché la batteria del suo iPad era programmata per durare 18 mesi, poi si guastava e non era sostituibile. Tuttora comunque un

iPhone, come un iPad, un Apple Warch e un televisore della ditta, non durano più di tre anni. Con i Mac questo tempo di “resistenza”

sale a quattro anni. Molti elettrodomestici o apparati elettronici sono assemblati in modo tale che l’utilizzatore non sia in grado di aprirli per rentarne una riparazione. In alcuni casi vengono usate viti che

richiedono uno speciale strumento al posto del normale cacciavite, altre volte gli involucri sono assemblati ad incastro, quindi senza alcuna vite (cosa molto comoda per la produzione che è pure più

rapida) e che dunque non sono apribili se non rompendo l’involucro di plastica. La motivazione ufficiale spesso usata è “il bene del consumatore”, ovvero per protezione da eventuali rischi cui potrebbe incorrere tentandone personalmente la riparazione. La logica dell’obsolescenza programmata era già argomento di grande discussione nel

‘29, quando Brendon London negli USA proponeva di renderla obbligatoria per legge, con l’intento di alimentare la ripresa dell’economia attraverso questo meccanismo di forzato sostegno dei consumi. La proposta non ebbe successo, ma si gettavano le basi per introdurre un sistema indiretto e più raffinato per rendere obsolescenti i prodotti, agendo sui bisogni del consumatore. Il designer Brooks Stevens,

negli anni Cinquanta, propagandava la propria strategia basata su un consumatore interessato a possedere «un oggetto più nuovo e prima di quanto fosse realmente necessario» e di fatto i volubili desideri dei consumatori iniziano a diventare il meccanismo più semplice per

rendere obsolescenti i beni. Quando l'Europa cercava di distinguersi con prodotti caratterizzati da resistenza e durata, Brooks pensava a 200

realizzare beni sempre più attraenti in grado di favorire la sostituzione di quelli acquistati in precedenza. L'opposto di quanto sarebbe

accaduto nella Germania dell’est socialista qualche decina d’anni più tardi, dove i frigoriferi dovevano garantire per legge una durata di 25

anni. Ma le lampade a lunga durata prodotte dalla Narva di Berlino o l'industrializzazione di modelli innovativi che promettono una vita utile perfino di 100.000 ore continuavano a non trovare spazio nel mercato occidentale. Anzi, la logica dell’usa e getta diventa sempre più pervasiva, come dimostra l’esperienza di Marcos, un giovane di Barcellona la

cui stampante ha smesso di punto in bianco di funzionare, con la sola spiegazione di un generico messaggio “rivolgersi all’assistenza”. Ma quando il ragazzo catalano si rivolge ai centri di assistenza la risposta

che riceve è la medesima “costa troppo ripararla, le conviene comprarne una nuova”. La maggior parte di noi davanti a una simile prospettiva si arrende all’evidenza e opta per acquistare una nuova stampante, ma Marcos vive la vicenda come una sfida personale. Inizia così a cercare in internet chi abbia vissuto esperienze simili e a frequentare

forum specialistici sull'argomento. Alla fine scopre che la stampante ha un contatore di copie, teoricamente introdotto dal produttore per garantire la massima qualità di stampa fino all’ultima copia, che a

quota 18.000 stampe blocca la macchina, rendendola di fatto inutilizzabile. La soluzione arriva alla fine da un ragazzo russo, che trasferi-

sce a Marcos un software libero, in grado di azzerare il contatore delle

pagine. E la stampante riprende a funzionare come se nulla fosse. Ridurre la vita utile dei beni ha alimentato il mercato prima della crisi. È però evidente che, in un mondo in cui le risorse natu-

rali sono un indiscusso fattore limitante e la popolazione mondiale è destinata a raggiungere i 10 miliardi, pensare di uscire dalla crisi solo incrementando i consumi è miope oltre che non sostenibile. L'unica

risposta possibile per eliminare questa assurdità dell’obsolescenza programmata è rimettere sotro controllo popolare e di enti pubblici la produzione industriale, facendo sì che l'economia sia al servizio

dell'umanità e del pianeta, e non viceversa. Un po’ come si faceva

nella DDR e nei Paesi del socialismo reale insomma."

"Fonti usate: D. Pernigotti, Una società dei consumi a “obsolescenza programmata”, La Stampa (web), 13 giugno 2013; F. Balocco, Obsolescenza programmata,

201

11.4. Avere o essere? Risponde Fromm «Il processo che ha portato le masse a intellettualizzarsi e a imbarbarirsi fu analizzato da Ortega y Gasser. L'accesso ai piaceri, il servirsi di utensili inventati da gruppi selezionati per usufruirne essi soli, più che soddisfare le masse ne accrescono gli appetiti e le necessità. Ne deriva che i diritti livellatori dell’aspirazione democratica decadono da aspirazioni ideali in appetiti c presunzioni inconsce: sicché a mete mal definite in quanto non sentite come bisogni individuali ma quali conformistiche soddisfazioni, corrispondono percorsi ancora più confusi. C'è la spinta a conquistare turti gli agi delle élite, ma in modo esteriore, meccanico, per

la qual cosa una volta raggiunto questo o quell’altro obiettivo la soddisfazione è poca e si ha anzi l'impressione di essere stati defraudati. I risultati dissonanti di tale spinta sono evidenti e le stesse masse qualche volta danno l'impressione d’esserne coscienti, eppure ogni volta ricadono in comportamenti passivi, schiave della pubblicità politica e commerciale, dei più vari surrogati, dai falsi valori alla falsa dignità. L'impasse definiti-

va del tardo capitalismo c d’ogni società retta dalla burocrazia tecnologica poi nasce dal tentativo di complicare l'inganno prospettico dei governati in molte maniere: ma quest'inganno si ritorce contro gl’ingannatori che smarriscono ogni capacità d’interpretare il reale. Ne nasce un mondo fatto come un labirinto di specchi». (Giovanni Amedeo)?

Nel corso del ‘900 i maggiori approfondimenti sul tema dell’alienazione consumistica sono venuti dalla Scuola di Francoforte.

Diamo spazio in particolar modo alle riflessioni di Erich Fromm che nel suo marxismo molto eterodosso offre comunque spunti interessanti e utili sul tema. Per introdurne il pensiero, ci aiuriamo con un estratto da una scheda di Antonino Magnanimo!*: «Nella società dominata dal denaro c dal consumo, l’uomo concepisce se stesso come una cosa in vendita. Nella società capitalista il consumo diventa fine a se stesso, fa nascere nuovi bisogni e costringe all’acquisto di nuove cose, si perde di vista l’uso delle cose e l'uomo è

cosè e perché è ora di una legge anche in Italia, Il Fatto Quotidiano (web), 20 gennaio 2017; Redazione Nonsprecare.it, Obsolescenza programmata, un iPhone non dura più di tre anni. Eppure costa tanto..., Nonsprecare.it, 18 aprile 2016; Wikipedia, Obsolescenza programmata.

G. Amedeo, La passione astratta, cit., pp. 50-51. '3 A. Magnanimo (a cura di), Erich Fromm, Filosofico.net.

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schiavo del possesso. Si può uscire dall’alicnazione solo costituendo un tipo di società organizzata secondo il “socialismo comunitario” con la partecipazione di tutti i lavoratori alla gestione del mondo del lavoro. Il socialismo comunitario prospettato da Fromm è vicino alle posizioni dei socialisti utopistici cd è influenzato dal sindacalismo e dal socialismo corporativistica. In Avere 0 Essere, Fromm propone all'uomo contemporaneo la scelta netta tra due categorie, due progetti di uomo: o quello dell’avere, dominante nella società capitalistica dei consumi, o quello dell’essere, della realizzazione dei bisogni più profondi dell’uomo. L'analisi di Fromm individua due modi di determinarsi dell’esistenza dell'uomo nella società: - avere, modello tipico della società industrializzata, costruita sulla proprietà privata e sul profitto che porta all’identificazione dell’esistenza umana con la categoria dell’avere, del possesso. Io sono lc cose che possicdo, se non possiedo nulla la mia esistenza viene negata. In tale condizione l’uomo possiede le cose ma è vera anche la situazione inversa e cioè le cose possiedono l’uomo. L'identità personale, l'equilibrio mentale si fonda sull’ avere le cose; - essere è l’altro modo di concepire l’esistenza dell’uomo ed ha come presupposto la libertà e l'autonomia che finalizza gli sforzi alla crescita e all’arricchimento della propria interiorità. L'uomo che si riconosce nel modello esistenziale dell'essere non è più alienato, è protagonista della

propria vita e stabilisce rapporti di pace e di solidarietà con gli altri. Fromm ritiene necessario attuare una nuova società, fondata sull'essere, liberata dalla categoria dell’avere, che garantisca, a livello politico e nell’ambito del lavoro, la partecipazione democratica di tutti gli uomini».

Di seguito, ora, alcuni aforismi ed estratti di testo dalle opere di Fromm!'* che possono fungere da utili inviti alla lettura per ulteriori

approfondimenti dell’autore e di rali tematiche: «La domanda fondamentale è infatti: qual è lo scopo della vita? Diventare più umani o produrre di più?» (da // coraggio di essere)

«L'aut-aut tra avere ed essere non è un'alternativa che si imponga al comune buon senso. Sembrerebbe che l’avere costituisca una normale funzione della nostra esistenza, nel senso che, per vivere, dobbiamo avere oggetti. Inoltre, dobbiamo avere cose per poterne godere. In una cultura

nella quale la meta suprema sia l'avere — e anzi l'avere sempre più — c in cui sia possibile parlare di qualcuno come una persona che “vale un milione di dollari”, come può esserci un'alternativa tra avere cd essere? Si

!" Wikiquote, Erich Fromm, su cui è possibile trovare i riferimenti bibliografici precisi.

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direbbe, al contrario, che l’essenza vera dell'essere sia l'avere; che, se uno non ha nulla, non è nulla». (da Avere 0 essered)

«Il modo di produzione del sistema capitalistico ha trasformato l’uomo in una creatura ansiosa e alienata». (da L'arte di vivere)

«Mah... dunque... mio padre era commerciante, ma contro la sua volontà. Si vergognava di essere un commerciante. Anch'io, da bambino, quando avevo dicci, dodici anni, me ne vergognavo. Se qualcuno mi diceva “sono un commerciante” avevo pietà di lui; mi dicevo “m4 come si può ammettere che lo scopo della sua vita sia quello di guadagnare del denaro?” |...|]. Evidentemente sono cresciuto nel mondo moderno, ma

non mi sono mai sentito a mio agio: il mio vero mondo è il mondo precapitalistico, del quale il mio bisnonno e quell’aneddoto sono un esempio. In fondo, mi sento così ancora oggi; mi sento stranicro in un mondo il

cui scopo è guadagnare il più possibile. Per me questo è piuttosto una perversione». (da // coraggio di essere)

«Marx affermava che il lusso è un vizio esattamente come la povertà e che dovremmo proporci come meta quella di “essere” molto, non già di “avere” molto [...]. La diferenza tra essere e avere non è essenzialmente

quella tra Oriente e Occidente, ma piuttosto tra una società imperniata sulle persone e una società imperniata sulle cose. L'atteggiamento dell’avere è caratteristico della società industriale occidentale, in cui la sere di de-

naro, fama e potere, è divenuta la tematica dominante della vita [...]. Per riassumere: consumare è una forma dell'avere, forse quella di maggior momento per l'odierna società industriale opulenta. Il consumo ha caratteristiche ambivalenti: placa l'ansia, perché ciò che uno ha non può essergli ripreso; ma impone anche che il consumatore consumi sempre di più, dal momento che il consumo precedente ben presto perde il proprio carattere gratificante. I consumatori moderni possono etichettare se stessi con questa formula: io sono = ciò che ho c ciò che consumo». (da Avere 0 essere?)

«Nella modalirà dell’avere, quella occupata dalla grande maggioranza delle persone, l’idea sottesa all'affermazione “io sono io” è “io sono io perché ho X°, intendendo con X tutti gli oggetti naturali e le persone con le quali istituisco un rapporto tramite il mio potere di controllarli, di farli permanentemente miei. Secondo la modalità dell’avere non c'è

rapporto vivente tra me e quello che io ho. Questo e l’io sono divenuti cose, c io ho le cose perché ho la forza di farle mie. C'è però anche una relazione inversa: le cose hanno mc; perché il mio senso di identità, vale

a dire l'equilibrio mentale, si fonda sul mio avere le cose (e quante più possibile). La modalità dell’esistenza secondo l'avere non è stabilita da un processo vivo, produttivo, tra soggetto e oggetto; essa rende cose sia

il soggetto che l'oggetto. Il rapporto è di morte, non di vita [...]. Tutto è

diventato business, ogni cosa deve funzionare cd essere utilizzabile. Non esiste un sentimento di identità, esiste un vuoto interiore. non si hanno convinzioni, né scopi autentici. Il carattere mercantile è l'essere umano 204

completamente alienato, privo di qualunque altro interesse che non sia quello di manipolare e funzionare. È proprio questo il tipo di umano conforme ai bisogni sociali. Si può dire che la maggior parte degli uomini diventano come la società desidera che essi siano per avere successo. La

società fabbrica tipi umani così come fabbrica tipi di scarpe o di vestiti o di automobili: merci di cui esiste una domanda. E già da bambino l’uomo impara quale sia il tipo più richiesto» (da L'arte di vivere).

11.5. Il disagio psichico e lo stress emotivo «Se si smette di considerare il sistema comunista come un rivale dell'economia di mercato, se non lo si considera più come un sistema che ha di mira solo l’efficienza, ci si accorge che un sistema di questo tipo la-

scia molte più possibilità di riuscita al maggior numero di individui di un sistema fondato sulla competizione e sulla premiazione dell’intelligenza,

quale è necessariamente un sistema economico il cui scopo dichiarato è di produrre il più possibile». (Claude Polin)!*

Riportiamo di seguito un articolo! che dimostra quanto i ragionamenti di Fromm non siano astratti. Le conseguenze di una società

fondata sulla logica dell’avere sono ben presenti tuttora: «Il capitalismo deve la sua resistenza alla capacità di ideare nuove tattiche per deviare, distorcere e sgonfiare i movimenti di resistenza. Anche a fronte di un crescente numero di vittime del capitalismo globale, i faccendieri del capitalismo sono riusciti a incanalare l’insoddisfazione e la delusione pubblica verso una diminuita autostima e un'autodistruttività privata. Katrina Forrester, critico che scrive per il London Review of Books, ha riassunto in una battuta questa insidiosa strategia: di fronte all’oppressione e allo sfruttamento, “nor iscriverti a un sindacato, prendi una pillola”. Nella sua recensione (22 ottobre 2015) di 7be Happiness Industry: How the Government and Big Business Sold Us Wellbeing (L'industria della felicità: come il governo e big business ci hanno venduto il benessere)

di William Davics, denuncia la consuetudine di definire un comporta-

mento ribelle o atteggiamenti negativi come disturbi psicologici: “[...] Se non sei felice, se desideri che le cose fossero diverse o se trovi difficile adattarti alle condizioni della vita moderna, corri il rischio che ti venga diagnosticata

una malattia mentale”. Sempre più spesso, gli accademici e i terapisti

!C. Polin, // totalitarismo, cit., p. 79. tà

Z. Zigedy, Le patologie del capitalismo, Resistenze.org, 10 novembre 2015.

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hanno accettato l’idea che depressione o comportamenti disfunzionali siano indice di problemi mentali, indipendentemente dalle cause del comportamento o dell’atteggiamento. Loro, scrive Forrester, “[...] per-

sano all'infelicità come una patologia, uno stato psicologico o mentale che andrebbe curato con un intervento comportamentale 0 medico. Questa è la logica che sottende alla crescita del “settore felicità"». Così, ad esempio, se una madre irachena perde due figli che combattevano un esercito occupante straniero, se la sua sicurezza personale è costantemente minacciata

e le sue condizioni di vita continuano a peggiorare, risulta afferra da un’infelicità patologica. Non sono le condizioni orrende della sua vita (condizioni che avrebbero potuto essere evitate o che potrebbero essere modificate), ma i suoi sentimenti “negativi” che devono cambiare. Come

fa notare Forrester: “molte persone sono infelici per buone ragioni, ma generalmente queste ragioni non vengono prese in considerazione dalle nuove

pratiche terapeutiche del settore felicità”. E continua: “Mentre una volta la soluzione all'infelicità per le condizioni di lavoro veniva risolta con una riforma sociale e l'azione collettiva, ora la soluzione è l'allontanamento e la ‘vesilienza’ individuale; quando vogliamo resistere, invece di iscriverci ad un sindacato, telefoniamo alla ditta per cui lavoriamo per metterci in malattia. Se perdiamo il lavoro e ci sentiamo demovalizzati alla prospettiva di cercarne uno nuovo, anche questo potrebbe essere una condizione diagnosticabile”. Forrester riferisce che nel Regno

Unito si è cominciato a ridefinire la disoccupazione come un disturbo psicologico e “/itteggiamento al lavoro” della persona disoccupata viene usato per determinare il diritto al sussidio [...]. Uno studio recente,

Rising morbidity and mortality in midlife among white non-Hispanic Americans in the 21st century (L'incremento nella morbilità e nella mortalità

cra gli statunitensi bianchi non-ispanici di mezza età nel XXI secolo), dimostra che i bianchi, soprattutto quelli meno istruiti, di età compresa tra i 45 e i 54 hanno subìto un drammatico aumento della mortalità dal 1999 a oggi. Gli autori, i professori Case e Deaton, sostengono che in gran parte questo è dovuto a un aumento di oltre quattro volte delle overdose per droga ed eccesso di alcol, un incremento superiore al 50% dei suicidi c un aumento di 25% della malattia cpatica cronica. Inoltre, la loro ricerca collega questi abusi ai problemi di salute mentale e problemi

nella gestione di difficoltà personali, soprattutto stress economici. Case e Deaton ipotizzano che l'aumento della mortalità può aver causato 488.500 morti che avrebbero potuto essere evitati tra il 1999 c il 2013,

ciò che i cremlinologi anti-sovietici della Guerra Fredda chiamercbbero “morti non-necessarie”. Mentre c'è molto allarme tra gli operatori nei servizi sociali e tra gli studiosi che appoggiano il capitalismo, ci sono

poche teorie su come questa “infelicità” di massa sia insorta e su come arrestarla. Ma è davvero così difficile discernere le cause di questa epidemia di salute mentale? [...].

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Il capitalismo ha favorito una tendenza ancora presente di alienazione, isolamento e soggettivismo che ha accelerato in modo drammatico negli ultimi quaranta anni. La competitività esasperata per un posto

di lavoro, lo status sociale c il potere ha nutrito il virus dell’egoismo e dell’insensibilità. Nello stato di natura hobbesiana affermatosi, molti sono

stati consumati dalla spietata concorrenza, dalla lotta per il successo. I “perdenti”, e ci devono essere dei perdenti se ci sono vincitori, sono stati privati della loro autostima. Quando nel primo decennio del ventunesimo secolo, duc crisi economiche devastanti hanno scosso la promessa di prosperità senza confini e l'ideologia dell’autopromozione, i più devoti a questo dogma sono stati annichiliti. La dura realtà ha avuto il sopravvento sulle fiabe raccontate dagli apologeti del capitalismo. Per coloro che non vedevano alcuna alternativa, l'alcol, le droghe e il suicidio sono diventati la risposta. Ma le cause di questa cpidemia non si trovano nell’anima © nella mente, ma nel capitalismo. E le soluzioni non si trovano sul divano del terapeuta, in sessioni di terapie di gruppo, in farmacia o nella bottiglia, ma nella creazione di un mondo in cui ognuno abbia un posto accogliente, utile e soddisfacente. Quel posto non esiste dove regna il capitalismo».

11.6. Lavorare per comprare 0 per vivere? «Se non ci sono più necessità - e con questo intendo, tutto quello che pensiamo di vendere a qualcuno che lo voglia comprare - allora dobbiamo inventare nuovi bisogni... Ora, io so che questo atteggiamento

viene criticato. La gente dice: “Perché ci state facendo questo? Perché non ci lasciate in pace” Ma questo è il capitalismo, un sistema in cui abbiamo imparato a motivare le persone a volere le cose in modo che esse si metteranno a lavorare per acquistare queste cose. Se non ci sono altre cose che possono volere, essi non lavoreranno duro: vorranno 35 ore a settimana, 30 orc a settimana e così via... Sì, il marketing fa da guida ai nuovi bisogni». (Philip Kotler, il guru commerciale di Marketing Management, ossia: una delle voci rappresentative della cultura capitalistica)". «Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora cerano state comunicare ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate — virtù, amore, opinione, scienza, coscienza,

!” Citato in E Magdoff, // problema è il capitalismo, Resistenze.org, 20 setrembre 2014.

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ecc. — tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale, della venalità universale o, per parlare in termini di cconomia politica, il rempo in cui ogni realtà, morale c fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore». (Karl Marx, da Miseria della filosofia, 1847)"*

Ciò che Kotler non afferma direttamente è che il “problema” non sta in realtà nel fatto che le persone dovrebbe lavorare meno ore e avere tutto il tempo in più per il tempo libero, ma che, se facessero questo, finirebbero per acquistare meno beni e la società ne avrebbe un danno perché il suo sistema economico,

il quale è basato sulla

necessità di vendere sempre più beni per accumulare profitti, potreb-

be vacillare. Kotler stesso ci indica implicitamente una via d'uscita che deve essere mentale e culturale anzitutto: non ci servono frotte di merci inutili per comprare le quali occorra lavorare 40 0 50 ore settimanali. Occorre scegliere con cura e oculatezza le merci di cui

si ha bisogno per vivere una vira dignitosa e poter lavorare meno,

trovando così il tempo da dedicare ai propri affetti familiari, emotivi, ai propri svaghi e alla propria vita spirituale. “Lavorare meno, lavorare tutti” è un programma concreto che richiede necessariamente una via

d'uscita dal capitalismo. 11.7. Austerità e bisogni indotti «La nostra economia incredibilmente produttiva ci richiede di clevare il consumismo a nostro stile di vita, di trasformare l'acquisto c l'uso di merci in rituali, di far sì che la nostra realizzazione personale e spirituale venga ricercata nel consumismo [...]. Abbiamo bisogno che sempre più beni vengano consumati, distrutti e rimpiazzati ad un ritmo sempre maggiore. Abbiamo bisogno di gente che mangi, beva, vesta, cavalchi, viva, in un consumismo sempre più complicato e, di conseguenza, sempre più costoso. Gli utensili elettrici domestici e l’intera linea del fai-da-te sono ottimi esempi di consumo costoso». (Victor Lebow, economista americano degli anni ‘50)"°

‘*K. Marx, Miseria della filosofia, 1847, all’interno di K. Marx & F. Engels, Opere, vol. VI (1845-1848), Editori Riuniti, Roma, 1973, p. 111. 1° Citato in A. Strozzi, Consumismo,

bioeconomia e decrescita: rimettiamo i

puntini sulle ‘i, Il Fatto Quotidiano (web), 5 dicembre 2014.

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«La mia idea di vita è la sobrietà. Concetto ben diverso da austerità, termine che avete prostituito in Europa, tagliando tutto e lasciando la gente senza lavoro. Io consumo il necessario ma non accetto lo spreco. Perché quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli. E il tempo della vita è

un bene nei confronti del quale bisogna essere avari. Bisogna conservarlo per le cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo per se stessi io lo chiamo libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi. L'alternativa è farti schiavizzare dal lavoro per permetterti consumi cospicui, che però ti tolgono il tempo per vivere». (José “Pepe” Mujica, ex presidente dell'Uruguay)?

«Che cos'è che ha trasformato i proletari e i sottoprolctari italiani, sostanzialmente, in piccolo borghesi, divorati, per di più, dall’ansia economica di esserlo? Che cos'è che ha trasformato le “masse” dei giovani in “masse” di criminaloidi? L'ho detto e ripetuto ormai decine di volte: una

“seconda” rivoluzione industriale che in realtà in Italia è la “prima”: il consumismo che ha distrutto cinicamente un mondo “reale”, trrasformandolo in una totale irrealtà, dove non c'è più scelta possibile tra male e bene.

Donde l'ambiguità che caratterizza i criminali: c la loro ferocia, prodotta dall’assolura mancanza di ogni tradizionale conflitto interiore. Non c'è stata in loro scelta tra male c bene: ma una scelta tuttavia c'è stata: la scelta

dell’impietrimento, della mancanza di ogni pietà». (Pier Paolo Pasolini)?! «Sotto il governo di un tutto repressivo, la libertà può essere trasformata in un possente strumento di dominio. Non è l'ambito delle scelte aperte all'individuo il fattore decisivo nel determinare il grado della libertà umana, ma che cosa può essere scelto dall'individuo. Il criterio della libera scelta non può mai essere un criterio assoluto, ma non è nemmeno del tutto relativo. La libera elezione dei padroni non abolisce né i padroni

né gli schiavi. La libera scelta tra un'ampia varietà di beni e di servizi non significa libertà se questi beni e servizi alimentano i controlli sociali

su una vita di fatica e di paura — se, cioè, alimentano l'alienazione. È la riproduzione spontanea da parte dell’individuo di bisogni che gli sono stati imposti non costituisce una forma di autonomia: comprova soltanto l'efficacia dei controlli». (Herbert Marcuse)?

"Citato in L. Bruschi, Verba Woland: sobrietà non significa austerità, L'Espresso (web), 24 novembre 2013. °! PP. Pasolini, Abbiamo la tv e la scuola dell'obbligo, Corriere della Sera, 18 ottobre 1975.

2 H. Marcuse, /'uomo a una dimensione, cit., pp. 27-28.

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Ricordiamo che Marx affrontò la questione dei bisogni socialmente indotti (i quali sono da distinguere rispetto ai bisogni naturali) con elevato approfondimento scientifico. A tale questione diede risposte diverse nelle opere giovanili rispetto a quelle della maturità,

rendendo la questione problematica e non banalizzabile in poche righe. Il presente va considerato quindi come uno spunto di riflessione su una questione estremamente attuale, specie nella disputa

tra seguaci delle teorie della “decrescita” (i quali spesso propongono teorie rozze e immemori delle conquiste marxiane, a partire dalla differenza tra valore d’uso e valore di scambio di una merce) e marxisti

fautori dello sviluppo ad oltranza delle forze produttive (che talvolta dimenticano o sottovalutano le conseguenze psicologiche alienanti e anti-umanistiche dell’eccesso di consumismo sull’individuo). La

questione resta irrisolta perché non è possibile fissare una volta per sempre i bisogni sociali, né distinguerli da quelli indotti non necessari. La questione va affrontata in maniera storica e dialettica, ma intanto tre considerazioni si devono porre: 1) l’austerità non è un valore in sé, specie se diventa una ri-

chiesta politica fatta solo alle classi più svantaggiate, senza diventare

un fenomeno sociale collettivo determinato da ragioni politiche; in questo senso Berlinguer aveva ragione nel porre l’accento sulla necessità di slegare il progresso dalla mera accumulazione di merci,

ma torto nel porre la questione strumentalmente in una fase storica (il 1977) in cui il suo PCI era impegnato a far pagare il prezzo di una

crisi capitalistica alle classi popolari per ragioni politiche tattiche (il superamento del fattore K); 2) la determinazione dei bisogni sociali in un sistema fondato sulla giustizia e sull’uguaglianza non può che essere collettiva, e quindi come tale un atto politico. Una delle ragioni per cui è stata criticata la società socialista reale è stata la sua incapacità di realizzare prodotti variegati per l'industria leggera. Ciò è dipeso primariamente da una serie di condizioni storiche ben precise (in primo luogo lo scarso sviluppo dei mezzi di produzione), che hanno determinato la

necessità di sviluppare altri prodotti il cui bisogno per la collettività era più urgente (tra questi anche lo sviluppo dell’industria militare e nucleare per ragioni difensive); si può constatare che tuttora, mentre

nella gran parte del mondo rimangono insoddisfatti i bisogni sociali primari, si assiste ad un mercato opulento nelle società imperialiste occidentali, in cui i sistemi produttivi consentirebbero una riduzione 210

della produzione di bisogni indotti secondari e il raggiungimento, attraverso il ricorso ad una pianificazione adeguata, della piena occupazione e della soddisfazione dei bisogni sociali primari, oltre che di una buona P parte di q quelli che si p potrebbero chiamare “secondari”; 3) nel ricordare il fattore ambientale, la determinazione dei bisogni 6 sociali “secondari”, ma anche una P parte di q quelli “primari”, P non può esulare nella loro pianificazione dalla considerazione che

una particolare attenzione andrà posta a quei settori in cui le risorse pongano maggiormente il tema del proprio rinnovamento. 11.8. La pubblicità in stile sovietico Mentre nell’Occidente capitalista le pubblicità colonizzano l'immaginario contribuendo culturalmente all’espansione della mercificazione della società, nell’URSS le pubblicità funzionavano in maniera rotalmente diversa. Per vederne l’evoluzione riportiamo

un articolo di Dmitri Romendik?*: «Nell’Impero russo, fino al 1917, la pubblicità commerciale prosperava come nel resto dei Paesi occidentali: insegne, annunci pubblicitari su giornali e riviste, cartelli... La situazione cambiò dopo la Rivoluzione d'Ottobre, che eliminò la proprietà privata e stabili nuove regole. L'economia sovietica veniva pianificata dal Governo centrale ed escludeva ogni forma di concorrenza. La pubblicità commerciale non risultava, pertanto, necessaria in questo tipo di economia: essa non era semplicemente compatibile con il sistema. In parallelo, tuttavia, iniziò a guadagnare sempre più forza la propaganda sociale e politica: l’ideologia e tutto ciò che era ad essa legato godeva di grande rilievo nell'Unione Sovietica [...]. “Quando i bolscevichi giunsero al potere - spiega Svetlana Shomova, specialista in storia della pubblicità e professoressa presso la Scuola Superiore di Economia -, pubblicarono insieme ai famosi Decreti sulla ‘lerra e sulla Pace un documento che si sarebbe potuto chiamare Decreto sulla Pubblicità. Nel novembre del 1917, Lenin firmò un decreto per l'introduzione del monopolio statale sulla propaganda. A partire da quel momento, qualsiasi annuncio pubblicitario a pagamento, su una pubblicazione periodica, era un privilegio esclusivo dello Stato ed era possibile solo sui giornali del Governo o dei Soviet. Ciò di fatto ostacolò improvvisamente la libera circolazione delle informazioni e la pubblicità passò sotto il controllo

#D. Romendik, La pubblicità in stile sovietico, Rbth.com, 22 ottobre 2014. 211

dello Stato". La giovane repubblica sovietica aveva molti nemici, tanto all’interno quanto all’esterno del Paese. Questa situazione costrinse gli inserzionisti a prefiggersi nuovi obiettivi soprattutto nell’ambito politico. Iniziarono a comparire dci cartelli che più tardi divennero dei classici della propaganda sovietica durante la guerra civile: “Yi sei arruolato volontario” e “Colpisci i bianchi con il cuneo rosso”. Bisognava far fronte a un tasso elevato d’analfaberismo, il Paese aveva bisogno di prestiti ed era necessario convincere la gente a comprare obbligazioni. ‘Tutti questi problemi dovevano essere in qualche modo risolti da pubblicisti e agitatori. Nonostante la fame c la devastazione, i bolscevichi non lesinavano sulle campagne di agitazione. Comparvero treni e navi d’agitazione politica che attraversavano il Paese promuovendo il nuovo governo. Per queste campagne vennero reclutati i migliori: il grande poeta Vladimir Majakévyskij collaborò alla realizzazione di una serie di manifesti propagandistici con slogan mordaci, in rima, chiamati “Finestre della satira dell'Agenzia telegrafica russa (ROSTA)” |...]. Nei primi anni ‘20 ebbe inizio il breve periodo della NEP

(la

Nuova Politica Economica), durante il quale i bolscevichi autorizzarono temporaneamente la produzione e il commercio privati. Si assistette a un ritorno dei ristoranti di lusso, delle pellicce, dello champagne e, in un certo qual modo, del lusso borghese che esisteva prima della Rivoluzione. Grazie al libero scambio, prosperò brevemente anche la pubblicità creativa. Emerse un'importante collaborazione tra duc avanguardisti: il futurista Majakévskij e l’artista Aleksandr Rodéenko, chiamati i “costruttori di pubblicità”. “Lo stile dei cartelli pubblicitari di Rodéenko e di Majakévskij si basava sul costruttivismo. Era completamente diverso dal disegno modernista che aveva regnato fino a quel momento nel mondo, con i suoi elaborati colori pieni di armonia e le sue femminili lettere arrotondate”, spiega a RBTH Tatiana Kozlova, membro dell’Unione russa disegnatori.

“Le linee rette e i colori sgargianti rappresentarono una grande svolta artistica. La gente guardando quei cartelli sentiva che qualcosa era cambiato e che stava vivendo in un modo diverso. Si trattava di un'estetica completamente nuova. l poster dei costruttivisti russi continuano oggigiorno a destare vivo

interesse in tutto il mondo”. I cartelli pubblicitari sovietici continuano, di fatto, a essere tuttora molto apprezzati sulle aste di tutto il mondo [...].1

pubblicisti più brillanti dell’epoca della Seconda Guerra Mondiale furono i Kukriniksi (Mikhail Kuprianov, Porfiry Krylov e Nikolai Sokolov) e Boris Efimov (morto nel 2008, all’età di 109 anni). Questi artisti realizzavano manifesti antifascisti c disegnavano caricature contro la guerra per

diverse riviste. Uno dei loro manifesti ritrae dei soldati nazisti che mentre

avanzano si trasformano in lugubri croci. Ogni cpoca è caratterizzata da motivi pubblicitari diversi. “Za pubblicità si sviluppa all'interno dello spazio che le è destinato — spiega Svetlana Shomova. Dopo la Rivoluzione dominò la propaganda politica, mentre negli anni 20-°30 la propaganda so-

212

ciale (ovvero la propaganda relazionata con la lotta contro l'analfabetismo). Dopo la fine della Seconda (ruerra Mondiale, il protagonismo passò ai cartel-

li con tematiche del tipo “Recuperiamo l'economia nazionale!", mentre negli anni 50-'60, quando l'industria iniziò a decollare, iniziarono a diffondersi le vetrine, le mostre, i marchi commerciali, i manifesti pubblicitari..." [...]. Negli anni ‘60-70, la pubblicità conquistò la televisione. In epoca

sovietica, tuttavia, non esisteva la rv commerciale: tutti i canali venivano finanziati interamente dallo Stato. I programmi televisivi non venivano mai interrotti da messaggi pubblicitari. La pubblicità poteva essere visualizzata solo tra un programma e l’altro, di solito sotto forma di corti video didattici, al posto dci tradizionali annunci di mezzo minuto che si trasmettono oggi. Ad esempio, nel video pubblicitario dell'automobile Zaporozhets, il presentatore commentava i vantaggi del veicolo e dopo-

diché intervistava il direttore di un negozio di auto che si lamentava del fatto che si producevano poche unità di quel modello e che per questo motivo si vedevano costretti a vendere quello precedente. “/a promozione dei prodotti e dei servizi nun era l'obiettivo principale degli annunci pubblicitari. La vita quotidiana era lontana dal lusso e dalla ricchezza. L'attività pubblicitaria aveva una funzione innanzitutto informativa ed educativa,

di costruzione di modelli di comportamento. Un'altra funzione era quella di stabilire nuove pratiche culturali”, commenta Svetlana Shomova. Manifesti c cartelloni nei luoghi pubblici facevano parte della vita

quotidiana delle persone. Molti ricordano, dai tempi della loro infanzia, cartelli come “// pane è un bene del popolo, non sprecatelo” o “ Nell’uscire, spegnete la luce”, che insegnavano alcune regole di comportamento e stabilivano un nuovo sistema di valori. Esisteva anche la pubblicità commerciale ma non per prodotti in concreto, bensì per catene commerciali, come l'agenzia assicuratrice dello Stato, la società Intourist, la Banca di Stato, la compagnia aerea Aeroflot, ecc. La campagna pubblicitaria con lo slogan “Volate con gli aerei di Aeroflot” era rivolta anche agli stranieri che utilizzavano i servizi di questa compagnia aerea, l’unica dell'URSS. [...] Nel 1985 Michail Gorbaéév salì al potere e diede inizio a una politica di graduale liberalizzazione. Nei mezzi di comunicazione ritornò la critica ai difetti della società, si stabilirono nuovi canali di comunicazione con gli Stati Uniti e comparvero nuovi programmi giovanili in cui i giovani presentatori non parlavano già più la lingua ufficiale, bensì un linguaggio più quotidiano e affrontavano temi di assoluta attualità. Lo Stato non ostacolava il fiorire di imprese private e la pubblicità iniziò così ad assumere un carattere sempre più commerciale, avvicinandosi gradual-

mente al modello occidentale. I primi esempi di spot pubblicitari erano piuttosto ingenui considerata la mancanza di esperienza, ciononostante, lo spazio mediatico sovietico, e successivamente russo, iniziò lentamente a insinuarsi in quello mondiale, mentre le differenze culturali andavano via via appianandosi».

213

11.9 Il calcio tra alienazione e nuova “religio” «Non

riconosce naturalmente

mai

il delirio chi ancora vi parteci-

pa». (Sigmund Freud)?

Chiudiamo questo lungo excursus sull'alienazione con una parte di analisi sul calcio moderno, che si descrive provocatoriamente come una via di mezzo tra una forma di alienazione e una nuova

“religio”, capace cioè di legare assieme una serie di individui. Nel compiere questa operazione recupereremo una serie di materiali e scritti “dimenticati” che però sembrano mantenere una certa attua-

lità e vivacità nell’aiutarci a interpretare il mondo odierno, non solo corrispondente con quello italiano. Partiamo da un dato significativo: ormai si è arrivati a parlare del calcio come «una specie di bene comune», «intendendo estensivamente con questa definizione gualcosa

che appartiene intensamente al proprio pubblico, fino a costituire unabitudine e un riferimento esistenziale per centinaia di milioni di persone in tutto il mondo». Il rovescio della medaglia è però che «il calcio induce in milioni di persone una specie di dipendenza», essendo diventato

una merce che «si consuma ormai in ogni momento dell'anno», tanto da essersi inventati perfino «i/ calcio estivo per ridurre le patologie da

astinenza dal gioco». La sua importanza è ormai di interesse pubblico: «la sospensione, il rinvio o l'annullamento di una partita di campionato,

magari disposti per ragioni di ordine pubblico 0 per motivi disciplinari, diviene oggetto di titoli da prima pagina anche sui quotidiani non sportivi. Può causare reazioni di piazza e alimentare interminabili diatribe televisive»®. L'importanza del fenomeno socio-culturale è insomma fuori discussione, e difficilmente si trovano individui che non vivano nella

propria famiglia, tra i propri amici, nei luoghi di lavoro, in maniera diretta o indiretta le conseguenze di questa passione. Si condivide

in questa analisi l'approccio già analizzato in passato da Giovanni Amedeo:

«qui interessa limitare il discorso al fenomeno del tifo calcistico, ma è chiaro che esistono molte altre forme e possibilità di dar libero sfogo

2 G. Amedeo, La passione astratta, cit., p. 5. "° N. Porro, Sociologia del calcio, Carocci, Roma, 2008, p. 52. 214

alle rensioni istintuali entrando a far parte di un gruppo. Ugualmente il calcio si distingue per la particolarità di richiedere poco ai suoi adepti,

sì da costituire la più larga e comoda offerta. L’entrare a far parte d'un gruppo politico, in paragone comporta impegni gravosi».

L'illusione del tempo libero e la fuga dalla realtà. Occorre ancora una volta tornare agli insegnamenti della Scuola di Francoforte, la quale contesta la libertà fornita dal “tempo del divertimento”: «nella società capitalistica, tutto quel che si fa o è consentito fare nell’ambito del tempo libero è determinato dalla necessità di riprodurre invariata la forza-lavoro. I meccanismi che regolano la sfera del lavoro,

agiscono pertanto anche sulla sfera del tempo libero: la fruibilità del rempo libero è quindi un'illusione. Lo stadio di sviluppo e la concreta figura del lavoro industriale non determinano solamente l'estensione di tale sfera, ma anche i modi di comportamento nel suo ambito. Il potere del capitale ha congiunto lavoro e tempo libero in modo così inestricabile che non si può capir l'uno senza considerare l’altro»?”. E ancora:

«La razionalità [...] dell'apparato di produzione capitalistico |...] organizza e controlla uomini e cose non solo nella sfera del lavoro, ma anche durante il rempo libero: dunque anche nello sport. Nel capitalismo la merce diventa la “casegoria universale dell'essere sociale totale” [Lukàcs, ndr]: la razionalità dello scambio di merci penetra in tutte le

manifestazioni vitali della società e dell’individuo»”. «Sul campo sportivo si prolunga l’illibertà del lavoro alienato, in modo invisibile — per i dominati - com'è invisibile la loro illibertà stessa. “L'integrazione del tempo libero riesce così agevole per questo: gli uomini non notano quanto siano privi di libertà proprio là dove si sentono più liberi, perché la regola di tale illibertà viene astratta da essi».

Adorno e Horkheimer sono stati tra i primi ad affermare che perfino la sfera dell’amusement diventa «il prolungamento del lavoro

sotto il tardo capitalismo», «cercato da chi vuol sottrarsi al processo

26

G. Amedeo, La passione astratta, cit., p. 128.

7 G. Vinnai, /! calcio come ideologia. Sport e alienazione nel mondo capitalista, Guaraldi, Bologna, 1971, p. 41. 2 Ivi, p. 45. °° Ivi, pp. 47-48.

215

di lavoro meccanizzato per essere di nuovo in grado di affrontarlo».

Gerhard Vinnai, autore di un libro che fece scandalo negli anni ‘70

(Il calcio come ideologia. Sport e alienazione del mondo capitalista), ne ha ripreso la lezione: «lo spettacolo sportivo nelle arene calcistiche soddisfa la richiesta di un simile “ozio” [...]. Lo spettatore aspira a farsi sommergere senza

resistere: avendo imparato nel luogo di lavoro a integrarsi supinamente

alle pretese della razionalità aziendale, a piegarsi alle prescrizioni dei suoi superiori, anche nel tempo libero egli cerca di sottrarsi ad azioni autonome. La sua fantasia si assottiglia: chi vuole adattarsi, è necessario che rinunci alla fantasia. Lo spettatore non assume volentieri nemmeno il compito di giudicare da sé l'avvenimento sportivo; i reportages e commenti dei mass media, che informano lo sport da lui seguito, esercitano sullo spettatore una forza d’artrazione magica. L'obiettivo dell'apparato

di produzione capitalistico, che fa entrare in scena reporter e commentatori come suoi agenti o figure di primo piano, è una schiavitù totale.

In che misura l'Io indebolito degli spettatori sia incatenato alla regia dei mass media, lo lascia intuire il fatto che allo stadio molti fans seguono attraverso la radio la trasmissione della partita che si sta svolgendo proprio sotto i loro occhi»?°.

Una florida industria in crescita. Il calcio però non è solo una forma di “divertissement” che riduce gli spazi di creatività e libertà individuale, ma è anzitutto un business. Prendiamo il caso della Ju-

ventus. La famiglia Agnelli storicamente ha finanziato la squadra solo per ragioni di prestigio e per hobby? Nel 1971 Valentino Baldacci

non ne era convinto: «in realtà Agnelli sa benissimo che un'impresa come la FIAT ha bisogno di un vasto consenso sociale, che egli cerca di alimentare in varie forme, fra le quali appunto il controllo, ostentato e pubblicizzato, della Juventus»? . Negli anni ‘60 una delle modalità con

cui si cercava di compensare «le frustrazioni accumulate dai lavoratori meridionali sul luogo di lavoro e di residenza», era quella di acquistare giocatori sardi e siciliani, al fine di fornire un meccanismo di imme-

desimazione in una città abbastanza ostile verso i lavoratori immigrati dal Sud, i quali in quegli anni avevano assunto una dimensione

davvero rilevante nel contesto urbano, nel quadro dell'enorme flusso

Ivi, pp. 50-51.

3 Ivi, p. 10. 216

migratorio interno con cui il Mezzogiorno si svuotava di manodope-

ra in cerca di lavoro al Nord.* Vinnai all’epoca dice una cosa che per noi oggi è forse banale: «le società professionistiche sono imprese orientate verso il profitto, nell’ambito del settore dei servizi, che vendono le esibizioni dei calciatori come merce a un pubblico che le consuma. Hanno la forma di società

per azioni: azioni che si trovano per lo più nelle mani di pochi grandi industriali».

Non altrettanto banali i ragionamenti conseguenti: «vi è un nesso trasparente fra la tendenza alla grande impresa capicalistica e a una restrizione oligopolistica del mercato da un lato, e una

propaganda che compenetra l’intera “cultura d'integrazione” dall'altro. La propaganda tenta di utilizzare per i suoi scopi la carica emozionale che

lega innumerevoli individui al gioco del calcio. Esistono svariate possi-

bilità di impiegare lo sport come veicolo pubblicitario»*. Tutto ciò ha avuto dei momenti storici di “svolta” ben precisi:

«con la trasformazione delle società calcistiche in società per azioni (avvenuta nel 1968, ndr) si è dato un forte impulso alla razionalizza-

zione», ossia si è aperto il terreno ad una gestione meno “romantica” e più arrenta al lato puramente “economico”; non mancheranno altri clamorosi casi di intreccio con la politica (si pensi al Milan di Berlusconi), come peraltro aveva già mostrato sempre Vinnai: «per i/

fatto che nelle sedute delle società fanno occasionalmente comparsa anche questioni politiche, le società sportive diventano per i partiti uno “spazio pre-politico” al quale prestano speciale attenzione»®. Negli anni sono venuti poi ad acquisire un peso economico

sempre più rilevante i calciatori. Mentre nei decenni precedenti li si analizzava come un segmento (privilegiato) della classe salariata, oggi appare sempre più evidente come il tifo calcistico, nella sua parte preponderante, riguardi un gruppo di milionari. In Italia ad esem-

# Ivi, p. 25.

3 Ivi, p. 72. % Ivi, pp. 86-87. 8 Ivi, p. 25.

*Ivi, p. 88. 217

pio nel 2016 si contavano più di 8 milioni di tifosi della Juventus, oltre 4 milioni del Milan, quasi altrettanti dell’Inter, quasi 3 milioni e mezzo del Napoli, quasi 2 milioni la Roma e così via a decrescere

per le squadre minori di serie A”. La gran parte del tifo calcistico si dirige quindi non su piccole squadre locali composte da effettivi “proletari”, ma verso una vera e propria “aristocrazia operaia” che di proletario non mantiene più nulla, se si pensa che i calciatori italiani più pagati in Italia nel 2017-18, Higuain e Bonucci, guadagnano

circa 7,5 milioni di euro netti, ossia più di 20 mila euro al giorno. Mentre la maggior parte dei giovani italiani afflitti dal precariato uno stipendio del genere non riesce a raggiungerlo nell'arco di un anno, i calciatori più pagati guadagnano 856 euro all’ora perfino quando

dormono, e già ripuliti dalle tasse. Nell’epoca dell’imperialismo ciò consente a molti di loro di diventare presto o tardi imprenditori, e

magari specularori finanziari. Il fenomeno non è irrilevante, dato che in base ad alcuni dati forniti nel 2011 dal ministro del Tesoro Giulio

Tremonti, in Italia c'erano in quell’anno «solo 796 milionari» (cifra peraltro molto opinabile e verosimilmente al ribasso), la metà dei quali sportivi, con una netta prevalenza (233) di calciatori". Ciò non

deve sorprendere troppo, poiché già a inizio anni 2000 gli stipendi

dei calciatori erano arrivati a pesare sul fatturato dei maggiori club italiani per il 75% del loro bilancio complessivo”. Come spiega un articolo de // Sole 24 Ore ormai il calcio è diventato la «più grossa industria di intrattenimento in Europa: con

18 miliardi di euro supera qualsiasi altro sport e qualsiasi altro svago, dalla musica al cinema al teatro. È un'osservazione quasi lapalissiana:

gli stadi sono (molto spesso) pieni; le tv fanno il pieno di audience con decine di milioni di spettatori; non risulta che librerie, sale e discoteche

riescano a fare numeri comparabili. Tanto per fare un paragone, è come il budget di tutta l'Italia. La manovra economica per il 2018 è da 20 miliardi». Un’enorme ricchezza nelle mani di pochissime persone,

* Redazione Corriere dello Sport, Merola ai numeri: è la Juventus la squadra più amata, la Roma quella con più simpatizzanti, Corriere dello Sport (web), 29 dicembre 2016. # A. Sugoni, Milionari d'Italia, unitevi. Quasi un terzo sono calciatori, Sky.it, G settembre 2011.

2 N. Porro, Sociologia del calcio, cit., p. 116.

218

un vero e proprio oligopolio, generati solo dai principali 31 anni gli introiti per i club sono È stato un vero e proprio boom:

dato che «quei /8 miliardi sono di fatto club sportivi». E ancora: «Negli ultimi saliti di 5 miliardi da 13 a 18 miliardi. una crescita del 40%. Nessuna economia

è cresciuta così tanto in Europa, alle prese con Pil anemici, disoccupazione giovanile dilagante e consumi stagnanti. Metà dell'incremento (2,4

miliardi su 5) è venuto dalle prime 12 squadre che hanno visto balzare i loro introiti da 3,4 a 5,8 miliardi»*°. Il grosso dei proventi giunge dai diritti televisivi: «già rel 2003-2004 i venticinque programmi televisivi

con la maggior audience erano rappresentati da partite di calcio»'!. Analizzando il calcio odierno, il divulgatore scientifico e sociobiologo Desmond Morris (divenuto famoso a inizio anni ‘80 anche per il libro La tribù del calcio) ha evidenziato i seguenti quattro aspetti: «la straordinaria ricchezza dei proprietari dei club, l'enorme torta dci diritti tv, i super stipendi dei giocatori e le transazioni milionarie per averli. Tutte quante hanno a che fare con i soldi: un top player guadagna fino a 300 mila dollari a settimana, considerato che in media un giocatore rocca cento volte la palla in un match significa 3 mila dollari ogni contatto. La maggior parte dei tifosi non vedrà simili cifre in tutta la vita e perciò si crea un'atmosfera di risentimento e fastidio verso il sistema

calcio, che può anche degenerare nella violenza»!?. Eppure lo stesso Morris, alla bellezza di 88 anni, nonostante

un'invidiabile lucidità analitica, conferma anche un’entusiastica passione per tale sport, che gli ha garantito peraltro di ristampare

la propria opera sul calcio con una prefazione del noto allenatore milionario José Mourinho: «Ai più alti livelli, con proprietari multi-miliardari c una estenuante copertura mediatica, il calcio è solo un business. Ma la tribù esiste ancora. I tifosi hanno la stessa passione c la stessa fedeltà di sempre, quella è

per la vita, per cui la natura tribale di ogni club è la stessa di prima. Lo slogan “Puoi cambiare moglie, ma non puoi cambiare la squadra che ami” vale sempre. Anche se si trova dall'altra parte del mondo, un tifoso vuole

48. Filippetti, // calcio vale 18 miliardi di euro in Europa, Il Sole 24 ore (web), 24 ottobre 2017. N. Porro, Sociologia del calcio, cit., p. 111. #1). Falcini, Desmond Morris: “Il calcio è ancora una grande tribù”, Wired.it, 19 agosto 2016.

219

sapere in diretta cosa fa la sua squadra. Una volta ho ascoltato due orc di

radiocronaca mentre navigavo lungo il Mar Cinese Meridionale». Per capire come e perché uno sport così bello sia potuto degenerare a tal punto, creando forme di diffusa alienazione di massa tipiche

del fenomeno classico del parzem et circenses, occorre ragionare su un piano diverso, approfondendo i risultati raggiunti dalla sociologia critica e dalla psicologia. Alienazione, religione e nazionalismo nel tifoso. Secondo Amedeo vi sono due irrazionalismi che «concorrono dall'interno a rendere il tifoso estremamente suggestionabile, e agiscono con varia intensità l'uno

rispetto all'altro secondo i tipi di società. Vi sono tifosi soprattutto nevrotici, scarsamente portati a fruire dei “messaggi” della folla, spinti in

essa dalla coazione d'un potere emblematico, e tifosi “primitivi”, avidi soprattutto di diventare folla»83. Vediamo altri passaggi con cui Amedeo approfondisce tali ragionamenti: «Il tifoso di rado si identifica completamente con il giocatore (è un caso patologico), spesso egli è contemporaneamente se stesso e il gioca-

tore; nel caso più comune, il tifoso gode raffinatamente la prestazione dell'atleta mirandolo come una presenza interiore, quindi una parte di sé, riproiettata fuori. Il legame è comunque stretto; per il resto, la scommessa con se stessi sortisce sia nel chiasso degli stadi sia nel silenzio degli appartamenti uguali effetti negativi: nel tifoso le attitudini sociali

si vanno sempre più riducendo, la sua passione è esclusiva e lo isola dai vari interessi della vita, frequentare lo stadio è un bisogno esasperante, la regressione nel suo comportamento è chiaramente manifesta; il rovello

del tifoso silenzioso, che vanamente cerca di mascherare una spinta pro-

fonda, nota agli studiosi come Principio d’onnipotenza sadista, non è diverso da quello di chi grida e incita: il grido, l’incitamento provengono dalla stessa spinta; solo che oltre a mettere in gioco il proprio discernimento vaticinante, chi grida — seppure con continue smentite — ha fede nella magia della propria parola; né più né meno di quanto ne abbia il bambino quando ha per le mani un oggetto che non gli funziona come vuole e grida per imporgli il suo comando.»

Ne consegue una passione del tifoso che viene definita falsa:

4 (3. Amedeo, La passione astratta, cit., p. 53.

4 Ivi, p. 58. 220

«La passione vera produce emozioni; può alicnare ma alimenta

attimi struggenti: la passione dissolve passato e futuro, ci proietta in un continuo fluire di puro presente ignaro di pericoli, d’ostacoli, libera la nostra vitalità e ci dona sicurezza e slancio: l’unica nube talvolta è costituita dal timore di perdere un sì felice stato. All’opposto l'angoscia, la frustrazione, ci costringono ad aspettare la salvezza dal

futuro; di più: si vive disconoscendo il presente. Condizioni in arte riflesse dalla verità poetica del vero artista e la non verità del falso artista. Più esattamente, quando manca un'emozione da partecipare, il trucco a cui si ricorre per suscitare l'interesse consiste nel prometterla. Così nasce il feuilleton. A racconto finito, non resta altro che il

senso dell'attesa, il ricordo di una tensione clementare. Sulla forza di tale ricordo, proicttantesi in avanti quasi ad esigere dal futuro quanto non ha avuto dal presente, specula il romanziere d'appendice. In questo modo l'emozione viene surrogata dalla speranza di emozionarsi. Anche il tifoso soggiace a un trucco del genere; la sua passione falsa, astratta, incapace di dargli il benessere emotivo delle emozioni vere e profonde, si accende dalla speranza di soddisfazioni di là da venire: da qui il carattere rimandato, eternamente spostato nel tempo degli scioglimenti calcistici. E da qui la necessità del calcio di organizzarsi in campionati e tornei. La coppa Rimet è stata assegnata a quarant'anni dal primo campionato mondiale. Di conseguenza quasi mai la fine d’una partita rappresenta un momento decisivo, nemmeno quando si decide la retrocessione o il primo posto in classifica; la fine della partita rappresenta l'apertura d'una parentesi, mal tollerata dal tifoso. Ma quel che più conta, la vera passione produce un potente stimolo creativo; sia nella realtà sia nella fantasia. Niente di tutto questo presso il tifoso [...]. Le riflessioni emozionanti certo non mancano.

Del resto, il calcio in genere è fatto per non escludere nessuno dalla speranza: è una continua, ininterrotta speranza; chi perde può rifarsi la domenica successiva, chi non vince il campionato rimanda al pros-

simo, e chi retrocede può ottenere la promozione nel campionato cadetti. ‘Tutta una nevrotica fuga in avanti che nemmeno l’estate interrompe; difatti nei mesi caldi la febbre calcistica nonostante le vacanze non cala: è l'ora della “campagna acquisti”, tutto può migliorare, dunque, tutto può peggiorare. Il tifoso è sempre in allarme. Il futuro per lui, l'abbiamo visto, ha un'importanza soverchiante ogni ragionevole limite c la sua passione, essendo falsa, non lo soddisfa e non lo stanca, lo esaspera, accresce il suo bisogno di abbandonarsi alla furia, di trasformare il gioco in guerra. [...]. Mancanza di fantasia c

di guerra, impotenza e violenza distruttiva fermentano sull’asettico mondo del calcio [...] il tifoso diventa tale allo scopo di prevenire un disastro interno. Sfortunatamente il tentato processo curativo finisce

col disintegrare completamente la sua personalità. Ciò corrisponde

221

fedelmente al modo di comportarsi di chi tenta di risolvere un suo disturbo psichico con la guerra».

È un linguaggio e un'analisi che introducono somiglianze tipiche con il fenomeno della religione. D'altronde è lo stesso stu-

dioso Desmond Morris ad affermare «che non esistono dubbi circa il significato religioso di una partita di calcio. In un certo senso le partite

hanno proprio sostituito per una grossa fetta di popolazione le funzioni e gli incontri religiosi del passato». Nel contesto della secolarizzazione e laicizzazione di massa caratteristica delle società occidentali del

secondo ‘900 la partita di calcio per Morris: «come un incontro religioso [...] non solo raduna un vasto gruppo di persone, ma le unisce in una fede comune: non più fede in una divinità, ma in una squadra. Alcuni possono obiettare che la partita è un ben misero sostituto, c, in effetti, in termini di filosofia di gruppo; lo è, ma sotto certi altri aspetti riveste invece una sua particolare importanza. Per i giovani tifosi, molti dei quali conducono una squallida e monotona esistenza nelle fabbriche o negli uffici, è l’unico momento eccitante di una settimana ripetitiva. È un'esperienza complessa, che dà loro un’occasione unica di affermare, con stendardi, inni c applausi, l'appartenenza

alla comunità e la fede in una causa comune»””. Tale aspetto religioso, lungi dall’essere diminuito nel corso

degli anni, è stato invece accentuato dalle innovazioni tecnologiche e mediatiche che ha assunto tale sport sempre più “televisivo”: «(2 regia televisiva riesce a conferire un'aureola di drammaticità e sacralità a momenti come l'esecuzione degli inni nazionali». Lo scrittore serbo (anticomunista) Vladimir Dimitrijevic pensa che «/z rivoluzione tec-

nologica abbia accresciuto soprattutto il potere delle produzioni non solo di narrare ma, in un certo senso, di costruire l'evento calcistico». Anche

il sociologo Porro sfiora fa uso di tali aspetti psicanalitici: «la drammatizzazione del racconto e l’enfatizzazione dell’identità costituiscono un sostrato culturale arcaico e fortemente intriso di componenti emotive che attingono a materiali culturali arcaici. Evocano il

simbolismo della guerra, la difesa del territorio, l'opposizione primaria amico-nemico. Eccitano sentimenti di appartenenza al clan e alimentano

4 Ivi, pp. 117-119. 4). Morris, La tribù del calcio, Mondadori, Milano, 1982, pp. 23-24. 222

in qualche caso autentici spiriti animali, come la xenofobia. Ostentano, seppure non deliberatamente, il simbolismo dei totem, la memoria e

l'istinto di vendetta».

Anche Vinnai fa ricorso ad un punto di vista psicanalitico, parlando del prezzo richiesto dallo sport per il dominio del complesso

di castrazione: «l'adattamento al sistema. Il sistema capitalistico stabilizza le suc costrizioni per mezzo della minaccia di castrazione. Chi è costretto a vivere sotto questa minaccia, è, almeno in parte, necessitaro ad assoggettarsi a condizioni estraneate. È nell’angoscia di castrazione del bambino durante una delle fasi della propria crescita che “risiede l'origine infantile del bisogno dell'uomo di avere un nemico contro il quale combattere”. la vittoria su questo nemico incarnato dall’avversario sul campo di calcio rappresenta un’autoassicurazione simbolica della propria potenza, mentre la sconfitta sul campo sportivo o la perdita del pallone ad opera del giocatore avversario racchiude una castrazione simbolica. Gli individui che apprendono, attraverso i conflitti di rivalità vissuti sul campo sportivo, a vivere con la minaccia della castrazione, sviluppano quella robustezza psichica che serve a riprodurre la società della concorrenza»*.

Gli spettatori, «mediante il meccanismo infantile dell’identifica-

zione con figure di capo, personificabili da atleti di successo», soddisfano impulsi libidici: «l’identificazione regressiva con i medesimi giocatori in quanto figure di primo piano — che occupano il posto dell'ideale dell'Io — dà luogo nello stesso tempo all'identificazione dei fans fra di loro. Dopo una vittoria della “propria” squadra ci si imbatte nella constatazione: “Abbiamo vinto”. L’eroicizzazione degli idoli comuni rende possibile il cameratismo delle arene del calcio, un ben misero surrogato di quella solidarietà — scaturente dalla spontancità di individui autonomi — che viene preclusa agli uomini».

Dalla già descritta fuga dalla realtà si giunge così al nesso con un legame prossimo al nazionalismo: «il trionfo sportivo vissuto collettiva-

# N. Porro, Sociologia del calcio, cit., pp. 56-58. #G. Vinnai, // calcio come ideologia, cit., pp. 102-103. # Ivi, p.112.

223

mente risarcisce per poco tempo delle frustrazioni della vita quotidiana», rendendo «intensa la partecipazione emozionale a questa “speranza di liberazione” che si ripresenta periodicamente [...]. ‘Tanto più insopportabile

è esperire sugli spalti come la “propria” squadra incorra in una sconfitta che mortifica il narcisismo collettivo. I suoi giocatori crollano come figure di capo; impulsi aggressivi contro i giocatori, finora rimossi o spostati, si liberano: in breve le grida d’incitamento fanatiche si trasformano in fischi laceranti e risate di scherno. Il “senso di felicità”

associato ai successi sportivi, è dovuto a una fuga dalla realtà che facilità l'adattamento alle irrazionali condizioni esistenti. Il dis-carico dalle costrizioni della realtà consentito da codesta fuga non sopprime il soffrire della realtà, ma serve solo a rimuoverlo per breve tempo dalla coscienza [...]. Mediante l’identificazione con il potere e la grandezza

di una collettività, gli uomini cercano di sottrarsi a un grado insopportabile di mortificazioni narcisistiche [...]. Questo sforzo assume un

carattere particolarmente delirante nel nazionalismo, tuttora operante anche se con lo stadio raggiunto dallo sviluppo delle forze productive ha perduto ogni base reale — almeno nei Paesi altamente industrializzati — e “si è ridotto a quella ideologia che peraltro è sempre stato” (Adorno,

ndr). Le partite internazionali di calcio in cui si affrontano le rappresentative di due federazioni calcistiche nazionali, mostrano tutta la virulenza di questo accecamento collettivo, che maschera le strutture di potere e i conflitti di interesse reali della società. La società, con cui gli uomini si identificano, può — in caso di vittoria della squadra che la rappresenta — restituire loro parte di quella stima di sé che è ad essi continuamente sottratta. È con questa speranza che il pubblico di casa

acclama in modo smaccato la propria squadra, disprezzando il diritto di ospitalità. Il rapporto che il calcio intrattiene con il nazionalismo è agevolato dal fatto che in quello non si manifesta apertamente il fondamentale contrasto di classe che la fede nel collettivo nazionale non vuole ammettere. Giocatori e spettatori provengono da tutti gli strati sociali e si danno tutti insieme al loro entusiasmo calcistico. L'adesione regressiva al collettivo sollecitata dalla reviviscenza di nazionalismo in occasione di incontri sportivi internazionali facilita ai dominanti la

rrasformazione dei popoli in Gefolgschafren [masse di seguaci]. Il loro strumento di comunicazione — legato alla scomparsa della personalità cosciente —, il grido di eccitamento preverbale, può essere ingerito nello

stadio. È appena il caso di ricordare che le prime partite internazionali di calcio furono giocate alla vigilia della prima guerra mondiale. Nel 1969 le oligarchie di El Salvador e Honduras, per salvaguardare i loro

interessi economici, spinsero alla guerra i popoli soggetti al loro dominio: presero come pretesto gli incidenti scoppiati durante una partita

224

internazionale di calcio, che avevano spinto le emozioni delle masse in una direzione nazionalistico-aggressiva»”. Vinnai esagera? Vediamo quanto ha scritto in tempi recenti il so-

ciologo e docente accademico Nicola Porro, il quale conferma la difficoltà del processo di “secolarizzazione” della nuova religione calcistica, diventata un bastione identitario per gran parte della società moderna: «il tifoso non è soltanto un consumatore di eventi, per quanto qualitativamente pregiati. Non è insomma assimilabile a un appassionato di cinema o di musica lirica. Quando si reca a uno stadio o anche quando si consegna fra le mura domestiche in attesa di una partita [...}, celebra un rito di conferma che affonda radici in un vissuto interiore molto profondo. La passione, il senso di appartenenza a una comunità,

la fedeltà alla squadra del cuore ne costituiscono gli ingredienti essenziali [...]. Il tifoso può cambiare opinioni politiche, professione, condizioni

economiche, gusti e stili di vita, ma non l'appartenenza alla squadra del cuore. Fuor di retorica, cssa costituisce realmente una “fede”. Anzi: è più frequente imbattersi in casi di conversione religiosa che di cambiamento dell’appartenenza calcistica». Anche il discorso “nazionalistico” e interclassista del calcio sembrerebbe confermato dalle ultime tendenze sociali. Se infatti le tifoserie tendono a riconoscersi anche in assenza di contatti personali, e in quanto «juventini, interisti o romanisti si ‘appartiene’a una comunità di affini», partecipando di «sentimenti, evocazioni mitologiche,

narrazioni epiche che riguardano vicende nella maggior parte dei casi trasmesse dalla tradizione orale». Tali comunità ereditano «un complesso sistema di relazioni sociali basate sull'opposizione fondamentale .

.

è

.

.

.



e

.

amico-nemico. Esistono sistemi di alleanze, di ostilità e pregiudizio che

risalgono alla cosiddetta equazione del beduino: l'amico del mio amico è mio amico, il nemico del mio amico è mio nemico, l’amico del mio nemico è mio nemico, il nemico del mio nemico è mio amico». Una volta

i “derby” tra due squadre della stessa città erano «manifestazione di differenze di classe e della storia sociale della città»; oggi non è più così: -



.



.

-

.

«negli ultimi decenni del Novecento l’identificabilità sociale si è quasi ovunque indebolita sin quasi a svanire. Non paradossalmente, è a

* Ivi, pp. 114-115. ?N. Porro, Sociologia del calcio, cit., p. 68.

225

però cresciuto il tasso di antagonismo e la stessa propensione alla violenza, prevalendo ormai una logica di “branco, promosso a comunità di fede e di destino”, che presidia le sue curve e non tollera violazioni dei propri spazi. L’ostentazione di simboli di appartenenza, come bandiere,

striscioni, gagliarderti, equipaggiamenti paramilitari con i colori della squadra, costituisce un modo per presidiare simbolicamente il territorio. Ne fa una “piccola patria" »°°.

Psicologia e violenza. Le conseguenze di tali de-evoluzioni culturali hanno avuto conseguenze devastanti per la società, andando ad intaccare le stesse organizzazioni comuniste, che forse pensavano di cavalcare l’onda, ma che invece si trovarono ben presto ad essere sus-

sunte da tali ideologie. Valentino Baldacci stigmatizzava nel giugno 1970 la posizione de L'Unità, organo del PCI, in cui per tutta la settimana precedente alla finale dei mondiali Italia-Brasile si seguivano e si informavano «i lettori, con seria partecipazione, delle vicende del

ginocchio di Anastasi o degli umori di Rivera». Conclusione di Baldacci dell’epoca: «se il più grande partito italiano d'opposizione si fa partecipe della generale celebrazione del gioco del calcio, questo è il segno dell'im-

portanza che questo sport ha assunto nella vita quotidiana». Baldacci ne trovava le ragioni con una fine analisi dialettica: «si ritrovano nel calcio i caratteri contraddittori della civiltà capitalistica, e specialmente del capitalismo europeo: stendere, abbattere, demolire l'avversario, negargli l'esistenza (cacciarlo nella serie inferiore): questa è l'essenza, il fine;

ma alla superficie c'è grazia, c'è razionalità, c'è bellezza. Il fine irrazionale e distruttivo è avvolto in un involucro accettabile e desiderabile». Il calcio era descritto vividamente come una valvola per sfogare istinti violenti: «seguendo le partite si può liberare aggressività attraverso un processo di identificazione. La reciproca identificazione dei fans mediata dall’identificazione con i loro idoli crea una situazione di massa che permette a ognuno di sbarazzarsi della rimozione dei suoi moti pulsionali inconsci. Libero da scrupoli intellettuali, l'individuo può investire aggressivamente rutto ciò che ostacola il soddisfacimento del narcisimo collettivo al quale partecipa. I giocatori delle squadre avversarie oggetti

9? Ivi, pp. 77-79. 5 G. Vinnai, // calcio come ideologia, cit., pp. 15-16. % Ivi, p. 18.

226

di esplosioni d’odio, ogni volta che si verificano incidenti sul campo; l'arbitro, che sembra sempre danneggiare la propria squadra; un idolo locale in forma non soddisfacente; o i sostenitori della squadra avversaria,

che replicano al proprio urlo di trionfo. Non è consentito alle vittime del dominio capitalistico di apprendere a dirigere l'aggressività risultante dalle frustrazioni di rapporti estraneati contro le loro cause. Invece di intraprendere la distruzione della “gabbia della servitù”, combatterne l'oppressione, dirigono il furore distruttivo alimentato da aggressività arginata contro il proprio Sé e contro coloro che sono anch'essi vittime. Lo sport è marcato in modo essenziale dal suo elemento masochistico. “Dello sport non è propria soltanto la spinta alla violenza, ma anche la spinta a obbedire e a soffrire” »*

La conclusione di Vinnai è radicale e va a colpire l’intera impostazione delle attività sportive, con una rigida perentorietà: «del sistema della cultura capitalistica di massa, che vittime dell’apparato industriale estrancato, fa parte anche tempo va ascritto nel regno della illibertà. Subordinato alla ministrazione pianificante, lo sport, al pari delle altre

tiene in riga le lo sport, che da regia di un'ammanifestazioni

dell'industria culturale, produce l’identificazione degli uomini con le nor-

me esistenti, e coi rapporti che stanno dietro di esse. Ogni comportamento

non conforme è bandito anche dal campo sportivo, dove il conformismo viene inculcato fin nei più sottili moti psichici. Di quel che era un rempo l’ideologia, una volta soppressi tutti i momenti utopici e critici, nello sport come in tutta la cultura capitalistica d'integrazione, non rimane se non

il prototipo di un comportamento che si piega al potere del sistema», Lo sport come meccanismo di integrazione e di conformismo

quindi, che tende all’uniformazione culturale, distogliendo dall’ambito politico: «oggi bisogna considerare almeno il calcio non più a lato del processo propriamente culturale, bensì contro. Colonna portante dell’accul-

turazione pilotata, istituzione quant’altre mai devastatrice a ragione dei suoi contenuti, il calcio non solo lungi dal placare gli istinti distruttivi

li moltiplica, fa di più: accentra su di sé l’attenzione delle masse e ne assorbe, esaurendoli, gli interessi»”.

9 Ivi, p. 123. “Ivi, p. 140.

7 G. Amedeo, £4 passione astratta, cit., p. 148.

227

Lotta di classe e politica. A questo punto occorre approfondire questo nesso tra calcio e progressiva riduzione della conflittualità socio-politica. Sembra però opportuno anzitutto partire da una premessa data fin qui erroneamente per scontata: non si intende porre tutti gli appassionati di calcio sullo stesso piano. Come notavano

però Alfred Krozova e Thomas Leithauser, «il ruolo dello spettatore competente, che valuta il gioco dal punto di vista di un leale rispetto e di un'abile esecuzione delle sue regole, passa in seconda linea di fronte all’aspetto psicologico di massa del fenomeno». La loro conclusione era che le manifestazioni calcistiche fossero «parte costitutiva di un sistema che rende apatiche, manipola e frantuma sempre più le masse dominate, al punto che queste non sembrano quasi più in grado di avviare movimenti di emancipazione, come processi di apprendimento collettivi — e con coscienza di classe» Con la conseguenza politica seguente: «negli Stati industriali sviluppati tardo-capitalistici si fa sempre più urgente, ci sembra, il bisogno d'integrare le classiche strategie socialiste dell'espropriazione e della socializzazione con strategie della comunicazione, cioè strategie della “riforma della coscienza” (Marx) e del rivoluzionamento

delle forme di comunicazione borghesi»? Sul nesso tra distrazione calcistica e politica, anche Vinnai giunge a conclusioni simili, introducendo un discorso rafforzato dai dati storici: «La lotta per la gloria sportiva non prende il posto solamente della libera competizione, per la quale non c'è più spazio nel capitalismo organizzato, ma anche della lotta reale per il miglioramento. La pseudoartività nella consuetudine col pallone di cuoio incanala le energie che potrebbero scuotere le condizioni di potere esistenti. I dominanti scoprirono il calcio come strumento di spoliticizzazione delle masse, quando era ancora in fasce: allorché, negli anni sessanta del secolo

scorso [intende il XIX secolo, ndr], le masse degli operai industriali cominciarono a interessarsi al calcio, molti imprenditori inglesi favorirono quel nuovo sport, soprattutto perché speravano che avrebbe tenuto lontani gli operai dall'attività politica e dalle loro organizzazioni

di classe».

# G3. Vinnai, // calcio come ideologia, cit., p. 31. ® Ivi, p. 32. Ivi, p. 112.

228

In effetti «nei rapporti dell'Ispettorato delle fabbriche inglesi del 31 ottobre 1859, a proposito di alcune leggi per una minima regolariz-

zazione della giornata lavorativa già votate, si osservava: “rendendo gli operai padroni del loro tempo, hanno dato loro un'energia morale che li

può condurre a impossessarsi eventualmente del potere politico*»®!. Desmond Morris ha attaccato questo schematismo tipico a suo dire degli «estremisti di sinistra», eppure offre lui stesso una ricostruzione storica che lo obbliga a riconoscere come in questi ragionamenti vi sia almeno «ur briciolo di verità». Lasciamo però direttamente a lui la ricostruzione storica: «quando i dirigenti delle fabbriche inglesi del diciannovesimo secolo si videro costretti a diminuire l'orario di lavoro, sorse il problema di come occupare gli operai durante il tempo libero». Di fronte all'ascesa del calcio, all’epoca appannaggio di «giovani gentiluomini», il quadro era dunque il seguente: «squadre di operai venivano incoraggiate a giocare per trascorrere i pomeriggi del sabato diventati liberi. Secondo il punto di vista socialista, una simile cendenza presentava un doppio vantaggio per i padroni: rencva gli operai maschi lontani dai guai durante le loro ore libere (e lontani

dai pubs) e li manteneva in forma perfetta per il lavoro in fabbrica. Nel 1885 il successo |...] fu vale che molti operai-calciatori diventarono

calciatori professionisti [...]. Vaste schiere di operai premevano per vedere i loro idoli ex operai, i nuovi professionisti, esibirsi sul campo di calcio. Fra iniziata l’era dei tifosi del calcio [...]. Gli spettatori forse non raggiungevano una perfetta forma fisica come i giocatori, ma il semplice

facto che la partita li teneva occupati il sabato pomeriggio e faceva loro provare orgoglio per la squadra locale, bastava a soddisfare gli scopi dei capitalisti. Gli operai soddisfatti lavoravano con più lena. Così i dirigenti di fabbrica diventarono manager di squadre di calcio e incoraggiarono il più possibile la nuova tendenza [...]. esplosione del calcio a livello

professionale fu un dono su un piatto d’argento — dicono gli scrittori socialisti — per i manipolatori borghesi»,

Morris polemizza aspramente verso quelli che definisce sprezzantemente «schematismi», eppure è costretto ad ammettere come

«molto probabile che in epoca vittoriana simili pensieri siano passati per la mente di alcuni dirigenti d'azienda privi di scrupoli». Ancora più interessante però è la sua conclusione con cui mostra bene il

© G. Amedeo, La passione astratta, cit., p. 150.

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nesso tra il calcio come “droga sociale” e il moderatismo politico:

«un avvenimento sociale in grado di eccitare, intrattenere e affascinare le masse, può rappresentare una efficace alternativa dell'uso del tempo libero e distoglierle dal terrorismo politico e dalla ribellione. Le masse,

così divertite, tenderanno piuttosto a promuovere cambiamenti politici di carattere più graduale e costruttivo»®. La recente ricerca di Porro conferma in effetti il ruolo svolto da settori politici interclassisti nella diffusione del calcio: «vi è piuttosto da sottolineare come la promozione del calcio in Italia sia opera, almeno sino alla Grande guerra, di ambienti socialmente eterogenei ma tendenzialmente ispirati a una visione riformatrice del sistema politico. In particolare, è evidente nel disegno giolittiano l’inten-

zione di favorire una complessiva modernizzazione del Paese che, nelle intenzioni, si associa al processo di industrializzazione. È il paradigma politico-culturale che si riconosce, gramscianamente, nel modello britannico: investimenti nell'economia industriale del Nord, promozione di una classe borghese che sappia farsi classe imprenditoriale, democrazia protetta ma garantita da un ceto politico liberale capace di tenere a bada tanto le tentazioni militaristiche (modello prussiano) quanto le pulsioni democratico-nazionalistiche insite nell’idea garibaldina (modello fran-

cese). Il calcio, gioco inglese per definizione, promosso da élite cosmopolitiche e maturato nell’#724s della nascente borghesia industriale del Nord, si inserisce in quella lotta per l'egemonia e assume i caratteri di un subsistema culturale perfettamente coerente con la filosofia politica del riformismo giolittiano»®.

Di tutto ciò era ben consapevole Mussolini quando glielo spiegarono: «il fascismo col suo isterismo motorio, incoraggiò in tutti i modi il calcio e ne fece quasi un suo simbolo: senza però trascurare con grossolana astuzia di sfruttarne la naturale tendenza a farsi veicolo di propaganda

nazionalistica c paralizzante ingombro intellettuale. Lando Ferretti, che fu con Leandro Arpinati infaticabile nel riuscito sforzo d’inquadrare

il calcio nelle attività interamente controllate dai gerarchi, spiegando l'interesse del dittatore verso lo sport, fu chiaro: “politico — e solo politico! - Mussolini vide, anche nello sport, e apprezzò il lato politico. Per essere più

precisi: la sua funzione politico-sociale. All'interno lo sport indubbiamente

® D. Morris, La #ribù del calcio, cit., pp. 24-26. © N. Porro, Sociologia del calcio, cit., p. 40.

230

era, ed è, nemico della lotta di classe, affratellatore e livellatore di gente proveniente dai più diversi ceti, tutta fusa da una passione comune e tesa verso la stessa meta. Inoltre costituisce, coi suoi spettacoli, il diversivo migliore

per la gioventù, altrimenti convogliata verso attività di partiti politici” »*.

E ancora, sempre lasciando parlare Lando Ferretti: «Come la borghesia parassitaria si adatta meravigliosamente all'atmosfera burocratico-passiva generata dal fascismo, così i pionieri del calcio vanno a nozze con l'autoritarismo dell'impostazione che il PN.F [Partito

Nazionale Fascista, ndr] dà allo sport italiano in genere e a quello del calcio in particolare». Conclude Amedeo: «Oggi ben difficilmente si troverebbero responsabili politici disposti a fare dichiarazioni come le riportate. Si è molto più cauti; in generale si cende a fingere una completa estraneità dello sport dalla politica. AI massimo si riconosce la necessità di burocrazie sportive. Ma sarebbe meglio rispondente alla verità sostenere l’importanza per i politici d'un

fenomeno come il calcio, perché in realtà la burocrazia sportiva è una diretta emanazione del potere politico ed economico della borghesia».

Il discorso non riguarda però solo l’Italia né solo l'Europa, ma diventa un fenomeno globale: «la diffusione del calcio a raggio mondiale segue in una prima fase le direttrici militari e commerciali

del colonialismo e dell'imperialismo di fine Ottocento. Bisognerà però

aspettare la decolonizzazione del secondo dopoguerra e gli anni settanta del Novecento per celebrare l'avvento dei Paesi africani nell'arena competitiva globalizzata»®. Siamo arrivati insomma alla descrizione del mondo odierno, e

qui ci possiamo fermare, provando a fare alcune considerazioni sui materiali fin qui presentati. Lungi da noi voler condannare l’attività sportiva o il calcio in sé come sport, queste pagine devono però far

riflettere profondamente sulle conseguenze che possono derivare da un'adesione non razionalizzata verso certi fenomeni. Lo svelamento di certe conseguenze sociali, culturali e, in ultima istanza, politiche

impone a tutti i lettori la necessità di ragionare sul fenomeno cal% Citato in G. Amedeo, La passione astratta, cit., p. 16. “5 Ivi, pp. 151-152.

“N. Porro, Sociologia del calcio, cit., p. 43.

231

cistico nella sua forma attuale, ma soprattutto sulle modalità che spingono milioni di persone a trasformare uno sport in una vera e propria religione dalle conseguenze degradanti e alienanti. Anche in questo caso non c'è bisogno di risposte estremistiche: si può e si deve senz'altro continuare a fare attività sportiva, anche di squadra, per gli effetti benefici che ciò apporta alla salute psico-fisica. Si può continuare ad essere “tifosi”, di una squadra calcistica come di altri

sport, senza dover ripudiare completamente un gioco incantevole, come molti altri meno noti peraltro. La riscoperta del vero “essere” e il raggiungimento di una felicità individuale effettiva non potrà però passare che dal recupero di una dimensione più razionale che conduca ogni singolo individuo a fare i conti con sé stesso e con la propria

coscienza, e non solo con quella “di classe”. Una riflessione esistenziale ed etica su se stessi e sull’irrazionalità di certi vincoli può e deve

condurre a ragionare profondamente sulla riscoperta dei veri “beni comuni” e della necessità di impostare la propria vita secondo forme di razionalità più avanzate rispetto a quelle vigenti. Il discorso fatto

sul calcio e sulle varie forme di alienazione fin qui affrontate sono solo alcuni esempi della necessità di uscire da una gigantesca “società

dello spettacolo”, per dirla alla Guy Débord, in cui ad uscirne sconfitti sono per varie ragioni, le classi lavoratrici e gli sfruttati, di contro ai vantaggi riservati a ristrette élite. Prima di recuperare l'utilità dell’orizzonte dell'impegno politico in senso rivoluzionario e socialista occorre però mostrare un'ultima indispensabile modalità con cui si esplica il “morbido” dominio indiretto dell’imperialismo, mostrando quanto ci abbia sussunto il totalitarismo liberale in cui viviamo.

12. L'arte e la cultura di massa

al servizio del capitalismo

«Questa è [...] l'epoca dello Stato totalitario che non consente, che

probabilmente non può consentire, alcuna libertà all'individuo {...]. Il totalitarismo ha abolito la libertà di pensiero in una misura inconcepibile in qualunque altro periodo storico. Ed è importante capire che il

controllo del pensiero esercitato dal totalitarismo non è solo negativo, ma anche positivo: non solo ti impedisce di esprimere — e persino di pensare — determinate idee, ma ti impone ciò che devi pensare, ti crea

un'ideologia [...]. Lo Stato totalitario fa di tutto per controllare i pensieri e le emozioni dei propri sudditi in modo persino più completo di come ne controlla le azioni. La domanda che ci sta a cuore è: può la letteratura sopravvivere in una simile armosfera? Penso che la risposta possa essere un secco no». (George Orwell, 19 giugno 1941)! Nella mastodontica lotta di classe giocata ogni giorno sul fronte culturale rientrano anche tutte le manifestazioni fondamen-

tali del settore artistico-culturale, con particolare attenzione per le

espressioni culturali divenute di massa. Proponiamo alcuni aspetti di questa lotta condotta con ogni mezzo su fronti diversi concentrandoci su alcuni aspetti riguardanti l’arte, l'editoria, il cinema, la musica e le nuove forme della cultura di massa. Nel corso del

cammino non ci limiteremo a dare descrizione delle strategie borghesi tese a mantenere la propria egemonia imperialista in maniera diretta o indiretta, ma offriremo alcuni spunti di prassi per l’azione dei comunisti.

!G. Orwell,

Letteratura e totalitarismo, all’interno di G. Orwell, Romanzi e

saggi (a cura di G. Bulla), Mondadori, Milano, 1999, pp. 1383-1384.

233

12.1. Le rivelazioni sulla guerra psicologica della CIA Per analizzare la tematica complessiva della lotta di classe dal

dopoguerra ad oggi occorre partire dalle rivelazioni, pressoché sconosciute alle grandi masse e non oggetto di dibattito pubblico, del clamoroso libro con cui Frances Stonor Saunders ha ricostruito la storia delle strategie adottate dalla CIA in campo culturale durante il primo ventennio della sua attività. Lasciamo la parola al testo: «Nel picno della guerra fredda il governo degli Stati Uniti destinò grandi risorse a un programma segreto di propaganda culturale rivolto all’FEuropa occidentale. Uno dei tratti principali di questo programma era proprio l'esplicita negazione della sua esistenza. Fu messo in atto con estrema riservatezza dallo strumento di spionaggio statunitense, la CIA,

Central Intelligence Agency. Un atto fondamentale di questa campagna segreta fu l’istiruzione del Congress for Cultural Freedom (Congresso per la libertà della cultura), organizzato dall’agente della CIA Michael Josselson, tra il 1950 e il 1967. I suoi risultati furono considerevoli, e così la sua durata. Al suo culmine, il Congresso per la libertà della cultura aveva uffici in trentacinque Paesi, stipendiava decine di persone, pubblicava più di venti riviste di prestigio, organizzava esposizioni d’arte, contava su un proprio servizio per la diffusione di notizie e articoli di opinione, organizzava conferenze internazionali di alto livello e ricompensava musicisti e altri artisti con premi e pubblici riconoscimenti. La sua missione consisteva nel distogliere l’intellighenzia europea dal fascino duraturo di marxismo c comunismo, in favore di una visione del mondo che si accordasse meglio con l'American way. Facendo ricorso a una estesa ed enormemente influente rete di personale al diretto servizio dell’Agenzia di intelligence, di strateghi politici, grandi industriali ed ex allievi delle

università di Ivy League, la nascente CIA iniziò, a partire dal 1947, a mettere in piedi un “consorzio” il cui duplice compito doveva consistere nel vaccinare il mondo dal contagio del comunismo e nel facilitare il conseguimento degli interessi globali della politica estera statunitense. Il risultato fu una rete di persone, notevolmente integrata, che lavorò gomito a gomito con l'Agenzia per promuovere un'idea: il mondo aveva bisogno di una pax americana, di un nuovo Illuminismo che sarebbe stato ribattezzato “i/ secolo americano». Una lotta che non ammetteva

neutralisti:

2 E Stoner Saunders, Gli intellettuali e la CIA. La strategia della guerra fredda culturale, Fazi Editori, Roma, 2004, p. 7.

234

«pochi furono gli scrittori, i pocti, gli artisti, gli storici, gli scienziati e i critici dell'Europa del dopoguerra a non essere collegati, in un modo è nell'altro, a quest'impresa segreta [...] lo spionaggio statunitense [...] nel

definire la guerra fredda “una battaglia per la conquista delle menti umane”, andò accumulando un immenso arsenale di armi culturali: riviste, libri, conferenze, seminari, esposizioni, concerti, premi. Tra i membri di

questo consorzio figurava un gruppo assortito di radicals c di intellettuali di sinistra la cui fede nel marxismo e nel comunismo si era infranta»).

La strategia della guerra psicologica. Una componente essen-

ziale di questo sforzo era la “guerra psicologica” definita come «l'uso pianificato della propaganda e di altre attività, diverse dal combattimento, da parte di uno Stato, per comunicare idee e informazioni come mezzo per esercitare influenza su opinioni, atteggiamenti, emozioni e comportamenti di gruppi stranieri al fine di favorire il conseguimento

di obiettivi nazionali». Ancor di più, si definiva «i/ tipo di propaganda più efficace» quella in cui «il soggetto opera nella direzione richiesta per motivi che ritiene essere propri». Il tutto partiva chiaramente

da canali ufficiali: il 4 aprile 1951 una direttiva segreta firmata dal presidente Truman, istituiva il Psychological Strategy Board (PSB), il

cui piano ideologico venne presentato nel documento denominato PSB D-33/2: «questo documento è tuttora segreto, ma un lungo commento a diffusione interna, firmato da un preoccupato funzionario dello stesso PSB, Charles Burton Marshall, citava ampie parti dei passaggi più inquietanti. Ecco i passaggi più scottanti: “Come /può] un governo adottare

un proprio sistema dottrinale tanto esteso senza assumere lineamenti totalitari? - chiedeva Marshall. - Il documento non lo indica. In realtà, propone l'uniformità al posto della diversità. Postula un sistema che prevede ‘un tipo particolare di concezione e struttura sociale’, che comprende ‘un complesso

di principi per le aspirazioni umane’e abbraccia ‘tutti i campi del pensiero umano’, tutti i campi d'interesse intellettuale, dall'antropologia alle creazioni artistiche alla sociologia, alla metodologia scientifica” Marshall [...] pronostica “un movimento intellettuale di lunga dura-

ta” come risultato di queste iniziative, allo scopo non solo di contrastare il comunismo, ma anche di “spezzare, in tutto il mondo, gli schemi dottrinari di pensiero” che forniscono una base intellettuale a “dottrine ostili

“Ivi, p. 8. “Ivi, p. 10.

