Storia del secondo Tempio. Israele tra VI secolo a. C. e I secolo d. C. [2 ed.] 9788868981549

Per l'Israele antico, il periodo compreso tra VI secolo a.C. e I d.C. - tra la distruzione del primo Tempio di Geru

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Storia del secondo Tempio. Israele tra VI secolo a. C. e I secolo d. C. [2 ed.]
 9788868981549

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Paolo Sacchi Storia del Secondo Tempio Israele tra VI secolo a. e. e I secolo d.C. nuova edizione a cura di Luca Mazzinghi

Per l'Israele antico, il periodo compreso tra VI secolo a.C. e I ?. « Tutto ciò mostra come sia adatto l'uso della prima parola. Il salmo infatti parla della vera via distinta da quella falsa. L'uomo felice è quello che mar6 Cfr. T. BOMAN, Das Hebriiische Denken im Vergleich mit dem Griechischen, Gottingen 19654, p. 57. 7 Cfr. N.H. SNAITH, The Language ofthe Old Testament, in: The Interpreter's Bible, I, Nash­ ville-New York 1952, p. 224.

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Storia del Secondo Tempio eia diritto, perché, come dice l'ultimo verso, "Ben conosce il Signore la via dei giusti", mentre "la via degli empi conduce alla rovina" ». Come è ovvio, si tratta di nozioni che dovevano essere ignote nella maniera più assoluta al poeta che scrisse questi versi, come ai suoi lettori sia contemporanei sia vissuti in tutti i secoli fino al sorgere della linguistica moderna. Questo problema metodologico è molto importante dato certo indirizzo di stu­ di apparsi soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta. A proposito vedi: J. BARR, La semantica del linguaggio biblico, Bologna 1968 (compresa la mia introduzione che ridimensiona qualche critica troppo radicale a tutta la più recente e più importante tradizione di studi); T. BOMAN, Das Hebriiische Denken im Vergleich mit dem Griechi­ schen, Gottingen 1952; J. PEDERSEN, Israel, Its Life and Culture, 4 voli., Copenhagen 1926-1940, C. TRESMONTANT, Essai sur la pensée hébrai"que, Paris 1953. Anche se questi tentativi di caratterizzare il pensiero ebraico non sono accettabili, ciò non toglie che non si possa indicare qualche atteggiamen­ to di fondo che si ripete come costante attraverso le generazioni, nella sto­ ria ebraica e giudaica. Non si tratta di indicare una struttura di fondo del pensiero, ma piuttosto di mostrare un suo orientamento, quale sia l'idea, guidato dalla quale e per chiarire la quale, il pensiero dell'ebreo si muova. Si può affermare che il pensiero sia ebraico sia giudaico è orientato verso la ricerca della salvezza. Il problema di fondo è «come essere salvo». In que­ sto «essere salvo» e nelle sue dimensioni, che possono anche andare al di là dell'individuo e dello stesso popolo di Israele, si radica la verità ( 'emet). Il greco ricerca sempre come verità (iiì..�0rnx) un elemento universale; pertan­ to i singoli avvenimenti, i singoli uomini (tutto ciò che la filosofia scolastica definisce esistere per accidens) restano al di fuori del discorso del pensiero greco, che può prendere in considerazione il singolo solo in quanto parte­ cipa dell'universale. Al contrario l'attenzione dell'ebreo è rivolta al singolo avvenimento, allo stesso modo e forse con maggior forza che non alle leggi immutabili del cosmo. È quello che si suol definire atteggiamento pratico del pensiero ebraico, o anche particolare attenzione al singolo fatto storico. Se il pensiero ebraico ebbe sempre il suo centro, più o meno cosciente, nell'idea di «salvezza», bisogna dire subito che la stessa concezione di «sal­ vezza» mutò col tempo. Durante il periodo ebraico essa fu essenzialmente «salvezza del popolo»: in seguito, a partire da Ezechiele, divenne oltre che «salvezza del popolo» anche «salvezza dell'individuo», ma nel giudaismo sadocita, quello dei sacerdoti del Tempio, non fu mai «salvezza nell'aldi­ là». I sadducei negarono sempre la risurrezione. E il passaggio da una con­ cezione di salvezza all'altra significò un profondo cambiamento della con­ cezione dell'uomo, ché è altro vedere l'uomo limitato fra la sua nascita e la sua morte e altro guardarlo sullo sfondo dell'eterno. Il passaggio da una concezione all'altra è marcato dalla credenza in una vita post mortem, che apparve nella cultura ebraica fra IV e m sec. a.C. in scritti rifiutati in seguito dalla tradizione ebraica.

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Introduzione La salvezza è indicata come idea madre del pensiero ebraico indipenden­ temente da ogni forma che potesse assumere nella storia e indipendente­ mente da tutte le riflessioni che si svilupparono su questo tema. È naturale che gli ebrei soffermassero molto la loro attenzione sui mezzi per raggiunge­ re la salvezza. Questi possono essere raggruppati in due tipi fondamentali, cui possiamo dare i nomi molto moderni di «teologia del Patto» e «teologia della Promessa». Si tratta di due modi di concepire la religione diversi per non dire opposti. Sono entrambi percepibili fino dalle pagine più antiche che ci abbia conservato la letteratura ebraica. Secondo la teologia della Promessa fra Israele e Dio esiste un rapporto speciale e privilegiato, per cui la sua esistenza e sopravvivenza è garanti­ ta dall'impegno stesso di Dio. In questa visione delle cose le colpe umane possono suscitare l'ira della divinità offesa, ma in nessun caso condurre alla catastrofe definitiva. Non solo, la tendenza degli autori che si muovono in questa sfera è quella di sottolineare il piano salvifico di Dio che è destinato a realizzarsi indipendentemente dalle colpe umane. L'uomo è visto come dominato da una forza che lo spinge verso il ma­ le, che può in qualche caso essere identificata con l'impurità. In ogni caso è la natura stessa dell'uomo che è inclinata al male (Gen. 8,21). Per questo il castigo del diluvio fu inutile. Sarebbe stato necessario non solo elimina­ re gli uomini dalla faccia della terra, ma rinnovarli. La salvezza pertanto potrà venire solo all'uomo quando Dio vorrà mandargliela sia per un suo intervento diretto, sia per mezzo di qualche personaggio particolarmente dotato di carismi. Ogni movimento messianico si radicherà sempre in una concezione antropologica di questo genere. Quanto più l'uomo ha il senso dell'infinita potenza di Dio e dell'insufficienza umana, tanto più tende a considerare la salvezza dono gratuito di Dio, cui l'uomo non potrebbe mai giungere con le sue sole forze. Anche la giustizia, che resta l'aspirazione fondamentale dell'anima ebrai­ ca, non potrà essere realizzata sulla terra che per mezzo di un unto manda­ to da Dio. «Un germoglio uscirà dal tronco di Yesse [ . . . ]. Non agiranno più iniquamente [ . . . ] » (Is. 11,1 e 9 [due passi di epoca probabilmente diversa]). Chi vive la sua religiosità in questa luce è portato a sottolineare l'impre­ vedibilità dell'azione di Dio: «Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò mise­ ricordia di chi vorrò aver misericordia» (Es. 33,19 [di fonte yahwista, secon­ do la vecchia terminologia accademica]). Questa concezione ha spesso tratti universalistici: vedi la chiamata di Abramo: «Allontanati dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che Io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome che sarà una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediran­ no maledirò; in te saranno benedette tutte le genti della terra» (Gen. 12,1-3). Il Dio della Promessa è un Dio più vicino all'uomo di quello del Patto. YHWH ha eletto il suo popolo perché lo ama e, se gli ha dato la Legge è per sanzionare questa unione fra lui e il suo popolo; si può anche lasciar vede-

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Storia del Secondo Tempio re dagli anziani di Israele sospendendo la terribile forza del sacro: «Saliro­ no sul monte Mosè, Aronne, Nadab, Abiu e settanta anziani di Israele. Essi videro il Dio di Israele: sotto i suoi piedi c'era come un pavimento in lastre di zaffiro, simile in purezza al cielo stesso. Contro questi privilegiati fra i figli di Israele Egli non stese la mano: videro Dio, mangiarono e bevvero» (Es. 24,9-11; testo di origine incerta). David peccò, ma non per questo Dio gli negò la promessa di un regno eterno. Al contrario la teologia del Patto ha il suo centro nella libertà e respon­ sabilità dell'uomo. Dio ha scelto Israele e gli ha offerto la sua Legge: questo l'ha accettata ed è diventata come una somma delle clausole che regolano il Patto che lega Dio agli ebrei. In un passo che la tradizione accademica at­ tribuiva un tempo all'Elohista si legge: «Mosè andò a riferire al popolo tut­ te le parole di YHWH e tutte le norme. Tutto il popolo rispose ad una voce e disse: "tutto ciò che Dio ha detto, noi lo faremo". Mosè scrisse tutte le pa­ role di YHWH, poi si alzò e costruì un altare ai piedi del monte (Sinai), con dodici stele per le dodici tribù di Israele. Incaricò alcuni giovani ebrei di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione per YHWH. Mosè prese la metà del sangue, la mise in tanti catini e ne versò una metà sull'altare. Quindi prese il libro del Patto e lo lesse al popolo, che dis­ se: "Quanto YHWH ha detto, noi lo faremo e lo osserveremo" . Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: "Ecco il sangue del Patto, che YHWH ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole"» (Es. 24,3-8). Mosè contaminò così Dio, invisibile sull'altare, e il popolo con il sangue del Patto. Il senso del gesto di Mosè è questo: ogni volta che Israele trasgre­ dirà una clausola del Patto (il Patto fu concluso «sulla base di tutte queste parole») la contaminazione prodotta dal sangue si scatenerà contro Israele. La salvezza del popolo che Dio ha eletto, dopo l'elezione di Abramo non si fonda più sul dono gratuito di Dio, ma ha il suo fondamento nell'uomo che osserva i comandamenti. In questa visione teologica ha grande importanza la libertà dell'uomo, intesa come libertà di scelta fra il bene e il male, cioè, in termini ebraici, tra il «fare» i comandamenti di Dio e il rifiutarli: l'uomo gestisce, se così può dirsi, la storia insieme con Dio; anzi il conseguimento della salvezza sem­ bra posto essenzialmente nelle mani dell'uomo. È vero che Dio ha donato all'uomo dei comandamenti di salvezza, ma questi possono divenire effi­ caci solo nei limiti in cui l'uomo li osserva. La responsabilità della salvezza e della perdizione posa tremenda sulle fragili spalle dell'uomo. Si leggano le parole del Deuteronomio che procede nel solco della teolo­ gia del Patto: «Ecco, Io pongo davanti a te la vita e il benessere, la morte e la sventura [ . . . ] » (30,15). Salvezza e perdizione dipendono dalla scelta che farà Israele, se eseguire o meno gli ordini di YHWH suo Dio. Durante il periodo persiano la teologia del Patto si affermerà sempre di più in seno al giudaismo che in seguito diventerà canonico. Fuori di esso si

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Introduzione svilupperanno piuttosto i presupposti della teologia della Promessa. Duran­ te il periodo ellenistico e romano la presenza di queste due linee di fondo si farà sempre più chiara e più netta all'interno della società giudaica. Che ciò corrisponda alla divisione antica fra testi di tipo "Promessa" e testi tipo "Patto" è discutibile e improbabile; ma il problema antico, che significato avesse la Promessa del regno eterno a confronto con la richiesta da parte di Dio di fedeltà a Lui e ai suoi comandamenti, riaffiorerà sempre con risvolti ogni volta sempre nuovi e diversi. Insisto che le espressioni «teologia del Patto» e «teologia della Promes­ sa» non indicano due sistemi teologici, ma solo due atteggiamenti di fon­ do dell'anima ebraica. L'atteggiamento della teologia del Patto può essere presente in testi che non parlano del Patto e la teologia della Promessa in testi che non parlano mai di promesse. Non solo: all'interno della teologia del Patto bisogna distinguere quando l'accento è più forte sul concetto di "Patto" e quando è più forte su quello di "Legge" Nel presentare queste idee madri del giudaismo come capaci di carat­ terizzarlo di fronte alla cultura greca, sono perfettamente cosciente che bi­ sogna respingere ogni schematizzazione, perché anche nel mondo greco è possibile trovare atteggiamenti simili a quelli ebraici e, sia pure in ma­ niera sporadica, non è impossibile trovare anche nel mondo ebraico at­ teggiamenti che, secondo la definizione, dovrebbero essere definiti gre­ ci. Per esempio, la hybris eschilea che conduce i persiani alla catastrofe di Salamina, mostra un'interpretazione della storia capace di cogliere in un avvenimento singolo una logica che governa la storia nel suo insieme in una luce religiosa8 • Al contrario, da parte ebraica, Qohelet che fonda il suo pensiero in una meditazione sulle leggi cosmiche, accetta qualcosa del ra­ zionalismo greco. Penso che i termini della contrapposizione fra mentalità orientale (ebraico-semitica) e quella occidentale (greca) siano stati indicati benissimo da F. Cumont9 : l'Oriente fu religioso, l'Occidente fu (o diven­ ne) razionalista. La caratteristica del razionalismo è quella di pretendere di «giudicare tutte le tradizioni sacre per condannarle o approvarle». Esso pertanto trova il proprio centro in un «io» che si pone come assoluto. Mi sembra che il travaglio dell'uomo razionalista che cerca di creare il mon­ do secondo ragione e che finisce col cozzare contro esigenze umanissime anche se non razionalizzabili, al punto che l'uomo secondo ragione corre il rischio di diventare un non-uomo, sia bene rappresentato dalle ultime tappe del pensiero platonico: dal razionalismo della Repubblica al mag­ giore storicismo delle Leggi10 • 8 Sulla ricchezza e complessità del pensiero di Eschilo, cfr. E. SEVERINO, Interpretazio­ ne e traduzione dell'Orestea di Eschilo, Milano 1985. 9 Cfr. CUMONT, Le religioni orientali, pp. 56-57 10 Cfr. E.R. Dooos, I greci e l'irrazionale, Firenze 19692 (edizione inglese del 1951), spe­ cialmente al cap. VII.

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Storia del Secondo Temp io Il pensiero ebraico, a differenza di quello greco, non si è mai staccato dal presupposto dell'esistenza di una teodicea. Questo, e non altro, credo il mo­ tivo per cui il pensiero ebraico si è sempre affaticato intorno alla salvezza. Questa ricerca ha un senso solo se la divinità vive in qualche modo con gli uomini e si cura delle loro cose; solo così gli avvenimenti non risuonano mai nel vuoto, assurdi per principio, ma, in quanto recano una traccia della volontà di Dio, sono una via per capire e Lui e la storia e la vita del singolo. Dio non è colto come realtà metafisica, autore di un principio che si svi­ luppa in maniera autonoma, ma come volontà fondante il reale intero e nella sua struttura cosmica (il sacro) e nella sua accidentalità quotidiana (la storia). D'altra parte nella storia agisce anche un altro principio che deriva da Dio, ma che ha una sua larghissima autonomia: è il profano che caratte­ rizza l'essenza più autentica dell'uomo, principio che si rivela nella sua li­ bertà d'azione e di giudizio. L'uomo può discutere con Dio (cfr. Gen. 18,2233), può accettare o respingere le sue proposte; se Dio ha scelto Israele, il singolo ebreo ha a sua volta da scegliere o respingere Dio (cfr. Gios. 24,15). Alla coppia sacro-profano la Bibbia pone in relazione la coppia impuro­ puro (cfr. Lev. 10,10 ripreso da Ez. 44,23). Si dice impuro tutto ciò che si at­ tacca all'uomo ledendolo, o meglio, depotenziandolo. Non è impuro il col­ po che ti raggiunga, ma è impura la malattia, specialmente la lebbra. Era inoltre antica convinzione che la vista della divinità uccidesse. Se il sacro incontrato nella sua manifestazione più immediata e diretta, quale si ha nel contatto con la divinità, uccideva11 , incontrato nelle sue forme ridotte, cioè nelle cose, che sono sacre di riflesso in quanto appartengono a Dio, trasmet­ teva all'uomo un fluido, o qualcosa del genere, capace di togliergli la forza, di danneggiarlo. Questo «sacro depotenziato» presente nelle cose è detto impuro e il suo contatto contamina, cioè depotenzia l'uomo. In questa luce va vista l'impurità del sangue, del seme maschile; sem­ pre in questa luce l'impurità di tutti gli animali che, strisciando col ventre a terra ed essendo quindi in contatto con questa che è di Dio, sono anch'essi impuri, come essenzialmente i serpenti e poi tutti gli animali che a questo potevano essere equiparati per la loro forma, quali le anguille, le lucertole ecc. La classificazione degli animali in puri e impuri può non essere chiara nei dettagli, ma è chiara nel principio ispiratore (cfr. Lev. 11). Nell'insieme «sacro-profano/ impuro-puro» il rapporto analogico era alle origini fra sacro e impuro. Al divieto di seminare nello stesso campo semi di natura diversa fa eco la precisazione del Deuteronomio di non seminare altre piante nella vigna e, per spiegare il motivo della proibizione, aggiun­ ge: «perché non diventino sacri né il frutto di ciò che tu ci abbia seminato, né quello della vigna» (Deut. 22,9).

Cfr. l'episodio di Uzza (II Sarn. 2,6-7), l'esclamazione del padre di Sansone, quan­ do ebbe la percezione di essere stato alla presenza di Dio (Giud. 13,22; cfr. anche Is. 6,5). 11

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Introduzione D'altra parte poiché tutto ciò che appartiene a Dio è sacro, Israele stesso è sacro in mezzo agli altri popoli. La concezione della sacertà, il suo valore, muta in questo caso profondamente, ché essere sacri a Dio è un valore. Si ha così una certa ambivalenza della concezione del sacro che era e resta il tremendum, ma diviene anche, ogni giorno di più, il fascinans 12 • C'è il sacro ontico 13 che uccide, ma c'è anche un sacro antropologico che è condizio­ ne privilegiata presso la divinità. In questo nuovo valore, la parola ebraica qodes, che intendo come «sacertà»14, potrebbe essere resa con «santità», ma preferisco attenermi a una traduzione unitaria del termine, non tanto per­ ché traspaia meglio dalla parola italiana la suggestione di quella ebraica, quanto perché la parola italiana «santità» si è andata sempre più caricando del valore di «bontà al massimo grado», valore questo ignoto in ogni caso all'ebraico qodes. Insomma «santità» diverrebbe un termine cifrato a uso de­ gli esperti esattamente come «sacertà»; allora, tanto vale lasciare il termine che coglie meglio il valore originario della parola, cioè «sacertà». Col passare del tempo, verso la fine del periodo persiano, i due concetti di «sacro» e di «puro» si fanno sempre più simili. Israele è sacro a Dio, gli appartiene in una maniera tutta particolare; dunque, deve evitare tutto ciò che, contaminandolo, gli toglie la forza necessaria per avvicinarsi al divi­ no, per potergli appartenere. In questo senso tutti gli ebrei sono come sa­ cerdoti (Es. 19,6), ma il sacerdote soltanto potrà compiere i riti religiosi, e per compierli dovrà avere uno stato di purità superiore a quello del popolo. Il senso originario dell'impuro depotenziante perché sacro, cioè di Dio, si perde in favore di una concezione dell'impuro depotenziante perché im­ pedisce di avvicinarsi a Dio essendo onticamente cattivo, non più «cattivo all'uomo», ma «cattivo in sé». È una storia complessa, cui dedicheremo dello spazio in seguito. Per ora basti notare che questa concezione dell'impurità come forza maligna è antica, quanto il racconto della punizione del serpente che tentò Eva nel paradiso terrestre. Esso infatti fu condannato a strisciare:

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Cfr. R. Orro, Il sacro, pp. 22 ss. e 42 ss. 1 3 Ontologico / ontico: dal gr. i-6 ov, «l'ente». Coppia di concetti risalenti alla filoso­ fia greca: ontologico significa ciò che concerne gli aspetti essenziali dell'essere, ontico ciò che riguarda l'ente concreto, empirico. A conferire importanza e un significato par­ ticolare alla distinzione è stato, nel xx sec., Heidegger, che, fin dal primo periodo della sua riflessione, in Essere e tempo (1927), ne ha fatto uno dei cardini del suo ripensamen­ to della tradizione filosofica occidentale: questa, privilegiando il senso dell'essere come «presenza», cioè come tutto ciò che è stabile, visibile, dato, ha tematizzato gli enti con­ creti (l'ontico) a scapito di tutto ciò che, pur non essendo presente, concreto e visibile, è radicalmente diverso dagli enti (l'ontologico) [dal Dizionario enciclopedico Treccani] . 1 4 «Sacertà», der. del lat. sacer («sacro», e anche «abbandonato alla vendetta degli dèi»), sul modello del ted. Sazertiit. Indica il carattere sacro, la sacralità: la s. di un luo­ go, di un'istituzione. Nel diritto romano arcaico indicava altresì la condizione di chi (designato in lat. come homo sacer), per un delitto da lui commesso contro la divinità o la compagine dello Stato, era «consacrato» alla divinità, cioè abbandonato alla vendetta degli dèi ed espulso dal gruppo sociale [dal Dizionario enciclopedico Treccani] .

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Storia del Secondo Tempio il serpente era evidentemente un animale a quattro zampe, che Dio gli tolse per punizione: costringendolo a strisciare, lo rese impuro. Questa concezio­ ne dell'impurità sarà alla base della prima apocalittica e troverà un ampio sviluppo nell'essenismo. Se l'impurità è male, essa va fuggita: la via verso Dio è fatta di purità e questa coincide ormai con la sacertà. Il problema dell'impuro è uno dei problemi fondamentali degli anni del­ la grande crisi precristiana e sarà affrontato quando l'insieme «sacro-pro­ fano / impuro-puro» secondo l'ordine delle parole del Levitico, è ormai di fatto pensato come «sacro-profano/ puro-impuro», come del resto traduco­ no molte Bibbie moderne senza accorgersi della profonda modernizzazio­ ne che il testo subisce con questo spostamento dell'ordine delle parole, al quale corrisponde un preciso schema di valori. Questa categoria che analizza il reale attraverso il sistema duplice, ma analogo, del «sacro-profano/ impuro-puro», è una buona chiave per capi­ re molti problemi del pensiero ebraico. Qui basti una presentazione di tipo generale; ritorneremo sull'argomento nel cap. 8 della IV parte, per cogliere alcune manifestazioni storiche di questa categoria15. Fare la storia del pensiero ebraico è sempre un po' fare la storia della concezione che gli ebrei ebbero della salvezza. Fare la storia del pensiero ebraico significa descrivere i vari modi in cui la salvezza fu concepita e tutti gli strumenti che sembrarono più adatti per portare a essa. I problemi del giudizio, della retribuzione, della Legge, del messia, del valore della purità erano strettamente legati a quello della salvezza, e ogni modificazione che si apportasse alla soluzione di uno di questi problemi era destinata a riper­ cuotersi su tutti gli altri. Inoltre, l'immagine stessa che si ebbe della salvezza variò con i tem­ pi e con gli ambienti. C'è la salvezza dell'individuo sulla terra e c'è quella dell'individuo fuori dalla terra; c'è la salvezza di Israele e c'è la salvezza di tutti i popoli. C'è da aspettarsi una problematica ricca e complessa, a seconda del pun­ to di vista da cui si pone l'autore. È certo che la salvezza è data da Dio nella sua onnipotenza; ma il giudizio di salvezza è emesso per motivi imperscru­ tabili all'uomo, o per motivi in qualche modo afferrabili? Supposto che Dio abbia criteri nel suo giudizio, quali possono essere? Si fonda forse sul metro della Legge? O forse il giudizio si basa su altri criteri? O, addirittura, la salvezza consiste nell'evitare il giudizio? E, di conseguenza, chi è che è salvo? il giusto o lo scelto? E che cosa vuol dire giusto, se non esiste uomo senza peccato?

15 Sul problema del «sacro» e del «puro» nella storia delle religioni vedi gli studi di Cazeneuve, Durkheim, Eliade, Lévi-Strauss. Sulla potenza della verità che si rivela all'uomo minacciando di annientarlo, cfr. C.G. JuNG, L'io e l'inconscio, Torino 1948, pp. 31 e ss., specialmente alle pp. 38-40.

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Introduzione E ancora, l'uomo si presenta al giudizio per rispondere solo delle tra­ sgressioni commesse, o può forse mettere davanti a Dio, a proprio discari­ co, anche le azioni giuste? E ancora: la salvezza è data da Dio. Ma direttamente o attraverso un mediatore, unto o profeta che sia? E in questo secondo caso può bastare un uomo a una tale mediazione? Per accostarsi a Dio, è fondamentale la purità; ma che cosa è puro e che cosa non lo è? Contaminarsi è una trasgressione della Legge o piuttosto la trasgressione della Legge va vista come una delle tante impurità che pos­ sono indebolire o annientare l'uomo? E quel confine che separa nettamente il sacro dal profano, a che distanza si trova dall'uomo? E, di conseguenza, qual è la sfera della sua libertà d'iniziativa? Nella grande crisi spirituale oltre che storica, che sconvolse il giudaismo del I sec. d.C. fino alla catastrofe del 70, le due correnti del giudaismo che sopravvissero alla catastrofe, il farisaismo e il cristianesimo, prenderanno entrambe posizione su tutti questi problemi. Entrambe manterranno elemen­ ti e valori della grande tradizione giudaica, entrambe in maniera selettiva.

4. Le novità di questo rifacimento Se gli scopi generali dell'opera e, credo, il metodo non sono cambiati, ci sono tuttavia delle novità, derivanti dall'allargamento delle mie conoscen­ ze e dei miei interessi. A partire dagli anni in cui scrivevo la Storia del mondo giudaico e in quel­ li successivi si è andata sempre più affermando l'idea che il cristianesimo non fosse alle origini che una delle tante sette del mondo giudaico di allora. Su questa linea va ricordata l'opera di autori quali Neusner, Charlesworth, Verrnes, Carrnignac e adesso di Boccaccini. Ma è idea che si va sempre più diffondendo. Anche se è ovvio che Gesù era un ebreo, tuttavia questo fat­ to non era mai stato approfondito in tutte le sue conseguenze. L' ebraicità di Gesù era un fatto che sembrava privo di valore storico, in quanto Gesù avrebbe prodotto col suo insegnamento una rivoluzione tale da poter esse­ re considerato il fondatore di una religione totalmente nuova. Un po' per motivi apologetici, un po' per la scarsa conoscenza delle idee circolanti in Israele al suo tempo, Gesù restava il totalmente innovatore e come tale in pratica un ebreo solo di sangue. Già molti in passato avevano sostenuto la necessità di uno studio stori­ co delle origini cristiane, ma era scopo che sembravano porsi solo atei che cercavano la giustificazione storica delle origini cristiane 16 • Oggi anche i 16

Cfr. P. SACCHI, L'eredità giudaica nel cristianesimo, Aug 28 (1988), pp. 23-50.

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Storia del Secondo Tempio credenti avvertono la necessità di inquadrare la sua figura nei fatti e nel­ le idee del suo tempo. Scrive R. Penna che «il cristianesimo non è nato in vitro come frutto artificiale di laboratorio, né è piovuto dal cielo come un meteorite» 17 • Si creda o no nella divinità di Gesù di Nazaret, egli parlò la lingua del suo tempo agli uomini del suo tempo affrontando direttamente problemi del suo tempo. I Rotoli del Mar Morto e il rinnovato studio de­ gli apocrifi ci fanno conoscere quel mondo in una maniera fino a cinquanta anni fa assolutamente impensabile. Certo, non sono un neotestamentarista e, arrivato a parlare di Gesù, ho scritto molto poco, perché avverto bene di avere ancora molto da studiare, ma volevo almeno comunicare come lo ve­ da immerso nel suo mondo con la chiarezza che mi deriva da una lunga frequentazione dei testi qumranici e apocrifi. Inoltre ho cambiato radicalmente idea per ciò che riguarda la datazione dei testi preesilici: credo che dell'Israele del Nord ci sia restato molto meno di quanto pensassi una trentina di anni fa. Sono pertanto scomparse espres­ sioni come "teologia del Nord" in contrapposizione a una del Sud, in favore delle dizioni "teologia del Patto" e "teologia della Promessa" Grande importanza ha avuto poi per me la rivisitazione di testi già noti. In particolare mi è sembrato di enorme importanza il fatto che fonti babilo­ nesi di carattere amministrativo, e quindi al di sopra di qualsiasi sospetto di ideologizzazione, indichino come il re di Giuda in esilio, Yehoyakin, avesse mantenuto il titolo regale. Questo mi ha permesso una rilettura delle stesse fonti ebraiche in una luce diversa. È stato invece di somma importanza per la mia nuova visione delle cose la datazione alta del Libro dei Vigilanti, che i testi aramaici di Qumran im­ pongono. Se il Libro dei Vigilanti esisteva già con tutto il suo bagaglio di idee prima dell'anno 200 a.C., e probabilmente molto prima, bisognava rivedere tutta l'evoluzione del pensiero ebraico in epoca ancora persiana, che viene ad assumere caratteri di vivacità prima insospettati. Resta sempre, comunque, aperto il problema della datazione di molti libri biblici genericamente definiti come tardi e con date magari uguali in tutti i manuali, ma sostanzialmente ignote. Lo spostamento di qualcuna di queste date potrebbe provocare in futuro nuovi cambiamenti nell'interpre­ tazione del giudaismo. Fra questi ha particolare rilievo il Libro di Esdra, che nella forma in cui ci è giunto, legato strettamente a quello di Neemia, è certamente tardo. So­ no convinto che un personaggio Ezra esistette, ma recuperare la sua opera da libri più tardi e fortemente ideologizzati è impresa difficile. Deve inoltre essere tenuto presente che l'incertezza sulla datazione ri­ guarda anche la maggior parte degli apocrifi. Dubbi nascono anche sulla datazione di molte parti di opere qumraniche, quali la Regola della Comunità. 17 R. PENNA, L'ambiente storico-culturale delle origini cristiane. Una documentazione ra­ gionata, Bologna 2018, p. 7.