235

agli obiettivi americani”. Le sue conclusioni erano chiarissime: “£ quanto di più totalitario si possa pensare” ». Negli USA la cultura venne messe sotto protettorato della CIA: «il PSB assumeva ora la supervisione del Moral Rearmament Movement, di Crusade for Freedom, Radio Europa Libera, Paix et Liberté, del Comitato americano per la libertà della cultura e perfino di operazioni che comportassero trasmissioni radiofoniche da navi, “pellicole cinematografiche tridimensionali”, c “l’uso di canzoni popolari, folclore, racconti

popolari e narratori itineranti"»°. La consapevolezza di un utilizzo politico dei media era cono-

sciuta già da tempo, come emerge indirettamente dalle parole con cui Nicolas Nabokov descrive il contesto culturale filo-russo presente negli USA dopo il 1943: «l'America era in uno stato d’cuforia filosovietica, che nessuno condivideva nella dimora di Dumbarton Avenue [dove si trovavano Charles Bohlen, George Kennan e Isaiah Berlin, ndr]. La grande

maggioranza dell’opinione pubblica statunitense, in tre anni, aveva cambiato due volte i suoi sentimenti verso la Russia. Prima era stata contro — dopo la sparvizione della Polonia e la guerra “ignobile” alla Finlandia. Stalin nelle vignette dei giornali sembrava un brutto incrocio tra un lupo c un orso. Poi, di colpo, dopo l'invasione nazista dell’Unione Sovietica nel 1941, l'opinione passò a favore della Russia. Stalin fu immediatamente abbellito, rappresentato come un cavaliere con l'armatura a difesa del Cremlino contro l’orda dei Teutoni e la sua immagine ripresa dal profilo smagrito e idealizzato delle foto che gli

aveva scattato Margaret Bourke-White. E ancora, nel 1943, la simpatia filorussa aumentò con Stalingrado».

È notevole peraltro in questo passo la dimostrazione di come

il sistema politico statunitense fosse stato estremamente efficiente nell’attuare un vero e proprio culto della personalità verso Stalin. Per combattere quest'ultimo e il comunismo il principale ideologo dell’élite americana fu George Kennan, uno dei padri della

* Ivi, pp. 135-136. “Ivi, p. 137.

”Ivi, p. 38.

236

CIA. Nel luglio 1947 pubblicò un articolo, X, apparso sulla rivista Foreign Affairs, in cui enunciò le tesi che avrebbero dominato

i

primi anni della guerra fredda: «il massimo sviluppo delle tecniche di propaganda e di guerra politica», la formulazione del concetto di «menzogna necessaria» come cardine della nuova diplomazia statunitense”. La sua filosofia divenne legge con la direttiva NSC-4 del 19 dicembre 1947, impartita dal National Security Council di Truman: «un allegato top secret a questo documento, la direttiva NSC-4a,

dava istruzioni al direttore della CIA perché fossero intraprese “operazioni psicologiche coperte” a supporto delle politiche anticomuniste degli Stati Uniti [...). La NSC-4 fu soppiantata, nel giugno 1948, da una nuova e più esplicita direttiva redatta da George Kennan, la NSC-10/2. Questi documenti avrebbero guidato i servizi di intelligence americani

nelle acque melmose della guerra politica segreta per i decenni a venire. [...] la NSC-10/2

diede piena approvazione governativa, al massimo

livello, a una pletora di azioni “coperte”: “propaganda, guerra economica, azioni dirette preventive incluso il sabotaggio, l'antisabotaggio, le distruzioni e i piani di evacuazione, la sovversione contro Stati ostili con assistenza a

movimenti clandestini di guerriglia e liberazione". Vutte queste attività, secondo le parole della NSC10/2, dovevano essere “pianificate e condotte

in modo tale che la responsabilità del governo americano non risulti evidente alle persone non autorizzate e che, se scoperte, il governo degli Stati Uniti possa respingere in modo convincente qualsiasi implicazione”»?.

Tutto ciò viene rafforzato e legittimato da una votazione parla-

mentare: «nel 1949 il Congresso approvò il Central Intelligence Act, una legge che autorizzava il direttore della CIA a spendere fondi senza doverne dare conto. In pochi anni, le attività dell’OPC (la portata delle sue operazioni, le suc risorse umane e finanziarie) crebbero come

un'idra. Il numero di persone in forza passò, da 232 nel 1949, a 2812 nel 1952, più altre 3182 che erano sotto contratto oltreoceano. Nello

stesso periodo le disponibilità finanziarie dell’ufficio crebbero da 4,7 a 82

milioni

di dollari»!°.

Ivi, p.39. "Ivi, p. 40. "Ivi, pp. 41-42,

237

Il “Manifesto della Libertà” e il Congresso per la Libertà della Cultura. Una delle prime iniziative messe in atto nell’ambito di

questa gigantesca lotta fu la costruzione del “Congresso per la Libertà della Cultura”, rentando di accreditarsi come i veri difensori della

libertà, garantendo una maggiore autonomia e spazio creativo per gli intellettuali e artisti, chiamati ad aderire alla sacra crociata contro il

totalitarismo comunista. Siamo nel 1950, quando esce il Manifesto della libertà: «una dichiarazione in quattordici punti che veniva presentata come una nuova costituzione a salvaguardia della libertà della cultura. Steso da

Koescler [...] il documento affermava: “Crediamo che sia di per sé evidente che la libertà intellettuale è uno degli inalienabili diritti dell’uomo [...].

Tale libertà si definisce prima e innanzitutto col diritto di avere e di esprimere le proprie opinioni, in particolare opinioni diverse da quelle dei propri

governi. Privato del diritto di dire “no”, l'uomo si riduce a uno schiavo”. Koestler dichiarava che libertà e pace erano “inseparabili”, c ammoniva che “/ pace può essere preservata solamente se ciascun governo si sottomette all'esame e al controllo del popolo che rappresenta”. Altri punti rilevavano che il prerequisito della libertà è “la tolleranza delle opinioni diverse. Il principio di tolleranza non permette in alcun modo la pratica dell'intolle-

ranza”. Nessuna “razza, nazione o religione può rivendicare il diritto a confessioni nel nome di un ideale 0 di un obiettivo supremo, qualsiasi esso sia. Crediamo che il contributo storico di ogni società sia da valutarsi sulla base del livello della qualità della libertà di cui effettivamente godono i suoi

cittadini”. Il manifesto continuava con la denuncia delle restrizioni alla libertà imposte dagli Stati totalitari, i cui “mezzi di costrizione superano abbondantemente quelli di tutte le tirannie che si sono avute nella storia dell'umanità”. “L'indifferenza o la neutralità rispetto a una tale sfida", continuava, “equivalgono a un tradimento dell'umanità e alla rinuncia a un pensiero libero”. Esprimeva un impegno per “la difesa delle libertà esistenti, la riconquista delle libertà perdute” e |...) per “le creazione di nuove libertà fe per) nuove costruttive risposte ai problemi del nostro tempo” [...]. Questo

documento era la cartina di tornasole della libertà. Attraverso di esso, il Congresso per la libertà della cultura stesso avrebbe avuto successo o sarebbe caduto. Al termine della conferenza, gli sponsor di Washington cominciarono a festeggiare [...]. Il Congresso per la libertà della cultura,

secondo un certo rapporto, aveva “effettivamente spinto un certo numero

di famosi leader della cultura ad abbandonare il loro distacco contemplativo e sofisticato in favore di un forte impegno contro il totalitarismo"»"!.

!! Ivi, pp. 76-78.

238

L'obiettivo politico in senso filo-imperialista del nuovo organismo è evidente: «minare le basi intellettuali del neutralismo era uno dei principali

obicttivi della politica della guerra fredda americana c veniva ora assunto come “linea” ufficiale del Congresso (per la libertà della cultura) [...]. Anche Koestler era diventato un obiettivo [...]. Lintolleranza di Koestler

nei confronti di chi non era d’accordo, la sua ira irrazionale c l'arroganza con cui difendeva le sue posizioni avevano convinto Washington che egli rappresentasse più una perdita che un vantaggio su cui contare [...]. Josselson si era ora convinto che un tono moderato cera essenziale se si voleva

che il Congresso per la libertà della cultura raggiungesse quello che era uno dei suoi principali obiettivi: la conquista degli indecisi. La risposta del quartier generale fu di autorizzare la rimozione di Koestler dal posto

centrale che aveva assunto nell’organizzazione. L'uomo che aveva steso il

Manifesto per la libertà della cultura fu così giubilaro [...]. La CIA, con la marginalizzazione di Koestler e con la gestione occulta di quella che stava

per divenire la maggior concentrazione di intellettuali e “Liberi pensatori”, agiva esattamente in violazione di quella stessa dichiarazione di principi che aveva finanziato. Per promuovere la libertà d’espressione, l'Agenzia

doveva prima comprarsela c poi circoscriverla. Il mercato delle idee non era così libero come poteva sembrare».

Nel marzo 1950 una nuova direttiva, la NSC-68, definita «il fondamentale documento-simbolo della guerra fredda» chiariva i compito del “Congresso”: «Non doveva essere un centro di agitazione politica, ma una testa di ponte in Europa occidentale, da cui arrestare l'avanzata delle idec

comuniste. Doveva impegnarsi in una battaglia diffusa, ma incisiva per convincere sul piano individuale gli intellettuali a dissociarsi dalle varic

organizzazioni l’intellighenzia di massa, ma a che di volta in

di copertura, comuniste o collaterali. Doveva incoraggiare a sviluppare teorie c argomenti, diretti non a un pubblico quelle piccole élite di gruppi di pressione e uomini politici volta concorrevano a determinare la politica governativa.

Non doveva essere una fonte d'informazioni d’intelligence [...]. Doveva

fornire un sostegno “indipendente” agli obiettivi della politica estera americana, che cercava di promuovere un'Europa unita (attraverso l’adesione alla NATO ce al Movimento Europeo, quest'ultimo in larga misura finanziato dalla CIA), riunificazione tedesca compresa. Doveva servire da vetrina dei successi della cultura americana e doveva lavorare per dissol-

Ivi, pp. 82-83.

239

vere gli stereotipi negativi diffusi in Europa, soprattutto in Francia, sulla

sterilità della cultura americana. Doveva inoltre rispondere alle critiche relative ad altri aspetti della democrazia americana, inclusa la questione dei diritti civili»'?.

Tale organismo avrebbe avuto ben presto un'influenza mondiale, dato che disponeva di «organizzazioni affiliate, non solo in Europa (c'erano uffici in Germania occidentale, Gran Bretagna, Svezia,

Danimarca, Islanda), ma anche in altri continenti: in Giappone, India, Argentina, Cile, Australia, Libano, Messico, Perù, Uruguay Colombia, Brasile e Pakistano!4. La mobilitazione degli intellettuali anticomunisti. Quali erano i nomi di punta messi in campo contro il comunismo? Ad esempio il

grande poeta T. S. Eliot, il romanziere André Malraux, il compositore

Igor Stravinskij'5. In prima fila a patrocinare il Congresso per la libertà della cultura troviamo poi anche Bertrand Russell, Benedetto Cro-

ce, John Dewey e Jacques Maritain. Almeno due di questi, Russell e Dewey, sono considerati tutt'oggi punti di riferimento indiscutibili negli ambienti progressisti. Eppure qualche dubbio permane, specie a seguito del ritratto fatto da Stonor Saunders: «nel 1950 Bertrand Russell, matematico e filosofo di fama inter-

nazionale, fu onnipresente. Quell’anno gli furono assegnati la Medaglia al merito dell'Ordine Britannico e il Premio Nobel. Aveva conosciuto Lenin e non gli aveva fatto una buona impressione: “La sua sguaiata

risata al pensiero di quanti erano stati massacrati mi gelò il sangue |...}, ne riportai un intenso ricordo di fanatismo e crudeltà mongolica”. Russell aveva sorpreso i suoi ammiratori quando, nel 1948, in un discorso tenuto

nel salotto principale di una Westminster School danneggiata dai bombardamenti, aveva suggerito di minacciare Stalin con la bomba atomica. In quel periodo Russell era “violentemente anticomunista [e] insisteva che,

da parte nostra, la potenza militare e il riarmo dovevano avere la precedenza su ogni altro aspetto”. Russell fu premiato anche dall’IRD, da cui si

compiaceva di ricevere “di tanto in tanto, notizie e indiscrezioni”. Benché allora fosse un “falco”, alla metà degli anni Cinquanta Russell diventò un sostenitore del disarmo nucleare [...]. Benedetto Croce, conservatore c monarchico, non aveva nulla in comune né con il socialismo né con la re-

!* Ivi, pp. 90-91.

4 Ivi, pp. 92-93.

Ivi, p. 48.

240

ligione organizzata (tanto che i suoi libri erano finiri nell’Indice vaticano

dei libri proibiti). Ora, a ottant'anni, era riverito in Italia come il padre

nobile dell’antifascismo, come un uomo che aveva sfidato apertamente il dispotismo di Mussolini, e veniva pertanto assunto a leader morale della resistenza [...]. John Dewey, già presidente del Comitato di difesa di Lev

Trockij, rappresentava il pensiero pragmatico del liberalismo americano. Karl Jaspers, l’esistenzialista tedesco, era stato un implacabile oppositore del Terzo Reich [...]. Jacques Maritain, umanista cattolico liberale»'°.

Si può e si deve infine segnalare che tra gli intellettuali coinvolti

nel 1950 nelle iniziative della CIA ci furono anche gli italiani Ignazio Silone, Guido Piovene, Altiero Spinelli, Franco Lombardi, Muzio Mazzocchi e Bonaventura Tecchi!7. Particolarmente rilevante è il nome di Spinelli, co-redattore del Manifesto di Ventotene, uno dei

testi di riferimento della “sinistra europeista”. Su queste questioni avremo modo di tornare nei prossimi capitoli e in maniera più approfondita nei prossimi volumi.

I soldi del piano Marshall e delle fondazioni borghesi legate alla CIA. L'organizzazione di queste enormi organizzazioni e di questa complessa guerra psicologica aveva chiaramente dei costi elevati per

gli USA. Nel 1950 vennero spesi per la guerra psicologica circa 34 milioni di dollari. Nei due anni successivi venne previsto di spenderne il quadruplo. Da dove arrivavano i soldi? Dal piano Marshall: «in modo piuttosto originale, nci primi tempi del Piano Marshall, fu proposto che, al fine di far svolgere ai fondi un duplice compito, ciascun Paese ricevente dovesse contribuire allo sforzo rappresentato dagli aiuti stranieri depositando, nella sua banca centrale, un importo cquivalente al contributo americano. Un accordo bilaterale tra il Paese in questione e gli Stari Uniti permetteva poi che questi fondi fossero utilizzati congiuntamente. Il grosso di questi fondi (il 95 per cento) rimaneva,

dal punto di vista legale, proprietà del governo di quel Paese, mentre il rimanente 5 per cento diventava proprietà del governo degli Stati Uniti. Questi “fondi di contropartita” (un fondo segreto dell'ammontare di circa 200 milioni di dollari l’anno) furono messi a disposizione della CIA per i suoi progetti speciali»"*.

!°Ivi, p. 85. ‘Ivi, p. 71.

'5 Ivi, pp. 90, 96.

241

Soltanto per tenere in piedi il Congresso per la libertà della cultura c i progetti ad esso collegati, l'Agenzia avrebbe speso ben

dieci milioni di dollari: «con wr simile impegno, la CIA stava in realtà agendo da ministero della Cultura degli Stati Uniti»??. Tutto ciò doveva chiaramente avvenire nel segreto più assoluto,

facendo passare le mobilitazioni di intellettuali e privati cittadini come indipendenti, libere, autonome, assoluramente non legate in alcun modo con il Governo USA. Per trovare una scappatoia utile a finanziare senza destare sospetti tali organizzazioni la CIA ricorse allora all’aiuto di alcuni potenti privati cittadini. Ecco quanto ricorda l’agente Tom Braden sulla “Fondazione Farfield”, nata il 30 gennaio 1952

come “organizzazione no-profit” per finanziare un festival musicale: «era una fondazione della CIA; ce n'erano molte, di queste fonda-

zioni. Utilizzavamo i nomi delle fondazioni per molti scopi, ma le fondazioni non esistevano se non sulla carta. Bastava andare da qualcuno a New York, che fosse una persona ricca e conosciuta, e dirgli: “Ci serve una fondazione”; gli spiegavamo che cosa ne avremmo fatto e gli chiedevamo di impegnarsi a mantenere il segreto. Di solito l’interpellato rispondeva “Va bene". Così facevamo stampare un po' di biglietti da visita con il suo nome ed ecco la fondazione. Era un meccanismo davvero molto semplice».

Si costruì un sistema su larga scala: «fu la sistematica organizzazione di una rete di gruppi “privati” o “amici” in un consorzio ufficioso. Si trattava di una coalizione imprenditoriale o di fondazioni filantropiche, imprese, altre istituzioni e privati, che lavorava in suretto collegamento con la CIA, per dare a quest'ultima copertura e canali finanziari per lo sviluppo dei suoi programmi segreti per l'Europa occidentale. Inoltre, su questi “amici” era sempre possibile

contare sulla difesa degli interessi del governo, sia negli Stati Uniti sia all’estero, mentre, nello stesso tempo, l'impressione era che questi agissero

unicamente di propria iniziativa. Mantenendo il loro status di “privati”, questi personaggi e istituzioni stavano in realtà interpretando la parte di coloro che apportavano, per conto della CIA, il capitale di rischio per la guerra fredda. La mente ispiratrice di questo consorzio fu Allen Dulles [...]. Nel maggio del 1949, Allen Dulles aveva diretto la formazione del

National Committee for a Free Europe, apparentemente iniziativa di un gruppo di “privati cittadini americani” [...]. Costituito legalmente a New

!° Ivi, p. 116. 2 Ivi, pp. 114-115.

242

York l'11 maggio 1949, questo organismo aveva lo scopo dichiarato di

“impiegare le molte e diverse capacità degli esiliati dell'Est europeo per lo sviluppo di programmi che contrastino attivamente la dominazione sovietica».

Inutile aggiungere che la CIA «forniva il 90 per cento del suo finanziamento». Chi entrava a far parte dell’organizzazione? «uomini d'affari e avvocati, diplomatici e amministratori del Piano Marshall, dirigenti d'’imprese di pubblicità e magnati della stampa, registi e

giornalisti, sindacalisti e, naturalmente, agenti della CIA in gran numero [...]. Il suo organico contava 413 addetti, 201 dei quali erano americani, molti di origine curopca, mentre 212 “specialisti” erano esiliati provenienti dall’Kuropa dell'Est. Il budget, per il solo primo anno, fu di 1.703.266 dollari»??.

Quel che ne emergeva era un potere occulto che avrebbe diret-

to buona parte del mondo negli anni successivi, spesso in maniera totalmente slegata dalle direttive del Presidente, e tanto meno del Congresso statunitense: «il consiglio generale di un comitato del Congresso americano

nominato, nel 1952, per un'indagine conoscitiva sulle fondazioni starunitensi, concludeva: “un enorme potere, senza paragoni, è concentrato nelle

mani di un gruppo di persone, perfettamente coordinato e con la tendenza a perpetuare se stesso. Diversamente dal potere nelle aziende, non è controllato dagli azionisti; diversamente dal potere del governo, non è sottoposto al controllo popolare; diversamente dal potere delle chiese, non è controllato da

alcun canone consolidato di valori.” Nel 1976, una commissione d’inchiesta nominata per indagare le attività dell’intelligence statunitense riportò

i seguenti dati relativi alla penetrazione della CIA nelle fondazioni alla metà degli anni Sessanta: durante il periodo 1963-66, delle 700 dona-

zioni superiori ai 10.000 dollari erogate da 164 fondazioni, almeno 108 furono totalmente o parzialmente fondi della CIA. Ancor più rilevante è che finanziamenti della CIA fossero presenti in quasi metà delle elargizioni, fatte da queste 164 fondazioni [...]. Si riteneva che le fondazioni autentiche, come Ford, Rockefeller e Carnegie, assicurassero “la migliore

e più credibile forma di finanziamento occulto”. Uno studio della CIA del 1966 sosteneva che questa tecnica fosse “particolarmente efficace per organizzazioni che sono gestite in modo democratico, dato che devono poter assicurare i loro ignari membri e collaboratori, come pure i critici ostili, di

2 Ivi, p. 117.

2 Ivi, pp. 118-119. 243

essere in grado di contare su forme di finanziamento privato, autentico e rispettabile”. Questo sistema permise alla CIA di assegnare fondi “4 una messe apparentemente sterminata di programmi, collegati a operazioni ‘coperte, riguardanti gruppi giovanili, sindacati operai, università, case editrici e altre istituzioni private” fin dall’inizio degli anni Cinquanta [...]. Sono note per avere consapevolmente facilitato le operazioni finanziarie della CIA oltre 170 fondazioni |...]. Nei loro consigli d’amministrazione sede-

va la crema dell’establishment sociale, politico e finanziario d'America».

Occorre a questo punto fare alcuni nomi per concretizzare alcu-

ni protagonisti di primo piano dell’imperialismo: la Fondazione Ford alla fine degli anni ‘50 aveva risorse per oltre tre miliardi di dollari e sostenne nel 1952 il lancio della rivista Perspectives, «indirizzata alla sinistra non comunista di Francia, Inghilterra, Italia e Germania (e pubblicata in tutte le rispettive lingue)». L'East European

Fund,

organizzazione di copertura della CIA, «trasse la maggior parte dei propri finanziamenti dalla Fondazione Ford», sostenendo ad esempio accordi con la Chekhov Publishing Company, «che ricevette 523.000

dollari dalla Fondazione Ford per l'acquisto di opere russe proibite e per la traduzione in russo di classici occidentali». Vennero poi finanziati anche la World Assembly of Youth (Assemblea mondiale della gioventù) e il Council of Foreign Relations, «uz centro studi indipendente che eserciterà un'enorme influenza sulla politica estera americana»”*. La Fondazione Rockefeller contava su risorse che superavano il mezzo miliardo di dollari, oltre ad un apposito centro studi, il Rocke-

feller Brorhers Fund Inc., supportato con ulteriori 150 milioni di dollari. Nel 1957 la Fondazione avviò il progetto Special Studies, con il

«compito di delineare una strategia complessiva per la politica estera americana». A questi lavori parteciparono diversi diplomatici e agenti della CIA, oltre ad un tale chiamato Henry Kissinger, futuro organizzatore di golpe in giro per il mondo, Cile di Allende compreso. «La convergen-

za tra i miliardi di Rockefeller e il governo americano superò perfino quella realizzata dalla Fondazione Ford. John Foster Dulles, e successivamente

Dean Rusk, diventarono segretari di Stato provenendo entrambi dalla presidenza della Fondazione Rockefeller». Fu tale fondazione a finanziare negli anni Cinquanta il «programma della CIA MK-ULTRA (chiamato

‘Ivi, pp. 122-123.

24 Ivi, p. 126-129.

244

anche “Manchurian Candidate” [...]), un programma di ricerca sul controllo mentale». Da segnalare che tali fondazioni si muovevano talora in piena autonomia, come ricorda Tom Braden riguardo all’attivismo di David Rockefeller, fratello di Nelson e a capo del comitato donazioni

della fondazione della Chase Manhattan Bank (oltre a svariate altre cariche). Afferma Braden: «mi diede 50.000 dollari per qualcuno che si era attivato per promuovere l'unità europea tra i gruppi giovanili in Europa. La CIA non entrò mai nell'affare». Siamo di fronte, secondo

l’Autrice, all’inevitabile «sottoprodotto della semi privatizzazione della politica estera americana durante questi anni della guerra fredda”. Veniva inoltre stanziato un notevole budget di 10 milioni di

dollari per Radio Europa Libera, fondata a Berlino, sotto gli auspici del Comitato, nel 1950. «In pochi anni, Radio Europa Libera avrebbe avuto ventinove stazioni di radiodiffusione, avrebbe trasmesso in sedici lingue diverse [...].

Fungeva, inoltre, da canale per l’invio di ordini alla rete di informatori che si trovavano al di là della Cortina di Ferro, per monitorare le trasmissioni comuniste, per dare appoggio e diffusione alle lezioni di anticomunismo e agli scritti di intellettuali occidentali [...]. Il nome della sezione

incaricata di reperire finanziamenti per il National Committee for a Free Europe era Crusade for Freedom c ne era portavoce e rappresentante un giovane attore che si chiamava Ronald Reagan»?®. La storia successiva del neoliberista Reagan è abbastanza nota

da poter essere omessa, anche se la sua collaborazione con la CIA (di cui è staro direttore anche George Bush, successore di Reagan alla Casa Bianca), costituita dall’élite della borghesia WASP statunitense,

spiega davvero molte cose. La crisi e il merito della Stonor Saunders. Per la conclusione di

questa opera riportiamo l’estratto di un articolo di Simone Turchetti”: «Per più di 20 anni le attività culturali finanziate dalla CIA orienta-

no l'opinione degli intellettuali verso la NATO e sfruttano le crisi interne

"Ivi, pp. 130-132. 15 Ivi, pp. 119-120.

*S. Turchetti, Le attività culturali della CIA, Galilconer.it, 19 gennaio 2002; per un'altra recensione si può vedere anche D. Giachetti, Frarzces Stonor Saunders, “La guerra fredda culturale. La Cia e il mondo delle lettere e delle arti", Comune.bologna.it.

245

al blocco sovietico (Ungheria, 1956) per rilanciare il ruolo trainante degli

Stati Uniti nella vita politica degli Stati curopci. Il sistema entra in crisi nel momento in cui la politica interventista degli Stati Uniti (Vietnam, 1957; Cuba, 1961) inevitabilmente aliena l'opinione degli intellettuali

curopci. Nel 1967, la crisi diventa irreversibile: il giornale californiano Ramparts pubblica dettagli sul finanziamento segreto della rivista inglese Encounter da parte della CIA, sulle interferenze degli uomini della CIA nelle politiche editoriali della rivista e sul fatto che il suo direttore Melvin Lasky è un agente CIA. L'affare Ramparts presto si trasforma per la CIA in una baia dci porci nel campo della cultura. Josselson viene dimesso e il CCF viene chiuso, anche se la CLA sceglie la “linea dura” solo per salvaguardare future ingerenze nel dibattito culturale c rilanciarle avrra-

verso altri canali. Analizzando archivi americani e inglesi e raccogliendo le testimonianze di alcuni fra i più importanti cold warriors nel campo

della cultura, la Saunders getta luce sui metodi del mecenarismo americano e sulle pratiche del controllo degli intellettuali europei. La giornalista giustamente concentra l’attenzione sul paradosso interno al concetto di

libertà culturale. La CIA indirerramente proponeva agli intellettuali di esaltare gli Stati Uniti come paladino di tale libertà, proprio mentre le sue ingerenze erano finalizzate a intaccarla e a impedire la critica della

politica estera americana. Predicare libertà culturale e praticare (se necessario) la censura diventa insomma la parola d’ordine negli ambienti CIA. Il lavoro della Saunders permette di guardare con disillusione ai luoghi culturali in cui si produce il sostegno all’interventismo americano. Durante la Guerra Fredda, gli appelli alla difesa della democrazia contro la tirannide, della civiltà contro la barbarie, del coraggio americano contro la codardia, della verità contro la falsità nascevano nelle azioni coperte

dei servizi segreti americani piuttosto che nella riflessione autonoma degli intellettuali». 12.2. La diffusione editoriale del verbo imperialista «Il modo migliore per fare buona propaganda è non far mai apparire che si sta facendo propaganda». (Richard Crossman)?*

«Un libro può essere importante quanto una battaglia». (Benjamin Disraeli, conservatore, Primo ministro del Regno Unito dal 27 febbraio

al 3 dicembre 1868 e dal 20 febbraio 1874 al 23 aprile 1880)?

2 Citato in E. Stonor Saunders, Gti intellettuali e la CIA, cit., p. 7. 2 Ivi, p. 25.

246

Utilizziamo ora un lavoro di Andrea Marinello?*, del Centro

di Ricerca in Bibliografia (CERB) di Bologna per mostrare an-

cora più dettagliatamente come abbiano agito gli USA in campo editoriale: «L'esigenza di organizzare attività di propaganda

[...] venne

affrontata dal governo americano con l'istituzione della Central Intelligence Agency (CIA) — creata con il National Security Act del 26 luglio 1947 — e della United States Information Agency (USIA),

formalmente istituita il 1° agosto 1953. La CIA nacque inizialmente

con compiti di coordinamento delle strutture di intelligence c di consulenza al Consiglio di sicurezza nazionale, ma ben presto le vennero assegnati compiti di promozione delle attività clandestine contro l'URSS. Una direttiva presidenziale del 22 ottobre 1953 chiariva invece scopi e funzioni dell'USIA: “Presentare ai popoli degli altri Paesi le prove, tramite tecniche di comunicazione, che gli obiettivi e le politiche degli Stati Uniti favoriscono, e faranno avanzare, le loro legittime aspirazioni di libertà, progresso e pace”. Le funzioni dell’ USIA — all’estero meglio conosciuta come United States Information Service (USIS) — rientrano nell’ambito della public diplomacy americana, ovvero “il complesso delle attività volte a promuovere l'interesse nazionale degli Stati Uniti attraverso l'informazione e l'influenza dei pubblici esteri, da attuarsi tramite programmi culturali, educativi, informativi e scambi”».

L'USIA, che arriva presto ad avere migliaia di dipendenti (nel 1998 John Kleeves, alias Stefano Anelli ha conteggiato 30 mila

dipendenti sparsi su 300 centrali operative in tutto il mondo, con un budget approssimativo di 3 bilioni di dollari a disposizione)?', è insomma l’organo predisposto attraverso cui diffondere l'egemonia culturale statunitense nel mondo. Attraverso lo “Smincth-Mundt Act”, legge che autorizzava i programmi di informazione a trasmet-

tere dentro e fuori il Paese, l’USIA trasmetteva la propria propaganda sottile attraverso Voice of America (VOA) che, nell’ambito generale

del progetto «doveva essere la radio e la rete di trasmissioni tv che andava in onda in tutto il mondo. L'altra importante radio supportata era Radio Free Europe o Radio Liberty, le cui frequenze erano trasmesse

* A. Marinello, L'editoria e la United States Information Agency, La fabbrica del libro. Bollettino di storia dell'editoria in Italia, anno XVII, n. 1, 2011. 3]. Kleeves, Divi di Stato. Le balle spaziali di Hollywood, Orion, n. 163, aprile 1998.

247

in Europa e Asia mediorientale; in questo modo le informazioni erano

diffuse con successo su larga scala»”. Dopo questa sintetica presentazione torniamo all’opera di Marinello: «Per passare dalle intenzioni ai fatti vennero impiegati i classici strumenti della propaganda di massa, quindi trasmissioni radio (Voice

of America) e marcriale a stampa come riviste, libelli, volantini. Perché gli Stati Uniti divenissero un punto di riferimento per i popoli di tutto il

mondo era però necessario che la cultura americana stessa venisse conosciuta, compresa ec apprezzata; vennero pertanto profusi sforzi notevoli nell’insegnamento dell'inglese, nei programmi

di scambio culturale e,

soprattutto, vennero pianificati progetti editoriali finalizzati a promuovere e incrementare la circolazione di opere considerate rappresentative dell'american way of life, o comunque adeguate all'immagine che l’America voleva dare di sé [...]. Sotto gli auspici dell’USIA, dall’inizio degli anni ‘50 furono avviati diversi progetti editoriali: fra i più importanti, il Book Translation Program, il Low-Priced Book Program ed il Public Law 480 Texrbook Program. Tramite il Book Translation Program l’agenzia supportava gli editori stranieri nella pubblicazione, traduzione e diffusione di opere che illustravano “importanti aspetti della vita e della cultura americana, o che contribuivano significativamente al chiarimento delle teorie e pratiche del comunismo” |...|. Perché il libro godesse di mag-

gior visibilità, non di rado veniva inserito uno scritto di un autore locale di riconosciuta competenza».

Qui si dice abbastanza esplicitamente che l’USIA contribuì a diffondere un'immagine falsificata degli USA (non quella reale ma quella «che l'America voleva dare di sé) e a diffondere una propaganda anticomunista e antisovietica. Ricordiamo che il E grande successo dell’

interpretazione totalitaria dell’URSS da parte della Arendt inizia

in questo periodo. «Il programma prese avvio nel 1956, con l’idea di andare incontro al bisogno di libri nei Paesi emergenti; i contenuti delle pubblicazioni riguardavano temi quali i principi fondanti della vita americana c il funzionamento delle istituzioni democratiche, ma anche letteratura, scienze e relazioni internazionali. Nel 1957 l'USIA, con il Public Law 480 ‘Textbook Program, cominciò ad occuparsi della traduzione e distribuzione di

anni

3° L. Magnolfi, A proposito dell'USIA. Ruolo dei mezzi di comunicazione negli (60 della guerra fredda, InStoria, n. 42, giugno 2011.

248

libri didattici americani: tramite joint venture fra l'agenzia, l'editore americano e quello straniero, c ralvolta anche in collaborazione con le autorità locali, venne incoraggiata la diffusione di testi scolastici a basso prezzo». L'azione egemonica si pone sul lungo termine andando ad offrire la propria interpretazione del mondo ad ogni latitudine (i

“Paesi emergenti”), su ogni tema ed in particolar modo andando a dare la propria versione dei fatti nei manuali scolastici. I numeri che

seguono mostrano l’impressionante mole di penetrazione nei mercati editoriali mondiali: «Fra l’inizio degli anni ‘50 c il 1961 le opere incluse nel Book Translation Program furono 6.215, per un totale di oltre 58 milioni di copie; nello stesso periodo, nel Low-Priced Books in ‘Iranslation Program vennero incluse 256 cdizioni, distribuite in 5 milioni di copie,

mentre tramite il Public Law 480 Textbook Program furono pubblicate 26 opere, per 142.350 copie. Nel giro di dieci anni questi progetti por-

carono dunque alla diffusione all’estero di 6.497 pubblicazioni, per un totale di oltre 63 milioni di copie. Nel 1971 il numero totale di edizioni patrocinare dall’USIS in tutto il mondo era salito a 19.220, distribuite in olure 157 milioni di copie. Lo sforzo maggiore venne compiuto alla metà degli anni ‘60: nel solo 1962 si contarono 4.908.197 pubblicazioni sovvenzionate; nel 1963 la mole raddoppiò, arrivando a 10.584.841, per attestarsi su una quantità annua superiore ai 12 milioni fra il 1964 e il 1966. Dal 1967 l’impegno in tale ambito andò progressivamente riducendosi, tanto che nel 1971 i testi stampati sotto gli auspici dell'USIS si attestarono a poco più di 3 milioni. La maggior parte delle risorse veniva destinata ai mercati asiatici: dal luglio 1962 al luglio 1963 le opere promosse dall’USIS furono 96 in America Latina,

110 in Furopa, 82

in Africa, 595 nel Near Fast e 263 nel Far East. Il dato si conferma nel

tempo: fra il luglio 1963 c il luglio 1964 le edizioni patrocinate dall’USIS furono 292 in America Latina, 66 in Europa, 107 in Africa, e ben 992 in Asia, sommando i libri promossi nel Far East (319) e nel Near East

(673). Nel periodo compreso fra il luglio 1970 e il luglio 1971, nella sola

Asia si promosse la pubblicazione di oltre 400 opere (200 fra South Asia e Ncar East, 212 nel Far Fast), contro le 33 sovvenzionate in Furopa, le

133 dell'America Latina c le 55 dell’Africa».

C'è spazio anche per l’Italia: «Per quanto riguarda l’USIS in Italia, l'editoria italiana poté beneficiare delle attenzioni dell'agenzia fin dal principio delle sue attività: dai documenti emerge che già nel 1951 diverse opere furono pubblicate

grazie all'intervento statunitense. Solo per citarne alcune, L'igiene mentale 249

nella sanità pubblica di P. V. Lemkau e /mperialismo sovietico: la marcia della Russia verso il dominio del mondo di Ernest Carman per le edizioni Astrolabio; la Cappelli di Bologna pubblicò Storia degli Stati Uniti d'America di Charles e Mary Beard; per Longanesi venne pubulicato Ho

scelto la libertà di Viktor Kravchenko; per Bompiani, Dentro l'America di John Gunther. Fra i resoconti delle attività dell’USIS è possibile individuare collaborazioni in Italia almeno fino al 1969. Non tutti i libri venivano inclusi nei programmi di sovvenzione: la diffusione di opere ritenute poco funzionali non era in alcun modo incoraggiata, come poté verificare l'editore vicentino Neri Pozza [...]. I titoli pubblicati da Neri Pozza dovevano essere stati ritenuti meritevoli di supporto dagli addetti dell’Operations and Policy Research, un ente che si occupava della verifica dei testi per conto dell’USIA ec provvedeva a suddividerli in sei categorie: “Maximum Promotion", “ High level normal use”, “ Low level normal use”, “Normal use”, “Conditional use” e “ Not suitable”. Le opere

che rientravano nell’ultima categoria venivano così descritte: “Libri mal scritti, di basso livello e lavori che distorcono i fatti e riportano conclusioni

non supportate non hanno spazio nel programma. Libri che sono fortemente critici verso gli obiettivi della politica estera degli Stati Uniti sarebbero un intralcio effettivo al programma. I libri che rientrano nella categoria sono

quelli che invocano la distruzione delle istituzioni libere, promuovono o rafforzano la propaganda comunista, o sono osceni, di scarsa qualità e sensazionalisti” |...]. Oltre alla casa editrice veneta, l’USIS cbbe proficui rapporti con il Mulino e Cappelli a Bologna; con Salani e La Nuova Italia a Firenze; con Guanda a Parma; con Nistri-Lischi a Pisa e con Marietti,

Taylor ed Einaudi a Torino. Più numerose le collaborazioni con le case editrici milanesi (Longanesi, Mondadori, Bompiani, ecc.) e romane (Opere Nuove, Mundus, Saturnia, ecc.), rapporti che fra il 1951

ed il

1969 portarono alla pubblicazione di oltre 250 opere». Ecco infine cosa si trovava scritto nel manuale di istruzione Launching books in foreign countries a disposizione di tutti gli agenti

dell’USIA sparsi nel mondo che portavano avanti il progetto: «Tutti gli editori del mondo stampano i loro libri per raggruppamenti stagionali, o “iste”. Nella maggioranza dci Paesi ci sono le liste

primaverili, da gennaio a giugno, e le liste autunnali, da luglio a dicembre. È dunque astuto selezionare i titoli da sottoporre agli editori locali in qualche modo secondo le stesse modalità [...]. Gli editori che sono nella fase di sviluppo di una lista stagionale sono spesso alla ricerca di “giusto

un libro in più” [...]. [Nella vostra lista] includete almeno sei titoli che riprendano ciascuno dci seguenti esempi: a- Un romanzo americano meritevole.

b — Un libro che confuti i principi dello Stalinismo.

250

c— Un libro che illustri un importante aspetto della vita americana

contemporanea. d — Una biografia di un noto americano. e — Un classico della letteratura degli Stati Uniti.

t — Un libro dalla nostra storia, preferibilmente uno che faccia risaltare l’importanza propria della libertà individuale nel progresso dell'America»).

Troviamo conferme nel testo di Frances Stonor Saunders? Sì.

Vediamone alcuni passaggi. Ecco quanto avvenne nell'immediato secondo dopoguerra, durante l'occupazione militare in Europa: «fu lanciato un vasto programma per la diffusione di testi, soprat-

tutto mirato a “presentare al lettore tedesco la cultura e la storia degli Stati Uniti nella miglior luce possibile”. Ricorrendo a editori commerciali, il governo d'occupazione si assicurò un flusso costante di “libri di carattere

generale” che erano ritenuti “più adatti delle pubblicazioni sponsorizzate dal governo, perché non hanno il marchio della propaganda”. E tuttavia, erano certamente propaganda. Le traduzioni commissionate dalla sola Divisione guerra psicologica del Governo militare americano arrivarono a centinaia di titoli e spaziavano da // cittadino Tom Paine di Howard Fast a 7he New Deal in Action di Arthur M. Schlesinger jr a Built in the USA del Museum of Modern Art. C'erano anche edizioni tedesche di libri “adarri per bambini nell'età in cui sono maggiormente influenzabili” come // libro delle meraviglie di Nathaniel Hawthorne, Un americano del Connecticut alla corte del re Artù di Mark Twain e La piccola casa nella prateria di T.aura Ingall Wilder. Nel dopoguerra questi programmi editoriali aiutarono significativamente a dar credito in Germania (c negli altri territori occupati) a molti autori statunitensi. Il prestigio culturale degli Stati Uniti crebbe con la distribuzione delle opere di Louisa May Alcott, Pearl Buck, Jacques Barzun, James Burnham, Willa Carher, Norman Cousins, William Faulkner, Ellen Glasgow, Ernest Hemingway, F. O. Matthiessen, Reinhold Nicbuhr, Carl Sandburg, James ‘Ihurber, Edith Wharton e ‘Thomas Wolfe. Anche autori curopei furono promossi da parte di un esplicito “programma anticomunista”. Erano considerati adatti vesti nci quali “/ critica della politica estera sovietica e del comunismo come forma di governo fosse ritenuta obiettiva, presentata in modo convincente e opportuno” [non necessariamente corrispondente a

verità,

notare... ndr]. Soddisfacevano questo criterio il resoconto di André Gide sulla disillusione conseguente al suo viaggio in URSS, Buio a mezzogiorno

33 Per questo c i precedenti passi citati si è fatto riferimento sempre a A. Marinello, L'editoria e la United States Information Agency, cit.

251

e Lo Yogi e il Commissario di Arthur Koestler, Pane e vino di Ignazio Silone [...]. Il consenso alla pubblicazione fu negato a molti libri»*. Vi era chiaramente estrema consapevolezza della questione: «i

libri sono diversi da ogni altro mezzo di propaganda, prima di tutto perché un solo libro può far cambiare in modo significativo l'atteggiamento del lettore, in misura non paragonabile a quella che si può ottenere con qualsiasi altro mezzo singolo. Pubblicare libri è, pertanto, l'arma più

importante (e ad ampio raggio) nella strategia di propaganda». Così scrisse il capo del Covert Action Staff della CIA. E ancora: «Il programma clandestino di pubblicazioni di libri da parte della CIA era condotto, secondo la stessa fonte, avendo in mente le regole seguenti: “Far pubblicare e distribuire libri all'estero, senza dar adito a sospetti circa l'interesse da parte degli Stati Uniti, finanziando segretamente editori o librerie. Far pubblicare libri che non siano ‘contaminati’ da nessun manifesto collegamento con il governo americano, in particolare se la posi-

zione dell’autore è delicata. Far pubblicare libri per ragioni operative, indipendentemente dalle loro potenzialità commerciali. Dar avvio e finanziare imprese nazionali o società internazionali perché pubblichino e distribuiscano libri. Stimolare la scrittura di testi politicamente significativi da parte di autori stranieri, anche non noti, finanziando direttamente l'autore, se è

possibile farlo in modo ‘coperto’, o indirettamente attraverso agenti letterari

o editori.” Nel 1977 il New York Times pubblicò la notizia che la CIA fosse stata coinvolta nella pubblicazione di almeno un migliaio di libri»??.

Anche l'FBI si diede da fare in questa campagna anticomunista.

Oltre a schedare e osservare chiunque fosse accusato di avere simpatie per l'URSS e il comunismo, prodromi di quello che diventa poi il maccartismo, si passa anche a manovre attive: «un agente dell'FBI fece visita alla casa editrice Litdle & Brown affermando che J. Edgar Hoover non desiderava vedere sugli scaffali

Spartacus, il nuovo romanzo di Howard Fasc. Little & Brown restituì all'autore il manoscritto, che fu rifiutato da altri sette editori. Alfred Knopf lo respinse senza seppure aprirlo, dicendo che non avrebbe nep-

pure guardato il lavoro di un traditore. Alla fine, il libro uscì nel 1950, edito dallo stesso autore, Howard Fast»*.

* E Stonor Saunders, Gli intellettuali e la CIA, cit., pp. 25-26. 3 Ivi, p. 220. # Ivi, p. 52.

252

Di seguito però i passaggi più inquietanti, messi in campo dalla CIA: «nella primavera 1953 [...] Cohn e Schine intrapresero un viaggio

d'ispezione nei principali avamposti ufficiali dei servizi informativi americani [...]. Dopo aver visitato le biblioteche dell’USIA, United States

Information Agency in sette Paesi, annunciarono che 30.000 libri, dei due milioni presenti sugli scaffali, erano di scrittori filocomunisti e ne chiesero la rimozione. Il dipartimento di Stato, lungi dal difendere le proprie biblioteche (che erano frequentate da circa 36 milioni di persone l’anno), emisc una codarda direttiva che vietava qualsiasi materiale,

dipinti compresi, il cui autore fosse “una qualsiasi persona dubbia, un comunista, un “compagno di strada” ecc”. Così, con ambiguità kafkiana, le opere di centinaia di scrittori e artisti americani furono consegnate alla pattumiera della politica. Seguì una pioggia di telegrammi tra il dipartimento di Stato e tutte le missioni dell’USIA (Berlino, Brema, Diisseldorf, Francoforte, Amburgo, Monaco, Hannover, Stoccarda, Friburgo, Norimberga, Parigi), man mano che l'ordinanza di rimozione dei libri veniva attuata [...]. Molti libri rimossi dagli scaffali erano già

stati bruciati dai nazisti. Destinati al rogo, per la seconda volta, furono La montagna incantata di ‘Thomas Mann, Opere scelte di Tom Paine, La teoria della relatività di Albert Einstein, gli scritti di Sigmund Freud, Perchè sono diventata socialista di Helen Keller c / dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed. Il saggio di Thoreau sulla Disobbedienza civile fu bandito»”,

Anche le pubblicazioni apparentemente più futili erano “pilotate



:

«perfino le guide turistiche potevano contenere le osservazioni di agenti della CIA, parecchi dei quali scorrazzavano per l'Europa usando come copertura le famose guide Fodor [...]. A volte, recensioni di libri

sul New York Times o altri rinomati periodici erano scritte da autori sotto contratto con la CIA»**. Così il mercato editoriale e letterario mondiale fu invaso dalla

cultura statunitense e da un’ossessiva e costante sfilza di libri anticomunisti. Tutto ciò era stato reso possibile dal farro di aver alle proprie spalle un corpo di élite poderoso:

Ivi, pp. 174-175.

® Ivi, p. 222. 253

«a merà degli anni Sessanta, l'Agenzia si vantava di poter fornire il corpo docente a qualsiasi università: il 50 per cento dei suoi analisti avevano titoli di studio superiori, mentre il 30 per cento erano persone che avevano un dottorato, tanto da far affermare a un funzionario del dipartimento di Stato: “Ci sono più intellettuali liberal per centimetro

quadrato alla CIA che in qualsiasi altra istituzione del governo"»?.

Non solo per blocco “intellettuale”, ma sociale con una connotazione di “classe” ben precisa. Già l’organizzazione antesignana della CIA, l’OSS, sceglieva «/e sue reclute nel cuore dell'America dei grandi gruppi industriali, dall'establishment politico, accademico e culturale». Era il meglio che potesse esprimere la borghesia statunitense: «un corpo d'élite che rappresentava le più potenti istituzioni e famiglie d'America [...]. 1 figli di J. P. Morgan erano entrambi nell’OSS. Le famiglie Vanderbilt, DuPont, Archbold (Standard Oil),

Ryan (assicurazione Equitable Life), Weil (grandi magazzini Macy), Withney, erano tutte rappresentate nei ranghi dell’esercito segreto [...]. Fu questa storica élite, proveniente dall’Ivy League, che proiettò la sua influenza sui consigli d’amministrazione, gli istituti accademici, i principali giornali e media, gli studi legali c sul governo, che si stava

ora muovendo per riempire i ranghi della neonata Agenzia. Molti provenivano da quella concentrazione, presente a Washington, di un centinaio di famiglie benestanti, note col nome di “abitanti delle caverne”, che intendevano preservare strenuamente i valori della Chiesa presbiteriana ed episcopale». Si trattava di un gruppo «che credeva nella democrazia,

ma era

diffidente nei confronti dell'egualitarismo sfrenato»*®.

12.3. L'arte astratta finanziata dalla CIA «Riconoscemmo che questo ripo d'arte non aveva nulla a che fare con il realismo socialista c, anzi, che lo faceva apparire più di manicra, più rigido e limitante di quanto in realtà fosse. Questa impressione fu sfruttata in alcune mostre. [...] in un modo o nell’altro, valeva la pena sostenere qualsiasi cosa Mosca criticasse in modo

tanto pesante [...]. Se

si doveva usare gente che considerava se stessa, in un modo o nell’altro,

® Ivi, pp. 212-213. Ivi, pp. 36-37.

254

più vicina a Mosca che a Washington, tanto meglio, forse». (Donald Jameson, agente della CIA, parlando dell’espressionismo)*'

Sempre dal prezioso libro di Frances Stonor Saunders si viene a sapere che interi movimenti artistici furono finanziati unicamente in ottica anticomunista. Ricostruzione questo aspetto con un articolo

di Paolo Guzzanti*?: «L'arte astratta fu davvero l'arma segreta la Guerra Fredda? La risposta è sì, anche se la storia straordinaria e quasi incredibile che come un principe italiano del Rinascimento, o

degli americani durante finora pochi conoscono vede la CIA comportarsi un Papa, per promuovere

l’arce astratta c battere i sovictici c il loro realismo socialista |...]. Eppure

la notizia è vecchia di vent'anni perché fu nel 1995 che la giornalista inglese Frances Stonor Saunders pubblicò i risultati della sua inchiesta in Zbe Cultural Cold War (La Guerra Fredda della cultura) basato sulle

rivelazioni dei vecchi dirigenti della CIA che avevano ideato l'operazione. Erano proprio quegli uomini a paragonarsi ai principi e ai papi italiani del Rinascimento: “salvo i dettaglio della segretezza, noi siamo papi in incognito”. Senza i papi non ci sarebbero stati la Cappella Sistina, Raffaello e Michelangelo. Senza la CIA, niente Jackson Pollock, Willem De

Kooning, Mark Rothko e tutti gli artisti che imposero New York come capitale mondiale dell’arte, surclassando Parigi. Chi era il loro papa? La CIA. Scopo? Battere i russi nella conquista degli intellettuali, specialmente francesi e italiani. Secondo un principio di senso gramsciano: chi ha dalla sua parte gli intellettuali, gli artisti, i giornalisti, vince la guerra della comunicazione. E del consenso. Gli intellettuali curopei, durante

c dopo la guerra, specialmente in Italia e Francia, erano passati in blocco al Partito comunista. In Italia la trasmigrazione fu pressoché totale. Tutti cercarono di cancellare il loro passato fascista che arrivava almeno fino alle leggi razziali, e in molti casi oltre. Soltanto Carlo Levi era stato fin dall'inizio antifascista. L’adesione al Partito comunista era stata così massiccia da diventare un problema per il segretario del PCI Palmiro Togliatti. Antonello ‘Trombadori, critico d'arte del partito, fu incaricato di visitare gli artisti ‘diventati comunisti per costruire (4 posteriori) la

4 Ivi, p. 233. £ P. Guzzanti, Larma più segreta della Cia erano i pittori dell'astrattismo, Il Giornale (web), 23 agosto 2014; sullo stesso tema: Autore Ignoto, Cia mecenate

dell'Espressionismo astratto. La prima conferma da un ex funzionario, La Repubblica (20eb), 11 novembre 2010.

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storia del tormentato distacco dal fascismo. Ne nacquero liti c perfino qualche scazzottatura tra gli amici di Corrado Cagli e Renato Guttuso ma l'operazione fu condotta in porto. Questo imponente “travaso” di intellettuali e artisti 1:21lc file comuniste allarmò la CIA fin dal momento dalla sua nascita, nel 1947. La maggior parte dei suoi dirigenti era di sinistra anche se non

comunista. Quasi turri provenivano dall’OSS (Office of Secret Service) nato durante la Seconda guerra mondiale. Molti agenti dell’OSS erano

stati volontari nella guerra di Spagna come combattenti repubblicani nella Lincoln Brigade. Erano per lo più artisti piuttosto snob — Ernest Hemingway era uno di loro — sicché la sigla OSS fu cradorra ironicamente come “0%! So Social”. Come dire: Oh! Così radical-chic! Bisogna anche tener conto che negli Stati Uniti il partito comunista americano, il PoUsa, era una realtà rutt'altro che trascurabile. Fin dagli anni Trenta aveva “arruolato” la maggior parte degli scrittori e cineasti, seguendo una linea intransigente nei confronti di Mosca nel periodo dell’oscena alleanza fra Hitler e Stalin del 1939 e ancora più dura nei confronti dei comunisti francesi accusati di essersi adeguati a quel patto. La maggior parte dei pittori Usa che la CIA intendeva promuovere, come Jackson Pollock, Rothko, Arshile Gorki c tutti gli altri, cra più o meno aperta-

mente comunista, spesso anti-americana e talvolta simpatizzante per l'Unione Sovietica. Alcuni di loro sarebbero impazziti di rabbia sc avessero saputo che i servizi segreti volevano “foraggiarli” per usarli in chiave anticomunista. Fu proprio fra questi pittori che la CIA andò a pescare i suoi campioni, al fine di promuovere l’idea degli Stati Uniti come patria della libertà e dell'anarchia artistica. L'opposto, insomma, dell’Unione Sovietica (e dei suoi seguaci europei) in cui l’arte astratta era derisa e scoraggiata sc non perseguitata. Tuttavia, ncanche in patria, i pittori

astratti godevano di buona fama. Derisi (“Non comprate un quadro astratto, fatevelo a casa”), trattati da scansafatiche incompetenti (“Se questa è arte, allora io sono un Ottentotto” osservò il presidente Truman) i pittori

astratti americani si trovarono improvvisamente un'autostrada davanti: le loro opere venivano adottate dal MoOMA c dal Whitney Museum. Di più, erano promosse all’estero, specialmente in Europa; andavano alla Biennale di Venezia o alla Tate di Londra; e ogni volta che si prospettava una trasferta all'estero, molto costosa, si trovava un magnate miliardario che (apparentemente) pagava di tasca sua. Uno di questi magnati cra Nelson Rockefeller il quale quando si riferiva al Museum of Modern Art lo chiamava il “Mom museum”, il museo di mamma, visto che sua madre

era stata una delle quattro zelanti fondatrici. Rockefeller fingeva di metter mano al portafoglio. Ma in realtà pagava la CIA. Agenti o ex agenti di altissimo grado, come William Paley o John Hay Whitney sedevano nei vari board del MoMa. Tom Braden, altro pezzo grosso della CIA, ne fu segretario esecutivo nel 1949. 256

Nello stesso periodo di tempo il Partito Comunista Sovietico scatenava una campagna brutale contro la pittura moderna, bollata come arte degenerata (come era accaduto nella Germania di Hitler) decadente e di-

sgustosamente borghese. | comunisti arrivarono ad insultare il comunista Pablo Picasso per Guernica, la più famosa e impegnata delle sue opere. Se negli Stati uniti il senatore McCarthy lanciava la sua caccia alle streghe contro gli artisti sospetti di simpatie comuniste, dall'altra, a Mosca Andrej Aleksandrovic Zdanov lanciava la sua caccia alle streghe contro l'arte moderna. In Italia la campagna Zdanovista fece le sue vittime. A esempio Renato Guttuso fu redarguito per le sue “picassate alla siciliana”. Ma a dettare la linea ci pensò Palmiro Togliatti in persona attraverso il scttimanale ideologico del Pci Rinascita dove pubblicò un breve corsivo intitolato Scarabocchi. Era la recensione di una esposizione bolognese di “pittura moderna”: “È una raccolta di cose mostruose, riproduzioni di cosiddetti quadri, disegni e sculture”. Il tono era paternalistico ma il messaggio era chiaro. Le tentazioni astrattiste “all'americana” dovevano essere represse per tornare all’arte al servizio del popolo. Il fascismo, che pure aveva lasciato gli artisti scatenarsi a piacimento, aveva incoraggiato un'arte monumentale massiccia e proletaria - basta pensare al monumentalismo di Sironi - del tutto identica a quella degli artisti sovietici: operai nerboruti, contadine poppute, fabbriche operose, ciminiere affumicatrici. Dall'altra parte dell’Occano Jackson Pollock dipingeva danzando sulla tela distesa sul pavimento e lasciando cadere colori liquidi al passo degli indiani “Orsi tranquilli” con cui aveva condiviso l’infanzia contadina. I bravi borghesi americani, più vicini a Togliatti che a Marcel Duchamp (che fu il vero scopritore di Pollock e lo impose a Peggy Guggenheim, inizialmente molto perplessa) trattavano con disprezzo le composizioni che la stampa borghese definiva ironicamente come “Drip drop and splash”, cioè gocciola lascia cadere e schizza. La CIA era molto più avanti del critico medio: si comportava davvero come un mecenate in aperto conflitto con le rendenze più reazionarie negli Stati Uniti [...].

Tutto ciò, come ho ricordato, fu raccontato, documentato e pubblicato nel 1995 dalla giornalista britannica Frances Stonor Saunders che il 22 ottobre di quell’anno pubblicò un articolo: Modern Art was a CIA weapon, L'arte moderna fu un'arma della CIA. L'inchiesta fu ripresa poi nel 1998 da James Petras che ne scrisse sulla Monthly Review, la più prestigiosa rivista marxista in lingua inglese. Petras sosteneva che molti intellettuali arruolati dalla CLA sapevano benissimo chi li pagava. Quando si permisero di fare i capricci, sostenendo di essere stati raggirati, Tom Braden li sputtanò e dimostrò che quelli che adesso facevano gli schizzinosi sapevano perfettamente da dove arrivavano i soldi. Ma a parte qualche screzio, l'operazione andò avanti a gonfie vele. Comunque la CIA aprì decine di periodici fra cui il celebre Ercowrter, fondato dal poeta Stephen Spender col giornalista Irving Kristol, promovendo scrittori, scultori,

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musicisti, concerti, cantanti, compositori, spettacoli teatrali. Organizzò

persino lunghe tournec di Louis Armstrong e altri cantanti neri mandati in giro per l'Europa al fine di correggere l’immagine del conflitto razziale in Alabama e nel Sud. Ma i pittori furono i più coccolati: partecipavano alle biennali di Venezia ed esponevano nei musei dell'Europa occidenta-

le. Tutto ciò costava un sacco di soldi, ma l'agenzia li considerava soldi ben spesi. La politica del servizio segreto americano oltre che costosa era anche astuta, colta c raffinata, come astuti, colti e raffinati crano gli intellettuali ex agenti dell’OSS che la dirigevano. In Italia questa politica ebbe effetto: permise infatti a molti artisti - di sinistra ma angariati dalle direttive del PCI allincato con Mosca - di non tener conto delle rudi reazioni della stampa di partito, protetti dalle lussuose e patinate pubblicazioni finanziate dalla CIA. Ciò permise ad artisti di grande talento astratto come Lucio Fontana e Alberto Burri di sganciarsi dal realismo e seguire il proprio cammino».

12.4. L'asservimento di Hollywood al governo USA Per affrontare il discorso di come centro fondamentale della propaganda dere il tema dell’USIA (United States interessò presto al potente strumento

Hollywood sia diventata un statunitense occorre riprenInformation Agency), che si cinematografico‘*. Scrive a

riguardo John Kleeves (pseudonimo di Stefano Anelli): «L’asservimento di Hollywood alle esigenze della propaganda di Stato americana è una storia documentata. Agli inizi Hollywood crebbe in pace e autonomia: non si aveva ancora idea della sua formidabile importanza politica. Fssa iniziò ad attrarre l’attenzione dell’establishment negli anni Trenta, quando produsse alcune pellicole di contenuto “socia-

le”, in linea con la politica apparente del New Deal del presidente Roosevelt [...]. La rendenza fu acuita dall’arrivo negli Stati Uniti a partire

dal 1936, e in particolare a Hollywood, California, di molti intellettuali

tedeschi “progressisti” che fuggivano dal nazismo, come Bertolt Brecht, Thomas Mann, Erich Fromm, Theodor Adorno, Herbert Marcuse, Hans Eisler, Fritz Lang, Billy Wilder c vari altri. In questo periodo la Frontier Film, per la quale lavorava anche il regista Elia Kazan, produsse dei documentari fortemente caratterizzati sul piano sociale, come Yhe Plow that

4 Ci rifacciamo a J. Kleeves, Divi di Stato, cit. Per un altro riscontro si può vedere il saggio D. N. Eldridge, Dear Qwen: The CIA, Luigi Luraschi and Hollywood, 1953, Historical Journal of Film, Radio and Television, giugno 2000.

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Broke the Plaints e The River di Parc Lorentz, che insospettirono l'establishment, mentre Blockade di William Dieterle del 1938, Grapes of Wrath di John Ford del 1939 e Mar Hunt di Fritz Lang del 1941 suscitarono aperte proteste in ambienti politici. Ma poi ci fu la guerra. Durante la guerra Hollywood partecipò massicciamente allo sforzo propagandistico del governo; vi si impegnarono, in genere con documen-

tari, registi come Capra, Ford, Huston, Wyler, c furono prodotti film come Pride of the Marines, Mission to Moscow, Sahara, Action in the North Atlantic, Song of Russia, Tender Comrade, Hitlers Children, Thirty Seconds

Quer Tokio. Ciò rese benemerenze a Hollywood, anche se Edgar ]. Hoover immediatamente protestò per Mission to Moscow, ma anche dimostrò in pieno la sua tremenda potenzialità politica, la sua capacità unica di influenzare il pubblico mondiale. In più nell'immediato dopoguerra, accoppiando l’esperienza fatta nei documentari di guerra con l'esempio del cinema neorealista italiano (Roma città aperta, Ladri di biciclette, Paisa” ecc.), Hollywood produsse molti film sul tipo neorealista, c di impegno e denuncia sociale, che ebbero un grande successo di pubblico sia negli Stati Uniti che all’estero; alcuni esempi sono 7he Best Years ofour Lives di William Wyler, Crossfire di Edward Dmytryk, Lost Weekend di Billy Wilder, Snake Pit di Anatole Litvak, Kiss of Death di Henry Hathaway, Brute Force di Jules Dassin, Smash-up di Stuart Heisler, Gentlemans Agreement di Elia Kazan, tutti usciti fra il 1945 e il 1947. Non erano film politici e tantomeno di propaganda politica; trattavano temi reali di gente reale: problemi di reinserimento per reduci, odio razziale, situazioni carcerarie, malattie psichiatriche. Erano realisti, raccontavano la società — americana — così com'era. Ma era proprio questo il problema: Hollywood andava assolutamente posta sotto controllo, non doveva più produrre film del genere. Ormai si era anche chiarito come bisognava procedere. La legislazione americana scritta garantiva — come ancora certamente garantisce

— la liberrà di parola e di espressione. Non si poteva istituire un ufficio centralizzato governativo di censura cinematografica, un Minculpop.

Bisognava fare capire a Hollywood come si desiderava che si comportasse, trovare in quest'ottica una scusa emblematica per tormentarla sino ad ottenere la sua completa e volontaria, democratica, sudditanza.

Dai numerosi e sempre meno timidi tentativi fatti a partire dal 1930 si cra capito che tale scusa poteva essere l'esigenza di scoprire i comunisti che lavoravano in un'industria così sensibile come Hollywood. In realtà non si dovevano colpire i comunisti di Hollywood, o almeno non loro in primis. Questi erano pochissimi [...] e non avevano quasi influenza alcuna sui film prodotti [...]. Si dovevano colpire i molto più numerosi e determinanti progressisti, o liberali, elementi che senza essere affatto comunisti cerano però sensibili a istanze o argomenti sociali, o erano semplicemente intelligenti, e che avevano sia la tendenza che la capacità di influenzare, di conseguenza, i lavori cui partecipavano. Soprattutto, e

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naturalmente, si dovevano convincere i produttori ad eliminare pellicole di un certo tipo, anche se economicamente remunerative».

Il resto della storia è noto: il maccartismo interviene pesante-

mente impedendo a decine e centinaia di elementi di lavorare, ma soprattutto convincendo «la maggioranza degli operatori di Hollywood,

produttori come Jack Warner, David Selznick, Samuel Goldwyn e Louis Mayer in testa», ad accettare una subdola “auto-disciplina”: «la prassi dell’auto censura politica e culturale. La scrittrice di testi cinematografici Ayn Rand per dimostrare quanto bene avesse capito, compilò e pubblicò anche un manuale di autocensura per Hollywood,

intitolato Guida dello schermo per Americani, che conteneva fra gli altri i seguenti principi: “Non insultare il Sistema della Libera Impresa”, “ Non deificare l'Uomo Comune”, “Non glorificare il Collettivo”, “Non glorificare il Fallimento”, “Non insultare il Successo”, “Non insultare gli Industriali”. La guida sarà poi incorporata dall’USIA nei suoi manuali interni». In conclusione: «attualmente l’attività di Hollywood è controllata centralmente dall’USIA, come accade in pratica dal 1953. Tale controllo consiste nel fare in modo che il contenuto dei suoi prodotti sia in linea con la Retorica di Stato, che sia appunto come descritto all’inizio. La fuga

sempre più marcata di Hollywood dal reale, la sua sempre maggiore insistenza verso film di fantasia dominati dagli effetti speciali e dall’inverosimiglianza in generale, dipende dal suo disagio nei riguardi della censura dell’USTA. La tendenza oltretutto fu sin da subito incoraggiata dall’USIA, perché poteva facilmente prestarsi ad un insidioso tipo di propaganda subliminale. Per esempio furono benvenuti i film di “marziani” degli anni Cinquanta: i marziani venivano sulla Terra, ma atterravano sempre, guarda caso, negli Stati Uniti: evidentemente

erano il Paese più significativo della Terra, il più all'avanguardia. Un analogo tipo di di fantascienza Guerre Stellari que organismo

propaganda indiretta è presente in tutti i film americani e “spaziali”, ad esempio come 200/ Odissea nello spazio, e Alien. L’USIA svolge la sua mansione come qualundi censura e propaganda statale. Esamina in anticipo

il copione di tutti i film dei quali è stata decisa la produzione c può decidere variazioni. Si occupa anche, tramite agevolazioni fiscali ed usando le suc entrature all’estero, di promuovere l'esportazione di quei

# Su cale manuale si rinvia per una lettura più approfondita all'articolo LinkPop, Regole per realizzare un perfetto film capitalista, Linkiesta.it, 28 maggio 2016.

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film ritenuti particolarmente utili ai fini della propaganda. Nei Paesi in cui i film americani sono presentati in lingua locale l’USIA, in virtù di clausole contrattuali, riesce in genere a controllare il doppiaggio, che

in effetti in molti squarci di dialogo è diverso dall'originale, e sempre in senso favorevole alla realtà americana (ad esempio in un film americano un personaggio diceva di essere “in cassa integrazione da un anno”: non c'è cassa integrazione negli Stati Uniti)».!*

Vediamo ora alcuni estratti dall'opera di Frances Stonor Saunders riguardanti la questione. L'autrice parte dall'operazione “Libertà mili-

tante”, avviata nel 1955, la quale portò «i vertici dello Stato Maggiore» ad avere un certo numero di incontri con «personaggi destinati alla lotta al comunismo: John Ford, Merian Cooper, John Wayne e Ward Bond»'°. «Libertà militante non poteva che svilupparsi in un'America consapevole delle propric responsabilità imperiali. Articolando gli imperativi (e i sacrifici) della pax americana, questi film celebravano il dovere, il

gruppo, l'obbedienza agli ordini, il controllo della temerarietà maschile. Fu in questo contesto che John Wayne, che aveva fatto tutto il possibile

per evitare il servizio militare nella seconda guerra mondiale, arrivò a essere considerato il modello del soldato americano, la personificazione dell’“essere americano”

[...]. I film, come la propaganda, hanno a che

fare con la finzione, ma se questa finzione è abilmente confezionata, può essere scambiata per realtà»!”. Negli anni ‘50 si iniziò a realizzare una valanga di film anticomunisti:

«nel medesimo modo in cui Capitan America cera passato dal combattere i nazisti al combattere i comunisti, l'atteggiamento dei film americani nei confronti della Germania mutò radicalmente, e il nemico vinto veniva ora rappresentato come un eroico combattente c valido avversario (Rommel, la Volpe del Deserto, 1952; Gli amanti dei cinque mari, 1955; Duello nell'Atlantico, 1957). Facendo diventare i nemici

del lunedì gli amici del martedì, Hollywood dimostrava quanto fosse

facile strappare “e etichette del Bene e del Male da un Paese e attaccarle a un altro».

4 |. Kleeves, Divi di Stato, cit. * E. Stonor Saunders, Gti intellettuali e la CIA, cit., pp. 254-255.

4° Ivi, p. 256. # Ivi, p. 257.

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Il 23 aprile 1953, dopo esser staro nominato consigliere speciale del governo per il cinema, Cecil B. DeMille andò di corsa nell’ufficio

di C.D. Jackson. Scrivendo a Henry Luce due settimane dopo, Jackson riferiva a proposito di DeMille: «E completamente dalla nostra parte cd [...] è ben consapevole del potere che i film americani hanno all’estero. Ha una teoria, che condivido pienamente, secondo cui l’uso più efficace dei film americani si otrie-

ne non con il progetto di un'intera pellicola che affronti un determinato problema, ma piuttosto con l’introduzione di un'opera “normale” di un certo dialogo appropriato, di una battuta, un'inflessione della voce, un movimento degli occhi. Mi ha detto che ogni volta che gli darò un tema semplice per un certo Paese o una certa regione, troverà il modo di trattarlo e di introdurlo in un film». Quando DeMille accettò di diventare consulente dell’MPS, Motion Picture Service, ebbe accesso ad una struttura potentissima: «poreva contare su una grande rete di distribuzione, costituita da 135 postazioni dell'US Information Service in 83 Stati. Sommerso da finanziamenti governativi, era di fato un “produttore”, che disponeva di vutre le risorse proprie di un'impresa di produzione cinematografica. Dava lavoro a registi-produttori, preventivamente passati sotto uno stretto esami di sicurezza e assegnati a film che promuovevano “gli obiettivi che gli Stati Uniti sono interessati a ottenere” e che avrebbero dovuro raggiungere “un pubblico predeterminato sul quale dobbiamo agire attraverso il cinema”. MPS forniva consulenze a organismi segreti come l’Opera-

tions Coordinating Board sulle pellicole appropriate a una distribuzione sul mercato internazionale. Nel giugno 1954 compilò un clenco di 37 film che potevano essere proiettati dietro la cortina di ferro».

Inoltre MPS «lavorava duramente per escludere “i produttori cinematografici americani e i felm che non sostengono la politica estera americana e che anzi, in qualche caso, possono risultare pericolosi” se presentati in un festival internazionale».

Chi erano gli “amici” che sostenevano il progetto? Secondo una lista datata 1954 dello stesso agente C.D. Jackson oltre a DeMille c'erano i presidenti della MGM,

della RKO,

della Universal, della

Columbia Pictures e della Paramount, oltre a svariati altri dirigenti di

altre majors (Fox, Republic, Motion Picture Association). A vigilare ‘Ivi, pp. 258-259.

262

su tutti quanti era l'agente della CIA Carleton Alsop, che «/avorava sotto copertura agli Studi Paramount», fornendo dagli anni ‘50 regolari «rapporti sul mondo del cinema», in risposta ad una duplice esigenza: «monitorare i comunisti e i loro simpatizzanti a Hollywood» e «dar conto dei progressi e dei fallimenti del gruppo di pressione segreto,

coordinato dallo stesso Carleton Alsop, responsabile dell'introduzione di temi specifici nelle pellicole hollywoodiane»®. Ad esempio uno dei motivi di pressione era quello di migliorare l’immagine e la condizione cinematografica degli afro-americani, al

fine di «screditare le affermazioni sovietiche sulla discriminazione razziale, i bassi salari, la giustizia parziale e le violenze cui erano sottoposti gli afroamericani». In questo progetto venne organizzato un grande tour di «artisti neri americani» in giro per il mondo, come «dimostra-

zione vivente del fatto che i neri americani sono parte della vita culturale degli Stati Uniti». Peccato che «l'ascesa di questi talenti neri americani era direttamente proporzionale alla scomparsa di quegli scrittori che per primi avevano dato testimonianza della dura situazione dei neri nella società americana». Opere come Furore di Steinbeck vennero dura-

mente osteggiate tanto da crollare perfino nelle vendite. Il cinema divenne il luogo in cui venivano eliminati «tutti gli stereotpi negativi», inserendo «tto quanto rappresenta un'America sana», al fine evidente

di rafforzare il mito dell'American Way of Life!!. A ulteriore dimostrazione delle tesi di Anelli e del resoconto stori-

co di Stonor Saunders, che confermerebbero il prolungamento inoltrato fino ai nostri giorni del rapporto di subordinazione di Hollywood, vi sarebbe anche una recente ricerca di Tom Secker e Matthew Alford

contenuta nel loro libro National Security Cinema: The Shocking New Evidence of Government Control in Hollywood. Gli autori affermano che l’apparato bellico degli Stati Uniti riscriva i successi di Hollywood

quando questi non si adattino bene alla propaganda di guerra oppure danneggino in modo irreparabile la sua reputazione. Gli autori sono

arrivati a queste conclusioni dopo aver spulciato oltre 4.000 pagine di documenti del Pentagono e della CIA ottenute dopo l’accesso conseguito grazie al Freedom of Information. Sono oltre 800 film e 1000 show televisivi che vedono uno zampino “esterno”, secondo i

5 Ivi, p. 259. 9! Ivi, pp. 259-262.

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due autori. La CIA è coinvolta in film come Argo e Zero Dark Thirty, ma anche in pellicole come 7? presento i miei con Ben Stiller e Robert De Niro (che interpreta un simpatico agente della CIA più o meno in pensione), oltre che in spertacoli d’intrattenimento come “Oprah”

e “America's Got Talent”. Secondo Secker e Alford, se un produttore o un autore chiede accesso a documenti dell'esercito per una ricerca, la sceneggiatura deve essere vagliara dalle agenzie di intelligence. I

produttori si impegnano proprio a firmare un accordo che li obbliga all’approvazione del Pentagono per la versione definitiva. Il libro — insieme alla pubblicazione del database di collaborazione tra Hollywood e il Department of Defense — riporta come diverse pellicole, compresi James Bond, i Transformers, le produzioni della Marvel e della Univer-

ses, siano state modificate nelle sceneggiature proprio per assecondare le richieste dell'apparato militare statunitense”. Peraltro, a proposito di James Bond si è scoperto di recente che la storica serie è stara messa in piedi grazie allo zampino interessato dell’MIG, il vero servizio se-

greto inglese a cui la saga si ispira. Ad ammetterlo niente meno che il suo capo, Sir John Sawers. La priorità, scrive Sawers, era ricostruire

la fiducia dell'opinione pubblica e «le fiction di spionaggio, come i film

di James Bond, hanno aiutato a potenziare la reputazione dei servizi di intelligence inglesi», perché «la nostra buona reputazione nelle fiction popolari, come tutti sappiamo, ci ha aiutato a guadagnare fiducia».

12.5. Il cinema di propaganda anticomunista Approfondiamo la questione con un ottimo saggio, La propa-

ganda atlantica indiretta: i film hollywoodiani di Paolo Tebaldelli?!, il quale parla di «due tipi di propaganda, quella diretta e quella in-

diretta», distinguendo in quest'ultima quella riguardante il settore cinematografico (e non solo). Essa infatti comprende:

3 Autore Ignoto, Nazional Security Cinema: come la CIA ha preso possesso di Hollywood, L'Antidiplomatico, 6 luglio 2017. 5 S. Maurizi, 007, missione propaganda: così l'intelligence usa il cinema per costruire consenso, L'Espresso (web), 4 novembre 2015.

#4 D. Teobaldelli, La propaganda atlantica indiretta: I film hollywoodiani, Resistenze.org, febbraio 2005.

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«l'elaborazione e trasmissione di fiction culturale ad alto spettro che crei un'opinione di massa media amica; avente cioè i tratti virtuali di giu-

stificazione dell'operato del potere. Tali tratti sono opportunamente scelti dall’idcologia dominante capitalistico-occidentale per autolegittimarsi e

per provvedere una visione storico ideologica del mondo che non contrasti con il suo esercizio del potere ma anzi lo favorisca [...]. L'obiettivo

è cioè quello di rafforzare nella maggioranza dell’audience un'immagine rassicurante della società occidentale quale il migliore dei mondi possibili così da impedire il formarsi di gruppi di opinione contrari che possano metcrere in dubbio il potere [...]. La società occidentale si auto-rappresenta nella maggioranza delle trasmissioni di qualunque tipo, come la società più giusta, più avanzata tecnologicamente e con il grado di benessere

più diffuso, e lo fa spesso in maniera non esplicita raffigurando semplicemente una realtà virtuale costruita in studio che nel suo rassomigliare

a quella reale conferisce a quest'ultima tratti razionali che provengono dall’astrazione più che dalla verificazione di tali caratteri [...]. Un'altra

caratteristica della propaganda indiretta è quella che tratteremo qui, cioè

il rapporto con la storia, la quale appunto viene continuamente riscritta subdolamente in maniera indiretta nelle varie ficrions. Ultimamente

rale uso storico della propaganda si sta addirittura dedicando alla storia presente. Tutto ciò in maniera subdola, cioè indirettamente. Facciamo un esempio. In un film poliziesco ambientato a New York, ad un certo punto i erafficanti di droga devono essere rincorsi fin nel loro covo lontano

che guarda caso si trova non negli States ma a Cuba. Ecco che la polizia appronta un piano per intervenire all’interno dell’isola per catturare con gran spiegamento di uomini c mezzi i narcotrafficanti nonostante gli

sforzi di proteggerli dei cattivi comunisti. In tal modo subdolamente si dà per scontato che Cuba sia abitualmente dedita al narcotraffico (calunnia

che la propaganda atlantica da decenni persegue [...]) e inoltre che per il rispetto delle leggi degli Stati Uniti si debba intervenire superando persino le frontiere nazionali in altri Stati, magari “Stati Canaglia”». Tebaldelli ritiene che nelle attuali condizioni di oligopolio vi sia un ampio controllo del settore cinematografico, sia a livello di

produzioni che di distribuzioni: «Certo ci sono le produzioni indipendenti, il giornalismo indipendente, ma tali fenomeni sono marginalizzati perché privi del capitale che li supporta, che li sostiene per raggiungere quei canali distributivi di massa che invece sono monopolizzati dalle grandi produzioni. Un esempio lampante è quello delle major hollywoodiane che obbligano i gestori dei cinema che desiderano proiettare i film da queste prodotti, a trasmettere film delle

major nella quota maggioritaria dell'80/85% della propria proiezione rotalc, pena il non trasmetterne affatto. Così i gestori sono obbligati o a trasmet-

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tere solamente i film delle major oppure ad affidarsi al mercato considerato più insicuro del film indipendente, più insicuro perché non usufruisce di quella promozione generalizzata ad alto costo (trailer nelle principali tivù, recensioni nei giornali e riviste, ecc.) propria delle major hollywoodiane (da notare poi che tale situazione è vista da molti come una delle ragioni della crisi odierna del cinema). In tal modo il modello maggioritario di

rappresentazione è quello auto-legittimantesi dell'ideologia dominante,

cioè il capitalismo. Esso reiterato 44 libitum su giornali, televisioni, teatri e cinema, è come un enorme velo di Maya che copre la realtà quotidiana di una coltre patinata che nasconde agli occhi dell'uomo medio, reso solo c passivo di fronte al teleschermo, le ingiustizie sociali, la povertà, la degra-

dazione, la corruzione, il controllo sociale, la repressione del dissenso, la protesta, insomma tutti quei risvolti reali che costituiscono il compromesso sociale nelle società capitaliste. Tuttavia la propaganda si smaschera nelle suc pretese di verità rispetto al reale allorquando la si pone, tramite un'accurata analisi semiotica, in rapporto al reale che essa pretende di rappresentare». In questo senso è possibile (e sarebbe doveroso farlo) riscrivere

l’analisi di decine, se non centinaia di film che hanno avuto maggiore o minore successo, svelandone le strategie sottese, gli obiettivi politici e gli errori storici più smaccari. Tebaldelli si sofferma nel mostrare la

faziosità e partigianeria nel rappresentare la battaglia di Stalingrado in due film molto diversi tra loro, come Stzlingrad (1993, di Joseph Vilsmaier) e // nemico alle porte (2001, di Jean-Jacques Annaud): il

primo che racconta la battaglia dal punto di vista dei poveri soldati tedeschi (idealizzandoli forse non poco) con un taglio estremamente psicologico e astratto dalla Storia più ampia del nazismo; il secondo giocato più sottilmente sull'idea che in fondo la vittoria sovietica sia stata merito solo di eroismi personali e collettivi, di contro perfino alla tirannia e crudeltà del regime comunista e della sua dirigenza.

Lo stesso Annaud viene messo sulla graticola anche per il precedente Sette anni in Tibet (1997) in cui emerge un ritratto evangelico del Tibet e del Dalai Lama, formulato con ampie omissioni storiche (ad esempio che il protagonista impersonato da Brad Pitt, lo scalatore austriaco Heinrich Harrar, fosse un nazista) e un viscerale anticomunismo teso a demonizzare la Repubblica Popolare Cinese.

Recentemente il sito Wired? ha realizzato un post sui 10 migliori film di propaganda hollywoodiani di successo. Strano che

5G. Niola, /0impeccabili film di propaganda holiywoodiani, Wired.it, 1 aprile 2016.

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a questo elenco manchi un grande classico come Caccia a Ottobre Rosso, che ipotizza il tradimento di un ufficiale militare sovietico sulla base di un romanzo di Tom Clancy (anche lui a lungo colla-

boratore della CIA). Leggiamo le descrizioni di quelli più smaccatamente anticomunisti: «- Alba rossa. John Milius era un genio, uno dei più grandi sceneggiatori che abbiano mai scritto per il cinema, e Alba rossa è un pezzo da museo della Guerra Fredda. I russi si alleano con Cuba e Nicaragua e

invadono di colpo gli Stati Uniti. ‘Tutto cambia dalla sera alla mattina c un gruppo di ragazzi si organizza per resistere e combattere.

- L'invasione degli ultracorpi. In epoca di caccia alle streghe in un film dell'orrore, genere popolare per eccellenza, un gruppo di alieni malvagi cancella l’individualità. Sono tra noi, sono indistinguibili da noi e minacciano il nostro stile di vita, ci vogliono tutti uguali. Sono i comunisti, non lo dice mai il film, ma le parole che usa per descrivere

la minaccia aliena erano le stesse che venivano usate per descrivere il pericolo comunista. Cosa ancor più efficace il film non finisce con la sconfitta della minaccia ma con l’idea che “sono tra noi e dobbiamo stare attenti”.

- Berretti verdi. Uno dei pochissimi film da regista di John Wayne cera un progetto a lui molto caro, rimasto nella storia come esempio di propaganda pro-bellica patriottica. Uscito in Italia tagliato per cdulcorarne l’anticomunismo, il film esalta lo spirito americano, giustifica ampiamente l'intervento in Vietnam c lo mostra come un conflitto nuovo e terribile in cui il nemico usa qualsiasi arma, anche le più infide c scorrette, per uccidere americani.

- Rambo INI. Rambo si trasferisce in Afghanistan, a combattere la minaccia russa dalla parte dei talebani. Sono loro il bene, la parte

affettiva del film, lc persone da salvare con cui l'America militare si allea e che promuove come i buoni. I mujaheddin e la guerra santa

sono la parte morale del conflitto, quella che conquista il cuore di Rambo. Solo più di un decennio dopo abbiamo scoperto che proprio in quel conflitto erano stati piantati i germi che poi hanno dato vita da Al-Qacda.

- Top gun. È uno dci film di propaganda più noti e meglio modellati. Incrocia la nemico) con quella americano), mette un bersaglio. I russi

propaganda esplicita (i russi effettivamente sono il implicita (l'esaltazione delle virtù e dello stile di vita l’edonismo reaganiano a frutto e lo direziona verso hanno caschi neri che ne nascondono il volto, sono

spersonalizzati, non parlano, non hanno volontà; gli americani invece giocano a beach volley in spiaggia. Quell’idea individualista per la quale “uno dei nostri vale 100 dei vostri” si colora anche di un'attrattiva sessuale e romantica sconosciuta a Stallone e Schwarzenegger».

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Ancora di recente Hollywood costruisce smaccati film che sensibilizzano il pubblico mondiale contro il pericolo presunto di

certi popoli: Aztacco al potere (2013) è una sorta di Alba Rossa in cui i nemici sono dei terroristi nordcoreani che su mandato del proprio governo attaccano direttamente la Casa Bianca. Infine un esempio

su uno degli ultimi film di Steven Spielberg; «Il ponte delle spie (2015), dedicato al leggendario scambio di spic

prigioniere tra l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti nel 1962 a Berlino. James Donovan, avvocato di Rudolf Abel, non era un “semplice avvocato d'ufficio”, ma un ufficiale della Marina americana e assistente del procuratore degli Stati Uniti al processo di Norimberga nel 1945. Gary Powers non era una sorta di eroe-superman, che si era rifiutato di rivelare i segreti USA all’URSS. Questo pilota, per definizione, non era a conoscenza di informazioni particolarmente riservate, e attivamente aveva collaborato nelle indagini e al processo nel suo discorso conclusivo aveva definito il suo crimine “degno di punizione”. Per la perdita di un aereo nuovo e per non aver scelto di suicidarsi con l’aiuto di un ago avvelenato dato dalla CIA prima della missione, Powers venne accolto negli Stati Uniti quasi come un tradicore e la sua carriera di pilota nell’esercito dopo la prigionia sovietica finì, e venne premiato con le onorificenze del governo ameri-

cano solo dopo la sua morte. La spia sovietica Rudolf Abel non è stata smascherata a seguito di un'operazione speciale dell'FBI, ma consegnato da un altro agente. William Fischer (il suo vero nome), senza aver dato

alcuna informazione ai servizi segreti degli Stati Uniti, è tornato a lavorare nel KGB come consulente e non è stato “dimenticato dal suo Paese”. Il ponte delle spie ha portato ai suoi produttori 162 milioni di dollari ed ha ottenuto 6 nomination agli “Oscar”. Lo hanno visto migliaia di persone in tutto il mondo».

Una buona quantità di ottime recensioni “critiche” che mistificano una serie di film oscenamente propagandistici sono stare realizzate da John Kleeves (pseudonimo di Stefano Anelli) e si possono reperire online”. Un lavoro utile e importante sarebbe quello

di organizzare spazi adeguati di critica marxista e militante sulla cinematografia passata e presente.

* Autore Ignoto, Hollywood, arma di intrattenimento di massa, Sputnik, 15 febbraio 2016.

5? Si consiglia lo scorrimento di https://byebyeunclesam.wordpress.com/2010/ 10/01/john-kleeves-selezione-ragionata-di-articoli-ed-interviste/.

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12.6. Lo spazio per un cinema anticapitalista Quanto detto finora non deve far pensare che il controllo su

Hollywood sia stato assoluto. Anche a Hollywood ci sono stati periodi, autori e film che hanno saputo incrinare pesantemente il muro di censura pro-governativa, riuscendo a costruire un cinema

di denuncia sociale dai tratti marcatamente anticapitalisti, pacifisti e antirazzisti. Fronte del Porto (1954, di Elia Kazan), diverse opere

di Stanley Kubrick (Orizzonti di Gloria, 1957; Spartacus, 1960 e in tarda Guerra Fredda Fw// Metal Jacket, 1987), la quasi totale filmo-

grafia di Oliver Stone (tra cui spicca Wall Street, 1987), alcune opere di Spike Lee e in tempi recenti alcune brillanti produzioni di Michael Moore e Andrew Niccol (tra cui il buon /x 722)

e non solo.

È indubbio, però, che pochissimi abbiano svolto una narrazione

di critica esplicita del capitalismo e si fa fatica a ricordare un solo film che elogi chiaramente il socialismo. Non è un caso che a Hollywood non siano stati prodotti film sulle vite dei grandi rivoluzionari comunisti né sugli eventi fondamentali della decolonizzazione e dei successi socialisti (se sono stati realizzati, il punto di vista non è

certo benevolo oppure viene svolto dal punto di vista statunitense). Per trovare un cinema militante ed anticapitalista occorre quindi rivolgersi ad altre cinematografie. A parte pochi autori entrati nella storia della settima arte (l'esempio più significativo è Éjzenstejn), del

cinema di produzione sovietica e real-socialista non è rimasto quasi nulla, perché sistematicamente rimosso dal circuito mediatico, tanto

da diventare irreperibile in molti casi perfino sul web. Un discorso simile si può fare per buona parte del cinema del “Terzo Mondo” decolonizzato, il quale non ha mancato di proporre pellicole militanti e

politiche con diversi autori di rilievo. I film più alla portata per avere una prospettiva diversa di esposizione della realtà sono di matrice europea, tra cui non poche produzioni italiane. Se in generale un cinema impegnato in Occidente si afferma stilisticamente con la stagione del neorealismo, è negli anni ‘60 e ‘70, quelli della maggiore difficoltà dell’egemonia culturale statuni-

rense, che si realizza una serie di opere militanti e politiche di rilievo.

* Si consiglia a tal riguardo l’analisi J. Juanma, “n sine”, comunismo made in

Hollywood, Jonjuanma.blogspot.it, 21 dicembre 2011.

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Simili produzioni si rrovano in autori di prestigio come Jean-Luc

Godard, Nagisa Oshima, Pier Paolo Pasolini, Bunuel, Elio Petri, Sergio Leone, Marco Ferreri, Bernardo Bertolucci, ma anche in certe

produzioni più o meno di serie B, grazie a soggetti e sceneggiature di

chiaro stampo progressista: ne sono un esempio, facendo riferimento solo all’Italia, tutta una serie di film del filone “spaghetti-western”,

ma anche produzioni apparentemente più scanzonate come i primi

film di Fantozzi e alcuni film che vedono la presenza dell'attore Bud Spencer. Un elenco ragionato di una cinematografia impegnata è

un compito che resta da attuare. Si può segnalare come modello di recensione cinematografica “critica” la seguente analisi del film di Oliver Stone Snowden”. «Edward Snowden — Un film politico che parla della nostra libertà». «Perché, piuttosto che ‘dissidente, Edward Snowden dev'essere considerato un traditore o un criminale, e un criminale così pericoloso che, pur di catturarlo, gli USA e l'Occidente erano autorizzati a dirottare l'aereo del

Presidente boliviano e a violare la legalità internazionale» (Domenico Losurdo).

Oliver Stone colpisce ancora. Lo fa con un robusto gancio alla mascella che va a stordire lo spettatore occidentale democratico

paladino dei diritti umani. In un film girato con la consueta maestria stilistica, Stone ricorda al grande pubblico internazionale le violenze intrinseche alla principale superpotenza mondiale, che ama

presentarsi come la più grande democrazia del mondo, difensore dei diritti umani e delle libertà, ma che appare qui ritratta come la

più completa attualizzazione dell’incubo orwelliano presentato nel romanzo 1984. Come in quella distopia assistiamo ad una storia in cui lo Stato, moderno Leviatano hobbesiano che tutto può e tutto vede, controlla impudentemente e senza alcuna autorizzazione la

vita di ogni singolo essere umano “civilizzato”, laddove si intende per civilizzato colui che abbia almeno un telefonino, una mail o

un profilo facebook. Transazioni bancarie? Conversazioni private?

Messaggistica riservata? Foto e video mai pubblicati dimenticati in un hardisk? Tutto può essere setacciato, scoperto e recuperato per

5 A. Pascale, fdiward Snoden — Un film politico che parla della nostra libertà, Storiadeifilm.it, dicembre 2016.

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ottenere informazioni a disposizione dei servizi segreti statunitensi. Ufficialmente per prevenire le minacce straniere, ma in realtà si sco-

pre ben presto che il numero degli “osservati speciali” e la raccolta dei dari ottenuti riguarda in numero esorbitante anzitutto i propri stessi

cittadini, garantendo così un controllo socio-politico da far invidia al peggior totalitarismo novecentesco.

Il fatto più eclatante, il più sensazionale, il più sconvolgente, per l’uomo (e la donna) comune, non dev'essere poi neanche tanto l’aver

scoperto che perfino capi di Stato e ministri di tutto il mondo siano stati spiati (in Italia all’epoca fu il governo Berlusconi); in fondo pochi si scandalizzeranno per il ricordo che anche membri dell’ammi-

nistrazione delle Nazioni Unite siano cadute sotto il controllo USA (rischio terrorismo da parte dell'’ONU?). La maggior parte degli spettatori rimarrà invece probabilmente scioccata nello scoprire che per-

fino la propria vita quotidiana, anche quella distante dal proprio pc o smartphone, sia stata almeno potenzialmente spiata: questo ci racconta una scena grottesca in cui un collaboratore di Snowden mostra come gli hackers statunitensi riescano ad attivare a distanza con un

semplice click la webcam di qualsiasi computer o telefono vogliano, senza che ciò sia evidente per l'utente. Nemmeno una lucina accesa.

Chiunque abbia mantenuto il proprio tablet aperto sulla scrivania d’ora in avanti vivrà col dubbio che forse, dall’altra parte del mondo,

qualcuno si sia divertito a guardarlo mentre svolgeva le sue faccende private. In effetti neanche Orwell era arrivato ad immaginare tanto. La denuncia politica di Edward Snowden, che si è giocato una promettente ed esaltante carriera per scrupoli morali e per aver maturato una coscienza politica, appare tanto più importante non solo per

la privacy, ma per la libertà del mondo intero, che da allora, almeno nelle massime sfere, si è potuto premunire (o almeno lo si spera!) introducendo una serie di sicurezze maggiori contro la volatilità delle

informazioni conseguente a questa guerra fredda informatica. Dopo la clamorosa denuncia di Snowden l’amministrazione USA ha ufficialmente vietato tale spionaggio di massa internazionale, rotalmente

illegittimo secondo gli stessi principi legislativi statunitensi. Il dubbio che emerge però in seguito alla visione del film è: come esserne sicuri? Come sapere che ciò che viene detto ufficialmente corrispon-

da alla verità? In passato infatti gli stessi membri dell’establishment governativo non si sono fatti scrupoli a mentire davanti al proprio Congresso, e più in generale di fronte al Mondo intero. L'altro tassel-

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lo fondamentale è il fatto che questo piccolo grande eroe moderno, che prende il nome di Edward Snowden, viene tuttora considerato dagli USA un criminale, un traditore, un viscido che merita di essere

processato il prima possibile davanti ad un tribunale USA. Questo non è altro che un motivo ulteriore di rensione per cui

si accusa violentemente il “dittatore” Putin, che si permette di dare asilo politico a quello che invece andrebbe considerato un eroe. Snowden, ennesimo gioiellino di Oliver Stone, è allora molto più che un film. L'autore statunitense più critico (assieme a Michael Moore) verso l'arroganza del proprio Paese e dei propri governanti offre un film che pone una serie di tematiche estremamente scottanti su cui sarebbe bene che ogni cittadino interessato alla propria libertà rifletta attentamente. Non lo dobbiamo solo a noi stessi. Lo dobbiamo anche ad Edward Snowden che nel frattempo continua a stare in esilio a migliaia di km di distanza dalla propria patria. 12.7. Il paradigma dell'industria culturale «La “Conferenza internazionale della musica del ventesimo secolo”,

che si sarebbe tenuta a Roma per due settimane, alla metà di aprile 1954, affermava l'impegno del Congresso nella promozione di composizioni d'avanguardia. Era anche un mezzo per affermare il Congresso come uno degli enti che promuovevano la musica d'avanguardia c offrivano

al mondo un vasto campionario della musica espressamente proibita da Stalin». (Frances Stonor Saunders, descrivendo una delle molte opcra-

zioni targate CIA).

Tra i contributi più importanti della Scuola di Francoforte vi

è l’analisi dell'industria culturale, affrontata nell’opera Dialettica dell’illuminismo (1947) di Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, che si riferiscono alle forme di cultura legate allo sviluppo dei

mass-media e rivolte alle masse come, per esempio, la musica leggera o il cinema hollywoodiano. Alla base della teoria dell'industria culturale vi è l’idea che la scienza e la cultura siano espressioni socialmente e storicamente costruite e prive di reale autonomia, sviluppandosi

invece, consapevolmente o inconsapevolmente, al servizio degli

“E, Stonor Saunders, Gli Intellettuali e la CIA, cit., p. 199.

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interessi dominanti della società, in particolare facendo riferimento ai poteri forti del capitalismo, struttura che tende a svuotare di contenuti la cultura, asservendola alle proprie esigenze economiche. Di qui l'industria culturale, la quale sarebbe quindi rappresentata dal complesso armonizzato dei mezzi di comunicazione di massa (cinema, radio, stampa, televisione), organizzati in una vera e propria

industria caratterizzata da standardizzazione e organizzazione capillare del lavoro. | suoi prodotti sarebbero standardizzati e omologati sulla necessità di un consumo culturale di massa, cioè esteso a tutta la popolazione. I destinatari delle comunicazioni di massa diventano in questa concezione unicamente consumatori di prodotti preconfe-

zionati e non viene data loro possibilità di scelta, perché i prodotti tra cui si trovano a scegliere sono di fatto tutti simili tra loro. L'individuo viene ridotto ad un essere incapace di reagire, roralmente passivo, offuscato da una falsa coscienza, narcotizzato dai media e indotto a

soddisfare i falsi bisogni creati dai media stessi”. La funzione critica della cultura (e quindi, verrebbe da aggiungere: di colui che fa cul-

tura, l’uomo) verrebbe liquidata completamente dalla fabbrica del consenso dell’industria culturale”.

Nel passaggio che segue, il cinema viene interpretato come uno strumento di annullamento della personalità dei singoli e della loro capacità di opporsi al modello capitalistico di società. Adorno ritiene che lo spettatore cinematografico sia privato delle proprie facoltà creative e di pensiero, assorbito completamente dalla trama e dai personaggi. Perde quindi ogni capacità critica di immaginare mondi alternativi e finisce per considerare la realtà come il proseguimento dello spettacolo visto al cinema. Egli non decide più autonomamente, ma è in balìa di una società che lo manipola a piacere imponendogli l’adesione acritica a valori precostituiti. Anche se crede di sottrarsi, nel tempo libero, ai rigidi meccanismi produttivi, in realtà il sistema economico derermina così integralmente la fabbricazione dei prodotti di

svago, che ciò che consuma sono solo copie e produzioni del processo

© Vd H. Marcuse, L'uomo a una dimensione, cit.

© Riguardo alla Scuola di Francoforte in generale ci si è rifatti a L. Paccagnella, Sociologia della comunicazione, Il Mulino, Bologna, 2004, pp. 114-117 e a E.

Colombo, /utroduzione allo studio dei media. I mezzi di comunicazione fra tecnologia e cultura, Carocci, Roma, 2003, pp. 73-83.

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lavorativo stesso. Tale meccanismo, quindi, ben lungi dall’elevare le masse al mondo dell’arte, diventa un dispositivo per perpetuare

la società esistente. Lasciamo la parola ad Adorno e Horkheimer: «Il mondo intero è passato al setaccio dell'industria culturale. La

vecchia esperienza dello spettatore cinematografico, che, uscendo sulla via, ha l'impressione di trovarsi di fronte alla continuazione dello spettacolo appena lasciato, poiché quest’ultimo vuole appunto riprodurre, nel modo più rigoroso, il mondo percettivo della vita quotidiana, è assurta a criterio della produzione. Quanto più fitta e integrale è la duplicazione degli oggetti empirici da parte delle sue tecniche, tanto più facile riesce oggi far credere che il mondo di fuori non sia che il prolungamento di quello che si viene a conoscere al cinema [...]. L'impoverimento dell’im-

maginazione e della spontaneità del consumatore culturale dei nostri giorni non ha bisogno di essere ricondotto, in prima istanza, a meccanismi di ordine psicologico. Sono i prodotti stessi, a cominciare dal più caratteristico di tutti, il film sonoro, a paralizzare quelle facoltà per la loro stessa costituzione oggettiva. Sono fatti in modo che la loro ricezione adeguata esiga bensì prontezza di intuito, capacità di osservazione e competenza specifica, ma anche da vietare letteralmente l'attività mentale o intellettuale dello spettatore, se questi non vuole perdere i fatti che gli sgusciano rapidamente davanti [...]. La violenza della società industriale

opera sugli uomini una volta per tutte. I prodotti dell’industria culturale

possono contare di essere consumati alacremente anche in uno stato di distrazione. Ma ciascuno di essi è un modello del gigantesco meccanismo economico che tiene tutti sotto pressione fin dall'inizio, nel lavoro e nel riposo che gli assomiglia [...]. Giudizio critico e competenza specifica sono messi al bando, e bollati come la presunzione di chi si crede superiore agli altri, mentre la cultura, che è così democratica, ripartisce cquamente i suoi privilegi fra tutti. Di fronte alla tregua ideologica che si è instaurata, il conformismo dei consumatori, come l’impudenza della produzione che essi tengono in vita, acquistano, per così dire, una buona

coscienza. Esso si accontenta della riproduzione del sempre uguale. La monotonia del sempre uguale governa anche il rapporto al passato. La novità della fase della cultura di massa, rispetto a quella rardo-liberale, consiste appunto nell’esclusione del nuovo. La macchina ruota, se così

si può dire, sur place. Mentre è già in condizione di deverminare il consumo, scarta ciò che non è stato ancora sperimentato come un rischio

inutile. I cineasti considerano con sospetto e diffidenza ogni manoscritto

che non abbia già dietro di sé, come sua fonte, un rassicurante best-seller [...]. È quasi come se un'istanza onnipresente avesse passato in rassegna il materiale c stabilito il listino ufficiale dei beni culturali, che illustra

brevemente le serie disponibili. [...] L'amusement, il divertimento, tutti gli ingredienti dell'industria culturale, esistevano già da tempo prima di

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essa. Ora vengono ripresi e manovrati dall'alto, e sollevati al livello dei tempi. L'industria culturale può vantarsi di avere realizzato con estrema energia, e di avere eretto a principio, la trasposizione — che era stata spesso, prima di essa, goffa e maldestra — dell’arte nella sfera del consumo, di avere liberato l'amusement delle sue ingenuità più petulanti e fastidiose e di avere migliorato la confezione delle merci. Man mano che diventava più totale e più totalitaria, e che obbligava più spietatamente ogni 06tsider a dichiarare fallimento o ad entrare nella corporazione, essa si faceva, nello stesso tempo, più fine c più sostenuta [...]. Lo spettatore non deve lavorare di testa propria; il prodotto gli prescrive ogni reazione: non in virtù del suo contesto oggettivo (che si squaglia, appena si rivolge alla

facoltà pensante), ma attraverso una successione di segnali. Ogni connessione logica, che richieda, per essere afferrata, un certo respiro intellettuale, è scrupolosamente evitata. [...] affinità originaria del mondo

degli affari e di quello dell’azzzsezzent si rivela nel significato proprio di quest'ultimo: che non è altro che l’apologia della società. Divertirsi significa essere d'accordo. |...] Divertirsi significa ogni volta: non doverci

pensare, dimenticare la sofferenza anche là dove viene esposta e messa in

mostra. Alla base del divertimento c'è un sentimento di impotenza. Esso è, effettivamente, una fuga, ma non già come pretende di essere, una fuga dalla cattiva realtà, ma dall'ultima velleità di resistenza che essa può avere ancora lasciato sopravvivere negli individui. La liberazione promessa dall'amusementè quella dal pensiero come negazione».

La logica dell'industria culturale, pur avendo i suoi sicuri

punti di forza, appare debole per l’appiattimento esasperato della società in una massa passiva in cui non sembrerebbe esserci spazio di azione lasciato all'individuo ricevente il messaggio mediale.

L'otrica è insomma quella del superato modello stimolo-risposta, in un rapporto di causalità stretto e consequenziale che non pare considerare le variabili intervenienti nel processo di comunicazione.

Oltretutto, se tale dottrina fosse portata alle estreme conseguenze non si comprenderebbe la diversificazione dei prodotti culturali avvenuta con il tempo, né tantomeno la stessa possibilità della nascita di una qualsiasi Scuola di Francoforte. La nascita, l’esistenza e il successo di tale Scuola restimonia da sola che la cultura, se ben

indirizzata, è in grado di costruire una coscienza critica capace di afferrare tutte le logiche calate dall’alto e di reagire ad esse. Non si

4 M. Horkheimer & T. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, Einaudi, ‘Lorino,

1997, pp. 132-134; 141-143.

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possono in ogni caso accettare i modelli strurtural-funzionalisti e la loro prospettiva di “usi e gratificazioni”, in base a cui la funzione dei media verrebbe assimilata all'uso strumentale che il pubblico farebbe dei mezzi di comunicazione di massa, al fine di soddisfare i

propri bisogni e di riceverne così una gratificazione. Questa teoria appare opposta a quella francofortese, e il suo difetto più evidente

è la completa responsabilizzazione e maturazione della società nel

suo complesso, che avrebbe un tale livello culturale e coscienzioso da non farsi minimamente influenzare dalla forza dei media. Si ragiona sulla base di una società composta unicamente da individui istruiti, colti, dotati di una precisa coscienza critica e capaci di ragionare e farsi una qualsiasi opinione senza la minima influenza da parte dei media. Un individuo di rale tipo è certamente possibile, lungi dall’essere completamente astratto e idealizzato, ma è facile

constatare come sia evidentemente minoritario nell’artuale società, caratterizzata per di più da una svalutazione di tutti questi elementi, come abbiamo già visto più volte. 12.8. Il rock'n'roll come affermazione piena del capitalismo?

Quando comparve il rock'n'roll venne considerato unicamente in termini di ribellione: un fattore considerato positivamente dai fan,

negativamente dai difensori dei canoni culturali e morali vigenti”. Era cioè considerata per le sue stesse caratteristiche una musica completamente nuova, travolgente e incompatibile con l'ordine costituito. In realtà, gli effetti del rock'n'roll mutano nel tempo, così come il suo personaggio simbolo, Elvis Presley. In un primo momento egli rappresentò l'intersezione tra fattori classisti, etnici, anagrafici, ses-

suali e di nazionalità: Elvis era cioè proletario, un bianco povero non così distante da certi artisti neri, giovane, maschio e appartenente al

Sud degli USA. Successivamente gli venne riconosciuto unanimemente il titolo di “ 7he King”, il re, accettando pienamente il ruolo

che l’industria culturale scelse di affibbiargli: attore sentimentale di

6 L, Paccagnella, Sociologia della comunicazione, cit., pp.101-107, 110-114. 65 R. Middleton, Articolare il significato musicale. Ricostruire una storia della

musica. Collocare il popolare (I), Quaderni di Musica/Realrà, a. 5, n. 15, 1984, p. 81.

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alcuni film di successo e star di primo piano pienamente inserita nel music business. D'altronde, lo stesso genere del rock'n'roll non era così nuovo come si credeva all’inizio, affondando musicalmente le sue radici in

un mix tra country, pop e rhythm’n'blues (incrociando cioè musiche “bianche” e “nere”). Il suo vero carattere trasgressivo non derivava

dalla musica in sé ma dal desiderio di libertà di una generazione di giovani che di colpo si trovava le tasche piene di soldi da spendere.

Questo è il vero fattore da prendere in considerazione e su cui invece non si è mai cercato di dare una risposta: perché non è mai esistita una “classe giovanile” nella storia? Eppure storicamente i giovani avrebbero da sempre avuto tutti i motivi per protestare e ribellarsi

contro il modello millenario di società patriarcale che sanciva l’azzeramento dei loro diritti. Invece il giovane si ribella paradossalmente nel momento in cui è “ricco”, con la possibilità di dare sfogo alle

proprie fantasie e voglie grazie alle possibilità aperte dall’avvento del consumismo capitalistico. Il “virus” che pare in questo caso portare i giovani alla rivolta è proprio la realizzazione dell’allargamento dei benefici del capitalismo alla massa della generazione giovanile.

Adorno ha colto molto bene questo aspetto quando afferma che «uno degli ingredienti fondamentali della musica leggera è la pseudo-individualizzazione del compratore che sceglie liberamente al mercato secondo i suoi bisogni». Adorno ha basato le sue analisi sulla musica leggera in considerazione della produzione musicale di Tin Pan Alley, ep-

pure non abbiamo dubbi sul farro che non avrebbe certo cambiato idea sulla “musica leggera” da lui descritta neanche dopo un'attenta analisi del rock'n'roll. Tale era la sua convinzione sulla preminenza della struttura da impedirgli di considerare che i rapporti sociali non potessero mutare se non attraverso una modificazione dei rapporti

di produzione. Ponendo tendenzialmente l'accento sulla preminenza

della struttura riguardo alla sovrastruttura anche nella produzione artistica, Adorno nega quindi alla musica leggera (il regno della standardizzazione e della canzonetta di successo) ogni tipo di valore

artistico. Riconosce altresì un processo di identità scaturito dalla musica leggera,

ma unicamente

in termini estremamente spregiativi (il

ricordo di un motivetto fischiettato tra sé e sé che permette di essere

“1 W. Adorno, Sociologia della musica, Einaudi, Torino, 1971, p. 39.

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inserito nella comunità dei fan accettando un rituale di socializzazione imposto dall’alto)”.

Per Adorno, l'avvento della musica leggera segna quindi l’immersione nella mediocrità, nella volgarità, nella passività. L'errore

in questo caso è evidente: egli ritiene che l'avvento della musica leggera segni inevitabilmente l'immersione in quella che per co-

modità chiameremo quella condizione per svago, accettando di di qualche prodotto

la “liquidità”, intendendo con questo rermine cui l'individuo si rifugia nel disimpegno e nello barattare il proprio giudizio critico in cambio 0 merce in più (in questo caso la canzonetta

di successo). In base a questa ottica per Adorno non ci sarebbe via di scampo né via di uscita per l'ascoltatore piombato nella musica leggera. O meglio, l’unica via di uscita sarebbe forse il ritorno alla musica “seria”, che Adorno tende a far coincidere con un certo settore preciso della musica classica (la scuola austriaca) e che in una certa misura un potere ce l’ha. Lo sottolinea bene Sara Zurletti quando ricorda che «l'insistenza sulle capacità utopistiche dell’arte dimostra

quale credito accordi il filosofo alle possibilità dell’arte di incidere sulla realtà operando semplicemente nella sfera che le è propria, e

cioè nella più rotale autonomia. Il rapporto struttura/sovrastruttura in Adorno deve dunque essere spiegato altrimenti che nel senso di un'applicazione eccentrica della teoria del rispecchiamento dove l’ar-

te diventa inevitabilmente funzione delle dinamiche strutturali». Non vi sarebbe però in linea teorica nessuna possibilità di modificare dall’interno la musica leggera, che nonostante presenti senz'altro in certi casi anche i caratteri precedentemente elencati, nel

suo complesso non può essere ridotta ad essi. In realtà se l'avvento della musica leggera segna l'immersione nella liquidità lo fa con una

rottura rivoluzionaria, di ricerca di un nuovo linguaggio musicale più consono alla struttura economica. La musica leggera, e nello specifico nel nostro caso il rock'n'roll, rappresentano la rottura da schemi cul-

turali conformisti ancora impregnati di un aristocraticismo elitario e di una moralità religiosa che costituiscono gli ultimi residui culturali dell’Ancien Régime. Non vi è infatti nessuna ragione necessaria per

& Ivi, pp. 31-32, 241. 6S. Zurletti, 7/ concetto di materiale musicale in ‘1h. W Adorno, Il Mulino, Bologna, 2006, pp. 26-27.

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cui debba sussistere un nesso tra religione, moralità, pudore puritano e capitalismo liberale borghese. L'unico nesso evidente è che per una

lunga epoca, coincidente con l’intero XIX secolo e con la prima parte del XX, la borghesia ha vissuto in una evidente contraddizione di fondo, accettando a livello strutturale il sistema capitalista liberista, ma non portando fino in fondo le conseguenze sovrastrutturali derivanti

dall’otrica del pensiero liberale. La sovrastruttura culturale e morale in un certo senso è sopravvissuta per un lungo periodo di tempo sotto forma di quel puritanesimo e di quella compostezza formale più tipici

dei vecchi ceti della nobiltà e del clero. L'avvento della società dei consumi, stadio che porta a compimento l’ideologia liberale capitalista

comportando l’avvento della democratizzazione dei consumi, ha come ulteriore conseguenza quella di permettere una maggiore libertà materiale alla stragrande maggioranza della popolazione. A questo punto

diventa evidente la contraddizione di fondo, in primo luogo quella sessuale, che il rock'n'roll svela e porta alle estreme conseguenze”. L'arte e la musica infatti, nel momento in cui diventano di mas-

sa, realmente “borghesi”, comunicano quello che la stessa classe di riferimento desidera: una rivoluzione dei costumi in senso liberale.

Nonostante le resistenze di facciata questo movimento non poteva essere realmente pericoloso per le istituzioni e per la struttura stessa, in quanto non andava assolutamente a mettere in discussione la questione dei rapporti di produzione, bensì una questione sovrastrutturale agganciata ai diritti civili individuali. Questo spiega la permissività ufficiale nei riguardi del rock'n'roll, specialmente nel momento in cui questo viene traghettato su schemi musicali più innocui e con

significati meno sovversivi”°. Il sistema culturale borghese riesce cioè a incanalare queste richieste di maggiore libertà c autenticità attraverso stereotipi prestabiliti di espressività e ribellione, mantenendo al centro lo schema dell'ideologia musicale dominante (cosicché sia fru-

© A questo riguardo Francesco D'Amato ha scritto: «riportando prepotentemente in posizione centrale l'esibizione corporea, il rockn'oll sviluppava elementi intrinseci di sensualità pubblica e di piacere fisico, contrastanti con il puritanesimo e con l'espressione di un erotismo private propri della musica popolare precedentemente al rock'n'roll», passaggio contenuto in E D'Amato, Miti in sette note. Le Star e le mitologie del rock, Costa & Nolan, Genova, 1998, p. 19. R. Middleton, Stediare la popular music, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 35.

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ibile dal più ampio pubblico possibile) e facendo attenzione che non vengano toccate le questioni di fondo (i rapporti di produzione, ossia la struttura) in grado di mettere in pericolo la propria stessa esistenza. In questa maniera vengono tutelati gli interessi della riproduzione culturale e della tolleranza liberale e, allo stesso tempo, si è riusciti ad

integrare delle sottoculture accettando di spostare il proprio baricen-

tro culturale per accoglierne una serie di istanze, permettendo così di evitare una degenerazione della protesta e della ribellione. L'errore più grosso di Adorno è quello di ritenere che questa immersione nella

liquidità sia definitiva. In realtà, una volta ridefinita l'estetica musicale e culturale, si ricreano continuamente sacche di “pesantezza” dovute alla stessa natura della società dei consumi, la quale permette anche agli strati sociali più disagiati e rivoltosi verso il sistema costituito di riconoscersi in determinati generi, stili, movimenti o artisti

nati in opposizione a qualche aspetto del sistema stesso. La nascita delle sottoculture è dovuta quindi essenzialmente al rifiuto di almeno un aspetto del modello socio-culturale dominante, e questo aspetto

rifiutato può essere di tipo sovrastrutturale (come in questo caso il rock'n'roll che rivendica una maggiore libertà sessuale) o di tipo strutturale (come nel caso di un certo tipo di canzone politica che mette in discussione il capitalismo e i rapporti di produzione vigenti: Contessa di Paolo Pietrangeli ne può essere un ottimo esempio). 12.9. Il ruolo politico delle sottoculture «Il più importante tra i musei d’arte contemporanea c d’avanguardia era il MOMA, Museum of Modern Art di New York. Per la maggior parte degli anni Quaranta e Cinquanta, Nelson Rockefeller ne fu il presidente; sua madre, Abby Aldrich Rockefeller, cra stata una delle fondatrici del museo nel 1929 [...]. Sostenere artisti di sinistra era una

cosa piuttosto abituale per i Rockefeller. Quando le chiesero il motivo della sua decisione di aiutare l’artista rivoluzionario messicano Dicgo Rivera (che, in un'occasione, s'era messo a cantare Morte «i gringos! davanti all'ambasciata americana), Abby Aldrich Rockefeller rispose:

“I rossi smetterebbero di essere rossi se valorizzassimo e riconoscessimo i loro meriti artistici”. Poco dopo fu allestita una mostra monografica su Rivera, la seconda nella storia del MOMA. Nel 1933, Nelson Rockefeller fu

supervisore della realizzazione da parte di Rivera di una pittura murale nel nuovo edificio del Rockefeller Center. Un giorno, guardando Rivera

al lavoro, si accorse che uno dei personaggi stava incquivocabilmente

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assumendo i tratti di Vladimir Il’ic Lenin. Chiese allora educatamente a Rivera di cancellarlo. Rivera, educatamente, rifiutò. Su istruzioni di Nelson fu istituito un servizio di vigilanza presso il muro, mentre a Rivera fu consegnato un assegno di 21.000 dollari che copriva l’intero importo dovuto per l’opera completa e nello stesso tempo gli si notificò che il suo lavoro era finito. Nel febbraio del 1934, il murale, che era quasi terminato, fu demolito dai martelli pneumatici. Anche sc questo concreto esempio di mecenatismo ebbe un cattivo esito, il principio che lo guidava non fu abbandonato». (Frances Stonor Saunders)”!

Sul finire del precedente capitolo abbiamo accennato al fatto

che il caso descritto riguardante il rock'n'roll rappresenti un tipo di ribellione verso un particolare aspetto della sovrastruttura. È

bene ribadire che questo non è l’unico tipo di ribellione attuabile tramite la popular music, altrimenti avrebbe ragione Adorno

nel

sostenere non solo la sostanziale innocuità della musica leggera per il sistema dominante, ma addirittura la sua necessità per il corretto

funzionamento del sistema stesso. Si entra qui nell’ottica riguardante il carattere eversivo e politico di certi specifici generi musicali. Il rock'n'roll in sé non è un genere politico. Eppure si può affermare

che il suo carattere culturalmente eversivo abbia giocato un forte ruolo politico. Ciò perché la sua stessa esistenza ha permesso ad una fascia ampia di società (in questo caso essenzialmente la parte

giovanile) di diventare ribelle, o quanto meno di credersi tale. Il fatto che la ribellione sia tale solo verso un aspetto sovrastrutturale

e non strutturale”? non implica che si debba sottovalutare la portata di un tale fenomeno. Appare difficile, infatti, che la protesta verso il

sistema economico nasca dal nulla, specie nei momenti di benessere economico. Molto più probabile è invece il caso per cui la rivolta vada a spostarsi ad aspetti strutturali dopo essere partita da aspetti sovrastrutturali. Tale passaggio può essere definito in termini classici

come una tipica presa di coscienza di classe da parte di un movimento di protesta. Borgna ha inquadrato perfettamente il fenomeno affermando che «una trasgressione immaginaria è già una trasgressione reale: chi crede di essere un ribelle, anche se în realtà non ha fatto nulla

7" E. Stonor Saunders, Gli intellettuali e la CIA, civ., p. 231. 72 Si intende per ribellione verso un aspetto strutturale una situazione in cui l'individuo agisce in seguito ad una precisa presa di coscienza politica.

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di trasgressivo, è già meno restio ad una ribellione vera»’?. Seguendo i percorsi più diversi, il ribellismo delle culture giovanili (ma non solo

giovanili) incrocerebbe l’attivismo politico. Tornando all’esempio del rock'n'roll si potrebbe citare il caso italiano, in cui il problema della devianza giovanile emerge già sul finire degli anni ‘50, con quello che

può essere descritto come il fenomeno dei “teddy boys all'italiana’. Solo successivamente tale rivolta, strettamente connessa all’appropriazione di modelli culturali americani si politicizza, tingendosi prima di antifascismo (gli scontri di Genova del 1960 in cui la merà dei centomila presenti aveva un'età compresa tra i 17 e i 25 anni) e poi di classismo operaista (con gli scontri di Piazza Statuto a Torino

del 1962)”*. La stessa constatazione si può fare per i successivi movimenti giovanili: la protesta politicizzata del ‘68 è anticipata da annate

di intenso fervore contro-culturale”?, alla cui formazione non poco hanno contribuito la musica beat e in generale la diffusione del rock nella nostra penisola. Stesso discorso si potrebbe fare per il punk, che da movimento anticonformista di rivolta solo in un secondo tempo si politicizza esplicitamente (perlomeno una sua parte) con iniziative

come “Rock against racism"". Pur non azzardando facili consequenzialismi si può pertanto sottolineare come dato inequivocabile che la presenza di una forte controcultura, ossia di un movimento o gruppo di persone i cui

valori e modelli culturali e di comportamento sono molto differenti (e spesso opposti) da quelli del paradigma dominante, sia una condizione in molti casi determinante per l’avvio e la propagazione di una

critica e di un’alterità di tipo politico. In altre parole è l'affermazione che spesso l’anticonformismo socio-culturale (-musicale) apre la

strada a quello politico-economico. La musica in questo quadro, in

?G. Borgna, // tempo della musica, Laterza, Bari, 1983, p. 39. ?M. Grispigni, Combattenti di strada. La nascita delle culture giovanili în Italia, all’interno di AA.VV., Ragazzi senza tempo. Immagini, musica, conflitti delle culture giovanili, Costa & Nolan, Genova, 1993, p. 23, 25, 33-34.

5 Vedere ad esempio P. Echaurren & C. Salaris, Controcultura in Italia 196677. Viaggio nell'Underground, Bollati Boringhieri, ‘lorino, 1999. 76 Senza elencare la sterminata bibliografia sul punk può bastare qui citare ad esempio l'autorevolezza di S. Frith, Post scriptum alla “Sociologia del rock", Quaderni di Musica/Realtà, n. 23, 1989, pp. 151-153.

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quanto espressione artistico-culturale privilegiata dell’epoca contemporanea, si trova ad assumere un ruolo fondamentale nella formazione dell'identità di una determinata sottocultura. Gli studi condotti da autori come Dick Hebdige, John Clarke e Iain Chambers hanno messo in rilievo come nella formazione delle sottoculture la popular music abbia spesso svolto un ruolo cruciale, legando insieme gergo ed abbigliamento, acconciatura e gestualità. Queste teorie hanno inoltre evidenziato le relazioni che spesso emergono tra le sottocul-

ture e le culture di classe”. Il fatto, quindi, che tali sottoculture debbano spesso le loro origini a particolari condizioni socio-economiche disagiate (con tutte le conseguenze del caso: rabbia, frustrazione, senso di ingiustizia, voglia di conflitto) spiega anche il motivo per cui tendenzialmente tali sottoculture preferiscano musiche che in

qualche maniera tendano a sovvertire l’ordine culturale prevalente. È importante a riguardo che sia stato sfatato il mito di una cultura giovanile senza classi mentre pare forzato voler vedere a tutti i costi in ogni sottocultura una forma simbolica di resistenza al capitalismo??.

Se le sottoculture svolgono quindi un ruolo tendenzialmente polirico, si può dire che la musica diventa un fattore importantissimo per

consentire la creazione stessa delle sotroculture. Per le molte ragioni fin qui elencate si deve quindi riconoscere alla musica (e in senso più ampio alla cultura e all'arte, anche nel caso in cui quest’ultima sia mercificata) la capacità di rafforzare e veicolare il disagio sociale in

canali di protesta politica. Ciò comunque non significa l'abbandono di una prospertiva che tenga in giusta considerazione il condizionamento fortissimo esercitato da altri fattori, tra cui in particolare quel-

li economico-industriali e quelli mediatici. Soprattutto quest'ultimo è un condizionamento in certi casi talmente potente da determinare la stessa invisibilità o scomparsa di una certa sottocultura particolar-

mente scomoda per le gerarchie costituire. In tal senso si possono inrendere le intolleranze del sisterna verso alcuni movimenti che vanno

I.

Chambers,

Per un insegnamento della pop music, Quaderni

di Musica/

Realtà, n. 9, 1982, p. 123. ? D. Hebdige, Sostocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa & Nolan, Milano 1979, cit., pp. 83, 87. Si potrebbe rispolverare le categorie aristoteliche per

parlare delle sottoculture come forme di resistenza “potenziale” (ma solo in certi casi “in atto”) al capitalismo.

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oltre il sistema gerarchico e valoriale condiviso. Un esempio a riguardo possono essere i movimenti politici e religiosi eversivi che non

solo si mostrano incapaci di accettare una qualsiasi integrazione nel sistema, ma addirittura si propongono di distruggerlo. Non è un caso ad esempio che il movimento giovanile italiano del ‘77 sia stato così

duramente stroncato, visto che la sua apparizione arriva al culmine di un decennio di violenze politiche sempre più prive di controllo politico (tra cui l'incapacità da parte del PCI di controllare e moderare le ribellioni dei movimenti di sinistra estrema nonché di mantenere contatti con fenomeni terroristici come quello delle Brigate Rosse).

Il dato definitivo che si vuole mettere in luce è quindi l'estrema variabilità con cui una certa produzione musicale, in quanto feno-

meno culturale e artistico di una determinata sottocultura, sia in grado sulla base di certe condizioni particolari di superare gli osta-

coli “strutturali” determinati dai rapporti di produzione e di potere dominanti. Senza l’accettazione di una siffatta equilibrata teoria non potremmo spiegare l’evolversi della produzione musicale politica nel contesto della popular music. Ignorare il peso dell'industria musicale nell’affermazione di un determinato brano o artista è impossibile, e

per converso bisogna accettare che la produzione musicale è vincolata da molti processi che le impediscono una totale supremazia sugli elementi non artistici e culturali. Arrivare alla conclusione che tali

ostacoli siano in realtà i veri pilastri portanti della popular music, la quale diventerebbe nient'altro che un accumulo di merci prodotte dall'industria musicale è altrettanto inaccettabile sulla semplice

base dei dari storici accumulati nell'ultimo cinquantennio. Il nostro approccio è teso quindi ad accogliere il cosiddetto “principio di articolazione”, con cui autori come Moffle, Hall e Middleton rendono a riallacciarsi a quel settore del marxismo gramsciano già citato. Un

principio secondo cui: «mentre gli elementi culturali non sono direrramente, eternamente o esclusivamente legati a fattori specifici economicamente determinati come la classe sociale, essi sono tuttavia determinati, in definitiva, da

quei fattori attraverso l’azione di principi articolatori che sono legati alla classe sociale. Questi principi combinano elementi preesistenti in nuovi schemi e vi aggiungono nuove connotazioni»”?.

* R, Middleton, Studiare la popular music, cit., p. 26.

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Questa teoria: «riserva una relativa autonomia agli clementi culturali e ideologici (per esempio, le strutture musicali o i testi delle canzoni), ma insiste anche sul fatto che gli schemi combinatori che vengono costruiti mediano effettivamente gli schemi profondi c oggerrivi della formazione socio-economica, e che tale mediazione avviene nella lotta: le classi lottano per articolare l'insieme dci fattori costitutivi di un repertorio culturale in modo tale da organizzarli in termini di principi o di una serie di valori, determinati, a loro volta, dalla posizione e dagli interessi di classe nel

modo di produzione prevalente»!

Una teoria quindi che sancisce la complessità della popular music, ne riconosce le possibilità, gli spazi ma anche i limiti e i condizio-

namenti, senza sfociare necessariamente in un qualsiasi riduzionismo incapace di coglierne ogni aspetto. Soltanto in seno ad una teoria di siffatte caratteristiche è possibile riconoscere un certo spazio alla musica politica. Se si prendesse, infatti, per buona una concezione

in cui la sovrastruttura (la musica commerciale) segua obbligatoriamente la struttura (l’industria musicale con le sue logiche di mercato

basate sulla necessità del profitto) dovrebbe essere assurdo concepire la possibilità di canzoni strutturate su basi estetiche anti-commerciali e contenutistiche “anti-sistema”. La loro stessa esistenza dimostra invece che un certo margine d'azione è possibile anche in un sistema nel suo complesso strutturato su determinate logiche capitaliste. Non solo canzoni “anti-sisterna” ci sono state, ma hanno avuto un successo ed un'influenza enorme, particolarmente facendo riferimento al ventennio ‘60-70. Il paradosso è che queste stesse canzoni politiche

di protesta, pur incrementando più o meno direttamente l'influenza di forze sociali e politiche “anti-sistema” rientravano nel sistema

stesso, poggiando di farro nella gran parte dei casi (salvo poche eccezioni) sull'industria discografica sia nella produzione che nella

distribuzione. Questa contraddizione non ha impedito però ad un

sistema di produzione di creare una merce di successo che paradossalmente contribuiva alla creazione di una coscienza “anti-sistema”. Questa contraddizione interna al capitalismo (ribadita pe-

raltro anche da Michael Moore al termine del film-documentario

5 Ivi, pp. 27-28.

285

The Corporation®') non era stata prevista (né forse voleva essere

accettata) dai seguaci delle dottrine francofortesi (Adorno su tutti), incapaci di accettare il fatto che la popular music (in generale la macrocategoria della “musica leggera”) nonostante la sua natura

industrial-commerciale di fondo può allo stesso tempo essere culturale, popolare e democratica. Lo spiega bene Iain Chambers quando afferma che «la commercializzazione dei linguaggi musicali [...] avrà certamente distrutto ogni senso di “aura” musicale [...]

ma ha contemporaneamente ampliato le possibilità per un intervento democratico in campo culturale», così «anche se la pop music è

ovviamente di natura commerciale, questa sua forma di merce non le preclude necessariamente eventuali effetti culturali»*?. Una delle conseguenze di ciò è che anche in un'ottica di profitto e di libero

mercato si può diffondere un prodotto che idealmente predica la distruzione (o un superamento) del capitalismo stesso. Ovviamente tutto ciò è possibile sulla premessa che la canzone politica riesca ad avere un certo mercato, ossia sia vantaggiosa a livello economico e commerciale. Ma perché ciò accada occorre un forte circuito alternativo (sia a livello produttivo che commerciale e mediatico)

controllato dai comunisti, oltre che la capacità di incidere in maniera minima culturalmente sulla società attraverso la diffusione del marxismo. 12.10. Adorno, Eisler e la musica militante Nel campo del pensiero marxista la più importante voce critica

riguardo a questa concezione dell’arte impegnata è Adorno, che oltre ad analizzare nello specifico le funzioni della musica (sia nelle sue

varianti storicamente affermate nell'epoca dell’industria culturale, sia in una sua concezione ideale), è stato uno dei maggiori difensori

di un'arte che potremmo definire disimpegnata (nonostante per

Adorno la vera arte sia rutto meno che disimpegnata, avendo essa

#! Film uscito nel 2003 direrto da Mark Achbar e Jennifer Abbott che ha visto

il contributo di diversi intellettuali c studiosi, tra cui personaggi noti come Noam Chomsky, Milton Friedman, Naomi Klein e tanti altri. #1. Chambers, Per un insegnamento della popular music, cit., pp.120-121.

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una funzione critica radicata nella sua stessa essenza artistica)#*. Né

d'altro canto sono mancate osservazioni polemiche e accuse esplicite contro il realismo di modello marxista, e in particolare alle concezio-

ni estetico-musicali dei Paesi dell’Est*. Pur riconoscendo che, alla radice, la musica è legata da un rapporto sostanziale con la società reale, Adorno afferma che questo

legame non le impedisce di vivere sul piano dell’esistenza estetica, piano separato dal mondo empirico ed indifferente alle sue sollecitazioni. Si esclude così un diretto e pesante condizionamento sociale su

tutti i livelli di costituzione dell'oggetto musicale. Alcuni interpreti hanno visto nel sistema filosofico adorniano l'ammissione di una

completa determinazione della cultura, delle idee dell'uomo da parte delle condizioni socio-economiche. Interpretazioni errate, in quanto l’autore ha sempre sostenuto una concezione della storia non degenerata in faralismo, in cui al centro sta l’uomo, con le sue convinzioni e con le sue scelte oltre che con i suoi condizionamenti. Adorno

rivendica per l’individuo la capacità di trascendenza dello spirito umano®° sulla situazione e la critica di ogni concezione determini-

4 Da A. Serravezza, Musica, filosofia e società in ‘ih. W Adorno, Dedalo, Bari, 1976, pp. 107-108: «All'attività spirituale, in tutte le sue forme, è affidato il compito di contestare l'ordine dato, di elaborare modelli alternativi. La musica non si sottrae a questa responsabilità. Essa è anzi tenuta a legittimarsi moralmente creando, con i mezzi espressivi che le sono propri, una immagine critica della realtà. La sua “verità” dipende dalla realizzazione di questa vocazione; viceversa la sua ideologicità risiede nel pacifico adeguarsi all'ordine positivo, nell'illustrazione ottimistica dell'esistente». #4 Ivi, p. 45. " U. Galeazzi, L'estetica di Adorno. Arte e linguaggio e società repressiva, Città Nuova, Roma 1979, p. 14.

è Come emerge da A. Serravezza, Musica, filosofia e società in Th. W. Adorno, cit., pp. 70-71: «o studioso tedesco dedica particolare attenzione al triangolo società-spirito-musica, rifiutando nettamente che il lato spirituale-musicale della relazione possa venire inteso come un semplice riflesso sovrastrutturale della realtà sociale, come forma ideologica legata ad una base materiale. Se così fosse infatti l'arte non avrebbe la possibilità di contestare l'ordine esistente, in quanto diventerebbe una semplice appendice sovrastrutturale dei rapporti di produzione. Alla stessa maniera però non è accettabile per Adorno l'opzione in cui si accentua idealisticamente il carattere autonomo dello spirito slegando completamente i due termini della relazione (la sfera spirituale-musicale da un lato, quella sociale e materiale dall'altro)».

287

stica della storia, rifiutando così la teoria della dipendenza causale tra struttura e sovrastruttura. În questo contesto l’arte rappresenta una delle migliori manifestazioni possibili dello spirito umano. Ed è per questo che l’arte autentica (così come la filosofia), sono portate

a fare luce sulle contraddizioni della realtà vigente, ponendosi come concreta alternativa ad un contesto di cecità sociale. È questa un'arte che nell'epoca del collettivismo repressivo ha la forza di resistere alla

compatta maggioranza e che di conseguenza è davvero autonoma e priva di condizionamenti restrittivi in grado di vincolarla sui propri stessi contenuti”. Opposta alla concezione adorniana è quella di Hanns Eisler?*,

artista-teorico che ha saputo incarnare il realismo socialista e il marxismo-leninismo in campo musicale (sue le note dell'inno della

DDR, Auferstanden aus Ruinen) e che ha lasciato una propria teoria assai attuale. Compositore tedesco nato nel 1898 a Lipsia e deceduto a Berlino nel 1962, allievo di Schonberg e Webern, fu uno dei primi

a coniugare tecnica dodecafonica e ideologia militante comunista. L'adesione al marxismo, maturata nel corso degli anni 20, portò Hanns ad iscriversi al KPD nel 1925, orientando così le sue produ-

zioni musicali verso ematiche sempre più politicizzate. Nonostante l'ostilità per la musica leggera, per l’arte popolare e per quella che

successivamente verrà denominata industria culturale, Eisler non esita ad avventurarsi nella sperimentazione sonora introducendo nel proprio stile elementi più “popular”, rraendo spunto da altri generi in voga come la musica jazz e il cabaret. La giustificazione di questa

operazione segue l’assunto che «sia /a forma musicale sia la tecnica dei pezzi musicali debbono discendere dallo scopo vero, che è la lotta dî classe». Di conseguenza lo stile «deve adeguarsi di volta in volta allo scopo della musica [...]. Non abbiamo rigidi parametri estetici, controlliamo la nostra produzione secondo gli scopi rivoluzionari del momento».

# U. Galeazzi, L'estetica di Adorno, cit., pp. 15, 17.

#8 Essendo assai scarsa la bibliografia sull'autore, per tutti i riferimenti biografici e aneddotici si rimanda a Wikipedia, Hanns Fisler, c a]. Wierzbicki, Hanns Fisler, estratto da Hanns Fisler and the FBI, Music & Politics, vol. 2, n. 2, 2008.

Per quanto riguarda il pensiero, la filosofia e la teoria musicale di Eisler ci si è rifatti a H. Eisler (a cura di L. Lombardi), Musica della rivoluzione, Feltrinelli, Milano, 1978, da cui sono tratte tutte le citazioni che seguono.

288

E se lo scopo principale dell’arte borghese è il piacere, la classe operaia sceglie invece come grande associata l’arte, la cui funzione

si rrasforma. Ciò che era stato il fine principale, il piacere, diventa il mezzo per il fine. Il testo non soddisfa più l’esigenza estetica dell’ascoltartore, ma si serve del bello per educare il singolo, per rendergli accessibili e comprensibili le idee della classe operaia, gli attuali pro-

blemi della lotta di classe. Di qui la necessità di risolvere il problema più pressante per l’autore: realizzare delle musiche rivoluzionarie che non diventino noiose e ostili per il proletariato. Se lo scopo principale della nuova arte rivoluzionaria è per Eisler il suo carattere educativo e di lotta rimane aperto il problema di come realizzare una musica “leggera” (cioè accettata dalle masse proletarie) e contemporanea-

mente “pesante” (in grado cioè di comunicare un messaggio politico). La prima difficoltà deriva dal credo ideologico di Eisler, secondo

cui «nella società capitalista l'antagonismo di classe si riflette anche a livello della sovrastruttura artistica; anche la musica, lungi dall'essere un linguaggio “universale”, è legata al ruolo egemone o subalterno delle classi». La consapevolezza di questa difficoltà è evidente nelle analisi della

cosiddetta «musica avanzata» dei maestri Schonberg e Webern. «La musica avanzata, sebbene si ponga in una posizione critica nei confronti della classe di cui è espressione, non è per questo più vicina alla nuova classe in ascesa. Essa conduce in effetti una esistenza quanto mai diffici-

le: la borghesia la respinge e il proletariato non ha ancora i presupposti politici e culturali per impadronirsene». Nel momento in cui Eisler si

discosta sostanzialmente dalla musica avanzata borghese (e non tanto per considerazioni artistiche ma per motivi sostanzialmente politici) e decide di mettere la sua musica al servizio della lotta di classe, cerca di trovare un linguaggio comprensibile al proletariato. I problemi che si ponevano a Eisler non erano di facile soluzione: «/4 rinunzia alla complessità della musica avanzata borghese non poteva significare

l’acquiescenza alla stupidità e volgarità della musica pseudo-popolare, in realtà borghese anch'essa nella misura in cui è perfettamente funzionale all'ideologia dominante e in cui veniva imposta già allora dall'industria culturale attraverso i mezzi di comunicazione di massa». L'intelligenza dell’autore lo portava a non ripudiare del tutto ogni tipo di esperienza estetica passata (e quindi in definitiva l’intera

produzione di tipo borghese), ma di partire da tali presupposti per «giungere a forme di comunicazione artistica effettivamente nuove».

I criteri artistici che informeranno questa nuova produzione «ron 289

potranno essere puramente e semplicemente quelli dell'estetica borghese, anche se una nuova arte popolare non potrà non tener conto di fondamentali acquisizioni dell'arte che si è sviluppata durante l'egemonia

della borghesia». A sorprendere maggiormente è però il metodo con cui viene effettuata la ricerca musicale: «la lezione cisleriana di una valida e convincente unione tra tendenza politica e qualità artistica è potuta riuscire grazie a un continuo, non

superficiale contatto con quel pubblico al quale il suo discorso si rivolgeva, c non in maniera volontaristica e individualistica. Questo continuo contatto con il proprio pubblico di riferimento ha potuto evitare che egli facesse della musica soggettivamente rivoluzionaria, che rimanesse però di fatto estranea alla comprensione e alle esigenze dei suoi destinatari».

L'apertura al proprio pubblico e la messa a disposizione del proprio genio artistico alle masse non impediva però all'autore di tenere fermi alcuni punti ideologici cui non si era disposti a cedere. Così attraverso la rivista Kampfmusik, oltre a ribadire certi assunti ideologici

di fondo si davano anche indicazioni pratiche e concrete, tra le quali

quella significativa di «rompere con la tradizione del concerto, che deve essere sostituito da manifestazioni di propaganda rivoluzionaria median-

te le quali far prendere coscienza dei problemi politici all'ordine del giorno. Bisogna anche rompere con il repertorio tradizionale dei cori operai e

stimolare invece la creazione di nuove canzoni rivoluzionarie che possano venir facilmente cantate anche dal pubblico». Tutto ciò mostra l’idea della nuova funzione sociale affidata alla musica e all'arte in genere.

Questo aspetto non è affatto secondario come potrebbe sembrare, in quanto il carattere produttivo ed esecutivo della musica è un

aspetto fondamentale per Eisler, che da questo punto di vista segue

la prospettiva di Walter Benjamin: «la tendenza politica, per quanto rivoluzionaria essa possa apparire, ha di fatto una funzione controrivoluzionaria fin quando lo scrittore è solidale col proletariato solo in virtù delle suc idee e non in quanto produttore [...]. Benjamin postula la necessità di non “rifornire” soltanto

l'apparato produttivo dominante, ma di cercare, per quanto possibile, di modificarlo, mediante innovazioni tecniche, in senso socialista. Altrimenti non si farà altro che proporre, anche presentando contenuti rivoluzionari, solo novità apparenti, che vengono assimilate tranquillamente dalla società borghese, e che dunque invece di una funzione di contestazione delle strutture sociali tradizionali nc acquistano una eminentemente stabilizzatrice».

290

Riassumendo: si può focalizzare sul fatto che per Benjamin «un autore che abbia coscienza delle condizioni della produzione attuale non deve lavorare solo ai prodotti, ma contemporaneamente ai mezzi

di produzione». La concezione che sta alla base della riflessione teoretica di Eisler non è dissimile da quella di Benjamin: «sia Eisler sia Benjamin cercano di applicare il metodo del materialismo storico all'analisi della produzione artistica [...]. Fisler ricorre

al concetto di forze produttive musicali, senza darne una definizione chiara e univoca. Una definizione si trova invece nella Introduzione alla sociologia della musica di Adorno: “fa parte delle forze produttive [...] non solo la produzione in senso strettamente musicale, cioè il comporre, ma

anche il vivo lavoro artistico dei riproduttori e l'intera tecnica, di per sé non omogenea”. È, come si vede, una definizione estensiva del concetto che abbraccia tutto il processo di produzione e di riproduzione del lavoro musicale. Si tratta, per quanto ne sappiamo, della prima volta che questo

concetto del materialismo storico viene applicato a un fenomeno della sovrastruttura, e in particolare alla musica che è, fra l’altro, una delle attività che più sembra essere lontana dal mondo pratico».

La trasposizione di questi concetti dal livello della base materiale a quello della sovrastruttura, che della prima è funzione, può a tutta prima sorprendere. Come

è possibile, infatti, che una dimensione

dell'attività umana — la sovrastruttura artistica — che dipende dalle leggi secondo le quali si sviluppa un’altra dimensione — la base econo-

mica — si sviluppi secondo la dialettica di quest’ultima dimensione — quella di forze produttive e rapporti di produzione — di cui dovrebbe essere invece il (sia pure non meccanico) riflesso? In realtà bisogna stare attenti ad un rapporto rigidamente deterministico di questo tipo e lo stesso Eisler nelle sue formulazioni più mature rifiuta questa particolare concezione tra lo sviluppo della struttura economica e quello della sovrastruttura musicale. Si tratta del resto di una corretta applicazione del metodo storico-materiali-

stico. Già Engels parlava di «relativa autonomia» della sovrastruttura nei confronti della base materiale, nella fattispecie dello stato nei confronti della produzione. Engels si riferiva soprattutto alla filoso-

fia, ma «la cosa vale evidentemente anche per altri campi dell'attività umana, dunque anche per la musica», oltre che per le altre arti. Se, quindi, viene riconosciuto all'uomo uno spazio di azione, resta da capire come tale spazio vada gestito in maniera corretta per 291

non cadere nel tranello di una musica solo fintamente politica (e in realtà confacente al sistema). La necessità che emerge in Eisler (così

come per Benjamin, e così sarà anche per Adorno) è quindi quella

di far uscire il campo della musica dall’asfissiante rapporto con il concetto di merce, farrtore determinante nel capitalismo e gradual-

mente affermatosi nel corso dell'età moderna. La teoria di Eisler prevede, insomma, di interpretare la musica rivoluzionaria come

tale se è avanzata sia dal punto di vista formale che dei contenuti, fermo restando che determinanti sono questi ultimi, poiché è solo a partire da essi che è possibile giungere a nuove soluzioni formali effettivamente valide. «Un'arte esteticamente rivoluzionaria non lo è ipso facto anche da un punto di vista politico, per il semplice fatto che le novità formali non presuppongono necessariamente un rinnovamento dci contenuti. Questa è anche una delle ragioni per cui molta arte che presume di svolgere una funzione di contestazione nei confronti della società finisce entro breve tempo non solo per venire assimilata, ma addirittura per svolgere una funzione stabilizzatrice all’interno di quello stesso ordinamento sociale che pretendeva di criticare».

12.11. Logiche dell'industria discografica e prassi comunista La musica politica non è mai stata un settore tenuto in così

grande considerazione dall'industria discografica. Ciò per il semplice motivo che tale produzione ha generalmente un mercato assai ristretto e di conseguenza difficilmente permette all'azienda discografica di ottenere dei ritorni economici adeguati. Questa situazione è d'altronde variata nel tempo, mostrando una certa flessibilità dell'industria

nei confronti dell’oggetto musical-politico. Questo perché il Capitale di per sé non ragiona in termini politici ma meramente economici, salvo situazioni particolari (quando cioè la politica interviene atti-

vamente nelle più svariate maniere). Gianni Sibilla fa notare come allo stato attuale il 75% del mercato sia costituito di farto da un «cartello» raggruppante «quattro sorelle» (Warner, Universal, EMI/

Capitol e Sony/BMG) in grado di decidere l'andamento del mercato discografico influenzandone tendenze economiche e culturali. Di fronte a simili dati non si possono non ricordare le analisi marxiste

classiche sulla concentrazione del capitale e quelle “critiche” fran292

cofortesi sull'industria culturale. Ancora una volta, però, tali teorie possono essere solo in parte recuperate, in quanto è indispensabile mettere in rilievo che una parte importante del mercato mondiale (il 25%) sia invece in mano a quelle che vengono chiamate “etichette indipendenti”, una realtà frastagliara che comprende microindies che pubblicano un paio di dischi l’anno ed etichette che per struttura,

dimensioni e catalogo sono invece delle piccole major*?. Due sono i fattori che vanno evidenziati: innanzitutto occorre definire gli obiet-

tivi con cui tali realtà industriali svolgono la produzione; ciò vuol dire mettere in rilievo che alcune aziende possono produrre avendo come fine non il profitto in sé (non quindi un fine puramente econo-

mico) ma la diffusione di un determinato tipo di messaggio artistico, estetico, culturale o politico (tale ad esempio l’etichetta discografica militante “I dischi del sole” che tra 1963 e 1980 ha pubblicato canzonieri popolari e album della canzone impegnata italiana). Ovviamenre, affinché tali realtà possano produrre disinteressandosi dell'aspetto economico (o quantomeno subordinandolo ad altri aspetti) devono

esserci le condizioni adatte e il contesto necessario. Possiamo in linea di massima considerare che se le major, per la loro stessa natura di

aziende multinazionali, hanno come mero fine il profitto economico e considerano quindi la musica come un prodotto da vendere, cioè come una merce, diversa è la situazione per le etichette indipendenti. Ovviamente, anche in questo settore si troveranno esempi di gestione

similari, ma sarà senz'altro più facile trovare casi in cui l'etichetta nasce non con fini di lucro bensì con altri obiettivi. Sarà quindi soprattutto in queste scarse realtà che la musica politica troverà esili ripari, soprattutto nei periodi (come quello attuale) di scarsissima

attrattività della categoria “Politica”. Le percentuali del mercato e la storia ci insegnano che la gran parte dell’industria discografica è stata ed è tuttora guidata però con criteri meramente economici, per cui occorrerà ribadire che in

un'ottica di profitto si produce ciò che vende, cioè ciò che il mercato richiede. È vero che le major, facendo opera di “mediazione culturale” possono decidere quali tendenze e generi sostenere e quali invece frenare. Si cercherà quindi di adeguarsi il più perfettamente possibile a ciò che il mercato richiede, apportando quei piccoli cambiamenti

© G. Sibilla, Lindustria musicale, Carocci, Roma, 2006, pp. 35-37, 51-56.

293

necessari al fine di dare quelle parvenze di novità al consumatore, di cui si cerca in realtà di stimolare la necessità di nuovi bisogni indotti. Il principio che emerge per una major è l'indifferenza per cui una merce prodotta che venda bene sia un successo commerciale creato

a tavolino oppure un bene artistico. Concentriamoci sul potere della macro-industria musicale, mettendo in rilievo alcune delle motivazioni che ci portano a sostenere questa visione non puramente idilliaca sulle major. Il potere di marketing e di promozione sono via via aumentati nel tempo, con un'aggressività che si è esacerbata soprattutto dagli anni ‘80, periodo in cui maggiore diventa l’importanza della comunicazione d'immagine del cantante”. La preponderanza sempre maggiore acquistata dai settori del marketing e dalla promozione, il cui unico ed evidente obiettivo è

vendere dischi, ha portato negli anni alla nascita di gruppi pianificati secondo le esigenze del mercato: tale ad esempio il fenomeno delle boy band e girl band come Spice Girls e Take That, gruppi

studiati a tavolino come personaggi intermediali per far breccia nel mercato, non solo musicale ma comprensivo di tutta la sfera

del merchandising collegata. Sibilla ricorda come simili «gruppi di consumo» siano sempre esistiti (cita ad esempio il caso dei Monkees), ma come tali fenomeni si siano intensificati negli ultimi anni. Con gli anni il potere delle industrie discografiche è aumentato sempre più, permetrendosi di controllare più o meno direttamente parte

della stampa musicale e di fondamentali mezzi di diffusione come la radio e la relevisione?!. Tutto ciò testimonia l’enorme potere acquisito dalla moderna industria musicale. È sulla base di queste considerazioni che ci è sembrato utile recuperare in una certa misura gli studi critici di Adorno e Hokheimer. Va segnalata però un'importante differenza rispetto a tali assunti: noi oggi sappiamo che il mercato non è composto da soli uomini passivi, in quanto in passato

sono sorte in contrapposizione ai “canoni” musicali egemonici delle

forti sottoculture, in grado di spostare l’asse culturale e artistico. Un prodotto musicale di successo potrà quindi essere conseguenza di un adeguato bombardamento mediatico (acquisto passivo) o della libera

G. Sibilla, / linguaggi della musica pop, Stumenti Bompiani, Milano, 2003, p. 5. 9 Ivi, pp. 55, 208-210, 234-238, 322. Basti pensare ai rapporti tra industria discografica c televisioni come MTV.

294

ricerca individuale (acquisto attivo). Il primo (acquisto passivo) è il

risultato dei processi dell'industria compra è un soggetto più o meno coscienza critica e politica che gli un determinato disco non perché

culturale, per cui l'individuo che incosciente, cioè privo di quella permetta di capire che compra gli piaccia davvero, ma perché

sia stato ingannato dalla creazione di un bisogno indotto??. Questo individuo svolge quindi l’acquisto con superficialità, senza l’adeguata

riflessione e approfondimento critico, e può essere inquadrato come l'individuo tipicamente post-moderno che si approccia alla musica in una maniera “liquida”. È quindi un soggetto estremamente debole e facilmente influenzabile, il riflesso del consumatore passivo in balìa

dell'industria culturale descritto da Adorno. Nel caso invece in cui l'individuo sia dotato di una certa coscienza critica, egli difficilmente quando comprerà un disco si lascerà influenzare dalle tecniche mediatiche e di marketing dell'industria discografica, bensì prenderà maggiormente in considerazione le sue

personali esigenze estetiche. Si sono verificati casi in cui le major hanno messo sotto contratto artisti impegnati. Ciò in realtà è perfertamente coerente con quanto detto in precedenza: in particolari

momenti storici la politica “si vende bene”, e di conseguenza major e artista militante possono incontrarsi e accordarsi, pur tra reciproche diffidenze e polemiche. È interessante analizzare tale aspetto in quanto esso è probabilmente uno dei più contraddittori del mondo della sinistra: Manfredi ha messo in rilievo in passato come i giovani

di sinistra, «i cosiddetti fruitori, sempre alla ricerca dell'autonomia dalla merce, da un lato autorizzano a credere che la canzone politica X

non è merce per i contenuti che esprime, dall'altro quando si accorgono che è merce si incazzano»”. L’incapacità cioè di accettare che una canzone politica possa essere essa stessa merce è una costante che porta contemporaneamente al rifiuto dell'idea che l'artista impegnato possa trasformarsi in uno strumento del capitale. Impensabile e

? La questione dci bisogni musicali indotti è stata affrontata da Carrera: «i mass-media possono tranquillamente distorcere e banalizzare, fino a far passare l’identificazione del soddisfacimento del bisogno con l'appropriazione di un oggetto di desiderio». Cit. tratta da A. Carrera, Musica e pubblico giovanile, Feltrinelli, Milano, 1980, p. 14. "G. Manfredi, Nostra merce quotidiana, all’interno di R. Madera (a cura di), Ma non è una malattia. Canzoni e movimento giovanile, Savelli, Roma, 1978, p. 38.

295

inaccettabile quindi l’idea che un qualsiasi Guccini entri a far parte di una qualsiasi major discografica, andando ad alimentare il sistema

capitalista, svendendo così la propria immagine. In fondo non siamo distanti dal dibattito intercorso tra Adorno ed Eisler sulla necessità di avere una vera musica rivoluzionaria

slegata dall’industria discografica. Arrivati a questo punto ci si troverà di fronte ad un bivio sulla funzione che deve avere la musica

politica: fornire un punto di approdo genuino e sincero al “popolo di sinistra”, organizzandosi con modalità completamente “altre”, coerenti

con

quanto

predicato negli

stessi resti impegnati;

oppure

limitarsi a svolgere una funzione propagandistica più o meno diretta,

contribuendo ad aumentare la presa di coscienza politica sociale? La vera domanda che viene da porre è questa: dal momento

in cui il

capitale ha questa sua contraddizione interna per cui produce tutto ciò che permette profitto, perché non approfittarne per diffondere messaggi politici (qualora ce ne sia possibilità) al fine di giungere ad una maggiore diffusione possibile di un determinato messaggio?

Pensare infatti che astenendosi dall'utilizzo dell'industria discografica si possa mandarla in rovina equivale al pensiero che non andando a

votare alle elezioni si possa portare alla delegittimazione del sistema democratico. Per dirla alla Marcuse: «/o sono consapevole, del tutto consapevole di far parte del sistema e cerco di cavarne il meglio possibile usando la libertà di cui dispongo per dare il mio contributo ad un miglioramento ed avanzamento dell'attuale situazione»”.

12.12. I videogiochi: nuova frontiera della propaganda anticomunista

Una delle nuove frontiere egemoniche sviluppatasi negli ultimi

decenni è quella dei videogiochi: «Siamo cresciuti con un cinema totalmente dominato da Hollywood, urilizzaro come propaganda per le nuove generazioni. Non ci sorprendono i film americani che banalizzano e normalizzano l'intervento e la violenza imperialista al servizio del grande capitale. ‘Tuttavia, siamo

94 Cicato in E. Dinacci, Realtà della Germania, Edizioni Scientifiche Italiane (ESI), Napoli,

1970, p. 107.

296

assistendo a un aumento della propaganda ideologica nei videogiochi, sempre più anticomunisti e filo imperialisti»?5. Possiamo iniziare con Soviet City, una versione brutalmente an-

ticomunista del noto SimCity, dove un tetro regime, il cui comando è dato al giocatore, che per ricavare energia per un viaggio spaziale sul Sole, sarà costretto a uccidere i propri cittadini per usare i cadaveri

come energia o cibo. «Un altro gioco: “Ghost Recon: Island ‘Thunder” è ambientato dopo la morte di Fidel Castro e il Paese si prepara alla controrivoluzione con l'appoggio delle Nazioni Unite e un gruppo di ribelli (sostenitori

di Fidel) che non sono disposti a permetterlo. Continuando con Cuba, non possiamo dimenticare l’episodio di “Call of Duty: Black Ops” nel quale il giocatore è inviato ad uccidere Fidel Castro dopo un assalto di successo alla Baia dei Porci. Ma non è tutto, quando arriviamo nella sua abitazione, Fidel sta con una prostituta che utilizza come scudo umano per pararsi dai proiettili. Quando alla fine riusciamo nell’obiettivo inizia

una sequenza idealizzata della morte di Fidel che mostra il proietrile a rallentacore che entra nel suo cranio.” In *World in Conflict e “Freedom Fighters” abbiamo un argomento modellato ad arte: sul finire degli anni ‘80 l'URSS conquista l'Europa improvvisamente e si prepara ad attaccare

gli Stati Uniti, che il giocatore deve difendere eroicamente. l'argomento di “Red Alert” è simile: la Germania nazista non esiste c all’inizio degli anni ‘50 l'URSS avanza per il controllo dell'Europa spingendo quasi a pensare: “almeno il Terzo Reich frenò un po’ i comunisti”. La nostra missione come parte degli alleati è sconfiggere i sovictici e stabilire un governo fantoccio nominando Alexander Romanov

(discendente

immaginario dello Zar Nicola II) come Segretario Generale del PCUS. Il grande capitale si pone nuovamente dalla parte della reazione nella delirante trama di “Sniper Elite” (1 e 2) che ha come protagonista un agente inviato dall'OSS (antenato della CIA) a Berlino nel 1945, ma

sorprendentemente non per lottare contro l’esercito nazista, dato che la sua missione è di infiltrarsi nell’esercito nazista per combattere i sovietici e ritardare il loro ingresso nella capitale tedesca, consentendo agli Stati Uniti di entrare per primi a Berlino. Altri giochi che possiamo considerare antisovietici sono “Papers Please, 1953: KGB Unleashed”, “You

* Redazione Senza Tregua, / videogiochi: nuova frontiera della propaganda anticomunista, Senzatregua.it, 7 gennaio 2014. Il paragrafo è a cura di Mattia luccelli. *% In seguito il giocatore scopre di aver ucciso un sosia, e il vero Fidel Castro invia l'americano in un Gulag, dal quale riuscirà poi a fuggire.

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are empty” e “Cold War”. Tutti trasmettono un'immagine scura, triste, repressiva della vita nell'Unione Sovietica. In “Nuclear Strike” “Kym”, leader nordcorcano, invita tutti i leader mondiali a una conferenza per la pace mondiale con l’intento di sequestrarli. La nostra missione è quella di infiltrarci con un elicottero e riprenderli. Lo Stadio Primo Maggio esplode subito dopo che ritiriamo i diplomatici internazionali. La Corea del Nord accusa le forze USA nel sud di essere responsabili dell'esplosione, provocando la ripresa della guerra nella quale noi giocatori sosteniamo la “United States Forces Korea” naturalmente. Continuando con la Corca, arriviamo a “Home-

front. Dopo l’avvento al potere di Kim Jong Un, la Corea si riunifica sotto l'ideologia Juche. La “Grande Repubblica di Corea” attacca e occupa il Giappone e successivamente gli Stati Uniti. Il gioco è ambientato nel 2027 ed il giocatore è membro della resistenza nordamericana dopo due anni dall’attacco e con l'occupazione piuttosto consolidata. Merita una menzione speciale “Company of Heroes 2”, della nota saga di giochi di strategia della Seconda Guerra Mondiale. Nella campagna si mostra l’esercito sovietico come un’orda di selvaggi, senza nessuna preparazione e male equipaggiati, che affronta il nemico per semplice paura di indietreggiare, poiché dietro ciascuna linca di attacco ci sono fila di pistole pronte a sparare a coloro che retrocedono e agli ordini di malvagi commissari politici. In Russia ne è stata interrotta la distribuzione lo scorso inverno, dopo le critiche pesanti (e la raccolta di 20.000 firme) essendo

stato considerato una offesa che perpetra miti della propaganda nazista. Allo stesso tempo è servito perché l’oligarchia russa comprendesse la

componente politica di queste produzioni c decidesse di designare al Ministero della Cultura una commissione per la creazione di “videogiochi storici che esaltino il patriottismo”. Il primo titolo vedrà la luce nel 2014

e glorificherà episodi che vedono come protagonista l'aviazione zarista nella Prima Guerra Mondiale. Ma forse il caso più famoso di videogiochi come propaganda istituzionalizzata furono gli America's Army, prodotti direrramente dall'esercito statunitense e scaricabili direttamente sul suo sito web. Lanciati nel 2002 per attrarre i giovani tra i 16 e i 24 anni ad arruolarsi, consistono

in una simulazione della vita di una recluta da che entra nell'ufficio di reclutamento a quanto viene inviato a combattere in missione (in Medio Oriente chiaramente), passando per tutte le prove, includendo campi di

tiro c persino lezioni di teoria e test a scelta multipla. È tutto condito con link che sono costantemente diretti al sito web dell’esercito. Questi trucchi si sono tradorti in un aumento dei giovani arruolati che equivale al resto dei metodi di propaganda combinati assieme. La spesa di 33 milioni per Americans Army si è rivelato il migliore investimento da decenni per l’esercito statunitense: il 30% degli utenti ha ammesso di avere un'immagine migliore delle sue forze armate, e il 20% delle nuove

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reclute è un giocatore abituale [...]. Come per i film, i grandi studi di videogiochi, essendo imprese privare, stanno dalla parte del grande ca-

pitale ed è compito dei comunisti, in questi giorni in cui si venderanno milioni di copie, sottolineare che questi giochi sono meri strumenti di indottrinamento anticomunista e dei diversi imperialismi».

Contemporaneamente esistono anche videogiochi prodotti da sviluppatori con chiare idee progressiste o comuniste. Ad esempio, la

compagnia indie russa “Kremlingames” si è occupata della creazione di due videogiochi di genere gestionale, “Crisis in The Kremlin” e “Ostalgie: The Berlin Wall”. Nel primo si vestono i panni del Segretario Generale del PCUS

eletto nel 1985 (non necessariamente

Gorbacév) e il compito del giocatore è quello di salvare l'URSS dalla minaccia imperialista e dai disordini interni. Il come è a discrezione

del giocatore, che potrà decidere di seguire le politiche di Glasnost’ e Perestrojka, oppure adottare una soluzione di tipo cinese, aprendo al mercato mantenendo il sistema politico socialista. O non percorrere la via delle riforme, automatizzando

l’economia e procedere

vittoriosamente nella lotta contro gli USA. In Ostalgie invece il

giocatore guiderà un Paese del Patto di Varsavia (ad aprile 2018 sono disponibili la DDR,

la Romania e la Bulgaria, ma il team di

sviluppo lavora per aggiungere gli altri Paesi), e si troverà davanti, seppur con caratteristiche tecniche di gioco diverse, le stesse opzioni di Crisis in The Kremlin, ossia se liberalizza il sistema politico ed

economico, oppure restare fedele al modello socialista, arrivando a fornire quel supporto che mancò ai golpisti del Putsch di Mosca, salvando l'URSS e il campo socialista. Infine per Crisis in The Kremlin esiste un DLC incentrato sull’Ucraina, dove il giocatore si troverà ad

affrontare il Disastro di Cernobyl’ e l’arrivo da Mosca delle politiche, liberali e riformatrici quanto fallimentari e controproducenti, di Gorbacév. Più in generale, in simulatori politici come le serie di videogiochi

Democracy,

Geapolitical Simulator e la serie Tropico

(sebbene quest'ultima sia particolarmente umoristica) è possibile

implementare politiche socialiste, anche con ottimi risultati (chiaramente dipende dalla capacità del gamer).

299

PARTE II

«L'uomo è nato libero, e dovunque è in catene. C'è chi si crede il padrone degli altri, e tuttavia è più schiavo di loro. Come è avvenuto questo cambiamento? Lo ignoro. Che cosa può renderlo legittimo? Credo di poter risolvere questo problema. Se prendessi in considerazione soltanto la forza e l'effetto che ne deriva, direi: finché un Popolo è costretto a obbedire e obbedisce, fa bene; non appena può scuotere il giogo e lo scuote, fa ancora meglio, perché, recuperando la propria libertà in virtù dello stesso diritto con cui altri gliel'hanno strappata, 0 ha ragione di riprendersela, o l'ha persa ingiustamente». (Jean-Jacques Rousscau, da 7/ contratto sociale, 1762)"

'J.-J. Rousscau, // contratto sociale, Mondadori, Milano, 2002, p. 13.

13. L'offensiva ideologica contro il comunismo

«Gli operai vittoriosi [...] si mostrano sempre troppo generosi verso i loro avversari vinti, c questi attribuiscono poi agli operai tutti i misfatti che essi non trascurano mai di compiere in caso di vittoria». (Friedrich Engels, 1894)!

«So che dopo la mia morte sulla mia tomba sarà deposta molta immondizia. Ma il vento della storia la disperderà senza pietà». (frase pronunciata da Iosif Stalin a Vjateslav Michajloviè Molotov nel 1943)?

Fino ad ora abbiamo visto le condizioni “tecniche”, ogget-

tive, materiali e le volontà politiche che hanno reso possibile la progettualità di riscrivere la storia contemporanea

in senso

anticomunista e filoborghese. Si tratta ora di tracciare un breve percorso che mostri alcune applicazioni pratiche che hanno consolidato e affermato anche nel campo della sinistra la grande

offensiva ideologica rivolta dal grande Capitale contro il comunismo, a partire dal suo leader più importante e duraturo: Josif Stalin. La storia sovietica verrà ricostruita puntualmente nei successivi volumi. Qui valga questo assaggio con cui si iniziano a smontare criticamente alcuni nomi nuovi.

'F Engels, / dakuninisti al lavoro. Appunti sull'insurrezione in Spagna dellestare 1873, all'interno di K. Marx & F. Engels, Marxismo e Anarchismo, a cura di G.

M. Bravo, Editori Riuniti, Roma, 1971, p. 104. ? Citata in Wikiquote, Sta/in, la quale riporta come fonte È Cuev, 1/40 Conversations with Molotov, Verra, Mosca, 1991, p. 37.

303

13.1. La lotta di classe culturale degli intellettuali borghesi «Non ci si può permettere di essere non ortodossi |...] la guerra totale, calda o fredda che sia, recluta ognuno di noi c chiama ognuno

a fare la sua parte. Da questa obbligazione lo storico non è più libero del fisico». (il Presidente dell'American Historical Association, siamo nel 1949)?

In una lunga guerra di logoramento, e tale si può considerare la lotta di classe mondiale nel XX secolo, diventa un obiettivo fon-

damentale la conquista delle menti e dell'opinione pubblica, cioè la conquista dell’egemonia culturale delle masse proletarie, oltre a quella dei ceri medi. Dal 1917 fino al 1956 è indubbio il prestigio mondiale dell'URSS, del socialismo e dei suoi leader, tanto che in tutta Europa si sono dovuti stroncare tentativi rivoluzionari e insurrezioni ispirati a quel modello. La denuncia dello stalinismo da parte di Chrusdev nel 1956 ha invece offerto al nemico di classe un formidabile contributo per poter attaccare culturalmente e

politicamente, con tutta la propria forza, il paradigma comunista. Intanto gli USA,

capofila dell’imperialismo mondiale,

avevano

iniziato già da una decina di anni ad organizzare, tramite la CIAe il proprio immenso impero economico-finanziario, la mobilitazione

totale degli intellettuali nella crociata anticomunista mondiale. Se la Guerra Fredda è una gigantesca, mondiale, manifestazione della

lotta di classe tra il sistema della borghesia (capitalismo) e quello del proletariato

(socialismo), tale conflitto non si è combattuto

solo con gli eserciti, le spie e le alleanze geopolitiche, ma cercando anzitutto di disgregare la convinzione profonda che il sistema socialista fosse il più adeguato alle esigenze dell'Umanità. Per adempiere questo compito divenne inevitabile attaccare Stalin, simbolo della costruzione del socialismo nell’URSS. Per realizzare questo scopo

vennero mobilitati anche gli storici e gli scrittori: dopo il 1956, mentre in tutto il “Terzo Mondo” asservito al colonialismo, l'URSS e Stalin restavano coloro che erano riusciti ad indicare una via per l'emancipazione dal dominio imperialista, in Occidente questi

3 D. Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma,

2008, p. 17.

304

venivano

presentari come

una dittatura opprimente,

anzi un vero

e proprio totalitarismo. La

conseguente

guerra

di

posizione

gramsciana,

portata

avanti per conquistare l'egemonia culturale, diventava così impossibile da vincere a causa della forza del nemico, a cui si

accompagnava la sua capacità di mettere un freno agli istinti più

rapaci del sistema capitalistico, dando luogo al periodo del cosiddetto “ 7rentennio glorioso” (1945-75) durante il quale le potenze imperialiste occidentali riuscirono, anche grazie alla prosecuzione

dello sfruttamento intensivo del “Terzo Mondo”, a tenere il passo dell’altrettanto maestosa crescita economica dei sistemi socialisti, potendo però contare su una base economica più sviluppata che consentiva loro di vantare un miglior livello materiale medio delle

condizioni di vita popolari. Il processo con cui la borghesia riuscì ad auto-controllarsi, investendo nel Welfare State e in forme di keynesismo avanzato, consentì a lungo un mantenimento di equilibri sociali che spinsero gli stessi partiti comunisti a barri-

carsi sulle proprie posizioni con organizzazioni di avanguardia, oppure a moderarle nel momento

in cui si trovassero di fronte

ad organizzazioni di massa di cui diventava difficile garantire la tenuta ideologica.

Così si può spiegare il caso del PCF in Francia, rimasto per molto tempo fedele all'alleanza con l'URSS di fronte ad uno slittamento

culturale sempre più anticomunista della società, con la conseguente progressiva perdita del consenso elettorale (dovuta chiaramente anche a molti altri fattori). Così si spiega anche il caso del PCI in

Italia, che, invece, accoglie dopo il 1956 una propria via nazionale al socialismo tesa a “limitare i danni”, aumentando i propri consensi

popolari in parallelo ad un'opportunistica graduale adesione ai contenuti delle campagne culturali anticomuniste, subendo un’accelerazione improvvisa durante gli anni ‘70 di Berlinguer. Torneremo in un

apposito volume sul caso specifico del PCI. Per ora concentriamoci sul rema di questo capitolo: la costruzione di una grande narrazione storica anticomunista tesa a cancellare alla radice, fin dalle scuole, la

possibilità di simpatizzare per quello che diventa nient'altro che un “totalitarismo” sanguinario, violento e distruttivo. Presentiamo di

seguito alcuni esempi di come si sia svolta questa gigantesca storia della lotta di classe culturale giocatasi in Occidente negli anni della Guerra Fredda.

305

13.2. La falsificazione della storia sovietica denunciata alla Duma «Le notizie di cui noi disponiamo sono soltanto quelle che ci vengono fornite». (Fernand Braudel)'

Viktor Iljuchin (PCFR), vicepresidente del Comitato per lo Sviluppo Costituzionale della Duma e avvocato onorario della Russia, ha denunciato durante la sessione plenaria del giugno 2010 la

falsificazione su grande scala degli archivi sovietici, sollecitando per l'ennesima volta, di fronte alla Duma, l’istituzione di un comitato d’indagine per chiarire una volta per tutte la verità sui fatti di Katyn. Iljuchin, infatti, ha proposto di modificare la legislazione e il codice

penale russo affinché venga introdotta la sanzione per la falsificazione e la frode degli archivi storici. Iljuchin ha affermato che il suo gruppo parlamentare dispone di informazioni riguardanti la creazione, negli anni ‘90 del secolo passato, sotto la presidenza Eltsin, di un poderoso

gruppo di esperti in manipolazione e falsificazione dei documenti storici dell’Unione Sovietica e, ovviamente, di documenti inerenti al periodo staliniano. «Sono disposto a dimettermi dalla mia carica di de-

putato, se Serguti Mirbnenko dimostra che nessun documento di questo fascicolo si riferisce ai fatti storici degli anni ‘30 e ‘40 del secolo passato...» ha derto Iljuchin poco prima che il suo microfono venisse spento”.

Di seguito, il testo riportante la denuncia compiuta dal deputato. «Stimati colleghi: è opinione comune che la storia la scrivano e la interpretino giornalisti e scrittori. In qualche modo questa opinione è corretta. Tuttavia noi disponiamo di tutte le prove per affermare che la storia moderna del nostro Paese è stata scritta anche da falsificatori. Il nostro gruppo parlamentare dispone di prove che, ovviamente, vanno sottoposte ad un'accurata e accorta investigazione parlamentare. Negli anni ‘90 del secolo passato, durante il mandato e l'amministrazione del Presidente Eltsin, è stato creato un poderoso gruppo di esperti in falsificazione di documenti storici della Unione Sovietica e, in particolare, di

documenti riguardanti il periodo staliniano. L'obiettivo di questa attività

4F Braudel, Storia, misura del mondo, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 47.

“Come si può vedere dal video Sobre la falsificacion de documentos soviéticos en la era Yeltsin, Youtube.com 21 settembre 2010. Il brano che segue, di commento al video è tratto da A. D'Angelo, Sulla liquidazione dell'URSS: fascicoli falsificati alla base della propaganda antistaliniana, Paginerosse.wordpress.com, 28 serrembre 2010.

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falsificatoria è consistito nel discreditare l'opera del governo sovietico e nel creare il paragone tra stalinismo e fascismo. Detto gruppo fu formato da membri del servizio segreto russo e vide implicato anche il 6° Instituto di Stato Maggiore Generale delle Forze Armate. Questo gruppo occupava i locali degli edifici dell'ex Comitato Centrale del PCUS nella città di Nagorny}, nella regione di Mosca. È possibile che questo gruppo o alcuna delle suc diramazioni continui ad essere operativo tutt'oggi. La sua maggiore attività coincise con la declassificazione dci documenti del Politbjuro e del Comitato Centrale, effettuata al principio degli anni Novanta da una commissione governativa capeggiata da Michail Potoranin. Secondo le informazioni in nostro possesso, questi manipolatori falsificarono migliaia di documenti che furono introdorri negli archivi. È già chiaro che il cosiddetto 7estamento di Lenin fu falsificato, così come molti altri documenti relativi alla rinuncia al crono da parte dello zar Nicola II 0, per esempio, i documenti secondo cui lo stesso Stalin fosse un agente della Ojranka, la polizia segreta zarista, così come molti altri. Oggi possiamo affermare che la famosa Lettera di Berija, datata marzo del 1940, in cui Berija sollecita il Politbjuro del VKP (acronimo del futuro PCUS) ad autorizzare l'esecuzione di 27.000 pri-

gionieri di guerra polacchi, sia una falsificazione. Noi abbiamo già presentato precedentemente un rapporto su di una investigazione di esperti per dimostrare documentalmente quanto ho appena affermato. È stata falsificara anche la nota riguardante la risoluzione del Politbjuro in cui si concedeva l’autorizzazione per l'esecuzione dei prigionieri polacchi. Vi presento il rapporto degli esperti sulla falsificazione dei documenti riguardanti la presunta collaborazione tra la GESTAPO e la NKVD. Ecco qui il rapporto. Siamo enormemente allarmati e preoccupati per una serie di ragioni, principalmente per la falsificazione dei documenti, i quali sono stati utilizzati in pubblicazioni accademiche; questi documenti sono presentati come autentici nella letteratura storica, in documentari c opere d’arte, creando nella popolazione una visione distorta del nostro passato recente. Ci saremmo astenuti dal fare queste dichiarazioni se non sapessimo che al principio degli anni Novanta le porte degli archivi russi si aprirono liberamente alla fuoriuscita di questi documenti e che lo Stato non si oppose ma anzi fomentò questo disastro. l.a nostra tesi si rafforza per il fatto che l’ex consigliere di Eltsin, Dmitrij Volkogonov, consegnò alla Biblioteca del Congresso degli USA centinaia di documenti d'archivio, copie come originali, bollati come “Segretissimo” e “Segreto”. Oggi questi documenti circolano per rutt'Europa. Disponiamo di timbri c postille falsificare, stampe falsificare con la firma di Stalin, di Berija e di altri. Così come di formati in bianco degli anni ‘30 e ‘40, materiale utilizzato per fabbricare i documenti falsi. Qui vi presento il fascicolo con i documenti d'archivio: è la corrispondenza del NKVD, del NKGB

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e del Commissariato del Popolo per la Difesa dell'URSS dell’epoca di Stalin. Questo fascicolo fu creato con un unico proposito: legalizzare una documentazione falsa, includendo la lettera creata a nome dello Stato Maggiore Generale dell’Armata Rossa. Per disgrazia, questa legalizza-

zione fu compiuta e questi documenti falsificati circolano liberamente, anche tra gli ambienti accademici. Nel fascicolo ci sono timbri che dicono “proibita la declassificazione” e “secretare in eterno”. Quindi la domanda è: come è possibile che questi documenti non si trovano più negli archivi, come è possibile che circolino liberamente e che siano accessibili a una gran quantità di persone? In relazione alle mie dichiarazioni alla stampa, il direttore dell’Archivio Statale del Paese, Sergej Mironenko, ha dichiarato che questo fatto sia impossibile e si tratti di una speculazione. Da questa tribuna dichiaro che: sono disposto a dimettermi dalla mia carica di deputato, se Mironenko dimostra che nessuno dei documenti di questo fascicolo si riferiscono ai fatti storici degli anni ‘30 e ‘40 del secolo passato c non era obbligatorio che rimanessero negli archivi. È se lui non è capace di dimostrarlo che si dimetta dai suoi incarichi. Torniamo a perorare la necessità di effettuare un'investigazione parlamentare sull'esecuzione dei prigionieri di guerra polacchi vicino a Smolensk, così come sulla falsificazione dei documenti storici. In un futuro prossimo che si introducano modifiche al Codice Penale in materia di responsabilità per frode e falsificazione di documenti d’archivio che hanno valenza storica se qualcuno pensa che tutto questo sia relazionato con il passato si sbaglia

profondamente, tutto ha a che fare con il presente». 13.3. La storia è scritta dai vincitori Leggiamo ora quanto scrive Ludo Martens?.

«La maggior parte delle persone di sinistra ha letto qualche opera dedicata alle attività della CIA c dci servizi segreti occidentali. Queste persone hanno imparato che la guerra psicologica e politica è una branca separata c straordinariamente importante della guerra totale moderna. La calunnia, l’intossicazione, la provocazione, lo sfruttamento delle diver-

genze, l’esasperazione delle contraddizioni, la demonizzazione dell’avversario, la perpetrazione dei crimini addossata all'avversario sono le tattiche abituali a cui fanno ricorso i servizi segreti occidentali. Dopo il 1945 l'imperialismo “democratico” ha investito risorse colossali nelle guerre anticomuniste, guerre militari, guerre clandestine, guerre politiche e

6 L. Martens, Stalin. Un altro punto di vista, Zambon, Bologna, 2005, p. 43.

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guerre psicologiche. Non è evidente che la campagna contro Stalin è stata al centro di tutte le lotte ideologiche condotte contro il socialismo? I portavoce ufficiali della macchina da guerra americana, Kissinger e Brzezinski, hanno fatto l’elogio delle opere di SolZenicyn e di Conquest, che sono anche — vedi caso — due autori in voga tra i socialdemocratici, i trozkisti c gli anarchici. Questi ultimi, invece di “scoprire la verità su Stalin” negli scritti di quegli specialisti dell’anticomunismo, non avrebbero fatto meglio a scoprirvi le manovre della guerra psicologica e politica condotta dalla CIA? Non è davvero un caso se al giorno d'oggi in quasi tutte le pubblicazioni borghesi e piccolo-borghesi “in voga” si ritrovano le calunnie e le menzogne su Stalin che si potevano leggere sulla stampa nazista durante la guerra. È un segno che la lotta di classe a livello mondiale diviene sempre più aspra e che la grande borghesia mobilita tutte le sue forze, a trecentosessanta gradi, in difesa della sua “democrazia”. In occasione di alcune conferenze che abbiamo tenuto sul periodo staliniano, abbiamo lerto un lungo testo antistalinista ed abbiamo chiesto alle persone presenti che cosa ne pensassero. Quasi sempre gli interve-

nuti sottolineavano che il testo, benché violentemente anticomunista, mostrava chiaramente l'entusiasmo dei giovani e dei poveri per il bolscevismo, come pure le realizzazioni tecniche dell'URSS, e che era, tutto sommato, abbastanza sfumato. A quel punto rivelavamo all’uditorio che

il testo che avevano appena commentato, era un resto nazista, pubblicato in Signal n. 24 del 1943, in piena guerra... Le campagne antistaliniste condotte dalle “democrazie” occidentali negli anni 1989-1991 erano a volte più violente e calunniose di quelle orchestrate, nel corso degli anni Trenta, dai nazisti. Ai giorni nostri non ci sono più le grandi realizzazioni comuniste degli anni Trenta a fare da contrappeso alle calunnie. Non ci sono più forze politiche significative che prendano le difese dell’esperienza sovietica sotto la direzione di Stalin. Quando la borghesia proclama il fallimento definitivo del comunismo, essa utilizza la pietosa bancarotta del revisionismo per riaffermare il suo odio verso l’opera grandiosa di Lenin e di Stalin. Ma nel far ciò, essa si preoccupa più del futuro che del passato. La borghesia vuole far credere che il marxismo-leninismo sia definitivamente sotterrato, perché si rende perfettamente conto dell’atcualità e della validità dell'analisi comunista».