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Introduzione Che dire poi di un libro come la Sapienza, che potrebbe essere stato scritto alle soglie dell'epoca cristiana? È per questo motivo che anche in questo ri­ facimento resta per il periodo ellenistico la presentazione del pensiero giu­ daico soprattutto per temi. Là dove non è possibile una certezza maggiore, mi è sembrato opportuno fare un discorso sufficientemente elastico in re­ lazione ai tempi: se la nostra conoscenza è limitata, è impossibile chiedere allo storico una precisione che andrebbe al di là di ciò che la filologia può, se non garantire, almeno presentare con un discreto margine di probabilità. Mentre già stavo scrivendo questo libro (1993), è apparsa la proposta di G. Boccaccini di chiamare il periodo che va dal m sec. a.C. al II d.C. come "giudaismo medio" . Il criterio che ha portato Boccaccini a questa etichet­ ta corrisponde a esigenze di storia del pensiero più che di storia dei fatti e mi è utile, perché serve bene in funzione di una interpretazione della storia di Israele, che condivido anch'io. Mi sono appropriato di questa definizio­ ne, specialmente quando mi riferisco alla storia del pensiero. Di fatto use­ rò questa etichetta soprattutto per il periodo successivo al 175 a.C., anno in cui considero finito il secondo periodo sadocita. Forse la mia Storia del mondo giudaico, già nella sua prima edizione ri­ solveva in maniera nuova un problema vecchio di due secoli: quello della frattura fra giudaismo e cristianesimo, che, esistente da sempre nella cul­ tura cristiana ed ebraica, fu posto in maniera storica solo con Reimarus, il quale collocò la frattura fra giudaismo e cristianesimo non più, come vole­ va una lunga tradizione, tra Gesù e il suo mondo, ma tra Gesù e i suoi di­ scepoli. Altri spostò la frattura a monte di Gesù, inserendo questo in un es­ senismo, che rappresentava già un giudaismo deviato. Forse la radice del cristianesimo va cercata soltanto in quel volto della Bibbia, che abbiamo indicato come teologia della Promessa e che è antico come quello della te­ ologia del Patto: due aspetti dell'anima di Israele. L'opera di Boccaccini mi è stata particolarmente utile a prendere coscienza di questa possibile inter­ pretazione del mio libro.

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Parte I Il tempo dell'esilio

1 Gli avvenimenti

1.1 Gli avvenimenti che condussero alla catastrofe Nel 609 a.C. Giosia morì per le ferite riportate alla battaglia di Megiddo combattuta contro il faraone Nekao e persa disastrosamente. Era accorso a sbarrare il cammino di Nekao che procedeva verso nord, perché sapeva che il faraone stava andando ad aiutare gli assiri, i grandi nemici di Israele e dello yahwismo monolatrico, coloro che avevano appoggiato la politica "sincretistica" di Manasse. Giosia non aveva capito che la situazione era cambiata, che gli assiri non erano più un pericolo, che esso sarebbe stato rappresentato in futuro dalla potenza che fosse loro succeduta. Geremia, secondo una notizia del Terzo Libro di Esdra (1,26), si era opposto a questo gesto, ma Giosia non si lasciò convincere; e fu la catastrofe. Gli successe il figlio Yehoahaz, che poté regnare solo pochi mesi. Il fara­ one lo imprigionò e deportò in Egitto, ponendo sul trono un altro figlio di Giosia, Elyaqim, cui cambiò il nome, in segno di vassallaggio, in Yehoyaqim. Egli regnò fra alterne vicende e forti contrasti interni fino al 598, mantenen­ do lo Stato di Giuda nella sfera di influenza dell'Egitto fino al 605, quando gli egizi furono sconfitti a Karkemish da Nabucodonosor, re di Babilonia, e costretti ad abbandonare la zona siro-palestinese. Yehoyaqim divenne al­ lora vassallo della Babilonia fino al 600, quando Nekao II invase da sud la Palestina. La speranza di libertà portò Yehoyaqim a dare man forte a Nekao, che fu sconfitto. Il re di Giuda morì poco prima che arrivasse sotto le mura di Gerusalemme l'esercito di Nabucodonosor. Quando, nel 598, il re babilo­ nese arrivò, trovò sul trono di Gerusalemme il figlio di Yehoyaqim, Yehoya­ kin, il quale fu subito fatto prigioniero e spedito a Babilonia, sia pure senza maltrattamenti. Colpevole della ribellione era il padre 1 . 1 Un passo delle Cronache (II Cr. 36,5-8), pur senza fornire date (ma cfr. Dan. 1,1-2), parla di una insurrezione antibabilonese di Yehoyaqim, in seguito alla quale egli fu de-

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Storia del Secondo Temp io Gerusalemme fu saccheggiata insieme col Tempio. «Il re di Babilonia portò via tutti i tesori del tempio e i tesori della reggia [ . . . ] . Deportò tutta Gerusalemme, cioè tutti i funzionari di palazzo [sarim] e tutti soldati di car­ riera [gibborim] in numero di diecimila, tutti gli artigiani; rimase soltanto la gente povera della terra» (II Re 24,13-14). Questo numero dei deportati non è sicuro: al v. 16 i soldati (ora detti 'anse hal;ayl) diventano settemila e gli artigiani mille. Sempre cifre tonde. In Ger. 52,28 abbiamo invece un numero preciso: 3023 per tutti i deportati maschi adulti. Ma, che si accetti una cifra o l'altra, il quadro d'insieme non muta. Da Gerusalemme usci­ rono molti maggiorenti dello Stato e del Tempio, le cui funzioni furono subito rimpiazzate dagli immigrati dal contado. La vita di Gerusalemme continuava. Yehoyak.in aveva diciotto anni quando salì e scese dal trono, troppo gio­ vane per avere figli in età di regnare. Così Nabucodonosor pose al suo posto a regnare in Gerusalemme un suo zio, un fratello di Yehoyaqim, Mattania, cui impose il nome di Sedecia. La sua posizione giuridica di fronte al Gran Re di Babilonia non è chiara. Secondo la Bibbia, mantenne il titolo di re (me­ lek), ma probabilmente fu solo un nasi ', cioè un "re vassallo", come sembra dimostrare il viaggio che egli fece a Babilonia nel 593 (cfr. Ger. 51,59). Come vedremo meglio in seguito, è Yehoyak.in che fu considerato dai babilonesi il successore legittimo al trono. I deportati contavano gli anni sulla base di Yehoyak.in e non di Sedecia (cfr. Ez. 1,1.2). In Giuda giravano profezie che parlavano del ritorno di Yehoyak.in; ciò mostra che anche per gli ebrei restati in patria il vero re era sempre lui e che il suo ritorno era atteso (cfr. Ger. 28,4). Evidentemente Nabucodonosor attendeva gli sviluppi della situazione per decidersi a favore dell'uno o dell'altro. Pertanto la speranza della restaura­ zione e della liberazione aveva dei solidi appigli nella realtà storica stessa. Nel 588 salì sul trono dei faraoni Hofra, il quale abbandonò la politica di prudenza e di non intervento nella Siria Palestina, che avevano seguito i suoi predecessori, Nekao II e Psammetico Il, dopo la sconfitta del 600. La Siria insorse unanime contro la Babilonia; Sedecia seguì l'ondata di entu­ siasmo. L'anno dopo Hofra era sconfitto, la Siria conquistata. Gerusalemme fu occupata di nuovo e saccheggiata. Anche il Tempio subì una nuova pro­ fanazione e un nuovo saccheggio: infine fu incendiato. «I babilonesi fece­ ro a pezzi le colonne di bronzo [ . . . ] presero inoltre tutti gli arredi sacri [ . . . ] quanto era d'oro e quanto era d'argento» (II Re 25,13-16). Seguì una seconda deportazione di cui il libro di Geremia (52,29) ci ha lasciato ancora una volta i numeri in forma non arrotondata: 832 adulti ma­ schi. Seguirà ancora una terza deportazione cinque anni dopo, segno che la situazione di Gerusalemme doveva essere, dal punto di vista di Babiloportato a Babilonia e il Tempio subì un primo saccheggio. Però, poiché sappiamo che Yehoyaqim morì in Gerusalemme, se si accetta questa notizia, bisogna ammettere che fu rimandato in patria dopo breve tempo. Il fatto non è impossibile.

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1 . Gli avvenimenti nia, non ancora tranquilla. Quest'ultima deportazione fu ancora minore: 745 uomini (Ger. 52,30). Sedecia fu trattato diversamente da Yehoyakin: era un traditore. «Sedecia fu preso e condotto davanti al re di Babilonia in Ribla, dove fu pronuncia­ ta la sentenza contro di lui: i suoi figli furono uccisi alla sua presenza; Na­ bucodonosor gli cavò gli occhi; lo fece incatenare e condurre a Babilonia» (II Re 25,6). Anche se Yehoyakin aveva il titolo di «figlio del re vassallo» e poi quello di «re vassallo» (vedi infra, § 3), tuttavia non riprese le sue fun­ zioni, nemmeno nell'ambito della sovranità babilonese. Comunque, appe­ na deportato Sedecia, fu subito nominato come governatore della Giudea un ebreo, non un babilonese. Si chiamava Godolia2 ed era discendente di famiglia filobabilonese, come attesta il fatto che suo padre difese Geremia dalle persecuzioni della classe dirigente che era filoegizia (Ger. 26,24 e II Re 25,22). Dal fatto che Nabucodonosor avesse nominato a governare la Giu­ dea un ebreo, sia pure filobabilonese, si può dedurre che i babilonesi non pensarono di governare la Giudea attraverso loro funzionari. La Giudea manteneva la sua identità nazionale, perché aveva un territorio, sia pure più ristretto, un governatore ebreo, sia pure filobabilonese, e una casa re­ gnante, sia pure in esilio.

1.2 La Giudea sotto il dominio babilonese Come abbiamo visto, i deportati non furono molti. Si aggiunga che, diver­ samente dal comportamento assiro, i babilonesi non introdussero elemen­ ti stranieri in Gerusalemme. Ciò significa che le proprietà appartenenti ai deportati furono occupate solo da ebrei restati in patria. Del resto, gli stessi babilonesi provvidero a distribuire ai restati in patria i beni dei deportati. Vedi Ger. 39,10; II Re 25,12; Ez. 33,21-27. Questo significa che chi era restato in patria, cioè la maggior parte della popolazione, non aveva da lamentarsi dei babilonesi. I deportati erano essenzialmente gli abitanti di Gerusalem­ me (II Re 25,11), cioè la classe dirigente, politicamente, ed economicamente, la classe dei ricchi. I loro beni dovevano essere abbondanti; i vantaggi dei restati in patria, di conseguenza, notevoli; la proprietà doveva essere stata

2 In realtà non conosciamo con quale titolo Godolia governasse la Giudea. Sappiamo, da una bulla trovata a Lachish, che egli era stato sotto Sedecia prefetto del palazzo ( 'sr 'l hbyt). Il testo biblico si limita a dire che Nabucodonosor «lo mise loro a capo» (II Re 25,22). Probabilmente la corte babilonese era incerta sulla sistemazione politico-amministrativa della Giudea e si doveva pensare a rimandare in Giudea Yehoyakin, che era conside­ rato erede al trono. L'assassinio di Godolia e la tensione permanente devono poi avere sconsigliato il rimando di Yehoyakin, anche se non gli furono tolte le prerogative reali.

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Storia del Secondo Tempio spezzettata (Ger. 39,10 e II Re 25,12); in altri termini, in Giuda si creò una diversa situazione sociale e non è detto che dovesse dispiacere a chi ci vi­ veva, una volta passato il ricordo immediato delle violenze subite. Lo Sta­ to era restato dissestato in seguito alla guerra perduta disastrosamente, ma le basi per la continuazione e la ricostruzione c'erano. Gerusalemme conti­ nuò certamente a essere abitata, come risulta da Lam. 1,4, dove si parla del lutto delle strade di Sion. Anche per il Tempio la situazione non doveva essere molto diversa. Certamente i sacerdoti che lo controllavano nel 587 furono deportati tutti a Babilonia; ma nel Tempio un qualche culto deve essere rimasto, quindi con nuovi sacerdoti che avevano preso il posto di quelli portati via. Il libro di Geremia (41,5) racconta che non molto dopo la distruzione fu fatto un pellegrinaggio al Tempio da parte di alcuni ebrei. Dunque il Tempio, pur essendo stato saccheggiato e incendiato, in qualche modo doveva esistere ancora con i suoi riti. Il medesimo versetto delle Lamentazioni citato so­ pra parla anche di «sacerdoti gementi»; quindi dei sacerdoti c'erano anco­ ra. Del resto, non è pensabile che in una città che era ancora abitata non ci fosse un luogo di culto. Se leggiamo la storia del periodo alla luce delle fonti più tarde, quali il libro di Neemia, i documenti che aprono il libro di Esdra e, soprattutto, il Secondo Libro delle Cronache, si ha l'impressione che tutti gli ebrei fossero stati portati in Babilonia e che di qui fossero ritornati in patria, ricoprendo gli spazi che avevano lasciato vuoti con la loro partenza forzata. Ora, que­ sti spazi vuoti, di cui i documenti più vicini ai fatti non parlano mai, non esistettero, se non nell'ideologia postesilica, ed è merito della storiografia più recente aver sottolineato l'importanza che Gerusalemme continuò ad avere per tutto il giudaismo anche durante l'esilio. M. Noth, per quanto abbia scritto, all'unisono con tutta la moderna sto­ riografia a partire almeno da Wellhausen, che tutto era finito con la morte di Sedecia3, tuttavia aggiungeva che la visione più tarda della storia, quel3 Riporto le espressioni di altri storià contemporanei. G. Ricoorn scrisse nel 1934 che con la morte di Sedeàa «si spense l'ultimo monarca della dinastia di David» (Storia di Israele, I, p. 493). B. OoED (Judah and the Exile, IJH, p. 477) scrive nel 1977: «The k.ing­ dom of Judah had ceased to exist»; e ancora: « The year 588 / 7 BCE marks a turning point in the history of Israel. The burning of tempie, the destruction of the àty of Jerusalem, and the end of the Davidic dynasty's rule surely brought about fundamental changes in the people's thinking, which was nourished on the belief in the eternity of the hou­ se of David and in the invulnerability of tempie in Jerusalem» (p. 479). J.A. SocGIN è meno netto, ma non mi pare che dica cose diverse (cfr. Storia di Israele, Bresàa 1984, p. 381). Lo stesso dice H. DoNNER (cfr. Geschichte des Volkes Israel und seinem Nachbarn in Grundzugen, I, Gottingen 1984, p. 379). Ricordo anche la drammatica ed efficace espres­ sione di WELLHAUSEN (Israelitische und jUdische Geschichte, p. 142) «[ . . . ] jetzt zerfìel Jahve mit Israel». Il suo modo di condurre il discorso mostra come il grande studioso consi­ derasse di fatto l'esilio come la continuazione della riforma di Giosia: «Die Reformation ist schliesslich gerade durch das Exil zum Ziel gekommen» (p. 144). L'esilio rappresenta

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1 . Gli avvenimenti la del Cronista e dei libri di Esdra e di Neemia, era parziale. «Il centro della storia di Israele era e rimase la Palestina». Questo giudizio di Noth fa per­ no essenzialmente sul fatto che Gerusalemme restava il centro ideale dell'e­ braismo4 . In realtà fu molto di più.

1.3 Il re di Giuda in esilio A questo punto viene naturale porsi una domanda: se tutto lascia pen­ sare che gli ebrei, sia in patria sia in esilio, mantennero viva la coscienza della loro identità, questo fenomeno avvenne solo in forza della loro tradi­ zione e della loro cultura, o anche perché restava come concreto punto di riferimento il re, il figlio di David e il depositario della promessa del regno eterno secondo la profezia di Natan, che in qualunque momento sia sta­ ta formulata, esisteva già al momento dell'esilio? Si può ragionevolmente avanzare l'ipotesi che gli ebrei del tempo si considerassero in un periodo particolarmente difficile della loro storia, ma che aveva tutti i tratti della situazione momentanea. Essi potevano ragionevolmente sperare che il re tornasse, perché non era scomparso dai loro orizzonti: Israele aveva sem­ pre il suo re, anche se trattenuto lontano dalla patria. Era una situazione contingente che poteva e doveva mutare. In favore di questa ricostruzione della situazione di allora ci sono molti elementi. Ezechiele, che non aveva alcuna simpatia per la casa regnante, al­ la quale addossava gran parte, a torto o a ragione, della responsabilità del disastro, non ricorda esplicitamente Yehoyak.in come re. Però la visione del primo capitolo è datata all'anno quinto della deportazione di Yehoyak.in, non del regno di Sedecia. Evidentemente, per lui il vero re di Israele era e restava Yehoyak.in. Questo concorda con altri documenti biblici e babilonesi. Anche le ultime parole del Secondo Libro dei Re confermano che Yehoya­ kin era restato anche in esilio il «re di Giuda». Diversamente dalle parole di la continuità in senso lato della storia di Israele, non il momento della frattura decisiva fra monarchia e sacerdozio. «Der Staat war zerstort», continua Wellhausen. La gente si ritrovò fuori della patria e fuori del proprio Stato: poteva solo far appello agli antichi le­ gami del sangue (p. 145). «Waren die Propheten friiher den Illusionen der Zeit entgegen getreten, so traten sie nun ihrer Hoffnungslosigkeit entgegen und richteten den Glauben an die Zukunft auf» (p. 147). Il ritorno poi avviene nel vuoto, sia pure in una regione ri­ stretta intorno a Gerusalemme (p. 160). I rimpatriati si riunirono ai restati in patria. «Sie waren nicht sprode gegen sie, sondern nahmen sie mit offenen Armen auf und zogen sie an sich heran» (p. 162). Cfr. anche E. JANSSEN, /uda in der Exilszeit, Gottingen 1956, p. 61. In realtà, questa interpretazione dell'esilio risale allo stesso giudaismo postesilico a partire, quindi, dal IV o III sec. a.C. . Si legge in II Cr. 6,20: «Nabucodonosor condusse in esilio a Babilonia tutti quelli che non erano periti di spada, i quali divennero schiavi del re e dei suoi discendenti fino a quando venne il regno persiano». 4 Storia di Israele, p. 362.

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Storia del Secondo Tempio Ezechiele, queste lasciano trasparire una simpatia evidente, una speranza ferma per Israele che si fondava sulla sorte del re: «Nell'anno trentasettesi­ mo dell'esilio di Yehoyakin, re [melek] di Giuda [ . . . ]». Dunque, per l'autore, che scriveva queste cose in Babilonia verso la metà del VI sec. o non molto dopo, Yehoyakin poteva ancora essere chiamato re di Giuda. Gli anni si po­ tevano contare dal suo esilio, l'esilio del re di Israele. Ora, l'anno 37° anno di Yehoyakin è il 561: è chiaro che nel 561, circa 25 anni dopo la conquista di Gerusalemme, Yehoyakin aveva ancora il titolo di «re di Giuda». Si potrebbe pensare che il titolo di re fosse stato attribuito a Yehoyakin per sciovinismo spinto fino a travisare i fatti, ma non è vero: Yehoyakin era il re di Giuda, perché tale riconosciuto dagli stessi babilonesi. Se una traccia di troppo grande speranza è restata nelle sue parole, questa è solo nell'uso del termine melek invece di nasi '. Ne abbiamo la prova inoppugnabile da testi amministrativi mesopotamici, i quali ci hanno conservato elenchi di razioni alimentari destinate ai re vassalli deportati in Babilonia, fra i quali e'era anche Yehoyakin. Si tratta di razioni alimentari per lui e per i suoi figli: in questi testi a Yehoyakin è sempre attribuito, in qualche modo, il titolo di «re di Giuda». Si tratta di quattro tavolette di carattere amministrativo, pubblicate da E.F. Weidner nel 1939, sulle quali sono registrate le razioni alimentari pas­ sate a Yehoyakin e alla sua corte. Le quattro tavolette sono indicate con le prime quattro lettere dell'alfabeto. Di queste la sola tavoletta C è datata. Essa fu scritta nel 592 a.C.: risale pertanto al periodo in Clli sul trono di Ge­ rusalemme sedeva di fatto Sedecia. In questa Yehoyakin non ha il titolo di sharru ovvero «re vassallo» (il re di Babilonia aveva il titolo di sharru rabu: letteralmente, «Gran Re»), ma di «figlio del re vassallo» cioè «principe ere­ ditario». Questo conferma la notizia biblica che Sedecia fu effettivamente re e non governatore, ma dice anche qualcosa di più: a Babilonia si pensa­ va di restituire a Giuda la sua normale linea di discendenza, non appena la situazione fosse apparsa sicura. Nelle altre tre tavolette, quelle non datate, Yehoyakin riceve il titolo di «re vassallo». Dato il titolo di Yehoyakin, queste tavolette devono essere posteriori alla morte di Sedecia. Ciò indica un preciso evolversi della situa­ zione a favore di Yehoyakin, che, tuttavia, fino al 561 non ricevette mai il permesso di lasciare quella che oggi potremmo chiamare la sua residenza obbligata. In Giuda dovevano restare dei governatori, che non sappiamo se fossero babilonesi o ebrei. Comunque la situazione della Giudea sotto il go­ verno di Sedecia doveva continuare a essere considerata insicura da parte della Babilonia, se intorno al 592 ci fu ancora una deportazione. Ma che l'e­ spressione «re di Giuda» sia frutto di imprecisione del linguaggio burocra­ tico, come aveva ipotizzato Weidner, è cosa esclusa dal fatto che accanto al re sono nominati anche i suoi figli e in una tavoletta appaiono indicati an­ che otto «uomini di Giuda», che dovevano avere mansioni presso Yehoya­ kin riconosciute dal Gran Re. In altri termini, Yehoyakin aveva una piccola corte in esilio con otto funzionari.

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1 . Gli avvenimenti Se poi le razioni alimentari passate al re di Giuda, come è stato osserva­ to, sono molto più alte di quelle di tutti gli altri re vassalli, che si trovava­ no a Babilonia più o meno nelle stesse condizioni di Yehoyakin5, ciò signi­ fica che egli doveva avere una discreta importanza agli occhi del Gran Re. Se i babilonesi non tolsero mai a Yehoyakin il titolo di re, a maggior ragio­ ne egli restò tale per gli abitanti della Giudea, che avevano in lui un punto naturale di riferimento per l'unità nazionale e di speranza per la restaura­ zione. Ciò creava uno stretto rapporto fra gli abitanti di Giuda e il loro re, rapporto che invece veniva a mancare fra gli esiliati e il re. Per quanto la si­ tuazione giuridica degli esiliati sia oggi malamente definibile - e probabil­ mente non fu mai definita nemmeno a quel tempo -, tuttavia la rete degli interessi, creata dalla struttura stessa dell'impero, portava la casa regnan­ te a occuparsi di Giuda, non degli esiliati. I sudditi della dinastia davidica, riconosciuti tali anche dalla Babilonia, erano gli ebrei in patria. I deportati erano dei malvagi in qualche modo puniti. In una situazione come questa, agli occhi degli esiliati la monarchia do­ veva apparire come traditrice di Israele e i contatti, che certamente devono esserci stati, non poterono che essere burrascosi. Yehoyakin stava gover­ nando una Giudea riorganizzata amministrativamente e socialmente dalla Babilonia e accettava questa situazione. Gli esiliati non potevano accettarla, perché ciò avrebbe significato la rinuncia definitiva ai loro diritti di sacer­ doti sul Tempio, ai loro diritti, di sacerdoti e di laici, sulle proprietà perdute in patria e ora godute da altri. In Giudea si continuava a ritenere che YHWH fosse restato nel Tempio e continuasse a proteggere Israele con la sua presenza. In quanto agli esiliati, si riteneva che si fossero allontanati da YHWH, che non fossero più sotto la sua protezione. In Giudea si diceva: «La terra ormai appartiene a noi, che siamo restati» (Ez. 11,15). La storia rappresenta il luogo del giudizio della divinità e i deportati erano dei puniti da Dio. Anche dei profeti, definiti da Ezechiele «sciacalli» (13,4), si davano da fare in Giudea per proclamare ora­ coli in favore della stabilità della situazione. Ezechiele in esilio proclamava agli esiliati l'opposto (11,17; capp. 15; 20 e 38): la Gloria di Dio aveva lascia­ to il Tempio (capp. 1 e 10). Gli interessi che si muovevano dietro la profe­ zia di Ezechiele e dietro quella degli «sciacalli» di Gerusalemme, appaiono chiaramente, come è chiara la frattura che approfondivano. D'altra parte, la casa regnante aveva davanti a sé una via obbligata: scegliere gli interessi dei restati in patria significava scegliere non solo il favore dei sudditi, ma anche quello del Gran Re: era l'unica politica che permettesse di sussistere alla dinastia davidica. Così almeno appariva allora nella situazione di allora.

5 Per la grandezza delle razioni alimentari spettanti a Yehoyakin, che erano maggio­ ri di quelle degli altri re che si trovavano a Babilonia, cfr. I. EPHAL, On the Politica[ and Social Organiz.ation, passim.

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Storia del Secondo Tempio La reazione di Ezechiele contro i restati in patria e contro la monarchia fu dura nei toni (22,6 e 45,9)6 e radicale nella teologia. Egli demolì l'idea che la salvezza di Israele fosse legata alla casa di David, come avevano profe­ tizzato Isaia (per esempio, 11,1) e Geremia (23,5). David non è più conside­ rato il capostipite del Messia, ma solo la sua figura. Il vero David verrà, ma non è detto essere della stirpe di David. Si salva così il ricordo del grande re del passato, ma la monarchia contemporanea non ha più la funzione di continuare una stirpe che si pe�ava essere la salvezza di Israele secondo la profezia di Natan (II Re 7) e secondo un'idea che doveva essere abbastan­ za diffusa insieme a quella analoga che vedeva la garanzia di salvezza nel Tempio (cfr. Sal. 46,5-6). Il David storico diventa così pura figura del re ideale che verrà un gior­ no a salvare Israele: sarà questo il vero David. Si legge in Ez. 34,23-24: «Fa­ rò sorgere su di loro un pastore, il quale li pascerà, il mio servo David: egli li pascerà e sarà per loro un pastore». Dunque, David, quello vero, deve ancora venire e sarà il pastore di Israele. Prima David era l'antenato del re­ messia. Ora ne è diventato solo figura: se le valenze teologiche di fondo re­ stano, l'ideologia politica che in quelle si radicava è sconvolta. E ancora in Ez. 37,24: «Il mio servo David sarà re su di essi; un solo pa­ store sarà per tutti loro; seguiranno i miei comandamenti, osserveranno le mie leggi e le metteranno in pratica [ . . . ] David, mio servo, sarà loro re per sempre. Farò con loro un patto di pace, che sarà per loro un patto eterno [ . . . ] » Di dinastia davidica non si parla più: Ezechiele attende un nuovo Da­ vid che realizzi quelle speranze che ci si aspettava una volta da un discen­ dente storico della casa davidica. Agli esiliati non restava che tener duro e sperare in un cambiamento generale della situazione politica dell'impero. Se non persero la loro iden­ tità, fu perché la Babilonia, come non aveva snaturato la Giudea con l'im­ missione di elementi stranieri provenienti da altre provincie dell'impero secondo il vecchio costume assiro, non fece nulla nemmeno per snaturare l'autoidentificazione dei deportati, perché li lasciò uniti, disposti in villag­ gi in funzione della valorizzazione di alcune regioni. Ma se i sacerdoti sen­ za tempio in esilio poterono mantenere non solo la loro identità nazionale, ma anche la loro tradizione, ciò si deve alla tenacia di uomini, quali Eze6 Ez. 22,6: «I re di Israele ci sono stati per spargere sangue, ciascuno per quanto ha potuto». La traduzione corrente «principi di Israele» può trarre in inganno. Il termine nesi 'im non indica un'altissima dignità, ma i re stessi. Tecnicamente il termine fu usato in epoca esilica per indicare i re vassalli del Gran Re, ma spesso il termine è solo sino­ nimo. di melek. Qui la presenza del verbo al perfetto sembra indicare solo il passato e non il presente, ma il senso generale del passo ingloba decisamente anche il presente. In 45,9, certamente più tardo del primo, Ezechiele è ancora più esplicito nella condan­ na del passato e del presente: «Basta, re di Israele, smettete le violenze e i saccheggi». In questo passo il re contemporaneo era certamente Yehoyakin, o, se il testo fosse della sua scuola, addirittura uno dei successori.