13.4. L'accusa di totalitarismo di Hannah Arendt e la sua confutazione «John Clews, al posto di segretario generale della Società britannica [...] scrisse a Nabokov nel luglio 1952, per comunicargli di aver avuto una “lunga conversazione con Hannah Arendt, [di] averle presentato uno o

due dei nostri esperti del Foreign Office” e: * Come risultato ne è scaturito che

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sto fornendole un sacco di materiale che lei utilizza per il suo nuovo libro». (Frances Stonor Saunders)”

Dobbiamo a Domenico Losurdo una precisa analisi critia della

formulazione del concetto di totalitarismo elaborata da Hannah Arendt in Origini del totalitarismo del 1948, un testo che riscuoterà

un enorme successo, tanto da essere ormai diventato oggi, non senza resistenze, un pilastro dei manuali scolastici di storia contemporanea,

in un processo reso possibile dalla parallela crisi progressiva delle forze comuniste in tutto l'Occidente. Riportiamo ampi stralci dalle pagine losurdiane di // marxismo occidentale *: «nella prima Arendt si avvertiva la tendenza ad avvalersi della categoria di totalitarismo per definire il nesso tra nazismo e colonialismo. Il

primo modello di potere totalitario cra quello esercitato sui popoli coloniali, deumanizzati mediante l’ideologia razzista e decimati c schiavizzati. Il quadro cambiava in modo radicale con il passaggio alla terza parte delle

Origini del totalitarismo, chiaramente influenzata dal clima idcologico sopraggiunto in seguito allo scoppio della Guerra Fredda. Non era tanto importante il giudizio sull'Unione Sovietica, grazie alla categoria di totalitarismo messa sostanzialmente sullo stesso piano della Germania hideriana; decisiva era soprattutto la rimozione del legame che univa il Terzo Reich alla tradizione colonialista c imperialista di cui esso voleva essere l'erede conseguente e più intransigente [...]. A ben guardare, la terza parte delle Origini del totalitarismo era un libro nuovo rispetto alle

due parti precedenti c al lavoro sull’“imperialismo razziale”. Nel libro originariamente programmato ancora sotto l'emozione della lotta con-

tro il nazismo, al centro era la categoria dell’imperialismo, il gens che sussumeva diverse species, in primo luogo l'Impero britannico e il Terzo Reich (l’espressione più compiuta della barbarie dell'imperialismo); e

in questo quadro veniva conferito un ruolo positivo all'Unione Sovietica, protagonista della lotta contro l'imperialismo nazista c ispiratrice dei movimenti di liberazione anticoloniale. Nella terza parte del libro,

effettivamente pubblicato mentre infuriava la Guerra Fredda, al centro balzava la categoria di totalitarismo, il gens che sussumeva ora l'URSS staliniana e la Germania hitleriana; il nuovo quadro conferiva un ruolo positivo all'Occidente antitotalitario nel suo complesso, compresi Pacsi come la Gran Bretagna e la Francia che erano ancora imperi coloniali a

"Ivi, p. 101. *D. Losurdo, // marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Bari-Roma, 2017, pp. 109-121.

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tutti gli efferti. Il carattere eterogeneo delle Origini del totalitarismo non era sfuggito agli storici. Subito dopo la sua pubblicazione, il libro veniva sottoposto a dura critica da Golo Mann: “Le prime due parti dell'opera trattano della preistoria dello Stato totale. Ma qui il lettore non troverà ciò che è abituato a trovare in studi simili, e cioè ricerche sulla storia peculiare della Germania o dell'Italia o della Russia [...}. Piuttosto Hannah Arendt dedica due terzi della sua fatica all'antisemitismo e all'imperialismo, e soprattutto all'imperialismo di matrice inglese. Non riesco a seguirla [...] solo nella terza parte, in vista della quale il tutto è stato intrapreso, Hannah Arendt sembra essere veramente in tema” [...]. Mann non riusciva a capacirarsi della chiamata in causa dell’Impero britannico [...]. Lo storico tedesco considerava

come un tradimento del mondo libero gettare un'ombra di sospetto sul Paese che più di ogni altro incarnava la tradizione liberale [...]. Il caratte-

re eterogeneo delle Origini del totalitarismo era colto da altri storici, che richiamavano l’attenzione sullo sforzo artificioso di fare del “comunismo sovietico l'equivalente totalitario del nazismo”, ad esempio inventando un panslavismo bolscevico che sarebbe stato il pendani del pangermanesimo nazista (H. Stuart Hughes [...]); nel complesso, “riguardo allo stalinismo

il libro è meno soddisfacente”, e diventa qui evidente l’assenza di una “chiara teoria” dei “sistemi totalitari” (Kershaw [...]). Più esattamente:

“in numerosi passaggi, l’analisi dell'Unione Sovietica sembra essere stata resa simile in modo meccanico a quella della Germania, come se fosse stata inserita più tardi per ragioni di simmetria” (Gleason [...]). Sì, il libro di Arendt

sul totalitarismo in realtà “è essenzialmente una spiegazione dell'avvento al potere del nazismo, e i temi trattati nelle prime due parti — rispettivamente l'antisemitismo e l'imperialismo — hanno poso a che fare con la natura del potere sovietico”; conviene dare l'addio alla categoria di “totalitarismo”, che mira solo a liquidare l'URSS mediante la “comparazione” artificiosa ma “micidiale” con la Germania hitleriana (Kershaw [...]). Ferma re-

stando l’eterogeneità del libro, se per Golo Mann si trattava di liquidare in quanto fuori rema le prime due parti che, assieme all'antisemitismo,

mettevano in stato d'accusa colonialismo e imperialismo, per gli storici successivamente citati occorreva prendere atto del carattere posticcio c ideologico della terza parte che, adattandosi alle esigenze ideologiche e pratiche della Guerra Fredda, cercava affannosamente di accostare l'Unione Sovierica al Terzo Reich [...]».

Losurdo fa inoltre notare come nell'analisi della Arendt, per giustificare l'affermazione dell'URSS come totalitarismo, l'autrice mettesse in atto uno

«slittamento metodologico. Il totalitarismo era ora letto in chiave psicologistica e psicopatologica. A caratterizzarlo sarebbe la “follia”, il

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“disprezzo totalitario per la realtà e la fattualità”. |...] La filosofa dimentica così l'osservazione fatta pochi anni prima, in base alla quale nella storia del colonialismo i “nuovi insediamenti coloniali in America, Australia e in Africa” sono andati di pari passo con lo “sterminio degli indigeni”, che era all’ordine del giorno anche al momento della colonizzazione dell’Europa orientale. [...] Occorre subito dire che il metodo o la mancanza

di metodo, cui Arendt a tale proposito si attiene, trova credito sempre più scarso nella storiografia. Faccio riferimento non solo agli storici che,

criticandola esplicitamente, sottolincano i “fini uzilitaristici” perseguiti dal Terzo Reich [...]. Forse ancora più significativi sono gli autori che,

pur senza menzionare la filosofa, richiamano l’attenzione su alcuni punti essenziali: con le sue guerre di decimazione e schiavizzazione condotte

a Est, Hieler ha messo in piedi una gigantesca tratta degli schiavi, che è servita egregiamente ad alimentare la produzione di beni e di armi della Germania in guerra; al fine di edificare il suo Impero continentale in Europa orientale, il Fuhrer ha scatenato la più grande guerra coloniale della storia [...]. La politica del Terzo Reich non è espressione di pura follia così come non lo sono la tratta degli schiavi propriamente detta,

l'espansione della repubblica nordamericana da un oceano all’altro, le guerre coloniali in genere. |...) In effetti, il paradigma psicopatologico consente ad Arendt di alleggerire la posizione del colonialismo e di abbellire l'Occidente liberale, l'uno e l’altro considerati estranei all’orrore della soluzione finale. Sul versante opposto, [...] la terza parte delle Origini del totalitarismo vende a fare del comunismo novecentesco il fratello gemello del nazismo. Il fatto è che, una volta approdati al paradigma psicopatologico, per spiegare il totalitarismo restano in piedi solo il ricorso alla “paranoia” e il gioco stucchevole dell’accostamento di un “paranoico” a un altro, tutti bollati come tali in base a una diagnosi che si sottrac a ogni verifica, e dunque per decisione sovrana c arbitraria dell’interprete. Il marxismo occidentale non ha saputo opporre resistenza a questa operazione idco-

logica. [...] appiattendosi sulle posizioni dell'ultima Arendt, il marxismo occidentale ormai moribondo si accodava di nuovo all’ideologia dominante e sviluppava il discorso sul potere e sulle istituzioni totali facendo

completa astrazione dal mondo coloniale». Nel saggio Sulla rivoluzione (1963) la Arendt arriverà ad iden-

tificare Marx come l’autore della «dottrina politicamente più dannosa dell'età moderna». Assieme a lui gli altri grandi nemici della libertà

nella Storia contemporanea, i campioni più pericolosi del totalitarismo, erano individuati in Robespierre e Lenin. Poco importava alla

Arendt che Robespierre, Marx e Lenin fossero rispettivamente il dirigente rivoluzionario francese che aveva abolito per la prima volta la 312

schiavitù (a Santo Domingo), il filosofo tedesco che più di tutti aveva denunciato l’intrinseca barbarie del colonialismo nel XIX secolo e

il dirigente russo che chiamò i popoli coloniali a ribellarsi contro il terribile dominio dell’imperialismo. Ancora Losurdo: «di fatto, ora non è più il colonialismo, sono i suoi grandi antagonisti a sedere sul banco degli imputati; sono additate quali nemiche conseguenti della libertà le due rivoluzioni, la rivoluzione francese (e giacobina) e la Rivoluzione d'Ottobre, che hanno promosso lo smantella-

mento del sistema colonialista-schiavistico mondiale. Questa deriva non è casuale [...]. Se, come avviene nella terza parte delle Origini del totalitarismo e nella produzione successiva, si fa astrazione dal potere dispotico e tendenzialmente totalitario che colonialismo e imperialismo impongono ai popoli coloniali e di origine coloniale e si ignorano le terribili difficoltà che il processo di emancipazione comporta per i popoli assoggettati © in pericolo di essere assoggettati, e ci si concentra esclusivamente sulla

presenza o assenza delle istituzioni liberali capaci di limitare il potere, è chiaro già in anticipo che il sospetto di totalitarismo incomberà non sui responsabili delle guerre coloniali ma sulle loro vittime [...]. E, tuttavia, forse anche a causa del passato [progressista, ndr] di Arendt, per qualche tempo influenzata dal pensiero di Marx e dallo stesso movimento comunista, a partire almeno dagli anni ‘70 Le origini del totalitarismo non incontrava alcuna resistenza nelle file del marxismo occidentale, giunto ormai al suo stadio terminale». Ricorriamo ora criticamente a // secolo breve di Hobsbawm?,

uno dei manuali universitari più usati, per smontare il paradigma

dell'URSS come “totalitarismo”, nozione abbondantemente propinata nei manuali scolastici delle scuole medie e superiori, che accettano invece la versione fornita falsamente da Hannah Arendt in ossequio alle logiche della Guerra Fredda. «Per quanto brutale e dittatoriale, il sistema sovietico non era “totalitario”, un termine che divenne popolare fra i critici del comunismo dopo la seconda guerra mondale. Il termine cra stato inventato negli

anni ‘20 dal fascismo italiano per descrivere i propri scopi e fino al secondo dopoguerra era stato usato quasi esclusivamente per criticare sia il fascismo sia il nazionalsocialismo. Esso stava a significare un sistema centralizzato esteso a ogni aspetto della vita sociale, che non soltanto

“Le citazioni che seguono sono tratte da E. J. Hobsbawm, 1914/1991, Rizzoli-BURexploit, Milano, 2010, p. 460-461.

313

// secolo breve

imponeva un conuollo fisico totale sulla popolazione ma che, per mezzo

del monopolio della propaganda c dell’istruzione, riusciva effettivamente a far sì che il popolo interiorizzasse i valori proposti dal regime».

Che l'URSS fosse una dittatura è fuor di dubbio: era una dittatura del proletariato guidata dal Partito comunista. L'uso del termine «brutale» è invece totalmente gratuito, ignorando volutamente lo stato di accerchiamento costante subito dal Paese che rese necessarie

costanti misure di emergenza per rispondere agli attacchi dell'imperialismo. Dopo la filippica contro Stalin, l’autore continua: «il sistema non era però “totalitario”, c ciò suscita dubbi notevoli sull’utilità di questo termine. Infatti il sistema sovietico non esercitava un efficace “controllo del pensiero” e ancor meno assicurava una “con-

versione di pensiero”, tanto che di fatto depoliticizzò i cittadini a un livello stupefacente. Le dottrine ufficiali del marxismo-leninismo erano sconosciute o indifferenti al grosso della popolazione, dal momento che

non avevano alcuna importanza per la gente comune, a meno di non essere interessati a intraprendere una carriera per la quale era richiesta quella conoscenza esoterica».

La difficoltà di formare adeguatamente perfino i funzionari governativi più importanti emerge limpida da un aneddoto raccontato

da Frances Stonor Saunders, che mostra come sia bastata la costante lettura di una rivista inglese finanziata e controllata dalla CIA per incrinare le certezze di un «Lolscevico», un funzionario del KGB, «il quale sosteneva di aver diretto la scuola di propaganda del Cremlino», trasformandolo in un «dissidente».!° Il motivo per cui Hobsbawm scrive ranto duramente contro Stalin paradossalmente è proprio l'accusa di aver cercato di interessare e rendere compartecipi le masse popolari delle decisioni politiche, cercando di far loro capire e assimilare i precetti fondamentali della filosofia e della teoria marxista-leninista, stimolandone un'etica proletaria rivoluzionaria in senso socialista. Da questo punto di vista,

l’autore, in passato marxista-leninista, mostra di aver subìto un grosso cedimento culturale nei confronti del pensiero dominante e forse è anche per questo che il suo testo è tutto sommato ancora accettato in molte università. Hobsbawm, quindi, nonostante sia considerato

!© E Stonor Saunders, Gli inzellertuali e la CIA, cit., p. 376.

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uno dei più importanti autori del XX secolo, non può essere assunto come nume tutelare assoluto per i marxisti.

Prendiamo infine alcuni spunti dall’opera di Claude Polin, filosofo francese di “sinistra” che all’inizio degli anni ‘80 accettava di

entrare nel circuito dell’anticomunismo istituzionale pubblicando un testo sul totalitarismo in cui la gran parte del lavoro era dedicata all’URSS, liquidando in poche pagine i regimi nazifascisti. Ciononostante anche nella sua opera si rrovano tante affermazioni che fanno

dubitare pienamente del carattere tirannico dell'URSS. Riguardo al “potere” ad esempio, Polin è costretto ad affermare che «sarebbe

errato ritenere che sia monopolizzato dal Partito; ciò che lo caratterizza,

difatti, è di essere incredibilmente distribuito 0 per meglio dire diffuso», riportando stime del dissidente (poi pentito e oggi critico feroce del capitalismo) Zinoviev che riteneva le funzioni del potere essere

«ricoperte da almeno un quinto della popolazione (famiglie comprese)». Insomma, «lungi dall'essere una massa di schiavi, il popolo russo è essenzialmente uno sterminato esercito di capi, in cui la maggioranza, in incessante crescita, esercita la sua violenza su una minoranza [quella

boghese, ndr] in incessante diminuzione»! Non c'è che dire, davvero una situazione incresciosa, tant'è che

il ranto biasimato «Stato poliziesco» può poggiare solo sul fatto che «i padroni dell'URSS [...] sono aiutati 0 per meglio dire sostituiti nel loro ruolo di tiranni da quei milioni di tirannelli che sarebbero divenuti i milioni di Sovietici»; ciò è dovuto per l'appunto al fatto che «in

URSS il potere è innanzitutto la rete» di «innumerevoli piccoli capi». È davvero notevole come in passato si sia riusciti a dipingere come

tirannica una realtà di compartecipazione popolare del potere giunta

a livelli che nella democrazia liberale rappresentativa sarebbero pura utopia, specie visto il distacco mostruoso tra ceti politici e “società ci-

vile”. Un sistema talmente totalitario da aver tolto «/z preoccupazione

di dover lavorare per sopravvivere»'?, come afferma Polin semplicisticamente ma cogliendo un elemento di profonda verità che testimonia bene il senso di come si concretizzi praticamente una dittatura del proletariato: uno Stato della classe lavoratrice al servizio della classe

''C. Polin, // sozalitarismo, cit., p. 74. ! Ivi, pp. 76-77.

'3 Ivi, p. 80.

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lavoratrice stessa, con tutti i pregi e difetti che ne derivano. Non

certo il totalitarismo criminale che si è preteso di ritrarre con molta sufficienza e parzialità. 13.5. I limiti storico-politici di Hobsbawm Dopo aver utilizzato Hobsbawm per smontare il teorema dell'URSS “totalitaria”, analizziamo i limiti storico-politici di tale autore con un testo di Cristiano Alves'4. «La Pagina Vermelha identifica nell'opera 7he Age of Extremes: The Short Tiwentieth Century. 1914-1991 (pubblicato in Italia con il titolo //

Secolo breve: 1914-1991) del cosiddetto “famoso storico marxista”, una serie di falsi che vanno dalla disinformazione sul sistema politico sovietico fino alla russofobia e all’etnocentrismo. È molto comune sentire il nome di Hobsbawm nei quattro angoli del mondo accademico, in particolare nelle facoltà di Storia. Il suo lavoro è consigliato in uno dei più ambiti

concorsi in Brasile, la carriera diplomatica, il cui programma prevede lo studio del Secolo breve dell'autore, egiziano di nascita e cittadino britannico. In realtà, molti lo vedono come “l'ultima parola in fatto di

storia”, una specie di guru per alcuni, che influenza anche la cosiddetta “sinistra vera”, cioè coloro che, a sinistra si definiscono, apertamente 0 meno, “l’ultima parola in termini di marxismo”. La sua influenza è rafforzata ancora di più a causa della militanza nel CPGL, vale a dire nel Partito Comunista della Gran Bretagna. ‘Tuttavia la verità c l'intenzione di trasmetterla non sono sempre elementi contenuti nei libri di Eric John Hobsbawm. La verità dovrebbe essere cercata e diffusa, in modo che nuovi errori non si ripetano e che le menzogne che sono come un muro che impedisce di vedere la verità, possano essere distrutte. Il Secolo breve, così come molte altre opere di Hobsbawm, è un punto di riferimento per molte persone per quanto riguarda la storia del XX secolo, a prescindere dalle loro idee politiche fino al punto che, lo storico britannico può radunare nello stesso gruppo di estimatori sia persone di “sinistra” che di “destra” cd è classificato come tale da entrambi i gruppi. Il titolo stesso del libro è di parte perché deduce implicitamente (c si deve

leggere l’intero libro per rendersene conto) che // Secolo breve è un periodo di “estrema sinistra” e di “estrema destra”, che hanno fortemente influenzato il mondo in cui viviamo. Non è un segreto che le rendenze esistono, rut-

!4C. Alves, Etmocentrismo, russofobia e pregiudizio anticomunista di Fric ]. Hobsbawm, Apaginavermelha.blogspot.it, 28 agosto 2011.

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tavia, per Hobsbawm la “estrema sinistra” non è altro che la tendenza presentata da parte dell’Unione Sovietica c degli altri Paesi che di farro hanno cercato di realizzare il socialismo nei loro Paesi [...]. Per Hobsbawm

le

idee di Lenin e Stalin sono “dî estrema sinistra” c un estratto dal libro che corrobora questa tesi si trova nel capitolo “// socialismo reale” [...]. Questo capitolo espone una vasta ricerca sul socialismo in alcuni Paesi della Cortina di Ferro, trascurando tuttavia, che non tutti questi Stati di “orientamento marxista” erano necessariamente degli Stati Socialisti, alcuni erano Repubbliche Popolari; inoltre commette una leggerezza nel trascurare la difesa fatta da Marx dell'Economia Pianificata c Centralizzata, fatta dal filosofo tedesco già nel Manifesto del Partito Comunista. Finora, nessun problema, l’autore fa anche una analisi accurata della figura di Nikolaj Bucharin, che Hobsbawm identifica giustamente come un “proto-Gerbatev”, analisi che va contro quella dello storico belga Ludo Martens. Secondo William Bland, marxista britannico, “antistalinismo” è anticomunismo, dal momento che il primo termine non è niente di più che un modo di attaccare non l’uomo I.V. Stalin, ma il suo lavoro nell’e-

dificare il primo Stato socialista della storia, poiché la sua opera seguì quasi alla lettera gli scritti di Karl Heinrich Marx, e l'“antistalinismo” è il grande totem di Hobsbawm. Parlando di Stalin, il cui governo condusse la Russia dall’aratro all'era del nucleare (quindi la forma più avanzata della tecnologia del tempo), parole di Winston

Churchill, anche lui

inglese, Hobsbawm non nasconde la sua avversione contro l’ex calzolaio gcorgiano, presentandolo come un “autocrate di ferocia, crudeltà e mancanza di scrupoli eccezionali”, che per molti erano “zriche”. Questo punto

di vista, tuttavia, può essere facilmente confutato da un certo numero di autori che vanno da sua figlia Svetlana, citata nel libro Verzi lettere ad un amico, dallo storico Simon Scbag Montefiore (anche lui inglese), autore

di Giovane Stalin, libro che ha avuto un successo di vendite in Europa, in quanto mostra un lato sconosciuto del leader sovietico, un poeta del Caucaso. Va però ricordato qui che questo stesso signor Montefiore, in una delle sue opere, insinua che “l madre di Stalin era una prostituta, perché era molto povera e probabilmente non sarebbe riuscita a sopravvivere lavando solo i panni” (in poche parole, per S. Montefiore, Stalin era letteralmente un “figlio di puttana”), tale è il suo pregiudizio elitista. L'idea che “Stalin fosse un dittatore” (rermine che, Hobsbawm sostituisce con “autocrate” per non cadere nel cliché), è oggetto di onanismo

politico dei sostenitori del liberalismo economico, del conservatorismo e delle altre idee politiche della classe degli sfruttatori del popolo, ed è

anche oggetto dell’onanismo politico di estrema sinistra, che per Lenin era una “malattia infantile del comunismo”. L'idea di “Stalin dittatore assolutista”, realistica quanto un cavallo alato o un leone parlante, è stata

chiarita in un dialogo di Stalin con Eugenio Lyons, che lo ha intervistato

personalmente e confutara da autori come William Bland, il quale ha stu317

diato il suo governo e anche la sua personalità in base alla testimonianza delle persone che erano con lui. Gli studi di Bland dimostrano che Stalin, come Premier nel governo sovietico, aveva minor potere del Presidente degli Stati Uniti. Mentre Stalin era Segretario Generale del PCUS e Capo del Governo sovietico (ma non di Stato), il Presidente americano era sia Capo del Governo che Presidente dello Stato. Questa limitazione del potere di Stalin in seguito venne anche riconosciuta dal Presidente USA, Harry Truman, che nel corso dei negoziati sulle aree di influenza in Europa disse che non si poteva prendere le “decisioni dello Zio Joe” come parametri (nota: Stalin), in quanto era “prigioniero del Politbjuro”. Questa versione è supportata dallo studioso statunitense Grover Furr che l’ampliò

in un dibattito con un professore del Regno Unito, dando origine a un testo importante in materia, che mostra i limiti del governo di Stalin.

Questo stesso autore, nel suo Stalin e la lotta per la riforma democratica, mostra diversi limiti dell’autorità del leader georgiano c presenta anche un fatto ignorato da quasi tutti gli studiosi del Premier sovietico: fa proposta

di elezioni dirette per i membri del governo sovietico da inserire nella Costituzione del 1936, incontrò il veto da parte degli altri membri del Politbjuro. Grover Furr, sulla base di studi di un famoso storico russo, il

dottor Yuri Zukov, sostiene che è una menzogna il mito di Stalin come “onnipotente dittatore”. Ancora, il leader albanese Enver Hoxha disse che “Stalin non era un tiranno, un despota”, ma “un uomo di principî”. Anche Sidney c Beatrice Webb, in // comunismo sovietico: una nuova civiltà, respingono l’idea che lo Stato sovietico fosse governato da una sola persona. Confutata l’idea di “Stalin l'autocrate”, è necessario mettere in discussione, indagare e concludere a riguardo dell'idea di “Stalin il crudele”,

adottando una corrente di pensiero che non ha nulla di “stalinista”, ma piuttosto di razionalista più vicina a Voltaire che a Stalin. L'immagine di questo “rosso Darth Vader", venduta da storici come Hobsbawm,

il

cui pregiudizio antistalinista lo porta agli estremi, è stato studiato dal marxista-leninista inglese William Bland. Nel suo studio // culto della personalità, Bland riporta che, secondo il leader albanese Enver Hoxha,

“Stalin era piuttosto modesto e gentile con le persone, i quadri e i colleghî e secondo l'ambasciatore americano in Unione Sovietica, Joseph Davies, citato nel lavoro di Bland, Stalin era un uomo semplice, dai modi affabili. In contrasto con questa immagine di crudeltà, la figlia di Stalin, Svetlana Aliluleva, descrive il leader sovietico come un padre premuroso, amorevole. Secondo Georgiy Zukov, il maresciallo dell’Unione Sovietica, “Stalin conquistava îl cuore di tutti coloro con cui egli conversava”. Come se queste dichiarazioni non bastassero, il “crudele Stalin” non ordinò mai l’arresto di Michail Bulgakov, uno scrittore che la pensava diversamente circa lo Stato sovietico ed era molto critico; apprezzava il talento di Maria Judina, pianista considerata pazza in URSS, ma ammirata da Stalin ed aveva come hobby non la caccia o la pesca, ma semplicemente piantare

318

alberi o piante da giardino, caratteristiche insolite le”. Se si vuole affermare che “Stalin era crudele” è una tale affermazione, ad esempio, con documenti dimostrino crudeltà; tali documenti non esistono,

in un “ragazzo crudenecessario dimostrare degli arti di Stalin che rendendo in tal modo

le affermazioni di Hobsbawm pure sofisticherie. Non fosse sufficiente l’avversione anti-Stalin di Hobsbawm, da far invidia a qualsiasi propagandista del lerzo Reich, Hobsbawm raggiunge un altro estremo affermando che “pochi uomini manipolarono il terrore in scala più universale”. Ci si può chiedere perché Fric abbia aggiunto questa descrizione; definire Stalin “crudele e autoritario” non era sufficiente per il britannico? Si può presumere che questa dichiarazione sia stata inserita come un modo per “proteggere” l'autore di // secolo breve in caso di accuse di essere “stalinista” da parte dei suoi editori o patrocinatori borghesi. Un apprezzamento di Hobsbawm per la Banca Mondiale in quel libro può essere indicativo di una delle sue fonti di finanziamento. È comune per alcuni individui confondere “l’amore per una cosa” con “l'odio per un'altra", utilizzando l'odio come un modo per mostrare “apprezzamento” per qualcos'altro, come Hitler in Germania, essendo austriaco, usava l'odio per gli slavi, i neri e gli ebrei come un modo per dimostrare un presunto “amore” per il Paese, o come il marito che picchia la moglie come un modo per dimostrare che “774”. Ancora una volta, questo tentativo disperato di Hobsbawm di disorientarci con i suoi sofismi attraverso un linguaggio di odio avviene prima degli studi del dottor Yuri Zukov e del professor Grover Furr. Anche il discorso di Nikita Chrustev al XX Congresso del PCUS, che potrebbe conferire una certo legittimità allo storico britannico è stato dimostrato essere falso da parte di un certo professore americano nel suo Krusciov menti!”, dove

dimostra che 60 delle 61 accuse che Chruséev mosse Congresso sono false, discorso, diciamo per inciso, da Eric Hobsbawm, pur essendo uno dei discorsi più secolo; la sua opera è priva di qualsiasi seria indagine

nel suo discorso al che viene ignorato importanti del XX su questo discorso

e sulla sua veridicità. Il Professor Grover Furr, responsabile delle indagini e dell’esporre la natura fraudolenta del discorso di Chruséev, dimostra quanto sia falsa l’idea di Stalin come “l'omnipotente sovietico”, dimostrando che questo non esercitava neanche il controllo sulla NKVD, organo preposto alla difesa della Rivoluzione Bolscevica che negli anni ’30) del secolo scorso commise gravi abusi di potere sotto la guida di Genrich Jagoda e Nikolaj Ezov, entrambi licenziati, perseguiti, processati c condannati. Ezov venne poi sostituito da Lavrentij Berija. Giocando il ruolo del fustigatore del marxismo al servizio delle forze reazionarie, Hobsbawm descrive la crescita del sistema sovietico

4 G. Furr, Krusciov menti, cit.

319

come il risultato di una “forza lavoro oscillante tra i 4 e i 13 milioni di persone imprigionate (nei gulag)” citando Van der Linden. Questa cifra assurda è stata contestata da una scrie di autori e confutara da documenti resi pubblici nell'era della Glasnost e firmati dal Procuratore generale dell’Unione Sovietica R. Rudenko, dal ministro degli Interni S. Kruglov ce dal ministro della Giustizia K. Gorsenin, che mostrano il numero di circa 2 milioni di detenuti in URSS, un numero inferiore in sia in termi-

ni assoluti che in proporzione al numero dei detenuti negli Stati Uniti (che nel 2006 è stato di 7 milioni di detenuti). La stessa tabella rilasciata

dal governo antistalinista di M. Gorbatev è stata pubblicata dallo svedese Mario Sousa, da Alexander Dugin, da Zemskov e da Ludo Martens. È la prova che autori come Hobsbawm e gli altri della sua cricca deliberatamente mentono quando si tratta di “Unione Sovietica”, cosa che non hanno il coraggio di fare quando si parla del proprio Pacse, responsabile della morte di milioni di persone in tutto il mondo. Si stima che la Gran

Bretagna, il Paese di Hobsbawm, ha deliberatamente provocato una carestia in India, che uccise circa 30 milioni di persone. È interessante notare che il suo sovrano, la Regina Elisabetta II, e i suoi ministri, non siano oggetto nemmeno della metà degli epiteti che lo storico getta furiosamente e irresponsabilmente su Stalin. Adottando una posizione reazionaria, Hobsbawm, attribuisce la carestia in Ucraina del 1932-33 alla “collettivizzazione dell'agricoltura” misura adottata per promuovere la giustizia sociale nel settore ed climinare la figura del kulak; lo storico britannico ignora completamente il ruolo svolto da questi ultimi nel sabotaggio dell’agricoltura e fattori quali

il tifo e la siccità ricercati e dettagliatamente discussi nei particolari dallo storico belga Ludo Martens. Con pochissima obiettività, E. Hobsbawm descrive Scalin come un “uomo piccolo di m. 1,58”, anche se le cartelle cliniche lo indicano di m. 1,71 e le osservazioni di Graham Wallace, medico di Harry Truman lo descrivono della stessa altezza di Hitler che era di circa m. 1,73 e le schede informative del governo zarista lo danno sul m. 1,74. A pagina 386 della edizione portoghese del suo libro, Hobsbawm, secondo i suoi soliti anti-sovietismo e russofobia, descrive l'Unione Sovietica come responsabile del “saccheggio” dei Paesi poi liberati dall’Armata Rossa. In un atto di vigliaccheria, omette di informare il lettore che questi Pacsi liberati erano ex alleati della Germania nazista che, insieme con questa, parteciparono al massacro di oltre 20 milioni di cittadini sovietici, Paesi come la Cecoslovacchia, l'Ungheria, la Romania e la Bulgaria, il cui contingente inviato per l'operazione Barbarossa superò i 300.000 uomini. Parlando di Ungheria, tra l’altro, Hobsbawm

osa difendere la rivolta del 1956, organizzata dai sostenitori del fascista Horty, alleato di Hitler durante la Seconda guerra mondiale. Senza dubbio, uno dei punti più curiosi del // Secolo breve è l’ossessione antistalinista latente in Eric Hobsbawm, che lo porta a spogliarsi di

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ogni metodo dialettico per abbracciare il metodo manicheo. Pochi nomi nel suo libro impregnato di soggettivismo sono così demonizzati come la figura di Scalin. Nemmeno Hidler, il cui progetto politico sterminò circa 60 milioni di persone ed includeva nel suo programma un aperto razzismo, è descritto come “tiranno, crudele e malvagio”. Nel libro di Hobsbawm,

nemmeno

Harry Truman,

il cui governo ha introdotto i

bacteri della sifilide in centinaia di persone per usarle come cavie umane, è descritto come “perverso”. Nomi come Mussolini, Margaret ‘Thatcher e altri personaggi reazionari del XX secolo non hanno ricevuto uno spazio speciale di demonizzazione come il responsabile della distruzione di più del 70% delle forze naziste. Cosa vuole ottenere e qual è l'obiettivo perseguito da Eric Hobsbawm con il suo onanismo politico? Ritiene davvero che tutti i suoi lettori siano stupidi o senza cervello nonché incapaci di ricerca nei confronti di un personaggio di così grande importanza nel XX secolo, considerato uno dei tre più grandi nomi della storia della Russia come dimostra l'indagine demoscopica “I! none della Russia” effettuata nel 2008, anche dopo anni di scelleratezze anti-staliniste e quindi anti-comuniste? Colpisce il fatto come libri di testo consigliati sul socialismo reale del signor Hobsbawm non comprendano anche un solo autore che esamini l'URSS obiettivamente e senza pregiudizi. È forse un falsario e un imbroglione “il grande storico marxista"?

[...]. Coloro che com-

prendono realmente la forza dei valori dell'Illuminismo, l’importanza della ricerca, come mezzo per ottenere conoscenza, non si accontentano di “storici marxisti consigliati dai media” e denunciano i demolitori del movimento marxista c fanno sì che la verità vada sulla cima delle vette, risuoni sulle pareti rocciose e attraverso le nuvole cada come pioggia, come lame taglienti di spade, frantumando la malvagità e l’inganno!».

13.6. Ritratto di Robert Conquest Diamo ora spazio ad un brano di Grover Furr'* che smonta com-

pletamente la scientificità dei lavori di Robert Conquest, uno degli storici antistalinisti più famosi e rinomati della storiografia borghese: «Molto si potrebbe dire di Conquest. Ecco intanto alcuni fatti - ve-

rificati - riguardanti il suo libro più famoso, 7he Great 7error (Il Grande

'@G. Furr, Robert Conquest, un anti-necrologio, Resistenze.org, 11 agosto 2015. L’opera più importante dello storico statunitense sulla storia sovietica del periodo staliniano è senza dubbio G. Furr, Krusciov menti, La Città del Sole, Napoli, 2011.

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Terrore). Robert Conquest risulta aver lavorato per l'Information Rescarch Department (IRD), da quando venne istituito fino al 1956. L'IRD, fondato nel 1947 (originariamente chiamato Communist

Information

Burcau), era un dipartimento [del Foreign Office britannico] il cui compito principale consisteva nel combattere l'influenza comunista in

tutto il mondo, diffondendo storie tra politici, giornalisti e altri in grado di influenzare l'opinione pubblica. Nel 1978, 7he Guardian affermò che il lavoro di Conquest doveva contribuire a redigere la cosiddetta “storia nera” dell’Unione Sovietica, in altre parole, storie false fatte circolare

come fatti veri e consegnate a giornalisti ed altri in grado di influenzare l'opinione pubblica. Dopo aver formalmente lasciato l’IRD, Conquest continuò a scrivere libri suggeriti da questo dipartimento, con il supporto del Secret Intelligence Service (SIS). Il suo libro 7be Great Terror,

testo anti-comunista basilare sul tema della lotta per il potere che ebbe luogo in Unione Sovietica nel 1937, era in realtà una ricompilazione dei testi scritti quando lavorava per i servizi segreti. Il libro fu ultimato e pubblicato con l’aiuto dell’IRD. Un terzo delle copie stampate fu acquistata dalla Praeger Press, casa editrice normalmente associata alla pub-

blicazione di letteratura proveniente da fonti CIA. Il libro di Conquest era destinato ad essere presentato agli “utili idioti”, come i professori universitari e chi lavora nella stampa, in radio c televisione. Per gli storici anti-comunisti, Conquest rimane ad oggi una delle più importanti fonti di materiale sull'Unione Sovietica. L'articolo del Guardian del 1978 a cui ci riferiamo, David Leigh,

Death of the department that never was. (La morte del dipartimento che non c'è mai stato) 7he Guardian, 27/01/1978, p. 13., documenta l’attività di propaganda dell’IRD. Nella sua dissertazione per il dottorato di ricerca (ma non nel libro che lui stesso ha scritto) Archibald Getry sottolineava: “La tendenza dominante [nello scrivere la storia delle “purghe”] è stata di credere meccanicamente a qualsiasi affermazione provenisse da un fuoriuscito, negando automaticamente ogni verità al lato stalinista. Se si volesse un ritratto equilibrato dello Zar Ivan IV. (“Il terribile”), non si

accetterebbero per oro colato le descrizioni del principe Kurbskij, esiliato in

Polonia, fornite in un periodo di guerra russo-polacca. Se si volesse un quadro equilibrato del regime di Mao Tse-Tung in Cina, non si accetterebbe come sostanzialmente affidabile la versione di Chiang Kai-Shek data nei primi anni 1950. L'apparente mostruosità dei crimini di Stalin e la generazione di at-

teggiamenti da Guerra Fredda hanno contribuito a produrre delle analisi che sarebbero state considerate superficiali in qualsiasi altra area di indagine”. Gerry faceva anche notare che Conquest, specializzato in propa-

ganda anticomunista, era mascherato da beneficiario di borsa di studio pur lavorando per i servizi segreti britannici. “Riguardo alla ‘borsa di studio’, si può parlare di qualcosa di più che semplice disattenzione. Recenti indagini sull'attività dell'intelligence britannica (sulla scia delle rivelazioni

322

USA post- Watergate), suggeriscono che Robert Conquest, autore del molto influente Grande Terrore, accettò di essere pagato dai servizi segreti britannici per falsificare deliberatamente le informazioni sull'Unione Sovietica. Di conseguenza, le opere di un tale individuo difficilmente possono essere considerate validi lavori accademici dai suoi pari della comunità accademica occidentale”. Getty afferma inoltre: “/...] Conquest (Terror, 754)... fa la

stupefacente dichiarazione che ‘La verità può filtrare solo sotto la forma del

sentito dire. E, inoltre, che fondamentalmente, sulle questioni politiche, la fonte migliore, anche se non infallibile, è il pettegolezzo...’ Egli ritiene che il modo migliore per verificare le voci sia di confrontarle con altre voci - un procedimento di dubbia validità dato che i fuoriusciti usano leggere i rispettivi lavori. Naturalmente, in qualsiasi altro campo degli studi storici, dicerie

e voci non vengono accettate come prove”. Già nel 1979 Getty aveva concluso che “il purnto di vista qui adottato è che le interpretazioni standard sulle “Grandi purghe", come quelle di Fainsod e Conquest, siano gravemente difettose, non possano spiegare le prove disponibili, e non siano quindi più sostenibili”. Nel 1980 intervistai il professor John Hazard della Columbia University, al tempo esperto mondiale di diritto sovietico. Hazard mi disse che gente del campo di studi sovietici gli aveva riferito che l’intelligence britannica stava ancora utilizzando il lavoro di Conquest. Una buona risposta alla disonestà di Conquest è l'articolo di Robert W. Thurston, On Desk-bound Parochia-

lism, Commonsense Perspective, and Lousy Evidence: A Reply to Robert Conquest (Sul campanilismo da poltrona, una visione qualunquista e delle prove disgustose: una risposta a Robert Conquest). Non sono a conoscenza di nessun altro studioso ufficiale nel campo della storia sovietica che abbia mai osato attaccare frontalmente Conquese sulla stampa, in un giornale mainstream. Conquest rispose a rono cestinando il libro

di Thurston sulla storia dell’Unione Sovietica degli anni ‘Trenta, quando fu pubblicato dalla Yale University Press nel 1996. Il libro di Thurston era, fino a quel momento, di gran lunga il miglior libro su quel periodo ed è ancora il migliore, perché rifiuta l’istintiva linea anti-comunista e anti-stalinista, e si attacca alle prove, con pochissimi passi falsi. Thurston pubblicò inoltre un eccellente articolo che mostra la disonestà del termine “Grande Terrore” sottolincando come pochissime persone fossero in realtà “terrorizzate”. Questo articolo suscitò una reazione ostile, ma una risposta molto debole da parte di Conquest, a cui ‘Ihurston replicò con l'articolo sulle Prove disgustose citato sopra. Dopo che il libro di Conquest sulla carestia in Ucraina, Harvest of Sorrow (Raccolto di dolore) fu pubblicato negli anni Ottanta, gli esperti

anticomunisti nel campo della storia sovietica lo respinsero universalmente. Potete leggere alcune loro citazioni in questo articolo di Jeff Coplon, /n Search ofa Soviet Holocaust. A 55-year-old Famine Feeds the Right (Alla ricerca di un olocausto sovietico. Una carestia vecchia 55 anni che

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nutre la destra), Village Voice, 12/01/1988. Naturalmente non ci fu nes-

suna “carestia intenzionale”. Al contrario, la collettivizzazione pose fine alle carestie in Russia/Ucraina. In seguito, Conquest ritrattò la sua idea

che Stalin avesse deliberatamente provocato la carestia. Si potrebbe dire che tale ritrattazione accorcia la distanza esistente tra la nostra visione su Stalin e carestia c quella di Robert Conquest, quello stesso Conquest che presto sarebbe stato considerato il campione della tesi secondo la quale

Stalin aveva intenzionalmente provocato la carestia e agito in maniera genocida. Nel 2003, il dottor Conquest ci scrisse spiegando di non nutrire l’idea che “Stalin ha volutamente inflitto la carestia del 1933. No. Quello che sostengo è che in conseguenza dell'imminente carestia, egli avrebbe potuto

impedirla, ma seguì un ‘interesse sovietico’ diverso da quello di nutrire per prima cosa gli affamati - così consapevolmente la favorì”.

Riguardo al libro di Conquest, // Grande Terrore, lo storico Groven Furr ne ha messo in rilievo la scarsa attendibilità scientifica: «Come universitario degli anni 1965-69 mi opponevo alla guerra statunitense in Vietnam. Ad un certo punto qualcuno mi disse che i

comunisti vietnamiti non potevano essere i “407, perché erano tutti “stalinisti”, c che “Stalin aveva ucciso milioni di persone innocenti”. Mi ricordai di questa osservazione. Essa fu probabilmente il motivo per cui nei primi anni Settanta lessi la prima edizione del libro di Robert Conquest // Grande Terrore quando fu pubblicata. Fui molto scosso da quello che avevo letto! Vorrei aggiungere che potevo leggere il russo in quanto studiavo letteratura russa sin dalle scuole superiori. Così, studiai il libro di Conquest con molta attenzione. Pare che nessun altro lo avesse mai fatto! Scoprii che Conquest era scorretto nell’uso delle fonti. Le note non sostenevano

le sue conclusioni

contro Stalin! In sostanza,

aveva usato qualsiasi fonte risultasse ostile a Stalin, a prescindere che

fosse affidabile o meno. Conquest, con l’aiuto dei servizi segreti britannici, prese le menzogne sul periodo di Stalin escogitate sotto Chruséev

e da lui stesso, nc aggiunse altre provenienti da fonti anti-comuniste

occidentali, come Alexander Orlov e Walter Krivitsky, e le ha presentate come “la storia”. IL Grande Terrore di Conquest ha una grande quantità di note, che hanno lo scopo di ingannare il lettore colto ma ingenuo. Ma quelle stesse note mi hanno reso possibile scoprire che Conquest si era avvalso di prove false, senza aver mai dimostrato nessuna delle sue affermazioni anti-comuniste e contro Stalin. Venticinque anni dopo,

quando Gorbatev accolse le menzogne anti-comuniste e contro Stalin di Chrusèev, c le riperé aggiungendone altre di suo, Conquest pubblicò una nuova edizione del Grande Terrore e disse a tutti “avevo ragione”. Ma non aveva “ragione”. Gorbatev stava semplicemente raccontando lo stesso

ripo di menzogne, e spesso esattamente le stesse, sul periodo staliniano 324

che Chrusdev e i suoi avevano riporraro. Conquest ha ricevuto moltissimi riconoscimenti dagli imperialisti uccisori di massa, da Margaret Thatcher a Ronald Reagan, George W. Bush, e non solo. Ha guadagnato la loro lode. Ha anche ottenuto un incarico comodo e ben pagato presso la Hoover Institution. ‘Tali sono le ricompense per raccontare bugie per conto degli anticomunisti. Dobbiamo renderci conto che nessuno così onorato dai principali assassini di massa della storia del mondo potrà mai dire la verità. Quelli di noi che vogliono lottare per un mondo migliore, per un mondo comunista, hanno bisogno di imparare dai successi, così

come dagli errori dell’Unione Sovietica dell’era di Stalin e del movimento comunista mondiale del XX secolo, così che si possa imitare ciò che è

stato fatto bene, evitando gli errori. Quindi, cerchiamo di aumentare il nostro

impegno

in

questo

senso».

13.7. La truffa del “Libro nero del comunismo”

Impossibile non parlare della figura di Stéphane Courtois e del suo discusso Libro nero del comunismo, nel quale afferma che le vittime di tali regimi “illiberali” sarebbero state circa 100 milioni dal 1917 in poi, di cui 65 milioni in Cina, 20 milioni in Unione Sovietica, un milione in Vietnam, due milioni in Corea del Nord,

due milioni in Cambogia, un milione nell'Europa dell'Est, 150 mila in America Latina, un milione 700 mila in Africa e un milione 500 mila in Afghanistan. Secondo Luciano Canfora nell’uso disinvolto

di questo gioco del pallottoliere ogni tanto si fa qualche scivolata, «come è capitato a Robert Conquest (Il costo umano del comunismo)

alle prese con le cifre del Libro nero del comunismo (calate di botto, tra un'edizione e l'altra, da 100 a 80 milioni per poi calare ancora di più ad ogni critica seria)». Canfora mostra la faziosità e la parzialità dell’ope-

ra facendo un paio di esempi: «in quel libro vergognoso sono imputati a Stalin anche i milioni e milioni di vittime sovietiche dell'invasione hitleriana; e a Brenev i morti in Angola dovuti alla guerriglia-CIA provocata dall'Unita di Savimbi, fantoccio manovrato e criminale». Altri importanti studiosi come Domenico Losurdo, Ludo Martens, Giorgio Galli ribadiscono che i “/00 milioni morti del comunismo” furono molti meno di quanti sono solitamente indicati, a differenza di quelli del capitalismo che sono molti di più (contando anche

l'imperialismo e il colonialismo e le derivazioni supererebbero i 200 milioni), e che quindi le cifre gonfiate, al di là di effettivi crimini,

325

sono usate a scopi propagandistici onde screditare in toto il modello socialista (e non una singola esperienza) c qualsiasi modello alternativo al capitalismo, presentato come una via verso il comunismo. Una delle critiche principali riguarda l’aspetto fondamentale del conteggio delle vittime, o l’idea stessa di poter fare storiografia «contando i cadaveri». Secondo ]. Arch Getty, 30 milioni di vittime conteggiate

da Courtois sarebbero dovute alla carestia cinese del 1959 che non fu certo causata solo dalla politica del regime ma anche da altri fattori non secondari (tra cui l'embargo messo in atto dalle potenze occi-

dentali) e che non sarebbe ragionevole paragonare alle vittime dei campi di concentramento nazisti. Noam Chomsky ha osservato che,

se si applicasse il metodo di Courtois alla storia dell’India dal 1765 al 1947, attribuendo l'alta mortalità alla mancanza di adeguate scelte politiche, si dovrebbe concludere che anche la democrazia in India

sarebbe stata responsabile di cento milioni di morti.

Riguardo al Libro Nero ha scritto righe preziose nel 2005 Andrea Cartone: «È davvero singolare c indicativo di un arretramento politico-culturale senza precedenti che gli unici dibattiti pubblici di una certa risonanza siano stati suscitati come risposta alla provocazione editoriale del Libro nero del comunismo che usciva con singolare tempismo a “commemorare” l’otrantesimo anniversario della Rivoluzione d'Ottobre, accusata di essere all'origine di un “totalitarismo comunista” che avrebbe provocato, con la propagazione del comunismo nel mondo, cento milioni di morti, molte

volte di più delle vittime del nazismo. In tal modo, nonostante repliche ce puntualizzazioni che, dati alla mano, ridimensionavano di diversi zero le cifre delle “vittime del comunismo” e invitavano a contesmualizzare gli eventi all’interno di una storia dominata dalla violenza dell’imperialismo, respingendo al mittente la categoria di “totalitarismo” e la conseguente equiparazione di nazismo e comunismo, l'operazione editoriale Libro Nero centrava uno dci suoi obiettivi, che era quello di far arretrare tutto l’asse del discorso dal piano della ricerca e dell'approfondimento delle conoscenze sulle esperienze di transizione al socialismo e sulle cause della loro sconfitta venuta a maturazione nel 1989-91, a quello della difesa della legittimità di quei tentativi. Invece che su “modo di produzione”, “rapporti di proprietà”, “classi sociali”, “socializzazione dei mezzi di produzione”, “pianificazione”, il discorso verte ora su repressioni, violenze, massacri, gulag». Nel 2018, mentre concludiamo quest'opera,

constatiamo

che non

326

il presente primo volume di

sono

stati fatti passi avanti

nel

dibattito pubblico. Speriamo che esso possa contribuire ad invertire

tale rendenza!. 13.8. Il tradimento di George Orwell Nella storia del movimento operaio è facile trovare una doppia tendenza: da un lato un utopismo che ha gridato al tradimento della rivoluzione alla minima deviazione rispetto a quanto previsto dalla teoria; dall’altro la necessità oggettiva di affrontare i problemi posti dal-

la realtà concreta, specie in casi di particolare crisi cui dover far fronte. Ad un certo punto della storia novecentesca, il trockismo si è

pienamente collocato all’interno della tendenza utopistica, ignorando la necessità di una mediazione con le condizioni storiche reali,

messa invece in campo da Stalin e dal gruppo dirigente bolscevico. Nella corrente del trockismo rientra anche lo scrittore George Orwell, che nel 1944, in piena Seconda guerra mondiale, mentre

forze liberal-borghesi e comuniste erano alleate contro il nemico mortale nazifascista, cercava di far pubblicare il suo testo La fattoria

degli animali, una feroce satira dell'URSS e della degenerazione “stalinista” che secondo il punto di vista trockista si era verificata. All’e-

poca, perfino il grande poeta T. S. Eliot rifiutò, a nome della casa editrice per cui lavorava, la pubblicazione dell’opera di Orwell. Secondo Eliot «non siamo convinti che questo sia il punto di vista, [...] la visione

politica espressa, che a mio parere si potrebbe definire trockista, non ci convince». La rivoluzione degli animali contro gli umani, capeggiata dai maiali, porta ad un dominio di questi, che si fa secondo Orwell

tragicamente dittatoriale. Obietta Eliot: «dopotutto, i suoi maiali sono di gran lunga più intelligenti degli altri animali e dunque i meglio qualificati per dirigere la fattoria. In effetti non ci sarebbe nemmeno stata una fattoria senza i maiali». Pare proprio che Eliot abbia colto nel

segno per quel che riguarda l’operare nelle condizioni reali storiche. Dal libro nacque un film. Dietro la versione cinematografica

di Animal Farm, realizzata dalla società cinematografica Halas &

! Fonti usate: L. Canfora, Democrazia. Storia di un'ideologia, cit., p. 428; A. Catone, / comunisti e la storia delle rivoluzioni socialiste del ‘900. Una questione da archiviare?, Resistenze.org, 2 aprile 2005; Wikipedia, // libro nero del comunismo.

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Batchelor, ci fu niente meno che la regia della CIA. Il film, in cui il

maiale Napoleone ha le fattezze di Stalin e in cui si parla di rivoluzione, riunioni segrete, piani quinquennali e cameratismo, voleva essere un formidabile veicolo di propaganda in un periodo storico in cui avevano inizio le schermaglie della Guerra Fredda. La verità sul coin-

volgimento della CIA è rimasto segreto per 20 anni fino a quando, nel 1974, Everette Howard Hunr, che aveva lavorato nell’Agenzia, ne

rivelò la storia nel suo libro Undercover: Memorie di un agente segreto americano. Oltre al finanziamento e alla distribuzione in tutto il mondo, la CIA riuscì ad ottenere un finale del film più consono agli

interessi politici statunitensi come spiega Frances Stonor Saunders: «I problemi del copione furono risolti cambiando il finale. Nel testo

originale, i maiali comunisti e gli uomini capitalisti non si differenziano, facendo entrambi parte della medesima palude di corruzione. Nel film fu accuratamente messa tra parentesi [...] e, alla fine, semplicemente rimossa.

Nella versione originale del libro si legge: “Le creature di fuori spostavano lo sguardo dai maiali agli uomini, e poi dagli uomini ai maiali e di nuovo dai maiali agli uomini, ma senza riuscire a distinguere gli uni dagli altri”. Gli sperratori del film, invece, assistettero a un finale diverso, in cui la vista dei maiali incitava gli altri animali presenti a prendere parte a una controrivoluzione vittoriosa, dando l’assalto alla fattoria. Togliendo dalla scena gli uomini, per lasciare che fossero solo i maiali a godere dei proventi dello sfruttamento, veniva eliminata la fusione tra corruzione comunista e decadenza capitalista»!*.

Occorre infine ricordare il ruolo ricoperto da Orwell nel periodo in questione. È lui stesso a rivendicare la sua militanza anti-

comunista e antisovietica. Nel 1946 scrive: «ogni riga di ogni lavoro serio che ho scritto dal 1936 a questa parte è stata scritta, direttamente

o indirettamente, contro il totalitarismo e a favore del socialismo democratico, per come lo vedo io». È noto come anche /984 venne scritto nell'ottica di screditare l’URSS. Meno

noto, nonostante sia ormai

accertato, è invece il ruolo di Orwell come collaboratore attivo della

CIA, in particolare attraverso l’intellettuale agente Arthur Koestler, con cui scherzava calcolando il grado di tradimento che avrebbero potuto raggiungere le «bestie nere preferite» della sua lista di denunce. Nel suo meticoloso diario, Orwell compilò i nomi dei trentacinque

persone, nel 1949, ma il numero rapidamente si gonfiò in quello

!#E Stonor Saunders, Gli intellettuali e la CIA, cit., pp. 263-264.

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stesso anno, fino a giungere a 125 sospetti simpatizzanti del comunismo o direttamente collaboratori con esso. Si trattava di intellettuali, scrittori, artisti, sportivi, musicisti di primo piano, che non a caso vennero poi perseguitati per le loro idee. Chi c’era in questa lista? E

perché? Figurava Stephen Spender per la sua «propensione all'omosessualità»; C'era John Steinbeck, inserito per essere uno «scrittore falso, pseudonaifo; George Pandmore (pseudonimo di Malcolm Nurse) in quanto «zero (forse di] origini africane? e che era «contro i bianchi»; Tom Driberg perché «omosessuale», «si dice sia un clandestino» e «giudeo inglese». L'ingombrante lista fu consegnata da Orwell stesso, volontariamente, al Dipartimento di Ricerca d'Informazione (IRD),

organismo semi-segreto del Foreign Office britannico. Orwell non fu in grado di fare altri danni semplicemente perché morì un anno

dopo, il 21 gennaio 1950. Alcuni mesi prima di morire aveva detto, reinterpretando Voltaire: «Detesto quello che dici; difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo; ma non in tutte le circostanze». Ha scritto

Frances Stonor Saunders: «commentando quello che riteneva uno spostamento a destra di Orwell, Mary McCarthy osservò che il fatto che fosse morto tanto giovane fu una benedizione»!?.

13.9. La stroncatura di Togliatti di “1984” «Palmiro Togliatti liquidava George Orwell con un epiteto sprezzante: “Poliziotto coloniale”. Italo Calvino, esponente di un'editoria che boicortò fino alla fine la pubblicazione di 7984 criticava il liberale e democratico Geno Pampaloni perché dava retta a George Orwell, dimostrando così di non essersi “premuzito” dall’infezione di uno dei mali più tristi della nostra cpoca: l'anticomunismo». (Pierluigi Battista)?

!° Fonti usate: K. Gossweiler, Contro il revisionismo. Da Chrusteva Gorbatev: saggi,

diari e documenti, Zambon, Francoforte sul Meno-Verona, 2009, pp. 33-34; A. Usardi, La Fattoria degli Animali. La CIA e la Propaganda, Maremagnum.com, 21 gennaio 2016; J. A. Hermandez, La lista di Orwell, Cubainformazione.it, 29 agosto 2016; T. Garton Ash, La lista nera di Orwell, La Repubblica (web), 22 giugno 2003; G, Meotti,

Ecco perché ho scritto 1984, Il Foglio (web), 26 agosto 2013; F. Colantoni, Il rifiuto di T.S. Eliot a "La fattoria degli animali": resa pubblica la lettera a Orwell, 27 maggio 2016; E. Stonor Saunders, Gli intellettuali e la CIA, cit., pp. 262-269; Wikipedia, George Orwell. 2 P._ Battista, eradosso Orwell, feticcio della sinistra, Corriere della Sera (web), 29 gennaio 2017.

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Di seguito un articolo”, uscito sulla rivista ideologica del PCI nel 1950, di rara potenza ideologica: Henno perduto la speranza. In questo scritto Palmiro Togliatti sotto lo pseudenimo di Roderigo di

Castiglia, svela la natura di classe dell’opera letteraria di Orwell e demolisce uno dei maggiori miti alimentati dal capitalismo, una vera e propria leggenda viva ancora oggi. Ciò fa sì che lo scritto di Togliatti,

di cui si propone lettura integrale, oltre a costituire un esempio di critica letteraria marxista, conservi gran parte della sua attualità. «Con la pubblicazione di questo racconto dell’inglese George Orwell, che si intitola /984, la cultura borghese, capitalistica e anticomunistica, dei nostri giorni, ha aggiunto al proprio arco sgangherato un’altra freccia: un romanzo d’avvenire. Il romanzo d'avvenire! Il semplice richiamo a questo genere letterario è pieno di fascino per chi sa quanta c quale parte esso ha avuto nella marcia degli uomini verso una migliore comprensione del loro

destino, verso una più grande padronanza di sé stessi, delle proprie forze e di quelle della natura. Si chiude il mondo antico con la immagine della Repubblica ideale, evocata dalle menti più elette; si apre il mondo moderno

con le Città del Sole, con le Utopie, con le Atlantidi, con le Occane, con le Città felici, con le Repubbliche immaginarie, costruite dai più audaci tra i sognatori, dai più conseguenti tra i ragionatori. Il Settecento riprende il

motivo, lo giustifica in sede di filosofia, lo estende, deduce secondo ragione un ideale regno della natura, introduce e fa muovere sulla scena del tempo

personaggi nuovi: il ciradino di un mondo sconosciuto che, seguendo principi di natura e di ragione, critica, schernisce, distrugge le incongruenze della realtà e della storia; il selvaggio buono, che ha nella mente e nel cuore uno specchio di razionalità. La gente saggia, ch'è venuta poi, dice ch’erano tutte ingenuità e fantasie non giustificate. È in gran parte vero; ma

sotto quelle ingenuità e quelle fantasie si avvertono due cose grandi, che sono state molle potenti del progresso umano: da un lato l’audacia di un pensiero che scopre le flagranti ingiustizie della società esistente e lo slancio di un sentimento che ad esse non si acqueta; dall’altro lato la fiducia spesso

senza limiti nella ragione umana, e la certezza, quindi, che le ingiustizie presenti saranno riparate e corrette, e un mondo migliore sarà costruito,

dagli uomini stessi, c potrà csistere, e in esso vi sarà benessere, felicità, gioia, per il maggior numero possibile di umani. Altra cosa è il romanzo d’avvenire della borghesia dei nostri giorni, capitalistica e anticomunista, convinta oramai, in sostanza, che la propria fine è possibile e vicina, e decisa, perciò, alle ultime difese. Che alcuni dei

2 R. Di Castiglia (pseudonimo di P. Togliatti), Harzo perduto la speranza, Rinascita, anno VI, n. 11-12, novembre-dicembre 1950.

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suoi uomini, o degli uomini di cultura che si conformano al costume della casta dirigente e la servono, — letterati, artisti, filosofi — possano avvertire le flagranti ingiustizie del mondo contemporanco e metterle in luce, parlare dei ricchi e dei poveri, dire che quelli son uracotanti e questi son disperati, che i quartieri operai d'una grande città sono un inferno e che è una dannazione la esistenza dci lavoratori nelle grandi fabbriche, nelle colonie, negli ergastoli dove si creano ricchezze e fasto per una casta di privilegiati, — sì, questo potrebbe ancora, entro certi limiti, venir tollerato. Sia ben chiaro, però, che se si insiste troppo questa non è più arte, è attività politica, è lavoro dell’’agitprop”. La realtà bisogna che l'artista la sappia trasfigurare, perbacco; infonderle un soffio di “cricità”; vederla nella coscienza del sin-

golo, dove si possono far diventare grigi tutti i gatti, e l'atto di chi si merte il pigiama per andare al cesso può sprigionare, attraverso il crogiuolo delle parole, altrettanta emozione dello spirito quanto il fatto del bambino che è morto di fame perché il padre e la madre non hanno lavoro. Se vi tenta la descrizione dei fatti, ebbene, descrivete; ma non vi tenti Victor Hugo o Emilio Zola, non date giudizi, non li suggerite. La società non è il vostro tema. Se mai il male sociale vi colpisca e vi soffochi, evadere, evadete: quante cose non si possono scoprire al di sopra della realtà! E non vi seduca nessuna indagine da cui possa scaturire il richiamo a un'azione liberatrice, soprattutto! Non evacate il demonio che è all'agguato! Le radici del male stanno in ciascuno di noi, perché siamo tutti egualmente peccatori, e se anche non abbiamo proprio colpa per aver individualmente peccato, c'è il peccato originale, che spicga tutto, che dà egual senso metafisico all’azione di chi nega la mercede e a quella di chi deve lottare per ottenerla. Come si può prevedere, giunti a questo punto, o costruire, o sogna-

re un avvenire diverso, una diversa società, la fine per il genere umano delle ingiustizie, delle sofferenze inutili, delle miserie, della guerra, di tutte le altre cose mostruose del giorno d'oggi? Non soltanto questo non si può fare, ma occorre fornire la dimostrazione precisa, scientifica vorremmo dire, che qualsiasi sforzo generale e vasto si compia dall’umanità, o dalla parte più avanzata e cosciente degli uomini, per uscire dalle contraddizioni e dalle angosce del presente, gettar le fondamenta di una società nuova e ben ordinata, e costruire questa società, non può condurre ad altro che a un disastro, alla umiliazione della ragione umana, al suo

annientamento e all’annientamento di tutto ciò che per gli uomini ha sempre avuto e sempre avrà un valore: la libertà, la dignità personale, la passione per il vero, per il bello, per il giusto. Così siamo giunti a George Orwell e al suo scritto. Siamo giunti cioè ancora una volta al romanzo di avvenire, ma a un romanzo di avvenire che è precisamente l'opposto di quelli che furono pensati e scritti nei sccoli trascorsi, nell'antichità, nel

Rinascimento, ai tempi dell’illuminismo, del primo socialismo. Quelli erano la parola — o il sogno, se volete — di un mondo in cui regnava, o rinasceva, dopo secoli di oscurità, la fiducia nell'uomo, la fede nella ragione

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umana. Erano espressione fantastica di una grande e giustificata speranza. Questo è la parola di chi ha perduto qualsiasi speranza, di chi è intento a spegnerla là dove ne sia rimasta traccia alcuna. È il punto di arrivo della sfiducia nella ragione degli uomini e nelle sorti stesse del genere umano. A dire il vero, qui saltano fuori anche i difetti del libro dell'Orwell.

Egli presenta, sì, il quadro di un futuro catastrofico per l'umanità, ma quando cerca di dare una giustificazione della catastrofe, — c una giustificazione deve darla, altrimenti non si capisce come gli uomini siano potuti

arrivare al punto ch'egli descrive, — rivela una totale assenza di fantasia, si riduce a ripetere i più banali argomenti della più vecchia delle polemiche contro il socialismo. La tesi è che non è possibile creare e mantenere la uguaglianza, perché, fatti i primi passi in questa direzione, si ricostituisce un gruppo dirigente e questo, non volendo abbandonare il potere, man-

tiene la grande massa degli uomini lontana dalla ricchezza. Se non facesse così, i suoi privilegi, — asserisce l'Orwell, — andrebbero perduti. Il potere, poi, per essere mantenuto,

richiede la organizzazione gerarchica di un

ceto dirigente, ed in questa organizzazione gerarchica quegli uomini che ne fanno parte perdono ogni personalità, libertà, dignità, sono sottomessi alla volontà rirannica di un capo o di un gruppo di capi supremi, che li riducono a essere semplici strumenti passivi e inconsapevoli di qualsiasi abiezione. Al di sotto della gerarchia dirigente, la grande maggioranza

degli uomini vive nell’abbrutimento e nella miseria, c per impedire che i beni ch’essa produce in grande quantità servano a elevarne le condizioni, gli stessi beni sono sistematicamente distrutti in una guerra ininterrotta, nella quale si affrontano i tre grandi Stati in cui è divisa la terra, senza che alcuno di essi mai vinca, però, e senza che le gerarchie dirigenti nemmeno desiderino la vittoria, poiché questa potrebbe porre fine al loro potere. Il tutto, come si vede, è primitivo, infantile, logicamente non giustificato, oppure giustificato soltanto dal richiamo, come dicevamo, a una di quelle “massime eterne” con le quali gesuiti e liberisti credono di avere risposto efficacemente a chi rivendica maggiore giustizia sociale (che la diseguaglianza

non si sopprime; che i potenti e i servitori dei potenti e i poverctri ci son sempre stati e ci saranno sempre; che lo sforzo per dominare il mondo economico e dirigerlo si conclude con la fine della libertà). Questo è il primo motivo del relativo successo del libro, che una rivista di sedicenti liberali ha pubblicato in appendice, che raccomandano i preti e Benedetto Croce (il quale, però, forse non l’ha letto tutto con attenzione, come vedremo).

L'altro motivo è che l’autore, quando deve descrivere lo stato di catastrofica abiezione cui è ridotta la umanità per il tentativo fatto dagli uomini di creare un mondo ove regnino l'eguaglianza e la giustizia, accanto ad alcune note che chiameremo di varietà, accumula con la maggior diligenza tutte le più sceme fra le calunnie che la corrente propaganda anticomunista scaglia contro i Paesi socialisti. Nota di varietà, per

esempio, è il divieto ch'è fatto ai membri di sesso diverso della gerarchia 332

dirigente di amarsi e congiungersi con amore. La giustificazione anche qui manca, ma la cosa serve a introdurre alcune scene erotiche e qualche parolaccia, secondo la formula corrente dei libri che si vendono. Per il resto, la gerarchia dirigente si chiama “partito”; vi sono anzi due “partiti”, uno che dirige l’altro; nel “partito” vi sono continue epurazioni, persecuzioni, soppressioni; si sopprimono, anzi, tutti coloro che han contribuito a far la rivoluzione e se ne ricordano, e regna il terrore davanti ai dirigenri, potenti ma sconosciuri. Nel “partito” si insegna a commettere, per il “partito”, le azioni più stolte, a mentire, a negare la evidenza dei fatti, ad affermare che due più due fanno cinque e non quattro, e così via, fino a che dell’uomo intelligente non resta più nulla. Il capo del “partito”, infine, ha i baffi neri, e il suo nemico mortale la barbetta a punta. C'è turro, come si vede; ci sono principalmente tutte le bassezze e le volgarità che l’anticomunismo vorrebbe far entrare nella convinzione degli uomini. Mancano solo, ci pare, i campi di concentramento, perché per sventura sua l’autore è scomparso prima che questa campagna venisse lanciata. Altrimenti ci sarebbe, senza dubbio, un capitolo in più. Ma il potere della casta che governa questo mondo mostruoso su che cosa si regge, in sostanza? Perché ubbidisce al gruppo più elevato la gerarchia intermedia; che cosa tiene assieme questo “partito” di sciagurati e di cretini; quale forza 0 quale metodo consente a chi sta in alto di ridurre chi

sta in basso alla condizione che abbiamo veduto? Confessiamo che arrivati a questo punto aspettavamo qualcosa di notevole, di impressionante, perché solo qualcosa di simile, cioè un assieme di mezzi misteriosi e potenti

potrebbe spiegare il risultato catastrofico che l’autore ci vuol presentare. Ahimè! a questo punto si scopre invece proprio soltanto l’autore, nella meschinità e abiezione che a lui stesso sono proprie. Eccolo, l’autore, secondo le indicazioni biografiche fornite non da noi, ma dall'editore stesso, non sappiamo se a titolo di raccomandazione: — la sua carriera si apre nella polizia imperiale inglese della Birmania, di cui è funzionario per sette anni;

poi lo si incontra in altre colonie e in qualche centro di vita internazionale; scoppia la guerra di Spagna, ed eccolo in Catalogna, il funzionario della polizia inglese e, naturalmente, tra le file degli anarchici. Quali mezzi misteriosi e potenti per estendere il proprio dominio sugli uomini poteva inventare un simile tipo? E non ha inventato nulla, difatti. Il mezzo ch'egli conosce è uno solo, quello che si adopera contro gl’indigeni in Birmania

e altrove, le botte, il calcio negli stinchi, la mazzata nel gomito, la tortura con la corrente elettrica, c poi lo spionaggio, s'intende, ch'è sempre il ca-

vallo di battaglia. E così il racconto chiude con cento pagine di percosse e la minaccia di un supplizio coi topi, copiato, se non erriamo, da Octave Mirbeau, e con stupore ti accorgi che su niente altro che sulle percosse dovrebbe reggere la costruzione intera. Doveva aver davvero una grande esperienza di bastonature c torture, questo poliziotto coloniale, per giungere a porre la fiducia nelle

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torture e nelle bastonature più in alto che la fiducia nella ragione umana. Questa è la sola parola che seriamente e alla fine esce dal suo libro. Bisogna picchiare gli uomini, per espellere dal cuore e dalla mente loro la passione per la libertà, la giustizia, l'eguaglianza; la passione per la generosa utopia. Picchiateli, torturateli, riducereli un mucchio d’ossa e di carni sanguinolente; allora sarete sicuri di mantenere su di cssi all'infinito il vostro potere. Allora non avrete più da temere nulla per la tranquillità

della casta dirigente. Non è l’ultima saggezza, questa, della classe che con la bandiera dell’anticomunismo pretende il dominio sul mondo intiero e crede davvero, con le botte, di fermare il corso della storia? Ma le botte servono davvero a troppe cose, nel libro di George Orwell. Vedete che cosa succede a pagina 263. Siamo a un momento culminante della tor-

tura. La vittima è già sfinita, impotente. Ma le botre fioccano ancora c s'accresce il tormento; il poliziotto torturatore ha infatti altre pretese. È una convinzione filosofica, quella ch'egli esige. “7 credi — dice — che la realtà sia qualcosa di oggettivo, di esterno, che esiste per proprio conto”. Pazzia! Bisogna credere che la realtà non è esterna, che esiste solo nella mente degli uomini... Potenza delle percosse! Persino l’idealismo filosofico vicne accettato, dalla povera vittima, senza convinzione, s intende, ma per farla finita. Avrà letto anche questa pagina, Benedetto Croce, prima di lanciare il libro così come ha fatto? Speriamo, ad ogni modo, che almeno

per l’idealismo filosofico si voglia fare eccezione, onde noi possiamo continuare, senza correre il rischio del terzo grado, ad aver fiducia nella ragione umana, ad essere e dirci materialisti, a coltivare le nostre speranze».

È forse stato troppo duro Togliatti? A leggere quanto segue probabilmente no: «La visione da incubo del futuro offerta da Orwell in 1984 interessava gli strateghi della cultura per vari aspetti. La CIA e i funzionari del PSB (per i quali il libro cra una lettura obbligata) si appigliavano alla sua analisi dei pericoli del totalitarismo, ignorando il fatto che Orwell

attaccava gli abusi compiuti da tutti gli Stati, sia di destra che di sinistra, che esercitano uno stretto controllo sui loro cittadini. Benché i suoi obiettivi fossero complessi, il messaggio globale del libro era chiaro: era una protesta contro tutte le falsità, contro tutti i trucchi impiegati dai governi. Gli uomini della propaganda del governo americano non tardarono a considerarlo semplicemente un trattato anticomunista, tanto

che un critico disse: “Qualsiasi cosa Orwell credesse di fare, ha fornito alla guerra fredda uno dei suoi miti più potenti [.../. Negli anni Cinquanta, la NATO utilizzò il suo stesso gergo” »°*.

2: E Stonor Saunders, Gt intellettuali e la CIA, cit., p. 264.

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13.10. Solzenicyn: un arcipelago di menzogne «Che infine la dittatura totalitaria altro non sia che la forma compiuta di ogni dittatura è la convinzione che anima le più recenti analisi dedicate al totalitarismo da coloro che i giornalisti han chiamato nuovi filosofi, per i quali ormai il totalitarismo è esclusivamente il comunismo sovictico. ‘Ira essi citiamo Alain Glucksmann, i cui libri sono tra i più claborato e tra i più rappresentativi. Per lui il potere sovietico ha un

bel proclamare il suo attaccamento ai più alti ideali esistenti: esso resta essenzialmente potere, nudo potere, totalitarismo allo stato puro che si esprime o si riassume nel gulag descritto da SolZenicyn, dietro il quale si cela la realtà della società sovietica nel suo complesso. Se il comunismo ha generato i gulag è perché il marxismo si è fatto complice della tirannia». (Claude Polin, 1982)?

Non poteva essere omesso, a questo punto, un approfondimento sullo scrittore antisovietico più famoso della Storia, la cui opera principale è diventata un punto di riferimento non solo all’interno degli ambienti della borghesia, ben consci della faziosità del libro, ma

purtroppo anche tra i settori progressisti che, anche sulla spinta di tali opere nel mercato editoriale da parte dalla CIA, accoglievano a

questo punto a braccia aperte le idee della Arendt sulla realtà totali-

taria e dispotica del regime sovietico. Lasciamo la parola ad un'analisi completa realizzata da Luca Baldelli?4: «Aleksandr Isaevic Solzenicyn. Su di lui sono stati sprecati fiumi d'inchiostro, che da 60 anni hanno alimentato e riempito, in occidente, i bacini lacustri della più sfrenata propaganda contro l'URSS. Solzenicyn è assurto a vate indiscutibile ed insindacabile, ad ineffabile autorità in sede storica e storiografica, a mito, a totemica entità la cui analisi e critica equivale ad un tabù inviolabile [...]. Si è sempre sostenuto, e lo si afferma

con la ritualità del mantra, che il monumentale Arcipelago Gulag sarebbe uno spaccato di estremo, brutale verismo sulla realtà concentrazionaria sovietica; stessa cosa per /adiglione cancro. Si pretende, poi, che Una gior-

nata di Ivan Denisovié sia il ritratto fedele, quasi fotografico, del recluso tipo. Si assicura che la sorte di Matriona è stata quella della stragrande

maggioranza delle donne sovietiche, con relative famiglie, nel malvagio e

2 C. Polin, // totalitarismo, cit., p. 40.

*L. Baldelli, Sol/Zenicyn ai raggi X. Anatomia di un mito anticomunista, Noicomunisti.blogspot.com, 1 settembre 2016.

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anzi demoniaco ordinamento economico kolchoziano dell'URSS. Si certifica infine, con il timbro scolorito ma pervicacemente imbrattante della

greuelpropaganda antistaliniana, che Stalin ha avuto sulla coscienza ben 60 ruilioni di cittadini, repressi e fatti fuori in vari modi. Sempre perché a dirlo è stato Solzenicyn, e se lo dice lui... Guai a dubitare! Innanzitutto,

per comprendere l’opera di un autore è bene dare un'occhiata alla sua biografia: essa, lungi dal rappresentare un inutile orpello, una digressione

da lasciare al capitolo varie ed eventualità, rappresenta l'ossatura di una visione del mondo, di un modo di agire e di rapportarsi alla realtà. Chi è, dunque, Aleksandr Isaeviè Solzenicyn? Nasce a Kislovodsk,

nel Caucaso del Nord, 11 dicembre 1918, mentre infuria la guerra civile scatenata dai bianchi reazionari, con l'appoggio attivo delle potenze imperialiste mondiali. Il padre, Isakij, giovane ufficiale dell’esercito, è la prima pedina della disinformazione orchestrata da SolZenicyn in prima persona, e dalle centrali antisovietiche: infatti, non è il povero, umile maestro schiaffato dinanzi la pubblica opinione mondiale da un figlio sempre pronto a vestire abusivamente gli improbabili panni del povero, ma il rampollo di una facoltosa famiglia, con a capo un ricco proprietario terriero. A smascherare la bugia delle “umili origini” non saranno né la TASS, né la Novosti, né la Pravda o altri organi ufficiali del PCUS e del Governo sovietico, ma la borghesissima rivista amburghese Stern

nel 1971. Nel 1917, leggiamo nel numero dell’insospettabile rivista, Isakij SolZenicyn sposa Taisia Scherbak, a sua volta figlia di un ricco possidente, Zachar Scherbak, padrone di vaste estensioni di terreno nel Kuban, selvaggia e affascinante landa cosacca. ‘Taisia cresce in una villa principesca, del tutto simile ad un antico maniero e convola a nozze, come abbiamo visto, con un uomo dello stesso rango sociale. Quando è già incinta di Aleksandr, il futuro scrittore, Isakij muore: ufficialmente, si parlerà sempre di un incidente di caccia, ma non poche voci insinuceranno, con insistenza, la tesi del suicidio. Il quadretto familiare, però, non è completo: Isakij è infatti figlio di Semjon Efimoviè Solzenicyn,

che con i suoi cinque figli (quattro maschi c una femmina) amministra una tenuta di circa 200 ettari, con capi di bestiame in abbondanza, ed è pure influente membro del consiglio di amministrazione della Banca di

Rostov. Insomma, una stirpe che naviga nell’oro e fa il bello e il cattivo tempo, non solo soggiogando i contadini al più bieco sfruttamento, ma controllando anche i decisivi rubinetti del credito, grazie ai quali può agevolmente eliminare concorrenti scomodi e pretenziosi. Aleksandr Isaevié SolZenicyn, il personaggio al centro della nostra disamina, nasce, come abbiamo visto, nel 1918, nella casa della

zia Irina, moglic di Roman Scherbak, fratello della madre ‘Taisia. Sarà proprio Irina a rivelare la vera storia dei Solzenicyn alla Stern. Roman,

grazie anche alla dote della moglie, che rimpingua ulteriormente i suoi non certo trascurabili averi, conduce una vita da nababbo, compiendo

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frequenti viaggi all’estero c acquistando automobili di lusso: negli anni antecedenti alla Prima guerra mondiale è proprietario di una delle nove Rolls Royce immatricolate in Russia. Con la vittoria della Rivoluzione d'Ottobre, per la famiglia Soltenicyn il vento cambia: il popolo, sfruttato e angariato da secoli di dominazione, presenta il conto a lor signori! Le immense ricchezze, guadagnate sul sudore e sul sangue di tanti figli della

terra, vengono confiscate e redistribuite tra chi non aveva mai avuto nulla, nemmeno un pezzo di terra dove piantare la cipolla per la zuppa. Più tardi, negli anni "30, su quelle immense estensioni sorgerà il Kolkhoz

“Kirov”. Qui, tra l’altro, almeno fino agli anni ‘70 lavorerà Ksenia Vasiljev’na Zagorina, cugina di Solzenicyn. Torniamo però, dopo questa breve digressione, ai primi anni del

potere sovietico. Taisia, madre vedova, davanti alla sorte avversa si trasferisce a Rostov sul Don, dove trova subito impiego come dattilografa e stenograta. Il potere sovietico, intransigente verso gli sfruttatori c i prepo-

tenti, ma giusto e umano come nessun'altro, non nega un onesto lavoro ad alcuno, nemmeno ai rampolli della più avida borghesia spodestata, i quali invece il lavoro, c finanche la sopravvivenza, li avevano negati a generazioni intere. Bisogna poi sottolineare che, se da un lato le proprietà terriere della famiglia Solzenicyn c dei parenti vengono confiscate, la stessa sorte non subiscono gli averi accumulati in anni c anni, specie tesori,

gioielli c denaro. Certi pingui forzieri nessuno va a scovarli, anche perché i

provvedimenti varati nel corso degli anni dall’“illiberale” potere sovietico, fino alla Costituzione del 1936, tutelano in maniera rigida l’inviolabilità del domicilio. Il piccolo Aleksandr cresce con la passione per la lettura, ma anche con l'ostilità larvata verso ogni ordinamento teso a cancellare le differenze sociali: questo è il retaggio familiare, insopprimibile, che ne influenza il carattere. Mentre altre famiglie già ritolari di cospicue ricchezze si adattano al nuovo sistema sovietico, e anzi i loro membri si costruiscono nuove carriere, circondati dalla stima e dall’apprezzamento

di tutti, i SolZenicyn, almeno in parte, si mostrano recalcitranti e quasi attendono, con messianica tensione, il momento di un rivolgimento che

restauri la situazione passara, il “bengodi” perduto. È in questo milieu che si formano il pensiero e la visione del mondo del futuro scrittore. Adolescente, si rifiuta di entrare a far parte dci Pionieri e va regolarmente in Chicsa: la prarica religiosa; del resto, non è affatto proibita e, negli anni

"30 sarà semmai la propaganda atcista a venire ostacolata, sotto la guida saggia ed equilibrata del compagno Stalin, anche per gli eccessi compiuti da trockijsti ed elementi estremisti negli anni precedenti. L'atteggiamento di Aleksandr Solzenicyn non gli preclude alcun riconoscimento e tantomeno alcun diritto: a dispetto delle origini borghesi, condizione questa, secondo la falsa propaganda anticomunista e antisovietica, che gli impedirebbe gli studi e l'avanzamento professionale, Solzenicyn, dopo brillanti studi superiori, accede senza problema all’Università statale di Rostov.

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Nell’URSS si tiene conto unicamente del merito, delle capacità e dei risultati acquisiti nello studio e nel lavoro, non della discendenza familiare o delle raccomandazioni, come avviene nel mondo capitalista,

dove gli avvocati sono figli di avvocati, i notati figli di notai c i farmacisti figli di farmacisti. Non solo: alla faccia della pretesa (sempre della propaganda anticomunista) pianificazione vincolata e vincolante delle scelte

dei singoli riguardo a Facoltà e indirizzi, Soltenicyn sceglie, malgrado i consigli e le aspettative di insegnanti e amici, la Facoltà di Fisica e Matematica, anziché un indirizzo umanistico—letterario. “Mi sono orientato, dirà, verso queste materie non tanto per vocazione, quanto per la presenza

di insegnanti assai preparati e stimolanti”. Dalla viva voce di un acerrimo anticomunista, quindi, veniamo a sapere che la libertà di scelta era, nella “tremenda” URSS staliniana, popolata di trinariciuti elfi e bestiali crea-

ture mortifere, assolutamente sancita c rispettata e che l'insegnamento era tutto fuorché piatto, noioso, ideologico come qualche corifeo della borghesia ha ripetuto per anni e ancora oggi pretende di far credere. Alla

faccia del lignaggio borghese, dei latifondi dove non tramontava mai il sole, del persistente atteggiamento di ostilità verso il governo sovietico, malgrado l'iscrizione al Komsomol, atto puramente formale, non seguito da alcun tipo di impegno, Solzenicyn viene premiato più volte: studia con profitto, applicazione e costanza e arriva a conseguire la Borsa di Studio “Stalin”, la più elevata per ammontare nel generosissimo, anzi ineguagliato, sistema sovietico di sostegno alla promozione dell'istruzio-

ne. Nel 1941, Aleksandr si laurea a pieni voti. Non condivide la sorte di tanti laureati disoccupati nell'odierno sistema capitalista, bensì ottiene immediatamente

un posto di ricercatore di II livello e lettore (figura

intermedia, quest'ultima, tra il docente c l’assistente). Poco dopo, gli organi di Facoltà lo raccomandano per altri incarichi. Non è tutto: nel ‘39 SolZenicyn ha pure cominciato gli studi presso l’Istituto di Filosofia, Letteratura e Storia di Mosca, con la modalità della formazione a distanza. E sì, in quel preteso inferno chiamato convenzionalmente URSS, anche chi non può seguire direttamente più corsi, per ovvi motivi legati alla mancanza di divina ubiquirà, può farlo con la mediazione dell'istruzione per corrispondenza. Avendo il futuro assicurato e la protezione accordata dalla culla alla tomba, grazie al sistema

sovietico, Solzenicyn, non ancora conseguita la laurea, si sposa nel 1940 con Natalja Resetovskaja, dalla quale più tardi divorzierà. Può permetterselo, diversamente da tanti suoi coetanci dimoranti nel “mondo libero” e sotto lo stivale delle dittature fasciste. Al momento dell’invasione nazista dell'URSS, incoraggiata da tutti i circoli imperialisti, c non voluta soltanto da Hirler, Solàenicyn viene arruolato nell’Armata Rossa. Anche in questo caso, il sistema sovietico non solo non lo punisce e non lo ghettizza per il suo albero genealogico, da lui nascosto ma ad altri ben noto, bensì lo premia: distintosi sul campo, viene decorato e promosso fino al

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grado di Capitano. La riconoscenza è il suo forte, pertanto ricompensa il governo sovietico che l’ha innalzato su un palmo di mano con l'avvio di un'attività mirata al rovesciamento del socialismo! Un'attività eversiva che, scoperta in rempo dagli organi inquirenti, gli procura, ovviamente, non un premio, ma l'arresto e la condanna ad 8 anni per propaganda antisovietica (Art. 58, Comma

10 del Codice Penale) e l’organizzazione

di un gruppo antisovietico (Art. 58, Comma 11 del Codice Penale). Di certo, visti gli apprezzamenti espressi nelle sue opere e nei suoi interventi per i collaborazionisti guidati da Vlasov, generale traditore dell’Armata Rossa, c'è da ritenere, ragionevolmente, che quelle accuse fossero in

gran parte vere! Ciò che più dà la misura del personaggio, però, anche in questa circostanza, è il contegno tenuto nel contesto dell’interrogatorio e del processo: Solzenicyn, al quale peraltro nessuno torce un capello malgrado la sua narrazione bugiarda, coinvolge nelle sue trame anche gente

del tutto innocente, che infatti, a riprova di quanto il sistema giudiziario sovietico sia onesto e scrupoloso, specie nel vagliare prove e dichiarazioni, non verranno mai arrestate e non conosceranno la sorte dello scrittore. Nei verbali dci suoi interrogatori, ripercorsi dall'amico Nikolaj Vitkeviî, anche lui condannato per propaganda antisovietica, in una lettera a Novosti del 1974, il futuro scrittore tira in ballo persino sua moglie, Natalja Resetovskaja, gli amici Kirill Simonjan, Lidia Ezherets (consorte di Simonjan) ecc... Confessioni estorte? Vitkevié, che non ne

aveva fatte di simili all’NKVI), anzi aveva negato tutto, evidentemente non fu obbligato con la forza a rilasciare una testimonianza compiacente verso l'accusa, ma l’esclude. “// giorno în cui, liberato, vidi i protocolli dell'interrogatorio di SolZenicyn, scrive Vitkevié nella citata lettera, fu il più raccapricciante della mia vita. Questi protocolli dicevano di me cose che non mi ero neppure sognato”. Solzenicyn, per apparire “bello” ai giudici, coinvolge altre persone del tutto innocenti nelle sue trame, all'insegna di “muoia Sansone con tutti i filistei”, assolutamente riprovevole. Più tardi, nel libro La quercia e il vitello, a metà tra l’autobiografico e lo storico, darà prova della consueta attitudine alla manipolazione delle altrui idee

c frasi: infatti, qualificherà le dichiarazioni del suo vecchio amico come una sorta di manovra del KGB e un espediente per non perdere i vantaggi della carriera, quando Vitkeviè era uno scienziato stimato da tutti, scevro

da ogni problema di “accreditamento” presso questo o quel centro di potere. SolzZenicyn sosterrà anche che Vitkeviè, prima di quella lettera a Novosti, non aveva più parlato con lui da anni, anche solo per contestargli un comportamento rinfacciato poi nello scritto. Ciò a causa di una

sorta di senso di colpa. Falso! Vitkevié (condannato a 10 anni contro gli 8 di Solzenicyn alla faccia della contiguità al “sistema”!), nella lettera

a Novosti dice ben altro, tratteggiando alla perfezione la personalità di

Solzenicyn. Ecco le sue precise parole: “Quando m'incontrai di nuovo con Solzenicyn, non gliene parlai mai (dei fatti inerenti la carcerazione, ndr). Il

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nostro ultimo incontro ebbe luogo a Rjazan, ove insegnavo in un istituto di medicina, nel 1964. Conoscendo il mio amico ero certo che si sarebbe considerato dalla parte della ragione ed avrebbe detto che era suo compito precipuo salvare per la Russia quel grande scrittore che era”. Altro che malafede di Vitkevié! Semplicemente costui non voleva perder tempo a pestare acqua nel mortaio della presunzione del “gulagologo”. Altra grande falsità riferita a Vitkeviè e messa nero su bianco da Solàcnicyn: nella famosa lettera a Novosti, che si può leggere integralmente tra l’altro nell’agile ed

utilissimo libro Risposta a Solzenicyn — L'Arcipelago della menzogna edito nel 1974 da Napoleone, con la collaborazione in primis della Novosti, Vitkevié avrebbe detto che nel 1945 l'istruttoria fu condotta in modo irreprensibile dal giudice: a parte il fatto che un giudizio simile sarebbe

stato tutt'altro che fuori luogo, faccio notare che Vitkeviè, in tutto il testo, non riporta assolutamente questo concetto. Anzi, afferma l'esatto contrario rispetto alla dinamica del pronunciamento della sua condan-

na: “Ebbi l'impressione d'essere stato trattato con ingiustificata severità, ma ritenni che ciò fosse dovuto al fatto che ero stato processato al fronte ed al rigore del periodo bellico”. Ad ogni modo, tornando strettamente alla biografia di Solzenicyn, le cose per lui non vanno affatto male sotto la grande stella rossa sovic-

tica. Scontata la pena, il 13 febbraio 1953, il “nostro” viene liberato e si stabilisce, per volontà delle autorità in Kazakhstan: dietro di lui si

chiudono, per sempre, le porte del campo correttivo, quel Gulag che non solo non l’ha ucciso, ma lo renderà, una ventina di anni dopo, ricco e famoso. Le autorità gli rrovano immediatamente un impiego come insegnante di matematica c fisica in una scuola secondaria (che

spietatezza, questo regime sovietico!) I suoi compagni di detenzione, dal filosofo e pensatore Dmitrij Panin fino a Lev Kopelev, critico letterario, escono tutti dal Gulag in salute e trovano anch'essi, immediatamente, un'occupazione. Moriranno quasi tutti in tarda età in URSS, senza essere molestati da alcuno, o nei salotti dorati dei circoli capitalistico-borghesi

del mondo occidentale. Nel 1954 SolZenicyn, grazie all'eccellente sistema sanitario sovietico, universalista, gratuito e realmente a misura

d’uomo, viene operato a causa di un carcinoma. L'operazione avviene nel 1954 a Tashkent (alla faccia del presunto domicilio coatto!) ed è

coronata da successo. Il perfido e demoniaco potere sovietico, dunque, salva la vita del suo acerrimo nemico Solzenicyn. Lo scrittore, invero, aveva già subìto un’altra operazione vitale: la rimozione di un tumore ad un testicolo, nell’anno 1952, mentre si trovava in detenzione. Dunque, il Gulag non solo non è un “arcipelago” votato allo sterminio, ma in esso il cittadino sovietico trova le stesse cure che troverebbe in libertà. Di

certo, nei campi di lavoro correttivo, nelle varie prigioni che popolano la letteratura anticomunista e antisovietica, non solo di Solzenicyn, non vi sono le tremende condizioni che si possono sperimentare ad Alcatraz o

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in altri ameni contesti del mondo capitalista, dove i prigionieri muoiono di maltrattamenti, di consunzione e, magari, di malattie deliberatamente non curate. In nessun carcere del tremendo Arcipelago Gulag accade quel che avverrà nel 1971 nel carcere statunitense di Attica dove, per ordine del governatore di New York Nelson Rockefeller, la polizia attaccherà in forze una rivolta di prigionieri, lasciando quasi 40 morti sul terreno. Solzenicyn non ha parole di gratitudine nemmeno per la chirurgia sovietica e per gli umanissimi medici che, anche nel Gulag, lo salvano da una

morte che, siamo agli inizi degli anni ‘50, sarebbe certa anche per i più benestanti, visto lo stadio delle conoscenze e delle esperienze nel campo della cura dei tumori. No, in Padiglione Cancro (Rakovij Korpus), non

trova di meglio da fare che buttare in faccia al lettore il solito panorama oscuro e tetro del microcosmo concentrazionario sovietico, senza rispetto, riguardo e decenza nemmeno per la sua storia personale, pensando soprattutto a come sarebbero potute andare le cose... Scritto a metà degli anni ‘50, corretto, completato c diffuso secondo le modalità del samizdat verso la fine degli anni '60, Padiglione Cancro verrà stampato per varie case editrici e in diverse copie in occidente. In quest'opera, al posto di medici e specialisti impegnati nella difesa e promozione della salute per tutta la popolazione, quali erano gli araldi di Ippocrate in terra sovietica, dominano figure sinistre in camice bianco, quali il burocrate Rusanov, sprezzante e cinico, nonché l’incompetente ed evanescente Nizamutdin Bahramoviè. È tutto un vortice di corruzione, incuria, freddezza e arroganza a pervadere ed agitare le pagine di questo romanzo e viene da chiedersi come, in un ambiente del genere, possa esserci stata ranta cura e sollecitudine per la salute e la vita stessa di un uomo che aveva giurato guerra al governo sovietico e aveva complottato per il suo rovesciamento. Solzenicyn, questi scrupoli, queste domande, non se li pone nemmeno; va avanti nella sua opera demolitrice non solo del comunismo, ma soprattutto, in primo luogo, della verità storica c autobiografica, come un panzer, fidando, agli inizi degli anni '60, sull’estrema liberalità del potere sovietico, che in qualche caso diventa connivenza. I circoli chrusfteviani e cosmopoliti, infatti, lo osannano e non stanno nella pelle per aver trovato un calunniatore del periodo staliniano tanto accanito e forbito nel linguaggio, nel registro stilistico. Prima di Padiglione cancro e delle altre opere pubblicate clandestinamente in URSS alla fine degli anni ’60 — inizio degli anni ’70, edite poi con gran clamore in occidente e nei Paesi capitalistici, Soltenicyn, per più di un lustro, domina il panorama letterario sovietico. Dal 1960 al 1966 circa, e con particolare intensità dal 1962 al 1965, il suo nome riecheggia ovunque e le sue opere trovano il favore di una miriade di riviste, in primo luogo Novij Mir guidata dal fervente chrusteviano Tvardovskij, convinto curiosamente che lo sviluppo del socialismo e l'arricchimento culturale del Paese debbano per forza di cose passare per la demolizione dell'era di

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Stalin. Come se negli anni "30 non si fosse conosciuta la più mirabolante, effervescente e fantasmagorica esplosione culturale, con operai, impicgati e recnici, fino a qualche anno prima semianalfabeti o analfabeti totali, a compulsare tomi di scienze matematiche, ad apprezzare i poemi del realismo socialista e della letteratura classica, ad affollare sale da concerto, teatri e cinema, ad intavolare discussioni su argomenti letterari e culturali patrimonio da sempre, nei Paesi borghesi, solo di ristrettissimi circoli. Il tutto, mentre si sviluppa la lotta per gli approvvigionamenti alimentari e tutto il Paese conosce sacrifici che prepareranno poi il terreno

al benessere pieno degli anni 1935-1940. Tant'è! Nel clima trasudante “liberalismo” chrusteviano nel 1962-65, Solzenicyn fa il bello e il cattivo tempo e pretende di oscurare, con la sua ombra, tutta la luce che pervicacemente continua ad irrorare il Paese in ogni suo angolo, malgra-

do la nuova dirigenza del PCUS si muova su un terreno pericoloso di cedimenti e carenze. Riabilitato pienamente nel 1956-57, mette mano alla penna con ossessivo impegno, rivede appunti, completa riflessioni, perfeziona lo stile (peraltro lo si deve riconoscere, brillante ed avvincen-

te, quantunque posto al servizio di una causa errata) c pubblica, sorto la protezione di Tvardovskij e altri, tutta una sequela di opere di vario tenore che riscuotono elevato consenso di pubblico. L'URSS è un Paese di ferventi lettori, al primo posto nel mondo per libri venduti e letti, e per le questioni storico—culturali si dibatte vivamente nel Paese con la

stessa passione e la stessa foga con cui, alle nosere latitudini, ci si accalora per il calcio e per lo sport in generale. Nel 1962 è la volta di Una giornata di lvan Denisoviî, romanzo sulla vita di un recluso tipo (secondo Solzen-

icyn) nel Gulag sovietico. Comincia da qui, da quest'opera, il tentativo

di dipingere i campi di lavoro correttivo e le prigioni dell'URSS come i lager nazisti, senza alcun rispetto per la verità storica e documentale. Questo tentativo raggiungerà l’apotcosi nella monumentale opera di

mistificazione e falsificazione che sarà Arcipelago Gulag. | circoli anticomunisti mondiali iniziano a vedere SolZenicyn come un paladino e lui non fa nulla, del resto, per allontanare sospetti e critiche.