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1. Gli avvenimenti chiele e il suo gruppo, e al fatto che la comunità ebraica fu particolarmen­ te attiva e alcuni ebrei devono già nel corso del VI sec. a.C. aver raggiunto buone posizioni economiche, come attesta, per questo secolo, l'archivio de­ gli Egibi7. Lo sviluppo della tradizione sacerdotale (P) è impensabile senza un adeguato supporto economico, che non era certo ricavato dalle finanze pubbliche dell'impero. La posizione di Yehoyakin davanti all'impero babilonese e davanti alla Giudea può apparire strana ai nostri occhi, ma una spiegazione è offerta dalla struttura dell'impero: organo centrale del governo dell'impero era il collegio dei «Grandi del paese di Akkad»8 • Esso era un organo consultivo, e al tempo stesso esecutivo, del re di Babilonia ed era formato da tutti i go­ vernatori delle provincie, nonché dai re vassalli, i quali erano contempora­ neamente re e governatori; re nei riguardi dei propri sudditi, governatori nei riguardi del Gran Re. L'uso di mantenere i re vinti sul trono con funzioni di governatori era già dell'impero assiro ed è documentato da un'iscrizione bilingue, accadi­ co-aramaica, scoperta a El Fekheriye (IX sec. a.C.)9, che ha lasciato perples­ si i critici, perché colui che nel testo accadico è detto governatore, in quel­ lo aramaico, destinato ai sudditi, si presenta come re. Ma non c'è nessun motivo di stupore, perché era la normale condizione dei re vassalli. Anche i rapporti di Yehoyakin da un lato con la corte babilonese e dall'altro con i suoi sudditi dovevano essere regolati da una struttura di questo genere. Restano da interpretare i particolari favori che Yehoyakin ottenne, co­ me narra la Bibbia, presso Awil Marduk, il successore di Nabucodonosor: Yehoyakin fu fatto uscire di prigione (?: II Re 25,27, ebr. bet kele ') e fatto se­ dere alla mensa del re, o meglio, come dice il testo greco, fu fatto uscire dalla casa dove era custodito (ÈçÉyayEv aùròv Èç o'( Kou uÀ.aKf]ç aùrou) e fatto sedere alla mensa del re. Il senso generale del passo è che a Yehoyakin fu 7 Cfr. C. WUNSCH (a cura di}, Das Egibi-Archiv, 1,1-2, Brill, Leiden 2000. 8 Rabutu (GAL.MES) sa ma-at Ak-ka-di-in, malamente tradotto inANET con «officials». Data la grafia di mat, la traduzione «Grandi di Akkad» deve considerarsi imprecisa. Sui grandi di Akkad, cfr. R. LABAT, L'Assiria e i suoi vicini dal 1 000 a.C. al 617. Il regno babilonese fino al 539 a.C., in: Storia Universale Feltrinelli, 4, 1969, pp. 7-114, a p. 109. A fianco dei veri e propri Grandi di Akkad stavano i pontefici di alcuni templi, i prefetti delle città e i re vassalli. Cfr. anche M. LNERANI, Antico Oriente, p. 887. M. Liverani, descrivendo l' orga­ nigramma del regno di Babilonia sembra indicare una gerarchia di valori tra i funzio­ nari che si occupavano delle città della Babilonia e quelli che si occupavano dei territori «periferici o affiancati ai re locali». Certo è che, anche se la lista di funzionari babilonesi mette i re vassalli in fine, tuttavia resta il fatto che si tratta di una lista di funzionari reali. 9 Sull'iscrizione di El-Fekheriye, cfr. A.R. MILLARD, P. BoRDEUIL, A Statue from Syria with Assyrian and Aramaic Inscriptions, BA45 (1982), pp. 135-143; J.C. GREENFIELD, A. SHAF­ FER, Notes on the Akkadian-Aramaic Bilingual Statue from Teli Fekherye, "Iraq" 45 (1983), pp. 109-116; T. MURAOKA, The Teli Fekherye Bilingual Inscription and Early Aramaic, "Abr-Nah­ rain" 22 (1983-1984), pp. 79-117. Cfr. J. DuSEK, J. MYNAAovA, Teli Fekheriye Inscription, in: J. DuSEK, J. RosKOVEC (a cura di), The Process ofAuthority. The dynamics in transmission and reception of canonica[ texts, Berlin-Boston 2016, pp. 9-39, con ampia bibliografia.

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Storia del Secondo Tempio confermato il titolo di re, ma ebbe anche qualcosa in più: a parte il privi­ legio di sedere alla mensa del Gran Re, ebbe la libertà di movimento: usò dalla casa dove era custodito. Come abbia usato di questa libertà non ci è chiaro, anche perché non sappiamo quanto vivesse oltre l'anno 561; ma co­ me la usarono i suoi successori lo sappiamo. Si muovevano fra la sede del governo centrale e la Giudea. Se Yehoyakin poté mantenere il titolo di re e poi diventare un «Grande del paese di Akkad», questo esclude la teoria classica di A. Alt, che faceva della Giudea un distretto della provincia di Samaria: la Giudea era restata una provincia in qualche modo autonoma, in ogni caso un'entità ben de­ finita all'interno dell'impero babilonese10 • Finora ho sempre usato paro­ le italiane. Se ci rivolgiamo all'ebraico, possiamo notare che la parola per indicare «re» non è più la stessa che in passato. In quest'epoca il titolo di melek è riservato quasi esclusivamente nei testi ebraici al Gran Re, mentre i re vassalli sono chiamati nesi'im; ma il termine può anche essere usato in maniera non tecnica e in questo caso melek e nasi' sono sinonimi. Pensan­ do a David, Ezechiele può chiamarlo indifferentemente melek (37,25) e nasi' (34,24). Per la gente, il nasi' di Giuda restava quello che una volta era chia­ mato melek, era il loro re. Stando alla documentazione sia biblica sia mesopotamica, l'opinione comune che vuole che il regno di Giuda finisse 587 con la morte di Sedecia appare insostenibile.

10 Circa l'esistenza di una provincia autonoma della Giudea, cfr. G. WIDENGREN, The Persian Period, IJH, pp. 489 e ss., alle pp. 510-511. Widengren si oppone alla tesi di A. ALT, che voleva la Giudea come appendice della provincia di Samaria (Die Rolle Sa­ marias bei der Entstehung des Judentums in Kleine Schriften, 3 voli., Miinchen 1953-1959, II, pp. 316-337 (prima pubblicazione 1934). Cfr. anche A. ALT, Zur Geschichte der Gren­ ze zwischen Judiia und Samaria, in: ivi, pp. 346-362 (prima pubblicazione 1935). Widen­ gren si .basa esclusivamente sulla titolatura dei governatori della Giudea; il fatto che Yehoyakin avesse potuto mantenere il titolo di re rafforza questa tesi in maniera tale da renderla certa. E. STERN (The Persian Period, CHJ, I, p. 72) accetta l'autonomia ammi­ nistrativa della Giudea da Samaria solo per il periodo di Zorobabele e poi a partire da Neemia, cioè per i periodi cui si riferiscono le notizie; ma manca qualunque notizia di cambiamenti. È pertanto una soluzione di compromesso con la vecchia teoria di Alt e non ha motivo di essere accettata. Il suo punto d'appoggio potrebbe essere il fatto che interferenze di Samaria nella Giudea sono documentate per periodi diversi da quello di Zorobabele, ma un'interferenza si può spiegare in molti modi e pensare a una di­ pendenza diretta di Gerusalemme dalla Samaria è proprio il modo meno probabile per spiegare una tale interferenza. Popoli circonvicini, soprattutto edomiti, penetrarono nei territori meridionali di Giuda, dando origine all'Idumea della storia successiva (cfr. B. 0DED, Judah and the Exile, p. 477), ma la regione di Giuda può aver subito scorrerie di­ sorganizzate, ma non invasioni sistematiche.

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1 . Gli avvenimenti

1.4 I successori di Yehoyakin sotto l'impero persiano Nel 539 a.C. Ciro occupò Babilonia e all'impero babilonese si sostituì quello persiano. Era un avvenimento destinato a cambiare profondamente per il futuro la situazione degli ebrei, ma in un primo momento, sul piano politico almeno, non cambiò nulla. È vero che Ciro aveva idee più liberali dei babilonesi in fatto di libertà religiosa, ma non per questo rinunciò a for­ mare il suo nuovo grande impero. Egli portava con sé, molto probabilmen­ te, un'idea monoteistica della divinità e, di conseguenza, una visione uni­ versalistica della politica e della struttura dell'impero. Il suo monoteismo non implicava obbligatorietà del culto della divinità onorata da Ciro, che, qualunque nome avesse, era sentita essenzialmente come il Dio unico. Può darsi che questa visione delle cose fosse più tarda di Ciro e risalga solo ai tempi di Dario, ma in ogni caso la sua politica liberale nei confronti dei po­ poli già soggetti ai babilonesi e dei loro culti è ben documentata. Per Ciro si trattava di una precisa condotta politica che cercava di sfruttare al massimo lo scontento dei popoli una volta sottomessi ai babilonesi11 . Conformemente a questa ideologia e per confermare il ruolo di sovrano liberatore dei popoli dal giogo babilonese, che la propaganda persiana ave­ va diffuso, Ciro restitui a molti popoli le immagini dei loro dèi che i babilo­ nesi avevano portato in Babilonia e permise a chi era stato allontanato dal­ la sua sede di ritornarvi. Ma il punto di riferimento è Nabonedo e i popoli menzionati sono tutti mesopotamici; non c'è menzione né degli ebrei né di nessun altro popolo d'Occidente. Un elenco di questi popoli «liberati» ci è conservato nel cosiddetto "Cilindro di Ciro" 1 2. Ciò ha fatto dubitare della

11 In Babilonia lo scontento aveva cause di tipo sia economico sia religioso. Già sotto Nabucodonosor lo Stato aveva rafforzato il suo controllo sulla terra per mezzo dell'isti­ tuzione di un tipo di fattorie che dipendevano direttamente dal Palazzo e che si anda­ vano ad affiancare a quelle amministrate dal Tempio e che pagavano allo Stato solo un decimo dei proventi a titolo di tassa. Il primo editto di Nabucodonosor in tal senso data al suo ventitreesimo anno di regno (583 a.C.). Nabonedo insisté in questa politica, che lo portava a urtarsi col sacerdozio babilonese. Inoltre Nabonedo predilesse il culto del dio Sin di Kharran, culto che era estraneo alla tradizione babilonese. 12 Il Cilindro di Ciro (cfr. R.P. BERGER, Der Kyros-Zylinder mit dem Zusatzfragment BIN II, nr., 32 und die akkadischen Personennamen im Danielbuch, ZA 64 (1975), pp. 192-234, e ANET2, p. 316) in un lungo paragrafo (11. 28-34) narra che Ciro ricevette in Babilonia «tutti i re del mondo dal mare Superiore a quello Inferiore», sia quelli che governavano dei sedentari sia quelli che governavano dei nomadi, i quali erano venuti per baciargli i piedi e per recargli i loro pesanti tributi. L'espressione «tutti i re del mondo» è globa­ le, ma gli esempi riportati nel testo menzionano solo popoli della Mesopotamia o della regione a est del Tigri. Ciro ne radunò gli abitanti e li fece tornare alle loro sedi coi loro dèi, ma il testo si riferisce chiaramente alla zona indicata dagli esempi; si accenna inol­ tre al fatto che Ciro restitul a questi popoli le immagini dei loro dèi: gli ebrei sembra­ no esclusi, come gli altri popoli dell'Occidente, che conservavano i loro re vassalli. La testimonianza biblica dell'editto di Ciro (Esd. 1,2-5; dr. Esd. 6,2-5) può essere ritenuta

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Storia del Secondo Tempio storicità dell'Editto di Ciro a favore degli ebrei. In effetti, è probabile che es­ so non sia mai stato promulgato, anche perché la stessa tradizione ebraica sembra indicare che il primo rientro di esuli avvenne solo con l'avvento al trono di Dario I (521 a.C.). Ciro voleva rimediare alla situazione creata da Nabonedo, non a situazioni preesistenti. Inoltre, dato che i re vassalli erano inseriti nèll'apparato statale babilonese, la loro liberazione sarebbe stata un controsenso politico, perché erano inseriti nello Stato: loro erano stati libe­ rati nel momento stesso in cui era stata liberata Babilonia. Comunque, Ciro provvide alla restituzione degli arredi sacri del Tempio di Gerusalemme. È interessante il modo con cui procedette alla restituzio­ ne. Seguiamo il racconto biblico che, anche se discusso, appare al di sopra di ogni sospetto, perché contrasta con l'ideologia sadocita che dominò la tradizione ebraico-biblica del secolo successivo e che dette origine, in effet­ ti, a una variante della forma della notizia contenuta nel cap. 1 del libro di Esdra, alla quale qui ci atteniamo. Si legge in Esdra 1,7-8: «Il re Ciro fece trarre fuori gli arredi del tempio di YHWH, che Nabucodonosor aveva portato via da Gerusalemme e ave­ va deposto nel tempio del suo dio. Ciro, re di Persia, dette ordine di tirar­ li fuori al tesoriere Mitridate, il quale li consegnò a Sheshbassar13, re vas­ sallo di Giuda». Da questa notizia si ricava non solo un avvenimento, ma anche la struttura di un'istituzione: il sovrintendente supremo del Tempio di Gerusalemme non era un sacerdote, ma il re, vassallo o meno che fosse. È ancora la vecchia struttura sociale dell'Israele preesilico. In questo con­ testo non si parla della (ri)costruzione del Tempio. La cosa non è casuale: Sheshbassar non aveva nessun tempio da (ri)costruire, perché ne aveva già

valida, anche se non si nasconde la difficoltà creata dal fatto che fra l'editto di Ciro e il primo rientro ricordato dalla tradizione ci sia un intervallo di diciotto anni male spiega­ bile. Pertanto dubbi sulla sua autenticità sono stati elevati anche in passato. Il problema è stato studiato a fondo, e risolto in maniera favorevole all'autenticità, da parte di E.J. BrcKERMAN, The Edict of Cyrus in Ezra 1 , JBL 65 (1946), pp. 249-275; ma alcuni studiosi proseguono ad avanzare riserve. Cfr O. luvEpwç ,upuvvouµÉvT]ç ,fìç ' Iououluç «essendo la Giudea già governata monarchicamente». L'unica notizia ri­ guardante il regno di Aristobulo che sembra da ritenere certa è l'uccisione da lui perpetrata della madre (questa è una conferma della notizia della fonte di Giuseppe) e di suo fratello Antigono, mentre gli altri fratelli erano rinchiusi in carcere. Egli compì questo massacro per garantirsi da eventua­ li pretendenti. Proseguì nella politica di conquiste inaugurata da Ircano e cercò di riportare i confini dello Stato dove erano al tempo dei grandi re della tradizione. La Galilea era allora abitata da tribù ituree e Aristobulo le costrinse ad accettare la circoncisione e la Legge, come già suo padre aveva fatto con gli idumei. Un'eco della frattura spirituale che divideva gli ebrei al tempo degli Asmonei si ha nella storiografia di Aristobulo. Da un lato, Flavio Giuseppe indugia a narrare i suoi delitti che arrivano al limite del mostruoso (la ma­ dre fatta morire di fame in carcere}, dall'altro riporta un giudizio che risale 254

8. Gli Asmonei a Timagene (Ant. Iud. 13,319), secondo cui Aristobulo fu uomo ÉTILE LK�ç cioè «cortese», elogio al quale si aggiunse il titolo di «Filelleno». Alle fonti ellenistiche, dunque, Aristobulo apparve come uomo degno del massimo rispetto, un ottimo sovrano; doveva essere il giudizio dell'ambiente sadduceo che lo appoggiò; al contrario, nella memoria dei farisei restò come un mostro. Flavio Giuseppe non seppe risolvere l'imbroglio delle sue fonti e, pur seguendo sostanzialmente il giudizio dei farisei, dei quali ebbe la for­ mazione, tuttavia non cancellò neanche il ricordo della tradizione opposta.

8.4 Alessandro Yanneo Alla morte di Aristobulo, sua moglie, che Flavio Giuseppe chiama Sali­ na o, forse, Salome in Ant. Iud. 13,320, ma della quale tace il nome in Bell. 1,85, fece uscire di prigione i fratelli dello scomparso e ne sposò uno, Yan­ neo per gli ebrei, Alessandro per i greci. Sia che Aristobulo avesse assunto effettivamente il titolo di re sia che non lo avesse affatto, è chiaro che il mo­ do di procedere della vedova presuppone che egli avesse, come certamen­ te aveva, il potere laico. Con Alessandro vennero alla luce tutte le difficoltà politiche, cioè tutti gli odi e tutte le rivalità che la politica dei predecessori aveva accumulato. La sua vita trascorse in mezzo alle armi, in una lotta continua volta talo­ ra alle conquiste, talora alla difesa per la stessa sopravvivenza della dina­ stia. Si resse con la forza del suo esercito per difendersi dai nemici esterni e interni, e alla sua morte ebbe la sensazione precisa del fallimento della politica asmonea che si trovava ormai a combattere in maniera sempre più aperta su due fronti: i piccoli (e non solo piccoli) sovrani dei dintorni, che ne temevano il potere, e i farisei all'interno, che aborrivano l'uomo che non viveva certo per applicare la Legge. In contatto con questa esperienza totalmente negativa delle guerre asmo­ naiche si formò quel particolare atteggiamento dei farisei, almeno nella ri­ flessione religiosa, posteriore di mezzo secolo, dei loro maestri più illumi­ nati, che dichiaravano di amare la pace (cfr. il detto di Hillel «Ama la pace e corri dietro alla pace», Pirqe Abot 1,12), attendevano le promesse riguar­ danti Israele per mezzo del «fare la Legge» e rifiutavano in ogni caso una catena di guerre che a loro appariva contro la volontà di Dio e della Legge. Se al tempo di Alessandro Yanneo furono travolti in una guerra civile di inaudita violenza, fu in difesa della Legge. Che poi oltre alla Legge fossero in giuoco altri fattori, come la ribellione della borghesia contro la nobiltà terriera, è molto probabile, ma è certo che l'ideale di fondo non fu tradito; anzi riusd rafforzato dalla prova. Alessandro, eliminato subito uno dei due fratelli sopravvissuti, perché gli sembrava troppo intelligente e attivo, cominciò con l'assalire Tolemai-

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Storia del Secondo Tempio de, avendo sempre di mira la restituzione dei confini dell'Israele di David, ma in soccorso di Tolemaide giunse da Cipro Tolomeo IX Latiro, che, cac­ ciato dall'Egitto da sua madre, Cleopatra III, era riuscito a farsi un piccolo regno nell'isola di Cipro. Di qui Latiro scese sulla terraferma deciso proba­ bilmente a farsi un regno più vasto. Alessandro fu sconfitto e la salvezza gli venne dalla madre stessa di Latiro, che, preoccupata di un eventuale in­ grandimento della potenza di questo figlio troppo intraprendente, mandò aiuti ad Alessandro. Alla guida dell'esercito egizio c'erano altri due ebrei, Helqia e Anania, figli o discendenti di Onia IV che la logica dell'ideologia, che non sempre corrisponde a quella della politica, avrebbe voluto irridu­ cibili avversari degli Asinonei. È evidente che gli Oniadi, che erano un po' i prìncipi di Leontopoli, non vedevano alcun vantaggio nel cambiamento dello status quo. Così Alessandro poté mantenere il suo trono in una Pale­ stina largamente devastata da Latiro. Rientrato in Gerusalemme, Alessandro riprese tutta una lunga serie di spedizioni militari per recuperare il territorio perduto e, possibilmente, estendere ancora i confini. Conquistò la zona a oriente del Giordano (Ga­ dara, sullo Yarmuq, e Amato, sulla sponda orientale del Giordano); poi si rivolse al sud, spingendosi fino a Rafia e a Gaza; poi rieccolo al nord-est, dove aveva da riconquistare Amato, avanzando nella zona del Galaad. Qui si trovò la via sbarrata da un reuccio della zona, il re nabateo Obodat, che voleva estendere il suo potere dal sud fino a Damasco e comprendeva nelle sue mire territori conquistati da Alessandro. I nabatei avevano il loro centro nella città di Petra, circa a mezza strada fra la punta meridionale del Mar Morto e il Golfo di Aqaba. Le loro iscrizioni sono in lin­ gua aramaica. Compaiono nella storia nel 312 a.C., quando furono vanamente at­ taccati da Demetrio, figlio di Antigono. I nabatei erano sostanzialmente dediti al commercio fra il Mediterraneo, il Mar Rosso e l' Oriente. Alessandro fu completamente sconfitto e dovette rifugiarsi in Gerusa­ lemme. Le città della Giudea gli erano nemiche, come città straniere; scon­ fitto non aveva altra via che ritirarsi in Gerusalemme presidiata dai suoi mercenari. È in questa occasione che andrà posta la rivolta della festa dei taberna­ coli di cui parla Flavio Giuseppe in Ant. Iud. 13,372-373. Mentre Alessandro stava compiendo il sacrificio all'altare, la folla lo colpì tirandogli addosso grossi cedri, che la gente aveva con sé insieme a rami di palma che dove­ vano servire per la celebrazione della festa. «Ai colpi aggiunsero le ingiu­ rie, che egli era discendente di prigionieri e quindi indegno della carica e di compiere il sacrificio». È la vecchia accusa, che Eleazaro aveva rivolto a Giovanni Ircano e che doveva essere diventata lo slogan dell'opposizione farisaica: gli Asmonei erano impuri. Secondo Flavio Giuseppe, nella repressione che seguì ad opera dei mer­ cenari di Alessandro morirono circa seimila ebrei. Ormai, tra i farisei e Ales-

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8. Gli Asmonei sandro la frattura era completa e lo capì egli stesso, quando fece costruire una palizzata di legno intorno al Tempio, esattamente come già aveva fatto per il suo palazzo: solo i sacerdoti, cioè elementi sadducei, potevano nor­ malmente varcare quelle palizzate. Fu in seguito a questo fatto, ma non sappiamo con precisione le date, che gli ebrei piombarono in una vera e propria guerra civile. L'avvenimento è stato, ma non so con quanta ragione, posto in relazione con la sollevazione popolare e anticapitalistica, a capo della quale venne a trovarsi quel Mitridate del Ponto che nell'88 a.C. massacrava romani e italici nella provincia d'Asia. I farisei, quando si accorsero di non essere in grado di competere con le truppe mercenarie di Alessandro, chiesero l'aiuto di un sovrano straniero, Demetrio III di Siria, che fu lieto di accettare l'invito. Alessandro fu ancora una volta disfatto, ma Demetrio non poté consolidare la vittoria: dovette tornare in patria per motivi non chiari, da ricercare certamente nelle guerre intestine che da cinquant'anni travagliavano il regno di Siria. Secondo Fla­ vio Giuseppe (Ant. Iud. 13,379), la brusca ritirata di Demetrio sarebbe stata causata dalla defezione di seimila farisei che sarebbero passati dalla par­ te del vincitore a quella dell'odiato sconfitto presi «da compassione». Può darsi che alcuni abbiano disertato temendo effettivamente di passare dal giogo di un sommo sacerdote sadduceo a quello di un sovrano greco, ma difficilmente la fuga di seimila uomini del contingente giudaico può aver fermato Demetrio il giorno dopo la vittoria7 . Comunque Alessandro poté liquidare rapidamente la resistenza farisaica abbandonandosi alla repressione e alle vendette, secondo un costume che ormai in Palestina era abituale dal tempo delle lotte fra Menelao e Gionata. Gli ultimi resistenti farisei, una volta che si furono arresi, vennero con­ dotti a Gerusalemme e qui ne furono crocifissi 800, dopo che mogli e figli furono sgozzati sotto i loro occhi: Alessandro intanto banchettava, nel suo palazzo, con le sue donne (Ant. Iud. 13,380). Sappiamo che in tutto questa guerra civile era durata sei anni (Ant. Iud. 13,376) ed era costata agli ebrei cinquantamila morti. La situazione poteva considerarsi normalizzata prima dell'80 a.C. Ora Alessandro poteva riprendere le guerre di conquista per ristabilire i confi­ ni, sempre costringendo i vinti ad accettare la circoncisione. In quest'opera guerresca venne a trovarsi ancora una volta in urto con i nabatei, in questa occasione guidati dal re Areta. Questi aveva esteso il suo dominio fino a Damasco chiudendo tutto il confine orientale di Israele. E fu

7 Flavio Giuseppe attribuisce in Ant. Iud. 13,377 ali' esercito di Demetrio III una con­ sistenza di 40.000 fanti e tremila cavalli. In Beli. 1,93 il numero dei fanti è molto minore: 14.000. Gli ebrei sono contati insieme con le truppe di Demetrio e non sappiamo quanti fossero. Le truppe di Alessandro erano, secondo il testo delle Ant. Iud. circa la metà di quelle del nemico (ventimila uomini), mentre secondo il Beli. i due eserciti erano circa della stessa consistenza.

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Storia del Secondo Temp io proprio muovendo da Damasco che penetrò profondamente nel territorio di Alessandro. Lo scontro avvenne vicino a Lidda e Alessandro fu sconfitto, ma riuscì con concessioni, non indicate nei particolari, a far tornare Areta nei suoi confini. Comunque, il regno dei nabatei, che si estendeva per larga parte intorno allo Stato giudaico, era per questo di pericolo, perché i re na­ batei avevano interesse a espandersi verso il mare. Nelle vicende successi­ ve dello stato giudaico i nabatei intervennero più volte. Ormai vicino a morire, Alessandro consigliò alla moglie, Alessandra Sa­ lome8, se voleva mantenere il regno e aver salva la vita per sé e per i figli, di appoggiarsi interamente ai farisei (Ant. Iud. 13,399-404). Egli era perfet­ tamente cosciente che fra lui e il popolo, che era avverso alla sua politica, vuoi perché sotto l'influenza farisaica, vuoi perché altre opposizioni si fa­ cessero sentire, c'era una frattura insanabile: o continuare la guerra e vivere in una fortezza, o addivenire a un accordo9 •

8.5 Alessandra Salome Alessandra regnò nove anni, dal 76 al 67 a.e. Ella seppe creare un gover­ no indipendente e militarmente forte, che non si esaurisse nella lotta contro le opposizioni interne. Se la politica da lei instaurata non fu durevole, ciò è dovuto alla violenza delle tensioni che dividevano gli ebrei e che si anda­ vano complicando per la comparsa sulla ribalta della storia del fenomeno del capitalismo fondato sul danaro, che ebbe come conseguenza immediata la formazione del ceto proletario.

Iud. 13,320. Salina, Salame: la tradizione è divisa su questi due nomi, che hanno forma abbastanza simile per essere considerati anche due rese di un medesimo. Il nome «Salina» potrebbe essere la forma grecizzata di «Salame», che, a sua volta, potrebbe esse­ re spiegato come forma ridotta di «Shelamsion»; cfr. J. DERENBOURG, Essai sur l 'histoire et la géographie de la Palestine d'après les Talmuds et les autres sources rabbiniques, I, Paris 1867, p. 102, n. 2. Niese accetta la lezione «Salina». Può fare qualche difficoltà a questa inter­ pretazione il fatto che Salame avesse già un nome greco, quello di «Alessandra». Forse Salina era solo la pronuncia greca, un po' storpiata di «Salame». Si può anche pensare che il nome di «Alessandra» debba essere posto in relazione alla sua posizione di regi­ na, già moglie di Alessandro. Ma sono solo ipotesi. Oggi il problema è risolto da reperti qumranici. Il nome slm�ywn in riferimento a Alessandra Salame appare nei testi qumra­ nici di 4Q331 e 322 che confermano quanto presupposto da ScHùRER, Storia, p. 229, n. 2 su slm�n come nome originale della regina. 9 Sui rapporti di Alessandro Yanneo e i farisei secondo le fonti rabbiniche cfr. DE­ RENBOURG, Essai sur l'histoire, pp. 95 ss. Una conferma del ritorno di Yanneo alla parte farisaica si ha in bQiddusin, 29a: era un iniquo, ma divenne giusto. Dal contesto è chiaro che «iniquo» significa «sadduceo». 8 Ant.