Il 1964 segna l’ascesa di Leonid Breznev a Segretario del PCUS. Il nuovo corso intende rettificare errori, mancanze e deficienze del gruppo dirigente chruséeviano e, in primo luogo, di Chruséev in persona, vista la forte impronta “zarista” da lui stampata su scelte e avvenimenti a partire dal 1956. La musica, col nuovo indirizzo di Breznev, Kosygin c Podgornyj, cambia anche in ambito culturale e non per un ordine dall’alto, categoria questa che si ritrova solo nelle pieghe della più volgare sovietologia. Da anni, infatti, sono in molti, nel mondo dell’intelligencija, e specialmente in ambito letterario, a chiedere una correzione di rotta che

mitighi lo strapotere degli scrittori “liberali” c dei fautori del “disgelo” a favore di una maggiore obiettività c pluralità della produzione letteraria, giornalistica, artistica in generale. E sì, perché a dominare la scena, dal

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1956, non sono stati certi gli scrittori c i pocti tacciabili di “slavofilia” e di “nazionalbolscevismo”, ma esattamente quelli che hanno gridato ai quattro venti il finto dramma della loro inesistente emarginazione,

proprio mentre occupavano la quasi totalità degli spazi disponibili relegando gli altri, i presunti censori, agli angolini e strapuntini della semplice tolleranza. Literaturnaja Gazeta, organo prestigioso, obiettivo,

punto di riferimento imprescindibile per l'opinione pubblica sovietica, ha dovuto subire processi e sperticarsi in funamboliche giustificazioni per aver pubblicato, accanto a lettere di cittadini c pareri di critici favorevoli a SolZenicyn, pure opinioni differenti, di critica e anche soltanto di riserva. Questa intolleranza inquisitoria, ancora più odiosa in quanto

agghindata negli che, certamente, politica culturale Pian piano,

abiti del vittimismo, suscita un moto di indignazione non è secondario nel mutamento di indirizzo della dello Stato, del Governo e del Partito. gli scrittori orgogliosi della storia sovietica, tutta, senza

cesure artificiose, riconquistano, senza toglierlo ai “liberali” della new

wave chrusCeviana, lo spazio che meritano. La critica, la calcidoscopica diversità dei punti di vista, il dibattito intenso ed il pluralismo non svaniscono affatto. Svanisce, questa si, la tolleranza verso le calunnie, le invenzioni, le falsificazioni volte a infangare la storia dei Soviet. Per questo, Solzenicyn, che ha potuto pubblicare senza problemi Una giornata di lvan Denisovié, La casa di Matriona, Il caso della Stazione di Krecetovka,

comincia ad essere redarguito e smascherato nelle sue palesi esagerazioni e distorsioni della realtà. Nessuno lo censura: in tanti hanno stima di lui, dal punto di vista letterario. I suoi molteplici registri stilistici, originali ed avvincenti, piacciono anche a coloro i quali non apprezzano le sue idee: non abbiamo a che fare con un mediocre scrivano, come qualcuno ha preteso, facendo sconfinare la critica in ambiti non pertinenti, con somma ingenerosità. Dinanzi a noi c'è un valente scrittore, il quale viene attaccato, dopo anni di applausi a scena aperta per molteplici e

documentate falsificazioni della verità storica. Falsificazioni che spesso confliggono con le leggi sovietiche che, mentre tutelano la libertà di espressione e di critica più piena e reale, non possono tollerare, come le leggi di tutto il mondo, calunnie e ingiurie gratuite. In verità, a muoversi non sono solo gli organi inquirenti e i garanti dell’ordine pubblico e della stabilità del sistema sovietico, ma in primo luogo gli intellettuali stessi. Inizia nel 1966 un confronto con l'Unione degli Scrittori, che Solzenicyn farà di tutto per sabotare con l’obiettivo di far trionfare, alla fine, il logoro copione del suo eterno vittimismo. Nel maggio 1967, lo sforzo dell'organo supremo degli scrittori sovietici raggiunge l’acme: si cerca di coinvolgere Solzenicyn, correggendo il tiro di alcuni suoi scritti, persuadendo il letterato a non prestare più il fianco alle centrali antisovietiche, con episodi fantasiosi inventati di sana pianta, cifre assurde, del tutto irrcalistiche, su repressioni c carcerazioni, ignominiose affermazioni

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sul socialismo e sulle idee progressiste. Lo sforzo dell’Unione degli Scrittori dell'URSS è paziente, tenace, fino ai limiti del logoramento. Il 22

settembre 1967 una riunione presieduta dal grande Konstantin Fedin discute del caso “Solzenicyn” con assoluta franchezza, com'è costume in

URSS. Alcuni propongono l'espulsione dello scrittore, ma la maggioranza è contraria: certe questioni, è questo l'orientamento maggioritario, debbono essere dibattute e affrontate con delicatezza e tatto, nel rispetto

delle idee di rutti. Un atteggiamento saggio e nobile che però non trova orecchie altrettanto nobili e leali pronte a reccpirlo: da una parte, infatti, c'è chi crede che il pluralismo debba essere garantito nel quadro delle leggi esistenti e non come strumento e paravento dell’eversione capitalista, borghese ed imperialista, sempre attiva contro l'URSS e i Paesi di

democrazia popolare. Dall'altro, c'è l'ambizione sconfinata di Solzenicyn, il suo ritenersi legibus solutus, la sua ferma adesione all'ideologia più reazionaria e antisovietica. Per due-tre anni va in scena un dialogo tra sordi, proprio mentre SolZenicyn ultima Arcipelago Gulage viene sempre più eretto a paladino dei circoli borghesi, reazionari, anticomunisti di tutto il mondo, per i quali la distensione, la collaborazione tra est ed ovest rappresentano pericoli c minacce da esorcizzare in ogni modo.

Nel 1969, si giunge ad una decisione risolutiva: dopo ripetuti rifiuti

a partecipare a confronti e dibattiti, dopo l’appurato e palese rifiuto di rivedere certe posizioni incompatibili con la legge sovietica e con l’ordinamento socialista, SolZenicyn viene espulso dall'Unione degli Scrittori dell'URSS. Una decisione obbligata, vista la dinamica dei fatti, che però SolZenicyn, con ipocrisia disgustosa, utilizzerà come freccia per il suo arco vittimista. L'autore ranto caro alla reazione mondiale, diventato un

caso vicppiù dopo l’espulsione dall'organo supremo dei letterati sovietici, viene insignito nel 1970 del Premio Nobel. Un'investitura non casuale: a patrocinarla, come svelerà in un'indagine molto approfondita della Literaturnaja Gazeta, sono, in primis, le centrali fasciste e nostalgiche dei fuoriusciti russi in occidente.

La Guardia

Bianca, insomma, da

sempre protetta ed addestrata all’eversione nelle capitali dell'occidente borghese, fa da sponsor al Nobel di Solzenicyn. In particolare, la rivista Casovoj, edita a Bruxelles, rivendica la primogenitura della proposta di candidatura dello scrittore sovietico “dissidente” al più ambito premio letterario mondiale. Chi è l'animatore di Casovoj? Un tale Orechov, già

intimo dei gencrali bianchi Wrangel e Kutepov nella guerra civile scatenata dalla reazione dopo il fatidico 1917, monarchico intransigente,

fautore persino della guerra diretta dell'occidente contro l'URSS. Tale losco figuro, infatti, assieme ad altri uomini di simil fatta, ex-guardie

bianche o collaboratori dei nazisti, invita, dalle pagine di Casovoj a “col-

pire preventivamente l'URSS" e si rammarica per il fatto che nel 1945 gli statunitensi non abbiano sganciato la bomba atomica sull’URSS. Questi sono i supporter di Solzenicyn, del “perseguitato” e “reietto” esponente

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della letteratura sovietica. Accanto a Orcchov, si profila pure l'ombra

di una donna, anch'ella legata a doppio filo alla reazione antisovietica: una certa Teresa Basquin. La madama compie viaggi in URSS e si dà al commercio di icone, stabilendo contatti con circoli anticomunisti ed eversivi e lucrando, così ci dice Literaturnaja Gazeta mai smentita in modo convincente da alcuno, sul traffico delle icone. A nome dell’Associazione “Art et Progress”, la donna invia missive in ogni angolo del globo per caldeggiare l'assegnazione del Premio Nobel a Solzenicyn. In questo panorama fetido sono sempre più frequenti le uscite di scritti e articoli

sullo scrittore nel mondo occidentale: la grancassa della propaganda antisovictica risuona, rombante e cupa, accompagnata da toni da crociata. Nel

1973-74 i vari Goffredo di Buglione della Guerra

Fredda,

armati di missili e bomba atomica, trovano l’accompagnamento più galvanizzante verso la loro immaginaria marcia in direzione del Santo Sepolcro moscovita: in vari Pacsi esce il “capolavoro” di Solzenicyn, al quale abbiamo già precedentemente accennato: Arcipelago Gulag. In questopera, la calunnia antisovictica, la riabilitazione di elementi fascisti e reazionari, la più spericolata acrobazia statistica su morti c repressi nel periodo di Stalin, raggiungono l'apoteosi. Come in Agosto 1914, altra opera pubblicata all’inizio degli anni ‘70, s'infanga non solo la storia sovietica, ma anche quella russa, dipingendo un Paese quasi maledetto, popolato di inerti, sadici e incapaci, nella società come nell'Esercito. Nessuno si salva, o quasi! I sovietici, i comunisti, i militari eroici dell’Armata Rossa sono sempre colpevoli di qualcosa, crudeli, cinici, mentre i tedeschi sono, a parte qualche inciso, benevoli e tutt'al più colpevoli di non aver appoggiato a fondo la reazione anticomunista durante la Grande Guerra Patriottica, di non aver dato supporto alle bande di Vlasov ec di altri.

I nazisti non hanno invaso un intero Paese e pianificato la sua colonizzazione genocida: no, sono stati degli sprovveduti che non hanno avuto la lungimiranza di consegnare il potere ai quisling locali. Il fatto che il popolo sovietico abbia resistito eroicamente c vinto, contro le armate hitleriane, contro un Nuovo Ordine che avrebbe trasformato l’intera Europa in un lager, per Solzenicyn è fantasia! Andrej Andreevié Vlasov, già generale dell’Armata Rossa, animatore di un esercito di mercenari al servizio dei nazisti, l’Armata Russa di Liberazione, viene dipinto come un innocente vittima dello stalinismo: un soldato, questo si pretende di accreditare, abbandonato coi suoi uomini da Stalin nel tentativo di rompere l'assedio di Leningrado. Nulla di più falso: Vlasov e i vlasoviani crano un pugno di traditori c imboscati, al servizio dei nazisti prima e, dopo la Seconda guerra mondiale, trasferitisi nci comodi salotti occidentali agli ordini della reazione anticomunista e imperialista. Accanto ai traditori, c'era tutta una teoria di giovani e giovanissimi che, per paura, si erano arruolati sotto la Croce di S. Andrea azzurra (emblema dell’Armata Russa di Liberazione) e alla prima occasione utile disertavano

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unendosi all'Armata Rossa o ai partigiani. Il racconto del “tradimento” e “abbandono” degli uomini di Vlasov da parte del potere sovietico è, ad un tempo, grottesco, assurdo e, condito con la storia fantasiosa della “ribellione” di Vlasov a Stalin fin dagli anni ’30, serve a Soltenicyn per giustificare una collaborazione coi nazisti che egli approva e giudica storicamente inevitabile. Come dimostreranno con dovizia di particolari veterani della Grande Guerra Patriottica quali lo scrittore Jurij Bondarev, il'Tenente-Genera-

le Zilin e altri ancora, Vlasov non fu affatto vittima di un tradimento e di strategie militari perdenti. Lui, non altri, aveva tradito assieme ai suoi so-

dali mettendo a repentaglio la vita di migliaia c migliaia di soldati. Ecco il racconto, chiarissimo, del Tenente-Generale Zilin sulle vicende della Seconda Armata d’Urto guidata da Vlasov nella primavera-estate del 1942, racconto che fa il paio con le memorie del Maresciallo Meretskov e

con altri documentatissimi testi editati in epoca sovietica: “Non appena si chiarì che l'Armata non poteva continuare l'offensiva in direzione di Ljuban,

Vlasov ricevette l'ordine di far uscire le truppe dall'accerchiamento attraverso

un varco disponibile. Ma Vlasov temporeggiò, restò inoperoso, non provvide a proteggere i fianchi, non seppe organizzare una rapida e segreta ritirata delle

truppe. Ciò permise alle truppe naziste di tagliare il corridoio e di completare l’anello dell'accerchiamento. Il Comando Supremo inviò immediatamente nella zona delle operazioni il Maresciallo K. A. Meretskov,

nominato

comandante del fronte di Volchov, e il proprio rappresentante Vasilevskij, incaricandoli di sottrarre ad ogni costo all'accerchiamento la seconda armata d'assalto, sia pure con l'artiglieria pesante e i mezzi. Furono prese tutte le misure possibili per salvare gli accerchiati. Dal 10 al 19 giugno 1942 si ebbero ininterrottamente violenti combattimenti, cui parteciparono grandi forze di

fanteria, l'artiglieria e i carri armati della 4°, 59° e 52° Armata. Si riuscì ad aprire uno stretto varco nella trappola tedesca ed a salvare buona parte della 2° Armata d'assalto. Una parte dei soldati e dei comandanti, compreso

il Maggiore-Generale Afanasev, che dirigeva le comunicazioni dell'armata, si unì alle formazioni partigiane. Neppure Vlasov fu lasciato in balia del caso. Per ordine del Comando Supremo i partigiani lv cercarono tenacemente.

Gruppi speciali di paracadutisti, muniti di radio emittenti, furono lanciati nella zona in cui poteva trovarsi”.

Di Vlasov però, in quella calda e tragica estate del "42, nessuna craccia! E certo! Il “prode” militare si era imboscato, aspettando i soldati tedeschi nel villaggio di Pjatnitsa. Quando arrivarono, passò dalla loro

parte costituendo la sua armata per metà mercenaria e per metà di disgraziati impauriti e minacciati. Solzenicyn esalta tale personaggio come

candido e puro, quasi fosse un giglio! Non solo: ripete la storia dei batraglioni punitivi, delle compagnie di correzione che, da sole, avrebbero salvato Stalingrado. Un'intollerabile offesa, questa, a tutti gli eroi, spesso giovanissimi, che fecero di quella città la tomba del nazifascismo, ma 346

anche un falso storico spudorato. Equipaggiate unicamente con artiglieria leggera, esigue nel numero, quelle compagnie mai avrebbero potuto frenare l'assalto della possente macchina bellica nazista, la quale, infatti,

fu arrestata da armate, divisioni e reggimenti. Come funzionassero poi le famose “compagnie di correzione” ce lo dice apertamente un loro ex-componente, il cittadino Abram Rabinoviò, il quale, negli anni "70, scrive una lettera di vibrante protesta contro le bugie di Solzenicyn: “Chi incontrai nella compagnia di correzione? Si trattava soprattutto di uomini che, come me, non avevano eseguito quanto era stato loro comandato. La durata del servizio nelle compagnie di questo genere era molto breve. La prima vittoria nei combattimenti contro i tedeschi restituiva l'onore militare e comportava il ritorno al precedente posto di servizio”. Le menzogne più colossali, però, in Arcipelago Gulag, sono dedicate ovviamente al sistema penale c detentivo. Solzenicyn gioca coi numeri, come farà poi, con perizia o mal destrezza, a seconda dci casi, tutta una

pletora di studiosi o pseudotali, votati all’antisovietismo più viscerale, primo tra tutti Robert Conquest. I documenti autentici desecretati oggi ci raccontano uno scenario del tutto diverso da quello prospettatoci da Solzenicyn e dai suoi sodali: non certo 7, 9, 10 milioni di reclusi, ma al massimo, negli anni di picco, 2 0 poco più di sottoposti a misure restrittive della libertà. Nei campi, negli anni clou delle “purghe” (1936-1939),

dipinti come oscuri e tremendi dalla propaganda antisovietica, c'erano non 7 milioni di reclusi, cifra data per certa nei brogliacci c nei libri dei professori della CIA e affini, ma appena 839.406 nel 1936 e 1.317.195 nel 1939. Interessante è però, sopratutto, la cifra relativa ai detenuti politici: 127.000 nel 1934 e 500.000 (cifra massima) negli anni di guerra 1941 c 1942. Altro che prevalenza dei “politici” su delinquenti, soggetti deviati e pericolosi, ladri ecc. Questo, nell’“inferno” sovietico che oltretutto riabilitava col lavoro e retribuiva i detenuti, aprendogli le porte del riscatto! Nel “paradiso” a stelle c strisce tanto amato da SolZenicyn e dai suoi amici, invece, ancora oggi non si scende annualmente sotto la cifra di oltre 2.000.000 di carcerati e di circa 7.000.000 di sottoposti a misure restrittive. Tutte persone, queste, non certo partecipi di grandi imprese, come la

costruzione di vie d'acqua e di opere pubbliche, ma sfruttare oscenamente c relegate ai margini. Anche il pianto sui quasi 60 milioni di repressi nell’era di Stalin si rivela, ad una rapida occhiata ed una elementare veri-

fica, una truffa: negli anni ’30, nonostante i sabotaggi e le difficoltà scacenate dai kulaki, la popolazione cresce a ritmi superiori rispetto a quelli del mondo capitalista e i documenti attesteranno, al massimo, poco più di 600.000 condanne a morte, per lo più comminate nel 1937-38, nelle “purghe” spesso comandate da nemici del potere sovietico, infiltrati nei suoi gangli e sottoposte a revisione dallo stesso Governo e dal Partito. Nel 1926, l'URSS conta 147 milioni di abitanti; nel 1939, sono più di 170 milioni. Chi e cosa sia stato “sterminato” non è dato saperlo. Nel 1959,

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nonostante i 20 milioni di morti della Grande Guerra Patriottica, il Paese arriverà a contare oltre 200 milioni di abitanti. Questa la cruda realtà, che ha la testa dura e che né Solzenicyn né nessun altro potrà mai scalfire. L’intrepido letterato messosi al servizio dell’imperialismo, però, non sì accontenta di questo: falsifica passi interi delle opere di Lenin, come quando pretende di sostenere che il padre della Rivoluzione d'Or tobre abbia detto: “// terrore è un mezzo di persuasione” indicando come fonte il vol. XXXIX delle Opere, pagine 404-405. Una semplice ricerca, ci mostra come Lenin abbia detto tutt'altro, parlando del terrorismo collaudato e imposto dalle armate bianche durante la guerra civile: “Se rentassimo d'influire su queste truppe, costituite dal banditismo internazionale e inferocite dalla guerra, con le parole, con la persuasione, con mezzi diversi dal terrore, non reggeremmo nemmeno per due mesi: saremmo degli stupidi”. Un ragionamento chiaro, contingente, lapalissiano, spacciato per programma politico permanente da Solzenicyn. Una malafede più evidente è difficilmente immaginabile. Intanto, lo scrittore, incassati i proventi del Premio Nobel, che si aggiungono a pingui averi personali, continua a recitare ipocritamente la parte del povero e del perseguitato: Natalja Resetovskaja, l’ex-moglie, nelle sue memorie e nei suoi interventi sarà su questo impietosa, per amore di verità e per dignità femminile, descrivendo un uomo egoista e narcisista. Per inciso, va detto che ogni tentativo di spacciare per patacche del KGB le affermazioni della Resetovskaja è caduto miseramente nel vuoto, rivelandosi la solita manovra intossicante della premiata ditta Andrew-Gordievskij, operante sotto l'ala dei servizi segreti inglesi, gli stessi che hanno confezionato, alla fine del 1990 la bufala del “Dossier Mitrokhin” e concepito, negli anni 2000, altre operazioni di disinformazione contro Putin. Questi due autori (uno dei quali un traditore della sua Patria, ex-agente del KGB), hanno parlato di una non meglio dimo-

strata misura attiva, concepita dal capo del KGB Andropov, a partire dal settembre del 1974, per danneggiare Solzenicyn, senza tener conto tra le altre cose del fatto che la Resetovskaja ben prima di quella data aveva rivelato al mondo certi particolari ancora oggi non smentiti da alcuno (del 1973 è un suo articolo, pubblicato addirittura dal New York Times).

Ad ogni modo, al principio degli anni "70, Solzenicyn è proprietario o comunque fruitore di tre automobili Moskvich, variamente intestate, della dacia personale denominata “Borzovka”, una lussuosa villa immersa nel verde, di un appartamento di tre camere a Rjazan in cui abita la Resetovskaja, nonché di un altro alloggio ancora più confortevole, di cinque camere, a Mosca, in cui vive la seconda moglie, Natalija Svedova. Oltre a ciò, i risparmi personali messi “sotto il materasso”, i 78.000 dollari del Premio Nobel, nonché, secondo i calcoli della stampa occidentale, 1.500.000 dollari giacenti in un conto svizzero amministrato dal solerte avvocato Hecb, al numero 57C della Bahnhofstrasse di Zurigo. Altro che povertà!

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Qui c'è un autentico nababbo... Un nababbo che, in odio al governo sovietico, non esita a intensificare, sotto al naso delle autorità sovietiche, per pura provocazione, i contatti con i circoli più retrivi e guerrafondai,

forieri di concezioni nazistoidi c belliciste pericolosissime. Concezioni che Solzenicyn non solo non cerca di mitigare, ma anzi fa di rutto per inasprire proprio per procurarsi quegli strali e quelle misure tanto utili, a lui, per giocare al perseguitato. Dinanzi a ciò, nel febbraio 1974, il Presidium del Soviet Supremo dell'URSS, con un atto reso immediatamente pubblico, decide di togliere la cittadinanza sovietica ad Aleksandr Isaevié Solzenicyn. Lo scrittore ha raggiunto il suo scopo! Da quel momento viaggia in tutte le contrade del mondo capitalista, spargendo ai quattro venti il suo verbo, non ammantaro nemmeno dalla più esile autocensura.

Negli USA, nel 1975, davanti al Congresso degli Stati Uniti e al vertice del Sindacato invita apertamente a boicottare la distensione, a rifiutare ogni collaborazione con l'URSS: “per favore, ingeritevi più spesso nelle nostre questioni interne”, dice Solzenicyn ai parlamentari statunitensi, molri dei quali colgono la palla al balzo... Nel 1976, in Spagna, manifesta inquietudine per la fine del franchismo e auspica il prosieguo della dittatura, mentre dispensa ammirazione per Pinochet c appoggia attivamente la guerra imperialista nel Vietnam. Altro che campione di libertà! Altro che paladino del “mondo libero”! Solzenicyn si rivela pienamente quello che il potere sovietico, a parte la parentesi chruséeviana, aveva riconosciuto essere: un irriducibile nemico del comunismo, della pace tra i popoli, della vera libertà e dell’emancipazione degli sfruttati. Dopo il 1991, i suoi strali li dirige contro il capitalismo selvaggio e il liberismo devastatori della Russia, ma niente e nessuno muta la sua visione del mondo reazionaria, “feudale” ed anticomunista. Lo scrittore muore a Mosca il 3 agosto del 2008: se ne va in quella dara un'icona della Guerra Fredda, idolatrata ed elevata a mito, per le supreme esigenze della borghesia imperialista».

Terminata questa densa lettura, forse si può capire meglio questa

affermazione di Anatoli Zinoviev fatta a inizio anni ‘80: «È un fatto del tutto normale per la gente considerare uomini come Sakarov o Solàenicyn dci traditori. E il motivo è molto semplice: essi si rivolgono allo straniero per domandare aiuto, gli imperialisti si servono di questi due uomini, e voi dovete capire che, qualunque cosa se ne dica, l'imperialista è ancora il nostro nemico numero uno. E allora sc il nostro nemico si serve di quella gente, vuol dire necessariamente che si tratca di traditori»??.

2°C. Polin, // totalitarismo, cit., pp. 75-76.

349

13.11. I servizi segreti occidentali e la sinistra anticomunista

Il fatto che i comunisti e i progressisti abbiano trasformato alcuni dei nomi visti finora in “numi tutelari” della sinistra spiega bene perché quest'ultima abbia progressivamente rigettato non solo

il leninismo ma ben presto lo stesso marxismo dalla propria cultura politica. La battaglia delle idee in Occidente è stata indubbiamente persa dall’intellighenzia e dalle organizzazioni comuniste, le quali non hanno saputo comprendere la vastità dell'attacco in corso, ri-

fiutando di considerare tutti questi intellettuali come dei “venduti”

al nemico. Eppure questo quadro non è così distante dalla realtà nel momento in cui analizziamo il ruolo giocato dai servizi segreti occidentali nell’introdurre una serie di cavalli di troia nel campo delle sinistre. Diamo quindi un ultimo sguardo alle rivelazioni fatte da Frances Stonor Saunders, la quale ci illumina sulle modalità usate dalla CIA (e non solo) per costruire o rafforzare le sinistre anticomuniste in Occidente.

Occorre partire dal presupposto accertato che «uza delle più diffuse tattiche della CIA» sia stata «creare 0 sostenere organizzazioni “parallele” che si presentavano come alternative al radicalismo». Gli statunitensi non erano i soli ad organizzarsi in tal senso, venendo invece accompagnati presto dagli inglesi: «tra le sezioni del Foreign Office, l’IRD, Information Research Department, allestito da Clement

Attlee nel febbraio 1948 all'esplicito scopo di attaccare il comunismo, fu quella che conobbe il maggior sviluppo». L'architetto dell’IRD, il segretario agli Esteri Ernest Bevin, indicava come «riferimento positivo» i

«principi cristiani e democratici, tenendo presente la forza di cui gode in Europa il sentimento cristiano. Dobbiamo proporre un'ideologia che

si ponga come rivale del comunismo». Gli inglesi capirono subito la necessità di mantenere il massimo segreto sul proprio piano: «È importante che in Gran Bretagna come

all'estero, non si crei la pubblica impressione che il Foreign Office stia organizzando una campagna anticomunista», scrisse il primo capo dell’IRD, Ralph Murray. «Un certo numero di persone che sono pronte

2 E Stonor Saunders, Gli intellettuali e la CIA, cit., p. 193. “Ivi, pp. 55-56.

350

a prestarci un aiuto significativo si troverebbero in difficoltà se fossero esposte all'accusa di ricevere istruzioni in senso anticomunista da qual-

che sinistra sezione del Foreign Office impegnata nella produzione di propaganda diretta contro l'Unione Sovietica». Da segnalare che l’IRD dovesse attaccare tanto «i principi quanto la prassi del comunismo», ma per rendersi più credibile e mostrarsi più “neutrale”, poteva denunciare anche «/'inefficienza, l'ingiustizia sociale e la debolezza morale del capitalismo incontrollato», senza però poter «attaccare (e neppure darne

l'impressione) gli Stati Uniti, né un membro qualsiasi del Commonwealth». Si comprese presto l'importanza e la convenienza di servirsi di intellettuali di sinistra: «uno dei più importanti consiglieri dell’IRD della prima ora fu lo scrittore, ungherese di nascita, Arthur Koestler. Sotto la sua guida, il

dipartimento comprese l’utilità di servirsi di quelle persone e istituzioni che, per tradizione politica di sinistra, si consideravano all'opposizione rispetto ai centri di potere. Lo scopo di accogliere personaggi di questo tipo era duplice: innanzitutto, avvicinarsi ai gruppi “progressisti” così da

poterne tenere sotto osservazione le attività; in secondo luogo, diluirne l’efficacia, influenzandoli dall'interno o organizzando alcuni dei loro

membri in un organismo parallelo c, in modo sottile, meno radicale». Fu così che Buio a mezzogiorno, libro anticomunista di Koestler, ottenne una vendita extra di 50 mila copie acquistate e distribuite dal Foreign Office nel 1948?8. Uguale strategia, su influenza dello stesso Koestler, fu messa in

atto in parallelo dalla CIA. I suoi ragionamenti erano infatti perfer-

tamente logici: «chi avrebbe potuto combattere meglio contro i comunisti di un ex comunista? [...] La distruzione dei miti del comunismo, egli argomentava, poteva essere raggiunta soltanto con la partecipazione, in una

campagna di persuasione, di personalità della sinistra che non fossero comuniste. Al dipartimento di Stato e nei circoli dell’intelligence, le persone cui Koestler faceva riferimento erano già indicate come un gruppo, la “sinistra non comunista”. Nel corso di quella che Arthur Schlesinger descrisse come una “rivoluzione silenziosa”, clementi del governo erano giunti sempre più a comprendere e a sostenere le idee di quegli intellertuali che, disillusi del comunismo, rimanevano tuttavia fedeli agli ideali

* Ivi, p. 57.

351

del socialismo. In effetti la strategia di promuovere la sinistra non co-

munista doveva diventare “i/ fondamento teorico delle operazioni politiche della CIA contro il comunismo, per i successivi vent'anni”».

Ecco quanto aggiunto da Arthur Schlesinger: «Zitti noi sentivamo che il socialismo democratico era il baluardo più efficace contro il totalitarismo. Questo divenne il tema sotteso — o addirittura occulto

— della politica estera americana del periodo». Negli uffici di Washingron si parlava ormai tranquillamente di NCL, acronimo utile per designare la sinistra non comunista (Non-Communist Left), definita

dalla storica Carol Brightman «quasi un gruppo di tesserati»??. Una delle prime operazioni messe in atto dalla «sinistra anti

comunista» manovrata dalla CIA fu il libro // Dio che è fallito, una raccolta di confessioni personali di una serie di intellettuali che denunciavano il fallimento dell’idea comunista e il rigetto dello “stalinismo”. Tali autori, che ottennero così «i/ passaporto per il

mondo della cultura ufficiale per i successivi ventanni», furono Ignazio Silone, André Gide, Richard Wright, Arthur Koestler, Louis Fischer e Stephen Spender®. Tra questi nomi «Wright fu il solo membro del

gruppo [...] a perdere lo statuto di “tesserato” di quel gruppo di apostoli», a causa di un antistalinismo dovuto più a ragioni personali che politiche,

e quindi poco affidabile. Ad ogni modo «nel decennio successivo, la sua vita e le sue attività a Parigi furono attentamente monitorate dalla CIA e dall’FBI, fino a quando perì in circostanze misteriose nel 1960". Il tradimento degli ex-comunisti. Chi erano le menti pensanti e coscientemente operative a guidare queste manovre? Uno degli elemen-

ti di punta del programma culturale della CIA fu Sidney Hook e diversi altri intellettuali che, come lui, erano ex marxisti trockisti.?? Altra figura di rilievo fu James Burnham, diventato presto un importante membro del comiraro direttivo del Congresso per la libertà della cultura. «Non tutti erano entusiasti dei “trascorsi trockisti” di Burnham. Secondo il funzionario della CIA Miles Copeland, inizialmente c'era stato “un certo malessere per i flirt intrattenuti da Burnham con “l'estre-

2 Ivi, p. 60.

% Ivi, p. 62. > Ivi, p. 65. 2 Ivi, p. 47.

352

ma sinistra” (non era, per caso, nella stessa cellula di Sidney Hook, Irving Kristol e Daniel Bell?), ma tutto si acquietò quando qualcuno sottolineò

che se James fosse stato un comunista serio si sarebbe iscritto al partito e non sarebbe stato un semplice trockista” [...). Burnham avrebbe svolto un

ruolo cruciale, all'inizio del 1953, nell'operazione AJAX della CIA che, a Tcheran, spodestò Mossadeq e mise al suo posto lo scià [...]. Nel suo libro 7he Machiavellians, che divenne un manuale per gli strateghi della CIA, aveva fatto ricorso, olure che a Machiavelli, alle idee dei maggiori

pensatori europei moderni (Mosca, Pareto, Michels, Sorel) per “sfidare le teorie politiche egualitariste e mostrare l'immutabilità e l'inevitabilità del governo delle élite, perfino in un'epoca di uguaglianza” »*.

C'era poi Denis de Rougemont, che «proveniva dalla sinistra non marxista e antifascista», lavorando «a stretto contatto con Francois Bondy all'Unione Europea dei Federalisti, di cui avrebbe continuato a perseguire gli obiettivi, con l'aiuto segreto della CIA [...] dal Centre Européen de la Culture [...] con sede a Ginevra»? Quando fu creata la prima rivista del Congresso, Prexves, l’obiettivo era «un giornale

che potesse competere con Les Temps modernes e incoraggiare defezioni dalla cittadella di Sartre [...]. Non essendo riuscito a trovare un direttore francese, il comitato esecutivo decise di offrire l'incarico a Francois

Bondy, uno scrittore svizzero di madrelingua tedesca che era stato un attivista del Partito Comunista fino al patto Hitler-Stalin del 193%. Il primo numero della rivista, uscito nell’ottobre 1951 era «volto 44

affermare un consenso filoatlantico, antineutralista e filoamericano»?. Quando l'agente Nabokov andò in missione a Londra «per rac-

cogliere appoggi per l'affiliata britannica, la British Society for Cultural Freedom», fondata nel gennaio 1951, riportò quanto segue: «dopo aver incontrato T. S. Eliot, Isaiah Berlin, Lord David Cecil, i dirigenti del British Council, il Terzo Canale della BBC e Richard Crossman, che

era ora segretario generale del Partito Laburista, Nabokov riferì a Parigi che il Congresso aveva potenti alleati in Inghilterra»®. Iniziano qui ad esserci alcuni nomi pesanti come quello del capo dei Laburisti britannici. Ci torneremo, ma nel frattempo si può

3 Ivi, pp. 81-82.

M Ivi, p. 86. # Ivi, p. 93. # Ivi, p. 95.

353

constatare come egli fosse in buona compagnia visto il recluramento ottenuto negli USA: «il Comitato americano per la libertà della cultura fu fondato a New York nel gennaio 1951 [...]. Alcuni membri “mode-

rati” erano Arthur Schlesinger, il teologo della guerra fredda Reinhold Niebuhr, James T. Farrell, Richar Rovere del New Yorker, l'ex presidente

del Partito Socialista e sei volie candidato alla Casa Bianca Norman Thomas e il direttore della Partisan Review Philip Rahw» C'erano poi anche Irving Kristol, l’altro direttore della Partisan Review William Phillips e Sidney Hook. Interessante la storia della Partisan Review,

creata negli anni ‘30 «da un gruppo di trockisti del City College. Nata come organo di espressione del John Reed Club, dominato dai comunisti, [...] aveva creato un sofisticato linguaggio per esprimere le idee marxiste. Gli eventi del 1939-40, tuttavia, avevano distrutto i suoi ormeggi. Con la firma del

patto di non aggressione tedesco-sovictico, molti intellettuali avevano cominciato a virare dall’ortodossia del comunismo leninista in direzione del radicalismo dissidente di Trockij. Alcuni semplicemente avevano abbandonato la sinistra c si crano avvicinati politicamente al centro o perfino alla destra. La Partisan Review visse questa stagione creando un

controlinguaggio per esprimere l’antistalinismo e ridefinire il radicalismo al di fuori del contesto comunista»””. Le riviste di “sinistra” di stampo P trockista diventano ben P presto il ritrovo prediletto degli anticomunisti, sotto la benevola protezione della CIA: «Il quartier generale degli antistalinisti “professionisti” erano il Comi-

tato americano per la libertà della cultura e le riviste, precisamente Commentary, il New Leader e la Partisan Review, i cui direttori sedevano nel suo consiglio» Quando la «Partisan Review, alle strette finanziarie, rischiò di

chiudere fu la CIA a fare in modo di fornirle in segreto sostegno politico-e-

conomico in quanto mezzo efficace per “combattere l'ideologica comunista all'estero, soprattutto tra gli intellettuali». La qual cosa chiaramente era illegale: «con il finanziamento di riviste americane, la CIA contravveniva

al suo statuto legale, che le impediva di intervenire a sostegno di orga-

* Ivi, pp. 143-145. # Ivi, p. 147.

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nizzazioni americane. Nel caso della Partisan Review c del New Leader c'erano due convincenti ragioni per ignorare questa sottigliezza legale: innanzitutto, le riviste in questione rappresentavano un ponte ideologico tra gli intellettuali americani e quelli curopei, che erano sì uniti sul terreno comune dell’anticomunismo, ma scparati da molte diversità geopolitiche c culturali; in secondo ordine, il sostegno finanziario forniva quello che Josselson descriveva come uno “scudo” contro la prevedibile “indignazione” della Partisan Review e del New Leader nel momento in cui avessero scoperto (c sarebbe successo presto) che la loro posizione nel

mercato delle idee stava per essere seriamente intaccata»””,

Le riviste controllare dalla CIA. La costruzione e

il rafforza-

mento di una sinistra anticomunista fu fatta prevalentemente da un

punto di vista culturale, finanziando una quantità nutrita di riviste e giornali che avevano lo scopo di smantellare ideologicamente il campo avversario comunista. Quanto spendeva la CIA per sostenere

soltanto le riviste legate al Congresso per la libertà della cultura? Nel 1961 la spesa ammontò a 560.000 dollari, arrivando a 880.000 nel

1962.‘ È utile fare una rapida carrellata del fenomeno: Der Monat era una rivista mensile destinata a fare da ponte ideologico tra gli intellettuali tedeschi e quelli americani, facilitando il perseguimento degli interessi politici americani. Creata con l'appoggio del generale Clay il 1° ottobre 1948 e diretta da Melvin Lasky, la rivista fu inizialmente stampata a Monaco e trasportata per via aerea a Berlino,

a bordo degli aerei cargo alleati dai quali dipendeva la città durante il blocco. Nel corso degli anni Der Monat fu finanziata dai “fondi riservati” del Piano Marshall, poi dalle casse della CIA." In Francia si sostenne il giornale della sinistra dissidente Franc- Tireur, guidato dal socialista francese David Rousset. Quest'ultimo, autore di alcuni libri sui campi di concentramento, «acconsenti a che il Franc-Tireur

divenisse lo sponsor della giornata della resistenza ispirata dalla CIA»®?. In Gran Bretagna vennero dati finanziamenti al 7wentieth Century diretto da Michael Goodwin, con «l'esplicita intesa» di «dedicarsi 4

controbattere le posizioni del New Statesman and Nation», e di «conte* Ivi, pp. 148-149.

Ivi, p. 197. 4'Ivi, p. 33. 9 Ivi, p. 64.

355

stare Soviet Studies, una rivista trimestrale di Glasgow “che è probabilmente la fonte principale dell'apolegetica stalinista in questo Paese*»*?.

Alcune riviste affiliate al “Congresso”: in America Latina c'era Cuadernos, diretta dal 1953 dallo scrittore Julian Gorkin, che nel

1921 era stato tra i fondatori del Partito Comunista di Valencia, lavorando poi per il Comintern, salvo tradire nel 1929. A Vienna dal

1954 Friedrich Torberg guidò Forum. Sempre dal ‘53 venne lanciata Science and Freedom diretta da Michael Polanyi, noto intellettuale

marxista. Potrà stupire, dato che in effetti il suo periodico «traz4v4 argomenti a proposito dei quali il Congresso, in genere, non era solito esprimersi, come la segregazione razziale negli Stati Uniti o l'apartheid in Sudafrica [...]. Tuttavia, dato che era un bollettino semestrale, con

un seguito di lettori limitato, la sua voce non era che un giunco nelle raffiche di vento polemico della guerra fredda». Da rilevare inoltre come

dal 1955 iniziò le sue pubblicazioni Soviet Survey, notiziario mensile diretto dallo storico Walter Laqueur, «che era anche il rappresentante del Congresso in Israele». La particolarità di questa rivista, che trattava delle questioni dell'URSS e dell'Est Europa, fu che, «stranamente,

perfino qualche rivista comunista trovò utile riportare articoli comparsi su Soviet Survey». Classico esempio di subalternità culturale. In Italia uscì dal 1956 7empo Presente, diretto da Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, che aveva il compito di combattere Nuovi Argomenti, rivista guidata da Alberto Moravia‘. In Australia usciva Quadrant, guidata dal poeta cattolico James McAuley: «divenne un

punto di riferimento per la sinistra non comunista dell’Australia». In India il Congresso pubblicò Quest dal 1955. In Giappone ci fu /iyu.

Insomma «alla metà degli anni Sessanta, il Congresso aveva esteso il proprio programma di pubblicazioni in modo da raggiungere altre aree di interesse strategico: Africa, mondo arabo e Cina»*. Tra le altre riviste sostenute finanziariamente vi furono Kenyon Review, Hudson Review, Sewanee Review, Poetry, Daedalus e The Journal of the History of Ide-

ast. Tattica preferita era di concedere talvolta perfino spazio a certi

Ivi, p. 100. 44 Ivi, pp. 192-193, 310.

4 Ivi, p. 194. “Ivi, p. 300.

356

«scivoloni antiamericani» che, per quanto «deplorevoli» e da evitare «per il futuro», secondo l'agente Lasky, servivano a smentire l'accusa

di essere riviste controllate direttamente dagli USA, facendo credere ad una loro reale quanto inesistente indipendenza e autonomia”. La punta di diamante di Ercounter. Il tocco di classe fu però la prestigiosa rivista Ercounter, pubblicata dal 1953 al 1990: «ebbe un ruolo centrale nella storia intellettuale del dopoguerra [...}. Fu letta in Inghilterra e in America, in Asia e in Africa. Con molti diversi interessi, quanto ai remi culturali, era stranamente silenziosa, 0 semplicemente opaca, su molti temi politici. In ogni caso aveva un chiaro contenuto ideologico e una posizione ben definita nell’ambito del pensiero anticomunista della guerra fredda. Non raggiunse mai il pareggio e fu sempre in sostanziale deficit; avrebbe dovuto raddoppiare le vendite per riuscire a colmarlo. Era intelligente. Si manteneva, con uno smodato dispensio di mezzi, collegata al mondo intellettuale. Michael Josselson ne parlava come della “rostra risorsa più importante”». Obiettivo prioritario: eliminare il New Statesman and Nation,

rivista britannica dalla tiratura settimanale di 85 mile copie che aveva rifiutato una rottura totale con Mosca. Anche l’intelligence britannica

intervenne attivamente sulla questione, così che l'Information Research Department sosteneva il Tribune, «dal quale erano estratti articoli

poi diffusi internazionalmente da funzionari del ministero degli Esteri». Insomma, «indipendentemente l'una dall'altra, l'intelligence britannica

e la CIA stavano entrambe perseguendo l'idea di creare una nuova rivista che potesse colmare il deficit di anticomunismo che percepivano nell'am-

biente intellettuale britannico. Tale sovrapposizione di sforzi era venuta alla luce durante una serie di incontri tenutisi nei primi mesi del 1951 a

Londra per iniziativa di Frank Wisnem. Un fondamentale ruolo diret-

tivo nell'operazione, presto nota al KGB per la partecipazione agli incontri anglo-statunitensi di Kim Philby, l’ebbe John Bruce Lockhart,

«esperto nell'infiltrazione delle organizzazioni comuniste in Europa»*®. Nonostante sia stata strombazzata come una rivista “libera” da

influenze politiche, i candidati per la direzione della rivista furono anche in questo caso figure apparentemente progressiste ma in realtà ben

1? Ivi, p. 196. # Ivi, pp. 150-152.

357

legate ai servizi segreti occidentali: lo statunitense Irving Kristol («che

aveva collaborato con la Young Peoples Socialist League, un'organizzazione della sinistra anticomunista, e con i trockisti») e Stephen Spender,

entrato negli anni Trenta «rel Partito Comunista, anche se solo per poche settimane», dato che il suo era una specie di «bolscevismo inglese da salotto». Nel 1948 Spender si era fatto infatti notare per aver scritto una

lode agli Stati Uniti dal titolo significativo: «Possiamo vincere le battaglia per le menti d'Europa». A confondere ulteriormente le acque ci fu anche una notevole sapienza tattica, dato che dal primo numero furono esclusi pezzi di Koestler e Aron, in quanto «troppo anticomunisti» e quindi poco opportuni. Era infatti necessario non far capire subito che ci si trovava di fronte ad un’altra operazione di propaganda controllata

dai servizi segreti occidentali. Un progetto ben chiaro a Kristol: «Ne/ primo numero, la politica è relativamente in secondo piano, dato che ci

poniamo lo scopo di conquistare un pubblico il più ampio possibile”. L’infiltrazione dei partiti di sinistra e il cavallo di Troia dell’Europa. L'obiettivo divenne ben presto «avvicinare la rivista a quel gruppo di intellettuali e politici del Partito Laburista», il quale con l'avvento della guerra fredda aveva visto crearsi spaccature al proprio interno: «a sinistra vi era una divisione tra gli antistalinisti e quelli favorevoli a una politica più conciliatoria nei confronti dell’Unione Sovietica, mentre la descra aveva come obiettivo di sconfiggere il comunismo. Quest'ultimo gruppo era organizzato attorno alla rivista Socialist Commentary e contava tra i suoi più importanti esponenti Denis Healey, Anthony Crosland, Rita Hinden e Hugh Gaitskell. Fu questo raggruppamento

(chiamato

“revisionista” a causa del suo impegno per la modernizzazione del partito, tra cui l'abolizione dello statuto del famoso “articolo 4° che lo impegnava alle nazionalizzazioni) a fornire alla CIA l’appiglio che stava cercando per “imbrigliare” il pensiero politico britannico e costringerlo ad assumere un ruolo compatibile con il complesso dei suoi progetti per l'Europa. Questi furono perseguiti progressivamente con successivi documenti elaborati per

la politica estera americana, a mano a mano che si consolidavano l'Alleanza Adlantica e la Comunità europea di difesa e che veniva creato il Mercato Comune Europeo, obictrivi che richiedevano ai Paesi europei di rinunciare a certi diritti nazionali a favore della sicurezza collettiva [...]. Il principale

gruppo di pressione per sostenere l’idea di un'Europa unita associata agli

4 Ivi, pp. 154-155.

50 Ivi, pp. 161-162. 358

Stati Uniti era il Movimento Furopeo, cui facevano capo molte organizzazioni, e che copriva una serie di attività dirette all’integrazione politica, militare, cconomica e culturale. Guidato da Winston Churchill, Averell Harriman e Paul-Henri Spaak, il movimento era strerramente sorvegliato dall’intelligence americana e finanziato quasi interamente dalla CIA artraverso una copertura che si chiamava American Committee on United

Europe il cui primo segretario esecutivo fu Tom Braden. Il braccio culturale del Movimento Europeo era il Centre Européen de la Culture, diretto da Denis de Rougemont. Oltre a questo, un vasto programma di borse

di studio ad associazioni studentesche e della gioventù, tra cui la EYC, European Youth Campaign [...] fu inaugurato da Braden nel 1950. Sotto

il controllo della CIA, queste organizzazioni erano la punta di diamante di una campagna di propaganda e penetrazione pensata per neutralizzare i movimenti politici di sinistra e attirarli nel campo del socialismo moderato [...]. Importanza decisiva in tutta l'operazione ebbe Jay Lovestone, capo di Irving Brown, che, dal 1955, dipendeva da James Jesus Angleton. Compito di Lovestone era infiltrare i sindacati europei, eliminare gli elementi dubbi e promuovere la scelta di dirigenti accettabili per Washington [...]. Furono, fondamentalmente, i seguaci di Lovestone [...] a essere in grande

ascesa nci circoli laburisti britannici alla fine degli anni Cinquanta»”!.

Già dagli anni precedenti Lovestone era agevolato dal lavoro

dell'agente Diana Josselson: «il suo l2voro alla divisione comportava la stesura di relazioni sulle organizzazioni sindacali comuniste europee, sul conto delle quali aveva accesso a intercettazioni segrete»? Tutto ciò aggiunge un'importante spiegazione oggettiva alla degenerazione ideologica della sinistra comunista e marxista occidentale.

La corruzione (ideologica e non solo) dei Laburisti inglesi è stato il caso più appariscente: quando Hugh Gairskell, leader del Partito Laburista, «lanciò il suo famoso attacco ai “compagni di strada” della sinistra del partito, nel congresso laburista di Scarborough nel 1960, qualcuno chiese quali fossero, invece, i suoi compagni. Scrivendo a Michael Josselson, dopo il congresso, Lasky riferì che Gaitskell l'aveva ringraziato personalmente per il sostegno di Ancowrter alla sua linca. Inoltre, aggiunse Lasky, Encounter era stato citato nei dibattiti del congresso, altra prova che la rivista stava conseguendo “molto prestigio”»?.

9 Ivi, pp. 292-293.

2 Ivi, p. 140. Ivi, p. 294.

359

L'Italia e le domande ancora aperte. Dopo quanto lerto si aprono mille interrogativi: quanto furono infiltrare le organizzazioni comu-

niste e i sindacati di classe? In quali Paesi? Con quali successi? La CIA aveva un piano per infiltrare anche il Partito Comunista dell’Unione Sovietica e le organizzazioni anticoloniali nei vari Paesi del “Terzo Mondo”? La Stonor Saunders ha tracciato infatti una storia che com-

prende solo il primo ventennio di attività della CIA, rerminando la propria analisi al 1967. Fino al 1991, anno della caduta dell'URSS, cosa è stato fatto? Conosciamo ormai abbastanza bene, come avremo modo di vedere nei prossimi volumi, le tecniche di destabilizzazione

più o meno “classiche” messe in atto in giro per il mondo durante l’intera Guerra Fredda e anche in tempi più recenti. Anche se abbiamo molti indizi non sappiamo però ancora granché di ufficiale sulla guerra psicologica condotta nell’ultimo mezzo secolo, a parte i dati ormai assodati sulle “rivoluzioni colorate” e le rivelazioni scaturite da Snowden e Wikileaks. Gli storici devono ancora scavare ampiamente su questo terreno che si preannuncia assai fertile di nuove scoperte capaci di fare nuova luce sulla lotta di classe complessiva con cui l’im-

perialismo ha riaffermato il suo dominio in maniera quasi totalitaria.

Nella prefazione dell’opera della Stonor Saunders, il giornalista Giovanni Fasanella, spiega bene le conseguenze riguardanti l'Italia. Pur non avendo prove dirette, non è difficile a questo punto trarre le somme: «Il fatto è che l'anticomunismo del Congresso, demonizzato negli anni Cinquanta, nei decenni successivi è stato lentamente assimilato dal PCI. AI punto da trarre da quell'esperienza gli clementi per costruire la sua nuova identità. I comunisti hanno utilizzato la sinistra indipendente come uno dei canali per il suo accreditamento democratico |...].

È possibile cioè che, così com'è accaduto con i laburisti in Inghilterra, i socialdemocratici in Germania e i socialisti in Francia, gli strateghi di “packet”, il piano di guerra psicologica della CIA, avessero in qualche modo programmato l’“attacco” culturale al PCT. La sinistra indipendente, dunque, potrebbe aver funzionato anche come veicolo per “infiltrare” idee liberali nella sinistra marxista italiana [...]. Chi scrive è stato a lungo

un militante del PCI c poi elettore dei suoi eredi PDS e DS. Ma si è formato, come centinaia di migliaia di militanti e simpatizzanti della

sua generazione, più sugli editoriali di Eugenio Scalfari che sugli scritti di Pierro Ingrao»”.

2 Ivi, p. XIII.

360

Non ci sono, a quanto ci risulta, fonti e documenti attestanti collaborazioni tra Scalfari e i servizi segreti. Si può soltanto constatare la deriva filo-imperialista del giornale, avvenuta dopo che negli

anni ‘70 seppe sottrarre ai giornali comunisti Puese Sera e L'Unità il primato di vendite nell’area della sinistra italiana. Pur senza prove, è sicuramente molto improbabile che i servizi segreti occidentali abbiano smesso di utilizzare queste tecniche negli anni ‘60. Alle future

generazioni di storici il compito di analizzare questi fatti cercando prove concrete. Non essendo questo soltanto un libro di storia occorre certamente trarne considerazioni e conclusioni politiche, sulle quali torneremo in Appendice segnalando delle fonti di informazioni rimaste indipendenti dall'Impero.

14. Le condizioni necessarie

per la ricostruzione

Lasciamo direttamente la spiegazione del senso del capitolo e dei titoli trovati finora alla serie di contributi che andiamo a pubblicare qui di seguito. Iniziamo da un estratto dal libro Contro il revisionismo

di Kurt Gossweiler!, eminente storico e dirigente comunista della DDR: «Un importante presupposto per la ricostituzione del movimento comunista come movimento unitario marxista-leninista. Per i marxisti

non costituisce certo una sorpresa che la fine dell’Unione Sovietica e degli Stati socialisti europei abbia provocato il ritorno della guerra in

Europa e l’inizio di un'offensiva generalizzata del capitale contro la classe operaia e tutto il mondo del lavoro. Una simile brutale offensiva del capitale può essere battuta solo con una comune e unitaria difesa da parte

di tutti coloro che ne vengono colpiti. Non fosse altra che per questo, apparirebbe evidente la necessità del ripristino di un movimento comunista unitario, per non parlare poi del compito di por fine al dominio dell’imperialismo. Sfortunatamente però il movimento comunista è ben lontano dall’essere un movimento unitario. In proposito, così almeno mi pare, l'ostacolo principale che si erge contro la realizzazione dell'unità dei comunisti non sta tanto nelle divergenze d'opinione sui compiti del presente quanto piuttosto nel contrasto di idee relativo alla variazione della natura e dalla politica dei Pacsi socialisti, e in primo luogo dell’Unione Sovietica, nel passato. Secondo alcuni, l'Unione Sovictica e gli altri

Stati socialisti, esclusa l'Albania, a partire dal XX Congresso avrebbero perduto completamente la qualità di Paesi socialisti c si sarebbero trasformati in Paesi a capitalismo di Stato: costoro considerano chiunque non condivida questa opinione come un revisionista, con cui non sarebbe possibile avere nulla in comune.

'K. Gossweiler, Contro il revisionismo, cit., pp. 101-114.

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Altri invece ravvisano in Stalin, secondo quanto è stato ad essi propinato fin dal XX Congresso e con crescente ossessività dal tempo di Gorbaétev, il corruttore del socialismo e pertanto dichiarano di non poter avere nulla a che fare con gli “stalinisti”. Quest'ultima posizione è quella su cui si attesta la maggior parte delle organizzazioni che dopo la disgregazione dci partiti comunisti si sono riformate dalle loro rovine, e per essere precisi, non solo quelle che ora si professano apertamente come partiti socialdemocratici, ma persino il maggior numero di quelle che si qualificano come partiti comunisti, e financo la PDS (tedesca), che na-

viga tra le due posizioni che abbiamo individuato. L'antistalinismo è nei fatti oggi il principale ostacolo all’unificazione dei comunisti, così come ieri è stato il fattore principale della distruzione dei partiti comunisti

e degli Stati socialisti. Per convalidare un'affermazione del genere, mi limito a citare due restimoni di primo piano, che stanno certo al disopra di ogni sospetto di “stalinismo”. Il primo è l'ex ministro degli esteri americano John Foster Dulles, il secondo non altri che Gorbatev. Dulles, dopo il XX Congresso del PCUS, così si espresse con animo speranzoso: “La campagna contro Stalin ed il relativo programma di liberalizzazione hanno provocato una reazione a catena che a lungo termine non potrà venir arrestata”. Gorbatev ha colto

nel segno quando, a una domanda sullo “stalinismo” in Unione Sovietica nel quadro di un'intervista del 4 febbraio 1986 all’Humzrité (quotidiano del PC francese), ha così caratterizzato l'antistalinismo, e involontaria-

mente anche il nucleo di fondo della propria opera: “Stalizismo è un concetto inventato dai nemici del comunismo e che sinteticamente viene usato per infangare insieme sia l'Unione Sovietica che il socialismo”. (Nessuno quindi può dire che Gorbalev non sapesse che cosa stesse facendo con la sua campagna contro Stalin!).

L'elemento di gran lunga più efficace nell’antistalinismo è costituito dalla rappresentazione di Stalin come un despota assetato di potere, un

sanguinario assassino di milioni di innocenti. Su questo molto ci sarebbe da dire. Qui, in breve, soltanto le seguenti osservazioni.

Primo. Per quanto se ne possa restare profondamente rammaricati, fatto è che mai nella storia una classe oppressa si è liberata dal giogo dell’oppressione senza che la sua lotta rivoluzionaria di liberazione e il rigetto dei tentativi controrivoluzionari di restaurazione siano costati la vita anche di molti innocenti. Secondo. In ogni epoca la controrivoluzione si è servita di questo dato di farto per marchiare davanti agli occhi delle masse i rivoluzionari come criminali abominevoli, omicidi c assetati di sangue: ad esempio Thomas Miinzer, Cromwell, Robespierre, Lenin, Liebknecht, la Luxem-

burg, ecc. Terzo. Solo un cicco pregiudizio riesce a far annebbiare o negare il nesso causale che esiste tra la presa del potere, in Germania, da parte del

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fascismo tedesco con il riarmo e l’incoraggiamento alla sua espansione verso est benevolmente favoriti dalle potenze occidentali vincitrici c, in URSS, i processi di Mosca e le misure repressive contro gli stranieri, compresi gli immigrati stranieri. Bertolt Brecht ha lumeggiato molto bene questo nesso quando ha scritto: “/ processi sono un atto di preparazione alla guerra”. Detto in forma ancora più precisa: essi furono una risposta alla preparazione imperialfascista dell'aggressione contro l'Unione Sovietica. Senza la certezza che prima o poi sarebbe stata scatenata contro l'Unione Sovietica l'aggressione fascista, non ci sarebbero stati i processi di Mosca né le “epurazioni” draconiane, che furono posti in essere al fine di evitare che si formasse nel Paese una quinta colonna. Quarto. Soltanto persone politicamente cieche o molto ingenue hanno potuto non accorgersi che i Chrustev ed i Gorbatev con le loro accuse contro Stalin non sono stati guidati da sentimenti di ripulsa nei confronti di ingiustizie e azioni disumane. Sc invece così fosse stato, essi avrebbero posto sotto accusa l'imperialismo e i suoi esponenti, almeno con quell’accanimento che hanno dimostrato nei confronti di Stalin. Ma è accaduto il contrario: il tratto più rilevante della loro politica è stato quello di guadagnarsi la fiducia dell’imperialismo, nonostante i suoi crimini sanguinosi contro l’umanirà! Quinto. In stridente contrasto con tale atteggiamento sta il farto che perfino il rappresentante diplomatico della principale potenza imperialistica, l'ambasciatore USA Joseph A. Davies, dà di Stalin una valutazione lusinghiera, ma che questa ed altre espressioni positive di

uguale segno sull’URSS, dovute a testimonianze dell’epoca, siano state cancellate nell'Unione Sovietica stessa a partire dal XX Congresso. E dunque, prima di tutto, alcune osservazioni con riguardo ai processi di Mosca. Cominciamo da alcuni estratti dal libro di J. A. Davies,

uscito nel 1943 a Zurigo: Ambasciatore degli USA a Mosca. Rapporti autentici e confidenziali sull'Unione Sovietica fino all'ottobre 1941. Davies

ha seguito, come ogni diplomatico che lo avesse desiderato, i processi di Mosca quale testimone oculare (di professione egli era giurista). Il 17 marzo 1938 Davies ha rrasmesso in un dispaccio a Washington le proprie impressioni sul processo contro Bucharin ed altri. Il relegramma è del seguente tenore (estratto): “Malgrado le mie prevenzioni..., dopo aver osservato giorno per giorno i testimoni ed il loro atteggiamento, in forza dell'evi-

denza che automaticamente me ne derivava, mi sono formato la convinzione, con riguardo agli imputati politici, che un numero sufficiente dei reati contro

le leggi sovietiche elencati negli atti di accusa risultasse provato e sottratto ad ogni dubbio ragionevole, sì da giustificare la pronuncia di colpevolezza per alto tradimento e la condanna alle sanzioni previste dalla legge penale sovietica. L'opinione di tutti i diplomatici che hanno presenziato con maggiore regolarità alle udienze è stata in generale che il processo abbia posto allo scoperto il dato di un'accanita opposizione politica e di un complotto estrema-

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mente serio, e tutto ciò a permesso ai diplomatici di intendere molti dei fatti,

sino ad allora incomprensibili, svoltisi in Unione Sovietica nei passati mesi”. Davies già nel 1937 aveva seguito il processo contro Radek e altri, e ne aveva fatto rapporto, il 17 febbraio 1937, al segretario di Stato americano. In questa relazione egli tra l’altro scrisse: “Una considerazione

oggettiva... (tuttavia) mi ha costretto, per quanto riluttante, a concludere che lo Stato aveva effettivamente provato la propria accusa (almeno per quanto riguardava l'esistenza tra i dirigenti politici di un esteso complotto e di intrighi occulti contro il governo sovietico ogni possibile dubbio è stato eliminato, come pure circa il fatto che i reati indicati in base alle leggi vigenti nell'atto d'accusa erano stati commessi e pertanto risultavano punibili). Ho parlato con molti, anzi con quasi tutti, i membri del corpo diplomatico locale e, salvo forse una sola eccezione, tutti sono stati del parere che le udienze avevano dimostrato inconfutabilmente l’esistenza di un piano politico segreto e di un complotto mirante all'eliminazione del governo”. L°11 marzo 1937 Davies ebbe ad iscrivere, come nota di diario, il

seguente episodio emblematico; “Un altro diplomatico ieri ha formulato in mia presenza una considerazione assai illuminante. Parlavamo del processo ed egli si è espresso nel senso di non nutrire alcun dubbio circa la colpevolezza degli accusati: e che tutti noi che presenziavamo alle udienze ne fossimo convinti... che il mondo esterno invece sembrasse ritenere, in base ai resoconti del processo, che questo fosse una semplice messa în scena (egli ha parlato di “operazione di facciata”)..., che egli da un lato sapeva che tutto

ciò non fosse vero, ma che dall'altro era forse un bene che il mondo esterno la pensasse in quel modo”. Davies riferisce anche dei numerosi arresti e di aver parlato delle

“purghe”, il 4 luglio 1937, con il Ministro degli esteri Litvinov. Egli scrive circa le considerazioni di quest'ultimo: “Litvinov... ha spiegato che queste purghe erano necessarie per conseguire la certezza di aver eliminato ogni possibile tradimento connesso all'eventualità di una collaborazione [dei nemici

interni: ndr] con Berlino o Tokyo. Un giorno il mondo avrebbe compreso che queste azioni erano state necessarie per proteggere il governo dall'incombente tradimento. Anzi, l'Unione Sovietica in verità stava rendendo un servizio a tutto il mondo, dato che, proteggendo se stessa dalla minaccia del dominio mondiale dei nazisti e di Hitler, essa si sarebbe posta come un potente ba-

luardo contro la minaccia nazionabocialista. Un giorno il mondo avrebbe capito quale uomo di imponente grandezza fosse Stalin”. Molto istruttiva è anche la descrizione che Davies fece del suo colloquio con Stalin in una lettera del 9 giugno 1938 alla figlia. Egli

era restato molto colpito dalla personalità di Stalin, e infatti scrisse: “se ti riuscirà di raffigurarti una personalità che in tutto è l'esatto contrario di ciò che il nemico più accanito di Stalin sarebbe capace di inventarsi, allora

avrai un'immagine di quest'uomo. Le condizioni, che io so qui prevalenti, e questa personalità sono divaricate al punto da formare due poli opposti. La

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spiegazione naturalmente sta nel fatto che gli uomini sono pronti a fare per la loro religione o per una “causa” ciò che al di fuori di essa non farebbero mai”. Nel 1941, dopo l'aggressione dci fascisti all'Unione Sovietica, Davies riassume le proprie osservazioni nell’affermazione che i processi per alto tradimento “/@vevano fatta finita con la quinta colonna di Hitler in Russia”. Già nel 1936 si cra celebrato il processo contro Zinov'ev ed altri. Aveva avuto occasione di seguirlo da vicino il noto avvocato della Corona brirannica D. N. Pritt. Delle proprie impressioni egli riferì nel suo libro di ricordi From Right to Left, pubblicato a Londra nel 1965: “Ho avuto l'impressione...

che in generale il processo fosse tenuto in modo corretto e che gli accusati fossero colpevoli... L'impressione di tutti i giornalisti, stata anch'essa che il processo fosse corretto e gli ogni osservatore straniero, e ce ne erano molti pensavano la stessa cosa... Da uno di essi ho

con i quali ho potuto parlare, è accusati colpevoli; e certamente e in maggioranza diplomatici, sentito dire: ‘È chiaro che sono

colpevoli, ma noi, per ragioni di propaganda, lo dobbiamo negare” Da tutro ciò scaturisce evidente che, secondo il competente giudizio di esperti di diritto borghesi del calibro di Davies e Pritt, gli imputati dei processi di Mosca degli anni 1936, 1937 e 1938 erano stati condannati a giusto titolo, dal momento che risultavano provati i reati di cui essi erano stati accusati. A questo proposito vogliamo ancora ricordare le ri-

flessioni che all’epoca espresse su quei tormentosi processi Bertolt Brecht.

Riguardo alle idee degli accusati egli scrisse: “Le idee sbagliate li hanno ridotti all'estremo isolamento e indotti al reato comune. Tutta la marmaglia dell'interno e dell'estero, tutti i parassiti, i delinquenti professionali e tutte le spie si sono annidati presso di loro. Con tutta questa canaglia essi avevano in comune gli obiettivi. Sono convinto che questa è la verità e sono convinto che questa verità dovrà per forza risuonare plausibile, persino in Europa occidentale, a lettori non amichevoli... Il politico, che può giungere al potere solo attraverso la sconfitta, parteggia per la sconfitta. Colui che vuol essere “il salvatore”, provoca la situazione nella quale egli possa riuscire a salvare: dunque, una situazione negativa... Inizialmente Trockij aveva considerato

la caduta dello Stato degli operai in seguito ad una guerra come un pericolo, ma poi la guerra sempre più si era fatta per lui il presupposto della propria azione pratica. Se vi sarà la guerra, la affrettata costruzione [del socialismo:

ndr] crollerà, l'apparato si isolerà dalle masse, verso l'esterno si dovranno cedere l'Ucraina, la Siberia orientale e così via, all'interno si dovranno fare concessioni, tornare a forme capitalistiche e si dovranno rafforzare o lasciar rafforzare i kulaki: ma tutto ciò sarà ad un tempo il presupposto di una nuova azione, del ritorno di Trockij. I centri antistalinisti smascherati non

hanno la forza morale di appellarsi al proletariato, più ancora che per la vigliaccheria di questa gente, perché essa non possiede alcuna base organizzativa tra le masse, non ha nulla da offrire e non fornisce prospettive per le forze produttive del Paese. Di questa gente si può altrettanto bene credere che confessi troppe cose o invece troppo poche”.

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Sc assumiamo come ipotesi che Davies e Pritt (e Brecht) avessero ragione nei loro giudizi sui processi di Mosca, allora scaturisce di necessità la domanda: coloro che, come Chruséev e Gorbatev, hanno in epoche successive dichiarato che i condannati dei processi erano state delle vittime innocenti, non l'hanno per caso fatto in quanto simparizzavano con essi o addirittura erano stati [nel caso di ChruSéev: ndr] segreti complici loro e perché intendevano portare a compimento la loro opera in precedenza fallita? E se poi, attraverso un esame più approfondito della loro (di Chruséev, Gorbatev e simili) attività politica, arrivassimo a costatare

che quanto avevano confessato gli imputati dei processi di Mosca in relazione ai propri progetti e obiettivi e ai metodi impiegati per raggiungerli fosse da intendersi come il copione per la loro (di Chrustev e soprattutto

di Gorbaéev) azione, ciò porterebbe di conseguenza ad una duplice conclusione: primo: che i processi di Mosca possono fornire la chiave per la chiarificazione e la spiegazione di ciò che fin dal XX Congresso del

PCUS ha spinto l'Unione Sovictica e gli altri Pacsi socialisti, nonché il movimento comunista, a deviare dalla retta via; secondo: che l’azione dei Chrusétev e dei Gorbatev e il risultato di tale azione portano a concludere che con i processi di Mosca non si è trattato per nulla della messa in scena di processi spettacolo, ma che per mezzo di essi sono stati smascherati e sventati complotti dello stesso genere di quelli che in definitiva Gorbaéev ha potuto condurre all’esito sin da quell'epoca pianificato: con la differenza che oramai nessun processo di Mosca lo ha più fermato. Se aver dipinto Stalin come un despota sanguinario ed il “suo” regime alla stregua di un inferno sulla terra è servito a paralizzare la resistenza nei confronti della controrivoluzione di Chruséev e di Gorbadev,

la rappresentazione di uno Stalin falsificatore dei principî di Lenin ha per obiettivi il disarmo teorico ed ideologico del movimento comunista e di turci i socialisti. la maggior parte delle munizioni di questo tipo proviene dall’arsenale del trockismo. Per sostenere quest'affermazione porterò solo alcuni esempi:

La questione della vittoria del socialismo in un solo Paese. Il crollo dei Paesi socialisti europei e soprattutto dell’Unione Sovietica viene sbandierato come la “prova” della giustezza della tesi di ‘Irockij sull’impossibilità della costruzione del socialismo in un solo Paese. In proposito,

però, di solito si tace che è stato proprio Lenin il primo a formulare, nel 1915, la tesi della possibilità del socialismo in un solo Paese. Come è noto, in un articolo intitolato G4 Stati uniti d'Europa, Lenin asserì: “L'ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Da ciò consegue che la vittoria del socialismo è possibile inizialmente in pochi Paesi 0 addirittura in un singolo Paese” .Vrockij, già da anni

uno degli antagonisti più accaniti di Lenin, immediatamente lo contraddisse, sostenendo che era illusorio credere “che, ad esempio, una Russia rivoluzionaria potesse affermarsi di fronte ad un'Europa conservatrice”.

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Stalin, che secondo quanto affermano gli odierni trockisti sarebbe stato l'inventore della tesi della possibilità di costruire il socialismo in un

solo Paese, in realtà ha difeso quella tesi di Lenin contro Trockij: “Che cosa significa la possibilità di una vittoria del socialismo in un solo Paese? Siguifica la possibilità di superare le contraddizioni tra proletariato e contadini

sulla base delle forze interne del nostro Paese, la possibilità che il proletariato prenda il potere e si serva di questo potere per conseguire nel nostro Paese la compiuta società socialista, appoggiandosi sulla simpatia e sul sostegno dei proletari degli altri Paesi, ma senza una precedente vittoria della rivoluzio-

ne proletaria in altri Paesi. Che cosa significa l'impossibilità della piena e definitiva vittoria del socialismo in un solo Paese senza la vittoria della rivo-

luzione in altri Paesi? Significa l'impossibilità di una piena garanzia contro l'intervento e di conseguenza anche contro la restaurazione dell'ordine borghese, qualora la rivoluzione non abbia vinto in almeno una serie di Paesi”. Ma Stalin non ha solo difeso la tesi di Lenin: con la costruzione del socialismo e l'affermazione del potere sovietico di fronte agli aggressori fascisti, sotto la sua guida, il PCUS ha dato la prova della giustezza della tesi di Lenin. ‘lrockij, al contrario, tutte le volte che ha profetizzaro il crollo del potere sovietico, è stato contraddetto dalla storia, e ciò si è verificato anche a più riprese in uno stesso anno. Una delle sue ultime

profezie di questo tenore, resa pubblica il 23 giugno 1939, suonava così: “Il regime politico non sopravvivrà ad una guerra”.

Con tutta evidenza, è il desiderio che ha generato questa profezia. Ciò traspariva così chiaramente da tutte le esternazioni di Trockij di quegli anni, da indurre lo scrittore borghese tedesco Lion Feuchtwanger a trarre questa conclusione: “Ma in che cosa dunque è consistito l'obiettivo principale di Trockij durante tutti gli anni dell'esilio e quale può essere ancora oggi? Ritornare nel Paese per ritornare al potere, costi quel che costi". Perfino al prezzo della collaborazione con i fascisti: “Se Alcibiade è passato ai persiani, perché Trockij non potrebbe passare ai fascisti”. Anche Feuchtwannger è stato testimone diretto di uno dci processi di Mosca, c precisamente del secondo, quello contro Radck, Pjatakov e altri, nel gennaio 1937. Stalin e la NEP, Uno dci rimproveri di Gorbatev a Stalin è stato che nei suoi ultimi lavori Lenin avrebbe, attraverso l'elaborazione della “Nuova Politica Economica”, indicato una diversa via per la costruzione della nuova società socialista, che invece Stalin avrebbe abbandonato. Questo rimprovero viene utilizzato dagli antistalinisti di ogni risma, i quali affermano che Stalin avrebbe sostituito la concezione leniniana della NEP con un “corso monopolistico di Stato”, portando in tal modo alla rovina il socialismo. Per Lenin il nucleo della Nuova Politica Economica era

rappresentato dal rafforzamento dell'unità politica della classe operaia e del suo Stato con l'ampia classe dei contadini per la via dell'unità economica con l'economia contadina. “Se battiamo il capitalismo e instauriamo

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l’unità con l'economia contadina, allora saremo una forza assolutamente invincibile”; asserì Lenin nel 1922 all'XI Congresso del PCR(R).

Stalin concepiva la NEP esattamente nella stessa maniera e la portò avanti do,© ia morte di Lenin: “La NEFP è la politica della dittatura del proletariato, la quale mira al superamento degli elementi capitalistici e alla costruzione dell'economia socialista mediante l'utilizzazione del mercato, attraverso il mercato, e non attraverso uno scambio diretto dei prodotti senza mercato, escludendo il mercato. Possono i Paesi capitalistici, almeno i più

sviluppati di essi, fare a meno della NEP nel passaggio dal capitalismo al socialismo? Penso che non lo possano. In maggior o minor grado la Nuova

Politica Economica con i suoi rapporti di mercato è assolutamente indispensabile ad ogni Paese capitalistico nel periodo della dittatura del proletariato. Da noi ci sono compagni che contestano questa tesi. Che significa tuttavia contestare questa tesi? Significa, per prima cosa: assumere che noi, immedia-

tamente dopo la presa del potere da parte del proletariato, disporremmo già di apparati di distribuzione e approvvigionamento bell'e pronti al cento per cento per realizzare lo scambio tra città e campagna, tra industria e piccola

produzione, che rendano possibile l'attuazione di uno scambio diretto dei prodotti senza mercato, senza smercio, senza economia monetaria. È sufficiente porre una questione del genere per capire quanto sia assurda una simile ipotesi. Ciò significa, in secondo luogo: assumere che la rivoluzione proletaria

dopo la presa del potere da parte del proletariato debba incamminarsi sulla via dell'esproprio della media e della piccola borghesia e debba caricarsi del fardello enorme di procurar e lavoro ai milioni di nuovi disoccupati così creati artificialmente e di occuparsi del loro sostentamento. Basta porsi questa domanda per capire quanto sarebbe insensata e folle una tale politica da parte della dittatura del proletariato”. Perché una citazione tanto estesa su un tema così poco attuale?

Primo, perché siamo convinti che questo tema, la politica economica per la costruzione del socialismo, sia stato tolto dall’ordine del giorno in Europa soltanto temporaneamente (e altrove per nulla affatto). Secon-

do, perché è necessario ricordare che esiste un enorme patrimonio di cognizione teoriche e di esperienze pratiche relative a una costruzione del socialismo effettuata con successo, che però è stato messo all'indice con la taccia di “stalinismo” dai successori revisionisti di Lenin e Stalin,

affinché cadesse nel dimenticatoio. Infine, terzo, perché nella sinistra anticapitalistica si sta diffondendo un’ideologia pseudo-di-sinistra, il cui promotore più noto è Robert Kurz: secondo costui la radice di tutto il male non è il capitalismo, bensì la produzione delle merci, invece di passare al diretto scambio dei prodotti. Di fronte a simili tesi lc sopraccitate argomentazioni sono senz'altro di grande attualità! Come mai il revisionismo è riuscito a distruggere i risultati di decenni di costruzione del socialismo? Ovviamente vi sono molte ragioni. Una di grandissimo peso è, secondo me, la seguente: per molto tempo il

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revisionismo si è mimetizzaro tenacemente come antirevisionismo, come difesa del leninismo contro la asserita falsificazione di questo da parte di Stalin. Soltanto dopo aver praticamente completato la sua opera di distruzione, Gorbacev si è tolto la maschera di comunista, di leninista, confessando pubblicamente di essere un simpatizzante della socialdemocrazia, dunque un anticomunista e un antileninista. Ma l’antistalinismo fin dal principio è stato per sua intrinseca natura antileninismo, antimarxismo e anticomunismo. Ancora oggi tuttavia molti, perfino nel campo comunista, non riconoscono ciò, perché soggiacciono tuttora

all'influenza di decenni di propaganda di odio contro Stalin da parte dci Segretari generali anticomunisti del PCUS a partire dal XX Congresso: costoro hanno equiparato Stalin a Hider, proprio quello Stalin, il quale, come aveva predetto Ernst Ihilmann, ha spezzato a Hitler l'osso del collo! Dobbiamo aver chiaro che, nella lotta contro l’antistalinismo, solo in apparenza si tratta della persona di Stalin, nella sostanza si tratta invece dell’esistenza stessa del movimento comunista: restiamo, come Marx e Engels, Lenin e Stalin, fermamente ancorati alla realtà della

lotta alla classe oppure ci spostiamo, al pari degli antistalinisti Chruséev, Gorbaéev e dei loro simili, sul terreno della riconciliazione con l’imperialismo? Qui sta la questione, dalla cui risposta dipende il destino del movimento comunista. È poiché il problema può trovare una soluzione giusta solo se viene espulso il veleno revisionista in tutte le sue forme e manifestazioni, il movimento comunista deve vincere nelle proprie file anche l’antistalinismo».

Argomentazioni simili, tese ad uscire dalla narrazione borghese, sono state riportate da Domenico

Losurdo che sottolinea il nesso

stringente che corre tra l’analisi del passato e la capacità di analizzare adeguatamente il presente: «Con la crisi prima e col crollo poi del “socialismo reale”, in Occidente e in Italia in modo particolare la sinistra ha smarrito ogni reale autonomia. Sul piano storico ha sostanzialmente desunto dai vincitori il bilancio storico del Novecento. Due sono i punti centrali di tale bilancio: per larghissima parte della sua storia, la Russia sovietica è il paese dell'orrore e persino della follia criminale. Per quanto riguarda la Cina, il prodigioso sviluppo economico che si verifica a partire dalla fine degli anni ‘70 non ha nulla a che fare col socialismo ma si spiega soltanto con la conversione del grande paese asiatico al capitalismo. A partire da questi due capisaldi ogni tentativo di costruire una società post-capitalistica è oggetto di totale liquidazione c persino di criminalizzazione, e l’unica possibile salvezza risiede nella difesa o nel ristabilimento del capitalismo.

È paradossale, ma sia pure con sfumature e giudizi di valore talvolta diversi, questo bilancio viene spesso sottoscritto dalla sinistra, compresa

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quella “radicale”. [...] Subalterna sul piano del bilancio storico così come

delle categorie filosofiche, la sinistra (compresa quella radicale) è chiaramente incapace di procedere a un’“analisi concreta della situazione concreta”.Tanto più, se teniamo presente che alla catastrofe teorico-politica ha contribuito ulteriormente una mossa sciagurata, quella che contrappone negativamente il “marxismo orientale” al “marxismo occidentale”. Alle spalle di questa mossa agisce una lunga e infausta tradizione»?.

14.1. I limiti di comprensione del marxismo occidentale Approfondiamo il tema dei limiti storici mostrati dal “marxi-

smo occidentale”. Diamo spazio ad un'utile ed interessante analisi” dal taglio storico-politico di particolare importanza per i passaggi

sulla posizione di Rosa Luxemburg nei riguardi dell’Ortobre rosso e dell’incomprensione profonda dell’epoca staliniana: «Contrariamente a quanto ritenuto da coloro che elevano l’antistalinismo come matrice di un nuovo inizio per il movimento rivoluzionario, prosperati in questi ultimi anni, il movimento comunista che nel suo complesso sotto il profilo storico valoriale si richiama nella sua complessità all'esperienza storica del comunismo del ‘900 mostra ancora una certa vitalità (basti pensare, per rimanere in Europa, al KKE in Grecia o al PC di Portogallo). Sorprese giungono da Est (cx URSS, ex

Cecoslovacchia); si conferma una certa tenuta politica in Europa; Cuba,

Corca e Vietnam non hanno rinnegato il carattere socialista della propria società; ad Atene e Bruxelles si svolgono sistematicamente le assisi internazionali dei PC che non sono omologati al nuovo corso social-democratico della Sinistra Europea (SE) e della SEL. Non si tratta, ovviamente, di un movimento unico, omogenco, organizzato, né da questa capacità

di resistenza pare emergere una nuova elaborazione politica capace di riunificare le forze. Piuttosto, il dato più marcato è l'avvicinamento alle

posizioni di una socialdemocrazia “di sinistra” di tutti i partiti “socialisti” (ex Partiti “comunisti”) emersi nei Paesi dell'Est dopo gli avvenimenti del

1989. Tale modificazione appare evidente anche come base preliminare della rinascita del PCUS. In Europa occidentale appare invece attivo il

2 Rete dei Comunisti & S. G. Azzarà, È morto Domenico Losurdo, filosofo € marxista, Contropiano, 28 giugno 2018.

* Originariamente pubblicata come G. Apostolou, L'ipocrisia dell'antistalinismo, 19 luglio 2011. La paternità del testo è dubbia, il che non inficia la bontà dell’argomentazione.

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tentativo di ridefinire un “neocomunismo” che mantenga alcuni clementi di continuità con l’esperienza storica del movimento comunista. Il dibattito c l’analisi sui disastri c le illusioni del progetto Gorbateviano,

dopo essere stato viziato da un sostegno acritico e un po’ suicida, è stato ormai rimosso, anche perché i leader della perestrojka sono stati scalzati dagli avvenimenti più rapidamente del previsto. Se la contraddizione più

evidente pare quella della riconversione socialdemocratica degli cx Partiti “Comunisti” a Est, mi sembra invece più urgente sottolineare le contraddizioni e rendenzialmente i guasti che il “neocomunismo” può arrecare ad un processo reale di riorganizzazione e rinnovamento del movimento

comunista. Il percorso dei ncocomunisti comincia quasi sempre con il “ritorno a Marx”, solo qualche audace pensa ad un “ritorno a Lenin”, ma degli anni della NEP. Sul resto dell'esperienza del movimento comunista,

cioè più o meno 70 anni di esperienze statuali e rivoluzionarie, viene

imposta la discontinuità e il comodo luogo comune di “stalinismo” che dovrebbe arbitrariamente sintetizzare tutta l’esperienza del “socialismo reale” e del movimento comunista internazionale fino agli anni °90 [...].

Hsiste infatti un ampio arco di esponenti marxisti di tutto rilievo che, di fronte alla rivoluzione d'Ottobre, mostrano di non comprendere i

passaggi c le scelte del gruppo dirigente comunista russo. I “marxisti”, che da sinistra hanno attaccato il potere sovietico e che si rifanno alle claborazioni di Rosa Luxemburg, omettono spesso aspetti significativi delle stesse:

1 - Una volta uscita dal carcere e alle prese con l’organizzazione e le scelte da realizzare per la rivoluzione tedesca, Rosa Luxemburg retrificò molte delle critiche avanzate alla rivoluzione sovietica (esempio: sulla contrapposizione tra il parlamentarismo dell’assemblea costituente e la

democrazia diretta dei Soviet). Ciò significò che nel “fuoco della lotta” molti dei principi vengono adeguati alle scelte concrete da operare. 2 - È molto sospetto che di tutta l'elaborazione di Rosa Luxemburg siano stati divulgati solo alcuni elementi (la libertà di fronte alle restrizioni post rivoluzionarie imposte dai bolscevichi) e non altri, come

ad esempio le posizioni sulla questione agraria in cui la Luxemburg, in anticipo su quello che sarà realizzato nell’epoca di Stalin, si diceva contraria alla distribuzione della terra ai contadini, favorevole ad una rapida collettivizzazione delle terre ed al loro legame con l'industria per evitare i contrasti tra città e campagna onde evitare l'opposizione dei contadi-

ni-proprietari al socialismo (il che avvenne realmente e fu la causa della lotta contro i Kulak).