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8. Gli Asmonei Alessandra si impadronì di fatto del potere regale, assumendo il coman­ do dell'esercito e continuando ella stessa l'assedio della fortezza di Ragaba «al di là del Giordano», assedio durante il quale era morto Alessandro. Di fatto, così, ella era stata riconosciuta dall'esercito come suo comandante. Assicuratasi il controllo dell'esercito, venne a Gerusalemme e prese con­ tatti coi farisei, nelle mani dei quali «rimise il cadavere del re e ogni deci­ sione riguardante il regno» (Ant. Iud. 13,405). Flavio Giuseppe narra che i farisei, di fronte a questo gesto, abbandonarono ogni ira, celebrarono uno splendido funerale in onore di Alessandro dicendo al popolo che «era loro morto un re giusto». La guerra civile costata cinquantamila morti sembrava dimenticata insieme agli ottocento crocifissi, morti, oltre che sotto gli occhi di Alessandra, anche sotto quelli dei farisei. Il segreto del successo di Alessandra è spiegato così da Flavio Giuseppe (Ant. Iud. 13,408): «Ella concesse ai farisei di regolarsi in tutto come meglio credevano, ordinò al popolo di obbedire a loro e se Ircano [scii. Giovanni Ircano] aveva abolito alcune norme che i farisei avevano introdotto secon­ do la tradizione dei padri, queste pose di nuovo in vigore». Le parole di Flavio Giuseppe dicono molto. I farisei avevano introdotto sulla base della cosiddetta tradizione orale, che però evidentemente ricono­ scevano solo loro, alcune norme di osservanza della Legge che Ircano aveva abolito, probabilmente quando era passato dai farisei ai sadducei. Alessan­ dra accettò di nuovo la loro interpretazione della Legge e i farisei accetta­ rono il suo governo, perché era l'unico modo per poter imporre al popolo quell'interpretazione della Legge e, di conseguenza, una certa struttura del­ la società. Alessandra aveva in mano l'esercito e non sembrava disposta né a rinunciarvi né a indebolirlo; anzi reclutò ancora altri mercenari (Ant. Iud. 13,409). La frase di Flavio Giuseppe, che il titolo di regina era di Alessandra, ma che il potere fu effettivamente nelle mani dei farisei, va pertanto inteso nel senso che ella rimise ai farisei il controllo delle questioni riguardanti la normativa. Di fatto i farisei poterono entrare nel sinedrio, presieduto dal sommo sacerdote e fino allora controllato dai sadducei. In questo modo i farisei entravano in qualche modo a partecipare della nµiJ àpxiepa.pua'l, nel­ la quale ebbero rapidamente il predominio. Farisei e sadducei cominciano così a unirsi nella storia di fronte a un avversario comune, il capitalismo, che cercherà di impadronirsi del potere penetrando, a seconda delle occa­ sioni, o in quello sacerdotale o in quello laico. Un grosso pericolo per lo Stato giudaico fu rappresentato in quel tempo da Tigrane, re dell'Armenia, che aveva occupato il trono di Siria ed esteso il suo dominio fino a Damasco: l'invasione della Giudea era nei suoi piani. Una spedizione ebraica contro Damasco guidata da Aristobulo, il futuro Aristobulo Il, figlio della regina, non ebbe successo. Ciò che salvò Gerusa­ lemme fu l'attacco di Roma contro Tigrane, che Lucullo stava conducendo con scarsi successi, ma che in ogni caso impediva a Tigrane ogni politica offensiva (cfr. Ant. Iud. 13,419-421).

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Storia del Secondo Temp io Sarebbe fondamentale per la comprensione dell'epoca successiva poter chiarire quale fu il raggio della penetrazione farisaica intorno a Gerusalem­ me. I farisei propugnarono certamente la loro normativa, se non altro per motivi politici, essendo essi ben vivi e attivi. E le masse popolari? A giu­ dicare dalle precauzioni, documentabili per il secolo seguente, che i farisei di Gerusalemme prendevano per mantenere il distacco dalla «gente della campagna» ( 'am ha 'are$), probabilmente la loro penetrazione fu minima. Inoltre i principali centri fortificati fuori di Gerusalemme restarono in ma­ ni sadducee (vedi infra). Ciò potrebbe spiegare molte cose circa la predica­ zione di Gesù di Nazaret, come vedremo in séguito. I farisei poterono richiamare tutti gli esiliati e liberare i loro prigionieri, ma quando vollero passare alle vendette sui sadducei, che erano accusati di aver indotto Alessandro alla spaventosa crocifissione degli ottocento, la regina disse di no (Ant. Iud. 13,410); e poté dirlo perché aveva la forza di go­ vernare. Se un paio di sadducei ci rimisero la vita, fu perché vennero assas­ sinati proditoriamente. Se la politica di Alessandra fu favorevole ai farisei, ciò non fu tanto perché la regina avesse accettato il farisaismo come l'inter­ pretazione autentica del giudaismo, ma solo perché essa voleva evitare la continuazione degli odi e delle guerre civili. Essa mirava non a eliminare i sadducei, ma a dare spazio a entrambi i partiti. Questo equilibrio tra farisei e trono fu favorito dalla scelta del sommo sacerdote nella persona del figlio maggiore di Alessandra, che sarebbe do­ vuto essere l'erede al trono oltre che al sommo sacerdozio. Questo figlio, Ircano II, doveva avere un carattere particolarmente remissivo (Flavio Giu­ seppe lo definisce &1rpayµoc;, «inattivo»), se accettò di rinunciare al trono in favore della madre e di lasciare ai farisei la cura di stabilire la normativa legale, cosa che suo nonno, Ircano I, non aveva permesso. Ma resta il fatto che non è chiaro quanto si estendesse il potere del sinedrio, controllato dai farisei, fuori di Gerusalemme. L'esercito di Alessandra non fece spedizioni militari, ma i vicini sapeva­ no che era forte, se mandarono ostaggi. Data la particolare struttura degli Stati ellenistici, in cui l'esercito era completamente separato dalla popola­ zione, Alessandra, seguendo un'abitudine che già fu di Simone Maccabeo, dovette provvedere a stabilire nel regno fortezze a capo delle quali furono posti elementi sadducei e, primo fra tutti, Aristobulo Il, figlio minore della regina, che fu, a differenza del fratello, uomo attivo e ambizioso. Mandando i principali esponenti sadducei nelle fortezze, Alessandra otteneva di sot­ trarli alle vendette farisaiche e dava il comando dell'esercito a uomini che per tradizione vi erano abituati. In questo modo otteneva anche di dividere le zone di potere, ma è chiaro che con questa politica creava due forze con­ trapposte che attendevano solo il momento propizio per scatenarsi l'una contro l'altra. Sotto di lei, pertanto, la guerra civile, nonostante i tentativi dei farisei di aizzare la regina contro i sadducei e di Aristobulo di spingerla contro i farisei stessi, fu evitata. La stessa separazione territoriale, operata

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8. Gli Asmonei da Alessandra fra i capi degli uni e degli altri, era però destinata a essere fonte di mali futuri. Aristobulo infatti era praticamente padrone di quasi tutte le fortezze periferiche e aveva pertanto un discreto esercito a disposizione. I farisei si preoccuparono della cosa e chiesero consiglio ad Alessandra, ma essa ri­ spose loro che era vecchia e non aveva più voglia di occuparsi degli affa­ ri di Stato. Li tranquillizzò, facendo notare che avevano a disposizione un esercito, quello di Gerusalemme (che però era comandato da lei), un erario e un'economia in ottime condizioni. Ciò doveva garantire la pace del re­ gno e la sicurezza di tutti. Aveva ragione, se si riferiva al presente; dopo la sua morte, una nuova guerra civile appariva inevitabile. Già in questa luce Flavio Giuseppe giudicò l'opera della regina; ne esalta le qualità positive, prima fra tutte il desiderio di dare la pace al suo popolo, ma la accusa di vivere solo nel presente, senza alcuna lungimiranza. La morte della regina avvenne nel 67 a.C.: Roma stava per iniziare sotto la guida di Pompeo il Bellum piraticum. Nel 66 a.C. Pompeo sconfisse Mi­ tridate VI, re del Ponto, e accettò la sottomissione di Tigrane. La Siria entrò così a far parte dell'impero romano. Pompeo mandò in Siria il suo legato Scauro, che nel 65 arrivò fino ai confini della Giudea.

8.6 Ircano II e Aristobulo II Come tutto lasciava prevedere, alla morte di Alessandra scoppiarono le ostilità tra i due fratelli Ircano e Aristobulo. Ircano, che già era sommo sacerdote e maggiore di età, prese anche il titolo di re, ma il fratello non fu d'accordo. Si arrivò allo scontro (battaglia di Gerico) e Aristobulo ebbe la meglio. Ircano desisté da ogni tentativo di continuare la lotta, cedendo al fratello tutti i suoi diritti e accontentandosi di una rendita in danaro (Ant. Iud. 14,4-7). La cosa sarebbe forse finita lì, se un certo Antipatro, idumeo e quindi ebreo, perché discendente di coloro che Ircano I aveva circonciso con la for­ za, non si fosse intromesso a difendere la causa di Ircano. Quale fosse l'auto­ rità che Antipatro rivestiva in Idumea non è detto, ma poiché suo padre era stato governatore dell'Idumea col titolo di o,pa-n)Y6ç al tempo di Alessandro Yanneo, è probabile che il figlio continuasse la carica del padre. Antipatro temeva Aristobulo sul trono, pensando che gli sarebbe capita­ to qualcosa, dato l'odio che Aristobulo gli portava; allora si dette da fare per aizzare, prendendo contatti segreti, i più potenti dei giudei contro Aristobulo. Diceva che il trono non gli spettava, perché spettava al fra­ tello che era maggiore di età (Ant. Iud. 14,11).

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Storia del Secondo Temp io Naturalmente, per poter rivendicare i diritti d'Ircano, era necessario anche il consenso di questo, e gli riusci di ottenerlo informandolo che la sua vita era in pericolo e che un esercito guidato da Areta, re dei nabatei, lo avreb­ be ricondotto a Gerusalemme come sommo sacerdote. Antipatro stesso si risolse ad andare a Gerusalemme per vincere le ultime resistenze di Irca­ no e accompagnarlo nella fuga a Petra (Ant. Iud. 14,14-18, Beli. 1,123-126). Nei dissensi fra lrcano e Aristobulo del tempo di Alessandra Salome era ancora possibile scorgere alle loro spalle movimenti con risonanze vaste nel popolo come quelli dei farisei e dei sadducei. Si ha insomma l'impressione che i dissensi dei due fratelli interpretassero i dissensi di tutto il popolo giu­ daico. Nella guerra fra Ircano e Aristobulo si ha invece l'impressione che la formula sadducei/ farisei divenga insufficiente per capire gli avvenimenti. Si ha l'impressione che i vecchi contendenti siano messi in disparte da forze nuove, destinati ad avvicinarsi in seguito gli uni agli altri a rappresentare insieme, al tempo di Gesù di Nazaret, il volto della tradizione. La guerra fra Ircano e Aristobulo aveva avuto il suo momento culminate nella battaglia di Gerico, nella quale le truppe di Ircano passarono in gran numero all'esercito di Aristobulo. Non erano di fronte farisei e sadducei: erano mercenari da entrambe le parti. Antipatro, come si vede dal testo di Flavio Giuseppe riportato sopra, non si rivolge ai farisei per riportare in patria il sacerdote legittimo, ma si rivolge a uomini «potenti in Israele». Nei limiti in cui è lecito arguire della situazio­ ne palestinese da ciò che andava accadendo nel grande corpo dell'impero romano, si potrebbe dire che accanto a una nobiltà essenzialmente guerrie­ ra, legata per tradizione al re e al possesso terriero, si era andata formando una nuova classe di ricchi, ugualmente distinti dai nobili-sadducei, come dalla borghesia farisaica. Era questa la gente amica di Antipatro, che era governatore dell'ldumea e cosi ricco da poter fare ad Areta tali donativi da convincerlo a intervenire in favore di Ircano, e con urgenza. Flavio Giusep­ pe (Ant. Iud. 14,17) parla di doni che venivano inviati incessantemente, tutti i giorni, finché Areta non si mosse. Naturalmente Ircano si impegnò a restituire ai nabatei le città poste sul­ la riva orientale del Mar Morto che erano state conquistate da Ircano I e da Alessandro. Aristobulo fu sconfitto e costretto a rinchiudersi nel Tempio dove gli ri­ masero accanto solo pochi fedeli 1 0, solo sacerdoti sadducei, perché la mag­ gior parte dei suoi era passata al vincitore. Ancora una volta le cose sareb­ bero andate in un certo modo, se a Damasco non si fosse trovato in quel momento un distaccamento dell'esercito di una grande potenza, Roma. Il 10 Vedi la preghiera di Onia, cui gli assedianti avevano chiesto che maledicesse gli assediati. Onia si rifiutò e fu lapidato. Nelle sue parole appare chiaramente la divisione popolo-sacerdoti: «Poiché coloro che qui mi circondano sono il Tuo popolo e coloro che sono assediati sono i Tuoi sacerdoti [ . . . ]» (Ant. Iud. 14,22-24).

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8. Gli Asmonei comandante Scauro fu raggiunto dalla notizia che in Giudea si combatteva: Aristobulo e Ircano si rivolsero entrambi a lui con donativi, per chiederne l'appoggio. Scauro appoggiò Aristobulo perché, secondo Flavio Giuseppe, era più facile concludere operazioni contro assedianti che contro assedia­ ti (Ant. Iud. 14,31). Il fatto è che per ottenere la vittoria degli assedianti ba­ stava attendere: se Scauro non attese e decise di intervenire, fu perché gui­ dato dal desiderio di aiutare, secondo la logica romana, il più debole (cioè Aristobulo) contro il più forte (cioè Ircano, appoggiato da Antipatro e dal sovrano nabateo). Una volta che Areta ebbe tolto l'assedio, Aristobulo lo inseguì e lo scon­ fisse. Ma non deve essere stata una vittoria decisiva, se Antipatro continuò a governare l'Idurnea, e a governarla per Ircano. Intanto Pompeo verso la fine del 64 a.C. entrava in Siria per svernarvi con le sue truppe. Qui lo raggiunse, nella città non identificata di Aspis (DIONE CASSIO, Storia romana XXXVII,7), Antipatro in persona per sostenere la causa di Ircano; a difendere se stesso, Aristobulo mandò un ambascia­ tore. Pompeo guadagnò tempo e l'anno successivo, in primavera, mentre era a Damasco riprese la questione. Questa volta era presente anche una legazione di ebrei, i quali spiegarono a Pompeo che «essi erano abituati per tradizione a essere governati dai sacerdoti del Dio che essi adorava­ no» (Ant. Iud. 14,41-45), e che quindi desideravano che la monarchia fos­ se abolita. È tradizionale interpretare questa ambasceria come inviata dai farisei; il fatto però che essi parlino, almeno secondo Flavio Giuseppe, di «obbedire ai loro sacerdoti», senza nominare altri organi di governo, co­ me il sinedrio, qualunque fosse la forma che aveva in quel tempo, lascia perplessi. È più probabile che si trattasse di un'ondata di tradizionalismo sorta all'improvviso, che esponeva idee della maggioranza degli ebrei di Gerusalemme, stanchi del governo ellenizzante degli Asmonei, desiderosi di un passato che non esisteva più. Pompeo si dovette accorgere che dietro questa ambasceria non c'era al­ cuna vera forza politica, perché non la prese neppure in considerazione. Il problema per lui era risolvere la contesa fra i due prìncipi e la risolse in favore di Ircano, forse colpito dal fatto che molti notabili (Ant. Iud. 14,43, dove si parla di più di mille venuti appositamente al campo di Pompeo) si dichiarassero a favore di Ircano. Questa massa notevole di «notabili» rap­ presenta la base su cui si era sempre appoggiato Antipatro e che abbiamo identificato con una classe di ricchi non appartenenti alla classe sacerdotale. Pompeo si intese con questi meglio che con gli altri: erano la versione pa­ lestinese degli equites romani. L'accordo tra Antipatro e la classe dirigente romana cominciò in quel momento e restò un punto fermo della politica di Antipatro. Potevano cambiare consoli e pretori romani, ma Antipatro do­ minò la scena ininterrottamente fino all'avvento di Cesare. Pompeo evitò di prendere una decisione aperta in favore di Ircano, per non correre il rischio che Aristobulo provvedesse alla difesa, ma quando

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Storia del Secondo Tempio questi si accorse da che parte pendeva Pompeo, si preparò, sia pure in mez­ zo a incertezze, alla resistenza, finendo con l'arrendersi personalmente nella convinzione dell'inutilità della lotta. Gerusalemme, però, non si arrese e le truppe romane giunsero fin sotto le mura. A questo punto la maggioranza farisaica e favorevole a Ircano della popolazione decise di aprire le porte della città ai romani. Solo una minoranza di sadducei si rinchiuse nel tem­ pio per resistere fino all'ultimo. Era l'autunno del 63 a.C. Fu in questa occasione che Pompeo penetrò nel Tempio. Il fatto che la storia ricordi questo avvenimento mostra che fu eccezionale e che Pompeo lo desiderò particolarmente. Ancora Tacito ricorda la cosa e descrive con parole potenti lo stupore, forse suo oltre che di Pompeo, il quale nient'altro vide se non vacuam sedem et inania arcana (Storie 5,9). Ma Pompeo non voleva certo apparire come un conquistatore. Il giorno dopo l'espugnazione, il Tempio poté essere purificato e vi si poté riprende­ re il normale servizio liturgico. In quanto ad Aristobulo, fu portato come prigioniero a Roma e dovette sfilare davanti al carro del trionfo di Pompeo. Con Aristobulo fu portato a Roma anche il figlio Antigono; il figlio Alessan­ dro riuscì invece a fuggire durante il viaggio. Ircano ebbe il titolo di etnarca, oltre a quello di sommo sacerdote (Ant. Iud. 14,73; Beli. 1,153). Flavio Giuseppe (Ant. Iud. 20,244) ricorderà questo fatto con le parole già menzionate: «Pompeo restitul a Ircano il sommo sacerdo­ zio e gli concesse la ,rpoo-ra;a (a Tou è8vouç»11 • La Giudea non era più indipen­ dente. Inoltre Pompeo staccò dalla Giudea tutte quelle città che erano state giudaizzate con la forza dagli Asmonei, restituendo loro la libertà; è il caso delle città della Transgiordania, compresa Scitopoli, che divennero le città della cosiddetta «Decapoli». Non riebbero invece la libertà le città idumee, dati i legami strettissimi che si erano creati fra Antipatro e Ircano IL Anche Samaria venne staccata dalla Giudea e il culto sul monte Garizim fu ripreso. Il territorio della Giudea comprendeva pertanto, altre al territorio di Ge­ rusalemme e l'ldumea al sud, al nord una vasta parte della regione che una volta era stata samaritana, la Galilea. Inoltre Gerusalemme poté mantenere anche le città transgiordane a sud della Decapoli, la cosiddetta Perea, che fu tolta ai nabatei, destinati allo scontro con i romani per il fatto che que­ sti desideravano il dominio delle vie carovaniere verso l'Oriente (una delle principali passava appunto da Petra, la capitale nabatea).

11 Per ciò che riguarda la npootao(a di lrcano, cfr. supra, pp. 245-246.

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8. Gli Asmonei

8.7 La nuova situazione politico-sociale Pur essendo, nell'insieme, poco chiara la situazione politico-sociale in­ terna della Giudea, si ha l'impressione che sia cambiata rispetto alla prima metà del secolo, quando il movente delle lotte poteva essere interpretato come derivante dall'opposizione di idee e di interessi che dividevano i fa­ risei dai sadducei. Abbiamo visto che a partire dal 67 a.C., anno della bat­ taglia di Gerico, questa interpretazione non serve più a spiegare la storia della Giudea. Antipatro non era né per i farisei né per i sadducei: Ircano è difficilmente immaginabile come esponente sadduceo, pur essendo il som­ mo sacerdote, erede di quella dinastia asmonea che da mezzo secolo si ap­ poggiava sui sadducei. Se usiamo le vecchie categorie, non è facile capire a nome di chi parlasse la delegazione che si presentò a Pompeo in nome del popolo giudaico: i sacerdoti uccisi nel Tempio da Pompeo erano certamen­ te sadducei; ma i sacerdoti che il giorno dopo provvidero alla purificazione del Tempio, se erano sadducei, dovevano tuttavia essere di idee politiche diverse da quelle di coloro che avevano deciso di morire nel Tempio, nono­ stante che Aristobulo, il loro sommo sacerdote, si fosse arreso: sia pure sotto l'incalzare degli avvenimenti furono disposti ad accettare Ircano. Come si vede, la situazione politico-religiosa si andava frantumando e sfaccettando. Un tale frantumamento politico deve avere avuto due cause abbastanza diverse, ma concorrenti, una delle quali è già stata indicata nella formazione anche in Palestina di una classe di capitalisti, distinta dalla vecchia nobiltà sadducea. Non ha senso stabilire a quale setta appartenessero questi pri­ ma di diventare i capitalisti cui Antipatro dette coscienza di rappresentare una classe precisa. Potevano essere sadducei, come farisei o magari esseni o puri opportunisti: la cosa non cambia molto. L'altro fattore che influenzò la politica del tempo fu la formazione pa­ rallela di un altro ceto, che oggi potremmo chiamare il proletariato, il qua­ le odiava probabilmente in egual misura un po' tutte le tendenze religiose e politiche di allora. Mercenari, disoccupati fra una guerra e l'altra e che una volta dovevano essere di tendenze sadducee; farisei rovinati nel loro artigianato o nei loro piccoli possessi che vivevano come potevano. Gli uni e gli altri, respinti in egual modo dalla società giudaica di allora, non pote­ vano non ascoltare con avidità le voci dell'attesa messianica che uscivano con toni diversi da ambienti diversi, prima di tutti quello essenico e apoca­ littico, poi anche quello samaritano. Il messianismo univa l'attesa di un in­ tervento divino dai caratteri cosmici e totalmente rinnovanti ad attese più terrene dai connotati politici e sociali ben marcati. Questo tipo di messiani­ smo fu vitale soprattutto in Galilea, ma documentato anche in Giudea, do­ ve poté essere usato anche come bandiera antiasmonea. Gli Asmonei erano coloro che avevano usurpato il trono di David. Testimoniano questa spiritualità i Salmi di Salomone, opera anonima scrit­ ta non molto dopo la meta del I sec. a.C.

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Storia del Secondo Tem p io Perché se Tu non dài la forza chi potrà sostenere il castigo nella mise­ ria? [ ... ] La Tua prova è nella sua carne anche col tormento della miseria (PsSal 16,13-14). Signore, tu sei nostro re per sempre [ ... ]. Noi speriamo in Dio salvatore nostro: perché la forza del nostro Dio du­ ra per sempre con misericordia e il regno del nostro Dio si estende per sempre sui gentili con il Suo Giudizio. Tu, Signore, scegliesti David come re su Israele e tu giurasti a lui per sempre, a proposito della sua progenie, di non far mai cessare il suo potere regale. Ma a causa dei nostri peccati si sono levati contro di noi dei peccatori: si sono imposti a noi e ci hanno cacciati via; di ciò che non avevi loro promesso si sono impadroniti con la violenza e non hanno glorificato il tuo nome onorato. Con gloria hanno fondato per sé una monarchia a causa della loro al­ terigia, hanno devastato il trono di David con tracotante cambiamento. Ma Tu, o Dio, abbattili ed elimina la loro progenie dalla terra, facendo sorgere contro di loro un uomo estraneo alla nostra stirpe. Secondo i loro peccati ripagali, o Dio [ ... ]. Guarda, o Signore, e fa' sorgere per loro il loro re figlio di David per l'oc­ casione che Tu hai scelto, o Dio, perché il Tuo Servo regni su Israele 12: cingilo di forza così che possa spezzare i governanti ingiusti e purificare Gerusalemme dai popoli pagani che la calpestano e la distruggono [ ... ] perché possa spezzare l'orgoglio del peccatore come vaso d'argilla, con verga di ferro sbriciolare ogni resistenza, sterminare i pagani trasgresso­ ri con la parola della sua bocca. Riunirà un popolo santo, di cui sarà capo con giustizia ... e non permet­ terà che l'ingiustizia abiti ancora tra loro [ ... ]. Nessuno straniero abiterà più con loro; giudicherà popoli e nazioni con la sapienza della sua giustizia. Terrà i popoli pagani sotto il suo giogo per servirlo e renderà gloria al Signore sotto gli occhi di tutta la terra; purifi­ cherà Gerusalemme con santificazione simile all'inizio [ ... ]. Non spererà in cavallo, cavaliere e arco, né accrescerà per sé oro e argen­ to per la guerra e non raccoglierà speranze per il giorno della guerra fa­ cendo affidamento su molti: il Signore in persona è il suo re, speranza di lui che è forte perché spera in Dio e porrà tutte le nazioni davanti a lui con timore [ ... ]. Li guiderà tutti con equità e non ci sarà tra loro orgoglio cosicché qual­ cuno tra loro sia oppresso [ ... ]. Il Signore è nostro re per sempre. (PsSal 17, passim [trad. M. Lana]). Il testo di questo salmo mostra come in Giudea c'era gente che era stata costretta ad abbandonare la propria terra e a fuggire nella steppa. Qui essa attendeva un uomo discendente di David, che tornasse a instaurare il re­ gno di Israele, quello promesso da Dio: il regno di Dio. Ciò avverrà quando 12

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È possibile anche l'interpretazione «per regnare su Israele, Tuo Servo».

8. Gli Asmonei avverrà, ma sarà per opera dell'unto (il termine ricorre in questi salmi), la cui vera forza starà nell'appoggio che riceverà da Dio. Egli eliminerà inol­ tre tutte le ingiustizie sociali. Questa gente, che ha abbandonato la sua terra e vive come può fuori dal­ le città, rappresenta una massa inquieta e pronta ad accorrere quando qual­ cuno la chiamerà alle armi, ma non sarà docile col primo avventuriero che capiti. Questo almeno dice l'autore del PsSal 17: egli non vuole partecipare a una battaglia senza senso, vuole essere guidato dal figlio di David, unto da Dio. Un problema grave riguarda quest'ultima pretesa. Come potevano attendere il «figlio di David», se da secoli la sua stirpe sembrava smarrita, tanto che non si hanno più notizie di discendenti di Zorobabele? Almeno fino al III sec. a.e. liste genealogiche dei Davididi esistevano ancora (cfr. I Cr. 3); dopo, per noi sono perse, ma non è improbabile che qualcuno conti­ nuasse a custodirle. È infatti difficile che il testo del Salmo possa essere in­ teso in senso allegorico: « discendente di David» per intendere «re giusto». Si parla di usurpazione del trono e il messia atteso è veramente l'unto della casa di David. È un tono molto diverso da quello dei Rotoli del Mar Mor­ to, che attendono, più genericamente, l'unto di Israele. Chi attende l'unto di Israele non pone condizioni preliminari per accettarlo; gli basta che si presenti come tale. Chi attende l'unto discendente di David, pone una li­ mitazione precisa.

8.8 Da Antipatro a Erode Nel 57 a.C. venne in Palestina, in quanto proconsole della Siria, Gabi­ nio. Qui si trovò a fronteggiare nel giro di tre anni ben tre rivolte giudaiche, tutt'e tre provocate o da Aristobulo II stesso, che era stato condotto prigio­ niero a Roma ma era riuscito a fuggire, o da suo figlio Alessandro, detto Asmoneo per distinguerlo da Alessandro Yanneo. Erano decisi a combat­ tere per recuperare il potere perduto e gli scontenti della situazione, su cui far leva, non mancavano. La prima rivolta avvenne nel 57 a.C. e fu guidata da Alessandro Asmo­ neo. Egli percorse tutta la Giudea e riusci a mettere insieme un esercito di diecimila fanti e millecinquecento cavalieri, tutti ebrei (Ant. Iud. 14,83). Questi uomini non erano mercenari; erano ebrei che combattevano per una causa che riconoscevano loro. Dovevano essere quei gruppi numerosissi­ mi di sbandati che erano fuggiti dalle città durante le guerre di Ircano e di Aristobulo, più vittime del capitalismo che del sadduceismo o del farisei­ smo. È nel loro ambiente che devono aver fatto presa le attese messianiche di cui abbiamo parlato prima. L'autore dei Salmi di Salomone sembra vinco­ lato ad attendere il discendente di David, mentre considerava gli Asmonei

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Storia del Secondo Tempio usurpatori, ma abbiamo già visto che non tutti gli ebrei erano legati a que­ sta concezione messianica. Erano disposti a combattere contro Roma per chiunque li liberasse dal dominio economico di Ircano, di Antipatro e dei capitalisti che si appoggiavano su di loro. Del resto quei romani stessi, che appartenevano alla cosiddetta classe dei cavalieri e i cui metodi di governo delle provincie sono noti, andarono perfettamente d'accordo con Antipa­ tro. L'uno e gli altri avevano gli stessi interessi e, in definitiva, lo stesso mo­ do di vedere la vita. Antipatro non fece mai nulla contro i romani e li aiutò sempre quando furono in difficoltà. Erano guerre per l'indipendenza, ma erano anche guerre sociali. I due fattori - amore per l'indipendenza e odio verso la classe dominante dei capitalisti - si mescolavano in un intreccio che non è facile sciogliere. Certo, col passare del tempo, il motivo patriotti­ co prese sempre più forza. Alessandro fu sconfitto e fu costretto a rinchiudersi nella fortezza dell'A­ lexandreion, dove fu salvato da un intervento della madre, amica dei ro­ mani, la quale provvide a una mediazione. Le trattative portarono a un nuovo assetto della Giudea, nel quale Ircano vide ulteriormente ridotto il suo potere, per quanto fosse fedele ai romani. Gabinio infatti tolse di fatto a Ircano le responsabilità del governo del paese, visto che non gli riusciva di mantenerlo in pace con le sue forze, e divise la Giudea in cinque distret­ ti, cosa che serviva sia alla riscossione delle tasse, sia a rendere più diffici­ li i contatti degli ebrei fra di loro. Ognuno di questi distretti fu governato, secondo l'espressione di Flavio Giuseppe, da un sinedrio. «Così gli ebrei, liberati dal regime monarchico, vivevano in uno aristocratico» (Ant. Iud. 14,90; Beli. 1,170). Normalmente, in Flavio Giuseppe i termini che derivano dalla parola «aristocrazia» vanno intesi come alludenti ai sadducei, ma qui il suo pensie­ ro non è chiaro. Può darsi che si tratti della nuova aristocrazia del danaro; in ogni caso, come risulta da episodi successivi, come quello della chiamata in giudizio d'Erode (Ant. Iud. 14,168 ss.), anche i farisei erano presenti in questi cinque sinedri. Da questa nuova organizzazione dello Stato giudaico Irca­ no usò indebolito, perché il sinedrio, che continuava a essere presieduto da lui come sommo sacerdote, aveva autorità solo su una parte del territorio. L'anno successivo fu lo stesso Aristobulo, aiutato dal figlio Antigono, a ritentare la sorte delle armi; ancora una volta gli fu facile trovare un certo numero di uomini disposti a battersi per lui. Anzi, gli se ne presentarono anche troppi per le armi che aveva e dovette rimandarne più di mille. La facilità con cui gli ebrei si davano a chiunque combattesse contro Gerusa­ lemme e contro i romani è spiegata da Flavio Giuseppe, dicendo che in quel tempo «gli ebrei erano sempre contenti di rivoluzioni» (Ant. Iud. 14,93). Flavio Giuseppe non indica le cause, ma esse si ricavano bene dal contesto generale. Aristobulo fu sconfitto rapidissimamente e rimandato prigionie­ ro a Roma, da dove era fuggito. Ma restavano in libertà i figli Alessandro e Antigono (Ant. Iud. 14,97; Beli. 1,174).

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8. Gli Asmonei Alessandro Asmoneo tentò ancora una volta la sorte con una tenacia e un coraggio ammirevoli: mentre Gabinio era impegnato in Egitto per rimettervi sul trono Tolomeo XII Aulete (55 a.C.), Alessandro provocò una vastissima ribellione in tutta la Giudea. Gabinio, prima di iniziare le operazioni militari vere e proprie, invitò il fedele Antipatro a cercare di ricondurre alla ragio­ ne e al buon senso quanti più ebrei poteva (Ant. Iud. 14,101). Cosi l'armata di Alessandro si assottigliò, ma gli rimasero sempre trentamila uomini, coi quali dette battaglia a Gabinio, venendo però completamente disfatto nella battaglia del Monte Tabor (Ant. Iud. 14,102; Beli. 1,177-178). L'anno dopo, nel 54 a.C., passava da Gerusalemme il nuovo governatore della Siria, Crasso, che andava a cercare gloria, ricchezze e potere in Orien­ te, contro i Parti. In Gerusalemme si fece consegnare moltissimo danaro e preziosi dal Tempio, che era ancora una volta ricchissimo, per il continuo af­ fluire di danaro da parte degli ebrei di tutto il mondo (Ant. Iud. 14,105-110). Gli ebrei e i simpatizzanti che da tutto il mondo mandavano tanto danaro a Gerusalemme non erano certo proletari; erano, se non gli equivalenti di Antipatro e di Ircano, almeno gente che da quella situazione aveva da gua­ dagnarci e che di conseguenza cercava di mantenerla. In questo tempo gli ebrei erano molto diffusi in tutto il bacino del Mediterraneo compresa Roma e, stando a una testimonianza di Strabone raccolta da Flavio Giuseppe (Ant. Iud. 14,115), dovunque si fossero stabiliti, li si erano imposti. Se la moglie di Aristobulo poteva trattare sotto le mura dell' Alexandreion la libertà del figlio e ottenere una seconda volta, l'anno dopo, che i figli fatti prigionieri insieme ad Aristobulo fossero rimessi in libertà, ella doveva essere qualcosa di più che una filoromana. Favori di questo genere, così pericolosi per Ro­ ma (come è dimostrato dalla terza ribellione guidata da Alessandro) non si ottenevano, al tempo di Pompeo, di Crasso e di Cesare, che attraverso una sola via. Gerusalemme era legata alla diaspora, o almeno agli elementi più influenti della diaspora, da molto danaro, lo stesso danaro che la separava da tanti ebrei che vivevano in Palestina forse più numerosi che nella dia­ spora, ma privi di una vera forza politica. La sconfitta di Crasso a Carre (53 a.C.) rinfocolò le velleità di resistenza degli ebrei della campagna, ma Cassio Longino, il futuro assassino di Cesare, schiacciò rapidamente ogni resistenza, politicamente consigliato daAntipatro. Il capo della rivolta, Pitolao, fu ucciso: trentamila ebrei furono venduti schiavi (Ant. Iud. 14,120-121; Beli. 1,180): erano trentamila irrequieti di meno, di quelli che impedivano quell'ordine che volevano siaAntipatro sia i cavalieri romani. Nel 49 a.C. scoppiò la guerra civile fra Cesare e Pompeo. Antipatro (e quindi Ircano) era legato al partito di quest'ultimo e cosi Cesare liberò Ari­ stobulo perché andasse in Giudea a riprendere la lotta contro Antipatro e i pompeiani. Ma i pompeiani lo avvelenarono, mentre il figlio Alessandro fu catturato e decapitato. Nel 48 a.C. Pompeo venne sconfitto a Farsalo e di lì fuggì in Egitto, dove fu ucciso da Tolomeo XIII. Cesare sbarcò ad Ales­ sandria e qui si trovò a mal partito per una ribellione armata dell'Egitto.

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Storia del Secondo Tempio A questo punto Antipatro fu pronto a cogliere l'occasione favorevole. At­ traverso l'autorità di Ircano, sommo sacerdote, convinse gli ebrei d'Egitto e di tutta la diaspora ad appoggiare Cesare. Egli stesso accorse in Egitto con un corpo di spedizione giudaico. In Egitto convinse gli ebrei di Leontopoli, che non avevano simpatia per Cesare, a passare dalla sua parte. È eviden­ te, anche a Leontopoli, che gli ebrei, o almeno quelli che avevano il potere, erano dalla parte dei cavalieri romani. Antipatro giunse in tempo per mo­ strare che non avevano nulla da perdere neanche con Cesare. Cesare fu particolarmente grato ad Antipatro e a Ircano, e i provvedi­ menti in loro favore non mancarono, come non mancarono in favore di tutti gli ebrei dell'impero. L'elenco di tutti i provvedimenti in favore degli ebrei è riportato da Flavio Giuseppe in un'ampia sezione delle Antichità giudaiche (14,143-155 e 185-216). Il materiale sembra disposto con una certa confusione; non tutti i decreti ricordati da Flavio Giuseppe sono forse da attribuire a quest'epoca né sono bene conservati. Ma nell'insieme si ha un quadro della situazione particolarmente favorevole in cui venne a trovarsi l' èthnos degli ebrei. Ircano riebbe il titolo di etnarca, che Gabinio gli aveva tolto, confermato per sé e per i suoi figli; ebbe anche il titolo di «amico del popolo romano» ugualmente ereditario. Inoltre i romani non protestarono se Ircano, in Giu­ dea, si faceva chiamare col titolo di «re» (Ant. Iud. 14,174). Quello però che si avvantaggiò di più della situazione fu Antipatro, al quale fu riconosciuto il titolo di «governatore» (È1r1. -rpo1roç) della Giudea, ti­ tolo che Antipatro scelse liberamente (Ant. Iud. 14,143). La Giudea fu eso­ nerata dal pagamento di ogni tributo normale ed eccezionale (derivante da necessità di guerra), esclusa soltanto la città di loppe che, se il testo è be­ ne interpretato, sembra dovesse continuare a pagare il tributo a Roma, pur tornando sotto il dominio giudaico. Si tenne, però, conto dell'anno sabba­ tico e anche loppe fu esonerata dal pagamento del tributo ogni sette anni (Ant. Iud. 14,202). Cesare si preoccupò inoltre di garantire agli ebrei la libertà religiosa in tutto il territorio dell'impero. Vedi, per esempio, Ant. Iud. 14,213-216 13, do­ ve si riporta un editto di Cesare che specifica che, per quanto i 01.aaoL («so­ cietà religiose») siano proibiti (legge del 55 a.C.), per gli ebrei deve essere fatta eccezione, unica eccezione in tutto l'impero. Inoltre gli ebrei, a causa delle norme sabbatiche, furono esonerati con più editti dal servizio militare. Si trattava ovviamente di ebrei che avevano ottenuto la cittadinanza roma­ na e quindi sarebbero stati tenuti a prestare il servizio militare nelle legioni (Ant. Iud. 14,240: Bell. 6,333-335; FILONE, Legatio ad Gaium 155-158). In molti 1 3 Il nome di Cesare, qui dato nella forma di ' IouJ..LOç raioç è stato oggetto di molte congetture destinate a restare tali. Cfr. edizione Loeb, vol. VII, pp. 560-561 . Il testo può benissimo risalire a Cesare, ma anche se non fosse suo, resta sempre documento di una certa atmosfera romana filoebraica.

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8. Gli Asmonei luoghi, gli ebrei potevano tenere in vigore addirittura una loro legislazione, imponendo tributi ed emettendo sentenze14 . Non c'è da stupirsi pertanto della notizia lasciataci da Svetonio (Cesari 84,8), che gli ebrei piansero la morte di Cesare per parecchie notti. Ciò che piuttosto crea un problema è il motivo che può aver spinto Cesare a tanta generosità verso le comunità ebraiche, verso Gerusalemme e verso chi do­ minava in Gerusalemme. Qualcuno1 5 ha pensato che Cesare abbia agito così dato il suo interesse per l'Oriente, volendo costruire su basi solide il domi­ nio di Roma. L'osservazione sarebbe accettabile, se Cesare avesse esteso a tutti i popoli dell'Oriente le concessioni fatte agli ebrei, ma le concessioni sembrano, stando al tono dei singoli decreti, eccezionali. Inoltre, colpisce il fatto che Cesare volesse favorire gli ebrei ovunque si trovassero, non solo in Palestina. È più probabile che gli ebrei rappresentassero al tempo di Cesare una forza politica ed economica tale da consigliare a Cesare di appoggiarli nelle loro esigenze religiose ed economiche (non concesse solo la libertà re­ ligiosa!), insistendo sulle prime per poter avere a disposizione le seconde. Cesare doveva aver capito la forza immensa del giudaismo, ma a differen­ za di molti suoi successori capì anche che non era possibile contare sull'ap­ poggio degli ebrei senza rispettare tutte le loro esigenze religiose, per stra­ ne che potessero sembrare a lui che era, oltre tutto, di formazione epicurea. È inoltre possibile che a Cesare non dispiacesse affatto il monoteismo. L'idea­ le di una divinità padrona di tutta la terra e di un monarca che in suo nome go­ verni tutti i popoli è antichissimo. Fu già in Lugalzaggisi, re sumerico del XXN sec. a.C., che pretese di conquistare tutta la terra per governarla in nome del dio Enlil. «[Quando] Enlil, re di tutta la terra, ebbe concesso a Lugalzaggisi la regalità della terra [KALAM, cioè «la terra di Sumer»; cfr. F. THUREAU DANGIN, Die sumerischen und akkadischen Konigsinschriften, Leipzig 1907, p. 154) [ . . . ], dopo che ebbe messo in suo dominio tutte le terre [KUR KUR, cfr. ibidem] e dall'Oriente all'Occidente li ebbe sot­ tomessi al suo potere [letto così con Thureau Dangin ], allora dal mare Inferiore su per il Tigri e l'Eufrate fino al mare Superiore Egli rese sicure le strade [ . . . ] Dall'O­ riente all'Occidente tutti [ . . . ] tutti i popoli vivevano in pace» 16 . 14 Contro la maggior parte della documentazione giudeo-ellenista prese posizione H. WILLRICH ( Urkundefiilschung in der hellenistisch-jUdischen Literatur, Gottingen 1924, pp. 1-9 e 38-85), rifacendosi a lavori precedenti. Egli sostenne su base stilistica che si tratta­ va di falsi, perché i testi tramandatici dagli storici sono diversi, nei casi in cui è possi­ bile il confronto, dagli originali. Di opinione opposta fu E. MEYER, Ursprung, II, p. 127, soprattutto a proposito di Flavio Giuseppe, Ant. lud. 12,138. Cfr. R. LAQUEUR, Der jUdi­ sche Historiker Flavius Josephus, Giessen 1920, p. 221; A MoMIGLIANO, Prime linee di storia della tradizione maccabaica, Roma 1931 [1968], pp. 151-170; lo., Ricerche sull'organizzazione della Giudea sotto il dominio romano, ASNSP, s. II, vol. III (1934 [19671}, pp. 183-222; 347397, pp. 192-221, e B.R. MOTZO, Saggi di storia e letteratura giudeo-ellenistica, Firenze 1924, pp. 207-214. Vedi anche l'edizione delle Ant. Iud. della edizione Loeb, ai capitoli relativi. 15 Cfr. Norn, Storia, pp. 495. 16 È il testo IH2b: cfr. E. SoLLBERGER, J.R. KUPPER, Inscriptions royales sumériennes et akkadiennes, Paris 1971, pp. 93-95: Cfr. anche G.A. BARTON, The Royal lnscriptions of Sum-

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Storia del Secondo Tempio L'idea dell'impero universale riaffiora più volte lungo tutto l'arco della sto­ ria mesopotamica; è presente presso gli assiri; riaffiora prepotente nell'ideologia dell'impero persiano che combatte per estendere su tutta la terra la sovranità di Ahura Mazda. Alessandro Magno fu affascinato da questo ideale. Lo riprese in for­ ma puramente religiosa il primo cristianesimo; ma è noto che l'idea era destinata a dominare a lungo la storia del mondo occidentale. Le comunità ebraiche fiorirono in tutto il bacino del Mediterraneo e fu­ rono il veicolo naturale attraverso cui si espanse all'interno dell'impero il primo cristianesimo. Intanto, all'interno della Palestina, Antipatro si preparava, approfittando della sua posizione altissima, a rovesciare la dinastia asmonea sostituendola con la propria. Conosceva bene Ircano ed era convinto che fosse un debole. Antipatro nominò così due propri figli crtp1mwo[ di due zone della Giudea: Fasael di Gerusalemme stessa ed Erode della Galilea (Ant. Iud. 14,160-161; Bell. 1,203-207). Ircano non reagì. Per avere un'idea sull'atmosfera in cui si viveva nella Gerusalemme di Ircano e di Antipatro, basti quest'episodio narrato da Flavio Giuseppe: Quando i principali cittadini videro che Antipatro e i suoi figli au­ mentavano di molto la loro potenza sia per il favore che mostrava lo­ ro il popolo sia per il danaro che veniva loro dalla rendita delle tas­ se della Giudea e dal patrimonio di Ircano, gli divennero nemici [ . . . ] . Così un giorno s i presentarono a Ircano e accusarono Antipatro aperta­ mente, dicendo: «Fin quando sopporterai questa situazione tranquilla­ mente? Non vedi che Antipatro e i suoi figli hanno assunto davvero il potere regio, mentre tu, di re, non hai altro che il nome? [ .. . ] Infatti Erode [ . . . ] ha messo a morte Ezechia e i suoi uomini in gran numero, trasgre­ dendo la nostra legge, la quale proibisce di uccidere un uomo, anche se è un malvagio, se questa pena non gli è stata inflitta dal sinedrio. Egli ha osato far ciò, senza la tua autorità» (Ant. Iud. 14,163 ss.). Il brano mostra abbastanza bene la situazione del tempo. Credo che Fla­ vio Giuseppe con l'espressione «i principali cittadini» designi i notabili di Gerusalemme, farisei e sadducei, che si vedevano travolti dalle nuove vi­ cende e dalle nuove forze politiche: sono farisei e sadducei che la storia co­ mincia ad accomunare. Essi si accorgono che «il popolo» sta passando dal­ la parte di Antipatro secondo uno schema che stava producendosi anche in Roma e che Ircano stesso che teoricamente rappresentava, come sommo sacerdote, la loro bandiera, sta diventando sempre più uno strumento nel­ le mani di Antipatro.

er and Akkad, New Haven 1919, pp. 2-3, e ancora H. STEIBLE, Die altsumerischen Bau- und Weihinschriften, Wiesbaden 1982, pp. 316-317; J.S. CooPER, Sumerian and Akkadian Rayal Inscriptions, I: Presargonic Inscriptions, New Haven 1986, p. 94.

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8. Gli Asmonei Antipatro aveva imparato da Cesare e si stava facendo dei seguaci pro­ prio in quella classe che all'inizio più lo aveva odiato, probabilmente perché il suo danaro dava lavoro e lo dava fuori di Gerusalemme. Il brano riportato sopra conferma che Ircano, all'interno della Giudea, si faceva chiamare re e, stando ai maggiorenti di Gerusalemme, sembra che avesse anche il potere di emettere, almeno in certi casi come la ribellione ar­ mata, condanne a morte, potere che era riservato normalmente al sinedrio. Per gli uomini del sinedrio, farisei e sadducei, non c'era dubbio che Ezechia era un malvagio, ma non per questo potevano accettare il comportamento di Erode che li scavalcava in autorità. Chi si arrogava questo diritto, anche se giustificato dai fatti, ledeva sempre una prerogativa del re e, di riflesso, dell'autorità costituita. Secondo i maggiorenti di Gerusalemme, sarebbe sta­ to necessario che la condanna di Ezechia, riconosciuto «uomo malvagio», fosse stata almeno voluta dal re. Ezechia, infatti, era un galileo che aveva promosso delle rivolte, probabilmente un rappresentante di quella corren­ te del giudaismo che, a partire dai Maccabei per finire con diversa fortuna agli zeloti, vide sempre nelle armi un mezzo per far trionfare la Legge, o meglio, in questo caso il proprio diritto all'indipendenza. Ircano accondiscese a convocare davanti al sinedrio Erode, il quale, forte del suo esercito e dell'appoggio romano, si presentò in giudizio sfarzosa­ mente vestito e accompagnato da alcuni soldati armati. Nessuno osò parla­ re contro di lui, tranne un certo (il termine è di Flavio Giuseppe) Samaias, il quale viene in genere identificato con Shemaya, maestro appartenente alla quarta coppia di tannaiti 1 7 . Può fare qualche difficoltà l'espressione «un cer­ to» riferita a uomo famosissimo, ma il problema non si risolve pensando, come ha fatto qualcuno, che invece di Shemaya si trattasse di Shammai ma­ estro appartenente alla quinta coppia insieme a Hillel e non meno famoso di Shemaya. Il fatto comunque che Flavio Giuseppe ricordi questo Samaias altre volte e insieme a Pollione, sotto il cui nome greco non sembra difficile scorgere un ebraico Abtalion, il secondo maestro della quarta coppia, sem­ bra in favore dell'identificazione tradizionale. Samaias fece un rapido quadro della situazione e concluse dicendo che egli non biasimava affatto Erode per ciò che andava facendo, perché agi­ va in difesa di se stesso; egli biasimava i componenti del sinedrio e Ircano: «Dio è grande e un giorno quest'uomo che ora voi volete prosciogliere in grazia d'Ircano, punirà voi stessi e il re» (Ant. Iud. 14,174}. Nel 44 a.C., come è noto, fu assassinato Cesare e in Siria venne di nuovo quel Cassio Longino che già aveva avuto rapporti di amicizia con Antipatro. Egli aveva bisogno di danaro per armare l'esercito che poi doveva condurre contro i cesariani Marco Antonio e Ottaviano. La classe dirigente giudaica, Ircano e la famiglia degli Antipatridi fu tutta per lui e l'aiutò in ogni modo, 17

Con questo nome si indicano i maestri della Mishnah.

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Storia del Secondo Tempio tollerando anche atti di brutalità verso le città giudaiche più restie a pagare le enormi cifre che Cassio imponeva. In questo stato di tensione, Antipatro fu assassinato (43 a.C.) da un certo Malico. Assoldato il suo esercito, Cassio partì per l'Occidente nel 42 a.C., lascian­ do dietro di sé una Giudea semidevastata e preda di velleità di rivolta, delle quali approfittò l'ultimo discendente degli Asmonei, Antigono per i greci, Mattatia per gli ebrei1 8 • Erode assalì Antigono, atteggiandosi a difensore dei diritti di Ircano, con il quale entrò in amicizia, fidanzandosi addirittura con una sua nipote, Mariamne, figlia di Alessandra, figlia di Ircano. Alessandra aveva avuto Mariamne dal matrimonio con Alessandro Asmoneo che, du­ rante una delle sue ribellioni condotte fra il 57 e il 55 a.C., in un tentativo di avvicinamento a Ircano, ne aveva sposato la figlia. Mariamne pertanto aveva nelle vene il sangue di entrambi i rami asmonei, quello di Ircano e quello di Aristobulo. La situazione dei dirigenti ebrei sembrò precipitare bruscamente dopo la battaglia di Filippi (autunno del 42 a.C.), in quanto erano stati tutti, sen­ za eccezione, dalla parte di Bruto e di Cassio. Ancora una volta, per motivi che politicamente non risultano chiari, essi riuscirono a restare tutti al po­ tere con l'appoggio di Antonio. Gli eredi spirituali di quegli ebrei, che nel 63 a.C. si erano presentati a Pompeo per chiedergli di abolire la monarchia in Giuda, si presentarono questa volta ad Antonio in Bitinia, nella speranza di essere esauditi. Eppure non riuscirono nemmeno a farsi ricevere, men­ tre la cosa riuscì a Erode che appianò la via alla riconciliazione ufficiale fra la classe dirigente di Gerusalemme e i cesariani. Flavio Giuseppe parla di grande astuzia da parte di Erode, il quale mostrò gli ebrei come persegui­ tati da Cassio (Ant. Iud. 14,301-304). È un'ingenuità: Antonio ci credette so­ lo perché ritenne suo interesse crederci, tanto che le delegazioni dei giudei non furono neanche prese in considerazione. Egli sapeva di aver bisogno dei dirigenti di Gerusalemme, del loro denaro e dell'appoggio degli ebrei della diaspora, che sapeva di poter guadagnare attraverso loro e non attraverso quella parte del popolo della Giudea che li avversava. Nel 41 a.C. Erode e Fasael ebbero entrambi da Antonio il titolo di tetrarchi della Giudea, senza che il titolo fosse tolto a Ircano (Ant. Iud. 14,326; Beli. 1,244). Non è chiaro come i tre esercitassero ciascuno il suo potere. Ma il dominio degli Antipatridi era ancora ben lontano da essere soli­ do. Nel 40 a.C. un'invasione di Parti dall'Oriente minacciò la Giudea e coi Parti si mise Antigono. Gerusalemme stessa fu riconquistata, Erode riuscì a fuggire, ma Fasael e Ircano furono fatti prigionieri e consegnati ad Anti­ gono, il quale staccò coi suoi stessi denti le orecchie di Ircano per renderlo 18 Interessante un dato che emerge dalle monete di Antigono. Nell'iscrizione gre­ ca egli si presenta come «re», mentre in ebraico si presenta come «sommo sacerdote». Evidentemente, la dignità di sommo sacerdote era sentita come depositaria del mas­ simo potere.

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8. Gli Asmonei fisicamente imperfetto e quindi inabile al sommo sacerdozio. Fasael si sui­ cidò (Ant. Iud. 14,366-367; Beli. 1,268-271). Erode corse a Roma, per chiedere appoggi. Il senato lo nominò addirit­ tura re della Giudea, seguendo la volontà di Antonio e di Ottaviano. Nel 39 a.C. Erode sbarcava a Tolemaide e cominciava a raccogliere truppe per riconquistare la Giudea, di cui ora era re. La lotta non fu facile, sia per la re­ sistenza di Antigono, che mostrava di avere dalla sua una buona parte della popolazione, sia per la presenza in Galilea di bande armate che molestarono le operazioni di Erode. Probabilmente si trattava di eredi del movimento di Ezechia. Infine, Erode, fattosi inviare da Antonio un paio di legioni romane, riusci a travolgere ogni difesa. Rimandò via con lauti donativi le legioni ro­ mane che lo avevano aiutato, ma che ora servivano solo a renderlo inviso al popolo, e provvide a placare la regione. Antigono fu portato prigioniero ad Antiochia e qui decapitato per ordine di Antonio, che aveva accettato danaro da parte di Erode. Con i Parti alle frontiere, Erode non voleva che restasse in vita un re ebreo, fatto tale dai Parti. Sposò subito Mariamne, ni­ pote di Ircano, e invitò Ircano stesso a rientrare in patria, cosa che gli riu­ scì. Evidentemente, Erode non voleva rompere del tutto le sue relazioni col partito asmonaico e sadduceo. Dal 37 a.C. Erode poté essere, di nome e di fatto, re degli ebrei.

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9 Gerusalemme al tempo di Gesù di Nazaret: le vicende politiche

9.1 Il regno di Erode il Grande Le notizie riguardanti Erode il Grande 1 ci vengono in gran parte da due tipi di fonti completamente diverse: Flavio Giuseppe, da un lato, il quale si rifà a Nicola di Damasco, che visse alla corte d'Erode e che naturalmente gli fu favorevole; la tradi­ zione rabbinica, dall'altro, che gli fu nettamente contraria. Questa netta dicotomia delle fonti si ripercuote necessariamente sugli storici moderni. Graetz e Wellhausen possono essere considerati gli iniziatori moderni di due tendenze, una contraria e una favorevole a Erode. Il problema di dar vita a una storiografia più imparziale è particolarmente sentito nell'opera di A. Schalit2.

Erode regnò trentatré anni, dal 37 al 4 a.C., e il suo regno, dopo un inizio durissimo passato in mezzo alle armi e agli intrighi di palazzo che si colle­ gavano con la politica internazionale, non dovette affrontare rischi decisivi, tranne che in un'occasione. Il momento di pericolo venne quando in Roma scoppiò l'ultima guerra civile, quella fra Ottaviano e Antonio. Dopo la sconfitta di Azio e la morte di Antonio, che era stato il protet­ tore di Erode, questi capì di correre un grave rischio, ma prese subito l'ini­ ziativa e, presentatosi a Ottaviano in Rodi, gli gettò ai piedi, teatralmente, la corona di re. Ottaviano, che evidentemente voleva farsi colpire da quel gesto, gliela rimise in capo, e in compenso di tanta sottomissione aumentò addirittura i territori di Erode. Una sola cosa è certa, che Ottaviano non vi-

1 Erode fu detto il Grande già da Flavio Giuseppe, la cui storiografia d ha lasciato un'immagine del suo tempo, tutto sommato, insostituibile. Comunque, il titolo di Gran­ de ;li è attribuito una sola volta in Ant. Iud. 18,130. Cfr. A. SHALIT, Kiinig Herodes: der Mann und sein Werk, Berlin 2001 2 (1 a ed.: 1969).