I neocomunisti |...] italiani ed curopci hanno cercato spesso di contrapporre le tesi di Rosa Luxemburg all'esperienza sovietica e ai

comunisti russi, ma un esame più serio porterebbe a vedere le cose diversamente. Utilizzando le tesi di filosofi marxisti come Korsch, Lukàcs o intellettuali marxisti come Pannekoek, ma anche lo stesso Gramsci, i

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neocomunisti hanno cercato di costruire un filone di pensiero e di elaborazione politica (basti pensare all’interpretazione di destra di Gramsci

diventata dominante nel PCI c nell’eurocomunismo) che si contrapponesse ai comunisti russi e alla III IC [Internazionale Comunista, ndr] cercando di definire un “socialismo altro e diverso” da quello costruito

nell’URSS. Si è cercato cioè di produrre una rottura tra il “movimento comunista reale” e quello “ideale”. Ma il “marxismo ideale” aveva la possibilità di diventare, come lo è diventato quello dei comunisti russi,

un'esperienza concreta di presa del potere e di edificazione di una società socialista? Molto probabilmente no, e questo per le caratteristiche del

marxismo occidentale che ha cercato in qualche modo di contrapporsi all'esperienza sovietica. La contrapposizione tra una concezione teorica della lotta di classe e la realizzazione rivoluzionaria in Russia, non deriva

solo dalla natura dei suoi soggetti: da una parte filosofi e intellettuali (ikhatdersozialisten) e dall'altra i rivoluzionari di professione, cioè diri-

genti e militanti di forze reali, essa deriva anche da altri fattori di rutto rilievo. La sensibilità di tanti “marxisti” alle vematiche della democrazia politica più che alle questioni strutturali dell’edificazione socialista, è quella che obiettivamente coincide con le tesi socialdemocratiche sul “male originario del comunismo”, cioè la scarsa propensione alla democrazia politica che è preliminare alla democrazia economica |...]. Ma an-

che questa sensibilità sembra provocata più dalla natura sociale dci suoi esponenti (appunto filosofi ed intellettuali marxisti) che da un'analisi rigorosa della prima sperimentazione comunista nella storia dell'umanità.

Parlo di sperimentazione non solo perché essa si è arrestata alla prima fase del processo di transizione ed anzi oggi è arretrata verso la

restaurazione del capitalismo, ma anche perché la rivoluzione russa è stato il primo tentativo riuscito di assalto al cielo [...]. Dalla pace di Brest Litovsk alla repressione della rivolta di Kronstadt e di Tambov,

dal “terrore” rosso alla reintroduzione del mercato con la NEP, la rivoluzione si è dovuta misurare in concreto e non in astratto con immensi

problemi di carattere economico, militare, teorico c politico. È indubbio che qualsiasi filosofo marxista, per quanto ben saldo nelle sue convinzioni, ne sarebbe stato stritolato. Ma la rivoluzione sovietica non aveva

neanche altre esperienze o modelli pre-esistenti a disposizione con cui potersi misurare o da cui trarre insegnamento. Era la prima, gigantesca sperimentazione politica di una società socialista, la cui direzione era

assicurata dal primo Partito Comunista (non più dunque una corrente marxista della socialdemocrazia).

Questo approccio pragmatico con i problemi concreti di un processo rivoluzionario si è mantenuto anche con la direzione di Svalin, a scapito certo della tradizione e dell’elaborazione marxista classica, ma ar-

ricchito dal patrimonio di sperimentazione politica pratica che si andava via via accumulando trascinando con sé tutti gli errori e le contraddizioni 374

che vi si producono. Emblematica di questa rottura (oggettiva secondo alcuni, soggettiva secondo altri) è la rielaborazione della questione dello

Stato fatta da Stalin. Lo scostamento dalla tesi marxista storica secondo cui lo Stato si estingue mano a mano che si sviluppa il socialismo, è paradigmatico per comprendere la evidente differenziazione tra “marxisti e comunisti” dentro il processo reale aperto dalla rivoluzione d'Ottobre. I comunisti russi da subito ebbero a che fare con il concretissimo problema dell’edificazione e della difesa del primo ed unico Stato socialista del mondo. Tale passaggio qualitativo non può essere in alcun modo trascurabile. La graduale estinzione dello Stato sarebbe stata resa possibile solo da un'estensione internazionale o almeno regionale della rivoluzione socialista, ma in realtà questo, com'è noto, non si è realizzato (lc insurrezioni fallirono in Germania, Ungheria, Austria). Il nuovo Stato sovietico doveva dunque trovare un modo di esistere, convivere e resistere

nonostante questa non trascurabile contraddizione. Un altro fattore sicuramente decisivo era il contesto internazionale: la vigilia della Seconda guerra mondiale. Stalin aveva già intuito tale tendenza nel 1927 come naturale conseguenza della fine della stabilizzazione capitalistica degli anni '20. È in questo quadro che Stalin parla di “elaborazione incompleta e insufficiente di alcune tesi generali della dottrina marxista dello Stato", operando una rottura con le tesi propriamente marxiste su questo aspetto

non cerro secondario. È dunque dentro questo processo fatto di rotture, arricchimenti pratici e politici, sperimentazioni inedite e contraddittorie del marxismo che molti marxisti sono diventati comunisti organizzando i

Partiti Comunisti, le forze sociali, dando vita alla INI IC ed ingaggiando a livello mondiale una lotta micidiale con un capitalismo in crisi, disposto alla guerra, connivente con il nazifascismo in buona parte dell'Europa. Alti “marxisti”, ritenendo che ciò fosse un processo foriero solo di sven-

ture per il marxismo, si ritirarono nella ricerca su altre sfere della vita politica e sociale (l'estetica, la filosofia, l'arte, ecc.). Scrive Perry Anderson: “Se da un lato il marxismo europeo trascurava sempre più l'analisi teorica delle strutture economiche e politiche, dall’altro e contemporaneamente il suo asse di ricerca si spostò sempre più verso la

filosofia. È impossibile non accorgersi dell’assoluta prevalenza di filosofi di professione (da Lukàcs ad Altussher, da Korsch a Colletti) nell’ambito del

marxismo occidentale”. L'osservazione di Anderson è fondamentale. Egli individua socialmente e geograficamente un filone teorico sviluppatosi in contrapposizione o in forte critica con l’esperienza dei comunisti russi e i Partivi Comunisti della III IC. Ma si evidenzia anche la natura sociale e le aree di ricerca sviluppate dal marxismo occidentale abbandonano

l’analisi strutturale delle contraddizioni (il punto di forza del marxismo) e si orientano verso i problemi sovrastrutturali. Tra questi spicca l’esperienza italiana e l’interpretazione di destra di Gramsci rimasta egemone su gran parte della vecchia c nuova sinistra in Italia. Questo

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filone teorico, disomogeneo ma piuttosto convergente nella critica all'esperienza sovietica e terzo internazionalista, quel “revisionismo marxista” su cui, ad esempio, individucrà il retroterra per una ripresa politica si fonda gran parte di quella ancora indefinita

rappresenta le radici di Mario ‘Ironti nel 1990 del comunismo e su cui identità “neocomunista”

su cui convergono spezzoni della ex nuova sinistra c dell'ex PCI (una parte del gruppo dirigente del PRC si richiama a questo filone di ricerca e a questa identità). Questo retroterra politico e teorico pone e porrà dei

problemi concreti nel futuro». Da segnalare su questo trema l’ultimo lavoro di Domenico

Losurdo prima della sua scomparsa, // marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere. Dopo aver realizzato capolavori storico-filosofici come Controstoria del liberalismo, Stalin. Storia

e critica di una leggenda nera, La non-violenza. Una storia fuori dal mito e La lotta di classe, uno degli ultimi grandi intellettuali marxisti-leninisti italiani ha realizzato un’opera essenziale in cui si propone una novità dimenticata da molti, fin dalla ripresa della categoria

coniata da Maurice Merleau-Ponty negli anni ‘50 e sviluppata da Perry Anderson negli anni ‘70: il fatto cioè che il marxismo non

coincida esclusivamente con le elaborazioni intellettuali di stampo occidentale, né tantomeno con quelle critiche al sistema dei “socialismi reali”. Già dalla lettura de // dibattito nel marxismo occidentale di Perry Anderson emergeva chiaramente come la divaricazione che si era venuta creando tra due marxismi (uno “occidentale eterodosso”

e uno “orientale ortodosso”) fosse in realtà soprattutto un processo

che accentuava la specializzazione settoriale degli autori occidentali su aspetti per lo più marginali e secondari della società, oltre che il distacco sempre maggiore tra teoria e prassi. Se i vari Kautsky, Luxemburg, Trockij, Lenin erano dirigenti di partito che non mancavano

di realizzare opere complete di analisi economica e politica su ogni aspetto della realtà, non altrettanto facevano i marxisti successivi, i quali dalle aule universitarie concentravano sempre più l'attenzione sul campo della cultura e filosofia, perdendo il contatto soprattutto con le categorie economiche e politiche. L'accusa di Losurdo è però ben diversa, anche perché questo

crinale rischierebbe di mettere in discussione anche autori ben riconducibili al marxismo-leninismo, come Lukàcs e Gramsci, i quali pure non hanno, ad esempio, mai affrontato uno studio sistematico e analitico delle questioni economiche. Losurdo contesta in realtà alla gran 376

parte del pantheon del marxismo occidentale di aver dimenticato la grande questione della lotta anticolonialista, non capendo anzitutto gli enormi meriti storici del socialismo nell’aver favorito la decolo-

nizzazione di gran parte del cosiddetto “Terzo Mondo”, ma anche la fine della segregazione razziale, della schiavitù formalizzata, oltre che del sostanziale asservimento femminile. Su questi remi Losurdo si era già espresso più volte in passato, mostrando adeguatamente i meriti storici immensi dei movimenti comunisti e dei “socialismi reali” e le enormi contraddizioni del movimento liberale. L'elemento di novità sta ora nell’andare a smantellare sistematicamente, uno dopo l’altro, tutti i numi tutelari che per decenni hanno sostituito i nomi di Marx, Engels, Lenin e Gramsci come punti di riferimento per le nuove generazioni di sinistra. A salire sul banco degli imputati, con accuse più o meno gravi, sono Della Volpe, Colletti, Tronti, Althusser, Bloch, Horkheimer, Adorno, Sartre, Marcuse, Arendt, Timpanaro, Foucault, Agamben, Negri, Hardt, Holloway, David Harvey, fino a

giungere a Zizek e Badiou. Nessuno ne esce indenne. Lo scontro è titanico e maestoso e non pretende di essere esaustivo, ma traccia un percorso illuminante

con cui si chiarificano tutti i limiti intellettuali e politici di questa schiera illustre di personalità; soprattutto si comprendono le origini degli errori ideologici introiettati in profondità negli strati sociali della sinistra attuale, sia in Italia che più in generale in campo europeo. Dal ragazzo che frequenta i centri sociali, all’elettore modera-

tamente progressista, dal militante iscritto ad un’organizzazione comunista al frequentatore di circoli ARCI, dal sindacalista più o meno radicale all’attivista per i diritti umani, tutto il mondo della sinistra è cresciuto negli ultimi decenni in un contesto culturale di sconfitta e incomprensione che è stato alimentato pervicacemente non solo dai media e dalle strutture dell’imperialismo, ma paradossalmente dalla stessa sinistra più o meno marxista, o sedicente tale. Da parte di Lo-

surdo non arrivano scomuniche né accuse di tradimento, sia chiaro. Ma la lettura rende evidente come ci sia stato, in particolar modo

dal secondo dopoguerra ad oggi, un profondo e costante cedimento culturale nel campo del marxismo occidentale, di fronte alle offensive

ideologiche della borghesia. L'essersi affidati a dei “cattivi maestri”, oltre che l'incapacità di non aver saputo replicare agli attacchi della

borghesia (agevolati, è sempre bene ricordarlo, dalla modalità disastrosa con cui il movimento comunista si è inflitto l’autoflagellazione 377

della “destalinizzazione”) sono eventi causati secondo Losurdo all’a-

ver “dimenticato” la questione coloniale.

Sorge però l'impressione che il giudizio del professore sia fin troppo generoso e assolutorio. Ad essere venuti meno tra l’intellighenzia occidentale sono anzitutto la conoscenza essenziale dei pi-

lastri del marxismo e del leninismo, la cui ignoranza o ripudio sono difficilmente ammissibili per degli intellettuali che hanno avuto un peso culturale così grande. Pesa come un macigno insomma l’incapacità di aver saputo maneggiare con adeguatezza le categorie del

materialismo storico e del materialismo dialettico, a partire dal venir meno di una categoria essenziale per un filosofo marxista: quella della totalità. Senza capacità di avere una visione complessiva della realtà diventa impossibile svolgere un adeguato bilancio, non solo morale

e storico, ma politico. E questa è l’accusa più generosa che si possa fare, per quanto sia già grave, perché le alternative sono ben peggiori:

l'indifferenza o il pressapochismo con cui le questioni coloniali sono state trattate da certi autori potrebbero far sorgere il sospetto di un razzismo congenito, introiettato, forse non consapevole ma che im-

plica l'adesione ad uno stretto eurocentrismo che non a caso ha avuto come conseguenza la rimozione della categoria dell’imperialismo, o la sua assurda estensione arbitraria a qualunque sistema capitalista

che abbia relazioni economiche con altri Paesi, accettando come vie nazionali dei “socialismi di mercato”. Altra tendenza deleteria, legata teoreticamente alle precedenti, è quella di scadere in un massimalismo messianico utopistico che porta al predominio di una critica fine a se stessa, puramente distruttiva

(non a caso percorso tipico di chi ha fatto del marxismo una pura “teoria critica”) e intrapresa da “anime belle” incapaci di elevarsi a soggetto compartecipe delle esperienze realizzate di emancipazione, e anzi ostili a qualsiasi modello socio-politico che non realizzi immediatamente tutte le proprie speranze ed esigenze. In conclusione

Losurdo spiega bene come il “marxismo occidentale” sia nato, abbia “inquinato” le sinistre in campo cultural-politico e come pur continui a sopravvivere ridotto ormai ad una serie di autori per lo più autoreferenziali e sempre più inconcludenti o fallimentari!.

4 Estratti dalla recensione A. Pascale, Losurdo e i cattivi maestri del “marxismo occidentale”, La Città Futura, 27 maggio 2017.

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14.2. La lettera-denuncia di Holz Hans Heinz Holz (26 febbraio 1927, Francoforte sul Meno, Germania - 11 dicembre 2011, Sant'Abbondio, Svizzera) è consi-

derato uno degli ultimi grandi filosofi marxisti-leninisti del secolo passato. Allievo di Ernst Bloch, a 17 anni Holz era stato incarcerato dalla Gestapo, la polizia politica del regime hitleriano. Un'esperienza,

questa, che lo spingerà ad essere tra i fondatori dell’Associazione dei perseguitati dal regime nazista (VVN). Nel 1971 inizia la sua carriera

accademica come professore all’università di Marburgo, proseguita poi anche nei Paesi Bassi. Membro del Partito comunista tedesco

DKP dal 1994, Holz è stato autore di numerosi saggi sulla storia e la sistematica della dialettica, sulla teoria dell’arte e sulle scienze

sociali e della politica. Fino alla morte il filosofo tedesco, cui nel 1997 era stata assegnata una laurea 4onoris causa dall'Università di Urbino, è stato presidente onorario dell’Associazione Internazionale

Hegel-Marx per il pensiero dialettico. Il 7 febbraio 1995 Holz scrive una Lettera sull'Antistalinismo’ che diffondiamo con qualche piccolo taglio sulle parti meno rilevanti: «I. Il 30 gennaio 1995 (non per l’anniversario della “presa del porere” da parte di Hitler, ma in occasione del Congresso del Partito Democratico per il Socialismo), sulla Siiddeutsche Zeitung è apparso un arricolo dal titolo Sta/inismo. Se fossi un liberale, il contributo, ragionevolmente argomentato, sul tema “isterie di Gysi” mi sarebbe piaciuto: va

da sé che vanno sottoposti a processo i delitti in cui possiamo imbatterci; va da sé che è auspicabile non si abbiano più Gulag; chi potrebbe volere, inoltre, ciò che, oggi, si lega al termine insultante “stalinista”? Naturalmente personalizzare è insensato: i marxisti “dovrebbero aver imparato che la storia non è fatta da singoli uomini”. È anche giustificata un'assunzione di responsabilità c un senso forte di pentimento nei confronti delle incolpevoli vittime (ed io aggiungo: nei confronti di compagni, a noi in particolare vicini, che sono stati condannati, pur se innocenti). Mi trovo,

inoltre, d'accordo con il giornale quando scrive che “stalinismo” è una

° H. H. Holz, Lettera sull'antistalinismo, Associazionestalin.it, 7 febbraio 1995. Per le notizie biografiche su Holz si è fatto riferimento a D. Losurdo, È morto Hans Heinz Holz, grande filosofo marxista e militante politico comunista, Domeni-

colosurdo.blogspot.it, 12 dicembre 2011; Redazione Il Giornale, È morto Hans Heinz Holz l'ultimo dei grandi filosofi marxisti, Il Giornale (web), 12 dicembre 2011.

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non-parola e quando, proseguendo, cita la signora Wagenknecht, secon-

do cui “fire i conti con il marxismo, con le strutture del socialismo è importante... Separarsi dallo stalinismo nel 1995 è una farsa; ma non meno irritante è ridurre la questione del superamento del recente passato tedesco all'altra, della legittimità o non legittimità della Stasi. È necessario pensare” [...).

Eppure io voglio qualcosa di più: dal punto di vista politico, in quanto comunista c dal punto di vista scientifico, in quanto materialista

storico. In quanto comunista, voglio sapere se debbo sbarazzarmi - come di una zavorra — del passato del mio movimento; oppure, al contrario, sc posso pormi in continuità con una linea che, a partire da Marx ed Engels — c passando per Lenin, Luxemburg, Gramsci ma anche Stalin e Mao — giunge fino alloggi. Certamente, sono in grado di sottrarmi alla tentazione di ridurre la storia comunista ad una serie positiva di lotte eroiche c nobili; sono in grado di accogliere, insieme alle rose, anche lc spine che le accompagnano e, dunque, i lati oscuri che pur appartengono a quella stessa storia. Se non facessi così, infatti, non mi limiterci, solo, a semplificazioni retoriche, ma finirei, addirittura, col prescindere interamente dalla storia. In quanto materialista storico, vorrei sapere come può avvenire che un movimento — naro con la finalità di lottare per i diritti uma-

ni — abbia finito coll’offendere proprio quei diritti. Vorrei sapere quali obiettive, autentiche contraddizioni conducono a ciò, senza accontentar-

mi delle tirate piccolo-borghesi sull’“intolleranza, brutalità, cattivo uso del potere, tendenza profonda al dispotismo”, che a Stalin si attribuiscono [...]. Kurt Gosswciler ha dato a queste domande una risposta chiara, anche se partitica. Sì, noi siamo gli credi di una grande storia, da assumere positivamente e della quale anche Stalin fa parte; esistono spiegazioni di ciò che è successo; è bene che un consesso marxista, di grande prestigio ed internazionale abbia lanciato la parola d’ordine di condurre a fondo questa discussione. Per parte mia, condivido in linea di principio questa posizione [...]. Certamente, a parer mio, gli argomenti di Gossweiler, per quanto corretti, sono ancora un primo approccio. Ritengo che, per poter

ricavare dal passato conseguenze per il futuro, noi si debba claborare, a fondo, categorie storiche c di filosofia della storia, capaci di spiegare quanto è successo. Quali erano effettivamente le forze che — condizionate da una situazione interna, ma anche esterna — hanno avviato il primo tentativo di costruzione del socialismo ma che, anche, lo hanno condotto

alla sconfitta? Vale a dire: il problema non è apprezzare la correttezza 0 meno di questa o quella decisione: decisioni sbagliate si hanno in ogni processo, inevitabilmente, e ciò vale quale che sia il sisterna sociale; né

va dimenticato che gli stessi criteri di valutazione mutano, mutando gli

scopi generali posti. Inoltre, chi giudica a posteriori ha il vantaggio di una visione complessiva anche delle conseguenze, che era negata agli attori impegnati nel decidere. Dunque, piuttosto, ciò che va analizzato è il nodo centrale e il punto di vista di classe rispetto a cui, in una situazione

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data, si son fatte valutazioni; quali effettive (vale a dire, politicamente ct-

ficaci) alternative si dessero c, così, riflettere sul serio sulle contraddizioni di un processo storico. Né va dimenticato che ogni posizione in campo va valutata per gli interessi che sottende. È in questo modo che si può giu-

dicare la portata storica di un'epoca, le suc rendenze cd i comportamenti dei soggetti che in essa operano.

2. Stalinismo: uno slogan anticomunista. Se un fatto è certo è che la

nozione di “stalinismo” è inadeguara sia alla caratterizzazione del periodo di costruzione dell’Unione Sovietica, sia alla comprensione delle tendenze in esso operanti. Ciò che è peggio (ma che vale anche come un indizio) è che, per la prima volta, quella nozione sia stata introdotta da Nikita Chruséev, segretario generale del PCUS; tutti gli avversari del comunismo intesero quella nozione come una “dichiarazione di morte” [...]. Ed oggi più che mai “stalinismo” è, appunto, uno slogan anticomunista che, anche quando viene usato nella prospettiva di un rinnovamento democratico, serve a combattere una concezione del socialismo coerentemente comunista [...|. La nozione o lo slogan ‘stalinismo’ si presta bene allo

scopo che abbiamo detto, per la sua stessa struttura linguistica: “Stalin+ismo”, dunque, la trasformazione di un nome proprio in un qualcosa di impersonale, di collettivo. Così si ottiene la possibilità di indicare: - una fasc nella costruzione del socialismo; - una certa forma della società comunista; - una certa tematizzazione del marxismo;

- ed, infine, un certo uso, personalistico, del potere statale. Inoltre si ottiene di poter ammassare e confondere l’un con l’altro aspetti diversi del comunismo, a partire dalla Rivoluzione d'Ottobre fino al “crollo” delle società socialiste est-europee, allo scopo di poter, così, tutto mischiare in uno stesso biasimo. “stalinismo” è termine sviante, anche perché riesce a sussumere sotto di sé una scrie di manifestazioni dell’organizzazione del processo sociale e del movimento comunista mondiale che — invece — si collocano entro la cosiddetta “destalinizzazione” a partire dal XX Congresso. La personalizzazione di problemi che, invece, sono sistematici, attribuendoli all’operare di una figura “diabolica”, consente dunque anche di spacciare errori successivi come conseguenze di quell’unica causa originaria. Com'è ovvio, la conseguenza è che si impedisce, così, la possibilità di un adeguato intendimento,

storico-materialistico, delle vicende del comunismo c ci si consegna nelle mani della propaganda nemica - anche al di là degli intendimenti di tanti compagni. Anche lo slittamento terminologico da “stalinismo” a “epoca di Stalin” non fa compiere alcun progresso conoscitivo. “L'epoca di Stalin” fu quella di enormi successi — ottenuti con immani sforzi — nella costruzione del socialismo in un Paese scarsamente sviluppato, sia in ambito economico che tecnologico e culturale. Si tratta di successi che riguardano sia l’industrializzazione e le sue infra-

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strutture, sia l'introduzione di una forma di proprictà non capiralistica. Ne derivò una generale crescita media degli standard di vita di larghe masse, ed il fatto che ciò sia stato ottenuto nel contesto di una politica di

intervento — militare, economico e ideologico — da parte delle potenze capitalistiche, non fa che rendere più rilevante il risultato raggiunto. La cosiddetta “epoca di Stalin” fu anche quella di un meraviglioso processo di educazione di massa, di attività culturale, di alfabetizzazione di popolazioni ancora in gran parte analfabete, del costituirsi e svilupparsi di culture nazionali nella cornice di un unitario quadro federativo, nonché dell’elaborazione di una Carta costituzionale che, anche secondo i criteri della teoria costituzionalistica borghese, non può che essere riconosciuta democratica (ovviamente, se ciò non dice nulla a proposito dell’applicazione effettiva di quella Costituzione, dice molto, invece, per la comprensione di quali fossero le linee di sviluppo prefigurate). Per la

classe operaia del mondo intero, in quell'epoca, l'Unione Sovietica valeva come la patria propria — e, certo, non si può attribuire tutto ciò ad un gigantesco fraintendimento! La cosiddetta “epoca di Stalin” fu anche — e non è l’ultima cosa —l’epoca della lotta eroica di tutti i sovietici — non solo dei comunisti sovietici — contro il fascismo, lotta combattuta e vinta, a poco più di vent'anni dalla Rivoluzione d'Ottobre. ‘lutto ciò va renuto nel conto quando si vuol giudicare l'epoca e proprio nel momento in cui pur si intende individuarne, risalendo alle loro cause, delitti ed errori. Sc così non si facesse, non si riuscirebbe a render conto del rapporto fra comunisti e loro storia; solo tenendo ben presenti questi presupposti potremo stabilire un corretto rapporto critico pure con gli enormi errori che quell’epoca hanno ugualmente caratterizzato. 3. Forme deviate di sviluppo, delitti e loro cause. Chi richiede spiegazioni desta subito sospetto — quasi che andasse in cerca di risposte edulcorate e tranquillizzanti. Ad evitare equivoci di tal genere, va subito detto

che le cose non stanno affatto così: lo scopo effettivo è comprendere gli effetti di contraddizioni autentiche e ricavarne le opportune lezioni. Ciò non significa accogliere di buon grado quegli effetti; ma è, tuttavia, certo che va mantenuta la differenza fra spiegazione di processi storici c loro valutazione moralistica. Valutare moralisticamente non ha nulla a che tare col comprendere, dal punto di vista storico-materialistico, appunto la storia — e va da sé che tale distinzione non comporta negare alla morale il suo ruolo di fattore storico non solo importante, ma addirittura imprescindibile. Su questo mi trovo d'accordo con Gerns e Steigerwald: “Non fa problema quando la violenza ed il terrore controrivoluzionario vengono contrastati dalla violenza rivoluzionaria. Ciò è inevitabile in qualunque

rivoluzione, se i rivoluzionari non vogliono capitolare di fronte al terrore controrivoluzionario”. La storia è ricca di esempi di violente lotte di classe, con innume-

revoli vittime da ambo le parti; e naturalmente tutto ciò è terribile e con

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tutte le sue forze una politica orientata umanisticamente deve volgersi

ad impedire o, almeno, a limitare simili espressioni di violenza; ma se gli oppressi — per la loro moralità c per il loro desiderio di pace — dovessero impedirsi di perseguire, anche con la violenza, la loro stessa emancipazione, non farebbero altro che offrirsi quali vittime inermi alla violenza

dei dominarori. Ha ragione Gossweiler quando scrive: “£ ur fatto che mai finora una classe oppressa ha potuto liberarsi dal giogo dei dominatori, senza che la sua lotta rivoluzionaria di liberazione e la sua resistenza ai tentativi di restaurazione contro-rivoluzionaria non costasse la vita anche di vittime innocenti”. Ma torniamo alla polemica sullo “stalinismo” ed alla questione non già di un uso temporaneo e circoscritto della violenza, ma piuttosto all’interrogativo se, al momento dell’uso del terrore da parte degli organi statali, sussistesse ancora una questione rivoluzione/controrivoluzione e delle conseguenze che son derivate da un uso eccessivo dello stesso terrore. Sulla scia della polemica ideologica aperta dal XX Congresso, si è rimproverata a Stalin — come falsa — la tesi secondo cui,

con la vittoria del socialismo in un solo Pacse, la lotta di classe sarebbe divenuta più acuta. Sennonché tale critica va contro tutti i dati storici e

la stessa logica della cosa. Cerchiamo di riflettere. Dal punto di vista del capitalismo, con l’inizio della costruzione del socialismo in un sesto del mondo, per la prima volta fa la sua comparsa — all’esterno — un nemico organizzato statualmente; e ciò nello stesso momento in cui — al proprio interno — si approfondiscono le contraddizioni e le lotte di classe si fanno più aspre. Si consideri che, per la natura stessa delle cose, il movimento operaio all'interno dei Paesi capitalistici e, all’esterno, il nemico Unione Sovietica, sono ovviamente alleati. Poste queste condizioni, risultava a dir così naturalmente la strategia degli Stati capitalistici, volta a circondare l'Unione Sovietica, ad ostacolare la crescita della sua potenza e, possibilmente, a far naufragare il socialismo. Tutto ciò si può facilmente documentare, considerando lc lince essenziali della politica estera e militare dei Paesi capitalistici. Lo scopo di far naufragare il socialismo prevedeva, anche, la disgregazione del partito comunista in Unione Sovietica, la sua paralisi mediante gli scontri interni circa le scelte d'orientamento politico, nonché l'appoggio a correnti non socialiste o contrarie al socialismo. È chiaro che con la Rivoluzione d’Ortobre le classi in Unione Sovietica non crano “scomparse”. All’interno di rapporti di proprietà in cambiamento, si davano strati, sociologicamente definibili, che utilizzando mille legami (di famiglia, di chiesa e di altri tipi di solidarietà), crano volti a mantenere il loro tipo di vita, le loro aspirazioni, scale di valori, ecc., ed a crasmetterli, inoltre, ai propri figli; in questo modo finivano col costituire una contraddizione (spesso non dichiarata) sociale c ideologica rispetto alla costruzione di nuove forme sociali. Questi strati dovevano — a volte, ma non sempre, contro la loro volontà cosciente e il loro lealismo nazio-

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nale — divenire portatori di fenomeni distruttivi rispetto alla costruzione socialista; altre volte, invece, producevano perfino elementi che cedevano alle strumentalizzazioni. La lotta di classe, dunque, continuava sia all’esterno che all'interno; le pressioni dal di fuori e le minacce di intervento portarono la lotta di classe ad una svolta assai pericolosa (così come già era capitato durante la Rivoluzione francese, il terrore e le minacce di invasione s'intrecciavano l’uno con l’altra). Nello svolgersi effettivo dei contrasti sui principi c

le strategic, si verificarono molti sbandamenti e mutamenti di fronte, perché sia gli interessi individuali che di gruppo si andavano variamente scontrando e intersecando. Con l’aggravarsi del pericolo esterno (rafforzamento del fascismo, Patto anti-comintern, colpo di Stato franchista in Spagna, aggressione giapponese alla Cina), le controversie interne

rischiarono di condurre ad un indebolimento decisivo e perfino al crollo del socialismo da poco nato. Avendo presenti tutte queste condizioni, non è possibile giudicare errata la tesi dell’inasprimento della lotta di

classe dopo la Rivoluzione d'Ottobre. Ed è chiaro che da quella tesi derivava la necessità di superare o di ostacolare la lotta di frazione all’interno del partito e perfino, se necessario, di eliminarla; come anche di

accelerare la trasformazione dei rapporti di produzione e di proprietà, allo scopo di tagliare le radici stesse di una coscienza non socialista tra le masse. Non è chi non veda come fosse impossibile realizzare un simile programma senza ricorrere anche alla violenza repressiva. A questo punto si pone la questione della violazione delle norme socialiste. Non vi è dubbio che le persecuzioni fecero vittime non solo fra attivi nemici del nuovo Stato, ma anche fra numerosissimi innocenti

ed autentici compagni. Che le cose siano andate in questo modo, lo si può spiegare facilmente, se abbiamo presente la situazione della Russia, a partire dalla Rivoluzione d'Ottobre fino allo Stato sovietico. In Russia mancavano quelle tradizioni di diritto pubblico che, invece, in Europa occidentale — a partire dal diritto romano - si sono costruite nel corso di due millenni circa (anche se ciò non ha impedito più di una grave re-

gressione). Antiche abitudini di autoritarismo statuale zarista, sostenuto da una polizia politica altamente organizzata e largamente diffusa, si riproposero. La rapida crescita del partito comunista sovietico fece sì che

ad esso aderissero numerosi clementi opportunistici e carrieristici, i quali si conquistarono possibilità di carriera allontanando e sostituendo vecchi quadri rivoluzionari. Questi clementi usarono l’obiettiva situazione di minaccia sia dall’interno che dall'esterno per assicurarsi incontrollate strutture di potere e così consolidare la loro propria posizione. È in un contesto di questo genere che nacquero i delatori. Naturalmente tutto ciò non ha nulla a che fare con il socialismo; piuttosto si tratta di un pro-

cesso che nasce avendo all’origine specifici esiti della storia russa. L'organizzazione di partito crebbe in modo relativamente rapido nell’immenso

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Paese, ma avvalendosi di forze non sufficientemente vagliate; per questo, in verità, il partito non cbbe la capacità di mantenere sotto controllo il suo stesso sviluppo e ne fu, invece, dominato e immiscrito.

Più tale immiserimento cresceva e più tendeva ad allargarsi — in una misura, per altro, ben maggiore di quanto non si sia, oggi, disposti a riconoscere. Non dobbiamo farci illusioni: ogni volta che ci si impegnerà a costruire il socialismo in un Paese scarsamente sviluppato, analoghi pericoli di deformazioni si riproporranno. D'altronde è per questo che risulta tanto importante cercare di capire lc cause di quelle deformazioni, invece che enfatizzare moralistiche condanne. Nel IV capitolo del mio Sconfitta e futuro del socialismo [...], ho già trattato, sia pur rapidamen-

te, delle gravi deformazioni a cui si è accompagnata la costruzione del socialismo, in un contesto caratterizzato dalle minacce esterne, dalla continuazione della lotta di classe all’interno, dal peso del sottosviluppo tecnico-cconomico ec, per giunta, in un Paese dalla grande estensione ma culturalmente arretrato, nonché mancante di una tradizione democratico-borghese e in cui perdurava un modo di pensare autoritario. Tutto ciò ha comportato l'abbandono delle norme leniniste nella vita interna di un partito che andava sempre più burocratizzandosi — come d'altronde accadeva anche nell’apparato dello Stato — ma anche ha portato con sé l’istituzionalizzazione di forme repressive di dominio e — cosa importantissima per l'abbandono del principio dell'autocritica — prima il silenzio e poi addirittura la caduta dell'impegno teorico. L’impulso verso il socialismo non può mantenersi a dispetto delle forme organizzative della vita sociale. Non si dovrebbe neanche parlare di “deformazioni del socialismo”, dacché non si aveva nessun socialismo realizzato che potesse venir deformato. Piuttosto, bisogna parlare di autentiche contraddizioni interne e di forme deviate di sviluppo nel tentativo di costruzione del socialismo. Bisogna riconoscere però che in varie occasioni il gruppo dirigente del Partito cercò di porre fine a quelle forme deviate di sviluppo (ad es., si pensi ai molti tentativi di

separare funzioni statuali e di partito — fenomeno, questo, alla cui base c'era semplicemente la mancanza di quadri qualificati, sostituita di farro da una sorta di unificazione personale delle funzioni). ‘luttavia, non si

evitò cli naufragare nella pesantezza ed immaturità dell'apparato ed anche

nell'impossibilità di realizzare un programma per il quale mancavano i presupposti materiali. Lo scoppio della guerra; la sinuazione eccezionale

dei quatero terribili anni di distruzione del Paese e dell’immensa perdita di uomini; gli anni della ricostruzione dopo il 1945, non è dubbio, comportarono un'interruzione nel processo di socializzazione strutturale. La massiccia mobilitazione dei popoli sovietici in difesa dell'URSS fu possibile ottenerla, anche, facendo appello all'ideologia nazionale — in primo luogo al nazionalismo russo (“la Grande Guerra Patriottica"); ma così — equiparando spirito nazionale e spirito comunista - si veniva a col-

385

pire l’internazionalismo del movimento comunista. È mia opinione che, nei suoi ultimi anni, Stalin abbia cercato di correggere quelle che ho chiamato le forme deviate di sviluppo: penso in particolare ai suoi tardi scritti — passati nel dimenticatoio dopo il XX Congresso — sull'economia c sui fondamenti teorici, prendendo ad esempio il caso della linguistica. Stalin, mi pare, operò in questo senso, anche se era preoccupato che una simile

correzione non nuocesse ad un'Unione Sovietica indebolita dalla guerra e dalla rinnovata politica aggressiva da parte degli USA. Che la mia valutazione sia o no giusta, può accertarlo solo un'analisi (per ora del tutto assen-

te nelle discussioni che si ascoltano) che sia condotta in modo spassionato. Sennonché va riconosciuto, purtroppo, che le discussioni sullo “stalinismo” lasciano, finora, ben poco spazio ad una simile analisi spassionata. 4. Fabificazione della teoria marxista-leninista? Debbo con nettezza contrappormi a Gerns e Steigerwald quando attribuiscono a Stalin “deformazioni nella teoria”. Gerns e Steigerwald si appoggiano sull’autorità del sociologo non comunista (che anch'io stimo molto) Werner

Hofmann. Nei suoi lavori teorici — primo fra tutti il capitolo sul materialismo storico e dialettico nel Breve corso di storia del PCUS — Stalin si è rivolto alle larghe masse, per la prima volta coinvolte in un impegno culturale. Con notevolissima capacità didattica, egli ha saputo rendere i difficili problemi di una filosofia e di una teoria dialettica della storia in forma accessibile anche per lettori scientificamente affatto sprovveduti. È chiaro che ciò ha comportato marcate semplificazioni — come sa perfertamente chiunque abbia scritto manuali; altrettanto chiaro è — giusta la finalità divulgativa — che, in qualche modo, la forma dialettica di ragionamento va sistematizzata e, dunque, in una certa misura irrigidira. In altro luogo (La dialettica come sistema aperto, |...|), ho mostrato come

la sistematizzazione staliniana dei fondamenti della filosofia marxista si attenga strettamente ad un modello leninista: in particolare, i 16 punti della dialettica, che riassumono la lettura leninista di Hegel, concordano

con i punti fondamentali indicati da Stalin. All’inizio degli anni Trenta, prima dello scritto di Stalin, molti significativi filosofi marxisti hanno elaborato gli stessi schemi sistematici, in risposta al bisogno, dovunque avvertito, di esposizioni divulgative dci fondamenti del materialismo storico e dialettico. Per far solo degli esempi, si pensi a Max Raphael (1934) ed a Georges Politzer (1935). Non è questa la sede per un'analisi degli scritti di Stalin che hanno rilievo teorico. Un'analisi di questo genere, comunque, confermerebbe la capacità di Stalin di rendere in modo chiaro e semplice contenuti complessi di strutture teoriche di fondo; di far vedere le interrelazioni

anche in materie tutt'altro che trasparenti e, infine, di chiarire il proprio punto di vista in contrapposizione con altre concezioni. Importantissimo

contributo di Stalin ad uno sviluppo teorico del marxismo va considerata la sua critica al rigido schema unidimensionale a proposito del rapporto

386

base/sovrastruttura, mediante l'introduzione di un elemento terzo, (la lingua). È certo un problema di sociologia della cultura e della conoscenza (e, in questa chiave, trattato anche da W. Hofmann) che gli schemi ed ‘elementi’ elaborati da Stalin (ma, prima, da Lenin) non siano stati usati

dalla scienza sovietica come base di discussione e per condurre ulteriori indagini, ma piuttosto come limiti dogmatici per ogni lavoro teorico.

Va aggiunto, peraltro, che questa dogmatizzazione e mancanza di

creatività riguardo ai problemi fondamentali (accompagnata da opportunismo politico) è, propriamente, un fenomeno caratterizzante la scienza

sovietica in un'epoca successiva a Stalin: le prime annate della rivista Scienza Sovietica (1948-52) testimoniano di una scienza che discute

apertamente e che ha il gusto della discussione. Non è qui il luogo per approfondire la questione che questa caduta della teoria rappresenta. È certo, comunque, che essa va di pari passo con il processo di burocratizzazione del partito e dello Stato; ma anche che ha radici proprie, dato che la Russia precedente la Rivoluzione possedeva basi ben gracili dal punto di vista della tradizione e dell'attività scientifica, rese per altro ancora più deboli per l'emigrazione di scienziati borghesi in seguito alla Rivoluzione. Lo sviluppo di una cultura scientifica richiede generazioni — ma all'Unione Sovietica non era per nulla concesso di potersi giovare di così tanto tempo. Che nelle prime fasi di sviluppo di una concezione

del mondo si presentino fenomeni di infantilismo dogmatico, certo, non è cosa infrequente nella storia — si pensi alla vicenda dei dogmi cristiani. Di solito, tuttavia — e in relazione alla stabilizzazione complessiva di una

socictà — quelle fasi vengono col rempo superate e sostituite da forme di sviluppo più differenziate. 5. La fine dello sviluppo. Il XX Congresso interruppe questa pro-

spettiva lunga di sviluppo. La critica degli errori e dei crimini degli anni precedenti non fu condotta come risultato di un'analisi storico-materialistica delle autentiche contraddizioni obiettive nella costruzione

del socialismo in un Paese solo e poco sviluppato. Assunse piuttosto l'aspetto della protesta moralistica, in definitiva, contro una sola persona. I collaboratori del ‘diabolico’ Stalin ne divennero i critici; furono essi ad

usarlo come capro espiatorio, al fine di nascondere le responsabilità loro proprie. Dopo il XX Congresso, all’interno del movimento comunista, la critica al cosiddetto “stalinismo” assunse, sempre più, la forma della

denuncia di un unico colpevole [...] anni dopo la morte di Stalin, si continuava ad attribuire allo “stalinismo” ogni forma errata di sviluppo, anche se era trascorso tempo sufficiente per poter rivitalizzare lo spirito

rivoluzionario del partito. Varrebbe la pena di interrogarsi, finalmente, sugli errori compiuti dai critici di Stalin [...]!

Una ricerca fondamentale di cui restiamo debitori è quella volta ad individuare i punti in cui la politica del XX Congresso si allontanò da una prospettiva leninista (anche per questo rimando al mio Sconfitta e

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futuro del socialismo). Per parte mia, comunque, do per assodato che con Chruséev nel partito prevalse una linea opportunistica (vale a dire, revisionistica). Opportunistica definisco quella politica che negozia vantaggi economici a corto termine, legati peraltro a forniture da parte dei Paesi capitalistici. Quella politica che, tutta presa dal desiderio di pace, è pronta a concessioni sistematiche a vantaggio del nemico. Quella politica che subordina l'integrazione del campo socialista agli interessi della superpotenza. Ancora, chiamo “opportunistica” la politica che è disposta ad una revisione del socialismo scientifico, accogliendo nel suo seno — in modo acritico — concezioni estranec al marxismo stesso; con la conseguenza,

per altro, di ridurne il potenziale critico a mera apologetica. Insomma, chiamo “politica opportunistica” l’insieme di tutte quelle manifestazioni che comportano un annacquamento della spinta di classe e che hanno come conseguenza l'assunzione di strategie e di concezioni riformistiche. Questa mia valutazione dell’opportunismo tendenzialmente dominante nella politica sovietica successiva al 1956 ha da esser comprovata da ricerche su materie precise, capaci di considerarne anche le implicite conseguenze. È certo, comunque, che si tratta di un groviglio di questioni, non semplificabili col ridurle all’unica etichetta — diffamatoria — di “stalinismo”. Dobbiamo aprire, finalmente, la discussione sulla nostra storia. La mia ragione mi dice che la decisiva interruzione dello sviluppo

la si ebbe con il XX Congresso del PCUS; ma nessuno, tuttavia, possiede l’intera ragione. Finora non ci siamo occupati adeguatamente delle cause storiche, contentandoci invece di verdetti morali (legittimi ma non storici); è in questo senso che mi sento di condividere sia la domanda che la

risposta di Gossweiler: “Perché il revisionismo riuscì a distruggere la costruzione socialista di decenni? Naturalmente, le ragioni sono molte; tra esse molto importante è, a mio avviso la seguente: il revisionismo ha saputo presentarsi per molti anni come antirevisionismo, come difesa del leninismo contro le

falsificazioni operate da Stalin... Ma in realtà l'antistalinismo fu, dall'inizio e per sua stessa natura, anti-leninismo, antimarxismo, anti-comunismo”. È necessario che ci liberiamo dal clichè stalinismo/antistalinismo; dob-

biamo riuscire a studiare la nostra storia, liberi da tali pregiudizi. Né dobbiamo dimenticare che noi studiamo la storia per operare meglio nel

futuro, per evitare errori di cui già conosciamo il modello. Insomma, in vista di forme di liberazione dell'umanità che siano alternative alla società capitalistica che è società dello sfruttamento e dell’oppressione».

14.3. La sussunzione padronale della “sinistra”

La condanna dello “stalinismo” da parte del marxismo occidentale ha avuto come conseguenza l’accertazione passiva della critica al 388

socialismo così come storicamente realizzatosi nell’URSS, secondo

un modello che è stato in una certa misura assunto dalla gran parte delle successive esperienze rivoluzionarie guidate da organizzazioni e movimenti comunisti. Ciò ha avuto come conseguenza politica rilevante l’inizio dello smarrimento culturale con cui si è iniziato a cercare fantomatiche quanto inesistenti “terze vie” che coniugassero le istanze emancipatorie del marxismo con la necessità di non rica-

dere nel rischio di un “totalitarismo di sinistra”. La gran parte delle sinistre occidentali ha intrapreso però un percorso che ha condotto questa critica a livelli tali da rimuovere quasi completamente la

stessa adesione al metodo e alle categorie analitiche del marxismo, dimenticando le grandi lezioni politiche e teoriche di Marx, Engels, Lenin, Gramsci, Stalin, Mao, ecc., e anzi in molti casi condannandole esplicitamente, dichiarandole superate nell'attuale nuovo contesto

mondiale della globalizzazione finanziaria. Questo cedimento culturale, sul quale avremo modo di tornare più avanti in maniera più approfondita, riprendendolo nei suoi aspetti teorici e pratici, ha causato uno slittamento progressivo

delle sinistre nel campo della borghesia: partendo dal ripudio dell’esperienza sovietica si è dato ampio credito alle astratte teorie del “comunismo democratico”, tese a conciliare liberalismo borghese e

marxismo. Ben presto si è rivelato come tali operazioni ideologiche, portate avanti da dirigenti opportunisti, complici o, banalmente,

totalmente incompetenti, abbiano condotto al ripudio completo di ogni forma di marxismo, il quale è stato espulso prima dalla cultura socialdemocratica, poi in molti casi anche da quella anticapitalista c rivoluzionaria, favorendo forme di eclettismo e il recupero di forme di socialismo utopistico che si sono dimostrate astratte, inadeguate

ad analizzare la realtà e ancora meno utili nella ricostruzione di una proposta politica comprensibile e accettabile per le classi lavoratrici e gli sfruttati, sempre più sottomessi anche ideologicamente al pensie-

ro dominante borghese. Il totalitarismo liberale ha potuto affermarsi, quindi, grazie alla caduta di ogni resistenza politica e culturale, favorita in prima istanza dal processo di sussunzione padronale della “sinistra”, ossia di quei settori politici diventati d'un tratto “responsabili”, “riformisti”, né “radicali”, né “estremisti”. Troppi “compagni”

hanno favorito e accompagnato questo processo di auto-distruzione delle organizzazioni che potevano garantire una qualche forma di resistenza organizzata di fronte all'offensiva impetuosa della borghesia 389

avvenuta nel secondo ‘900, diventata travolgente dopo la caduta del

muro di Berlino e assorta a pensiero unico all’inizio del XXI secolo, quando in Italia e in diversi altri Paesi si è riusciti a estromettere i co-

munisti e le forze anticapitaliste dal Parlamento e quindi dal dibattito pubblico politico e culturale. Da quel momento la “sinistra”, incarnata da forze ed organiz-

zazioni al servizio del sistema capitalistico, e quindi al servizio della borghesia, è diventata indistinguibile dalle “destre” per i programmi e la prassi politica, e sul lungo termine anche nel senso comune, favorendo un ulteriore processo di imbarbarimento ideologico-culturale che ha alimentato la crescita di forze politiche, sociali ed economiche borghesi, interclassiste, populiste, eccetera, tutte accomunate

dall’essere rotalmente subalterne al sistema imperialista. Sostenendo un discorso teorico e pratico ancorato unicamente alla questione

dei diritti civili e delle minoranze sociali, le sinistre hanno infatti rimosso l’ottica dei diritti sociali così come impostata storicamente dal movimento comunista, lasciando ampie praterie alla crescita delle forze reazionarie, le quali hanno posto invece strumentalmente

la questione dei diritti sociali in un'ottica esclusivista, nazionalista e razzista, favorendo così un clima in cui prospera la guerra tra poveri. Oggi la categoria politica della “sinistra”, nata dall'esperienza storica della Rivoluzione Francese, non è più sinonimo di libertà, uguaglianza, giustizia sociale, ranto meno di critica al capitalismo

e di socialismo. La parola “sinistra” è da molti associata a concetti come austerità, precarietà, assistenzialismo... L’'internazionalismo

non esiste più. Prospera invece il cosmopolitismo, ossia l’idea che il progresso passi dall’abbattimento degli Stati nazionali e delle barriere

doganali, a favore ranto di un melting-pot che favorisca l’affusso di milioni di migranti disperati, utili per aumentare un già possente esercito industriale di riserva, tanto per le merci e i capitali, che non

a caso sono gli strumenti con cui le élite borghesi hanno imposto il proprio effettivo dominio economico e politico sul pianeta. Liberalismo borghese e liberismo, tanto criticati da Marx, sono ormai gli unici orizzonti ammessi da socialdemocratici, tali ormai

solo di nome. Essi sono invece molto più vicini al sistema politico statunitense: sono dei “democratici liberals”. Sono coloro che nel XIX secolo Marx ed Engels fustigavano senza pietà nel Manifesto del Partito Comunista. Questi “liberal”, la cui ideologia è stata fatta propria dalla gran parte dell’intellighenzia “progressista”, aderiscono 390

pienamente al sistema imperialista, disconoscendone l’esistenza ed evitando accuratamente di usare tale termine; propagandano l'adesione fideistica alla NATO, all’UE e alle maggiori istituzioni internazionali controllate dagli USA e dalle altre potenze occidentali, che continuano indefessamente a favorire le multinazionali come motore di uno sviluppo economico criminale che si esercita quotidianamente in una violenza “invisibile” per l'opinione pubblica

occidentale. Costoro sono diventati in poche parole i rappresentanti della “sinistra della NATO”, ma in quanto tali si sono posti fuori dal campo del progresso sociale, diventando una delle più preziose pedine del totalitarismo liberale, rappresentando falsamente l’alternativa

progressista alle organizzazioni più esplicitamente al servizio della borghesia. Si è parriti dalla demonizzazione di Stalin e del socialismo. Si è arrivati all’esaltazione del liberismo e di un ordine in cui trionfa la grande finanza internazionale, capace di mettere in ginocchio an-

che Stati tra i più industrializzati e ricchi del mondo. L'abbattimento di questa “sinistra” è oggi una delle prime condizioni indispensabili e necessarie per poter ricostruire anzitutto a livello culturale, e dialetticamente quindi anche a

livello socio-politico, un'alternativa strut-

turale al sistema imperialista vigente. Solo attraverso un'operazione del genere, che richiederà inevitabilmente molti anni e il rigetto di facili scappatoie, sarà possibile ridare un senso anche alla parola ormai screditata della “sinistra”, la quale mantiene invece tutta la sua

validità “ontologica” nel descrivere le istanze di progresso e sviluppo oggi cancellate dal panorama politico dominante. 14.4. L'attualità dell'imperialismo e i suoi crimini Si è parlato spesso fin qui dell’imperialismo senza però darne un'in-

troduzione analitica precisa. Che cos'è dunque l’imperialismo? Per rispondere a questa domanda utilizziamo l’opera di Lenin dedicata appo-

sitamente all'argomento (Lîmperialismo fase suprema del capitalismo)®:

9 Il paragrafo che segue è un estratto di A. Pascale & F. Di Schiena, /rztroduzione teorica a Marxismo, Socialismo e Comunismo. Dispensa di formazione per i Giovani Comunisti, 2 febbraio 2015. Nell’opera /n Difesa del Socialismo reale, cit. il seguente paragrafo è presente nell’Introduzione Teorico-Politica: le basi del

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«Il capitalismo ha la proprietà di staccare il possesso del capitale dal suo impiego nella produzione, il capitale liquido dal capitale industriale e

produttivo, di separare il ‘renticr’, che vive soltanto del profitto tratto dal capitale liquido, dall’imprenditore [...] l'imperialismo, cioè l'egemonia del capitale finanziario, è lo stadio supremo del capitalismo in cui tale separazione assume le maggiori dimensioni [...]. Per il vecchio capita-

lismo, sotto il pieno dominio della libera concorrenza, era caratteristica l'esportazione di merci, per il nuovo capitalismo, sotto il dominio dei

monopoli, è caratteristica l'esportazione del capitale [...] la necessità dell’esportazione di capitale è determinata dal fatto che in alcuni Paesi il capitalismo è diventato più che maturo e al capitale [...] non rimane più un campo di investimento redditizio».

Si può riassumere la definizione leniniana di imperialismo come lo stadio in cui il capitalismo è «giunto alla fase dello sviluppo in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, ha acquisito grande importanza l'esportazione dei capitali, è iniziata la divisione

del mondo fra i trust internazionali e i maggiori Paesi capitalistici si sono divisi l'intera superficie terrestre». Scritto 100 anni fa studiando le tendenze generali del capitalismo della sua epoca, L'/mperialismo rimane tutt'oggi uno splendido esempio di analitica marxista della realtà economica. L'opera però non è importante solo per questo, ma anche perché descrive le caratteristiche essenziali dell’imperialismo in ogni sua sfumatura, mettendone in evidenza le conseguenze, che vanno dallo strapotere della

finanza alla diffusione su larga scala delle guerre colonialiste, fino alla massiccia immigrazione di massa usata come arma dal Capitale nella lotta contro la classe lavoratrice. Tutte caratteristiche ben presenti nella nostra società odierna. A chi negherà che tale processo di concentrazione dei capitali e delle strutture economico-finanziarie sia maggiore rispetto ad un secolo fa basterà ricordare alcuni dari: Stefania Vitali, James B. Glatrfelder e Stefano Battiston hanno analizzato di recente oltre trenta milioni di operatori economici, imprese,

istituti di credito e privati. Dai dati si evince che sono circa 43.000 le aziende transnazionali che hanno i canoni per essere definite tali

Marxismo-Leninismo, in particolar modo nei punti C.3. e C.4. Per gli estratti di Lenin si rimanda a V. Lenin, LYmperialismo fase suprema del capitalismo, Editori Riuniti, Roma, 1970.

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dall’OCSE. Le più importanti ed influenti sono però solo 1.318, le quali sono accomunate da tre caratteristiche principali: somma-

te tra di loro, arrivano a generare il 20% del reddito mondiale; si possiedono l’un l’altra, esiste un nucleo, chiamato «Unità centrale»,

che possiede tutte le altre 43.000 multinazionali. La conclusione è allarmante: le società più influenti fanno parte di un unico grande cartello finanziario, un vero proprio monopolio, che controlla una ragnatela di 43 mila altre società che sono in competizione tra di loro solo virtualmente e che, rurre insieme, generano un altro 60%

del reddito mondiale totale. Ma non è tutto: l'80% delle 1.318 super-società è a sua volta controllato da un gruppo ancora più piccolo di loro, formato da 737 aziende, ma sono soltanto 147 quelle che

hanno in pugno il 40% della ricchezza globale”.

Ovviamente sono tutte banche o istituti finanziari che hanno interessi in ogni branca dell’economia mondiale, dai principali settori industriali, tra cui ad esempio quello bellico (1780 miliardi

di fatturato), passando per le compagnie petrolifere (colossi come “ExxonMobil Corporation” o “Shell Group” possono contare su un giro d'affari che, nel 2008, ha sfiorato i 310 miliardi di Euro), per le

industrie farmaceutiche (il mercato mondiale dei medicinali è stimato in 466 miliardi di dollari), per quelle alimentari (solo in Italia 127 miliardi di euro, mentre Nestlé da sola fattura 36,65 miliardi), senza dimenticare il settore delle relecomunicazioni (AT&T fattura 20 miliardi, Vodafone 13,8), ecc.*. Tali dati sono confermati dall’opera

di Luca Ciarrocca (/ padroni del mondo. Come la cupola della finanza mondiale decide il destino dei governi e delle popolazioni; 2013): «Sarebbero in tutto una cinquantina, le mega aziende internazionali (in maggioranza istituti finanziari c banche ‘T'brf) che, attraverso un

complicato incrocio proprietario, controllano il 40 per cento del valore cconomico e finanziario di 43.060 multinazionali globali. È qui il vero cuore dell'economia occidentale [...]. Tra le prime venti ci sono tutte le più note Tbtf, tra cui, ai primi posti, Barclays Bank, JPMorgan Chase, Goldman Sachs. L'unica italiana è UniCredit, in 43esima posizione».

° Dati riportati anche da l.. Ermini, Un pugno di società controlla il mondo. Fcco la rete globale del potere finanziario, La Repubblica (web), 2 gennaio 2012. *Dati riportati, facendo riferimento allo studio di Vitali, Glattfeldere Battiston, ad esempio in Redazione Articolo Tre, Quel pugno di banche che..., Rifondazione.it.

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Ma la concentrazione finanziaria, tipica della progressione im-

perialistica, non si ferma qui. Sempre dall'opera di Ciarrocca: «Lo ha spiegato bene James Petras, professore di sociologia all'Università di Binghamton (New York), in un articolo dal titolo eloquente Who Rules America?, pubblicato nel novembre del 2007 sul suo sito web: “Oggi, secondo alcuni calcoli, il 2 per cento delle famiglie controlla l'80 per cento dell'intero patrimonio mondiale” |...}. Questi gruppi, secondo Petras, premono sui governi per salvare banche e aziende in bancarotta o fallite, spingono perché si arrivi al pareggio di bilancio tagliando la spesa sociale e il welfare»?.

In Pigs! La crisi spiegata a tutti, l’autore Paolo Ferrero riporta alcuni dati utili che mostrano come il processo di accentramento si sia intensificato proprio nell'ultimo periodo, coincidente con la fase neoliberistica del capitalismo: «Nel 1984 le prime dieci banche al mondo controllavano il 26% del totale delle attività finanziarie. Dal 1980 al 2005 si sono verificate circa 11.500 fusioni, 440 all'anno, riducendo in tal modo il numero delle banche a meno di 7.500. Secondo l'ufficio del Tesoro americano [...] al

primo trimestre 2011, cinque Sim (società di intermediazione mobiliare e divisioni bancarie) che rispondono al nome di JP Morgan, Bank of America, Citybank, Goldman Sachs, Hsbe Usa) c cinque banche, Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citycorp-Merrill Linch, Bnp-Paribas, hanno raggiunto il controllo di oltre il 90% del totale dei titoli derivati. Queste agenzie finanziarie, a conti fatti, controllano nove decimi di

466.000 miliardi di dollari di titoli. Si tratta di gran parte dell'economia finanziaria, visto che il mercato obbligazionario vale 95.000 miliardi e le borse mondiali altri 50.000 [...] ognuna di queste grandi società finanziaric ha un potere enorme, molto più grande di quello di uno Stato»"". Le ricadute dell’imperialismo sono di ogni tipo, ma sono tutte

accomunate dal fatto di portare morte e miseria per la gran parte del globo. Sfogliando l’utile e dettagliata opera di K. Werner & H. Weiss, /

® Si fa riferimento al libro LL. Ciarrocca, / padroni del mondo. Come la cupola della finanza mondiale decide il destino dei governi e delle popolazioni, Chiarelettere, Milano, 2013; in particolar modo i seguenti dati c passaggi sono estratti dalla recensione del libro S. Moiso, Nel baratro, Carmillaonline.com, 28 dicembre 2013. !© P. Ferrero, Pigs! La crisi spiegata a tutti, Derive Approdi, Roma, 2012, pp. 69-70.

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crimini delle multinazionali"! si trovano diversi esempi: il più eclatante

è forse dato dall'episodio avvenuto nella primavera del 2001, quando 39 tra le principali aziende farmaceutiche multinazionali citarono in

giudizio il governo sudafricano per violazione di brevetto. Secondo le accuse delle multinazionale il Sudafrica sarebbe stato colpevole di aver approvato una legge che permetteva di curare i pazienti affetti da AIDS

con farmaci a basso costo...'? La legge dell’imperialismo non conosce compassione, pietà o umanitarismo, ma solo il concetto di profitto, per

ottenere i quali non ci si preoccupa di fomentare guerre, carestie e morte. Un altro esempio è quello riguardante l'azienda affiliata di Bayer, H.C. Stark, che ha acquistato per anni coltan congolese, contribuendo massicciamente, secondo le Nazioni Unite, a sostenere una guerra che

dal 1998 ha ucciso circa 5,5 milioni di persone, diventando il conflitto più cruento svoltosi dopo la seconda guerra mondiale". In Iraq, fino al 1962, anno della statalizzazione, l’intera attività

di estrazione era nelle mani dell’lraq Petroleum Company IPC, di proprietà di British Petroleum (BP) ed Esso. La seconda guerra del Golfo ha portato vantaggi anche alla BP: la rivista anti-multinazionalista online CorpWatch afferma che «nelle ore e nei giorni che

precedettero l'occupazione dell'Iraq da parte di USA e GB, una squadra di ingegneri della BP insegnò alle truppe come gestire i giacimenti petroliferi nell'Irag meridionale». In segno di ricompensa, subito dopo la fine della guerra, la BP prese possesso di uno dei primi carichi di petrolio iracheno, ed è da allora in prima linea nello sfruttamento

delle cospicue risorse petrolifere del Paese!. Nel 2008, mentre milioni di persone disperate finivano in mise-

ria a causa dell’impennata dei prezzi dei prodotti alimentari, la Deut-

sche Bank promuoveva affari speculativi sulle derrate alimentari. Sulle buste di carta delle panetterie di Francoforte i clienti leggevano sbalorditi il seguente messaggio: «Siete contenti dell'aumento dei prezzi?

"" K. Werner & H. Weiss, / crimini delle multinazionali, Newton Compton, Roma, 2010.

"Ivi, pp. 97-98. !* Ivi, pp. 52-78. Si confronti con il dato recente sulle vittime riportato in L. Simoncelli, Ascalation di violenza nella Repubblica del Congo. L'Unher: “Pulizia etnica”, La Stampa (web), 7 agosto 2017.

'*K. Werner & H. Weiss, / crimini delle multinazionali, cit., pp. 124, 225.

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Tutto il mondo parla delle materie prime — con l'Agriculture Euro Fonds avrete la possibilità di contribuire a far aumentare il valore dei sette più importanti prodotti agricoli». In seguito alle proteste del network

Attac la cinica campagna pubblicitaria fu sospesa e la Deursche Bank chiese pubblicamente scusa al mondo intero. Tuttavia la banca non

smise di pubblicizzare il concetto secondo cui è possibile far soldi con la crisi delle derrate alimentari, e quindi con la fame dei poveri. La crisi dei generi alimentari è stata inasprita anche dal fatto che molti terreni coltivabili siano stati utilizzati per la produzione di biocarburanti, cioè carburanti di origine vegetale. Senza contare che per ottenere tali carburanti, soprattutto in Brasile, sono state abbattute foreste pluviali e distrutti gli ambienti naturali delle popolazioni indigene. Secondo uno studio pubblicato nel maggio 2008 da' Friends of the Earth, tra le 44 banche europee oggetto della ricerca,

la Deutsche Bank è stata quella che maggiormente ha contribuito al finanziamento di gruppi industriali agricoli che producono questo tipo di carburanti in America Latina!?.

Il professor Riccardo Moro, docente di Politiche dello sviluppo alla Statale di Milano spiega perché il cibo, come il petrolio, l’oro e altre materie prime, sia sempre più caro in un vortice che abbatte i consumi e aumenta le povertà su scala planetaria. La Banca Mondiale ha calcolato che 44 milioni di persone nel 2011 sono cadute in mise-

ria a causa dell'aumento dei prezzi dei beni alimentari. Moro spiega che dal Dopoguerra e per quarant'anni i prezzi dei generi alimentari sono sistematicamente scesi per effetto dell'aumento della produttivirà e della qualità dei raccolti sommati ai sostegni pubblici all’agricol-

tura. È a cavallo del Duemila che la tendenza si inverte, identificando nella «speculazione sul cibo che si è scatenata sui mercati finanziari» il principale elemento responsabile di manovre che possono portare

anche a rialzi del 40% in poche settimane dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità, come avvenne nell’estare del 2011!°.

E non si creda che l’imperialismo non riguardi gli italiani “brava gente”. Dal 1983 l’italianissima Agip opera in Angola. Qui il petrolio

!° Ivi, pp. 245-246.

6 Si veda V. Gualerzi, Speculazione sul cibo, primi ripensamenti: passi indietro da Barclays e Bnp Paribas, La Repubblica (web), 14 febbraio 2013, e C. Strano,

Come la finanza specula sul prezzo del cibo, Consumatori.e-coop.it.

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finanzia una selvaggia guerra civile che dura da più di 25 anni, devastando il Paese e costando la vita a un milione e mezzo di persone.

Più della metà del denaro versato dalle multinazionali del petrolio per i diritti di estrazione è stato impiegato in offensive militari. An-

cora oggi gran parte dei petrodollari scompaiono nei canali oscuri della corruzione poiché le multinazionali si rifiutano di rilasciare informazioni sui loro pagamenti", 14.5. Chi comanda davvero? Il club Bilderberg Una delle peculiarità della fase storica attuale è che il mondo

continua ad essere governato, più o meno direttamente, da una ristretta élite che si riunisce periodicamente per discutere delle sorti del pianeta. Non si sta parlando del G8 o del G20, ma del “Club Bilderberg”, un tassello molto importante del dominio del grande

Capitale internazionale nelle sue forme visibili. Capire la storicità del fenomeno e la sua concretezza politica e attestarsi su un piano scientifico, consente di opporsi alle derive complottiste scatenate da settori dell’estrema destra, spesso di stampo antisemita. È utile per comprendere bene questo tema un lavoro di Domenico Moro'*, di

cui qui riportiamo la recensione di Alexander Hébel!"?: «sul Gruppo Bilderberg c organismi affini è fiorita in questi anni una letteratura di taglio “complottistico” che, per quanto attraente per molti

lettori, di farro non favorisce una reale comprensione del fenomeno. In una direzione diversa va invece il libro di Domenico Moro (Club Bilderberg. Gli

uomini che comandano il mondo, Aliberti 2013), che colloca la questione in un quadro più ampio, quello dell’attuale fase della storia del capitalismo e delle dinamiche della lotta di classe; Moro insomma affronta il problema

da un punto di vista marxista. Se il titolo e il cuore del libro riguardano il Club Bilderberg (cui si aggiunge la più giovane ‘Trilateral), sullo sfondo ci

sono questioni più complessive, il ruolo delle élite (e del “ritorno delle élite”

parla anche l’ultimo libro di Rita di I.co), i caratteri dell’attuale oligarchia

17 K. Werner & H. Weiss, / crimini delle multinazionali, cit., p. 213. "*D. Moro, Club Bilderberg. Gli uomini che comandano il mondo, Aliberti, Reggio Emilia, 2013.

"A. Hobel, Domenico Moro: Club Bilderberg - Gli uomini che comandano il mondo, Resistenze.org, 27 maggio 2013.

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capitalistica trans-nazionale, le forze di classe in campo e gli scontri in atto

sul piano globale, la questione della democrazia e della sua crisi. Sc partiamo da quest'ultimo punto, non possiamo che partire dalla

straordinaria avanzata della “democrazia organizzata”, della partecipazione popolare e dei partiti di massa, che riguardò molti Paesi e l’Italia in modo particolare negli anni Sessanta e Settanta. Fu allora che la domanda sociale

crescente trovò sbocchi politici e anche legislativi nella costruzione del Welfare State e in quelle riforme (riforme vere, ben diverse dalle controriforme degli ultimi decenni) che determinarono il progresso sociale € civile, tra gli altri, del nostro Paesc. La costruzione dello Stato sociale — forma peraltro del salario indiretto — e le conquiste salariali vere e proprie, accanto al generale spostamento nel rapporto di forza tra le classi nella società, nella politica e nelle istituzioni rappresentative (dunque nello Stato stesso), misero dunque in allarme le classi dominanti, che proprio negli

anni Settanta (apice della loro difficoltà sul piano mondiale) avviarono la loro micidiale controffensiva, dotandosi di strumenti nuovi, quali appunto la Commissione trilaterale. È non a caso, uno dei primi documenti di

questa struttura, fu quel testo sulla “crisi della democrazia” che Domenico Moro cita ampiamente, opera di quel Samuel Huntington che diventato famoso in anni recenti per la sua pseudo-teoria dello “scontro di civiltà”, e di Michel Crozier, il quale individuava il pericolo principale nei partiti comunisti, a partire da quelli europei, “le sole istituzioni rimaste nell'Europa occidentale la cui autorità non venga messa in dubbio” (p. 119).

Da allora, nel dibattito pubblico, la governabilità iniziava a prendere il posto della rappresentanza, fino a sostituirla quasi del rutto, giungendo a quello svuotamento delle istituzioni rappresentative e alla conseguente apatia politica di massa che oggi sono davanti ai nostri occhi. Il libro di

Moro, peraltro, mostra come quella controffensiva fosse iniziata ancora prima, negli anni Cinquanta; gli anni più duri della guerra fredda, quelli della nascita di Gladio e della rete Stay-behind, e appunto del Club Bilderberg, fondato nel 1954 da esponenti del grande capitale come David Rockefeller. E non a caso, l’anticomunismo e la lotta al blocco sovietico sono al centro dei primi incontri del Club. Ma che cosa è dunque il Gruppo Bilderberg? Secondo la definizione che ne dì Domenico Moro, è “il

luogo dove il capitale finanziario si incontra con la politica internazionale” (p. 72), e infatti al suo interno troviamo finanzieri, proprietari c dirigenti di corporation, grandi manager privati e pubblici, uomini politici, accademici, giornalisti. Ed è molto interessante il meccanismo descritto nel libro, quello delle “porte girevoli”, per cui un ministro (0, nel caso degli USA, un segretario di Stato) si ritrova poi al vertice di una multinazionale,

o magari ne aveva fatto parte prima (tipici i casi di Dick Cheney, Donald Rumsfeld e molti altri esponenti dell'’amministrazione Bush), mentre grandi manager pubblici come Romano Prodi dopo aver portato avanti massicce privatizzazioni si ritrovano presidenti del Consiglio o ai vertici

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dell'Unione europea, o ancora uomini come Mario Draghi passano da presidente del Comitato economico e finanziario del Consiglio della UE a direttore generale del Ministero del Tesoro italiano, per poi diventare vicepresidente della Goldman-Sachs, infine governatore della Banca d’Italia

e infine presidente della Banca centrale europea. Ed è inquietante il dato — documentato da Moro — per cui per il Club Bilderberg sono passati tutti i ministri delle Finanze italiani degli ultimi anni, due governatori della Banca d’Italia e almeno due presidenti del Consiglio, tra cui quello attualmente in carica. La commistione c lo scambio continuo tra settori diversi dell’oligarchia è a sua volta il riflesso di un intreccio sempre più stretto fra grandi corporation, Stati e organismi sovranazionali. Quella che compare sulla scena è dunque una nuova classe dominante, quella che Leslie Sklair chiama “classe capitalistica transnazionale”, una definizione ripresa in Italia da Luciano Gallino (La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza 2012) e che anche

Domenico Moro fa propria e sviluppa, descrivendo attraverso alcuni dei suoi principali esponenti una classe, che oltre che nel Club Bilderberg c nella Trilateral trova luoghi di coordinamento e “camere di compensazione” anche in altri organismi, come il World Economic Forum di Davos. Questa classe — il libro lo mette bene in luce — ha vari punti di forza: la grande omogeneità ideologica, una forte capacità di egemonia attraverso chink-tank e mass-media, e infine appunto quel carattere

trans-nazionale che ha spiazzato il movimento operaio. E però ha anche rilevanti punti deboli. Come osserva l'Autore, infatti, la complessità del quadro e la stessa molteplicità della sua composizione e dei suoi interessi pongono seri limiti “a/la sua capacità di controllare il processo sociale complessivo e soprattutto di organizzare un ordine mondiale” stabile (p. 131). Non a caso, la potenza ancora egemone, quella statunitense, attraversa una crisi grave, che ha finora superato grazie al signoraggio del dollaro e alla sua stessa collocazione nel mercato mondiale; ma non è più in grado di svolgere il suo ruolo, e quindi è sempre più spesso indotta all’uso della

forza militare, attuando quello che alcuni studiosi hanno definito un “dominio senza egemonia”, per non parlare della crisi di legittimità che si è aperta ormai esplicitamente. E non a caso il restringimento degli spazi democratici continua, all’interno degli Stati nazionali e grazie alle cessioni di sovranità ad organismi sovranazionali privi di ogni legittimazione. D'altra parte, Moro osserva come questa classe abbia potuto portare avanti il suo programma anche grazie alla globalizzazione, alla mondializzazione del ciclo produttivo, dei mercati e dell'economia in generale, che ha messo in seria difficoltà il movimento dei lavoratori, che fino ad allora aveva contrastato l'avversario sul terreno nazionale, ottenendo risultati non irrilevanti. Se questo è vero, è chiaro che i versanti su cui agire sono almeno duc: la difesa degli spazi di sovranità nazionale rimasti e la ricostruzione di spazi di sovranità popolare sulle decisioni

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più rilevanti; l’internazionalizzazione della risposta, dell’organizzazione e della strategia del movimento operaio che incredibilmente — naro internazionalista — proprio su questo terreno è rimasto indietro. Su entrambi

i fronti — e su quello di una nuova lotta per la democrazia — il fronte che si può costruire è molto ampio, a patto che ci si doti degli strumenti di analisi e controffensiva ideologica e culturale, e di organizzazione politica e sindacale, adeguate; in sostanza a patto che il movimento dei lavoratori

riacquisti una sua autonomia strategica. Lo slogan “voi /%, noi 99%" sebbene ingenuo e per certi versi sbagliato, segnala che si sta facendo strada una nuova consapevolezza della contrapposizione di interessi tra la stragrande maggioranza della popolazione e oligarchie sempre più ristrette, uno dei punti essenziali della riflessione di Marx. Su questa strada, i comunisti e gli anticapitalisti in generale hanno praterie davanti a sé, 0 sc si preferisce un oceano dentro al quale devono reimparare a nuotare. Per farlo devono però tornare a orientarsi attraverso un serio lavoro di analisi. Il libro di Domenico Moro offre in ral senso un contributo importante». Decisamente illuminante a riguardo anche l'intervento di Ferdinando Imposimato, a lungo Presidente onorario della Suprema Corte di Cassazione, al Convegno internazionale organizzato a Roma

il 26 ottobre 2015 dal Comitato No Guerra No Nato. Imposimato, che da magistrato inquirente si occupò dei casi più scottanti, dal rapimento Moro all’attentato al Papa, ha affermato che ci fosse il Bilderberg dietro le quinte delle stragi impunire degli “anni di piombo”.

A “inciampare” nella potentissima lobby politico-finanziaria mondiale, negli anni passati accusata di pilotare l’euro-crisi per restituire

il potere assoluto alle élite planetarie amputando la nostra sovranità democratica col ricatto del debito, fu il giudice Emilio Alessandrini, assassinato dai terroristi di “Prima Linea” nel 1979. Impegnato nelle indagini su piazza Fontana, Alessandrini “scoprì” il ruolo dell’allora

oscuro Bilderberg trent'anni prima che il grande pubblico venisse a conoscenza della sua esistenza. Il più esclusivo club finanziario

mondiale era direttamente responsabile delle stragi e della strategia

della tensione, sostiene oggi Imposimato, che ha reperito documenti inediti, pubblicati nel libro La Repubblica delle stragi impunite. Una rivelazione-choc, quella del presidente onorario della Corte

di Cassazione: «/a verità è ormai chiara: ci sono state complicità dello Stato, o di frammenti dello Stato, con la mafia e col terrorismo nero, e con la massoneria». Elementi «che erano poi fusi e armonizzati in questa organizzazione, manovrata dalla CIA», che in Italia si chiama Gladio

e all’estero “Stay Behind”. Fino a ieri sarebbe stata fantascienza, ag400

giunge Imposimato, ma ormai si tratta di fatti accertati, e il problema

è che “Stay Behind” esiste ancora. Negli anni 70, «serviva a impedire la dinamica politica», cioè frenare lo spostamento dell'elettorato verso la sinistra. Artentati, bombe, stragi. «Hanno fatto tutto questo non per

destabilizzare lo Stato, ma per rafforzare il potere: destabilizzare l'ordine pubblico per stabilizzare il potere politico». In tribunale è finita la manovalanza, ma i “mandanti” sono spesso rimasti nell'ombra. Specie

quelli più insospettabili: i super-finanzieri del Gruppo Bilderberg. Ricordiamo che della famigerata cupola finanziaria si parla solo da qualche anno, da quando cioè la crisi planetaria è precipitata. Nel gruppo si annoverano esponenti di primissimo piano dell’econo-

mia, della finanza e della grande industria, inclusi alcuni campioni della recnocrazia europea come Monti e Draghi, già impegnati nelle

nefaste strategie della Goldman Sachs. Se il governatore della Bce fa parte anche del “Gruppo dei 30”, massima lobby planetaria che infiltra le sedi intergovernative per influire sulla legislazione bancaria, Mario Monti è stato un dirigente della Commissione Trilaterale, il super-vertice permanente del potere mondiale in cui siedono gli uo-

mini più influenti di Usa, Europa e Giappone. Nel corso degli anni le delegazioni italiane hanno incluso, oltre a Draghi e Monti, personaggi come Ignazio Visco, Romano Prodi, Enrico Letta, Carlo De

Benedetti, Gianni Agnelli. Nell’ultimo appuntamento svoltosi nel giugno 2015 erano presenti per l’Italia il manager Franco Bernabò, il presidente di Fca John Elkann, la giornalista Lilli Gruber, l'ex com-

missario Ue ed ex premier Mario Monti e il numero uno di Techint Gianfelice Rocca. In tali riunioni il vincolo alla riservatezza è così forte che è impossibile ricostruire con certezza i temi affrontati e le

posizioni emerse nelle giornate di dibattito libero, che sono la caratteristica di questi vertici informali: come da tradizione, infatti, non c'è nessuna agenda e l’unica regola valida è quella di “Chazam House”, ovvero i contenuti degli incontri possono essere utilizzati o riferiti

senza però rivelare l'identità o l'appartenenza di chi li ha espressi”.

® Fonti usate: M. Dinucci, La NATO, il tabù della Sinistra, Il Manifesto (web), 10 novembre 2015; Autore Ignoro, Bi/derberg: i fanatici del rigore dietro le stragi di Stato, Librcidec.org, 18 gennaio 2013; Redazione Il Sole 24 Ore, Oggi si apre il «club segreto» Bilderberg. Cinque italiani nella lista (c'è anche Lilli Gruber), Il Sole 24 Ore (web), 11 giugno 2015.

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14.6. Antimperialismo o antiliberismo? I dati finora offerti sono inoppugnabili, ma non sono stati adeguatamente compresi dalla gran parte della “sinistra” odierna.

Sotto questa fumosa etichetta possiamo e dobbiamo distinguere tra chi ha negli anni pienamente accettato la via della socialdemocrazia e chi invece si è rifiuraro di abbandonare il marxismo come

paradigma di riferimento: una piccola minoranza ha proseguito a dirsi comunista, seppur in una versione non più leninista. Partendo infatti dall’introiezione della critica al “socialismo reale” dell'URSS, ed in particolar modo

dello stalinismo, tali settori, accademici e

politici, hanno posto la necessità di “tornare a Marx” scrostandolo dalle interpretazioni giudicate erronee dei suoi successori. Anche in questo caso tale operazione si è rivelata totalmente inconsistente, se

non dannosa, impedendo al movimento operaio di ricostruirsi su

basi solide, ma continuando ad innalzare castelli di sabbia demoliti alla prima mareggiata. Prendiamo il contesto italiano ed occidentale degli ultimi decenni, caratterizzato da un grande equivoco: aver confuso neoliberismo e imperialismo, fino a perderne la comprensione profonda. Se infatti l’antimperialismo è necessariamente anche antiliberismo, non

è scontato che l’antiliberismo sia anche antimperialismo. Il che è tra le principali cause delle divisioni interne alla sinistra italiana sulla gran parte dei temi principali dell’agenda politica quotidiana: dalla

questione dell’Unione Europea (da riformare o da abbandonare?) al tema della sovranità nazionale (confusione tra patriottismo e nazionalismo, tra internazionalismo e cosmopolitismo), dal rapporto con le forze socialdemocratiche e il “centro-sinistra” (forze organiche alla

borghesia o soggetti con cui dialogare?) alle proposte economiche programmatiche

(nazionalizzazioni e controllo operaio o redistri-

buzione e tassazioni sui grandi patrimoni?). Grande è la confusione sotto il cielo, ma una certezza prevale: un’analisi marxista-leninista

sulla realtà odierna è stata sistemaricamente rimossa e marginalizzata. Come e perché si è potuto ad esempio dimenticare la centralità dell’imperialismo, ben nota invece al movimento comunista extra-europeo? Ha pesato anche in questo caso la subalternità ideolo-

gica alla stessa socialdemocrazia e ai suoi intellettuali organici proponenti un marxismo sempre più “rosé”; sono mancati di conseguenza 402

uno studio autonomo ed una formazione radicata capaci di fornire i fondamenti ideologici e analitici primari nella lettura della realtà. Di fronte alla preponderanza del totalitarismo liberale si è infine spesso e volentieri accettata involontariamente la sua narrazione, tanto per

ignoranza, quanto per opportunismo, specie elettoralistico. Occorre quindi tornare ai fondamentali, a partire dalle definzioni e dalle categorie, senza dare nulla per scontato. /r primis: l'imperialismo non

è un fenomeno solo politico-militare di aggressione bellica, bensì anzitutto economico, per la cui comprensione occorre aver chiari i caratteri generali della critica marxiana dell'economia politica, dalla teoria del valore-lavoro a quella della circolazione di merci (MDM) e formazione del capitale (DMD?”), dalle nozioni di salario e plusvalore

a quella di caduta tendenziale del saggio di profitto, ecc.). Pensatori della borghesia come Fieldhouse, Schumpeter o Raymond Aron hanno spiegato l'imperialismo a partire da considerazioni politiche “di potenza”, dal prevalere umano di pulsioni irrazionali e istintive o da una serie di cause politico-ideologiche (culturali e razziali) ri-

tenute innate nell'uomo da millenni. Il marxismo-leninismo invece muove da altri elementi, nel solco del materialismo storico. Pur

muovendo dagli studi svolti da esponenti borghesi quali Hobson e Hilferding (ma anche di un intenso dibattito svoltosi nell'SPD tra 1912 e 1916), Lenin, sviluppando le teorie di Marx sull’origine del

capitalismo, sul suo passaggio da un regime concorrenziale a uno monopolistico, ha tradotto in una serie di cospicui e accurati dati

economici la realtà della globalizzazione liberista e dell’affermazione dell’imperialismo, ossia dell’egemonia del capitale finanziario e del dominio monopolistico teso all'esportazione di capitali. Tale processo, che pure è stato frenato dall’affermazione dell'URSS e dall’avvento della Guerra Fredda che per mezzo secolo

ha precluso metà del pianeta agli affari del grande capitale, è oggi ancora più accentuato di cent'anni fa, trovando nuova fioritura a partire

dagli anni °80-‘90 del novecento nell’intensificazione di politiche neoliberiste in Occidente e del fenomeno “neocoloniale” nel Terzo Mondo. La concentrazione monopolistica viene confermata in ogni

setrore economico e concretamente l’accentuazione dell’imperialismo significa un peggioramento netto delle condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Un impoveri-

mento relativo per le classi lavoratrici dei Paesi occidentali, assoluto invece per le masse di sfruttati che muoiono letteralmente di fame 403

nel resto del mondo. Si specula su qualsiasi cosa: sul cibo, sulla casa, sulla salute, sull’istruzione, sull'ambiente, sulla vita stessa di miliardi

di persone, finanziando guerre, genocidi e terrorismo, che generano a loro volta migrazioni di massa.

L’accentuazione della disuguaglianza è una conseguenza naturale dell’imperialismo: la gran parte della ricchezza è posseduta da pochissime persone a discapito di tutte le altre. Questo fenomento è

ormai tanto evidente da essere esplicito nel dibattito pubblico, che ne fornisce periodicamente i dati aggiornati. ] cardini di questo sistema, nel nostro Paese, poggiano sulla struttura dell’Unione Europea, nata in funzione anti-sovietica e rimaneggiata in chiave anti-popolare durante gli anni del crollo del muro di Berlino. Infine, se da un lato non deve stupire la preoccupante riemersione di forze reazionarie di retaggio nazifascista, dall’altro resta illogico e irrazionale ipotizzare “l’unità degli antimperialisti, siano essi di destra o di sinistra”, giacché l’antimperialismo di destra esiste solo a livello nominale ma non sostanziale. I fascismi, infatti, sono

storicamente lo strumento politico più disastroso messo in campo dal potere finanziario: è attraverso il nazionalismo e il corporativismo

(elevati a regime militare) che vengono sedate le pulsioni rivoluzionarie, rinsaldare le gerarchie di classe, annientare le organizzazioni dei lavoratori e cancellate le conquiste democratiche. Il noto filosofo italiano Diego Fusaro, spesso indicato come marxista nel circuito mediatico, rifiutando questa differenza tra piano linguistico e piano

ontologico, è pervenuto a proposte politiche nella loro essenza “rossobrune”, ossia antimarxiste e antileniniste. Altro discorso è quello dell’incapacità della sinistra occidentale di riuscire a pervenire ad una lettura geopolitica autonoma dalle

categorie borghesi. Due i fenomeni più deleteri: il parreggiamento contro i “dittatori” dei Paesi non allineati agli USA e alla Nato (feno-

meno tipico della cultura “4bera/”) e l'attribuzione della definizione

di imperialismo a Paesi che fronteggiano l'egemonia atlantica (fenomeno erede del trockismo). Non bisogna invece dimenticare che

l’analisi politica internazionale deve fare i conti con le condizioni concrete e il realismo politico e che occorre sempre valutare la realtà su vari livelli (almeno tre principali: rapporti di genere/etnia/religio-

ne, rapporti Capitale-Lavoro, rapporti tra Stati sovrani), sforzandosi di recuperare un livello di complessità possibile solo arrraverso il materialismo dialettico. In conclusione, è necessario che i comunisti 404

prendano coscienza degli errori analitici fatti nel recente passato e si impegnino nella costruzione non tanto di una forza antiliberista, quanto piuttosto di una forza antimperialista capace di affrontare le

sfide del nostro tempo. Una forza di questo tipo può assumere varie forme, ma non può fare a meno di un coerente ed organizzato partito comunista che ne sia il cardine e il caposaldo”!. 14.7. Il discorso medio del revisionismo Affermare che serva un coerente ed organizzato partito comuni-

sta impone la necessità di ragionare ben oltre il paradigma dell’unità della sinistra, identificato dal residuale senso comune progressista come la risposta ai problemi politici del Paese. Perché questa è la soluzione sbagliata? Proprio perché la gran parte della sinistra respinge tanto l’antiliberismo quanto l’antimperialismo e quindi l’anticapitalismo. Proviamo allora a restringere il campo: da diversi anni il Partito della Rifondazione Comunista segue una linea politica con cui propone di costruire una larga e plurale “sinistra antiliberista”. Prendiamo dunque uno dei massimi rappresentanti della sinistra socialdemocratica italiana dell’ultimo trentennio al fine di mostrarne

l'insufficienza del discorso analitico e la conseguente improponibilità di un programma politico comune. Presentiamo insomma il discorso medio del revisionismo moderno, contro cui occorre combattere fermamente: il 5 maggio 2018, in occasione del 2° Congresso Mondiale sul Marxismo

tenutosi a Pechino, a ricordare il bicentenario

della nascita di Karl Marx è stato invitato anche Massimo D'Alema, che ha tenuto un discorso?’ inaspettato per gran parte della “sinistra italiana”, trovando una certa eco perfino negli ambienti comunisti,

pur essendo passato maggiormente in sordina nel dibattito pubblico e politico complessivo del nostro Paese. Dato lo spessore politico di D'Alema, è necessario procedere ad una disanima accorta di tale

discorso, al fine di offrire ai comunisti un esempio di come operi la

2!Il seguente paragrafo è una rielaborazione dellarticolo A. Pascale, Neoliberi-

smo 0 Imperialismo?, La Città Futura, 19 febbraio 2016. 2 M. D'Alema, D'Alema: inMarxritroviamo laforza di una passione chedeve spingerci a non arrenderci allo ‘stato di cose presenti”, Nuovatlantide.org, 8 maggio 2018.

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socialdemocrazia per ingannare le classi lavoratrici con la propria

fraseologia apparentemente rivoluzionaria”. noto come Massimo D’Alema, dopo un inizio di carriera come dirigente della FGCI e del PCI, sia diventato il personaggio

più in vista e discusso degli ambienti socialdemocratici della Seconda Repubblica e del Partito Socialista Europeo, diventando nel 1998 il primo Presidente del Consiglio “post-comunista”, con una svolta che

ha segnato per molti la fine del famigerato “fattore K” con cui i comunisti sono stati tenuti ai margini del potere per mezzo secolo in Italia. È altrettanto noto come in quel breve periodo (1998-2000) in cui rimase in carica, D'Alema abbia messo in atto politiche completamente

antiteriche agli insegnamenti storici di Marx e perfino della socialde-

mocrazia “classica”, avviando ad esempio privatizzazioni (Telecom, Autostrade), partecipando a guerre promosse dagli USA (Jugoslavia) e

in generale attuando linee politico-economiche subalterne al capitali-

smo neoliberista e imperialista. Di fatto il Governo D'Alema, in piena continuità con i Governi precedenti, ha attaccato duramente con una prassi tipica della gramsciana “rivoluzione passiva” le conquiste del

Welfare State ottenute nei decenni della Prima Repubblica al prezzo di durissime lotte, di cui i comunisti erano stati promotori e sostenitori. Nel discorso cinese Massimo D'Alema pone accenti, seppur minimi, di autocritica verso le scelte fatte in quegli anni, scaturite nella trasformazione finale della “Cosa Rossa” in un soggetto poli-

tico progressivamente degenerato e scivolato nella rappresentanza degli interessi esclusivi della grande finanza europea e del grande padronato italiano. Tale è oggi il ruolo storico e il blocco sociale del

Partito Democratico italiano. Allo stesso tempo però l’autocritica di D'Alema si mostra ancora molto, troppo timida analiticamente, mostrando come la “revisione” degli errori sia rimasta appena abbozzata, parziale e in definitiva totalmente insufficiente e inadeguata nella fase politica attuale. Scopriamo il perché, seguendo riga per riga

l'impostazione del discorso. Innanzitutto D'Alema mostra di non aver colto la natura cosmopolita della globalizzazione e del capitalismo attuale, stigmatiz-

zando il fatto che non si sia riusciti a superare «i particolarismi nazio-

Il seguente paragrafo è una rielaborazione dell’articolo A. Pascale, D'Alema, Marxeil Revisionismo della Sinistra Socialdemocratica, La Città Futura, 2 giugno 2018.