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Storia del Secondo Tempio de nessun interesse a rompere con chi governava la Giudea e ci tenne anzi a rafforzarne la posizione: in questo caso agì come tutti i romani che lo ave­ vano preceduto. Da questo momento il regno di Erode può essere definito felice almeno sul piano politico; su quello familiare fu una tragedia che an­ dò sempre aumentando di intensità. Flavio Giuseppe dedica a Erode lo spazio di circa tre libri delle Antichità giudaiche: vi si parla di Erode dal XIV fino al XVII libro. La fonte a cui egli attinge è ottima, anche se può essere parziale: Nicola di Damasco, che vis­ se alla corte stessa di Erode. Gli aspetti del regno di Erode sono molteplici e non sempre facili da in­ terpretare. Fatte le dovute proporzioni, la sua figura va posta sulla linea dei grandi condottieri romani del suo tempo: ricchi, appoggiati dai grandi capi­ talisti e dal popolo, invisi in genere alla nobiltà tradizionalista. Questa fu la posizione di Cesare e di Ottaviano in Roma, questa fu la posizione di Erode in Gerusalemme. Fra gli avversari tradizionalisti, Erode dovette però, a dif­ ferenza dei duci romani, contare, oltre alla nobiltà, anche i farisei che non potevano accettare nessuna autorità se non in nome della Legge e garante della Legge, che non traevano alcun vantaggio economico particolare dal suo governo, che continuavano a vedere nel sinedrio l'espressione più au­ tentica di Israele e che in ogni caso sopportavano male di essere governati da un idumeo. In questa avversione alla monarchia, farisei e sadducei si tro­ varono uniti tatticamente, mentre la normativa farisaica veniva sempre più accettata anche dalla parte sadducea (Ant. Iud. 18,15-17). Probabilmente essi accettavano ormai la stessa tradizione dei farisei e se ne differenziavano solo nel rifiuto di certe novità più clamorose dell'ideologia farisaica, come quella della risurrezione. I sadducei fondavano la loro individualità sulla loro vi­ sione degli eventi guidata sempre da considerazioni pratiche3 . Questo portò al loro maggiore avvicinamento a Roma e, alla fine, alla loro scomparsa dal­ la storia per mancanza di un centro ideologico preciso che li definisse. Era più facile per Erode trovare appoggi nel popolino disperso nelle campagne e disprezzato dai farisei della città, come quello che non conosce la Legge. Erode riuscì a venire a capo di tutte le opposizioni. I farisei furono te­ nuti a freno dalla loro stessa mentalità più portata a confidare nella Legge, che Erode permise sempre loro di osservare, che nelle ribellioni armate. In questo senso predicarono anche dei loro maestri, dicendo che il regno di Erode realizzava la profezia di Samaias (Ant. Iud. 15,3-4)4, che una volta 3 Se i sadducei riconoscessero come scrittura sacra gli stessi testi dei farisei non è chiaro. Forse il problema era il grado di sacertà dei libri sacri: anche i farisei considera­ vano più sacra la Torah delle altre parti della Bibbia, in quanto scritta fin dalle origini, mentre profeti e ketubim derivavano dalla tradizione. Nell'insieme, si ha però l'impres­ sione che essi si fondassero solo sulla Torah scritta. Cfr. in proposito LE MOYNE, Le Sad­ ducéens, Paris 1972, pp. 357 ss. 4 La tradizione manoscritta delle Antichità giudaiche oscilla fra il nome di Samaias e quello di Pollione. Il confronto con Ant. Iud. 14,172-176 è in favore del nome di Samaias.

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9. Gerusalemme al temp o di Gesù di Nazaret l'aveva accusato davanti al sinedrio. Samaias aveva avuto per Erode il me­ rito di invitare il popolo di Gerusalemme a non opporglisi, quando questi vi giunse con le truppe romane d'Antonio nel 37 a.C. Samaias non aveva cambiato affatto d'opinione nei riguardi d'Erode: comprendeva solo per­ fettamente l'inutilità della lotta, inutilità non solo sul piano politico, ma su quello molto più importante degli interessi della Legge. Questa non avrebbe ricavato nessun vantaggio da una guerra fratricida. Non era il sangue che poteva portare il trionfo della Legge. Di questo Samaias era perfettamen­ te convinto; Erode ne approfittò per onorare un uomo che sapeva onorato. La lotta contro i sadducei fu più dura, anche perché essi trovarono fa­ cile alleanza negli ultimi discendenti degli Asmonei, con i quali Erode si era imparentato. L'opposizione sadducea trovò facile udienza a corte nella persona di Alessandra, madre di Mariarnne e, almeno in un'occasione, in Mariarnne stessa. L'idea che il sommo sacerdozio fosse ormai asmonaico doveva essere diffusa ed Erode dovette tenerne conto. Inoltre, Cleopatra VII, che aveva mire sulla Giudea e poteva approfittare della sua particola­ re amicizia con Antonio, dette più volte filo da torcere a Erode appoggian­ do all'esterno i nabatei, che premettero più volte contro i confini di Giuda con le armi, e all'interno i movimenti filoasmonaici. Essa riuscì a farsi asse­ gnare da Antonio la regione di Gerico, che poi concesse a Erode in affitto. In un primo tempo, Erode fece condannare a morte quarantacinque nobi­ li, perché la loro fine fosse d'esempio agli scontenti. Ma, se così finiva l'op­ posizione frontale, restava quella strisciante delle mene di palazzo. Erode, non essendo di stirpe sacerdotale, anzi, nemmeno israelita di pie­ no diritto, data la sua origine idurnea, non poté assumere la carica di som­ mo sacerdote. Fece pertanto venire dalla Babilonia un certo Ananel di stirpe sadocita (Ant. Iud. 15,40: àpXLEpcr:tp LKou yÉvoc;) e lo nominò sommo sacerdo­ te. Egli voleva probabilmente ristabilire il vecchio sacerdozio sadocita, per controbattere le pretese asmonaiche. Ma Alessandra, che manteneva rap­ porti con Cleopatra, insistette perché il sommo sacerdozio fosse concesso ad Aristobulo, figlio suo e di Alessandro Asmoneo. Aristobulo doveva essere accetto a quanti erano disposti a vedere in lui l'erede delle glorie asmonee, ma era proprio questo il motivo che lo rendeva inaccettabile a Erode. Ac­ contentando la suocera per motivi non chiari e che vanno ricercati nella si­ tuazione internazionale, concesse il sommo sacerdozio ad Aristobulo, ma per fare questo dovette toglierlo ad Ananel con un gesto assolutamente il­ legale. Poco dopo Aristobulo annegò a Gerico mentre faceva un bagno, af­ fogato da coloro che avrebbero dovuto proteggerlo. Ananel tornò a essere sommo sacerdote. L'opposizione restava, ma sempre meno aperta, in ogni caso controllata da Erode con estrema durezza.

Il rimando a 15,370 fatto dal Marcus è troppo vago per poter dire che è a favore della lezione «Pollione».

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Storia del Secondo Tempio Teneva abbastanza uniti farisei e sadducei il fatto che essi partecipassero ugualmente al governo di Gerusalemme, mentre il popolo della campagna, chiamato con disprezzo 'am ha 'are$, «popolo della terra», e considerato im­ puro, diveniva di fatto extra legem per gli uni e per gli altri. Per questo 'am ha 'are$, il governo di Erode non deve poi essere stato così antipatico come per gli ebrei di Gerusalemme. Egli compì infatti molti lavori pubblici, per i quali impiegò molta mano d'opera che certamente non era fornita, salvo casi eccezionali, come quello della ricostruzione del Tempio, né da farisei né da sadducei. Testimonia inoltre l'interesse di Erode alle condizioni dei più poveri il fatto, avvenuto nel 25 a.C., che egli intervenne con mezzi suoi privati per comperare derrate in Egitto in un anno di carestia. Il numero di costruzioni fatte eseguire in Palestina da Erode fu gran­ dissimo e testimonia della straordinaria ricchezza di quest'uomo, ricchez­ za che difficilmente si sarà procurato solo dissanguando gli abitanti della Palestina, come vuole certa storiografia. Egli era ricchissimo perché sapeva far fruttare i suoi capitali, che erano certamente impiegati un po' dapper­ tutto, come quelli di qualsiasi altro grande finanziere dell'impero romano. Fra le sue costruzioni più celebri si può ricordare Samaria, da lui ricevu­ ta solo al tempo di Augusto e da lui in suo onore ribattezzata Sebaste (cioè Augusta); ma più spettacolare ancora fu la costruzione di Cesarea, sul ma­ re, circa trentacinque chilometri a sud del Carmelo. La città è un modello di funzionalità nell'urbanistica ellenistica5 • Fece anche ricostruire il Tempio allargandone la spianata, attraverso ba­ stioni di sostegno reggenti la terra di riporto che costituiva il nuovo piano più vasto della spianata. Per costruire il nuovo Tempio ed evitare tumulti e malumori, fece istruire mille sadducei nell'arte edile, perché essi soli toc­ cassero le parti più interne del Tempio. Ma pensò anche alla salvaguardia della propria famiglia, facendo costru­ ire o potenziare fortezze che avrebbero dovuto servirgli da punto d' appog­ gio in caso di fuga da Gerusalemme. Queste si elevavano per lo più nella zona del Mar Morto: l'Erodium, destinato a contenere il suo sepolcro, a po­ chi chilometri da Betlemme; Kypros, nei pressi di Gerico, così chiamata in onore di sua madre; Masada, sulla riva occidentale del Mar Morto; Mache­ ronte, sulla riva orientale, spostata un po' verso l'interno. Viene in mente da questa ubicazione delle fortezze che, in caso di peri­ colo per la sua persona, la gente di cui più era disposto a fidarsi fosse quel­ la che era intorno al Mar Morto, zona dove vivevano gli esseni, dei quali è 5 Circa l'urbanistica ellenistica, dr. H.P. KuHNEN, Paliistina in griechisch romischer Zeit (Handbuch der Archaologie II, 2), Munchen 1990. Per la politica edilizia erodiana, dr. S. ]APP, Die Baupolitik Herodes ' des Groften: Die Bedeutung der Architektur far die Herrschaf­ tslegitimation eines romischen Klientelkonigs, Rahden (Westf.) 2000; A. LICHTENBERGER, Die Baupolitik Herodes des Grosses, Wiesbaden 1999.

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9. Gerusalemme al tempo di Gesù di Nazaret noto l'atteggiamento teoricamente di condanna, ma in pratica di piena ac­ cettazione, dell'autorità costituita6 • Se il suo regno fu particolarmente felice, la sua vita familiare, più che triste, fu tragica. Le lotte scatenate dall'ambizione avevano dominato la di­ nastia asmonea, ma fino a Erode le lotte intestine della casa regnante ave­ vano potuto mescolarsi alle ambizioni di altre dinastie: le guerre avevano pertanto un certo colore non interamente intestino che in qualche modo nobilitava chi le combatteva. Ma con l'avvento degli Erodi la situazione in­ ternazionale era cambiata. Non riuscendo pertanto gli odi e le ambizioni giudaici a trovare lo sfo­ go che erano abituati ad avere da un secolo e mezzo nell'aggancio agli odi e alle ambizioni di altre dinastie più potenti, essi si scatenarono nell'intri­ go domestico. Ciò che complicava la vita familiare di Erode era proprio il fatto, da lui ricercato, di volersi imparentare con la casa asmonea, sposando Mariarnne. Da un lato la madre e la sorella di Erode, Salome, dall'altro la seconda mo­ glie e la madre di questa, furono continuamente in lotta, dato che le don­ ne asmonee cercarono di appoggiare gli ultimi rampolli della loro stirpe. Dopo l'uccisione di Aristobulo seguirono quella del vecchio Ircano, poi della moglie Mariarnne (29 a.C.), e poco dopo ancora quella della suocera Alessandra, che, effettivamente, aveva tentato un colpo di mano sul Tem­ pio, quando era stata raggiunta dalla falsa notizia della morte d'Erode. Era caduto Giuseppe, primo marito di Salome, e la stessa fine fece il suo secon­ do marito, Kostobar, un idurneo, che teneva nascosti in Idurnea partigiani degli Asmonei. Dopo lunghi anni di ripensamenti e di raggiri, nel 7 a.C. Erode fece uc­ cidere Alessandro e Aristobulo, figli di Mariarnne, che aveva fatto educare a Roma e ai quali contava probabilmente di lasciare il trono. Quando già si era insospettito dei due figli, aveva chiamato a corte Antipatro, figlio della sua prima moglie Doride; voleva contrapporlo agli altri, ma quando si ac­ corse che anche questi, con ogni certezza, stava tramando la sua morte, lo fece imprigionare. Ottenuta da Augusto l'autorizzazione a condannarlo a morte, fece eseguire la sentenza poco prima di morire. Intanto egli si era ini­ micato apertamente i farisei, condannando a morte due loro maestri, Giuda e Mattia, che avevano incitato il popolo, credendo che il re fosse morto, a rimuovere un'insegna pagana dalla porta del Tempio. Gli ultimi anni della sua vita passarono veramente nel terrore e nel sangue.

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Per la posizione dell' essenismo di fronte ali'autorità, cfr. anche Parte IV, 15.2.

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Storia del Secondo Temp io

9.2 La Giudea al tempo di Erode Il termine di «Giudea» può essere usato sia in senso stretto sia in senso largo. In senso stretto indica il distretto amministrativo di Gerusalemme, contrapposto, per esempio, all'Idumea o alla Galilea; in senso largo indica l'insieme di tutti i territori di Erode. Teoricamente, la Giudea, sotto Erode, fu Stato indipendente. Erode era un re alleato dei romani, tenuto pertanto a seguirne la politica estera e a provvedere alla difesa dei confini orientali. La Giudea non pagava nessun tributo a Roma e non era sottoposta al controllo del governatore della pro­ vincia di Siria. Nel 37 a.C. lo Stato di Erode comprendeva la Giudea, l'Idumea, la Perea, buona parte della Galilea, ma non la Samaria, né il porto di loppe che Cesa­ re aveva donato a Ircano Il. Questo territorio fu ridotto da Antonio che ne donò una parte a Cleopatra: loppe sul mare, insieme a tutte le città costiere indipendenti a sud, e Gerico nell'interno. Ma fu questione di breve tempo. Augusto, dopo Azio, restituì a Erode tutti i territori che Antonio aveva ce­ duto a Cleopatra e vi aggiunse le città costiere, che prima erano indipen­ denti, e la Transgiordania, a nord della Perea, esclusa la maggior parte della Decapoli, che restava indipendente.

9.3 La successione di Erode Per quanto Erode avesse eliminato una moglie e tre figli, i maggiori d' e­ tà, tuttavia, avendo avuto ben dieci mogli, lasciò un numero sufficiente di aspiranti al trono che con i loro dissensi turbarono profondamente il regno, indebolendolo politicamente. Dato che molti figli non erano ancora in età da poter agire o erano alieni dalla politica, di fatto la lotta si restrinse ai tre che egli aveva nominato nel suo ultimo testamento, fatto solo pochi gior­ ni prima di morire: Archelao ed Erode Antipa, entrambi figli di una don­ na samaritana, Malthake, e Filippo, avuto da una donna di Gerusalemme, Cleopatra. La questione era poi complicata dalla presenza sempre attiva di Salome, sorella d'Erode. Il piano d'Erode era di lasciare il regno ad Arche­ lao, mentre i fratelli avrebbero dovuto coadiuvarlo come etnarchi. Lasciava inoltre Asdod e Yamnia alla sorella Salame. Così, alla sua morte, Archelao fu considerato re dalla famiglia e acclama­ to tale dalle truppe in Gerico, alle quali la potente sorella Salome lesse una lettera di Erode che le ringraziava per la fedeltà che avevano avuto verso di lui e le pregava di averne altrettanta col successore (Ant. Iud. 17, 193-195). Ma Archelao rifiutò il titolo di re. Egli sapeva di dipendere da Roma e non

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9. Gerusalemme al tempo di Gesù di Nazaret voleva fare alcun gesto che potesse dispiacere ad Augusto. Pensò pertanto di recarsi personalmente a Roma per sistemare la propria posizione nella maniera a lui più favorevole, e in ogni caso in pieno accordo con Ottaviano. Celebrato il funerale del padre, che fu sepolto all'Erodion secondo la sua stessa volontà7, egli venne a Gerusalemme ed entrò nel Tempio. Prima di partire per Roma, voleva prendere contatto con i suoi sudditi e misurare personalmente il favore di cui poteva godere. La sua entrata in Gerusalem­ me fu trionfale (Ant. Iud. 17,200). Assiso su un trono d'oro, concesse un'u­ dienza pubblica nella quale molti vennero a chiedere favori. Ne concesse moltissimi, come il rilascio di coloro che erano stati imprigionati da Erode e la soppressione di tasse. Cercando di capire il racconto di Flavio Giuseppe che non ci dice chi fossero gli entusiasti e chi fossero coloro che avanzavano richieste, sembra di potersi immaginare che gli entusiasti che si davano da fare per osanna­ re Archelao fossero gente del popolo minuto che viveva per lo più fuori di Gerusalemme, mentre coloro che avevano accesso al trono dovevano esse­ re i maggiorenti della città, farisei e sadducei. Furono questi che chiesero la liberazione dei prigionieri politici e l'abolizione delle tasse. E furono sem­ pre questi che, fatti audaci dalla condiscendenza del giovane re (aveva 18 anni), arrivarono a chiedere che mettesse a morte quei consiglieri di Erode, che probabilmente facevano parte del suo seguito stesso, i quali avevano consigliato al re la condanna a morte di Giuda e Mattia. Ma questa volta Ar­ chelao, pur non rifiutando apertamente, disse che avrebbe ripreso in mano la questione quando fosse tornato da Roma. Scoppiò allora un tumulto che fu domato con grande spargimento di sangue. Archelao, Antipa e Salome andarono a Roma per regolare ciascuno a pro­ prio vantaggio la successione. Infatti Archelao era stato nominato da Erode erede principale solo nell'ultimo testamento, quello fatto pochi giorni prima di morire: nel testamento precedente la posizione migliore era quella di An­ tipa. Mentre i tre si trovavano a Roma, la Giudea fu di nuovo teatro di gravi tumulti scoppiati un po' dappertutto: nella Giudea stessa, sotto la guida di un pastore, un certo Athronges; nella Perea, sotto la guida di Simone, già schiavo di Erode; in Galilea, sotto la guida di Giuda, figlio di quell'Ezechia che era stato giustiziato da Erode. Queste ribellioni non avevano niente a che fare con quella che era scop­ piata in Gerusalemme mentre vi si trovava Archelao. La rivolta di Gerusa­ lemme era partita dalla classe dirigente, queste rivolte avevano invece ma­ trice popolare, erano scoppiate presso quella gente «che non conosceva la Legge», ma che combatteva contro gli oppressori romani e contro quegli ebrei che li appoggiavano. Questi miravano a un nuovo regno, forse appog7 Su recenti polemiche circa il presunto ritrovamento della tomba di Erode alla for­ tezza dell'Erodium, cfr. G. PATRICH, B. ARUBAS, Revisiting the Mausoleum at Herodium: It 1s Herod's Tomb ?, PEQ 147 (2015), pp. 299-315.

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Storia del Secondo Tempio giandosi a idee messianiche; quelli cercavano di rafforzare l'autorità del si­ nedrio. Fenomeni come quelli che abbiamo esposto ora mostrano ancora la grande complessità e la difficoltà di ridurre a schemi troppo precisi le varie posizioni politiche. Le tendenze erano molte e le alleanze che potevano na­ scere e dissolversi rapidamente erano di vario tipo. È facile notare come gli unici sostenitori degli Erodi andavano ricercati fra gli umili, ma è sempre fra gli umili che scoppiavano le rivolte messianiche che i farisei non con­ dividevano e che i sadducei osteggiavano. Si riveda la posizione di Rabbi Gamaliele quale è narrata negli Atti degli apostoli (5,35-39). Egli confronta i cristiani col moto di Giuda (forse il figlio di Ezechia) e invita la folla a la­ sciarli andare in pace. Era chiaro che Giuda non era il vero messia, perché la sua impresa era fallita. In quanto ai cristiani, la cosa migliore era lasciarli in pace e attendere il giudizio di Dio nella storia. Anche i farisei attendeva­ no un intervento divino, magari il messia: ciò che li distingueva dal popo­ lino della campagna era il fatto che essi rappresentavano una classe colta, che non cedeva agli entusiasmi: l'unica cosa sicura che avevano in mano da parte di Dio era la Legge. Mentre l'esercito romano provvedeva a ristabilire l'ordine in tutta la Giu­ dea, a Roma Ottaviano, presa visione del testamento di Erode, assegnò le regioni della Palestina come Erode aveva voluto: unica differenza, ma po­ liticamente non piccola, fu che si rifiutò di concedere ad Archelao il titolo di re. Egli ebbe soltanto il titolo minore di etnarca. La Giudea risultò smembrata in tre o quattro parti, tutte indipendenti l'una dall'altra. Ad Archelao vennero assegnate la Giudea propriamente detta, la Samaria e l'Idumea: era la parte migliore del regno; a Erode Anti­ pa, la Galilea e la Perea; a Filippo, la Transgiordania a nord dello Yarmuk; a Salome, furono concesse le città di Yamnia e di Asdod, senza alcun titolo preciso. Le città di Hippos, Gadara e Gaza furono dichiarate libere, staccate dalla Giudea e inserite nel sistema amministrativo della provincia di Siria. Mentre a Roma si discuteva sulla divisione del regno, la classe dirigente di Gerusalemme tentò di far abolire la monarchia, come era già stato tenta­ to con Pompeo e con Antonio. Questa volta la posizione dei richiedenti fu manifestamente più forte che in passato. Lo dimostra l'attenzione con cui i cinquanta delegati furono ascoltati da Augusto. Ciò che faceva la loro forza non era certo rappresentato dal lungo discorso tenuto dalla legazione contro Erode accusato di essere un violatore della Legge giudaica e un uomo cru­ dele; né tanto meno dal discorso contro Archelao, reo di non aver ceduto a tutte le richieste che gli erano state fatte. La loro forza, e Ottaviano lo vide bene, era rappresentata da ben ottomila ebrei residenti in Roma che appog­ giarono tutti, più o meno palesemente a seconda degli interessi personali e delle parentele, le richieste della legazione giudaica (Ant. Iud. 17,299-300). Ottaviano, come Cesare, aveva sempre cercato il favore degli ebrei. Ora cominciava a capire che Archelao non rappresentava gli interessi degli ebrei. Non volle andare contro il diritto regale di Erode di decidere di ciò che gli

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9. Gerusalemme al tempo di Gesù di Nazaret apparteneva, né volle affrontare un improvviso cambiamento della strut­ tura politica della Giudea. Di fatto congedò Archelao senza nominarlo re e promettendogli il regno solo se avesse saputo controllare tutta la cosa giu­ daica. Ottaviano stava a vedere lo sviluppo della situazione. Se Archelao non si fosse saputo accattivare il favore degli ebrei di Gerusalemme, che ora apparivano manifestamente appoggiati da tutti quelli dell'impero, la sua sorte, alla prima occasione, sarebbe stata segnata.

9.4 Gli Erodi Dei tre Erodi, quello che regnò più tranquillo fu Filippo, che poté restare a capo della sua tetrarchia fino al 34 d.C. Fu sempre fedele ai romani e del suo governo si può ricordare la costruzione della città di Cesarea, sul luogo dove prima sorgeva Paneio. Per distinguere questa Cesarea dall'altra omo­ nima costruita sul mare da Erode il Grande, questa si suole indicare come Cesarea di Filippo. Sposò quella Salome figlia di Erodiade che fu la causa della decapitazione di Giovanni Battista. ErodeAntipa, che Flavio Giuseppe (Ant. Iud. 18,245) definisce uomo aman­ te della tranquillità, avrebbe potuto forse vivere tranquillo come il fratella­ stro Filippo, se non avesse incontrato nella sua vita Erodiade, della quale si innamorò e per la quale dovette affrontare moltissime avversità e inimicizie. Erodiade aveva nelle vene sangue asmoneo; era figlia di Aristobulo Asmoneo, figlio di Mariamne, entrambi fatti giustiziare da Erode il Gran­ de. Essa aveva sposato Erode Boeto che era un altro figlio di Erode, nato da Mariamne II, donna di stirpe sacerdotale. Erodiade era pertanto cognata di Erode Antipa. Boeto faceva vita privata, lontano dalla politica. Erodiade incontrò Erode Antipa a Roma e qui nacque fra i due una passione che li avrebbe tenuti legati tutta la vita, anche nella sorte più avversa, ché Erodia­ de, per quanto donna certamente ambiziosissima, non volle mai abbando­ nare l'uomo della cui rovina politica fu probabilmente la causa principale. Antipa decise, dunque, di ripudiare sua moglie, una principessa nabatea; ed Erodiade decise di abbandonare il marito, dal quale aveva avuto una fi­ glia, Salome, che portò con sé. La moglie di Antipa fuggì senza attendere il ripudio e fuggì presso il padre. Antipa ed Erodiade poterono unirsi. Il fat­ to deve essere avvenuto un po' prima che Giovanni il Battista cominciasse la sua predicazione. Giovanni fu il solo ebreo che, nella silenziosa riprovazione di tutti, ebbe il coraggio di andare a dire a Erode Antipa: «Non ti è permesso d'avere la moglie di tuo fratello» (Mc. 6,18). Antipa provava ammirazione per quest'uo­ mo e lo stimava; pare che si fosse più volte intrattenuto con lui (Mc. 6,20). Lo sapeva stimato dal popolo (Ant. Iud. 18,118), proprio da quel popolino

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Storia del Secondo Temp io della campagna che non andava d'accordo coi farisei della città (Giov. 4,13) e che ormai per tradizione costituiva la sola base possibile del governo degli Erodi. C'erano pertanto molti motivi che consigliavano la prudenza a quest'uomo che prudente fu sempre, salvo che nella passione per Erodia­ de. Questa voleva invece la morte di Giovanni, vuoi soltanto per odio, vuoi per calcolo politico, perché, se era pericoloso ucciderlo, non era senza rischi nemmeno lasciarlo in vita. Secondo i racconti di Marco (6,17-29) e di Matteo (14,3-12), durante una festa a Macheronte (località più volte ricordata da Flavio Giuseppe) Salome danzò così bene che Erode le promise in premio qualunque cosa ella avesse chiesto. La madre ingiunse alla figlia di chiedere la testa di Giovanni, che fu subito decapitato. Nel 36 d.C. Areta attaccò ErodeAntipa per vendicare l'affronto di un tem­ po ed Erode fu sconfitto. Sperò nell'aiuto dei romani, ma la morte di Tiberio fermò l'esercito che già si era mosso. Caligola, che era amico di Agrippa, un fratello di Erodiade, concesse a questo il titolo di re. Invano Antipa, spinto dalla moglie che non poteva tollerare lo smacco subìto, corse a Roma, per cercare di riguadagnare il terreno perduto. Il rimedio fu peggiore del male: accusato da Agrippa di essere in trattative segrete coi Parti, fu mandato da Caligola in esilio, a Lione in Gallia. Fondamentale per la sorte della Giudea al tempo di Gesù è il governo di Archelao finito con la deposizione da parte di Augusto nel 6 d.C.; ciò dette alla Giudea in senso stretto quella particolare struttura amministrati­ va e politica, che troviamo rispecchiata nel problema del processo di Gesù di Nazaret. Le notizie riguardanti il governo di Archelao sono scarsissime specialmente in confronto a quanto desidereremmo sapere. La cosa è do­ vuta alla morte di Nicola di Damasco che era stato fino a questo punto la fonte principale di Flavio Giuseppe. Le vicende del governo di Archelao so­ no condensate da Giuseppe in pochi paragrafi: Ant. Iud. 17,339-341. Giova pertanto analizzarle con la massima attenzione. Appena giunto da Roma a Gerusalemme, Archelao depose il sommo sa­ cerdote allora in carica, loazaro, e lo sostituì con un fratello di questo, Elea­ zaro. L'accusa mossa a Ioazaro era di non essere stato capace di controllare il popolo durante l'assenza di Archelao. Era stato in seguito a questa som­ mossa che il legato romano Varo era entrato con le sue truppe in Giudea e aveva concesso di partire alla volta di Roma alla già menzionata delega­ zione di cinquanta maggiorenti che era andata a chiedere ad Augusto l' a­ bolizione della monarchia. loazaro deve essere apparso ad Archelao come il principale responsabile del tentativo: di qui la sua deposizione. Elesse al suo posto un fratello di questo, evidentemente nel tentativo di dividere la famiglia e nella speranza che anche questo fratello avesse seguaci: se ne eb­ be, non furono numerosi. Probabilmente per rafforzare la sua posizione, sposò Glafira, vedova di Alessandro Asmoneo e quindi sua cognata. Anche Eleazaro finì con l'esse-

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9. Gerusalemme al temp o di Gesù di Nazaret re deposto dalla carica di sommo sacerdote e fu sostituito da Gesù, figlio di See. L'urto con la classe dirigente di Gerusalemme doveva essere al colmo. Archelao pertanto si appoggiò nel suo governo sui militari, e, fra i civili, deve aver sentito vicini solo gli abitanti della zona verso il Giordano. Geri­ co era stata città prediletta di Erode e ora lo fu anche di Archelao, che vi co­ struì la sua reggia e provvide a irrigare una parte della pianura circostante. La zona della sua residenza abituale e centro delle sue cure sembra essere stata la zona della predicazione del Battista e degli esseni8 • I maggiorenti di Gerusalemme devono aver continuato a insistere presso Ottaviano, il quale fini con l'accettare il loro suggerimento, essendo ormai convinto che Archelao non rappresentasse più gli ebrei né di Gerusalem­ me né della diaspora; e i romani, come abbiamo visto, vollero sempre avere amici gli ebrei: quelli importanti, naturalmente. Alla delegazione di Gerusalemme se ne aggiunse una analoga da parte dei samaritani. Tutti accusavano Archelao di essere un crudele tiranno. Ot­ taviano, che non aspettava altro, convocò a Roma Archelao e lo condannò ad andare in esilio a Vienna, in Gallia. La Giudea ebbe allora un'amministrazione particolare, creata probabil­ mente per permettere il governo di una città che, per motivi diversi, non era facile a governarsi. Essa fu annessa alla provincia imperiale di Siria e pertanto l'autorità suprema vi era esercitata dal governatore della Siria. In realtà, però, un altro funzionario imperiale risiedeva a Cesarea, sul mare, con il titolo puramente amministrativo di procurator9, ma in realtà con l'in­ carico di comandante delle truppe di stanza in Giudea: egli era responsabile sia della riscossione dei tributi sia del mantenimento dell'ordine pubblico; non è chiaro se spettasse solo a lui emettere condanne a morte. Verisimil­ mente era un potere che gli era riservato solo in caso di delitti di ribellione o di carattere genericamente politico 10 •

8 Sulla possibilità che Gerico fosse città essenzialmente essenica, dr. C. DANIEL, Les es­ séniens et l'arrière fond historique de la Parabole du Bon Samaritain, NT 11 (1969), pp. 71-104. 9 Circa il titolo del governatore romano della Giudea le fonti non sono concordi. Il titolo di praefectus (Émxpx_oç) è documentato per Pilato da un'iscrizione scoperta a Cesa­ rea nel 1961 (dr. A. FovRA, L'iscrizione di Ponzio Pilato a Cesarea, "Rendiconti dell'Istitu­ to Lombardo, Accademia di Scienze e Lettere" 95 [1961], pp. 419-434). In seguito però prevalse nell'uso il titolo di procurator (Én( -rponoç), che originariamente aveva valore pu­ ramente amministrativo e che fu portato dai rappresentanti degli imperatori. Con l' af­ fermazione dell'amministrazione della casa imperiale su quella ufficiale dello Stato, il titolo di procurator si affermò su quello di praefectus, ma fu un cambiamento di nome e non di sostanza. Del resto, le fonti contemporanee usano questi e altri titoli ancora sen­ za distinguerli chiaramente. Almeno a partire dal tempo di Claudio il titolo di procurator sembra quello preferito. I testi evangelici e Flavio Giuseppe in Ant. Iud. 18,55 utilizzano il titolo greco di �yEµwv, «governatore». Cfr. K.H. BoND, Ponzio Pilato, Brescia 2008, pp. 39-40 (= Pontius Pilate in History and Interpretation, Cambridge 1998). 10 Sui poteri dei governatori romani, dr. P.A. BRUNT, Procuratoria[ Jurisdiction, "Lato­ mus" 25 (1966), pp. 461-489; SCHùRER, History, I, pp. 367-368.

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Storia del Secondo Tempio Gli ebrei poterono mantenere, secondo l'abitudine romana, la loro am­ ministrazione e i loro organi statali, il più alto dei quali era il sinedrio, che rappresenta l'ultima evoluzione storica di quei «capi del popolo» nomina­ ti in Ne. 8,13, e della «gerusia» ricordata da Flavio Giuseppe fin dal tempo dei Tolomei (Ant. Iud. 12,138.142). Capo del sinedrio fu il sommo sacerdo­ te, la cui elezione, come dai tempi del primo sadocitismo e specialmente dal tempo della rivolta maccabaica, spettò al sovrano straniero. Fu infatti Quirinio, prefetto della Siria alla quale la Giudea apparteneva, a nomina­ re sommo sacerdote Anna, probabilmente perché doveva essere stato uno dei più attivi avversari di Archelao e quindi sicuro fautore del dominio ro­ mano. Egli fu sommo sacerdote dal 6 d.C. al 15 d.C.; poi il sommo sacerdo­ zio passò ad altri membri della sua famiglia, fra i quali richiama la nostra attenzione specialmente il nome di Caifa, suo genero, perché direttamente interessato nel processo di Gesù; tuttavia il sinedrio e in genere la politica di Gerusalemme restarono dominati dalla figura di Anna fino alla sua mor­ te avvenuta nel 35 d.C. I romani cercarono di rispettare al massimo le esigenze della Torah. Dato che la Legge proibiva le immagini, i soldati romani non introducevano in Gerusalemme i loro vessilli. Così le monete coniate in Giudea non portava­ no l'effigie dell'imperatore, ma soltanto il suo nome 11 ; va detto però che in Giudea si potevano coniare soltanto monete di bronzo; i tagli più alti dove­ vano pertanto recare qualche effigie, perché non provenivano dalla zecca della Giudea (Mc. 12, 15-16). Una qualche contaminazione era insomma ine­ vitabile. Gli ebrei furono inoltre esonerati da prestare il culto all'imperato­ re sotto qualsiasi forma, come invece era in uso in altre provincie orientali. Per poter procedere alla riscossione delle tasse, i romani divisero la Giu­ dea in undici distretti, chiamati'toparchie. Inoltre provvidero a un censimen­ to di tutta la popolazione: ciascun capofamiglia doveva registrare il proprio nome e indicare il proprio patrimonio. La notizia del censimento tributario fu causa ancora una volta di gravi turbamenti. La ribellione non scoppiò in Giudea per l'intervento del sacer­ dozio, che cercò di placare gli animi, ma scoppiò fuori dei confini dell'ammi­ nistrazione romana, in Galilea, dove un Giuda, nativo di Gamala, dette vita a un'altra rivolta di tipo messianico. Pur mancando notizie precise, sembra che Giuda scendesse dalla Galilea nella Giudea e qui trovasse appoggi an­ che presso i farisei, uno almeno dei quali lo appoggiò apertamente: Saddok. Ciò che distingue l'interpretazione della Legge di questo Saddok dall'in­ terpretazione corrente dei farisei era il problema dello «zelo», cosa della qua­ le abbiamo già parlato a proposito della ribellione maccabaica che scoppiò all'insegna dello zelo per la Legge. La lotta armata fu per questi uomini l'u­ nica via per osservare veramente la Legge. Il movimento zelota ha pertanto

11 Fa eccezione la zona governata da Filippo, dove l'elemento pagano era numeroso.

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9. Gerusalemme al tempo di Gesù di Nazaret radici che lo avvicinano sia ai movimenti messianici sia al farisaismo. Via via che la dominazione romana si farà più dura, il movimento zelota verrà alla ribalta fino a dominare gli avvenimenti che porteranno alla distruzio­ ne di Gerusalemme nel 70 d.C. Quanto detto fin qui rappresenta più una presentazione delle idee dello zeloti­ smo che una storia del partito. Lo stesso Flavio Giuseppe, quando presenta la quar­ ta setta giudaica da aggiungersi alle tre classiche sembra far nascere lo zelotismo con la rivolta di Giuda ( Beli. 2,118), ma in questa sede espone solo le idee del movi­ mento. Poi però nomina gli zeloti solo a partire dalla guerra giudaica ( Beli. 2,651). Prima Flavio Giuseppe parla di sicari e non di zeloti. Al di là dei nomi indicanti movimenti storici per noi male afferrabili nei loro contorni, resta chiara l' esisten­ za di un ideale di lotta a fondo contro i romani e i loro fautori. O. Cullmann scrive: «Senza negare le differenze [ . . . ] attribuiamo, in conformità con l'appellativo in uso oggi, la denominazione di zeloti a tutti i resistenti di allora» 1 2 . Theissen usa addi­ rittura il termine « partigiani» 13 •

9.5 La Giudea sotto i procuratori L'amministrazione romana diretta dei territori dell'etnarca Archelao co­ minciò nel 6 d.C. nelle forme che abbiamo tratteggiato nel paragrafo prece­ dente. Contemporanei erano i regni dei tetrarchi Filippo e Antipa. Era una situazione piuttosto confusa sul piano della struttura di quell'unità che era la Giudea in senso lato; a questa corrispondeva una situazione altrettanto confusa nel governo della Giudea in senso stretto. Se, teoricamente, il go­ verno giudaico era passato dalle mani di Erode e di Archelao a quelle dell' a­ ristocrazia sadducea, questa appare ormai cosi decisamente filoromana, da poter essere considerata erede della politica di Antipatro e di Erode più che fondatrice di una nuova linea politica. In altri termini, la classe, che sia in Palestina sia dalla diaspora aveva appoggiato il governo monarchico de­ gli Erodi, vide ormai più conforme ai suoi interessi il governo sadduceo di quello monarchico. Il governo sadduceo doveva apparire preferibile, per­ ché da un lato continuava a proteggere gli interessi economici della classe ricca, dall'altro aveva il vantaggio di rappresentare e garantire molto me­ glio l'identità del giudaismo. Una scelta di questo genere presuppone un forte senso della propria identità culturale e nazionale, ma mostra anche il 12 O. CULLMANN, Gesù e i rivoluzionari del suo tempo: storia, società, politica, Brescia 1971, p. 15 (ed. tedesca Ti.ibingen 1970). 1 3 G. THEISSEN, Gewaltverzicht und Feindesliebe (Mt 5,38-48/Lk 6,27-38) und deren so­ zialgeschichtlicher Hintergrund, in: Io., Studien zur Soziologie des Urchristentum, Ti.ibingen 1979, pp. 176-180.

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Storia del Secondo Temp io bisogno di proteggerla da pericoli che in qualche modo si dovevano sentire come incombenti. I moti antigiudaici che sconvolsero Alessandria all'inizio del regno di Caligola confermano che quel bisogno di identità e di prote­ zione era tutt'altro che infondato. Inoltre non è escluso che in linea di principio tutta la Giudea fosse sem­ pre considerata da Roma un'unità culturale che aveva una sua dinastia. Documenta questa ideologia il fatto che i romani nominarono ancora due re ebrei, discendenti di Erode e degli Asmonei: Agrippa I, che regnò dal 37 al 44, e Agrippa II, figlio del primo, che mantenne il titolo fino a circa il 90. Nella prospettiva romana, lo Stato ebraico, o almeno l'ethnos ebraico, con­ tinuava a esistere. Anche dopo la distruzione di Gerusalemme gli ebrei eb­ bero un capo, un nasi', che risiedette in un primo tempo a Yamnia e che fu considerato dai romani il capo della comunità ebraica. Quanto più la potenza pagana si mostrava in tutta la sua grandezza come cultura e come politica vincente, tanto più gli ebrei si rafforzavano nella loro tradizione, sottolineando le proprie peculiarità, che si mostravano nel loro modo di vivere, cioè, in definitiva, nella loro osservanza della Legge. Natural­ mente questo non significa che gli ebrei fossero d'accordo sui suoi contenuti. Non erano d'accordo sul valore della Legge orale che si sviluppava accanto a quella scritta; non erano d'accordo sull'interpretazione di molti comanda­ menti; discutevano sulla possibilità o meno di semplificare la Legge intorno a qualche comandamento fondamentale; nemmeno sulla credenza nella ri­ surrezione erano tutti d'accordo. Lo stesso giudizio divino dopo la morte non si capiva bene come sarebbe avvenuto né fino a che punto la morte segnas­ se effettivamente il momento finale delle possibilità di salvezza nell'aldilà: si discuteva se era possibile o meno l'intercessione per le anime dei defunti. Le stesse norme di purità facevano problema da tempo: si stentava a tro­ varne una giustificazione razionale davanti a un mondo imbevuto di razio­ nalità. Non era solo un problema di apologia riservato a coloro che si assu­ mevano il compito di presentare il giudaismo in greco ai pagani: era anche un problema interno del giudaismo. In quest'epoca la presenza delle immagini divenne problema gravissi­ mo, certamente perché collegato ai rapporti con la nazione dominante. I ro­ mani avevano immagini negli stessi stendardi militari e la radicalizzazione delle norme relative alla loro proibizione aveva una funzione di difesa del giudaismo e delle sue peculiarità. In linea di principio i romani non solo tolleravano, ma approvavano e riconoscevano il culto ebraico, come dimo­ stra l'accettazione della pena di morte per qualunque pagano avesse osa­ to penetrare nel Tempio di Gerusalemme e come alcuni episodi sporadici confermano, quali la condanna a morte di un soldato che aveva strappato un rotolo della Legge. Questo accadde sotto la procura di Cumano (48-52 d.C.; cfr. Ant. Iud. 20,115-117; Bell. 2,228-231). Il problema del rispetto delle norme della Legge fu fonte di gravi attri­ ti soprattutto in Gerusalemme e il problema che viene spesso alla ribalta

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9. Gerusalemme al temp o di Gesù di Nazaret è quello delle immagini, che per i romani era duro da comprendere e che comportava una limitazione alle loro abitudini. I procuratori romani non sembrano aver mai capito la spiritualità giudaica su questo punto e devono aver considerato puri pretesti politici quelli che per gli ebrei osservanti erano cose fondamentali per la loro religiosità. Per un romano, distinguere in que­ sto campo l'esigenza religiosa dalla provocazione doveva essere molto diffi­ cile, perché in ogni caso era un modo per gli ebrei di riaffermare la propria identità di fronte ai romani. I governatori romani della Giudea furono qua­ si di norma dei profittatori e dei ladri, ma non erano diversi da quelli delle altre provincie; eppure nel I sec. non ci furono tanti motivi d'attrito come in Giudea. Vitellio (Ant. Iud. 18,120-125), che fa passare le sue truppe che de­ vono marciare contro i nabatei fuori del territorio giudaico in senso stretto, per non offendere gli ebrei con la presenza delle insegne militari romane, è l'esempio di una tolleranza romana, che non stupisco che ad altri sembrasse assurda. Qualche anno dopo, Petronio (Ant. Iud. 18,263-272; Beli. 2,192-203), un altro governatore della Siria, temporeggiò al massimo, fino a provoca­ re l'ordine dell'imperatore Caligola di suicidarsi, quando ricevette l'ordine di portare nel Tempio di Gerusalemme la statua di Caligola divinizzato14 • La situazione interna della Palestina era poi caratterizzata da un forte disordine pubblico. La regione era percorsa da tipi di vario genere: c'era­ no predicatori itineranti1 5 che si attribuivano quanto meno il titolo di pro­ feti e che rendevano inquiete le folle col miraggio di un miracoloso e pros­ simo intervento di Dio in favore del suo popolo. Il bisogno del miracolo e del soprannaturale, l'attesa della rivelazione della potenza divina davano frutti diversi nella letteratura e nella vita quotidiana, ma analoghi. Fiori­ va la letteratura apocalittica, che speculava sull'avvento del regno di Dio che avrebbe fatto giustizia dei ricchi e dei nemici del popolo ebraico (vedi il Libro delle Parabole). Fiorivano anche gli esaltati che si ritenevano investi­ ti da Dio di grandi missioni. Nel 35 d.C. un sedicente profeta samaritano promise di far riapparire gli arredi sacri del tempio del Garizim sepolti in qualche parte del monte fin dal tempo di Mosè, se il popolo vi si fosse ra­ dunato (Ant. Iud. 18,85-89). La reazione armata di Pilato all'assembramento e la strage che ne segul fu la causa per cui il governatore della Siria Vitellio congedò Pilato dalla sua carica. Un'altra volta, sotto la procura di Fado (4446 d.C.), un certo Teuda1 6 promise di far aprire a un suo ordine le acque del Giordano. Un altro sedicente profeta ricordato come l'Egiziano (At. 21,38; Ant. Iud. 20,169-171; Beli. 2,261-263) radunò nel deserto un certo numero di 14 Comunque, Petronio non si uccise, perché gli giunse prima il messo con la notizia della morte di Caligola di quello che gli portava l'ordine imperiale di uccidersi. 15 Cfr. CULLMANN, Gesù e i rivoluzionari (cfr. supra, nota 12), e soprattutto G. THEISSEN, Gesù e il suo movimento: analisi sociologica della comunità cristiana primitiva, Torino 1979 (Gesù e il suo movimento. Storia sociale di una rivoluzione di valori, Torino 2007). 16 Per Teuda, cfr. At. 5,36 e Ant. Iud. 20,97-99. Secondo il racconto degli Atti, Teuda sarebbe stato anteriore a Giuda di Gamala.

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Storia del Secondo Temp io disperati e promise loro che, se avessero raggiunto il Monte degli Ulivi alle porte di Gerusalemme, egli avrebbe fatto crollare le mura della città, per­ mettendone la facile conquista. Accanto a coloro che predicavano il miracolo in funzione della vittoria c'erano anche quelli che preannunciavano la rovina totale. Un'antica tradi­ zione che doveva essere ben radicata nella mentalità popolare diceva che Israele era un «popolo di dura cervice»; era un popolo peccatore che do­ veva scontare le sue colpe, come già le aveva scontate in passato. La frat­ tura che aveva scosso il sacerdozio nella prima metà del II sec. a.C. aveva fatto scrivere che il Tempio sarebbe stato distrutto di nuovo, per essere ri­ costruito dalla mano stessa di Dio (cfr. lH [LS] 90,28-29). Giovanni Battista vedeva la scure divina ormai già «posta alla radice» (Mt. 3,10). La profezia della distruzione del Tempio fu ripetuta anche da Gesù in una prospettiva escatologica diversa, ma sempre di catastrofe in funzione di un nuovo va­ glio divino che avrebbe prodotto la sopravvivenza del resto santo. Profeti di vittorie miracolose e profeti di sventure si radicavano nel medesimo am­ biente che era diviso tra chi attendeva la guerra definitiva e vittoriosa e chi la grande catastrofe; gli uni e gli altri confermavano l'attesa di una guerra terribile come realtà ineluttabile. Senso del peccato e delle sue conseguen­ ze e senso della giustizia di Israele oppresso da nemici di Dio si uniscono a creare una mentalità in cui la guerra contro Roma è attesa come logica con­ seguenza dei fatti, interpretati alla luce delle proprie tradizioni. Tensione religiosa e tensione politica si mescolavano in un groviglio che non è facile comprendere, ma che rese estremamente difficile la domina­ zione romana (Ant. Iud. 20,167-168; Bell. 2,259-260). Quelli che oggi sono chiamati escatologia e messianismo non erano solo concetti religiosi, erano anche idee che agivano potentemente nella storia. Se nel giudaismo della Mishnah messianismo ed escatologia non trovano quasi posto1 7, ciò si deve alla reazione dell'elemento non certo filoromano, ma in ogni caso avverso a ogni estremismo e a ogni infatuazione. Col passare degli anni i sentimenti politici degli ebrei si radicalizzarono sotto due insegne opposte: coloro che ritenevano l'amicizia con Roma un punto irrinunciabile vuoi perché avessero interesse a mantenere questa situa­ zione, vuoi perché ritenessero ogni ribellione impossibile. Era la posizione dei sadducei e di buona parte dei farisei. Ma il partito della ribellione andò sempre più aumentando la propria forza, attirando molti. Il partito inter­ ventista finì col considerare nemici non solo i romani, ma anche tutti quegli ebrei che per qualsiasi motivo ne sopportavano il governo e predicavano la pace. Gli assassini degli avversari pacifisti divennero sempre più comuni a opera degli estremisti zeloti, detti sicari. L'ordine pubblico era ormai vicino al caos completo, quando scoppiò la grande rivolta del 66. 17 Cfr. J. NEUSNER, Il messia nel contesto della Mishnah, "Henoch" 5 (1983), pp. 343-370; Io., Temi messianici nel periodo di formazione del giudaismo, "Henoch" 6 (1984), pp. 31-54.

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9. Gerusalemme al tempo di Gesù di Nazaret Così il sacerdozio si andò allontanando sempre più dal popolo e pose le basi politiche della sua scomparsa dopo la distruzione del Tempio del 70 d.C., che fu distruzione del Tempio, ma non certo del giudaismo. Col 70 scomparve dalla scena storica anche l'essenismo. Certe idee esseniche, quali ci sono note dai rotoli del Mar Morto, mostrano chiarissima l'origi­ ne sadocita del movimento e la sua avversione alle ribellioni armate1 8 . Ma, col passare del tempo, l'accettazione di idee diffuse nel giudaismo portò il movimento essenico su linee assai diverse dal punto di partenza, fino a col­ laborare con la grande ribellione zelota, insieme con la quale fu travolto19 . Come si vede, le forze politiche che agivano all'interno della Giudea al tempo di Gesù erano molteplici, con tendenze che non sempre erano unita­ rie, proprio per la molteplicità delle ideologie. Data la complessità dei feno­ meni e la documentazione non sufficiente a seguire lo sviluppo dei singoli movimenti, per meglio afferrare il panorama dell'evoluzione dell'ideolo­ gia giudaica, giova fare la storia non tanto dei singoli movimenti, quanto delle singole ideologie.

18 Circa il rispetto delle autorità come espressione della volontà di Dio, che caratte­ rizzò gli esseni almeno fino al momento della grande rivolta, cfr. Parte IV, 15.2. 19 Cfr. M. BAILLET, Un recueil liturgique de Qumran, Grotte 4: «Les paroles des luminaires», RB 68 (1961), pp. 191-250; A.M. DENIS, Evolution des structures dans la secte de Qumran, in: Aux origines de l'Eglise (=RechBibl 7), Paris 1965, pp. 23-49; H. SEIDEL, Erwiigungen zur Frage des geistigen Ursprungsortes der Erweckungsbewegung von Qumran, in: Bibel und Qumran, Berlin 1968, pp. 188-197; L. MoRALDI, I manoscritti di Qumran, Torino 19862, pp. 215-218. Per la concezione essenica della guerra escatologica, cfr. alcuni studi di G. Ibba sull'essenico Rotolo della Guerra: G. IBBA, Il "Rotolo della Guerra ". Edizione critica, Quader­ ni di Henoch 10, Torino 1998. lo., Alcune considerazioni sul tempo escatologico di 1 QM 1, "Henoch" 19 (1997), pp. 283-294. Io., Le ideologie del Rotolo della guerra, Studio sulla genesi e datazione dell'opera, Testi e studi 17 (AISG), Firenze 2005.

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Parte IV I grandi temi del giudaismo medio

10 Introduzione ai problemi

10.1 Le caratteristiche generali del periodo del giudaismo medio Come è facilmente intuibile dall'esposizione degli avvenimenti politici, i tre secoli circa che vanno dal 200 a.C. agli anni della distruzione del Secondo Tempio sono caratterizzati da una profonda crisi spirituale. Questo perio­ do della storia giudaica è stato a lungo indicato con la formula «giudaismo tardo», che sottolineava come il giudaismo del tempo di Gesù fosse un giu­ daismo «tardo», se non addirittura esaurito, perché in realtà continuato, nel suo spirito più profondo, solo dal cristianesimo. Si è poi affiancata a questa dicitura quella opposta, «giudaismo antico», che vuole sottolineare come il giudaismo del tempo di Gesù sia tutt'altro che un giudaismo in via di esau­ rimento, ma al contrario il crogiuolo, da cui è nato il giudaismo moderno. In questo caso la terminologia rivela un'interpretazione della storia, per cui si sottolineano i legami tra il giudaismo del I secolo, sostanzialmente iden­ tificato col farisaismo, e il giudaismo moderno o rabbinismo. In seguito si è sentito il bisogno di una terminologia nuova, che cerchi di interpretare la realtà della storia in maniera più oggettiva, meno condi­ zionata dai problemi teologici moderni e dalle nostre posizioni religiose. Il tempo moderno ha almeno il merito di sapersi mettere (o almeno di cerca­ re di mettersi) davanti agli avvenimenti nella maniera più neutra possibile rispetto alle ideologie e alle religioni storiche: sembra che al centro dell'i­ deologia cominci a venir posto l'uomo con le sue pulsioni, i suoi ideali e le sue malefatte. È stata così proposta l'espressione «giudaismo medio», in in­ glese Middle Judaism, che vuole sottolineare la continuità tra un giudaismo più antico, quello formatosi con l'inizio della repubblica, che attraverso il giudaismo medio ricchissimo di tendenze tra le più svariate e contraddit-

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Storia del Secondo Tempio torie, si continua anche oggi chiaramente sia nella religione ebraica sia in quella cristiana. Questa nuova dicitura cerca di superare i limiti delle due precedenti, abbracciandole entrambe: il giudaismo medio, in quanto pre­ suppone un giudaismo successivo, evita sia di considerare il giudaismo fi­ nito con l'avvento del cristianesimo, sia di considerare il cristianesimo fuo­ ri dell'area giudaica1 . La peculiarità del giudaismo medio è un fatto tanto sicuro, quanto difficile da definirsi. Esso si staglia decisamente sullo sfondo delle religioni e culture che lo circondano per il rigido monoteismo e per la fedeltà ai costumi patri, cioè alla Legge, come era interpretata allora e che dava molta importanza sia alle norme alimentari, sia all'impurità del pagano. Tuttavia le numerose correnti che ne costituiscono la vitalità impediscono una definizione troppo precisa. Soprattutto si approfondisce sempre di più il solco che divide colo­ ro che concepiscono il rapporto con Dio nei termini della teologia della Pro­ messa e quelli che lo vedono nei termini della teologia del Patto. La Legge ha maggiore importanza per i secondi, ma si hanno anche tra i primi atteg­ giamenti radicali al riguardo. Il messianismo è più importante per i primi, ma è chiaro che si tratta di un fenomeno che va di nuovo prendendo piede in ambienti numerosi e nelle forme più svariate. La concezione stessa della salvezza si modifica, a seconda che si accetti o meno l'idea della sopravvi­ venza dopo la morte, vuoi per immortalità dell'anima, vuoi per risurrezio­ ne. La medesima idea può apparire in gruppi ideologicamente opposti, ma con valenze diverse a seconda della costellazione ideologica in cui è inseri­ ta. Le modalità della conoscenza variano da gruppo a gruppo e si collegano con quello del rapporto tra libertà dell'uomo e libertà onnipotente di Dio: il predeterminismo, che in qualche modo si era presentato come una possibi­ lità con Qohelet, prende sempre più piede, mentre altri difendono la libertà di scelta dell'uomo. Si prende, intanto, sempre più coscienza del fatto che il giusto, cui solo dovrebbe spettare la ricompensa della sua osservanza della Legge, non esiste. Cosa che per l'ebreo rappresenta un problema gravissimo, perché mette in crisi la speranza stessa della salvezza, che ormai può essere non solo in questa vita, ma anche, per molti, per l'eternità. Su tutto poi si esten­ de il problema che noi chiamiamo delle norme di purità, cioè di tutte quelle norme della Legge, che non si riusciva a riportare a un principio razionale; era un problema che veniva alla luce nel contatto con la civiltà greca. Que­ ste norme di comportamento da un lato davano all'ebreo il senso della sua identità, dall'altro finirono col costituire problema per gli ebrei stessi, data la loro irrazionalità rispetto ai concetti fondamentali della Legge. Ma la Legge aveva un centro, oppure no? Si aggiunga a questo un'evoluzione del calen­ dario, che finiva con l'investire anche gli aspetti liturgici della vita dell'ebreo e si avrà cosi un primo quadro della complessità dei problemi del periodo.

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Cfr. BoccACCINI, Middle Judaism.

10. Introduzione ai problemi Fra i vari gruppi ci furono contatti densissimi e scontri che non furono sempre solo accademici e teologici. Le divisioni ideologiche si ripercuote­ vano nelle fazioni in lotta e le alimentavano. Ciò che tiene uniti gli ebrei a formare il giudaismo è la coscienza di appartenere a una medesima unità di carattere etnico, che si riconosce in alcuni, pochi, elementi a tutti comuni, anche se diversamente interpretati. Fa naturalmente eccezione il samarita­ nesimo che aveva avuto il suo tempio sul Garizim a partire dalla fine del IV sec. a.C. ed era, pertanto, una struttura parallela a quella del giudaismo di Gerusalemme, con questo concorrente e con rapporti scarsi sul piano sociale e nulli su quello ideologico a partire dal II sec. a.C. La tensione tra samari­ tani e giudaiti ebbe il suo culmine nella distruzione del tempio del Garizim a opera di Giovanni Ircano. Ciò che teneva unita la società giudaica era pertanto un vasto complesso di fattori storici e culturali, più che una sicura unità religiosa che facesse ca­ po a un'unica autorità indiscussa. Tempio e Legge erano i due cardini della religione giudaica, ma dietro al culto c'era il sacerdote e dietro alla Legge lo scriba. Non è pensabile che il sacerdote non intervenisse in questioni ri­ guardanti la Legge, come di fatto lo scriba poteva intervenire in questioni riguardanti il culto in senso stretto. Questo senso della duplicità dei cardi­ ni, su cui poggiava tutta la struttura religiosa d'Israele, è messo in eviden­ za da una massima di Simone il Giusto, che visse agli inizi del II sec. a.C.: Per tre cose sussiste il mondo: per la Legge, per il Tempio e per la Mise­ ricordia (Pirqe Abot 1,2)2. Legge e Tempio sono due cardini necessari, ma indipendenti: si affer­ ma anche la necessità della Misericordia (gmlwt "/Jsdym), come amore per il prossimo, sentito come fatto non certo contrario agli altri due, ma da essi ontologicamente diverso. Il problema del rapporto fra questi tre elemen­ ti poteva porsi e risolversi con la preminenza dell'uno o dell'altro: l'unità della tradizione religiosa riposava su una forza intrinseca all'essere ebreo, di carattere storico-culturale più che teologico. Il sommo sacerdote era una funzione della religione giudaica, ma non la rappresentava, e per la Legge non c'era un'autorità che la potesse interpretare in maniera vincolante per tutti. La scoperta della legislazione del Rotolo del Tempio3, certamente già esistente nel II sec. a.C., e della lettera detta 4QMMT, risalente allo stesso periodo, che discute di normativa, documentano questa realtà che gli stu­ diosi avevano intuito già da tempo4 •

2 Il trattato dei Pirqe Abot è certamente tardo (non anteriore al III sec. d.C.), ma certe massime riportate possono bene essere antiche; questo è uno dei casi. 3 Circa la datazione del Rotolo del Tempio cfr. p. 148, nota 22. 4 Per il testo 4QMMf cfr. p. 114, nota 77.