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nali» e a omologare le «differenti culture» globali, come prometteva l’ideologia liberista. Riconosce che la «sinistra ha subìto l'influenza di questa cultura e che essa si è manifestata in modo particolare nella

elaborazione della cosiddetta Terza via». Non spiega però come e perché ciò sia avvenuto, né fino a quale livello ci si sia spinti. Già Lenin ricordava come non ci potessero essere “terze vie”, ma che in

definitiva nel mondo a trazione capitalista ci fossero solo un’'ideologia borghese o un'ideologia socialista tra cui scegliere. Di Lenin però non

c'è traccia nell’elaborazione di D'Alema, il quale parla genericamente di una «globalizzazione senza regole», iniziando così a confondere le acque, non identificando il vero problema nell’essenza del capitali-

smo, quanto nella sua diffusione a livello globale. D'Alema dice: «il timore della progressiva cancellazione delle diverse identità nazionali, etniche e religiose ha scatenato drammatici conflitti e ridato vigore a nazionalismi che sembravano appartenere ad un passato ormai remoto». Nessun accenno in questa analisi al pro-

fondo disagio sociale e alla responsabilità dell'imperialismo, inteso come fase suprema del capitalismo, nella responsabilità dell’accentuazione di un conflitto su scala planetaria. Gli USA non stanno

reagendo meramente «alla competizione globale», allusione vaga al declino economico dell’Impero Statunitense, ma stanno mettendo in discussione la globalizzazione proprio a seguito dell'ascesa mondiale

della Repubblica Popolare Cinese, ossia quel Paese che grazie alla guida dal Partito Comunista Cinese dal 2015 è diventato la prima

potenza mondiale in termini di PIL. Gli USA si sono perfettamente resi conto negli anni dell’accresciuta «capacità competitiva delle economie emergenti»: questa velata allusione ai BRICS infatti non tiene conto del fatto che gli USA hanno scatenato negli ultimi decenni e in maniera bipartisan (non solo i “repubblicani” Bush e Trump, ma anche i “democratici” Obama e Clinton) un'offensiva a rutto campo

soprattutto contro il circuito dell’ALBA e dei suoi partner in America Latina, contro Russia e Cina in Europa Orientale, Asia e Africa.

Identificare il problema nel «capitalismo senza regole e dominato esclusivamente dalla logica del profitto e dai meccanismi di mercato» significa quindi lavorare non per l'abbattimento del capitalismo e la riattualizzazione del socialismo, bensì per l'ideale utopistico di una sorta di capitalismo etico duramente avversato dallo stesso Marx fin dagli anni ‘40 dell’800. I dari socio-economici mondiali riportati da

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D'Alema?‘ peraltro non fanno altro che confermare il carattere imperialista del capitalismo e l’artualità dell’elaborazione fatta da Lenin oltre un secolo fa ne L'Imperialismo, in cui già veniva sottolineato il carattere egemonico della finanza. Ignora o nasconde poi che le

stesse «politiche keynesiane e di impronta socialdemocratica» che hanno permesso di moderare gli eccessi del Capitale sono state possibili solo grazie al ruolo di stimolo e di sfida svolto dal blocco socialista guidato dall'Unione Sovietica, oltre che dalla forza raggiunta dal movimento

operaio e dalle sue organizzazioni comuniste e socialiste in Occidente.

Si dimentica che «le economie occidentali hanno vissuto una crescita sostenuta sorretta» non solo «da investimenti e innovazione» ma

anche dalla prosecuzione di uno sfruttamento intensivo del “Terzo Mondo” attraverso la prosecuzione di politiche imperialiste (chiamate dagli studiosi borghesi “neocolonialiste”) svolte in primo luogo dai sicari delle multinazionali, che hanno potuto continuare a spartirsi gran parte della torta mondiale con l'appoggio politico e militare occidentale e delle principali strutture economiche internazionali (FMI, Banca Mondiale, GATT, WTO, ecc.). D'Alema afferma che

«nell'epoca della globalizzazione e della deregulation neoliberista questo sistema entra in crisi», senza proporre un'analisi storico-economica sulle cause di tale svolta, dovuta primariamente alla marxiana caduta tendenziale del saggio di profitto e alla volontà della borghesia

di passare all’offensiva contro le conquiste del movimento operaio che mettevano foretemente in discussione il predominio del grande Capitale Privato (si veda a tal riguardo l’analisi di Piketty svolta ne

Il Capitale del XXI secolo). La «grande crisi del 2007-2008» non è insomma un evento accidentale, ma l’esito intrinseco alle contraddizioni del sistema capitalistico. L'avvento del «capitalismo finanziario contemporaneo», che D'Alema si guarda bene, come la maggioranza

delle sinistre odierne, dal chiamare “imperialismo”, è marxianamente 24 «In particolare a crescere sono i profitti del settore finanziario: mentre nel 1960 questi rappresentavano il 14% dei profitti delle imprese americane, nel 2008 raggiungono il 39%. Gran parte della ricchezza creata in questi anni viene accaparrata da un ristretto gruppo di super ricchi mentre la sostanziale stagnazione dei salari determina un aumento vertiginoso delle diseguaglianze sociali. A livello globale una quota della popolazione leggermente inferiore all’1% dei cittadini del mondo detiene il 44% della ricchezza mondiale. Dall'altra parte vi è un 70% della popolazione che possiede il 3% della ricchezza».

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la modalità di estrazione di plusvalore dalla lotta di classe nazionale al più ampio sfruttamento intercontinentale, moderato nei decenni

del Piano Marshall e della decolonizzazione. Si è visto infatti nel “Trentennio Glorioso” (1945-1975) un dominio violento, ma furbescamente mascherato e capace di redistribuire la ricchezza con ampie fasce delle classi lavoratrici occidentali operaie e impiegatizie. «È noto che il tema della finanza, del credito e della circolazione

del denaro non è centrale nell'opera di Marx». Occorrerebbe capi-

re cosa intenda qui per «centrale», in considerazione delle pagine marxiane dedicate al passaggio tra ciclo M-D-M' a D-M-D°’. Può comunque D'Alema non conoscere l’elaborazione teorica di Lenin e del movimento comunista internazionale e italiano successivi, che

hanno dedicato un’ampia analisi al ruolo della finanza? Queste sue omissioni o sono frutto di una macroscopica ignoranza o di una sistematica omissione palesemente cinica e opportunista. Anche nei passaggi più progressivi del discorso dalemiano, come quello in cui ricorda le elaborazioni marxiane sulla «società catturata dal “feticismo del denaro”; presa cioè dalla vertigine di volere accumulare soldi senza

l'intermediazione della produzione materiale e del lavoro umano», si può obiettare come Marx abbia fornito ben più che «uniriuizione

[...] per interpretare la realtà della globalizzazione, della libera circolazione dei capitali e della deregulation finanziaria». Qui D'Alema dovrebbe ricordare le elaborazioni svolte da Marx fin dai Manoscritti Economico-Filosofici (1844), in cui emerge pienamente il concetto di alienazione, ma si sarebbe potuto citare uno qualsiasi degli aspetti

più progressivi delle elaborazioni svolte nell'ambito della Scuola di Francoforte sul tema in pieno ‘900.

Nell’aggiungere poi che «la finanziarizzazione danneggia non solo i lavoratori ma più in generale l'attività produttiva» D'Alema conferma l’otrica nettamente eurocentrica che caratterizza da sempre (cioè almeno fin dai rempi delle degenerazioni di inizio ‘900 della Seconda Internazionale) la visione socialdemocratica, risultando

incapace da un lato di cogliere il processo di sviluppo delle forze produttive svoltosi su scala globale (nei cosiddetti “Paesi in via di sviluppo”), dall'altro il nesso inevitabile e inestricabile tra grande

Capitale finanziario e industriale nell’epoca dell’imperialismo. Affermare che «/ finanza diventa così [...] una ‘padrona dell'economia” che impone uno sviluppo precario e distorto» significa rinunciare a parlare

con linguaggio chiaro: la finanza non è un soggetto attivo, è uno 409

strumento, il cui controllo preponderante è nelle mani della grande borghesia, ossia di un’élite ristretta di persone in carne ed ossa, che D'Alema si guarda bene dal nominare, essendosi peraltro anche da Presidente del Consiglio ben guardato dal toccarne i privilegi (si ricordi su tutti il caso della “Commissione Bicamerale” con Silvio Berlusconi e la mancata legge sul conflitto di interessi). L'orizzonte politico tracciato da D'Alema diventa però a questo punto chiaro

ed esplicito: «/a necessità di una guida politica che sappia regolare e garantire una crescita ordinata». L'otrica insomma è quella della permanenza nel capitalismo, secondo però una proposta riformista di stampo socialdemocratico classico, tuttavia ormai incompatibile con l'assetto attuale delle sovrastrutture imperialiste (in primo luogo

lPUE) a cui l’Italia è legata. Citando Gramsci, D'Alema ricorda una sua espressione, «il ca-

rattere cosmopolita dell'economia», subito prontamente corretta («oggi diremmo globale»), dimostrando ancora una volta o plateale ignoranza oppure cinica censura sulle categorie marxiste di internazionalismo e cosmopolitismo. La socialdemocrazia in efferti si è roralmente appiattita sul cosmopolitismo, accettandolo organicamente, come

ha mostrato Domenico Moro nel suo recente La gabbia dell'euro (2018)?°. Ecco ora uno dei passaggi più subdoli e violenti del discorso: «Gramsci [...] muove da una visione assai diversa da quella prevalente in quel tempo nella Internazionale comunista. La tesi ortodossa pretendeva che la crisi fosse l'annuncio del crollo del capitalismo [...]. La riflessione di Gramsci ci porta quindi oltre ogni visione ideologica e deterministica del marxismo [...]. Egli sottolinea il ruolo dello Stato c in

particolare guarda ambiziosamente alla necessità di dare all’azione politica una dimensione e una capacità di indirizzo che vada oltre i confini dello Stato nazionale». In queste righe si enuncia il profondo tradimento ideologico di

D'Alema, che falsifica la teoria del marxismo-leninismo di Marx ed Engels e le elaborazioni dell’Internazionale Comunista di Lenin, Stalin e degli altri bolscevichi allo scopo di infangarle. È stata la stessa Rivoluzione d'Ottobre a mostrare come la visione marxista e leninista fosse

* D. Moro, La gabbia dell'euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, Imprimatur, Reggio Emilia, 2018.

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tutto meno che deterministica, laddove erano stati i socialdemocratici

a proclamare schematicamente le indicazioni accennate da Marx. Rifiutando di sostenere la presa del potere dei bolscevichi in Russia, i

socialdemocratici vennero sbeffeggiati per questo dallo stesso Gramsci nel celebre articolo La Rivoluzione contro il Capitale. Gramsci non

parla di un generico “Stato”, ma di uno “Stato proletario”, tanto da sostenere sempre, in qualsiasi scritto, anche in quelli dal carcere, l'URSS.

Mai vi fu distacco tra Gramsci e il materialismo dialettico, l'URSS, il PCUS, Lenin e Stalin, lui pure accusato e calunniato ingiustamente di

determinismo e ideologismo. Il tentativo di slegare Gramsci dal CO-

MINTERN è frutto di un'azione mistificatrice affatto nuova con cui si è cercato, fin dall'epoca berlingueriana, di usare strumentalmente que-

sto grande leninista per giustificare svolte revisioniste e anti-comuniste.

D'altronde D'Alema ribadisce che vuole una «politica progressista» che si limiti a «correggere le storture prodotte dal capitalismo finanziario globale e dalla logica di un mercato senza regole». Correggere, non certo abbattere. L'ottica è pienamente riformista, alla ricerca di una svolta “progressista” (non certo rivoluzionaria) che rimanga nell’alveo del

cosmopolitismo (e quindi sotto l’“ombrello” dell’Unione Europea).

Ne segue la stigmatizzazione della «reazione nazionalista e regressiva» e la rinuncia alla sovranità nazionale e al patriottismo progressista di tra-

dizione marxista-leninista, sempre accolto dal PCI. D'Alema denuncia «l'America di Donald Trump» che apre «una nuova era pericolosa carica di tensioni e di conflitti che potrebbe portarci ad una nuova Guerra fredda», fingendo di non sapere che tale politica è ininterrortamente parte costitutiva e organica delle linee strategiche degli USA da quando sono

diventati la principale superpotenza mondiale (1945). Il suo ideale è quello di una «globalizzazione regolata e non sel-

vaggia in grado di promuovere uno sviluppo “armonioso” — per usare una espressione cara alla cultura cinese — nel senso dell'armonia tra le persone e nel rapporto tra uomo e natura». Si capisce qui perché

D'Alema, che dà sfoggio di idealismo new age, abbia potuto tenere questo discorso in Cina: la regolamentazione della globalizzazione è un progetto in pieno corso a cui si sta rendendo grazie all'evoluzione di nuove relazioni internazionali; ciò non accade però nei termini della “socialdemocrazia” occidentale, bensì grazie all’azione ragiona-

ta e di lungo termine del Partito Comunista Cinese, che dichiara e dimostra di agire a partire non solo da Marx, ma anche dalle claborazioni di Lenin, Stalin, Gramsci e Mao, ossia la migliore tradizione 411

storica e teorica dei comunisti. Partendo da uno studio dialettico e non dogmatico il PCC sta elaborando un programma con cui, ad esempio, negli ultimi 30 anni ha tolto 700 milioni di persone dalla

povertà, attraverso l'applicazione; per così dire, di una NEP molto

più ampia di quella realizzata da Lenin negli anni ‘20. La lezione cinese costituisce oggi un punto di riferimento imprescindibile per i Paesi del “Terzo Mondo”, ma non certo per una realtà avanzata in-

dustrialmente e tecnologicamente come l’Italia, nella quale, essendo già sufficientemente sviluppare le forze produttive, sarebbe possibile avviare direrramente la costruzione di un'economia socialista.

D'Alema però crede che per conquistare «l'armonia» basti «una riduzione delle diseguaglianze», mancando di identificare come la prima causa di disordine politico, socio-economico e in ultima

istanza perfino morale sia l'imperialismo, la cui distruzione è premessa indispensabile. Si arriva infine alla falsificazione e alla calunnia quando si accusa Marx di rifiutare non solo la «tradizione liberale», ma anche quella «democratica». Viene stigmatizzata «la concezione utopistica del superamento dello Stato come condizione di una effettiva uguaglianza tra gli uomini», travisando in tal modo l’ottica marxiana

che identificava l'affermazione della libertà e della democrazia solo nel comunismo, ossia nell’abolizione della divisione classista della società. Un'idea tutt'altro che antidemocratica. Si è già ricordato come i concetti di liberalismo e di democrazia siano stati a lungo slegati concretamente e teoreticamente dagli stessi liberali nel corso della Storia;

di cerro è evidente che per Marx un avanzamento indispensabile ver-

so gli orizzonti della democrazia e della libertà passi per la “dittatura del proletariato”, di cui i “socialismi reali” costituiscono un'esemplificazione srorica. A questo punto, infatti, l’invettiva contro il marxi-

smo-leninismo si fa ancora più esplicita: «questa visione marziana è stata in parte travisata e cristallizzata nella ortodossia marxista-leninista che ha costituito l'ideologia del socialismo reale nell'Unione sovietica

e nell'Europa orientale. Con gli esiti fallimentari che conosciamo». Non c'è da stupirsi del punto di vista anticomunista espresso da D’Alema, che si appiattisce opportunisticamente sul senso comune dominato dalla visione borghese e ribadisce la concezione revisionista tipica della Il Internazionale socialdemocratica: «tutta l’esperienza teorica e pratica del socialismo e della sinistra nell’Occidente curopeo ha rifiutato la contrapposizione tra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale cercando invece di andare oltre la tradizione

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liberale attraverso una integrazione fra diritti formali e promozione attiva della integrazione sociale e della riduzione delle diseguaglianze. È evidente

tuttavia che pure muovendo in una direzione diversa — e cioè cercando di combinare socialismo e democrazia — la sinistra curopca ha comunque preso le mosse dalla critica marxiana dei limiti della uguaglianza formale».

È incredibile come l’intero discorso di D'Alema pretenda di muovere dal marxismo rinnegandolo completamente, senza nessuna base

teorica né storica. Il tema delle diseguaglianze, riconosciuto da qualsiasi liberale (a partire da John Stuart Mills) o dalla tradizione keynesiana, per D'Alema va «oltre l'iniqua distribuzione della ricchezza»; ci si aspet-

terebbe allora il superamento dei rapporti di produzione e la redistribuzione della proprietà e invece egli si concentra sulla «distribuzione

delle conoscenze e del potere», intendendo il potere non sul piano economico, ma su quello tecnico-politico, scomodando l’economista Joseph Stiglitz: «Bisogna tornare — egli scrive — ad una democrazia fondata sul principio “una persona un voto” e non su quello: un dollaro un voto. Bisogna impedire che il potere economico e finanziario possa manipolare e con-

trollare l'informazione e distorcere la democrazia». Come si possa attuare questa utopia idealistica non viene detto, mentre è già stata dimostrata dallo stesso Marx, ignorato o omesso, l'impossibilità di una onesta e

funzionante democrazia liberale in regime capitalistico. La democrazia liberale non è altro che un regime oppressivo: la dittatura della borghesia. Lenin aggiungerà che la democrazia liberale diventa il miglior involucro per celare l'oppressione della classe borghese. La sostanza

del discorso resta la stessa: il capitalismo è nemico della democrazia. Il revisionismo di D'Alema emerge ancora quando esprime la necessità di «una regolazione internazionale capace di limitare la forza incontrollata dei grandi poteri economici transnazionali». Si noti il termi-

ne “limitare”. Entro quali limiti? Probabilmente non quelli della “socializzazione”. E prosegue: «dovremmo dire che cè bisogno di un nuovo internazionalismo, un tratto distintivo del movimento operaio fin dalle sue origini che, tuttavia, si è paradossalmente spento proprio quando il capitalismo si è fatto internazionale trovandoci impreparati e impotenti». A cosa servirebbe questa nuova internazionale? A «ristabilire un primato della

politica sull'economia rovesciando il dogma neoliberista» e a «imbrigliare le forze del mercato» per evitare che «a crescita industriale ed economica non pregiudichi definitivamente l'ambiente naturale e con ciò la sopravvivenza stessa della specie umana». Innanzitutto occorre ricordare che 413

il capitalismo ha sempre avuto tendenze cosmopolite e internazionali: la globalizzazione non nasce ma si accentua negli anni ‘70 del ‘900, essendo però già descritta nei suoi movimenti essenziali perfino nel Manifesto del Partito Comunista. La rottura definitiva del movimento comunista internazionale data 1956, con lo scioglimento sciagurato

del COMINFORM decretato da Chruscév e avallato da diversi leader comunisti occidentali, tra cui lo stesso Togliatti (ben presto in Italia si

passerà dalla proposta anticapitalista ad una antiliberista). In secondo luogo, proporre il «primato della politica» in un sistema borghese significa avallare l’idea che ci sia una “classe politica” o “ceto politico” unanime e indistinguibile per ideologia e rappresenza sociale, slegato dagli interessi partiti politici Infine la damentali del

e dalle appartenenze di classe. Come se non fossero i della borghesia fautori del “primato dell'economia”. questione ecologica e ambientalista: uno dei nodi fonXXI secolo, che può essere risolto solo a seguito di una

pianificazione e razionalizzazione delle attività produrrive, al fine di ridurre gli enormi sprechi insiti nel sistema produttivo capitalistico. Questo per sua natura è infatti sregolato e “anarchico”, incapace cioè di auto-regolarsi in vista delle esigenze sociali e della tutela del piane-

ta. Il farro che D'Alema non indichi chi debba essere il protagonista dell’avvento di una «economia circolare capace di risparmiare risorse e materie prime» ma che identifichi la soluzione unicamente in una generica spinta verso cui devono tendere «l'innovazione e la ricerca

scientifica» è un’altra affermazione utopistica: chi può svolgere infatti questi compiti se non gli enti pubblici, dato che gli enti privati hanno

per scopo il profitto? L'astrattezza del discorso dalemiano è tale che l'appropriazione del «sapere sociale che è frutto della ricerca scientifica e dell'ingegno umano» diventa opera genericamente del “capitalismo” invece che della “borghesia”.

Le parole conclusive ribadiscono le premesse, ossia che il miglioramento delle condizioni di vita di miliardi di essere umani «dipende

dalla forza di un'azione politica che muova da un pensiero critico sul capitalismo e le sue contraddizioni. Un simile pensiero critico non può prescindere da Carlo Marx. Certo la sua opera non può essere considerata come un corpo dottrinario organico, come una sorta di manuale in cui

cercare tutte le risposte per il presente e per il futuro». Per D'Alema il Marx da salvare è quello prettamente teorico, non certo quello pratico

e politico, al fine di mantenerne solo l’ottica di “critico” del capitalismo e rigettare il comunismo. Infatti «Marx deve dunque essere liberato 414

da ogni visione scolastica e dogmatica e riletto, spesso, senza la mediazione di molti “marxisti” che non gli hanno fatto onore». D'Alema sa bene che Marx è indispensabile per «alimentare una visione critica della società» ma qui si ferma l’utilizzo strumentale e revisionista che, riconoscen-

do al filosofo tedesco soprattutto «i rigore di un metodo e la forza di una passione», autoaccusa i propri errori. Il metodo di Marx è infatti scientifico, non certo lirico e moralistico. Marx ha distrutto ogni im-

postazione idealistica e utopistica del socialismo. La passione di Marx deriva dalla lotta e dalla volontà caparbia di affermare il vero e di porre a tacere gli infantilismi dei vari opportunisti di cui Massimo D'’Alema non è altro che uno dei tanti rappresentanti della nostra epoca. La sua assoluta refrattarietà ad accogliere il leninismo, e quindi l'impostazione antimperialista, lo avvicina ideologicamente a Fratoianni o a Ferrero, nel contesto italiano, a Tsipras sul piano europeo. La sua incapacità, la sua ipocrisia e la sua moderazione, unite al rifiuto

di identificare il nemico nelle strutture e sovrastrutture imperialiste (FMI, Banca Mondiale, UE, NATO,

BCE, ecc.) lo rendono inser-

vibile per costruire un programma progressista credibile e concreto. La lotta politica dei comunisti e dei lavoratori non passa quindi dalla conciliazione con D'Alema, nonostante le belle frasi scarlatte pronunciate in Cina, bensì dalla più accanita battaglia e intransigenza ideologica per la riaffermazione di un punto di vista coerentemente

marxista, leninista, comunista e rivoluzionario. All’unità della sinistra i comunisti preferiscono l’unità dei marxisti-leninisti. La lotta politica

non deve essere praticata solo contro i borghesi e le loro ideologie e rappresentanze politiche ed economico-sociali, ma anche contro quella che è di fatto a tutti gli effetti “la sinistra dell’imperialismo”.

14.8. Ripartire dal marxismo-leninismo Chiudiamo infine riflettendo con un'elaborazione 26 che da un lato ragiona sul tema della sovranità nazionale, dall’altro anticipa una

parte dei contenuti e delle tesi che verranno presentati e dimostrati nei successivi volumi della collana. Ne scaturisce una proposta finale

‘° Rielaborazione con leggere modifiche di A. Pascale, La sovranità nazionale e

la centralità della lotta antimperialista, Marx21.it, 8 gennaio 2018.

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chiara, da cui si ripartirà nel prossimo volume dedicato per l'appunto alla riscoperta del marxismo-leninismo.

Perché parlare della sovranità nazionale, tema tipico delle “destre” a detta di molti? Innanzitutto bisogna segnalare che se il rema è stato lasciato in mano ai gruppi reazionari, ciò va solo a demerito

degli stessi comunisti. È stato quindi molto importante che l’Associazione Politico-Culturale Marx21 abbia lanciato sul proprio sito il 10 dicembre 2017 una discussione su un tema importante e assolutamente non marginale come quello riguardante la “questione n4zionale”. La gran parte del movimento comunista italiano ha infatti vissuto gli ultimi decenni in balìa del revisionismo, facendosi dettare

le parole d’ordine, e talvolta perfino l’analisi, dalla borghesia e da inrellettuali di area progressista ma non marxista. Il fatto che oggi parlare di sovranità nazionale sia un rabù e che si lasci il rema alle destre non deve stupire insomma: è il simbolo di una strutturale incapacità analitica dovuta ad un profondo revisionismo che affonda le sue origini assai lontano nel tempo: in Italia almeno agli anni di Berlinguer,

il quale, con l'abbandono formalizzato del marxismo-leninismo da

parte del PCI, a favore dell’ottica eurocomunista, legitrimò inconsapevolmente un filone culturale cosmopolita che con l’internazionalismo proletario non ha nulla a che fare. Nella sua storia il movimento comunista mondiale, fino allo scioglimento del COMINFORM (1956) ha sempre mantenuto chiaro il nesso tra internazionalismo

e patriottismo, secondo un rapporto dialettico per il quale il primo aspetto risultasse preponderante rispetto al secondo, utile soprattutto a scopo tattico nella conquista dell’egemonia e della presa del potere. Non è un caso che le vie nazionali al socialismo siano state du-

ramente stigmatizzate fino al 1956, tanto da procurare la rottura con la Jugoslavia e una serie di dure reprimende alle direzioni politiche del PCI e del PCE Non è nemmeno un caso che tutte le principali

rivoluzioni socialiste abbiano avuto luogo in Paesi dove la questione sociale posta dai partiti comunisti ha avuto successo unendosi ad un messaggio di salvezza della nazione, ossia ad un'ottica patriottica. Queste verità evidenti hanno cominciato ad incrinarsi a seguito della rottura dell’unità del movimento comunista internazionale, causata dal revisionismo introdotto da Chrustév, concretizzatosi nella rilevan-

te spaccatura tra URSS e Cina. Da allora la frammentazione è stata continua, giungendo in pochi decenni al diffuso abbandono delle categorie fondamentali della cultura e dell’analitica marxista-leninista.

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La sinistra ha perso coscienza del fatto che la democrazia liberale non sia altro che un'illusione di libertà e democrazia, riservata peraltro

solo a pochi Paesi occidentali e imperialisti. La gran parte del Terzo Mondo ha subìto il dominio indiretto, ma in qualche caso ben visibile

degli USA: gli interventi statunitensi in Cile e Vietnam sono solo i più famosi, ma l’azione della CIA e del Dipartimento di Stato ha fatto sì che sotto qualsiasi presidente statunitense, “democratico” o “repub-

blicano” che fosse, avessero luogo centinaia di destabilizzazioni segrete utili a mantenere un proprio dominio economico e politico indiretto. Una grande rimozione collettiva riguarda il farro che fino a

poco più di 50 anni fa la gran parte del mondo era sottomessa politicamente e militarmente dagli imperi coloniali, che vi avevano imposto un dominio diretto contro il quale hanno lottato movimenti

nazionalisti sostenuti dall’URSS e in molti casi egemonizzati dai comunisti. Nella lunga transizione verso la decolonizzazione si è però imposto un nuovo Impero, non impersonale come voleva Toni Negri, ma saldamente diretto e controllato dalla principale potenza imperialista uscita rafforzata dalla Seconda Guerra Mondiale: gli Stati Uniti d'America. Gli USA hanno di fatto continuato ad esercitare un

dominio politico ed economico sostanziale, seppur non formalizzato, sulla gran parte dell’Asia, dell’Africa e dell'Asia. In questo scontro di proporzioni mondiali con i “Paesi non allineati” e con il blocco socialista si è deciso il destino del mondo intero, in quella che è stata una

gigantesca lotta di classe come mai è avvenuto prima nella Storia. La

caduta dell'URSS e la capacità degli USA di mantenere un controllo ferreo grazie al proprio peso economico, politico e militare hanno sancito per un periodo più o meno lungo la prosecuzione dell’apogeo imperiale statunitense, motivo per cui per la gran parte del mondo l'indipendenza e l'autonomia sono ancora parole prive di contenuto, nel momento in cui dipendono ancora largamente dagli assetti neocoloniali imposti dalle multinazionali, dal FMI e dalla Banca

Mondiale, ossia dai principali strumenti con cui l'imperialismo (per lo più statunitense) riesce a mantenere un controllo sostanziale su Paesi ricchissimi di materie prime e di manodopera a bassissimo costo. Laddove non è bastato il controllo economico-finanziario è arrivata

la lunga mano della CIA, che godendo dalla sua nascita di un budget iniziale pari a circa il 5% dei fondi messi a disposizioni per il Piano Marshall, ha potuto garantirsi un budget via via crescente con cui ha saputo mantenere operativamente il controllo di questo impero 417

mondiale, pur perdendo saltuariamente qualche battaglia (Cuba, Indocina, Venezuela, ecc.).

Il caso di Cuba capace di realizzare ratterizzate in senso tese a riconquistare

è particolarmente esemplificativo di un popolo una delle tante rivoluzioni inizialmente non casocialista, bensì democratico e antimperialista, la sovranità nazionale contro un dittatore luogo-

tenente degli interessi statunitensi. Lo stesso Ernesto “Che” Guevara decise di darsi alla lotta armata per l'emancipazione dell'America Latina quando capì le modalità e la dimensione del controllo sta-

tunitense assistendo in prima persona al golpe messo in atto contro il Governo Arbenz in Guatemala nel 1954, uno dei primi esempi storici di quella che oggi chiamiamo “rivoluzione colorata”. La co-

struzione di sistemi socialisti, autonomi dal blocco imperialista, o il rafforzamento delle relazioni politiche, economiche e militari con il

blocco socialista (si pensi all'Egitto di Nasser e all'India di Nehru)

sono stare delle necessità storiche per qualunque Stato che volesse garantire la propria sovranità nazionale costruendosi prospettive di sviluppo economico e sociale.

Questa lunga premessa è indispensabile per capire anche il contesto italiano ed europeo. Durante la Guerra Fredda anche l'Europa Occidentale è stata, per obbligo o per scelta (con poche e circoscritte eccezioni), subalterna agli USA, accettando una sostanziale riduzione

della propria sovranità nazionale. Le classi dominanti delle borghesie europee, per impedire la presa del potere dei comunisti, hanno accettato il ritorno in grande stile dell’imperialismo, manifestatosi dagli anni ‘70 con l’avvento della globalizzazione neoliberista, la quale

ha concesso di iniziare un processo di espansione economica rivolta non

più solo ai consumi

interni, ma soprattutto al ripristino di un

rapporto di forza più favorevole ai Capitali privati nei confronti dei Capitali pubblici e del mondo del Lavoro. Ciò ha comportato l’estensione a dismisura del potere della finanza (tornato presto ai livelli precedenti la Prima Guerra Mondiale) e il ritorno in grande stile dei

monopoli, accompagnato da un'offensiva ideologica (una classica “rivoluzione passiva”) tesa a ridare prestigio alle dottrine economiche liberiste per cui un tale processo sarebbe andato a vantaggio di tutta

la società. Menzogne smentite da anni di dati che mostrano come le condizioni dei lavoratori siano peggiorate negli ultimi decenni in Occidente, mentre le disuguaglianze siano cresciute a livelli esorbitanti, tornando a numeri ottocenteschi. Ciò è sotto gli occhi di tutti. 418

Con la fine della Guerra Fredda l'imperialismo occidentale per qualche anno non ha avuto più argini, potendo permettersi il lusso di violare apertamente e pubblicamente la sovranità nazionale

di altri Stati, in spregio totale ad ogni elementare norma di diritto internazionale. Le guerre della Jugoslavia (1999) e dell'Iraq (2003), condotte senza neanche assicurarsi il mandato casi più manifesti dell’arroganza statunitense parsa del contrappeso sovietico. Le borghesie nel frattempo continuare ad arricchirsi ed

dell'ONU, sono solo i conseguente alla scomeuropee hanno potuto espandersi, mentre le

classi lavoratrici continuavano, nel loro complesso, a raccogliere solo

le briciole dei nuovi furti condotti su scala mondiale, peggiorando anzi spesso le loro condizioni di vita, nell’incapacità sistemica della

borghesia di garantire un equilibrio soddisfacente della distribuzione dei profitti ottenuti. La controffensiva del Capitale è stata radicale,

totale, sconvolgente e senza freni. Per distruggere le conquiste ottenute dai movimenti operai nel corso di decenni si è costruita una nuova sovrastruttura imperialista, UE (Unione Europea), ed in parallelo la BCE (Banca Centrale Europea), organismi che rimettono

in discussione il nesso tra liberalismo e democrazia faticosamente

raggiunto come soluzione di compromesso nel 1945 nell’ambito delle Costituzioni Antifasciste. Si può allora dire che oggi gli Stati europei abbiano piena sovranità nazionale? No, non si può dire. Vige in essi il predominio delle élite finanziarie, capaci di ricattare e far cadere Governi di Paesi anche

molto potenti. Il destino fallimentare e deludente della Grecia di Tsipras, totalmente incapace di mettere in discussione l’internità alle sovrastrutture imperialiste, era inevitabile stante l’arretrarezza ideolo-

gica di Syriza. La forza della finanza, che sfrutta ad esempio l’arma dei titoli di Stato, dei debiti pubblici e un potere non riscontrabile in altre

parti del mondo della BCE, è stata capace di far cadere anche Governi in Italia, commissariata de facto dalla Trojka con tanto di lettera arrivata da Bruxelles con le riforme da mettere in atto. Lo svuotamento del potere delle istituzioni democratiche rappresentative ha significato l’aggiramento dell'articolo 1 della Costituzione Repubblicana: la sovranità non appartiene al Popolo, ma alla Borghesia e al grande Capitale finanziario. In Italia non c'è da decenni sovranità nazionale:

violata durante gli anni della Repubblica dalla continua destabilizzazione statunitense, la democrazia italiana è stata svuotata di contenuto

con l’adesione al Trattato di Maastricht (1992), avvenuto solo un 419

anno dopo il crollo dell'URSS. In quello stesso anno in cui con la stagione di Tangentopoli si creavano le premesse per la resa dei conti anche verso quel gruppo dirigente che, pur aderendo alle politiche

imperialiste e alla NATO, aveva osato mostrare eccessiva autonomia di giudizio. Come si è riscontrato spesso nei Paesi neocoloniali del

“Terzo Mondo” controllati dagli USA durante gli anni della Guerra Fredda. Nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, ristrut-

turata con una legge elettorale maggioritaria antidemocratica, cadeva ad esempio anche Bettino Craxi che aveva sì distrutto la Scala Mobile introducendo il neoliberismo in Italia, ma che aveva osato sfidare

gli USA nella crisi di Sigonella, rivendicando una politica estera più autonoma nell’ambito del Mar Mediterraneo e del Medio Oriente. La sinistra, impastoiata in un revisionismo fondaro sulla “via ita-

liana al socialismo”, sulla critica dei “socialismi reali” e su una sostanziale visione “eurocomunista”, è arrivata a votare a favore dell'euro

e non ha saputo porre la questione del profondo nesso tra sovranità nazionale e popolare. Oggi non è possibile progettare il pur minimo

percorso progressista senza mettere in discussione l’appartenenza alle sovrastrutture imperialiste (UE e NATO) che limitano la sovra-

nità nazionale, ossia la possibilità di rimettere in campo soluzioni politiche alternative a quelle neoliberiste. Una parte della borghesia industriale italiana, appoggiata da larghi strati popolari in fase di proletarizzazione, parla strumentalmente di sovranità nazionale, ma la declina nel senso di un rinnovato imperialismo italiano, senza mettere in discussione l'appartenenza alla NATO e minimizzando le critiche all’UE, nella speranza forse di contrattare con la borghesia

tedesca un maggiore bilanciamento dei vantaggi nel nuovo assetto “europeo”. La soluzione proposta è vecchia 150 anni: razzismo, espansione internazionale, nazionalismo e mercificazione del lavoro. La soluzione che devono proporre i comunisti è totalmente diversa:

lotta aperta all’imperialismo, ostacolo primario alle rivendicazioni popolari di migliori condizioni di vita. Recupero della sovranità popolare da porre in dialettica connessione al recupero della sovranità nazionale. Uscita dall'Unione Europea, dall’euro e dalla NATO come passo indispensabile per dare avvio ad un programma progressivo che

ad un dato livello non può che coincidere, in un Paese a tecnologia e sviluppo avanzato come l’Italia, in una rivoluzione socialista che comporti l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e la messa sotto controllo popolare degli impianti produttivi. 420

Il fatto che un processo di questo tipo possa essere solo rivoluzionario lo spiegano la Storia e gli attuali rapporti di forza mondiali,

che vedono gli USA e le potenze imperialiste occidentali impegnati a cercare di contenere con ogni mezzo l'avanzata economica e politica dei BRICS. Per anni si è sostenuto che uscire dall'Unione Europea per l’Italia significherebbe rimanere senza partner commerciali, il che rappresenterebbe un grosso problema soprattutto sul fronte energetico. Questo è in effetti uno dei grandi problemi in cui sono incappati storicamente i Governi progressisti del “Terzo Mondo” che intendessero emanciparsi dall’imperialismo. L'Italia non è però un Paese del “Terzo Mondo”, e l'evoluzione verso un mondo sempre

più multipolare consente di superare questa obiezione, progettando se necessario una drastica rimodulazione degli accordi commerciali con altre aree del mondo in ascesa. Un fatto, anche questo, reso possibile dalla politica di cooperazione economica “win-win” perseguita dalla Cina. La Cina, guidata da un Partito Comunista che mantiene saldo un controllo politico e macro-economico (seppur nell'ottica di un “socialismo di mercato” inedito per la sua radicalità), sta consen-

tendo a svariati Paesi del “Terzo Mondo” di emanciparsi dall’arma

del ricatto economico usata per mezzo secolo dall’imperialismo occidentale. Solo con incoscienza si può definire la Cina un Paese imperialista al pari di quelli occidentali in cui il potere economico è saldamente nelle mani del grande Capitale finanziario e quello poli-

tico in quelle dei «comitati d'affari della borghesia». Ai lavoratori spetta il compito di capire questi processi e seguire una linea strategica coerente e di classe capace di rilanciare la lotta contro l'imperialismo anche in Italia. L'unica maniera possibile per farlo è ricostruire un'adeguata organizzazione comunista marxista-leninista

che si ponga l’obiettivo di ripartire dall'analisi critica dei limiti storici emersi dalla gramsciana “lotta di posizione” per la conquista del potere in Occidente. Qualsiasi altra via non “dialettica”, che preveda la riproposizione meccanicistica e sterile di dogmi o schemi revisionisti è con-

dannata al fallimento. Ci vorranno verosimilmente anni perché il movimento comunista italiano diventi conscio e faccia proprie rali consapevolezze, ricostruendo un'analitica improntata al recupero delle categorie dell’antimperialismo e di un marxismo-leninismo attualizzato e vivificato dalle lezioni storiche offerte dal ‘900 e dalla nuova fase mondiale. Che cosa si intenda concretamente con questa direttrice strategica lo si intenderà meglio nel successivo volume. 421

15. Il socialismo in una prospettiva storica

e i suoi problemi

Sulla base di quanto esposto finora qui e nell’opera Ir Difesa del Socialismo Reale andiamo a tracciare un bilancio riassuntivo e alcune considerazioni politiche sul socialismo reale, sul mondo

odierno e sul marxismo-leninismo. Alcune problematiche pressanti

nel contesto attuale rafforzano l'esigenza di recuperare il marxismo-leninismo, aggiornandolo sulle questioni che non potevano essere affrontate da Marx, Lenin e dai primi comunisti, essendosi configurate successivamente. Su quest’ultimo aspetto sarà necessario tornare in maniera più approfondita e ragionata nel successivo volume; concentriamo ora l’attenzione sulle conclusioni del per-

corso finora intrapreso. 15.1. I meriti storici del socialismo «Il primo effetto rilevantissimo della Rivoluzione è stato quello di

mostrare a tutti che il potere delle classi dominanti non è imbattibile, non è eterno c immutabile, ma può essere rovesciato; che nuove classi

possono assumere la direzione della socierà e dello Stato. Né questo è solo un dato ideologico, ma al contrario è un elemento molto concreto dell’esperienza sovietica, laddove il potere, la “cosa pubblica”, erano gestiti da intellettuali rivoluzionari, ma anche e in misura sempre crescente da operai e contadini, c da figli di operai e contadini, che diventavano funzionari, dirigenti di partito, amministratori, dirigenti di fabbrica, quadri dell'esercito; un'ondata straordinaria di mobilità sociale che ha coinvolto milioni di persone. Certo, con tutta la difficoltà di un “processo di apprendimento”, per dirla con Losurdo, di dimensioni storiche; con

tutti i deficit di egemonia immaginabili rispetto a quella che nel resto del mondo cra rimasta classe dominante con qualche secolo di esperienza

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in più. E tuttavia mostrando nei fatti che anche “la cuoca può dirigere lo Stato”». (Alexander Hòbel)'

Si afferma spesso che il socialismo e il comunismo abbiano fallito anzitutto a livello economico e rimangano al limite validi come meri paradigmi etico-valoriali. Crediamo di aver adeguatamente

smentito questo assunto, ma lasciamo la parola a Gianni Cadoppi? a riguardo, che nega questo vero e proprio “mito” e riassume altri

meriti storici del socialismo reale: «tre tra i maggiori successi nell'economia del Novecento si devono a Paesi socialisti: VURSS degli anni Trenta ma anche della guerra e della ricostruzione post bellica, la Jugoslavia degli anni Cinquanta e primi

anni Sessanta, la Cina dalla fine degli anni Settanta sino ad ora. Eppure è convinzione generale che il comunismo abbia lasciato solo un cumulo di macerie. L’unica economia capitalista il cui tasso di crescita (a lungo terminc) ha superato quello dell'URSS è stato il Giappone ma in presenza di un importante intervento statale, insomma con un po’ di “socialismo”. Nel primo dopoguerra in Gran Bretagna c'è una commissione governativa per la pianificazione economica, in molti Paesi si parla di programmazione, aziende private d’interesse pubblico vengono nazionalizzate, si ha l’espan-

sione del Welfare State (assolutamente contraria ai principi del liberalismo puro). In USA, negli anni Sessanta, dopo una certa quota le tasse arrivano al 99% dei guadagni. Sotto molti punti vista la concorrenza con l'Unione Sovietica porta paradossalmente al trionto del “socialismo” in Occidente. A seguito dell'istituzione del suffragio universale in Russia, nel 1917, il liberalismo (tradizionalmente antidemocratico c favorevole al suffragio ristretto in base al censo) passa più o meno rapidamente al diritto di voto per tutti, persino per le donne (in Italia nel 1946) e in America per gli

afroamericani (1967). Il XX secolo è l'epoca del trionfo del “socialismo”, lo dico in maniera paradossale, su scala mondiale invece che del capitalismo come vorrebbe la narrazione basata sull’ideologia neoliberista. In partico-

lare gli anni Novanta; come scrive James Kenneth Galbraith, il socialismo trionfa in Paesi come Cina, India (anche qui esistono piani quinquennali),

Vietnam ecc. mentre il neoliberismo semina solo desolazione e morte dove

viene applicato radicalmente (vedi Russia di Eltsin). Il capitalismo puro come abbiamo visto era fallito molto prima del “socialismo reale”».

!A. Hobel, L'Ottobre in una prospettiva storica, Marx21.it, 6 novembre 2012. 2G. Cadoppi, Un libro fondamentale per capire le dinamiche dell'economia mondiale, Marx21.it, 17 febbraio 2017. L'articolo è una recensione del libro FE M. Parenti & U. Rosati, Geofinanza e Geopolitica, Fgea, 2016.

424

Ricordiamo ciò a cui allude Cadoppi: il Capitale, lasciato a briglia sciolta, mostra tutto il peggio di sé: la tendenza è all’accumulazione dei capitali privati, alla loro concentrazione e alla formazione

di monopoli e oligopoli che costituiscono fonti di potere non solo economico, ma anche politico e militare, rali da diventare più poten-

te di interi Stati sviluppati. Da questo punto di vista il tentativo di estendere il più possibile il “libero mercato” porta al trionfo dell’imperialismo, e va visto anzi dialetricamente come una sua conseguen-

za. Il rutto avviene in evidente controtendenza con qualsiasi studio scientifico e razionale dell'economia, come notava già sbigottito Hobsbawm? nel 1994, parlando dell’assurdità della ripresa delle ricette economiche che avevano portato alla crisi economica del 1929: «la Grande crisi confermò negli intellettuali, in chi era impegnato nell'attività politica e nei comuni cittadini l'opinione che nella realtà sociale in cui vivevano ci fosse qualcosa di fondamentalmente sbagliato. Chi poteva conoscere il da farsi? Certo pochi tra coloro che detenevano l'autorità e nessuno tra quelli che cercavano di dirigere la rotta con gli strumenti e con le carte di navigazione tradizionali della fede liberista ottocentesca, sui quali ormai non si poteva fare più affidamento. Che fiducia si poteva dare a economisti che, per quanto brillanti, dimostravano con grande lucidità che la crisi nella quale essi stessi vivevano non sarebbe potuta accadere in una società condotta correrramente secondo le regole del libero mercato, poiché (secondo una legge economica designata col nome di un francese dci primi dell'Ottocento) non poteva esserci alcuna sovrapproduzione che ben presto non si autocorreggesse? Nel 1933 non cra facile credere, per esempio, che se la domanda c dunque il consumo crollano in una situazione di depressione economica, il tasso d'interesse cala anch'esso di quanto è necessario per stimolare gli investimenti, cosicché l’accresciuta domanda di investimenti colma esattamente il vuoto lasciato dalla più ridotta domanda di beni di consumo. Mentre la disoccupazione saliva alle stelle, non sembrava plausibile l’idea (alla quale

apparentemente si atteneva il Tesoro britannico) che i lavori pubblici non avrebbero affatto accresciuto l’occupazione, perché il denaro speso per

finanziarli sarebbe stato semplicemente sottratto dal settore dell’iniziativa privata, dove, se fosse rimasto, avrebbe potuto generare altrettanta nuova occupazione. Gli economisti che suggerivano soltanto di non intervenire in cconomia c i governi che, seguendo il loro primo istinto, restavano fedeli a una dottrina finanziaria tradizionale e, a prescindere dalla difesa del sistema aureo con politiche deflattive, si limitavano a tenere i bilanci in

? E. Hobsbawm, // secolo breve, cit., pp. 127-128.

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pareggio c a tagliare le spese non riuscivano evidentemente a migliorare la situazione. Così, perdurando la depressione, si cominciò a sostenere a

gran voce da personaggi come J. M. Keynes — che divenne perciò l’economista più influente dei quarant'anni successivi — che tali politiche tradizionali peggioravano la depressione. A chi come me è vissuto durante quegli anni riesce quasi impossibile capire come le dottrine rigidamente liberiste, allora ovviamente in discredito, possano essere tornate in voga

in un periodo di depressione quali quello degli ultimi anni ‘80 c degli anni ‘90, nel quale, di nuovo, esse hanno dimostrato la loro inadegua-

tezza teorica e pratica. ‘lutravia questo strano fenomeno dovrebbe farci venire alla mente un grande aspetto della storia che esso esemplifica: la incredibile brevità della memoria sia dei teorici sia degli operatori del’economia. Esso offre anche una chiara dimostrazione di come la società abbia bisogno degli storici, i quali assolvono il compito professionale di ricordare ai loro concittadini ciò che questi desiderano dimenticare». I secoli dell'età contemporanea (dal XIX a oggi) sono il periodo

dell’espansione del capitalismo maturo, per alcuni associato al pa-

radigma liberista, per noi a quello imperialista; sono caratterizzati da una crescita impetuosa, durante la quale il Capitale ha trovato

un freno al proprio potere solo nella diga costituita dall’Ottobre Rosso e dai regimi socialisti. La borghesia ha cercato di distruggere con ogni mezzo possibile questo argine alla propria espansione, scatenando contro i comunisti e i lavoratori il flagello totalitario del nazifascismo, dando luogo ad uno scontro che ha assunto la forma

di una crociata internazionale guidata dagli elementi più reazionari della società mondiale. Il nazifascismo però è stato sconfitto in primo luogo dall’URSS, che acquistando un immenso prestigio internazionale per i propri successi ha imposto indirettamente alle borghesie

di rutto il mondo la necessità di moderarsi, pena la propria sconfitta definitiva. Hobsbawm! sintetizza questo quadro così: «solo la temporanea e insolita alleanza del capitalismo liberale e del comunismo, che si coalizzarono per autodifesa contro la sfida del fascismo, salvò la democrazia; infatti la vitroria sulla Germania hitleriana fu ottenuta, e poteva soltanto essere ottenuta, dall’Armata Rossa [...]. Senza la vittoria sovietica, oggi il mondo occidentale (al di fuori degli USA)

sarebbe governato da una serie di regimi di stampo fascista c autoritario invece che da democrazie liberali e parlamentari. È un’ironia della storia

‘Ivi, pp. 19-20.

426

di questo strano secolo che il risultato più duraturo della Rivoluzione

d'Ottobre, il cui obiettivo era il rovesciamento del capitalismo su scala planetaria, sia stato quello di salvare i propri nemici, sia nella guerra, con la vittoria militare sulle armate hitleriane, sia nella pace, procurando al capitalismo dopo la Seconda Guerra Mondiale l'incentivo e la paura che lo portarono ad autoritormarsi: infatti, il capitalismo trasse dai princìpi dell'economia pianificata dei regimi socialisti, allora assai popolari, alcuni metodi per una riforma interna».

Hobsbawm sbaglia però a ritenere che sia stato questo il merito più grande dei regimi socialisti. Anche se resta indubbio che il dominio di un regime totalitario come quello nazifascista avrebbe rischia-

to di governarci tuttora, data la raffinatezza e la spietatezza dei propri metodi repressivi, esso non è stato altro che una forma tesa a combatrere con la maggiore violenza possibile la sfida lanciata dai comunisti nel riconoscimento della pari dignità a tutti gli uomini e le donne del mondo, sfidando paradigmi culturali e istituzioni sociali cristallizzatesi da millenni di storia umana. La schiavitù, formalmente eliminata

nel corso del XIX secolo, prosegue imperterrita nelle colonie, se non

nella forma, nella sostanza, in pieno XX secolo. Si potrebbe dire che prosegua tutt'oggi in molte parti del “Terzo Mondo?” e che anzi stia clamorosamente ritornando, seppur in forme nuove, come segnala nel suo ultimo libro Luciano Canfora’. Nel 2013 in Cambogia gli operai erano pagati circa 2 dollari al giorno per svolgere le proprie mansioni, cumulando così uno stipendio mensile medio di 60 dollari, a fronte di una spesa media di 135 dollari per garantire la sopravvivenza della propria famiglia operaia’. Siamo in questo caso ai limiti dei livelli di sussistenza, anzi ben al di sotto. La globalizzazione im-

perialista ha permesso di portare la “modernità” ottocentesca industriale nel “Terzo Mondo”, consentendo all'Occidente di perpetuare

una neo-schiavitù imposta con la forza dei propri Capitali. Eppure il passaggio dalla schiavitù formale allo sfruttamento capitalistico

dei salariati ha costituito un progresso storico, in quanto permette ai lavoratori di rivendicare maggiori diritti e una propria dignità, aspetti inesistenti anche solo concettualmente nell’epoca coloniale.

SI. Canfora, La schiavitù del Capitale, cit., pp. 63-72. èAC-Solidarité Internationale PCE /r Cambogia, migliaia di lavoratori in lotta per un salario che superi 2 euro al giorno, Resistenze.org, 1 ottobre 2014.

427

Il ruolo storico svolto dall’URSS e dai Paesi socialisti nella pro-

mozione dell’abolizione del razzismo, della schiavitù, della segregazione razziale e nel sostegno attivo (politico, militare ed economico)

alla decolonizzazione nel mondo è clamorosamente inedito a livello

storico. Nel giro di pochi decenni sono stati spazzati via imperi le cui fondamenta erano state gettate 500 anni prima. Il mondo e l'umanità sono passati da una tirannica guida bianca ed eurocentrica (il mondo fino alla Seconda Guerra Mondiale) ad uno scontro aperto tra due sistemi antitetici. In questo conflitto il sistema capitalistico non si è

dovuto moderare solo nei rapporti tra Capitale e Lavoro, accettando la categoria dei diritti sociali e dei diritti umani, nati formalmente con le costituzioni e le dichiarazioni antifasciste conseguenti al 1945. Il capitalismo ha dovuto almeno mascherare e occultare il proprio carattere imperialistico per almeno 30 anni (1945-1970s), durante i quali l'ideologia liberale si è apparentemente saldata ai concetti e ai valori della democrazia e dell’antifascismo, accettando di superare

le tradizionali restrizioni (di censo, di razza e di genere) imposte per stabilire l’inclusività della piena “cittadinanza”. Settori come l'istruzione, la sanità, i sussidi, le pensioni, i diritti lavorativi, sono

stati sviluppati a dismisura nei Paesi capitalisti su impulso della sfida lanciata dalle società socialiste. Il processo non è chiaramente avvenuto in maniera pacifica né indolore. Le centinaia di colpi di Stato e di desrabilizzazioni subìte dagli Stati decolonizzati di tutto il mondo sono lì a dimostrarlo. Se

già oggi il ruolo criminale degli USA è ben noto ai popoli di tutto il mondo che ne hanno subìto le angherie, non vi è a riguardo consapevolezza pubblica in Italia, né in senso maggioritario in Occidente. L'Impero statunitense formatosi nel 1945 è riuscito a mascherare la propria stessa esistenza per decenni, nella complicità di migliaia di intellettuali borghesi che hanno scelto la via del collaborazionismo,

piuttosto che quella della denuncia. Il controllo statunitense non ha però assunto le caratteristiche del totalitarismo nazifascista, anche

se le conseguenze umane e politiche sono state peggiori e assai più durature. Il regime in cui viviamo è oggi definibile come un totali-

tarismo in cui per ora il ricorso alla forza e alla costrizione è ridotto in Occidente al minimo, ma gli USA dispongono fin da ora di tutti gli serumenti necessari per tentare di mantenere il proprio controllo politico, d'accordo con ampi settori delle borghesie nazionali di tutto il mondo, ancora a lungo. Ricordiamo le denunce fatte da Edward 428

Snowden sulla capacità statunitense di poter controllare qualsiasi strumento telematico e informatico del mondo. La visione di Orwell si è realizzata e descrive perfettamente la realtà dell'Impero capitalista. L'imperialismo però può essere sconfitto, indifferentemente

dai mezzi repressivi che è capace di mettere in campo. La forza dei popoli, adeguatamente organizzati e disciplinati, è rale da poter

sconfiggere qualsiasi avversità. Il dado è quindi tratto ed è irreversibile: oggi il mondo, per la prima volta dopo svariati secoli, torna ad essere multipolare. Lo era anche nel 1914, è vero, ma in un contesto

in cui la competizione era ridotta ad una manciata di Paesi occiden-

tali e “bianchi”, accomunati dalla volontà di prevaricare il resto del mondo. Oggi si ha una frammentazione in cui un Paese imperialista

principale, l’ultima superpotenza mondiale, cioè gli USA, che cerca di mantenere artificialmente in vita il proprio impero sempre più in declino, coesiste con un blocco imperialista in ripresa dopo un

declino pluridecennale (l'insieme dei principali Paesi capitalisti europei, più in generale le ex-potenze imperialiste di fine ‘800) e con un insieme di Paesi in via di sviluppo (i BRICS) guidati dalla Cina, che si propone come nuovo cardine dell’ordine mondiale, con l’obiettivo

dichiarato di garantire a tutti i Paesi del mondo la possibilità di uno sviluppo graduale e pacifico che consenta di uscire dai classici vincoli imposti dai Paesi imperialisti. Torneremo più avanti ulteriormente su questi punti. Per ora preme insistere sul fatto che il ruolo storico dell'URSS e dei comunisti sia stato di aver creato i presupposti di questa situazione, impensabile senza la riuscita della decolonizzazione.

L'URSS ha anche il merito storico di aver garantito il miglior

livello di vita mai registrato prima dalle classi popolari non solo in Russia, ma in tutto il mondo. La borghesia dovette condividere le briciole dell’immensa ricchezza accumulata grazie alle politiche imperialiste, con le quali ha continuato a mantenere sotto un dominio sostanziale, quando non formale, il “Terzo Mondo”, grazie all’espan-

sione della finanza, grazie al controllo della tecnologia più avanzata e grazie all'accumulazione di Capitali sostenuta per secoli. Moderazione e calcolo politico sono però venuti meno in Occidente di fronte

al rallentamento di una ricostruzione economica che aveva potuto sfruttare gli enormi investimenti esteri statunitensi derivanti dal Piano Marshall. La caduta tendenziale del saggio di profitto intercorsa in maniera sempre più grave nel corso degli anni ‘70 ha convissuto con la crescita di prestigio in tutto il mondo

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dell’URSS, ottenuto

proprio grazie all'impegno inrernazionalista a sostegno della decolonizzazione. È in questa fase storica, in cui in Europa occidentale i comunisti minacciano di ridurre ulteriormente i margini di profitto

del Capitale, che si fa largo la controffensiva del Capitale su scala economica, con la deregolamentazione finanziaria e l’intensificazione

della globalizzazione imperialista, risposta alla lotta di classe operaia in Occidente e alla lotta di classe anticoloniale nel “Terzo Mondo”. Le multinazionali tornano a svolgere quel ruolo neocoloniale che nei secoli precedenti era stato assunto dalle “Compagnie delle Indie”, aziende private che svolgevano di fatto un'azione di penetra-

zione economica e politica d'intesa con i sovrani europei. La globalizzazione neoliberista scatenata dal ritorno in grande stile dell’imperialismo aperto e non più “celato” si è accompagnata sul piano delle relazioni internazionali ad un'offensiva politica, culturale e militare contro quello che negli anni ‘80 è stato definito da Reagan «l'impero del male», VURSS, ponendo fine alla “distensione internazionale” a cui si era arrivati negli anni di BrèZnev. In questa situazione, foriera

di nuove contraddizioni esplosive su scala mondiale, il blocco socialista ha pagato le contraddizioni accumulatesi nei decenni prece-

denti, a partire dall’avvento di Chruscév in poi. La disgregazione del blocco sovietico ha tolto al “Terzo Mondo” un alleato prezioso per fronteggiare la sempre maggiore penetrazione delle multinazionali e ha lasciato campo libero alle borghesie dell'Europa occidentale per attaccare buona parte delle conquiste operaie degli anni precedenti, sfruttando la nuova sovrastruttura dell’Unione Europea come gri-

maldello per giustificare rapporti di produzione sempre più sbilanciati a favore del Capitale. L'URSS è venuta meno proprio quando il Capitale era pronto ad un nuovo “scontro finale” in cui avrebbe chiuso la lotta per la supremazia con il campo socialista. La battaglia

è stata vinta dall’imperialismo e il risultato è stato in Occidente l’era del “pensiero unico”. Non si può però cancellare la Storia: come la fenice anche l'umanità risorge dalla polvere. Dopo la Rivoluzione Francese (1789) si assistette al tentativo

di “Restaurazione” dell’“Ancien Régime”; dopo la grande rivolta europea del 1848 si è assistito a governi autoritari che hanno sancito il

trionfo della borghesia industriale e finanziaria; dopo la Comune di Parigi (1871), con la nascita delle prime organizzazioni socialiste, si

è assistito alla repressione di ogni forma di movimento operaio orga-

nizzato, dando sfogo alle pulsioni militariste, razziste e nazionaliste; 430

Dopo la Rivoluzione d'Ottobre (1917) si è assistito alla guerra civile e alla nascita dei fascismi e del nazismo prima, alla minaccia nucleare e alla Guerra Fredda poi; dal 1991 si sta assistendo all’ennesimo

rentativo di riportare indietro le lancette del tempo. Nuove rivolte e rivoluzioni ispirate dalle esperienze socialiste sorgeranno per distruggere l'ordine della sopraffazione e delle iniquità. È il capitalismo stesso a partorire i suoi becchini. 15.2. La guerra della fame nel mondo

Capire che oggi il capitalismo si configuri sotto forma di imperialismo è un dato necessario ed ineludibile. Abbiamo già descritto, per ora brevemente, i termini dell’attualità del paradigma leninista dell’imperialismo, con quel che ciò comporta in termini di espansione incontrollata della finanza. Aggiungiamo alcuni dati e ragionamenti ulteriori, al fine di mostrare l’urgenza sociale del tema. Nel 2016 è emerso come «le cinquanta più grandi compagnie Usa, Apple in testa ma anche General Eletric, Goldman Sachs, Microsoft e Pfizer,

hanno messo al riparo in conti offshore tra il 2008 e il 2014 oltre 1000 miliardi di dollari e hanno usato più di 1600 filiali in paradisi fiscali per evitare di pagare miliardi di dollari di tasse ogni anno». Siamo

arrivati al livello clamoroso per cui «otto super-miliardari detengono da soli la stessa ricchezza netta (426 miliardi di dollari) di metà della popolazione più povera del mondo, vale a dire 3,6 miliardi di persono®.

Nel 2014 ciò comportava che nel mondo il rapporto del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo segnalasse come in 91 Paesi

oltre 1,4 miliardi di persone fossero indigenti, mentre altre 800 milioni fossero quasi ridotte alla fame?. Nel momento in cui si scrive la fame nel mondo è tornata a crescere rispetto agli anni precedenti

e colpisce circa 815 milioni di persone, l'11% della popolazione

71. Ferrari, /n paradisi fiscali mille miliardi di dollari: bufera su 50 compagnie Usa, Secolo d'Italia (web), 14 aprile 2016.

"E. Fatigante, Rapporto Oxfam. Nel mondo 8 super ricchi possiedono beni quanto 3,6 miliardi di persone, Avvenire (web), 16 gennaio 2017. °D. Zappalà, Rapporto. Nel mondo ci sono 2,2 miliardi di poveri, Avvenire (web), 26 luglio 2014.

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mondiale. Questi i dati diffusi dal rapporto Ze State of Food Security and Nutrition in the World 2017 a cura delle agenzie dell'ONU. Nel dettaglio, si contano 520 milioni “affamati” in Asia, 243 milioni in Africa, 42 milioni in America latina e nei Caraibi". Il che si traduce

in 24 mila morti ogni giorno per fame: 9 milioni all’anno!!. Il fenomeno colpisce in modo particolarmente violento i bambini: «La

malnutrizione cronica colpisce ogni anno 159 milioni di bambini nel mondo. Nel 2030, senza inversioni di rotta a livello globale, continuerà a colpirne 129 milioni. Ogni anno ne fa morire 3 milioni e centomila.

È quanto emerge dal nuovo rapporto di Save the Children»'?. Sono 8 mila i bambini con meno di 5 anni che muoiono ogni giorno nel silenzio assordante dei media!?. Parlare di una carneficina quotidiana è riduttivo. Se si considera che la Seconda Guerra Mondiale sia durata 6 anni e abbia fatto circa 50 milioni di morti si può constatare come ogni anno il flagello della fame ne uccida un numero proporzionalmente maggiore. È come se la guerra mondiale non fosse mai finita. Tutto ciò non fa particolarmente scandalo, né se ne coglie il nesso con il sistema economico. Eppure sappiamo che «il mondo produce

cibo a sufficienza per sfamare l'intera popolazione mondiale - 7 miliardi di persone», come spiega il Programma Alimentare Mondiale (WFP World Food Programme)'4, la più grande organizzazione umanitaria

al mondo e l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare per combattere la fame. Che aggiunge: «Un terzo di tutto il cibo prodotto (1,3 miliardi di ronnellate) non viene mai consumato. Lo spreco alimentare rappresenta un'opportunità

mancata per migliorare la sicurezza alimentare globale in un mondo dove una persona su nove soffre la fame. Produrre questo cibo richiede

'0 Redazione Avvenire, Onu. Fame nel mondo in aumento, dopo dieci anni. Conflitti e clima le cause, Avvenire (web), 15 settembre 2017.

" Autore Ignoto, Oggi 24 mila morti. Domani pure. Dopodomani anche, Il Manifesto (web), 29 agosto 2015.

'?G. Nozzoli, La fame non è stata sconfitta: “159 milioni di bambini nel mondo sono malnutriti”, L'Espresso (web), 11 luglio 2016.

13. Paci, Ogni giorno nel mondo 8 mila bambini muoiono di fame (prima dei 5 anni), La Stampa (web), 12 ottobre 2017. 4 Programma Alimentare Mondiale (WEP - World Food Programme), Le

cause della fame, Nfp.org.

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l'utilizzo di risorse naturali preziose di cui abbiamo bisogno per nutrire il pianeta. Ogni anno, il cibo prodotto ma non consumato assorbe un volume d’acqua equivalente al flusso del fiume Volga, in Russia. Produrre

cibo, inoltre, incrementa l’emissione di gas serra nell'atmosfera di 3,3 miliardi di tonnellate, con conseguenze per il clima e, in ultima analisi, per la produzione alimentare».

Si può constatare come il settore industriale dell’alimentazione,

che tocca molto concretamente la vita quotidiana della popolazione mondiale, sia sostanzialmente diventato un enorme oligopolio. Basti

a riguardo riportare il sottotitolo di un articolo di La Repubblica": «Sono dieci i signori che controllano da soli più del 70 per cento dei piatti del pianeta. Queste multinazionali gestiscono 500 marchi che entrano nelle nostre case quotidianamente. Così pasta, biscotti e catfè diventano globali, anche in Italia. E lc grandi questioni, come l’uso di oli e grassi nei prodotti, vengono decise a tavolino».

Qualche anno fa Luciano Gallino pubblicava un libro!° in cui denunciava questi aspetti criminali e spiegava quali fossero i tre motivi per cui non si procedesse ad eliminare la fame nel mondo: «il reddito del mondo supera ormai i 65 trilioni di dollari (65.000

miliardi). Il rapporto 2003 sullo Sviluppo umano dell'ONU stimava che per sradicare la povertà estrema e la fame ci sarebbero voluti 76 miliardi di dollari l’anno. Si può supporre che ai nostri giorni l'importo sia salito, a dire molto, a 100 miliardi. Ora, c'è da chiedersi che razza di mondo sia quello che produce valore per 65.000 miliardi di dollari l’anno e non ne trova un centinaio — pari a un seicentocinquantesimo del totale — per sconfiggere la povertà estrema c la fame [...]. Anche questo si deve a una politica dei governi attenta a non disturbare coloro che hanno un reddito elevato: in qualche misura, infatti, se si decide di versare qualche miliardo per combattere la povertà e la fame, 0 esso viene ulteriormente tolto ai sistemi di protezione sociale che già si trovano sotto il tiro micidiale delle politiche di austerità, oppure deve essere richiesto sotto forma di

imposizione fiscale alle classi più ricche. In un Paese come l’Italia ciò cquivarrebbe a qualche centinaio di euro all'anno per redditi al di sopra

dei 200.000 euro circa. Un prelievo di certo non punitivo per nessuno,

!* P. Griseri, /ndustria alimentare, ecco chi sono i padroni del cibo, La Repubblica (web), 19 dicembre 2014.

'*L. Gallino, La otra di classe dopo la lotta di classe, cit., pp. 33-34.

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che però appare impossibile da realizzare. Per tre motivi: perchè è una

meta a cui non viene attribuito alcun peso; perchè coloro che denunciano un reddito del genere sono una frazione minima di quelli che lo percepiscono davvero; e non da ultimo perchè i rappresentanti degli interessi della classe dominante sono la maggioranza in parlamento».

Queste sono cifre che inchiodano il sistema capitalistico, giunto al suo stadio imperialista ormai apparentemente indisturbato.

Questa è la globalizzazione, trionfo del regno della finanza e apice della lotta di classe padronale, che esercita una violenza quotidiana invisibile per il mondo occidentale. In questo contesto, di fronte ai

risultati dell’anarchia del libero mercato, dobbiamo pensare che in passato ci sia stato chi abbia «creduto di trovare nella pianificazione economica il principio del totalitarismo». In particolare si può ricordare come nel libro intitolato Road to Serfdom, Friedrich von Hayek,

tra i principali teorici del neoliberismo, abbia rifiutato nettamente ogni forma di pianificazione, la quale equivarrebbe «necessariamente all’instaurazione di un potere totale»!", alla tirannia o ad un’'imposta-

zione antidemocratica. Il risultato della vittoria di questa ideologia è agli occhi di tutti.

15.3. L'evoluzione storica delle disuguaglianze (contro Piketty) Nel 2013 l'economista francese Thomas Piketty ha pubblicato Il Capitale nel XXI secolo'*, giudicato dal New York Times «il libro più importante dell'anno, e forse del decennio. Un'opera superba, che cambierà il modo in cui pensiamo la società». Non sembra per ora che ciò sia avvenuto, per il semplice fatto che i libri da soli non cambiano le cose, se non accompagnati da un adeguato livello di organizzazione politica. Se anche ciò fosse avvenuto, l’opera di Piketty, ricchissima

di dati, ha il difetto di non tenere in debito conto il peso delle condizioni politiche, astraendo gli aspetti economici dal contesto e identificando alcune leggi come “naturali” e non come determinazioni del modo di produzione e dei rapporti di produzione. Siamo di fronte insomma ad una classica opera economicista di stampo “idealista”,

! C. Polin, // totalitarismo, cit., p. 28.

!T. Piketty, // Capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano, 2014.

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che affronta la storia degli ultimi secoli scomponendola per nazioni o aree continentali, evitando invece di analizzare indici e statistiche suddivisi per sistema economico. L'autore d’altronde confessa apertamente la propria appartenenza ideologica borghese: «sono vaccinato a vita contro i discorsi anticapitalistici convenzionali e triti [...]. Non

minteressa denunciare le disuguaglianze o il capitalismo in quanto tali, tanto più che le disuguaglianze sociali non costituiscono un problema

in sé, purché siano giustificate»'?. Ciononostante Piketty è costretto a riconoscere alcuni aspetti che spiegano l'impatto del socialismo reale sul mondo. Si parte dal seguente presupposto: «nessuna diminuzione strutturale delle disuguaglianze si produce prima della prima guerra mondiale. "1ra il 1870 e il 1914 si assiste semmai a una stabilizzazione delle disuguaglianze, e a un livello alquanto elevato; anzi, per certi versi, a una perpetuazione della spirale senza fine

della disuguaglianza con, in particolare, una concentrazione sempre più massiccia dei patrimoni»?!.

Che cosa succede poi? Esplodono quelli che l'Autore chiama i «traumi» del «primo XX secolo» (1914-45): «prima guerra mondiale, Rivoluzione Bolscevica del 1917, crisi del 1929, seconda guerra mondiale, nuove politiche di regolamentazione,

tassazione e controllo pubblico del capitale a seguito dei rivolgimenti citati hanno registrato come conseguenza, negli anni Cinquanta c Sessanta del Novecento, un calo dei livelli storici raggiunti dal capitale privato. Il processo di ricostituzione dei patrimoni si rimette tuttavia in moto molto in fretta, per poi accelerare con la rivoluzione conservatrice anglosassone

del 1979-80, il crollo del blocco sovietico del 1989-90, la globalizzazione finanziaria e la deregulation del decennio 1990-2000, eventi che segnano una svolta politica di segno contrario rispetto alla svolta precedente, e che permettono ai capitali privati di toccare dal 2010 in poi, nonostante

la crisi del 2007-8, soglie di prosperità patrimoniale mai più raggiunte dopo il 1913»"!. Abbastanza eloquente la constatazione che la riduzione delle

disuguaglianze e il peso dei capitali privati sia stara duramente attac-

"Ivi, p. 57.

2° Ivi, pp. 21-22. ?tIvi, pp. 71-72.

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cata su scala globale proprio a seguito dell’Otrobre Rosso. Andiamo avanti nella disanima: «il peso economico dell'Europa ha raggiunto lo zenit alla vigilia della prima guerra mondiale (circa il 50% del PIL mondiale), per poi declinare costantemente nelle epoche successive, men-

tre quello dell'America ha raggiunto il vertice negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento (circa il 40% del PIL mondiale)»??. Sono esattamente i periodi di maggiore potenza dei rispettivi imperi coloniali

o neocoloniali. Tutto ciò però non viene colto da Piketty, che astrae la questione. Si constata solo che «l'Africa subsahariana, con 900 milioni di abitanti e un PIL di soli 1800 miliardi di euro (meno del PIL francese: 2000 miliardi), è la zona economica più povera del mondo, con 2000 euro di PIL pro capite». Nessuna analisi sulle ragioni storiche e politiche di questo sottosviluppo, ‘dovuto a secoli di sisternatico saccheggio che prosegue tuttora. Eppure l’autore ha tutti i dati che gli servono per giungere a questa soluzione: «l’unica soluzione di squilibrio continentale davvero rilevante riguarda l'Africa, la quale è, strutturalmente, proprietà degli altri continenti. In concreto, secondo le bilance dei pagamenti a livello mondiale

stabilite ogni anno, dal 1970 in poi, dalle Nazioni Unite e dagli altri organismi internazionali (Banca mondiale, FMI), il reddito nazionale di

cui dispongono gli abitanti del continente africano è sistematicamente inferiore di circa il 5% alla loro produzione interna (il divario, in certi

paesi, supera il 10%)».

Ciò si traduce nel fatto che «circa il 20% del capitale africano è

oggi nelle mani di proprietari stranieri». In nota a pié di pagina Pikerry segnala anche che «il dato medio del 5% per il continente africano appare relativamente stabile sull'insieme del periodo 1970-2012. È interessante notare che il flusso d'uscita dei redditi da capitale è circa tre volte superiore al flusso d'entrata degli aiuti internazionali»*!. Questi sono gli aridi numeri del saccheggio imperialista, attuato dalle multinazionali che operano grazie a governi compiacenti stabiliti con la

forza delle armi o con il ricatto dalle principali potenze imperialiste. Ciò è avvenuto nonostante la dura lotta portata avanti nella regione

22 Ivi, pp. 102-103.

23 Ivi, p. 105. Ivi, p. 112. 436

da Cuba e dall’URSS, che hanno profluso enormi somme finanziarie

per sostenere l'emancipazione africana. L'obiettivo dell'imperialismo

nei riguardi del continente si può prevedere che sia allora il ritorno alla situazione del 1913, quando le potenze europee possedevano «tra un terzo e la metà del capitale nazionale asiatico e africano, e più di tre quarti del capitale industriale»®. Tra le falsità enunciate da Piketty c'è anche questa seguente affermazione: «nessuno dei Paesi asiatici che hanno in qualche misura agganciato i Paesi più sviluppati, icri il Giappone o la Corea o Taiwan, oggi la Cina, ha beneficiato di massicci investimenti stranieri. In sostanza questi Paesi si sono finanziati da soli {...]. Al contrario, i Paesi posseduti da altri,

come nel caso dell’epoca coloniale o dell’Africa di oggi, sono stati più penalizzati, in particolare da competenze ben poco sviluppate c da un'in-

stabilità politica cronica»?”. Nella prima parte di questo discorso si omette di ricordare il supporto finanziario statunitense a Giappone, Corea e Taiwan in

funzione anticomunista, ma anche l'apertura fatta dalla Cina al mercato proprio al fine di attirare sempre più ampi capitali esteri,

necessari per lo sviluppo delle forze produttive. Nella seconda parte, sull’Africa, si omette semplicemente il ruolo destabilizzatore giocato dall’imperialismo. Il che non deve sorprendere troppo.

Non si pretende qui di svolgere una critica completa dell’impostazione data da Piketty. Quanto riportato dimostra inequivoca-

bilmente il ruolo svolto dal socialismo reale nel corso del ‘900 per diminuire le disuguaglianze su scala mondiale e favorire un processo

di sviluppo che potesse portare ad eliminare il flagello della fame. Un processo ostacolato da quelle stesse potenze imperialiste che oggi discutono sull’impossibilità di accogliere migranti e si domandano

ipocritamente cosa fare per risolvere il “problema” e fermare “l’invasione”. Fortunatamente il ruolo progressivo svolto dai Paesi socialisti nella riduzione delle diseguaglianze su scala globale prosegue tuttora grazie alla Cina, che con il proprio sviluppo riesce a far tendere verso il rialzo il peso economico dell'Asia nel suo complesso, come constata-

Ivi, p. 113.

2 Ivi, p.115.

437

to da un'ottimista Pikerry che deduce da questo aspetto una naturale tendenza alla riduzione delle disuguaglianze su scala mondiale. Quel

che per Piketty è merito della globalizzazione imperialista è in realtà merito della pianificazione guidata dal Partito Comunista Cinese. 15.4. La possibile soluzione della globalizzazione cinese «Marx è la guida della rivoluzione del proletariato e dei lavoratori di tutto il mondo, il principale ideatore del marxismo, il fondatore dei partiti politici ad esso ispirati, pioniere del comunismo internazionale, e il maggiore pensatore dei tempi moderni. Il marxismo ha promosso notevolmente il processo di sviluppo della civiltà umana, ed è un sistema ideologico e dialettico in grado di esercitare un'influenza a livello internazionale fino ad oggi [...]. La storia e il popolo hanno scelto il marxismo e questo è totalmente corretto. È completamente corretto che il Partito comunista cinese scriva il marxismo sulla propria bandiera. È completamente corretto combinare il marxismo con la situazione reale della Cina e continuare a promuovere la sinizzazione e la modernizzazione del marxismo stesso. Il marxismo dirige la Cina sulla strada della costruzione di un Pacse socialista moderno c potente, e i membri del PCC si stanno

impegnando a persistere sulla via da esso tracciata e a svilupparlo [...]. In questa nuova cpoca, i membri del PCC sono ancora chiamati a studiare e a mettere in pratica il marxismo, a continuare a trarre vantaggio dalla sua intelligenza scientifica c forza teorica, a persistere e a sviluppare il socialismo con caratteristiche cinesi nella nuova epoca, e impegnarsi a realizzare

sulla terra cinese il futuro radioso della società umana immaginato da Marx ed Engels». (Xi Jinping, Segretario Generale del CC del Partito Comunista Cinese, dalla lezione sul marxismo tenuta il 4 maggio 2018 a Beijing, in occasione del bicentenario della nascita di Karl Marx)”.

Occorre a questo punto riflettere sui problemi emersi in ogni Paese post-coloniale che sia riuscito a svincolarsi anche solo tempora-

neamente dall’imperialismo e abbia tentato di attuare politiche progressiste e di sviluppo di lungo termine. Principalmente la constatazione della carenza di tecnologia (il “£kz0w how”) e la necessità di svi-

luppare le forze produttive. Ogni Paese post-coloniale non controlla-

” Redazione China Radio International, Beijing, riunione commemorativa del 200esimo anniversario della nascita di Marx, discorso importante di Xi finping, Cri. cn, 4 maggio 2018.

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to dall’imperialismo è partito da una situazione simile a quella della Russia bolscevica: continui tentativi di destabilizzazione interna, scarso sviluppo delle forze produttive industriali, livelli di analfabeti-

smo diffusi, assenza di settori avanzati di popolazione dediti all’istruzione superiore e alla ricerca tecnologica, prevalenza di un'economia

agricola assai arretrata fondata sui latifondi, assenza totale o parziale di capitali, mancanza di relazioni internazionali e rapporti diplomatici proficui, ecc. In una situazione simile i tre principali Paesi-guida del socialismo nei relativi continenti (URSS, Cina, Cuba) hanno

scontato tutti quanti la misura “punitiva” dell'embargo economico,

ossia il rifiuto della borghesia imperialista di fornire capitali esteri per lo sviluppo delle economie di Paesi in cui il potere politico ed economico fosse sostanzialmente nelle mani del Partito Comunista. Sappiamo come l’URSS sia uscita da questa situazione: con la pianificazione centralizzata, l’industrializzazione forzata e la collet-

tivizzazione delle campagne. Ciò è stato reso possibile anche dalla dimensione del Paese, che poteva disporre ampiamente di materie

prime e di manodopera, oltre alla contingenza storica. Il che si è tradotto in un complessivo successo, pagato però con una serie di

squilibri dai costi umani molto elevati. La Cina ha potuto godere per un certo periodo del supporto sovietico, ma nel momento in cui si ruppero i rapporti, l'esigenza di acquisire recnologie e capitali ha spinto il PCC a venire a patti con il diavolo statunitense, facendo leva sulle contraddizioni dello scenario internazionale. La piccola Cuba

ha potuto godere per 40 anni del supporto economico dell'URSS, realizzatosi nei termini di una cooperazione internazionalista, scontando un periodo di dura crisi (il periodo “especia/”) negli anni ‘90, salvandosi poi grazie all'evoluzione della situazione internazionale,

che ha permesso di stringere nuove relazioni commerciali con l’affermazione del mondo multipolare (si pensi ai rapporti commerciali

con Cina, Russia, ALBA, ecc.). La Corea del Nord, che pure oggi può godere di un'economia relativamente autarchica, ha goduto per decenni del supporto economico sovietico e cinese, mette tuttora

a disposizione la Zona Economica Speciale di Rason, una regione dalla legislazione economica speciale, creata sul modello cinese con il compito di attrarre gli investimenti dei forti confinanti. I Paesi emancipatisi dall’imperialismo hanno trovato come sponda economica e commerciale la cooperazione offerta dai Paesi del blocco socialista, riuniti per molti anni attorno al COMECON.

439

Per la gran parte degli Stati dell'America Latina, dell’Africa e dell’Asia però questa possibilità è stata totalmente preclusa nel periodo della Guerra Fredda. Abbiamo visto bene come mantenere anche solo relazioni diplomatiche con un Paese socialista significasse finire nel

mirino di Washington. Ciò ha fatto sì che per molti governi progressisti, o semplicemente sinceramente “nazionali”, sia stato impossibile emanciparsi dall’imperialismo, dovendo scegliere se avviare relazioni

diplomatiche e commerciali con il blocco socialista, e affrontare la destabilizzazione interna e la minaccia esterna, oppure accettare di corrompere

il proprio programma

per mantenere uno status quo

che garantisse il “libero mercato”, che ha significato nel concreto la prosecuzione dello sfruttamento indiscriminato delle multinazionali e un progresso economico insignificante in termini di sviluppo delle forze produttive. Così si è svolta gran parte del ‘900. Il nuovo secolo

ha inaugurato però una svolta di portata storica. La fine della Guerra Fredda e l'apparente integrazione della Cina nel sistema economico mondiale ha aperto nuovi scenari per i Paesi del “Terzo Mondo”. Ridiamo la parola a Cadoppi?*: «La globalizzazione finanziaria è stata diretta dagli USA a loro

beneficio e al limite dei loro alleati. La competizione con questo ordine proviene dai BRICS ma soprattutto dalla Cina che è la più coerente nel portare una sfida a tutto campo. L'affermarsi della finanziarizzazione è andata di pari passo con il successo dell'ideologia neoliberale, più radicale del liberalismo classico nel rivendicare la non ingerenza statale (a parole). Spesso però succede che gli investitori “liberali” spremano in realtà lo stato per i loro investimenti. Scrive Parenti che: “Lo stesso paradigma poli-

tico-economico di riferimento in Occidente — il neoliberalismo — continua a godere di buona salute come scelta dominante nei centri di potere malgrado abbia mostrato da tempo tutta la sua fallacia. Diversamente, le potenze emergenti presentano modelli di sviluppo almeno in parte alternativi, anche perché conservano maggiori controlli sui flussi di capitale e promuovono una finanza per lo sviluppo volta a investimenti di lungo termine”. Con Breton Woods nel 1944 e il superamento del Gold Standard si pongono le basi del Washington Consensus. La nuova parità tra il dollaro e loro impone la valuta americana come moneta di riferimento mondiale. Gli americani finanziano il Piano Marshall, la guerra di Corea, la “colonizzazione” economica del Giappone, imponendo il loro dominio sul “mondo libero”,

2 G. Cadoppi, Un libro fondamentale per capire le dinamiche dell'economia mondiale, cit.

440

come lo definiva la retorica della Guerra Fredda. Con la World Bank fanno prestiti a Pacsi in via di sviluppo, con il Fondo Monetario Internazionale mantengono la stabilità monetaria c il controllo delle bilance dei pagamenti. Che cosa poteva fare la povera Unione Sovietica contro questa Invincibile Armata più potente delle legioni naziste che l'avevano invasa? Diciamo che la Cina a questo punto ha capito tutto. Socialismo di mercato significa anche inserirsi positivamente nel mercato mondiale acquistando influenza con nuove rotte commerciali come la One Belt, One Road (la Via della Seta), le nuove banche d’investimento (Banca

Asiatica d’Investimento per le infrastrutture, Banca Brics) per finanziare l'economia reale e la costruzione d’infrastrutmare. A questo punto diventa indispensabile trasformare lo yuan in moneta internazionale di riserva. L'entrata stessa della Cina nel WB, FMI e WTO, non a caso contrastata dagli USA, non solo non ha portato al crollo della Cina (come paventava

ai rempi il Manifesto) ma oggi molti americani (a cominciare da Trump) vedono in questi fatti l’inizio del remuto tramonto dell’egemonia yankee. Come ha detto Jack Ma, patron di Alibaba: “Dove sozo finiti i soldi degli

americani? 4,2 triliardi sono andati a finanziare 13 querre all'estero. 19,2 triliardi sono stati bruciati da Wall Street nella crisi del 2008, cosa sarebbe successo se voi li aveste investiti in industria, educazione, infrastrutture? Il

Bcijing Consensus è alle porte: meno finanziarizzazione (ma bisognerà eccellere anche in questo campo), meno guerre calde, fredde o riscaldate c più cconomia reale!».

Viviamo dentro un evento storico: per la prima volta dopo secoli il centro economico mondiale sta per essere conquistato da un

Paese non “occidentale”, non “bianco”, ma ex-coloniale e guidato da un Partito Comunista. In altre parole la Repubblica Popolare Cinese, accettando di scendere sul terreno imposto dalla stessa borghesia, sta assumendo la guida della globalizzazione mondiale,

provocando la progressiva perdita di potere imperialista delle po-

tenze occidentali. Per la prima volta nella Storia un Paese guidato da un Partito Comunista dispone di prodotti tecnologicamente più avanzati in alcuni settori strategici dell’industria leggera. Si pensi al

successo internazionale ottenuto dal cellulare cinese “/uzwei”. Per la prima volta nella Storia Paesi dell'America Latina, dell’Africa e dell'Asia possono disporre di un partner commerciale che propone un modello “win-2ir”, strutturato cioè su relazioni paritarie in cui si offrono vantaggi reciproci di guadagno, garantendo l’accesso a infrastrutture, a tecnologie, a investimenti esteri di grossi quantitativi

di capitali, senza porre condizioni politiche o militari e senza ricorso

441

alla destabilizzazione. La Cina è diventata il potenziale virus del sistema imperialista mondiale, aprendo scenari fino a pochi decenni

fa impensabili e sgretolando dalle fondamenta il potere primario su cui l'Occidente capitalistico ha fondato la propria vittoria contro il

socialismo nel ‘900: la supremazia economica. Nel XX secolo i Paesi socialisti hanno tentato di sconfiggere l'imperialismo con l’interna-

zionalismo proletario e con la competizione tecnologico-industriale fondata sul benessere dei popoli. In entrambi i casi ci si è scontrati con la sconfitta. Nonostante in alcuni Paesi si siano registrati successi totali e in altri vittorie parziali, nel complesso l'imperialismo è riu-

scito a mantenere il proprio dominio su scala mondiale, sfruttando questo aspetto per favorire un elevato livello di vita dei propri popoli. Nel XXI secolo si inaugura la possibilità per i Paesi socialisti di sconfiggere l'imperialismo anzitutto sul piano del primato tecno-

logico e delle forze produttive, ponendo fine al dominio dei Paesi imperialisti esercitato per secoli grazie allo sviluppo tecnologico,

economico e militare. È comprensibile in questo quadro che la Cina non voglia presentarsi come una potenza destabilizzatrice e sovvertitrice dell'ordine mondiale, onde scongiurare l’intensificarsi di una

nuova “Guerra Fredda”. In questa situazione quale deve essere allora

l'operato dei comunisti degli altri Paesi? 15.5. Le condizioni oggettive per un processo rivoluzionario «Va dunque sottolineato come l'attuale forma di capitalismo che si

sta diffondendo, un capitalismo che porta il timbro della globalizzazione, non sia più sostenibile proprio perché se da una parte pretende che tutti i Paesi esportino di più (circostanza matematicamente impossibile), dall’altra impone che si paghino sempre meno i lavoratori, comportando necessariamente una drastica diminuzione dei consumi e quindi delle vendite. Un sistema, questo, che non può che aggravare sempre più

l’attuale crisi — sia nell'economia reale che in quella finanziaria — producendo inevitabilmente le conseguenze che tutti noi stiamo subendo». (Antonino Galloni, ex funzionario del Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica e, dal luglio 1984 al luglio 1986, del Tesoro)?

29 A. Galloni, /tervento al Convegno: “La schiavitù nel mondo e in Italia. Nuove forme e ponti di libertà. Sistema giuridico attuale e difesa dei diritti di libertà” (a cura di Radio Radicale), Incontrostoria.it, Agnano, 24 ottobre 2012.

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Stante questa situazione, che può condurre ad una situazione di declino del “vecchio mondo”, questo non comporta necessariamente un peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni delle nazioni più avanzate economicamente. Non è insomma colpa dei cinesi se le condizioni dei lavoratori europei peggiorino costantemente da decine di anni. L'Europa e gli USA hanno lanciato negli

anni ‘70 la globalizzazione imperialista come risposta complessiva al blocco socialista, alla decolonizzazione e alle rivendicazioni sempre

più avanzate della classe operaia. Per qualche decennio il sistema ha funzionato, ricattando milioni di lavoratori in tutto il mondo,

obbligandoli a sottostare alle dure condizioni imposte dal Capitale. Oggi le contraddizioni capitalistiche diventano sempre più stringenti, riaprendo il problema sulle vie d’uscita a disposizione, le quali si possono sostanzialmente ricondurre a quattro tipologie:

1) il ritorno a forme di autoritarismo di stampo fascista, al fine di mantenere il dominio della borghesia con la violenza, rigetrando il binomio liberalismo-democrazia abbracciato nel 1945; 2) l'accettazione di un nuovo compromesso keynesiano, teso a privilegiare l'espansione dei consumi interni, riprendendo il discorso

interrotto negli anni ‘70; 3) la prosecuzione delle politiche liberiste portate avanti nell’ambito delle istituzioni liberal-democratiche, rinnovando le forme dell’egemonia sulle classi dominate.

4) abbinabile a tutte e tre le precedenti vi è una quarta opzione “classica”: la guerra. Non necessariamente una guerra mondiale, ma

conflitti di carattere post-coloniale tesi a rivitalizzare l'economia attraverso la soluzione classica utilizzata dalle borghesie sin dal XIX secolo. Il processo peraltro è già stato avviato negli ultimi anni, con il progressivo attacco a Paesi come Iraq, Afghanistan, Libia e Siria. In tutti i casi, seppure in misure diverse, si presentano condizio-

ni oggettive che, se adeguatamente sfruttate da un attrezzato Partito

Comunista, possono condurre a sviluppi rivoluzionari, anche se il processo non è chiaramente meccanicistico né necessario. Il caso

della Grecia ha visto salire al potere una forza politica antiliberista ma non antimperialista, alla prova dei fatti non rivoluzionaria. Il fallimento di Syriza dimostra l'impossibilità di governare con un

programma “socialdemocratico” nella crisi attuale dei Paesi semi-coloniali, nel complesso dei Paesi capitalistici. Il superamento in senso progressivo di questa fase passerà solo attraverso la presa di coscienza 443

delle masse lavoratrici dell'esigenza di un processo rivoluzionario teso a ristabilire un controllo “pubblico” sull'economia, ponendosi

fuori dalle sovrastrutture imperialiste. Il ritorno a possibili sviluppi rivoluzionari in Occidente si accompagna ad un aspetto inedito: la possibilità per i comunisti di poter prendere il potere politico in Paesi già sviluppati economicamente. Una rivoluzione socialista in Italia,

Francia o Spagna avrebbe una base industriale abbastanza avanzata da poter immaginare soluzioni economiche prossime a quelle pensate dallo stesso Marx e dal primo Lenin, senza la necessità di politiche “sviluppiste”. I progressi dell’informatizzazione, dei settori terziari e una solida base industriale e agricola, oltre ad una capacità tecnologica assai sviluppata, consentono di impostare un modo di produzione secondo i modelli classici della pianificazione centralizzata, al fine di poter procedere alla razionalizzazione della produzione in maniera più flessibile rispetto alla strada sovietica, usando ad esempio i progressi offerti dal toyotismo, oltre alla sempre più marcata meccanizzazione degli impianti produttivi, che pongono all'ordine del giorno la possibilità di eliminare la disoccupazione attraverso una netta

riduzione dell'orario lavorativo. La strada dei comunisti in Occidente resta insomma quella “classica”, la quale non può che accompagnarsi al sostegno del mondo multipolare e alla prosecuzione incessante della denuncia dell’imperialismo e delle sue manovre di destabilizzazione. I comunisti devono lottare per la pace e per il rispetto della sovranità

popolare e nazionale dei popoli di tutto il mondo. A tal riguardo devono sostenere qualunque governo progressista che si ponga in contrapposizione con l'imperialismo nel tentativo di sviluppare le proprie forze produttive. 15.6. La distruzione del pianeta e le migrazioni di massa Una serie di Rivoluzioni socialiste non è solo un sogno per gli sfruttati, ma una necessità per lo stesso Pianeta. Dopo la questione

della “fame”, la seconda grande urgenza a cui dovrà rispondere l’Umanità nel XXI secolo è infatti la questione ambientale ed ecologica. Senza una razionalizzazione della produzione e dell'utilizzo delle risorse, senza una riduzione delle disuguaglianze mostruose oggi esi-

stenti su scala mondiale, si può immaginare facilmente un ulteriore

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deterioramento del clima, una serie di sempre più imponenti catastrofi naturali e lo scoppio di svariati conflitti e guerre su scala più o meno ampia per l’approvvigionamento di risorse un tempo date per scontate. Non bisogna dimenticare che la possibilità materiale

per l’Umanità di liberarsi dal flagello delle carestie è stata raggiunta soltanto nel XIX secolo (e solo in alcuni Paesi) e la precipitazione di eventi di carattere naturale, politica o sociale, nell’instabilità delle

relazioni internazionali e in presenza di una popolazione mondiale ancora in considerevole aumento demografico, sono fattori da non escludersi rotalmente, anche per l'Occidente. L'uomo europeo, che

in molti casi (la precisazione è fatta pensando ai popoli dell’ex-Jugoslavia e dell'Ucraina) non subisce da 70 anni sul proprio territorio le conseguenze di una guerra, non ha concezione della dura miseria e di quanto il socialismo sia necessario contro gli squilibri mostruosi

che la provocano. Il ritorno del fanatismo religioso in molte realtà del “Terzo Mondo” ne è già un primo segnale, configurandosi come una forma di protesta rudimentale e inadeguata verso le storture dell’attuale sistema. Una protesta peraltro abilmente manovrata strumentalmente dagli USA, come nel caso dell’ISIS, per cercare di rafforzare le proprie posizioni in Medio Oriente. Un altro segnale delle allarmanti condizioni del pianeta è dato dalle imponenti migrazioni intercontinentali che stanno avendo luogo negli ultimi anni. Particolarmente importante appare il nesso tra

ambiente, immigrazione e concorrenza socio-lavorativa: nel mondo contemporaneo l'ambiente è messo a rischio soprattutto dalla tendenza alla sovrapproduzione di merci. Il riscaldamento del globo ha assunto caratteri preoccupanti da quando nel XIX secolo il modo di produzione capitalistico ha cominciato ad estendersi su larga scala. La «bulimia energetica del sistema» proviene, infatti, dalla concorren-

za di capitali in lotta tra loro, dalla corsa al profitto e dalla logica di accumulazione illimitata proprie del capitalismo. Sono sempre più

allarmanti le voci di uno sgretolamento progressivo delle calotte polari che sta dando luogo ad un innalzamento progressivo dei mari, con enormi ripercussioni ambientali e climatiche che rischiano di sconvolgere intere regioni geografiche. Ciò produce il dilagare di fenomeni migratori di massa: nel solo 2016 in tutto il mondo oltre 65 milioni di persone sono stati

costretti ad abbandonare le proprie case. Di questi, 40 milioni sono “sfollati” all’interno del proprio Paese, mentre più di 22 milioni sono

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coloro che hanno assunto lo status di “rifugiati”. Un quarto di questi (5,5 milioni) è stato causato dalla guerra imperialista in Siria...?° Solo

una piccola parte di queste persone giunge dalle periferie del mondo nei Paesi imperialisti. Nell’UE ad esempio nel 2015 sono stati 2,4 milioni gli immigrati provenienti da Paesi extra-UE"'. Eppure nonostante le cifre non siano particolarmente elevate, ciò ha dato luogo

ad un dibartito politico molto ampio, fomentando e ravvivando razzismo e xenofobia tra le organizzazioni politiche di destra, mentre le sinistre hanno avviato, d'accordo con le organizzazioni cattoliche,

campagne per l'accoglienza in nome della solidarietà umanitaria. In pochi, anche a sinistra, hanno saputo o voluto affrontare la questione nei termini espressi da Lenin ne LYmperialismo, fase suprema del Capitalismo: «una delle particolarità dell'imperialismo, collegata all’accennata cerchia di fenomeni, è la diminuzione dell'emigrazione dai Paesi imperialisti e l'aumento dell'immigrazione in essi di individui provenienti da Paesi più arretrati, con salari inferiori”. In generale l'imperialismo favorisce enormi flussi migratori che vanno a costituire enormi eserciti industriali di riserva pronti a fare

concorrenza alle classi lavoratrici già costrette a far fronte ad una sempre maggiore pressione socio-economica. Tale constatazione non può certamente nell'immediato eludere il compito internazionalista dell'accoglienza e il sostegno a milioni di profughi e rifugiati in fuga da una miseria e una devastazione figlie delle politiche imperialiste

occidentali; ma non deve neanche far dimenticare che pochi hanno parallelamente denunciato il ruolo e le responsabilità dei Paesi occidentali e delle multinazionali nei drammi subìti da milioni di persone. Persone difficilmente contente di dover abbandonare la propria terra, i propri affetti, la propria patria. Non c'è molto da stupirsi d'altronde: l’omissione delle cause delle migrazioni, o la generica attribuzione a

“catastrofi naturali, guerre e regimi politici corrotti”, come spesso si usa dire, ben si adatta all’occultamento dell'’imperialismo che agisce in maniera sotterranea. Si adatta però molto meno alle organizzazioni

* UNHCR,

Nel 2016 il numero più elevato di sempre di persone costrette a

fuggire da guerre, violenze e persecuzioni, Unhcr.it, 19 giugno 2017. ? Eurostat, Statistiche sulle migrazioni internazionali e sulle popolazioni di origine straniera, Europa.eu, marzo 2017.

2 V, Lenin, L'Imperialismo fase suprema del capitalismo, cit., p. 146.

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“progressiste” che, abbandonando l’analitica marxista-leninista, non possono affrontare il tema in modo adeguato, cioè di classe, abbandonando così alle organizzazioni reazionarie il compito di denunciare la concorrenza salariale a basso costo, facendo leva sul razzismo,

su un messaggio populista e sugli istinti popolari più retrogradi. Conta chiaramente anche in questo caso il meccanismo po-

litico-mediatico dell’agenda setting e la capacità conseguente della borghesia di distogliere l’attenzione dai problemi reali. Diamo a

tal riguardo un solo dato: nel 2011 le paure principali dei cittadini europei riguardano l'Economia (60%), la Finanza Pubblica e la Disoccupazione (entrambe al 30%), mentre solo il 10% era preoc-

cupato dall’Immigrazione. Nel 2018 invece le paure principali sono l'Immigrazione (40%) e il Terrorismo (30%), mentre le questioni economico-sociali sono scese al di sotto del 20%. Tale risultato è

stato reso possibile grazie ad un bombardamento mediatico continuo e criminale. Una storiella recita: ci sono un immigrato,

un padrone

e un elettore intorno a un tavolo con 12 biscotti. Il padrone prende 11 biscotti e dice all’elettore: “Attento, l’immigrato vuole prendere il tuo biscotto!” Il ruolo dei comunisti dovrebbe essere quello di svelare la truffa e indicare il vero nemico: l'imperialismo. 15.7. La denuncia di Snowden del controllo totale «“La gente non capisce quello che ha fatto Snowden”, spicga Stone, perché la maggior parte della popolazione degli Stati Uniti non è a conoscenza di quanto ha denunciato l'ex dipendente della NSA riguardo i programmi di sorveglianza di massa portati avanti dagli Stati Uniti. Questo avviene a causa della cattiva copertura mediatica sulla vicenda, dove i media si concentrano sul messaggero anziché sul messaggio. “// datamining che stiamo facendo come Paese (Stati Uniti) non è percepito dall'opinione pubblica. La popolazione pensa — afferma Oliver Stone — che si tratti solo dei loro iPhone o dei loro computer. Ma questa è solo una piccola parte dell'equazione”. Stone denuncia che Snowden ha voluto mostrare,

al contrario di quanto affermano i funzionari dci servizi segreti starunitensi, che la sorveglianza di massa non è efficace e né tantomeno necessaria nella lotta al terrorismo. Ma l’enorme mole di dati ottenuti viene utilizzata per ogni sorta di azione, anche illegale, che possa permettere agli Stati Uniti di ricavare benefici. “// motivo per cui portano avanti questi programmi — continua Stone — e Snowden mastra questo nel film, è quello di avere il controllo. Avere il controllo sul maggior numero possibile di in-

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formazioni: economiche, sociali, militari, industriali, finanziarie. Informazioni che possono portare numerosi guai in un Paese”. Al riguardo vi sono alcuni esempi come l’impeachment contro Dilma Rousseff in Brasile, i problemi dell'economia Venezuelana (in questi giorni è stato portato un

attacco informatico che ha paralizzato i sistemi di pagamento eleuronico c i prelievi bancomat), il colpo di Stato in Ucraina e l’escalation che ha portato alla guerra in Siria»*. In un altro intervento Oliver Stone denuncia come gli sia stato impossibile girare il film in questione negli USA: «Il film è stato rifiutato da Hollywood che lo considerava troppo rischioso, perché negli Usa Snowden non è visto bene come in Europa, ma con

sospetto; perciò abbiamo dovuto realizzarlo con soldi tedeschi e francesi». Il suo giudizio sull’epoca in cui viviamo è perentorio: «purtroppo viviamo in uno Stato totalitario che ci domina attraverso la tecnologia»?! Lasciamo ora direttamente la parola a Edward Snowden, dando spazio alle ragioni che lo spinsero nel giugno del 2013 a denunciare ad

un noto cronista del giornale inglese 7hpe Guardian quanto stava mettendo in atto il suo Paese. Ripubblichiamo la trascrizione dell'intervista? Edward Snowden: Mi chiamo Ed Snowden e ho 29 anni. Ho lavorato per Booz Allen Hamilton come analista di infrastrutture presso NSA alle Hawaii. Glenn Greenwald: Quali altre posizioni hai ricoperto nel settore dell'intelligence? Snowden: Tecnico di sistemi, amministratore di sistemi, consulente senior per la CIA, consulente di soluzioni c responsabile di sistemi di telecomunicazione e informazione. Greenwald: Tutti vogliono capire chi sci c qual è la motivazione che ti ha spinto a fare il grande passo: dal considerare la possibilità di

# Redazione L'Antidiplomatico, Oliver Stone a RT: «La sorveglianza di massa svelata da Snowden riguarda il controllo, non l'antiterrorismo», L'Antidiplomatico, 7 dicembre 2016.

3 M. Consoli, Oliver Stone: “Hollywood non ha voluto il mio Snowden", L'Espresso (web), 13 ottobre 2016.

35 Per la vidco-intervista: Redazione La Repubblica, L'intervista integrale del Guardian a Snowden: “Ecco perché ho parlato”, La Repubblica (web), 11 giugno 2013; il testo è disponibile su F Brignardello (a cura di), Traduzione della video-intervista con Edward Snowden, Alaskahub.org, febbraio 2014.

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divulgare le informazioni in tuo possesso, a decidere a un certo punto di farlo davvero. Puoi aiutarci a capire come sei giunto a questa decisione? Snowden: Un amministratore di sistema che lavora per un'agenzia di intelligence è esposto a una gran mole di informazioni, su una scala ben più vasta rispetto a un impiegato qualunque, e può succedere che veda cose che lo mettono a disagio; ma se nel corso della carriera di una persona normale questo potrà capitare sì c no un paio di volte, quando invece sci in una posizione dalla quale puoi vedere tutto, sei esposto a certe cose con una frequenza molto maggiore, e ti rendi conto che in alcuni casi si tratta di veri e propri abusi. E se ne parli, in ambienti come questi in cui certe cose sono la norma, la gente non ti prende molto sul

serio, € tira dritto per la sua strada. Col passare del tempo però diventi sempre più consapevole che qualcosa non va c non puoi più fare a meno di parlarne. E più ne parli, più ti ignorano. E più ti ripetono che non c'è niente di male, più ti rendi conto che spetterebbe all’opinione pubblica stabilirlo e non a un tizio che è stato assunto dal governo. Greenwald: Parlaci di come funziona oggi il sistema di sorveglianza negli Stati Uniti. Si occupa delle attività dei cittadini americani? Snowden: L'INSA e le agenzie di incelligence in generale raccolgono informazioni ovunque c con qualsiasi mezzo. Sono convinte di averne picno diritto, nell'interesse della nazione. Inizialmente erano molto concentrate sulle informazioni raccolte all’estero. Ora però l’attenzione si sta spostando sempre di più verso l'interno e soprattutto NSA è interessata a raccogliere le comunicazioni di chiunque. Le assimila in modo quasi automatico. Le raccoglie all’interno del suo sistema, le filtra, le analizza, le misura e le archivia per un certo periodo di rempo, semplicemente perché è il modo più facile, efficiente e valido per raggiungere i suoi obiettivi. Quindi, mentre nelle intenzioni sembrano puntare a raccogliere informazioni su persone legare a un governo straniero o a sospetti terroristi, di fatto per fare ciò raccolgono anche le tue

comunicazioni. Qualsiasi analista, in qualsiasi momento, può prendere di mira chiunque, ovunque. Quali comunicazioni verranno raccolte e dove dipende dal range della rete di sensori e dalle autorizzazioni di cui l'analista dispone. Non tutti gli analisti sono in grado di accedere a tutte le informazioni. lo però dalla mia scrivania avevo la possibilità di intercettare chiunque, dal tuo commercialista a un giudice federale e persino il Presidente, se solo avessi avuto la sua e-mail personale. Greenwald: Uno degli aspetti più insoliti di questa vicenda è che in genere le talpe non si espongono e fanno in modo di restare nell’anonimato il più a lungo possibile, se non addirittura per sempre. Tu, al

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contrario, hai deciso di esporti pubblicamente, di mostrare la tua faccia,

oltre a fare queste rivelazioni. Perché hai fatto questa scelta? Snowden: Penso che i cittadini abbiano il diritto di sapere che cosa spinge una persona che fa questo genere di rivelazioni a compiere un ge-

sto che lo pone al di fuori dell'ordine democratico. Mettere in discussione il potere di un governo è un rischio per la democrazia, ma se lo fai in segreto, agisci esattamente come quel governo, che cerca di trarre vantaggio

dalle azioni che ha compiuto in segreto. Sc ha fatto qualcosa di buono, autorizzerà i suoi funzionari a informare la stampa, in modo da avere l’opinione pubblica dalla sua parte. Ma è assai raro che lo faccia se sta com-

mettendo degli abusi. Questa responsabilità ricade sulle spalle di singoli cittadini, che però vengono calunniati. Li si accusa di essere nemici della nazione, di essere contro il governo, ma non è il mio caso. lo non sono diverso dagli altri. Non ho competenze particolari. Sono solo uno dei tanti che vanno in ufficio tutti i giorni, vedono quello che succede e pensano: ‘Questo non spetta a noi deciderlo, sono i cittadini che devono decidere se questi programmi e queste linee di condotta sono giusti o sbagliati”.

Voglio parlare chiaramente e difendere l'autenticità delle cose che ho rivelato e dire: ‘Non ho inventato nulla. Questa è la verità; sta succedendo proprio questo. Spetta a voi decidere se è davvero necessario che accada’.

Greenwald: Hai pensato alla reazione del governo alla tua iniziativa? A cosa potrebbero dire di te, a come potrebbero cercare di dipingerti o cosa potrebbero farti? Snowden: Sì, potrei finire nelle mani della CIA. Potrebbero darmi la caccia. Le agenzie, o uno qualunque dei loro contractor; lavorano a stretto contatto con diversi Paesi. Oppure potrebbero ingaggiare le ‘Triadi, 0 uno qualsiasi dci loro agenti o delle loro strutture. C'è un ufficio della CIA proprio qui su questa strada, nel consolato di Hong Kong, e sono sicuro che avranno parecchio da fare la prossima settimana. È penso che vivrò con la paura per il resto della mia vita, lunga o breve che sia. Non puoi opporti alle agenzie di intelligence più potenti del mondo senza correre rischi, perché sono avversari estremamente potenti. Non si può sfuggire per sempre. Se vogliono, prima o poi ti prendono. Allo stesso

tempo però devi decidere che cosa è importante per te. Vivere nell’agio ma senza libertà può stare bene a molti, è una cosa del tutto accettabile, è nella natura umana; puoi alzarti tutte le mattine, andare in ufficio,

portare a casa uno stipendio da favola facendo un lavoro che mina solo marginalmente l’interesse pubblico e andare a dormire tranquillo tutte le sere. Ma se ti rendi conto che il mondo che hai contribuito a creare continuerà a peggiorare, generazione dopo generazione, perché questa

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struttura oppressiva si estenderà sempre di più, capisci che puoi correre qualsiasi rischio e che non importa quello che succederà, purché l’opinione pubblica sia in grado di decidere che cosa si può 0 non si può fare. Greenwald: Perché ci dovremmo preoccupare di essere sorvegliati? Snowden: Perché anche se non stai facendo niente di male, sei osservato e registrato. E la capacità di archiviare dati in questi sistemi aumenta in misura esponenziale anno dopo anno, e alla fine non sarà più rilevante che tu abbia fatto qualcosa di male oppure no. Basterà che qualcuno abbia dei sospetti su di te, anche per un errore banale. Allora potranno uti-

lizzare il sistema e mettere sotto la lente d'ingrandimento tutte le decisioni che hai preso in passato, gli amici con cui hai discusso di qualsiasi cosa. Troveranno il modo di attaccarti e creeranno un individuo sospetto da una vita del tutto innocente, dipingendole attorno un contesto criminale. Greenwald: In questo momento

ci troviamo a Hong

Kong, una

meta che hai scelto di tua iniziativa. Spiegaci per quale motivo sei venuto proprio qui, perché ci sono persone che pensano che in realtà tu abbia intenzione di consegnarti a un Paese che oggi è considerato da molri il nemico numero uno degli Stati Uniti, ossia la Cina. Credono in buona sostanza che tu stia cercando di aiutare un nemico degli Stati Uniti, a cui vuoi chiedere asilo politico. Puoi parlarci di questo? Snowden: Certo. In queste tesi ci sono un paio di presupposti errati, che spiegano il motivo della mia scelta. Il primo è che la Cina sia un nemico degli Stati Uniti. Non è così. Ci sono tensioni tra il governo degli Stati Uniti e il governo cinese, ma non riguardano i due popoli. Il commercio tra i due Paesi è libero, non siamo in guerra, non c'è alcun tipo di conflitto armato e non se ne profila uno all’orizzonte. Siamo i maggiori partner commerciali gli uni per gli altri. Inoltre Hong Kong ha una forte tradizione di libertà di parola. La gente pensa alla Cina come a un firewall di proporzioni gigantesche. Nella Cina continentale la libertà di parola è fortemente limitata, ma gli abitanti di Hong Kong hanno una lunga tradizione di manifestazioni di piazza e possono esprimere aperta-

mente le loro opinioni. Internet qui non è soggetto a censure maggiori di quelle dei Paesi occidentali, e credo che il governo di Hong Kong intrattenga relazioni indipendenti con molti importanti governi occidentali. Greenwald: Sc tu avessi deciso di danneggiare gli Stati Uniti c aiutare un governo nemico o le tue motivazioni fossero stare esclusivamente monetarie, avresti potuto fare qualcosa di diverso con questi documenti? Snowden: Certo. Chiunque nella mia posizione avrebbe potuto accedere a informazioni riservate da vendere sul mercato libero alla Russia; hanno sempre una porta aperta, come d'altronde l'abbiamo noi. Io avevo

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accesso ai nomi di tutti i collaboratori dell’NSA, all'intera rete di intelligence e alle strutture sotto copertura di tutro il mondo. ‘Tutte le stazioni, le missioni, rutto quanto. Avrei potuto danneggiare gli Stati Uniti? Ba-

sterebbe un pomeriggio per disattivare il sistema di sorveglianza. Ma non era questa la mia intenzione. A chi pensa questo di me vorrei chiedere: ‘Se foste nella mia posizione privilegiata, se viveste in un paradiso come le Hawaii, e faceste un sacco di soldi, cosa potrebbe spingervi a lasciarvi tutto alle spalle?” La mia più grande paura riguardo alle conseguenze per l'America di queste rivelazioni è che non cambi nulla. Ho paura che la

gente venga a conoscenza di tutte queste cose dai media, comprenda fino a che punto il governo è in grado di spingersi unilateralmente per esercitare un maggiore controllo sulla società americana e globale, ma che alla fine non sia disposta a correre i rischi necessari per contrastare questo stato di cose e costringere i propri rappresentanti ad agire sul serio nel suo interesse. È nei prossimi mesi, nei prossimi anni, non potrà che peggiorare, se non verrà il giorno in cui cambieranno le politiche. Perché l'unico

limite alle attività di sorveglianza dello staro sono le politiche. Anche quando si fanno accordi con altri Stati sovrani, siamo portati a pensare che siano frutto di politiche anziché di leggi. Ed è così che, quando verrà cletto un nuovo leader, ci diranno: ‘Per via della crisi, per via dei rischi che corriamo nel mondo, di una nuova minaccia imprevista, abbiamo bisogno di esercitare una maggiore autorità, abbiamo bisogno di più potere’. E a un certo punto, nessuno potrà fare più niente per opporsi, perché il potere sarà diventato una tirannia». In una rivelazione successiva Snowden ha offerto alcuni dati, che riportiamo direttamente dal testo di un articolo del Corriere

della Sera8*: «Cinque miliardi di telefonate fatte dai cellulari nel mondo intercettate ogni giorno dalla National Security Agency statunitense. Dati attraverso i quali gli 007 americani sono in grado di seguire i movimenti

delle persone e di risalire all'intera rete delle loro relazioni. Il “Datagate” si arricchisce di un nuovo capitolo secondo quanto racconta il Washingrton Post che cita ancora una volta alcuni documenti segreti forniti dalla

“talpa” Edward Snowden [...]. Grazie a un potente programma chiamato “co-travellers” i circa 5 miliardi di dari telefonici ricevuti dalla Nsa in 24

* Redazione Corriere della Sera, «La Nsa spia ogni giorno 5 miliardi di chiamate». Le nuove rivelazioni della «talpa» Snowden, Corriere della Sera (web), 5 dicembre 2013.

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ore vengono analizzati. Grazie alla loro triangolazione attraverso le celle (le grandi antenne che fanno rimbalzare i segnali) la Nsa riesce a sapere

dove ogni singolo cellulare — e se è noto il ritolare anche ogni singola persona — si trovi in un dato momento, in ogni angolo del mondo e con chi si sia incontrato. Con lo stesso sistema può sapere se una persona ritenuta pericolosa si trova negli Usa o sia vicina, in altre parti del mondo, a possibili obiettivi di un attacco terroristico |...]. L'enorme mole

di dati raccolti grazic a questo programma di intelligence va quindi ad

alimentare un vastissimo database. Una banca dati in cui vengono immagazzinate informazioni che permettono di localizzare — scrive ancora il Post— centinaia di milioni di telefonini c smartphone. E il flusso dei dati raccolti è così massiccio e veloce — rivela il testo di un briefing della Nsa del maggio 2012 — da mettere a durissima prova “la capacità della stessa agenzia di incamerarli, processarli ed immagazzinarli”. Non a caso, negli ultimi mesi la Nsa avrebbe adottato un nuovo sistema per analizzare tutte le informazioni in entrata, molto più veloce e in grado di rendere il centro dati molto più capiente. “Continuiamo a raccogliere in giro per il mondo un enorme volume di dati che indicano la posizione dei telefoni cellulari che vengono intercettati”, conferma sotto anonimato un funzionario dell'amministrazione Usa, spiegando come l’azione di “spionaggio” avviene monitorando i sistemi che connettono le varie reti di telefonia mobile a livello globale. In particolare — come emerge dalle carte fornite da Snowden — i dati vengono raccolti dalle decine di milioni di americani che ogni anno col loro telefono portatile viaggiano all'estero. In pratica — scrive il Pest - il governo americano è in grado di “tracciare” c localizzare persone che si trovano lontano e in posti e spazi normalmente protetti

sul fronte della privacy: sale o stanze in cui si svolgono meeting di lavoro riservati, centri per le visite mediche personali, camere d'albergo, case private. “ Gli analisti della Nsa possono scovare telefoni cellulari ovunque nel mondo - afferma il Washington Post - ricostruire i loro movimenti e scoprire relazioni segrete tra persone che si mettono in contatto coi loro cellulari”».

Ci siamo: 1984 di Orwell non è più un romanzo immaginario. È la nostra realtà. Del tutto futile giustificare che tutto ciò sia neces-

sario per la lotta al terrorismo. Motivazioni simili erano date anche da Metrernich nell’epoca della Restaurazione quando nei primi trent'anni post-napoleonici una cappa di reazione autoritaria calò sull'Europa intera, con il consesso delle potenze mondiali d'accordo per frenare il riemergere dello spirito rivoluzionario proletario che

aveva osato provare a costruire un altro mondo. In un contesto di terrificante sensazione di impotenza per il controllo totalitario subito,

è imprescindibile far comprendere ai popoli occidentali di vivere in una condizione di implicita e passiva accettazione di un nuovo ordi453

ne totalitario. Non più il nazismo della violenza esplicita, bensì una dittatura della borghesia giunta ad un estremo livello di raffinatezza che sfrutta la tecnologia e la scienza per sussumere completamente

e definitivamente l’intero proletariato, al fine di poterlo dominare e asservire più facilmente, mentre osanna le proprie stesse carene. Per dirla alla Zizek, oggi la violenza è «invisibile», ma anche quel poco di visibile viene abilmente utilizzato in modo da favorire gli stessi interessi imperialisti. La lotta di classe tra borghesia e proletariato sta tornando a raggiungere livelli oggettivi di scontro inediti nella storia contemporanea in Occidente. Ciò però non dà luogo a roboanti e durature ribellioni, perché in un’ampia misura la borghesia è riuscita, dopo secoli di tentativi, a far introiettare la naturalezza

di questo sistema alla stragrande maggioranza dei popoli. Occorre quindi necessariamente lottare contro questa condizione di aliena-

zione e di asservimento ideologico-culturale, creando i presupposti per la resistenza e la battaglia contro il “Totalitarismo liberale” di cui si intravedono le prime incrinature. 15.7. La necessaria lotta al “totalitarismo liberale” «Voglio essere chiaro: la nostra intelligence continuerà a spiare i governi di tutto il mondo, lo facciamo per conoscere le loro intenzioni, per motivi di sicurezza. | nostri alleati però possono stare tranquilli perché noi siamo dei partner leali». (il Presidente “democratico” degli USA Barack Obama, gennaio 2014)?

Probabilmente tra molto tempo gli storici si domanderanno come sia stato possibile che la nostra epoca sia rimasta rutto sommato silente e inerte, risultando incapace di ribellarsi di fronte a quanto

stesse accadendo. Oltre a subire un peggioramento relativo (e spesso anche assoluto) delle condizioni di vita, a seguito della crisi economica del 2007-08, a detta di molti la più grave crisi capitalistica dai tempi del 1929, le nuove generazioni cresciute a cavallo dei due secoli hanno

scoperto di essere vittime di un colossale inganno. Questo il merito

#7 Askanews, Obama difende la Nsa: continueremo a spiare i governi stranieri, Youtube.com, 17 gennaio 2014, oppure si veda un servizio statunitense: Press Tv

Videos, Obama says the US intelligence will continue to spy on foreign governments, Youtube.com, 19 gennaio 2014.

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delle denunce fatte da Julian Assange ed Edward Snoden: grazie alla loro opera conosciamo le costanti e più palesi violazioni dei diritti umani perpetuare tutt'oggi dalle classi dominanti occidentali. Julian

Assange, che ha disvelato i segreti delle diplomazie segrete mondiali con Wikileaks, parla apertamente del rischio di «urna forma postmoderna di totalitarismo», caratterizzato da uno scenario macabro: «Se volete una visione del futuro», scrive, «immaginate occhiali di Google promossi

da Washington e legati a volti assenti — per sempre». E ancora: «Ci sono chiari segnali che la civiltà globale stia andando verso una distopia». In che cosa consisterebbe questa distopia? «Il modello di business di Google, la sorveglianza, colpisce miliardi di cittadini, cd è raccogliere più informazioni possibile sulle persone, immagazzinarle, indicizzarle, usarle per creare modelli che prevedono i loro comportamenti e venderli ai pubblicitari. Essenzialmente lo stesso modello di raccolta massiva dei dati che ha la Nsa. Il che spiega perché la Nsa si è garantita di accedervi. Google come compagnia e Larry Page hanno una visione totalizzante dell'azienda, che prevede un futuro in cui chiunque indosserà occhiali di Google così da poter intercettare perfino il nostro sguardo, i luoghi, gli appuntamenti, controllare le automobili c i consigli su cosa fare e non fare. ‘Tutto nel nome di ciò che sembra una massimizzazione dell’efficienza, senza alcuna considerazione per il sistema totalizzante che è stato costruito».

Eppure per Assange c'è una speranza: «La domanda è: che possiamo farci? La risposta è che ci sono un po’ di rimedi - possono essere sufficienti o meno, ma sono tutto ciò che abbiamo. Uno è l'educazione politica di massa che ha cominciato a verificarsi su Internet in risposta e che sta continuando. La capacità dei giovani di imparare e adattarsi a ciò che altrimenti sarebbe un sistema diretto verso il totalitarismo elettronico non dovrebbe essere sottovalutata»**. In una recensione del film Snowden Francesco Boille, scrivendo

per Internazionale, afferma: «potenzialmente è tutto pronto per una dittatura orwelliana globalizzata. Magari, la domanda può venire legittima, con la spinta crescente della marea di poveri e profughi, è possibile che arrivino al potere con

* E Chiusi, L'ultima sfida di Assange: “Il totalitarismo sono i colossi web”, La Repubblica (web), 22 settembre 2014.

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voto democratico governi autoritari. Non vogliamo spaventare troppo: le cose sono sempre più imprevedibili di quanto si creda, come dimostra proprio la vicenda qui raccontata. Ma è un pericolo potenziale. È evidente che nel mondo di oggi, in cui è forse legittimo temere che un voto democratico porti al potere un governo autoritario, altre tematiche trattate dal regista come il tentativo di individuare i reali mandanti dell'omicidio di Kennedy, sembrano poca cosa. Non perché meno gravi, ma perché quanto rivelato in Snowden rivaleggia con la fantasia. Non sembra realistico eppure è la verità».

Eppure, occorre ribadirlo, il tema non è all'ordine del giorno nei dibattiti pubblici in Occidente. Diventa a questo punto utile confrontare le definizioni che sono state date del concetto di totalitarismo, considerato una realtà del passato incomparabile con il mondo odierno caratterizzato dalla libertà e dalla democrazia

liberale, provando a spiegarsi perché non vi sia consapevolezza del suo carattere attuale. Simona Forti spiega come «riferito soltanto ai regimi del Novecento, esso designa un universo politico in cui un unico

partito ha conquistato il monopolio del potere statale, ha assoggettato l'intera società, ricorrendo a un uso capillare e terroristico della violenza

e conferendo un ruolo centrale all'ideologia»*°. Apparentemente questa situazione non ha nulla a che fare con il nostro presente. O forse sì? Se si associa la democrazia al sistema liberale del pluripartitismo non si potrà che respingere l'associazione dei modelli, ma ci si può chiedere che senso abbia il pluripartitismo in un contesto in cui i

partiti che si alternano al potere siano fautori del medesimo sistema di produzione capitalistico giunto alla sua fase imperialista. Il pluriparritismo è la forma più “liberale” della dittatura della borghesia, la quale mantiene, così mascherata, un costante controllo sui settori sociali, più o meno organizzati, rischiosi per il mantenimento e

la salvaguardia della struttura economica. Tra gli Stati che hanno potuto godere di tale sistema politico si può constatare nell'epoca contemporanea una progressiva perdita di sovranità dovuta all’espansione del potere economico-finanziario. Qualunque Stato in cui

si sia avvicinata o sia giunta al potere una fazione della società che

* E Boille, Snowden di Oliver Stone ci apre gli occhi sulla sorveglianza di massa, Internazionale (web), 24 novembre 2016. 408. Forti, 77 totalitarismo, cit., p. V.

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abbia messo in discussione la struttura economica, ha visto cadere l'illusione democratica, subendo una dittatura borghese esplicita, violenta, terroristica, fascista. Nella visione astratta e formalista della Forti non importa la

classe di cui fa gli interessi il partito al potere. Una lettura di classe concreta e materialista suggerisce invece che non un partito, ma un blocco sociale, ha conquistato il monopolio del potere statale: la

borghesia. La borghesia ha assoggettato l’intera società, sfuttando dopo il 1989 il crollo delle organizzazioni proletarie. Ha ottenuto questo risultato al termine di una feroce lotta di classe su scala mondiale svoltasi non solo contro le organizzazioni interne ai singoli Stati (partiti comunisti, sindacati di classe) che ne contestavano il primato politico, ma anche contro quegli stessi Stati in cui il proletariato era riuscito a giungere al potere, attraverso le proprie avanguardie politiche. In questa lotta non ha esitato a ricorrere ad un uso capillare e

terroristico della violenza. Le bombe della Strategia della tensione in Italia ne sono un esempio tra tanti, che passa comunque in secondo

piano in confronto con quanto fatto dal braccio militare dei borghesi nel resto del mondo, dove gli stermini, i genocidi, le guerre brutali

e l’asservimento schiavistico sono rimasti la modalità ordinaria di gestione dell'esistente. Tutto ciò in nome dell’ideologia del libero mercato e della proprietà privata dei mezzi di produzione, da sempre i pilastri intoccabili, i rotem religiosi. Non certo per feticcio, ma in

quanto essenza del potere di classe della borghesia. Oggi viviamo in un mondo che sembra rispecchiare la visione di Goebbels: «uno Stato totalitario che abbracci ogni sfera della vita pubblica e la trasformi alla base», al fine di «modificare completamente i rapporti degli uomini tra di loro, con lo Stato e con i problemi dell'esistenza»**. La grande novità riguardo alle esplicite affermazioni naziste è caratterizzata dal fatto che tale uniformazione non viene imposta con la forza, ma con la persuasione occulta, sfruttando i meccanismi di alienazione e di controllo sostanzialmente totale dei mass-media classici. I dissenzienti da questo ordine non vengono sterminati,

perché non hanno abbastanza forza da poter incidere effettivamente sull'ordine vigente. I rapporti di forza sono talmente a favore della

classe dominante che essa tollera sacche di resistenza culturale, ba-

*' Ivi, p. 13.

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nalizzandole e ridicolizzandole, ma tenute in vita come controprova

della propria liberalità. Totalitari sono anzi definiti tutti coloro che, accettando la logica marxiana dello Stato come forma di dittatura di una classe su

un’altra, pongono il rema della conquista rivoluzionaria del potere. Un tema questo iniziato nel ‘900 nello stesso campo progressista dal “trockista eretico” Victor Serge, che non si è limitato a denunciare

il totalitarismo sovietico di epoca staliniana, ma ne ha retrodataro la genesi all'esordio della Rivoluzione stessa, «con él suo clima di inquisizione ideologica e la statalizzazione dei sindacati e delle cooperative». Abbiamo già visto a lungo come gli intellettuali “di sinistra” siano stati i migliori alleati dell'imperialismo nel corso del ‘900, restando tutt'oggi spesso i più acerrimi difensori di un’emancipazione universale che viene fatta coincidere con la prosecuzione della gestione elitaria del potere da parte della borghesia. Il concetto di totalitarismo è stato ampiamente usato in maniera strumentale dagli intellettuali borghesi. Prendiamo Raymond Aron,

noto collaborazionista della CIA. Ben prima che questa esistesse egli

aveva identificato i quatero punti nevralgici per giungere a formulare tale concetto: «a) la critica alla filosofia della storia dererministica e teleologica [...]; b) la relarivizzazione del primato della sfera economica a favore della centralità della sfera politica;

c) il riconoscimento del momento rivoluzionario che oppone il totalitarismo alla democrazia, caratterizzata, invece, da un'istanza conservatrice;

d) un'indagine delle ideologie totalitarie in relazione al processo di secolarizzazione».3

Aron, come ogni grande reazionario del mondo culturale,

patteggia per il relativismo, l’agnosticismo e il dubbio, rifiutando di dare uno statuto epistemologico alla disciplina storica, rifiutando insomma ogni proposta politica conseguente ad un'analisi serrata del passato. Accettare ciò significherebbe dal suo punto di vista cadere

nel determinismo. Evidente l'attacco alla concezione del materiali-

4 Ivi, p. 17. 4 Ivi, p. 20.

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smo storico. Terribile per Aron che la politica controlli l'economia. Il suo mondo ideale è quello attuale in cui una multinazionale dispone di poteri assai maggiori rispetto a Stati ricchi e tra i più

sviluppati del mondo. Il terzo punto si spiega da solo: il concetto stesso di rivoluzione è un male. La democrazia è invece conservatrice dell’ordine esistente, in cui vige il dominio del Capitale. Chiunque

osi diffondere un’ideologia diversa che metta in discussione l'assioma della “naturalità” di un simile mondo viene accusato di propagandare una nuova “dottrina religiosa” intollerante che offre «un orizzonte

salvifico temporalmente differito, realizzabile tuttavia grazie al regime instaurato». La strumentalità di tale paradigma è palese. Ricordiamo qui le tesi sul totalitarismo del politologo Zbigniew Brzezinski, che nel 1956 scrive con Carl J. Friedrich l’opera 7otali-

tarian Dictatorship and Autocracy in cui si introducono 6 misure per distinguere il totalitarismo: 1) un partito unico di massa guidato da un capo; 2) un'ideologia cui consacrarsi ciecamente;

3) il monopolio della forza bruta, degli strumenti di polizia c della lotta armata; 4) il controllo centralizzato dell'economia;

5) la penetrazione dello Stato-partito in ogni settore della società e in ogni dimensione della vita quotidiana; 6) il monopolio da parte del partito dei mezzi di comunicazione di massa di propaganda‘.

Sui primi quattro punti ci siamo già soffermati a sufficienza. Si può constatare come l’ideologia dominante sia oggi effettivamente

penetrata in ogni settore della società e in ogni aspetto della vita quotidiana. Un nuovo Capitale, inteso come il capolavoro di Marx, oggi non potrebbe che ripartire dal primato pressoché totale di cui gode la merce, con la conseguente sussunzione dell’ottica mercificatrice

del complesso della realtà. Ciò è stato possibile anche grazie al controllo non monopolista ma oligopolista da parte dello stesso blocco sociale dominante, quello borghese. Cambia la forma insomma, ma non la sostanza. Brzezinski, 10° consigliere della Sicurezza Nazionale degli USA nel periodo 1977-81, conosce bene la differenza tra le

# Ivi, pp. 42-43.

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dichiarazioni formali fatte all’epoca sui “freedom fighters” afghani in lotta contro l'invasione sovietica e la realtà di un appoggio ad organizzazioni islamiche terroristiche (in cui era presente anche Osama

Bin Laden) tese a rovesciare una repubblica democratica laica e socialista giunta autonomamente al potere, ben prima dell'intervento sovietico.

Negli anni ‘60 i modelli totalitari come quelli di Arendt o di Brzezinski erano accusati «di non rispondere a modelli descrittivi, ma di piegarsi alla necessità ideologica della condanna del comunismo, perseguita attraverso la costruzione di ideal-tipi ad hoc, che fanno emergere a contrasto i meriti delle società liberal-democratiche». Da chi erano sostenute queste tesi sul totalitarismo? Da riviste liberali come Preuves, Der Monat, ma anche Encounter, Forum e Tempo presente.!*

Esattamente le stesse che abbiamo già identificato come finanziare e controllate dalla CIA, grazie alla poderosa ricerca di Frances Stonor Saunders. Eppure sarà il progressivo revisionismo, con conseguente

cedimento ideologico, a far entrare questo cavallo di Troia nel campo del blocco proletario, colpendo proprio nel suo punto nevralgico di maggiore resistenza, il blocco socialista: «se nel decennio successivo alla morte di Stalin gli intellettuali dell'Est mostrano una forte avversione nei confronti del concetto, dall’invasione della Cecoslovacchia in poi si assiste a una riscoperta di tale nozione: ‘totalitario’ e ‘totalitarismo’ entrano nel lessico corrente, c

il termine diventa il comun denominatore degli scritti politici della dissidenza. La domanda che ci si pone all’Est durante ‘il disgelo’ non è molto

diversa da quella che inquietava gli intellettuali marxisti dell'Ovest: vale a dire se gli indicibili crimini staliniani fossero una deviazione patologica di un percorso storico sano o se invece rappresentassero l'inevitabile esito di un sistema politico e ideologico viziato in partenza»*.

Senza la destalinizzazione del 1956 e la vittoria del revisionista

Chruséev, che ha dato inizio alla disgregazione del blocco socialista avviando in parallelo la rovina dell'URSS, non si sarebbe assistito a questo impressionante cedimento ideologico il cui rermine ultimo è la situazione odierna, caratterizzata dall’attribuzione incontra-

% Ivi, p. 46. 1 Ivi, p. 57.

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stata, perfino nei manuali scolastici, del paradigma totalitario al comunismo. Siamo quindi di fronte al rovesciamento della realtà: un toralitarismo borghese è riuscito a prevalere su una dittatura del proletariato,

trasformando quest'ultimo in un regime demonizzato all'estremo. Eppure le contraddizioni rimangono e perfino un anticomunista come il filosofo Jean-Francois Lyotard ha parlato in tempi recenti per

la nostra epoca di un'inedita forma di totalitarismo: «post-moderno, post-democratico, retro dall’incontrastato dominio economico e massmediatico, entro il quale l'Occidente sta continuando a vivere. È un totalitarismo ‘soft’ che, come l'universo adorniano “dell'industria culturale”, opera attraverso la sistematica riduzione dell'altro allo stesso, disattiva l’alterità tramite un continuo processo di inclusione ed

esclusione, di omologazione c di rifiuto. Se il rotalitarismo propriamente politico nega la singolarità dell'evento dichiarandola un inutile accidente di cui sbarazzarsi, l'altro tipo di dominazione totalitaria, senza terrore c senza un'ideologia conclamata, la dissolve nella rete di una globalizzazione affacendata che, votata alla perenne innovazione, ha tempo soltanto per il profitto, per la vendita e per il consumo».

Per gli esami di Maturità 2018, il Ministero dell’Istruzione italiano ha scelto la seguente traccia per il saggio breve di ambito stori-

co-politico. Si tratta di un estratto da un saggio di Giulio M. Chiodi: «il concetto politico di massa è stato giustamente giudicato appropriato ai regimi totalitari, di tipo fascista, nazista, comunista del secolo scorso (per vero, non mancano nel presente esempi assimilabili); ma

anche oggi possiamo parlare, a ragion veduta e provata, di massificazione a larghissimo raggio, che trova il suo terreno d'espansione soprattutto

nei processi della cosiddetta globalizzazione. Ciò richiede una precisa distinzione. La massa governata dai regimi totalitari, diversamente da quella odierna, cra una massa omogeneizzata dall’ideologia del conflitto. La massa che si costituisce ad opera delle ideologie dei regimi totalitari,

come quelle esemplificate nel secolo scorso, combatte l’individualismo ma fa conto sull’individuo, a condizione che quest’ultimo sia stilizzato e rigorosamente uniformato ai dettami del regime, assolutamente pronto al consenso plebiscitario. Anzi, viene precisamente tratteggiato dal regime un modello ufficiale di individuo da imitare e riprodurre, descrivendone perfino prescrivendone la sua tipologia di pensiero c di

Ivi, pp. 94-95.

461

azione, onde ne vengano interiorizzati acriticamente i dettami, annullando la personalità, sotto la guida di principi aggregatori, nella massa ideologicamente plasmata»*5. Tale traccia, oltre a mostrare supinamente l’appiattiamento

verso la narrazione che equipara nazismo e comunismo come realtà totalitarie (un cliché che ormai comincia ad essere introiettato da

sempre più intellettuali progressisti, compresi gli insegnanti liceali e universitari), introduce un elemento sottinteso di critica del presente, ranto che il Corriere della Sera se ne è lamentato immediatamente

denunciando i tentativi di accomunazione della nostra epoca alla realtà totalitaria: «un’altra perplessità nasce anche dal parallelo proposto, nei testi, tra i totalicarismi e i nostri tempi caratterizzati dalla globalizzazione. Non è pericoloso/pretestuoso appaiare le due tematiche e i due periodi? L’approdo a una sintesi troppo facile (anche la globalizzazione rappresenta un possibile aspetto di un totalitarismo contemporaneo) è lì dietro

l'angolo. È forse richiederebbe maggiori materiali per affrontare una corretta analisi».

Il filosofo italiano Ferraris, fautore del ritorno al “realismo”, sostiene che viviamo nell’epoca della postverità, e che questa costi-

tuisca «l'essenza della nostra epoca, proprio come il capitalismo costituì l'essenza dell'Ottocento e del primo Novecento e i media sono stati l'essenza del Novecento maturo». Ferraris in questa maniera inverte i rapporti causa-conseguenza riguardanti l’ambiro socio-economico,

non avendo probabilmente sufficienti dati materiali per identificare che all’interno della relazione capitalismo-media-verità giochi ancora un ruolo preminente la struttura economica, ossia quel capiralismo giunto alla sua fase dell’imperialismo. Tale realtà si diversifica

dall’imperialismo del primo ‘900 avendo fatto proprie molte lezioni del nazifascismo ed essendo riuscita a mascherare il proprio dominio di classe e il suo controllo sempre più totalitario sulla società. La 4 G. M. Chiodi, Soggetti apolitici e politici soggetti, all’interno di R. Sau (a cura di), La politica. Categorie in questione, Franco Angeli, Roma, 2015, p. 176. 4 P_ Conti, /hacce maturità: masse e propaganda per il saggio storico-politico, Corriere della Sera (web), 20 giugno 2018. ° M. Ferraris, Postuerità e altri enigmi, cit., p. 10

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potenza del Capitale è stata capace di riscrivere la Storia all'insaputa dei più e mantiene tanta potenza di fuoco da poter confinare in maniera “liberale” ai margini del potere tutti i dissenzienti. È riuscita

a fare ciò avendo per molti versi una conoscenza più adeguata degli insegnamenti

di Marx

e Gramsci,

rivolti però non

contro

la classe

dominante bensì contro la classe dominata. La fase di apparente sconfitta storica del socialismo conseguente alla caduta dell'URSS ha

favorito una controffensiva ideologica che, combinata al sempre più accentuato controllo sociale e politico delle masse, ha consentito non solo di garantirsi contro nuove rivolte prolerarie, ma anche di coltiva-

re l'ambizioso progetto di eliminare una volta per tutte dalla mente degli individui l’idea che ci possa essere una società diversa rispetto a quella capitalistica. La vera e profonda caratteristica del totalitarismo sta in questo aspetto: la sussunzione dell’ideologia della classe dominante nelle masse è tale da favorire il mantenimento al potere

della borghesia sul proletariato, dei pochi sui molti, dei ricchi sui poveri, per un periodo di tempo indefinito. L'ideologia falsamente progressista, quella “liberal”, con cui si intende guidare questo nuovo

ordine mondiale, si appaia alla battaglia per la re-istituzione di un dominio neocoloniale sempre più attivo, il che però si scontrerà con l'ascesa di altri Paesi che rifiutano l’asservimento all’imperialismo

occidentale. Tra questi Paesi, quello più potente e importante, che sta già contribuendo a emancipare progressivamente dalle proprie

disgrazie il “Terzo Mondo”, è la Repubblica Popolare Cinese, uno Stato guidato da un Partito Comunista. Sbaglia quindi, peccando in astrattezza, anche Jacques Lacan, affermando che il totalitarismo contemporaneo, postmoderno, sia «privo di gerarchie e di centro»”. Il totalitarismo contemporaneo non

è altro che una forma raffinata di controllo esercitato dalla dittatura della borghesia giunta ad esercitare un dominio su scala globale, in un contesto cioè di dominio di un capitalismo diventato imperialismo.

L'imperialismo non è un ente astratto, ma ha dei suoi centri di potere ben precisi e ben localizzati geograficamente. Il principale centro di potere imperialista è dato ancora dalle politiche della principale potenza imperialista mondiale: gli Stati Uniti d'America. Dice bene

9 M. Recalcati, L'eclissi del desiderio, all’interno di M. Recalcati (a cura di), Forme contemporanee del totalitarismo, cit., p. 71.

463

Fabio Galimberti: «le nostre democrazie [...] non sono governate con lo

strumento del terrore, semmai con lo strumento del benessere». Gli si può ricordare che a seguito del trionfo delle politiche liberiste tale benesse-

re sia sempre più relativo e restrittivo perfino nelle società occidentali,

ma soprattutto occorre sempre ribadire che tale benessere è fondato storicamente e attualmente sul controllo, sul dominio e sul conse-

guente sfruttamento intensivo, in vari casi tale da perpetuare una vera

e propria schiavitù, della gran parte dei popoli e del proletariato mondiale. Ma abbiamo già visto come l’Impero non ami parlare di sé stesso, partecipando all’omissione sistematica della natura imperiale della globalizzazione dominata fino ad oggi dalla borghesia starunitense. 15.8. Il ruolo storico del proletariato «Di poveri ce n'è di due specie, quelli che sono poveri tutti insieme e quelli che lo sono da soli. I primi sono quelli veri, gli altri sono ricchi scalognati». (Jean-Paul Sartre, da // diavolo e il buon Dio, 1951)}*

Massimo Recalcati ha scritto che «le forme contemporanee dei

totalitarismi postideologici, o, se si preferisce, la tendenza totalitaria immanente ai regimi liberal-democratici nell'epoca dell'affermazione incontrastata del discorso del capitalista, si manifestano a partire da

una spinta alla riduzione disincantata di ogni Ideologia»*. Il trionfo del Capitale è insomma in legame dialettico non solo con i rapporti di forza schiacciati ad esclusivo vantaggio della borghesia, ma anche

nella capacità di mantenere come paradigma ideologico dominante l’ideologia che nega anche se stessa, ossia il «pensiero debole» che rifiuta le narrazioni totalizzanti ed omniesplicative. Eppure questo discorso, che rischia di essere astratto, se inserito

nel contesto di scontro di classe dalle proporzioni mondiali, porta alla consapevolezza che la Storia non è finita e che la possibilità di

°F Galimberti, La macchina della rimozione, Ivi, p. 263. 5 J. P. Sartre, // diavolo e il buon Dio (traduzione a cura di G. Debenedetti),

Il Dramma, n. 316, gennaio 1963. % M. Recalcati, /ntroduzione. Totalitarismo postideologico, all’interno di M. Recalcati (a cura di), Forme contemporanee del totalitarismo, cit., p. 7.

464

sconfiggere il Totalitarismo “liberale” esista, grazie agli stessi strumenti tecnologici usati dalla borghesia. Ancora una volta le armi che sono servite alla borghesia nella lotta contro il proletariato si rivol-

gono contro la borghesia stessa. Dove non riusciranno le condizioni soggettive saranno comunque sempre le condizioni oggettive a mantenere accesa la scintilla della lotta per una vera libertà. Lo spiegano meglio di ogni altro coloro che diedero il maggiore contibuto alla lot-

ta per l'emancipazione dell'Umanità, Karl Marx e Friedrich Engels: «Ia proprietà privata, come proprietà privata, come ricchezza, è costretta a mantenere in essere sc stessa c con ciò il suo termine antite-

tico, il proletariato. Questo è il lato positivo dell’antitesi; la proprietà privata che ha in sé il suo appagamento. Invece il proletariato, come proletariato, è costretto a negare se stesso c con ciò il rermine antitetico

che lo condiziona e lo fa proletariato, e cioè la proprietà privata [dei mezzi di produzione, ndr] dissolta e dissolventesi. La classe possidente e la classe del proletariato rappresentano la stessa autoestraniazione umana. Ma la prima classe si sente completamente a suo agio in questa autoestraniazione, sa che la estraniazione è la sua propria potenza ed ha in essa la parvenza di una esistenza umana; la seconda si sente annientata nell’estraniazione, vede in essa la sua impotenza e la realtà di una esistenza non umana, Essa, per usare un'espressione di Hegel, è nell’abiezione la ribellione contro questa abiezione, ribellione a cui essa è necessariamente spinta dalla contraddizione della sua natura umana con la situazione della sua vita e che è la negazione aperta, decisa, assoluta di questa natura. In scno all’antitesi, dunque, il proprietario privato è il partito della

conservazione, cd il proletario il partito della distruzione. Il primo lavora alla conservazione dell’antitesi, il secondo alla sua distruzione. È vero che la proprietà privata nel suo movimento economico va essa stessa verso la propria dissoluzione, ma solo mediante uno sviluppo

indipendente da essa, inconsapevole, che ha luogo contro la sua volontà ed è condizionato dalla natura della cosa, e soio perché essa produce il proletariato come proletariato, la miseria consapevole della sua miseria intellettuale e fisica, la disumanizzazione consapevole di essere disumanizzazione e che perciò sopprime se stessa. Il proletariato esegue la con-

danna che la proprietà privata infligge a se stessa producendo il proletariato, così come esegue la condanna che il lavoro salariato infligge a se stesso producendo l'altrui ricchezza c la propria miseria. Sc il proletariato vince, esso non perciò diventa il termine assoluto della società; infatti esso vince solo superando sc stesso ed il suo opposto. Allora scompare tanto il proletariato quanto l’antitesi che lo condiziona, c cioè la proprietà privata. Se gli scrittori socialisti attribuiscono al proletariato questa funzione di significato storico-mondiale, ciò non accade affatto |...] perché essi

465

considerano i proletari come degli dèi. Ma, al contrario, perché nel proletariaro pienamente sviluppato è fatta astrazione da ogni umanità, perfino dalla parvenza di umanità; perché nelle condizioni di vita del proletariato sono riassunte tutte le condizioni di vita dell’odicrna società, nella loro forma più inumana; perché l’uomo nel proletariato ha perduto sc stesso, ma, contemporaneamente, non solo ha acquistato la coscienza teorica

di questa perdita, bensì è stato spinto direttamente dalla necessità ormai incombente, ineluttabile, assolutamente imperiosa — dall’espressione

pratica della necessità — alla ribellione contro questa inumanità; ecco per quali ragioni il proletariato può e deve emanciparsi. Ma esso non può emanciparsi senza sopprimere le proprie condizioni di vita. Esso non può sopprimere le proprie condizioni di vita senza sopprimere tutte le inumane condizioni di vita della società attuale, che si riassumono nella sua situazione. Esso non si frequenta invano la dura, ma temprante scuola del lavoro. Non si tratta di sapere che cosa questo o quel proletario, o anche il proletariato tutto intero, si propone temporaneamente come mèta. Sì tratta di sapere che cosa esso è e che cosa esso sarà storicamente costretto a fare in conformità con questo suo essere. La sua mèra c la sua azione storica sono tracciate in modo sensibile e irrevocabile nella situazione della sua vita, come in tutta l’organizzazione dell’odierna società borghese».

Questo passo si conclude ricordando come all’epoca «una gran parte del proletariato inglese e francese» fosse «già consapevole del suo compito storico», lavorando «costantemente a portare questa coscienza

alla più completa chiarezza». Oggi chiaramente non viviamo in questa situazione ma in una precedente, in cui il modello ideologico

dominante è quello con cui si arriva a colpire preventivamente di autoritarismo chi riafferma l’istanza di una verità unica, rigettando così l’agnosticismo come modus mentale esclusivo: scrivono gli accademici francesi Jean-Pierre Deconchy e Vincent Dru che «il soggetto

“autoritario” è quello che crede alla “Causa”, sia essa rappresentata da un'idea, da una convinzione, da una Chiesa o da un partito; in ogni

caso essa è unica e tale da escludere tutte le altre. Una fonte evidente di intolleranza autoritaria»5. 1 primi studi psicanalitici sull’autoritarismo erano caratterizzati dall’esclusiva associazione a comportamenti

5 K. Marx & E Engels, La sacra famiglia. Ovvero critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e consorti, 1845, all'interno di K. Marx & È Engels, Opere

scelte, cit., pp.165-166. %]. P_ Deconchy & V. Dru, L'azsoritarismo, Il Mulino, Bologna, 2011, p. 76.

466

rendenzialmente fascisti, e quindi “di destra”; solo dagli anni ‘50 anche in questo campo è iniziata una controffensiva ideologica con cui si è iniziato a parlare di “autoritarismo di sinistra”, secondo le

consuete logiche della “Guerra Fredda”. Di qui la denuncia dei «dogmatismi» e delle «ortodossie» non solo religiose, tese ad alienare ulteriormente il popolo, bensì anche quelle socialiste, che cancelle-

rebbero lo spirito critico individuale invece di rafforzarlo’8. Turte queste accuse partono da presupposti errati, incomprensioni profonde, probabili volute distorsioni del pensiero marxista, che fonda

la questione della “critica” al suo principio fondativo, senza per questo rinunciare all’affermazione di una Verità empirica e storica che

funga da guida per il presente. Eliminare una teoria di riferimento, eliminare l'acquisizione completa della concezione marxista della

storia e della filosofia, eliminare il materialismo storico e dialettico come strumenti analitici necessari nella nostra epoca, significa solo

condannare l’essere umano sfruttato alla subalternità mentale verso la filosofia della classe dominante, che si avvale da secoli per questo di molteplici servi, più o meno

mascherati, della scuola “idealista”

tesa a perpetuare l'ordinamento esistente.

Occorre ribadire che il modo migliore per riportare questa consapevolezza nella maggioranza del proletariato non può svolgersi

all'infuori dell’azione politica esercitata dalla sua avanguardia più cosciente, la quale ha il compito storico di impegnarsi per guidare que-

sta lotta. Ma di questo tema e delle problematiche ad esso concernenti, ci occuperemo nei prossimi volumi. Si può per ora solo dire che

molto è stato già scritto; si tratta solo di tornare a leggerlo sfidando i pregiudizi. Sarà la forza della ragione a convincere i più recalcitranti e laddove non arriverà la persuasione conterà il peso politico delle masse finalmente coscienti. Mentre il presente volume è stato dedica-

to all’epoca contemporanea i prossimi volumi saranno dedicati a dimostrarne e approfondirne le affermazioni, affrontando la Storia e la Filosofia di questo ultimo secolo. Ricordano ancora Marx ed Engels: «è compito della storia, una volta scomparso l’al di là della verità, di

ristabilire la verità dell’al di qua. E innanzi tutto compiro della filosofia, operante al servizio della storia, di smascherare l'autoalicnazione dell’uo-

9” Ivi, pp. 31-33.

“Ivi, pp. 53-55. 467

mo nelle sue forme profane, dopo che la forma sacra dell’autoalienazione umana è stata scoperta»??,

Si tratta quindi di riscoprire le lezioni della Storia e di ripartire dal punto giusto. Sono fermamente convinto, non per impulso

idealista, ma per gli insegnamenti che offre il passato, che i popoli non saranno mai completamente asserviti, e che lo spirito di rivolta, premessa necessaria della Rivoluzione, continuerà a riproporsi fino a

quando non saranno realmente abolite le classi sociali, cosa che potrà avvenire solo con la vittoria definitiva del comunismo, sola vera so-

cietà in grado di garantire una civiltà veramente umanista e liberale, offrendo a tutti cioè di poter essere messi in condizione di realizzare sé stessi, ricercando la propria felicità senza dover essere oppressi quotidianamente da una qualche forma di schiavitù o bisogno materiale.

A duecento anni dalla nascita di Karl Marx, sarà opportuno ricordare le seguenti sue parole, scritte assieme ad Engels, in quello che è stato il libro più importante ed influente dell’età contemporanea, conser-

vando tuttora la sua piena attualità, soprattutto nelle conclusioni: «i comunisti appoggiano ovunque ogni movimento rivoluzionario contro le condizioni sociali c politiche esistenti. In rutti questi movimenti essi mettono in risalto, come questione fondamentale del movimento, la questione della proprietà, più o meno sviluppata che sia la forma da essa raggiunta. I comunisti, infine, lavorano ovunque all’unione e all’intesa dei partiti democratici di tutti i Paesi. 1 comunisti disdegnano di nascondere le loro opinioni e intenzioni. Essi dichiarano apertamente che i loro obiettivi possono essere raggiunti soltanto con il rovesciamento violento

di tutto l'ordinamento minanti davanti a una la da perdervi fuorché Proletari di tutti

sociale finora esistente. Tremino pure le classi dorivoluzione comunista. I proletari non hanno nulle loro catene. È hanno un mondo da guadagnare. i Pacsi unitevi!»®.

5 K. Marx & E. Engels, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, 1843, all’interno di K. Marx & E Engels, Opere scelte, cit., p. 958. © K, Marx & E Engels, Manifesto del Partito Comunista, Laterza, Roma-Bari,

2009, p. 57.

468

APPENDICE

1. Le casematte

dell’informazione proletaria in Italia

Dopo quanto detto finora si pone la necessità di ragionare su quali siano gli strumenti a disposizione dei proletari italiani al fine di avere una corretta e adeguata informazione e non cadere così vittime della propaganda e del circuito di demistificazione svolto quotidia-

namente dall’imperialismo. Il possesso di media funzionali e radicati nelle masse è una casamatta fondamentale, specie nel contesto di una

“guerra di posizione” tesa a conquistare l'egemonia culturale nella società. Per decenni il PCI ha costruito, con grande fatica e grazie

anche agli ampi finanziamenti ricevuti dall’URSS, una rete mediatica alternativa (non solo L'Unità) capace di contrastare efficacemente le falsità e le distorsioni della borghesia. Abbiamo già visto come una delle ragioni della degenerazione interna al Partito sia stata l’incapacità di elevare adeguatamente il livello culturale politico medio di un'organizzazione di massa capace di arrivare ad oltre 2 milioni di iscritti. Una delle molte cause di tale degenerazione ideologica

di massa si trova nel ruolo assunto da una serie di media che hanno saputo conquistare un rapporto di fiducia con le masse proletarie,

attraverso una serie di battaglie condotte in comune. Si pensi a giornali come La Repubblica e Il Manifesto, come pure la rivista L'Espresso,

che hanno ottenuto un seguito di massa nel corso degli anni ‘70. Un ruolo particolarmente funesto è stato quello di La Repubblica di Eugenio Scalfari (editore l'imprenditore italiano Carlo De Benedetti),

con cui si è riusciti a corrompere culturalmente i comunisti, facendo loro introiettare dapprima un'ideologia socialdemocratica, poi un

approccio via via sempre più aperto al liberalismo e al liberismo. Anche /! Manifesto ha svolto un ruolo complessivamente deleterio: nato nel 1969 dalla cacciata dal PCI di un gruppo di dissidenti

471

critici verso l'Unione Sovietica, il giornale ha spinto alle estreme conseguenze l’antistalinismo, giungendo negli anni ad un anti-sovie-

tismo che ha anticipato e appoggiato la serie di svolte berlingueriane, attaccando in parallelo alla radice l’ideologia del marxismo-leninismo. Nel corso degli anni // Manifesto ha dato spazio alle forme più disparate possibili di eterodossia marxista, diventando il principale

punto di riferimento dei settori di classe critici verso la linea collaborazionista del PCI (la stagione del “compromesso storico” e della “solidarietà nazionale”) e successivamente per coloro che hanno vissuto

gli anni ‘80 e la caduta del Muro di Berlino come una crisi di identità e una necessità di scoprire nuove vie ideologiche per rinnovare il

concetto di “sinistra”. L'esito ultimo di questo percorso, fondato sulle elaborazioni teoriche di Toni Negri, Mario Tronti e di tutto quel

filone “marxista occidentale” più recente, è stato l'approdo ad un approccio anticomunista, appiattito su un’ideologia socialdemocratica antiliberista che ribadisce la necessità di costruire una sinistra amplia,

plurale e “non dogmatica”. La storia del fallimento del PRC è difficilmente comprensibile senza aver chiaro l’influsso culturale e politico esercitato da personalità come Rossana Rossanda e dal suo gruppo.

L'unico altro giornale italiano della Seconda Repubblica capace di svolgere per un certo periodo un ruolo progressivo, contribuendo a tener fermo l’obiettivo di una linea di classe e di critica capitalistica, è stato Liberazione, ma solo per un periodo limitato, finendo poi anche

questo per essere diretto da un anticomunista come Piero Sansonetti,

funzionale a diffondere in tutto il Partito il “Bertinotti-pensiero”. Oggi non ci sono in Italia quotidiani adeguati alla fase. Su questo fronte la borghesia italiana ha ottenuto un indiscutibile trionfo, così come l’ha ottenuto nella “normalizzazione” del canale televisivo “Raitre”, diventato un'appendice del Partito Democratico,

e nell’enorme diffusione del giornale // Fatto Quotidiano, giornale presentarosi come “anti-sistema” ma sostanzialmente riconducibile ad un buon giornale liberale d’inchiesta, un organo “crociano” che ha

condotto negli anni una meritevole battaglia sull’onestà e contro la corruzione sistemica dei ceti politici e della borghesia, ma senza avere un preciso punto di vista di classe capace di mostrarne i nessi con il sistema capitalistico. In questi rermini si spiega perché, mantenendo

un approccio sostanzialmente corporativista, sia diventato il giornale

preferito dell'elettorato del M5S, partito populista compatibile con il sistema imperialista. Anche i telegiornali più critici e professionali, 472

quello dei canali “La7” e “Rainews24”, non sono da meno rispetto ai media più reazionari quando si tratta di falsificare l'informazione riguardante le questioni di politica estera o quelle riguardanti episodi

di conflittualità in politica interna. Chi volesse quindi trovare organi slegati dal controllo attuato sistematicamente dall’imperialismo deve necessariamente rivolgersi al web, con tutti i rischi per quanto riguarda la professionalità del

servizio offerto. Si possono però segnalare a tal riguardo una serie di organi di informazione e di progetti particolarmente significativi. In primo luogo il lavoro svolto dal Centro di Cultura e Documentazio-

ne Popolare, che da anni porta avanti il progetto “Resistenze”', teso a lottare contro il revisionismo storico sul piano culturale, ridando

spazio ad opere, saggi, articoli, discorsi spesso trascritti ex novo, ma anche a tradurre una serie di contributi provenienti da tutto il mon-

do. In questo libro si è fatto ampio uso di questo portale, che ha portato avanti un’opera meritoria e lodevole, così come si è fatto ampio uso dei materiali pubblicati sul sito “Marx21”?, curato dall'omonima

Associazione Politico-Culturale, di cui è staro Presidente Domenico

Losurdo e che vede tra le proprie firme alcuni tra i principali intellettuali marxisti italiani. Oltre a svolgere un lavoro di ricerca analitica e culturale in senso ampio (per la quale l'Associazione produce monografie e una rivista cartacea), dando spazio a voci non conformi con quelle del sistema dominante, il portale è diventato negli anni un prezioso punto di riferimento per le questioni di politica estera, sforzandosi di tradurre analisi, comunicati, documenti dei partiti comunisti di tutto il mondo. In tal senso la principale ma non esclusiva fonte è il portale “Solidner”*, che raccoglie i comunicati provenienti da tutti i principali partiti comunisti del mondo, nelle diverse lingue

nazionali spesso tradotte in altre lingue. Rilevante è poi l’Archivio di tutti i materiali pubblicati sulla rivista L'Erresto, che ha permesso di non disperdere un patrimonio culturale immenso, preservando un punto di vista di classe su molti aspetti fondamentali della Storia del ‘900. Sempre sulle questioni internazionali è preziosissimo il lavoro

' http://www. resistenze.org. “http://www. marx2 1.it.

*http://www.solidnet.org/.

473

svolto dalla Redazione del giornale online L'Antidiplomatica', che riporta quotidianamente con professionalità notizie spesso censurate

provenienti da ogni angolo del mondo, con neutralità ed equidistanza, mostrando però di aver chiari i processi della distorsione mediatica derivanti dal controllo esercitato dall’imperialismo. Negli anni si è rivelato costante e professionale anche il lavoro svolto dal giornale comunista online Contropiano?, il quale, grazie al lavoro svolto dalla

Rete dei Comunisti e ai contatti con il mondo del sindacalismo di base, ha saputo rivelarsi particolarmente utile soprattutto per la

cronaca degli episodi di conflittualità riguardanti la politica interna italiana, ma spesso adeguato anche per quanto riguarda le questioni di politica estera. Il giornale più recente, in crescita costante grazie alla professionalità e al livello elevato dei suoi contenuti, è il giornale

comunista online La Città Futura®, settimanale che si presenta non tanto come un portale di informazione diretta degli eventi, quanto piuttosto di rielaborazione critica, analitica in senso marxista, dando spazio anche al dibattito politico e culturale. Segnaliamo ancora che dopo la sospensione avvenuta nel 2012, è stata avviata una nuova serie di Marxismo Ogg?”, sotto forma di rivista on line. Sul sito sono

disponibili i nuovi materiali e l'archivio della serie storica dal 2000 al 2012. La nuova serie si pone l’obiettivo di diventare una vera e propria rivista di ricerca scientifica marxista per un'elaborazione teorica che vada oltre alle contingenze politiche. Attualmente il sito ospita una “miscellanea” di saggi e articoli e le prime voci di un dizionario del lessico marxista. Vi sono inoltre molti altri siti web di carattere locale o settoriale che svolgono un lavoro politico utile, ma che diventa qui impossibile elencare con esaustività e precisione. Non è infine da trascurare ormai il ruolo svolto dai social network per l’informazione, la propaganda e la formazione politica.

In questi anni è diventato un importante punto di riferimento la pagina facebook “I Maestri del Socialismo”, che si è posta l’obiettivo di recuperare criticamente nel tempo una serie di contenuti caduti

‘hup://www.lantidiplomatico.it. ? http://contropiano.org/. “ https://www.lacittafurura.it/. ? htrp://www.marxismo-oggi.it/.

474

nel dimenticatoio, al fine di riproporli ad un discreto pubblico (la pagina, seguita da 20 mila persone, ha raggiunto in passato tra i 50 mila e i 100 mila contatti settimanalmente con i propri contenuti)

con l’obiettivo esplicito di fare da anello di congiunzione trai settori progressisti italiani e i portali fin qui nominati, attraverso un lavoro culturale e politico. Sempre su facebook da segnalare il piccolo “caso mediatico”

della pagina “Pastorizia & Perestrojka”, la quale a fine 2017 conta oltre 150 mila “mi piace”: presentandosi come una pagina goliardica, essa rivela una connessione sentimentale con la cultura filo-sovietica giocando sull’impatto visivo di immagini, testi e video in esplicita

polemica con l'appiattimento della sinistra su posizioni socialdemocratiche c riformiste, rivendicando di fatto l’appartenenza ad una Storia scomoda e alternativa. “Pastorizia 8 Perestrojka”, grazie al suo

approccio ironico e umoristico, è senza dubbio il luogo digitale di impostazione filo-comunista più diffuso tra le giovani generazioni. C'è da sospettare che sia anche in reazione alla crescita impetuo-

sa delle pagine “anti-sistema”, di critica e informazione politica, che dall'inizio del 2018 l’azienda di Marx Zuckerberg abbia approvato nuovi criteri che penalizzano enormemente la visibilità delle pagine pubbliche, promuovendo un ritorno di visibilità maggiore alle pagine private degli utenti iscritti. Non c'è da stupirsene troppo dopo quanto derro finora.

Lo sviluppo di organi di informazione autonomi dal grande Capitale è dunque un fattore fondamentale. Ad essi si intende accompagnare la costruzione del portale “Intellettuale Collettivo”*, con i contenuti di A centanni dalla Rivoluzione d'Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo, da aggiornare e aumenta-

re, come strumento ulteriore per la formazione politica razionalizzato

e strutturato secondo la direttrice rematica presentata in quell’opera. In questa fase storica si consiglia quindi a tutti i proletari italiani di

seguire criticamente questi organi di informazione, sostenendoli economicamente e favorendone la diffusione’.

*http://intellettualecollettivo.it/. *Il seguente paragrafo è riportato, con leggeri ritocchi, da A. Pascale, /n Difesa del Socialismo Reale, cit., cap. 23, paragrafo 12.

475

2. Appello alla battaglia culturale Contro il revisionismo storico

Sono passati ormai quattro mesi da quando è stato pubblicato online sul sito www.intellettualecollettivo.it il libro A centanni dalla

Rivoluzione d'Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo. Oltre 1200 persone l'hanno già scaricato e iniziato a

leggere e i più rapidi hanno forse già capito, sulla base delle analisi e tesi presenti, quanto grande fosse il buco nella storiografia italiana (e non solo) recente, e quanto sia di conseguenza inadeguata e insuffi-

ciente l’analisi teorica delle principali organizzazioni partitiche della sinistra italiana, finanche quella frammentata comunista, educatesi per decenni in un clima di trionfo del revisionismo.

Il silenzio politico su un'analisi leninista Non stupisce d'altronde la prudenza con cui tutti i partiti (compreso il mio, quel PRC “libertario” e “antistalinista” di cui sono membro del Comitato Politico Nazionale)' hanno finora evitato di riprendere anche solo la notizia della pubblicazione, rilanciata invece da Marx21.it, La Città Futura, Resistenze.org e dal professore universitario G. Azzarà, oltre a svariati altri militanti e singole organizzazioni territoriali di diversi partiti attraverso i propri canali mediatici più ristretti. Per fortuna l’opera si sta diffondendo lo stesso, grazie al passaparola e ad una continua sponso-

' Da metà settembre 2018 non più a seguito della lettera pubblica di dimissioni e di uscita dal PRC. Vd A. Pascale, Dal PRC al marxismo-leninismo, Man21. it, 17 settembre 2018.

477

rizzazione sui social network. Forse quando il testo verrà pubblicato in formato cartaceo sorgerà maggiore attenzione verso un libro che

ritengo imprescindibile per chiunque voglia capire come ricostruire la sinistra in Italia oggi senza ripetere per l'ennesima volta ricette

politiche scialbe e inadeguate. Viviamo inconsapevoli in un mondo orwelliano Non pretendo certo di aver risolto tutti i nodi teorici e le contraddizioni politiche che hanno avuto storicamente i vari “socialismi reali” (con particolare riferimento alle vicende

dell'URSS). Su questi aspetti non ho potuto far altro che porre interrogativi e azzardare alcune risposte. Il vero fattore aggiunto di questo lavoro di stampo semi-enciclopedico (2.500 pagine per ricostruire quella che è di fatto una bozza di storia della lotta di classe mondiale nel periodo dal XX secolo fino ad oggi) è in

realtà l’aver ridato un quadro storico veritiero dei fatti. Il che offre un punto di vista che consente di formulare la seguente affermazione: viviamo inconsapevoli in un mondo orwelliano, in un totalitarismo morbido, “liberale”, in cui però la Storia è stata a tal punto riscritta, da essere ormai entrata nel senso comune, con una resistenza sempre più scarsa perfino nel ceto intellettuale progressista (ormai quasi sussunto dalla classe dominante borghese nei suoi rappresentanti mainstream). La causa originaria del “pensiero unico” Si è svelato a tutti quanto sia stato avanzato il revisionismo storico dopo l'offensiva ideologica dell’imperialismo occidentale,

la quale a dir la verità è sempre esistita da quando esiste l’imperialismo, ma che è dilagata prepotente dagli anni ’50 perfino negli ambienti progressisti, proletari e comunisti, ottenendo progressivamente sul finire del secolo una vittoria schiacciante con il trionfo del TINA (“There is no alternative”) e della diffu-

sione del paradigma analitico “totalitarismo comunista”, nonché “stalinismo”.

478

I tre picconatori del socialismo sovietico

Un'offensiva che è stata possibile solo grazie ad una manovra politica sciagurata di Chrustév, che raccontando falsità su falsità (oggi lo sappiamo per certo, grazie ai recenti studi storici) nel 1956 ha favorito volutamente l'avvio dell'offensiva anticomunista e antileninista in tutto il mondo, devastando il movimento comunista

internazionale, fino ad allora in rottura solo con il deviazionismo di Tito. Chruséév si è dimostrato il secondo grande picconatore del

socialismo sovietico dopo le manovre di Lev Trockij e soprattutto dell’anticomunista infiltrato nel PCUS Gorbacev.

La risposta definitiva al “libro nero del comunismo”

Con /n Difesa del Socialismo Reale viene fatta piena luce sulle falsità riguardanti i “crimini del totalitarismo comunista”, dando avvio

alla prima grande offensiva ideologica contro il revisionismo storico “liberale”. La borghesia ha condotto indisturbata (anzi spesso e volentieri assecondata anche dagli intellettuali marxisti”) negli ultimi

decenni una linea ideologica di esaltazione di una libertà emanata solo formalmente e con una terribile ipocrisia, in quanto fondata sull’individualismo e sull’omissione sistematica dei propri crimini compiuti contro i popoli di tutto il mondo, compreso quello della propria stessa nazione, come ci insegna peraltro un'analisi materialista di tutta la Storia dell'Umanità. Cade il velo di maya e si svela il crimine Con quest’opera si dimostrano scientificamente gli orrori compiuti dall’imperialismo in tutto il mondo (ai quali spesso solo i comunisti e i sovietici si sono opposti) in un dominio che continua

tuttora nella gran parte dell'America Latina, in Africa, in buona parte dell'Asia, colpendo perfino i settori più deboli dell'Europa.

Dopo aver letto questo libro i comunisti potranno buttare in faccia a tutti i benpensanti e ai moralisti la vera natura violenta della loro

“democrazia”.

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Lo scontro è ancora tra imperialismo e socialismo Per comprendere le vicende storiche del ‘900, strettamente intrecciare e in continuità con il nostro mondo attuale, non è possibile ragio-

nare in termini di ‘occidentali contro orientali”, o “democrazie contro dittature”, e tanto meno “cristiani contro islamici” o “italiani contro immigrati”. Il principale canone interpretativo deve essere quello “im-

perialismo contro socialismo”, in una lotta che è ben lungi dall’essere terminata, e che minaccia anzi di risolversi in maniera non pacifica in

un grande scontro finale che in questo XXI secolo potrebbe devastare ogni angolo del mondo, nel caso in cui l'imperialismo dominante, quello statunitense, non accetti pacificamente di perdere il proprio impero egemonico mondiale costruito durante gli anni della Guerra Fredda.

Cosa dicono i comunisti in Italia? Occorre obbligare le organizzazioni comuniste a parlare di

questo libro e delle tesi storiche e politiche che vi sono contenute. A tal riguardo è stata fatta la richiesta alle segreterie dei principali partiti comunisti italiani (PRC, PCI, PC) e delle relative

giovanili (GC, FGCI, FGC) di prendere posizione su tale opera?. Gli sviluppi politici successivi imporrebbero ora di fare la stessa richiesta anche ad organi di informazione come Contropiano e

a organizzazioni come Potere al Popolo, che ne potranno trarre giovamento per darsi un profilo ideologico-politico più chiaro in

punti fondamentali riguardanti l'Europa, il sindacalismo e sull’analisi delle questioni internazionali. Sarebbe in effetti opportuno che anche il Partito Comunista aprisse un dibattito sulla propria

visione delle questioni internazionali, ed in particolar modo sul ruolo progressivo giocato negli ultimi decenni dalla Repubblica Popolare Cinese. AI momento la definizione della stessa come “blocco imperialista” è assolutamente insufficiente e inadeguata, e la questione è tutt'altro che secondaria.

? Delle organizzazioni citate ha risposto per ora il PCI, per mezzo di una recensione di Ruggero Giacomini, vd R. Giacomini, Sul corposo lavoro di Alessandro Pascale, Partitocomunistaitaliano.it, 20 agosto 2018.

480

La “battaglia culturale” da farsi In questo contesto diventa non solo una scelta, ma una necessità

storica la scelta di portare avanti una “Battaglia Culturale” che non esiti ad imbracciare la verità storica e contribuire a diffonderla in primo luogo alla residuale militanza comunista, la quale può darsi peraltro diversi obiettivi concreti di intervento politico: 1) forgiare con una salda formazione politica la militanza rivoluzionaria di migliaia di partigiani che credono ancora nella necessità di lottare per cambiare il mondo; 2) lanciare una grande campagna contro il revisionismo storico promosso dalle massime istituzioni italiane, finanche i Presidenti della

Repubblica (vedi il “Giorno del Ricordo” istituito nel 2004), in un processo di ricostruzione della storia in senso neofascista e anticomunista;

3) promuovere la revisione sistematica dei manuali di testo scolastici per aggiornarli alle scoperte più recenti della storiografia;

La necessità di una nuova strategia comunista e internazionalista 4) prendere in cura una traduzione in inglese dell'opera per diffondere presso le altre organizzazioni comuniste di tutto il mondo uno strumento utile a riprendere un'analisi ed una teoria condivisa. Questa peraltro sarebbe la necessaria premessa per reintrodurre il ragionamento dell’istituzione di una seria Internazionale Comuni-

sta permanente e fondata su una salda consapevolezza teorica e politica delle problematiche attuali a livello mondiale, e di conseguenza di quale debba essere il ruolo dei comunisti nell'Europa Occidentale, una delle aree di punta dell’imperialismo mondiale.

L'aggiornamento storico della categoria antimperialista Rimettiamo al centro l’analitica leninista dell’imperialismo, aggiorniamola agli insegnamenti forniti da 100 anni di Storia e con-

frontiamola con i dati empirici offerti dalla presente realtà globale: se utilizziamo queste preziose “lenti” non potremo che concludere solo con la consapevolezza che la proposta politica dei comunisti italiani 481

oggi deve essere quella di far uscire il Paese dalle catene delle strurrure

imperialiste della NATO e dell’Unione Europea.

La questione del potere e la rivoluzione L'ottica strategica necessita di porre la questione della presa

del potere per la trasformazione in senso socialista della società. Solo attraverso una rivoluzione socialista sarà possibile riscattare le speranze delle generazioni presenti e future di questo Paese, dando anche un segnale di emancipazione ai popoli di tutta Europa, invitati

a sollevarsi pure loro dalla tirannia della finanza internazionale e delle relative borghesie nazionali. L'imminente scontro di classe mondiale Solo se saremo

capaci

di costruire un simile scenario

avremo

dato un contributo fondamentale nell’imminente scontro di classe mondiale tra l'imperialismo statunitense, sostenuto dagli alleati della guerrafondaia NATO, e

il resto del mondo che ha osato alzare la testa

grazie all’esempio e al supporto della Repubblica Popolare Cinese, di Cuba, della Corea del Nord, del Venezuela e di tanti altri Paesi, socialisti e non, che osano ancora disobbedire agli ordini di Washington decidendo da sé come regolamentare le proprie politiche economiche.

Il declino dell'impero statunitense

Anche se ancora molti compagni non lo capiscono, la borghesia sa bene come nonostante la caduta dell’Unione Sovietica, il

grande nemico storico dell’imperialismo mondiale nel XX secolo, la situazione stia ora cambiando: dopo oltre 70 anni si sta incrinando sempre di più il dominio dell’Impero Statunitense e dei suoi alleati (Italia compresa) sul resto del pianeta, e ciò avviene in primo luogo

grazie alla Repubblica Popolare Cinese grazie alla sapiente guida del Partito Comunista Cinese, che in 30 anni ha tolto 700 milioni di persone dalla povertà, ha trasformato il Paese nella prima economia

mondiale in termini di PIL e sta ristrutturando la globalizzazione sul482

la base della cooperazione economica internazionale pacifica. Non è un caso che la maggior parte dei Paesi appartenenti a BRICS e ALBA

siano finiti in “crisi” o abbiano visto cambi di governo politico più o meno “regolari” negli ultimi anni. La reazione statunitense è feroce organizzando

in questa fase storica rivoluzioni

colorate, golpe, de-

stabilizzazioni economico-commerciali e guerre ovunque. L'Impero però fa sempre più fatica a contenere le Resistenze incarnate da Governi che difendono la propria dignitosa indipendenza. Nella Storia è accaduto di rado che un Impero abbia accettato il proprio declino senza far ricorso ad ogni strumento possibile in proprio possesso. Il rischio di una nuova Guerra, forse mondiale, non è da escludere

del tutto. Tutto è possibile ma niente è impossibile per i popoli che prendano coscienza storica, politica e di classe. Non esiste nulla di più forte delle masse, quando si organizzano. Appello pubblico alla sottoscrizione

Non sarà possibile però compiere alcun passo avanti per noi italiani se non si riuscirà a lanciare una “Battaglia Culturale” alla quale

sono chiamati a raccolta anche tutti gli intellettuali, gli accademici, i professori e gli uomini onesti di buona volontà. Auspico però che siano soprattutto lavoratrici e lavoratori ad aderire, oltre a chiunque altro voglia sottoscriverlo a livello individuale o in quanto esponente sindacale, politico, associazionistico, ecc. A tutti costoro chiedo di diffondere l’opera e di farla conoscere con ogni mezzo possibile. Questo è l'appello che faccio e invito chiunque voglia sottoscriverlo (privatamente o pubblicamente) o discuterlo a contattarmi (info@ intellettualecollettivo.it).

La Verità prima o poi trionferà. Solo allora sarà possibile una fase nuova per l’Umanità. O socialismo o barbarie Sta solo noi a decidere se provare ad accelerare i tempi della

riscossa proletaria o se accettare di stare dalla parte della barbarie. Qualcuno pensava che “o socialismo o barbarie” fosse un'esagerazione, al limite solo un accattivante ma vuoto slogan. Oggi sappiamo 483

che non è così. Di fronte agli orrori e al male assoluto del capitalismo si può essere complici, indifferenti o partigiani. Ognuno faccia la propria scelta di campo. Qui si cercano Partigiani per il Socialismo.

Alessandro Pascale Milano, 15 aprile 2018*

> A. Pascale, Appello alla Battaglia Culturale contro il Revisionismo Storico, Intellettualecollettivo.it, 15 aprile 2018, dove viene aggiornato con l'elenco dei sotro-

scrittori; l’Appello è stato rilanciato da Marx21.it in data 20 aprile 2018.

484

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Aldous Huxley: hetps://it.wikiquote.org/wiki/Aldous_Huxley Bashar al-Assad: https://it.wikipedia.org/wiki/Bashar_al-Assad Che Guevara: https://it.wikiquote.org/wiki/Che_Guevara

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Erich Fromm: https://it.wikiquote.org/wiki/Erich_Fromm Hanns Eisler: htrp://en.wikipedia.org/wiki/Hanns_Eisler Herbert Marcuse: https://it.wikiquote.org/wiki/Herbert_ Marcuse Hermann Gring: htrps://it.wikipedia.org/wiki/Hermann_G%C3%Béring George Orwell: https://it.wikipedia.org/wiki/Gcorge_Orwell Il libro nero del comunismo: htrps://it.wikipedia.org/wiki/Il_libro_nero_ del_comunismo News Corporation: htrps://it.wikipedia.org/wiki/News_Corporation Obsolescenza programmata: https://it.wikipedia.org/wiki/Obsolescenza_programmata Rupert Murdoch: htrps://it.wikipedia.org/wiki/Rupert_Murdoch Stalin: https://it.wikiquote.org/wiki/Stalin Voutube

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Finito di stampare nel dicembre 2018 presso Grafica Elettronica srl, Napoli