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Storia del Secondo Temp io L'esistenza di questa frammentazione ideologica e teologica ha portato alcuni studiosi moderni a usare il termine «giudaismi» al plurale5 • Io pre­ ferisco restare nella vecchia terminologia di «correnti», per sottolineare la coscienza che gli ebrei del tempo avevano di appartenere a un unico corpo etnico e culturale. Per quanto ci siano stati numerosissimi modi di essere ebrei, tuttavia, se ci si sentiva sempre ebrei, è bene, mi pare, mantenere un termine unitario: «correnti [al plurale] del giudaismo [al singolare]»: mol­ teplicità e unità. Va inoltre sottolineato il fatto che queste correnti furono molto competitive tra di loro, cosa che produsse tensioni nelle quali si inse­ rirono motivazioni politiche di vario genere, come abbiamo già visto nella sezione storica. La frantumazione della normativa comportava reciproche esclusioni, di cui oggi è difficile immaginare le conseguenze pratiche. Eppure queste fratture interne, che andavano al di là della semplice esistenza di correnti di pensiero, non fecero mai venire dubbi sull'esistenza dell'ebreo, che era tale sia nell'autocomprensione sia agli occhi dei pagani. Ciò che caratteriz­ zava l'ebreo era in ogni caso il fatto che non solo credeva in un solo Dio, ma si distingueva nel comportamento quotidiano per l'applicazione di norme, che ai pagani sembravano, a dir poco, strane. Rifiutavano certi cibi, si ciba­ vano di altri solo in un certo modo, praticavano abluzioni, in certi giorni dell'anno si astenevano da lavori e viaggi: di conseguenza avevano coi pa­ gani rapporti particolari, che in qualche modo li distinguevano sempre in tutte le situazioni. Questo rapporto coi pagani fu talora· sofferto dagli ebrei per l'incapacità di dare risposte razionali alle domande che non mancava­ no, ma dette anche agli ebrei il senso della loro peculiarità di fronte agli al­ tri. Anche se quell'insieme di norme che oggi vanno sotto il nome di norme di purità (per gli ebrei erano parte della Legge, come «non uccidere o non rubare») non erano applicate da tutti allo stesso modo, tuttavia erano note a tutti e da tutti più o meno, come è umanamente possibile, praticate. Vedi la Lettera di Aristea al § 182 e l'elogio che l'autore di Giuseppe e Asenet fa di Giuseppe per non aver mai mangiato insieme con pagani: «Giuseppe non mangiò mai con gli egizi, perché per lui era un abominio» (7,1). La necessità della Legge era un fatto cosi sentito che alcuni testi si doman­ darono come poteva essere amico di Dio Abramo, se ancora non conosceva la Legge. Si parlò cosi di una legge scritta nelle tavole celesti, legge assolu­ ta, della quale quella umana era solo una eco in qualche modo imperfetta: secondo il libro dei Giubilei (metà del II sec. a.C.), gli angeli che guidavano Adamo osservavano già la Legge, naturalmente quale era scritta nelle ta­ vole celesti (Giub. 3,10.31). Questo senso della necessità della Legge portò il giudaismo a dare la massima importanza alla morale, ma è terminologia e forse problema moderno; per gli ebrei il problema centrale era la Legge 5 Espressione coniata da Neusner e seguita poi da Boccaccini.

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10. Introduzione ai problemi e la sua interpretazione. Poiché nella Legge, quale è scritta, non esiste una graduazione di importanza dei comandamenti, si presentava il problema se questa graduazione esistesse oppure no; se fosse possibile o meno rias­ sumere un comandamento sotto altri, in modo da semplificare il sistema e soprattutto da fornire una chiave di lettura razionalmente valida del siste­ ma della Torah. Vedi in proposito i Testamenti di Beniamino e di Aser, non­ ché nel Nuovo Testamento Mc. 12,28-34 e passi paralleli. La frantumazione della tradizione religiosa giudaica dei due secoli pre­ cristiani ha le sue radici in questa mancanza di un rapporto preciso fra pen­ siero religioso e autorità religiosa: con l'approfondirsi del pensiero giudaico, si capiva sempre più che la Legge aveva un senso solo in una certa interpre­ tazione, ma mancava l'organo che avesse l'autorità riconosciuta di dare l'in­ terpretazione «vera». Sorgevano cosi contemporaneamente interpretazioni diverse, che servivano più a creare incertezza nel popolo che a rafforzarne la fede. Il problema dell'interpretazione autentica della Legge sarà sentito talmente grave e umanamente insolubile che sarà da qualcuno demanda­ to al messia come sua funzione fondamentale6. D'altra parte, la mancanza di un'autorità centrale capace di garantire la normativa «vera» favoriva la formazione di gruppi che potevano anche, ed era il caso più comune, discu­ tere, senza escludersi reciprocamente. Non solo: il confronto tra medesimi testi legali a noi noti sia attraverso la tradizione masoretica sia attraverso altre tradizioni mostra che il testo stesso della Torah non era ancora fissato7• Nel turbine degli interessi di cui abbiamo già trattato, le posizioni teo­ logiche si diversificavano e dagli avvenimenti stessi che vivevano traevano motivo per esasperare il confronto e per differenziarsi sempre più recipro­ camente. In questo senso è difficile anche operare una distinzione, cara alla storiografia contemporanea, fra movimenti conservatori e movimenti più evoluti: di fatto abbiamo un'evoluzione profondissima, una ricerca conti­ nua di un chiarimento del senso ultimo delle scritture, per carpire a esse il segreto della salvezza. In questa ricerca dominata dalle intuizioni più ir­ razionali e dalla logica più rigida, anche se non sempre percepibile a pri­ ma vista, il pensiero giudaico si spezza in approfondimenti che battono vie molte volte diametralmente opposte le une alle altre. Cercheremo pertanto di presentare i grandi temi intorno ai quali il pen­ siero mediogiudaico si affaticò. Procederemo per temi, piuttosto che per pensatori, per due motivi precisi. Il primo è la difficoltà di dare un volto al­ la maggior parte degli autori che scrissero in questo periodo, il secondo (e

6 Cfr. W.D. DAVIES, The Setting of the Sermon of the Mount, Cambridge 1964, p. 155. 7 Cfr. I. CARDELLINI, Dalla Legge alla Torah, RSB 3 (1991), pp. 57-81; A. RoFÉ, Gli albori delle sette nel giudaismo postesilico, in Atti del V Congresso Internazionale dell' AISG, 1215 novembre 1984, Roma 1987, pp. 25-35. Vedi anche il caso di Es. 21,22-25, riguardan­ te l'aborto. La legge del Testo Masoretico è più antica e, in ogni caso, diversa, da quella del testo greco.

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Storia del Secondo Tempio più grave assai del primo) è rappresentato dalla difficoltà di una datazio­ ne precisa e sicura di ciascuna opera. È questo anche il motivo per cui i te­ mi ideologici non possono essere messi in stretta correlazione con i singoli fatti e tempi della storia, il che ha anche reso necessaria un'esposizione dei fatti indipendente dalla presentazione delle idee. D'altra parte, nonostan­ te soluzioni diverse da autore ad autore, tuttavia i problemi menzionati si presentano sempre durante l'arco del giudaismo medio. Questo attenua l'importanza, per la comprensione del dibattito, della relativa incertezza di molte datazioni. Come è noto, quella vasta produzione che va sotto i nomi più diversi attribuiti in genere sulla base di criteri teologici più che storici e che si estende per tutto il periodo del giudaismo medio presenta quasi sempre datazione incerta, almeno di decenni. Il caso del Libro dei Sogn i o di quello di Daniele sono eccezioni assolute. Per quanto riguarda il problema del nome da attribuire a questa lette­ ratura eviterò di dargliene alcuno, chiamandola semplicemente letteratura giudaica, ovviamente del periodo in questione. Ricordo che alcuni nomi co­ me «apocrifi», «pseudoepigrafi» derivano da concettualizzazioni moderne e non riguardano la problematica del tempo, colta nei testi. Il termine "apo­ calittica" riguarda una forma letteraria, anche questa estendibile a opere di altre epoche. In quanto ai Manoscritti del Mar Morto, sono un termine de­ rivante dal luogo della scoperta, privo di valore storico, a meno che non si individui all'interno dei reperti un gruppo particolare8 • L'uso del termine «letteratura intertestamentaria», pur avendo evidenti scopi storici, deriva tuttavia da una netta contrapposizione fra Nuovo e Antico Testamento, con­ trapposizione che deriva, anche questa, da una problematica decisamente più tarda del periodo in questione. Inoltre questa etichetta è sbagliata cro­ nologicamente, perché buona parte di questa letteratura è anteriore o poste­ riore agli scritti canonici. Possiamo solo presentare i temi che furono trattati in questi secoli: il problema del Figlio dell'Uomo o quello della risurrezione non sono solo di Daniele e il problema dell'origine del male investe gran parte della produzione letteraria di questo periodo. Sono d'accordo con G. Boccaccini che questa divisione in corpora della letteratura del giudaismo medio, fatta su base ideologica e teologica, sia la causa maggiore della difficoltà di comprendere il periodo nella sua globalità.

8 Secondo F. GARCfA MARTINEZ i manoscritti di Qumran sarebbero espressione dell'i­ deologia di una setta ben precisa, che rappresenterebbe un gruppo ali' interno dell'esse­ nismo. Cfr. il suo Qumran Origins and Early History: A Groningen Hypothesis, FO 25 (1988), pp. 113-136, e A Groningen Hypothesis of Qumran Origins and Early History, RQ 14 (1990), pp. 522-541 . Quest'ipotesi è accolta dal sottoscritto, che considera il gruppo qumranico come un gruppo essenico.

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10. Introduzione ai problemi

10.2 Il pesher e l'interpretazione della storia La datazione relativamente precisa delle opere del periodo cui ci riferia­ mo è problema che non è ancora risolto e forse non lo sarà mai, perché gli elementi per una datazione precisa mancano. È noto come questi testi, pur essendo una miniera di riferimenti storici, tuttavia non li indichino quasi mai con precisione: mancano nomi di personaggi, indicazioni precise di eventi. Fanno evidente eccezione opere come i già menzionati Daniele, Libro dei Sogni e Giubilei e dal taglio nettamente storico, nel senso moderno della parola, come il Primo Libro dei Maccabei o l'opera perduta di Nicola di Da­ masco, fonte principale di Flavio Giuseppe. Entrambi gli autori sono però strettamente legati all'ambiente della corte, certamente più vicino alla men­ talità occidentale e laica che non a quella giudaica. Anche nella diaspora non mancarono scrittori dagli intenti chiaramente storici, anche se apologetici, come Giasone di Cirene del II sec. a.C9 . Per alcune opere come i Salmi di Salomone è almeno indicabile con sicu­ rezza il terminus post quem che menziona una profanazione del Tempio che non può essere che quella operata dai romani nel 63 a.C. Si pensi alla dispu­ ta se il termine kittim, che appare frequentemente nei testi del Mar Morto, indichi i Seleucidi o i romani 10 . Questa mancanza di chiarezza espositiva dei testi ha una causa duplice: da un lato il fatto che chi scriveva si rivolgeva a un uditorio in grado, pre­ sumibilmente, di capire le allusioni, dall'altro il fatto che chi leggeva non leggeva con la nostra mentalità, per essere informato di un fatto, ma leg­ geva allo scopo di capire, nel senso più profondo della parola, la sua posi­ zione nella storia della salvezza. Non si leggeva insomma per conoscere la storia, quanto per conoscere la volontà di Dio, per cercare di interpretare i fatti nel loro senso ultimo e definitivo. In questo senso, un testo che fosse stato scritto nel II sec. a.C. e in cui si condannasse un sacerdote per avere contaminato il Tempio con la sua ina­ bilità alla carica, poteva bene essere ancora letto un secolo dopo, non essen­ do cambiata la situazione giuridica del sommo sacerdozio dopo la morte 9 Nel mondo ellenistico alessandrino si sviluppò fra gli ebrei, fra il III e il n sec. a.C., un certo interesse per la storia. Di questi storiografi ci sono restati solo pochi frammenti. Vedi i nomi dello Pseudoecateo, Demetrio, Aristea l'Esegeta, Eupolemo, Pseudoeupo­ lemo, Oeodemo Malca. Una edizione di questi testi con traduzione italiana per opera di L. Troiani è uscita come V volume degli Apocrifi dell'Antico Testamento (Brescia 1997). 10 Per una bibliografia del problema, cfr. MORALDI, I manoscritti, pp. 289-290. Si ag­ giunga B. ScoLNIC, T. DAVIDS, Haw Kittim became "'Rome ": Dan 1 1 ,30 and the importance of Cyprus in the Sixth Syrian War, ZAW 127 (2015), pp. 304-319. In Dan. 11,30 kittim in­ dicherebbe Cipro e solo in epoca maccabaica è stato interpretato in relazione ai ro­ mani. E. NooET ritiene che lo spostamento di significato di kittim dai Seleucidi ai ro­ mani sia avvenuto solo dopo il 63 a.C.: cfr. Les kittim, /es Romains et Daniel, RevBib 118 (2011), pp. 260-268.

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Storia del Secondo Temp io di Onia III. Tutta la scrittura è letta in funzione del presente; essa non con­ tiene solo norme riguardanti il comportamento, ma contiene la chiave per capire il dramma contemporaneo. Cercheremo in seguito di inserire que­ sta mancanza di senso storico in tutta la spiritualità giudaica del tempo. Per ora basti ricordare che si sviluppò un genere letterario, detto pesher, di cui abbiamo numerose attestazioni. Il pesher consiste nel leggere un piccolo brano di scrittura, composto non importa quando, e nell'adoprarlo per ca­ pire i fatti contemporanei. Nelle grotte di Qumran sono stati ritrovati frammenti di parecchi pesharim: il più noto e meglio conservato è quello del libro di Abacuc. Circa la possibile origine egi­ ziana del metodo pesherico per leggere tutta la Scrittura, cfr. F. DAUMAS, Littérature prophétique et exégétique égyptienne et commentaires esséniens, in: A la recontre de Dieu, Mém. A. Gelin, Le Puy 1961, pp. 203-221; ma si tratta di lavoro da approfondire. In quanto alle osservazioni di J. VAN DER PLOEG (Les manuscrits du désert de Juda; Livres récents, BO 16 (1959), pp. 162-176, p. 163), che questo tipo letterario apparteneva in definitiva al midrash, in quanto l'espressione psrw che compare spesso in questo ge­ nere di opere non indica tutta l'opera nel suo insieme, ma semplicemente la singola spiegazione, può essere giusta, ma resta sempre utile avere un termine per indicare un genere letterario che, se è affine al midrash, ha tuttavia caratteristiche proprie, in quanto è strumento interpretativo diretto della Scrittura11 . Si consulti adesso l'opera esaustiva di N. RizzoLo, Pesher: l'interpretazione della Parola per la fine giorni. Studio sul genere letterario dei Pesharym, Peeters, Leuven-Paris-Bristol 2017. Secondo Rizzo­ lo, il pesher si propone come sintesi tra interpretazione del testo e consapevolezza di essere latore di una interpretazione, proponendosi così come genere letterario proprio, distinto appunto dal midrash. Ecco un brano tratto dal pesher Habaquq, che illustra bene il metodo. [Guardate le genti, consideratele, meravigliatevi e siate stupefatti. Io sto per fare nel vostro tempo un'opera che non credereste se ve la] raccon­ tassero (Abac. 1,5). [L'interpretazione della citazione si riferisce a]i traditori che sono con l'Uomo di Menzogna, dal momento che non [diedero ascolto alle parole del] Maestro di Giustizia, [parole che egli ha ricevuto] dalla bocca di Dio; e ai tradito[ri del patto] nuovo, dal momento che non credettero al patto di Dio [e profanarono] il suo nome sacro. Allo stesso modo [vacat] l'in­ terpretazione della citazione [si riferisce ai tra]ditori degli ultimi giorni. Essi sono quelli che violano [il pat]to, che non credono quando ascoltano tutto ciò che avv[errà al]la generazione ultima dalla bocca del sacerdote che Dio ha posto in [mezzo alla comunità] per spiegare le parole dei suoi servi i profeti, [per] mezzo dei quali Dio ha annunciato tutto ciò che av­ verrà al suo popolo Is[raele] (pHab. 2,1-10).

11 Cfr. MoRALDI, I manoscritti, pp. 496-506.

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10. Introduzione ai problemi Un altro passo: Ecco, io sto per sollevare i Caldei, questo popolo feroce e impetuoso (Abac. 1,6). L'interpretazione di questo passo riguarda i Kittim, ch[e so]no veloci e coraggiosi in guerra. . . (pHab. 2,12-13). Il legame fra il testo di Abacuc e il presente è estremamente sottile e tutt'altro che chiaro. Dal testo biblico l'autore del pesher deduce il racconto della storia contemporanea. Un popolo straniero, i Kittirn 1 2, domina Israe­ le. D'altra parte gli stessi giudei di Gerusalemme sono equiparati ai pagani, perché a loro si riferisce l'espressione «guardate le genti». La sventura che è piombata sopra di loro deriva dal fatto che non hanno creduto alla predi­ cazione del Maestro di Giustizia, che parlava con autorità non di profeta, ma di interprete dei profeti, naturalmente per carisma divino13 • È prevista la distruzione di questi increduli che seguono un «uomo men­ titore». Anzi, una distruzione è già avvenuta, ma non è stata definitiva, per­ ché sarà seguita da altre distruzioni simili fino alla distruzione finale, che qui è appena adombrata. «Maestro di Giustizia», «Uomo menzognero», «Kittirn» sono tutti termini che volutamente velano la reale identità storica dei personaggi. Gli stranieri oppressori possono essere i Seleucidi come i romani; di «uomini menzogneri» che non hanno seguito l'insegnamento del Maestro di Giustizia, ce ne sono quanti se ne vuole. Del resto già l'interprete si preoccupa di adattare il testo non solo a una situazione già chiarificata, ma anche a situazioni analoghe che prevede ripetersi, perché la situazione generale era immutata. È chiaro che la storia come la intendiamo noi, fatta di avvenimenti che si susseguono l'uno all'altro, guidati da una certa loro logica, non è la sto­ ria come la intendeva l'autore di questo pesher. Per lui la storia è già stata scritta tutta nella Scrittura, perché «storia» non è il susseguirsi degli avve­ nimenti, ma l'estrinsecarsi del piano di Dio. La storia non è letta diretta­ mente nella mente di Dio, essa è colta come un prodotto della sua volon­ tà, simile al cosmo e alle sue leggi. Come dal cosmo si risale a Dio perché è stato fatto da lui, allo stesso modo l'operazione è possibile attraverso la storia. Il profeta comunicava agli uomini la volontà di Dio perché costru­ issero la storia secondo la sua volontà; i saggi di questo periodo capiscono Dio nella storia fatta da lui. Lo scopo del pesher non è tanto di raccontare i fatti, quanto quello di ca­ pire il senso della lotta fra il giusto, che parla in nome di Dio ed è seguito 12 Il nome di Kittim indica, in quest'epoca, genericamente oppressori e invasori; cfr. anche supra, nota 10. 13 Cfr. P. SACCHI, la conoscenza presso gli ebrei da Amos all'essenismo, in: L'apocalittica giudaica, pp. 220-258, ripreso da RSB 1 (1989), pp. 123-149.

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Storia del Secondo Temp io da coloro che hanno fede in lui, e il malvagio che respinge il carisma del giusto. Questo mondo è il campo in cui si scontrano il bene e il male secon­ do un piano ab aeterno di Dio, che solo chi è illuminato può capire. Gli altri sono i votati alla distruzione e all'odio divino, perché Dio non odia soltan­ to il male, ma anche i malvagi, pur avendoli creati tali egli stesso (su ciò, dr. infra, Parte rv, 12.1). Un certo tipo di pesher è anche in Luca (4,16 ss.) dove Gesù legge Isa­ ia e lo applica direttamente a se stesso: «Lo spirito del Signore è sopra di me . . . ». Gli ascoltatori restarono sconcertati, perché erano abituati a leggere la scrittura attualizzandola storicamente. Vedi anche il ragionamento del­ la gente che ha mangiato i pani della moltiplicazione in Giov. 6,22 ss. e in particolare il rimando scritturistico del v. 31: «Diede loro da mangiare pa­ ne venuto dal cielo». Il senso della storia che era stato caratteristica del pensiero ebraico si va dissolvendo. Della storia sembrano restare solo due elementi estremi e ma­ le conciliabili reciprocamente. Da un lato le grandi linee, direi metafisiche, della storia della salvezza, cioè dell'estrinsecarsi della volontà, del realizzar­ si del giudizio di Dio sul mondo; dall'altro il dramma eternamente ripetuto dell'uomo, del singolo uomo davanti al problema del bene e del male. Ma la scelta dell'uomo (attiva o passiva che sia) non fa la storia, è solo funzio­ ne della sua salvezza o della sua perdizione14. Questo nuovo modo di sentire la storia e di leggere le scritture non nac­ que certo per caso, né fu fenomeno avulso dalla costellazione ideologica giu­ daica dei due secoli precristiani. Esso deriva da una profonda modificazione di tutto ciò che aveva costituito il bagaglio spirituale, dell'ebreo prima e del giudeo poi, fino alla grande crisi del 200 a.C. Nelle pagine che seguono, cer­ cheremo di tratteggiare la nuova Weltanschauung giudaica, cogliendola nei suoi aspetti fondamentali. L'ordine dell'esposizione è arbitrario e risponde solo a una logica interna del discorso. Ogni aspetto è infatti strettamente legato con tutti gli altri a formare la nuova spiritualità giudaica.

14 Cfr. D. RossLER, Gesetz und Geschichte; Untersuchungen zur Theologie der judischen Apokalyptik und der pharisiiischen Orthodoxie, Neukirchen 1960.

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11 Il problema della conoscenza nel giudaismo medio

11.1 La visione apocalittica e l'illuminazione essenica Un primo orientamento per comprendere la spiritualità del giudaismo medio si può avere dall'esame dei meccanismi della conoscenza, quali era­ no concepiti allora. I due secoli precristiani sono caratterizzati, nel mondo giudaico, da un bisogno profondissimo di conoscenza. Il libro della Sapienza (7,17-20) ci for­ nisce un quadro dei campi che il saggio deve conoscere: in particolare si ri­ cordano la cosmologia e l'astronomia, la meteorologia, la zoologia e (forse) la psicologia, la botanica e la farmacologia. Ma già probabilmente prima del 200 a.C. troviamo una certa strutturazione di conoscenze botaniche nell'in­ troduzione al libro di Enoc Etiopico (capp. 2 - 5) e certamente prima del 200 il Libro dell'Astronomia tentava descrizioni e spiegazioni dei fenomeni celesti. Già Salomone, secondo un'antica tradizione (I Re 5,13), aveva una vasta sapienza che riguardava la botanica e la zoologia, ma la sapienza dei seco­ li precristiani ha un taglio che la caratterizza di fronte a quella del passato: essa mira a una conoscenza globale, che è qualcosa di diverso anche dal­ la conoscenza enciclopedica. La mèta ultima della conoscenza è diventata la conoscenza del «tutto», cioè non soltanto la conoscenza delle cose, ma anche del loro senso e di quello della storia, considerata spesso un aspetto del tutto cosmico piuttosto che uri. autonomo svolgimento di azioni uma­ ne. In passato sapienza e profezia erano state indipendenti l'una dall'altra: la profezia aveva come oggetto la conoscenza dei tempi in funzione della salvezza. Il profeta recava agli uomini il messaggio di Dio, invitandoli alla conversione. Era il messaggio di un Dio che sembrava mescolarsi libera­ mente alle vicende umane; era un Dio che puniva e ricompensava, che mi­ nacciava la punizione e poteva non inviarla. Non poteva pertanto esistere

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Storia del Secondo Tempio una vera e propria scienza di Dio, perché Dio era sentito essenzialmente libero, esattamente come libero si sentiva l'uomo. L'idea che le minacce di Dio sono legate e condizionate dalla trasgres­ sione del popolo è diffusa in tutto l'Antico Testamento. Ma il senso della li­ bertà storica di Dio è talmente forte che la Bibbia può parlare perfino di un pentimento di Dio, come in Gen. 6,6. Vedi anche Ger. 18,7-8; 26,3 e Giona 3,4 ss. passim: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta [ ... ] Il re si coprì di cilizio e si mise a sedere nella cenere [ ... ] Dio si pentì del male che aveva pensato di fare agli abitanti di Ninive e non lo fece». Parallela alla libertà di Dio è la libertà del profeta. Si pensi alla disperata fuga di Giona, alla sofferta accettazione di Geremia. Il mondo escatologico appariva agli occhi dei profeti caratterizzato da elementi completamente nuovi rispetto a quelli del mondo presente. Ge­ remia aveva intravisto un'umanità così nuova che la Legge sarebbe stata scolpita nel cuore di ognuno (31,33) e un passo probabilmente tardo inserito nel libro di Isaia (11,6) recitava: «Allora il lupo abiterà con l'agnello». Ma il passaggio dal mondo presente a quello escatologico non era spiegato e re­ stava sostanzialmente un mistero, un mistero che affondava nella volontà e nella conoscenza divina, insondabili all'uomo. Questo taglio netto fra la conoscenza possibile all'uomo e la conoscen­ za di Dio è fortemente sentito da Qohelet: se l'uomo potesse conoscere il principio e la fine di ogni cosa (cfr. Qo. 8,16-17), l'alfa e l'omega del creato, la sua condizione di uomo sarebbe diversa. Ma Dio ha negato all'uomo la possibilità di conoscere l'alfa e l'omega, perché vuole essere temuto, vuole che l'uomo abbia sempre presente che Dio è in cielo e lui sulla terra. Che se l'uomo potesse avere la conoscenza, la sua condizione, che è di timore, non sarebbe forse più tale. Il dramma dell'uomo consiste per Qohelet proprio nella coscienza che l'alfa e l'omega esistono, perché sole sono capaci di da­ re un senso alle cose, ma all'uomo sfuggono irrimediabilmente (Qo. 3,11)1 . Ora Qohelet negò che l'uomo potesse valicare le colonne d'Ercole segnate dall'esperienza (Qo. 1,13-15), proprio perché certe idee dovevano già circo­ lare: il bisogno di varcare il limite viveva nello spirito del suo tempo. E di fatto i due secoli successivi a Qohelet sono marcati dalla ricerca e dal senso del possesso di questa nuova conoscenza totale che comprende anche l'alfa e l'omega, il principio e la fine delle cose. Questa nuova forma di conoscenza, che pretende di conoscere il tutto, non si fonda su una nuova metodologia, su un discorso di tipo metafisico o qualcosa del genere, che dia all'uomo l'illusione di poter squarciare con 1 Per Qo. 3,10-11 cfr. L. MAZZINGI-Il, Ho cercato e ho esplorato. Studi sul Qohelet, Bologna 20092, pp. 216-226 e anche pp. 176-188 (il problema della conoscenza nel Qohelet); per 8,16-17, cfr. Io., The Verbs m� • "to Find" and bq� "to Search " in the Language of Qohelet. An Exegetical Study, in: A. BERLEJUNG, P. VAN HECKE (a cura di), The Language of Qohelet in its Context, Fs A. Schoors, Leuven-Paris-Dudley (MA) 2007, pp. 91-120.

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11. Il problema della conoscenza nel giudaismo medio le sue forze il velo del mistero del cosmo, ma si basa sulla sicurezza di aver ricevuto da Dio una qualche rivelazione riguardante le cose, che si aveva la coscienza che l'uomo non avrebbe mai potuto raggiungere con le sue forze. Questo tipo di conoscenza si presentò nell'apocalittica come visione, ovvia­ mente mandata da Dio solo a suoi eletti. Nell' essenismo prenderà una for­ ma ancora più radicale e diversa attraverso il concetto di «illuminazione», che è qualcosa di più della rivelazione stessa, perché è un vedere le cose da parte dell'uomo per mezzo della luce stessa di Dio. Ma il discorso sulla rivelazione non era limitato alla conoscenza delle cose che non cadono sotto i sensi. A differenza di Qohelet che indaga sulle cose del mondo servendosi delle proprie capacità umane, il saggio dell' e­ poca seguente tende ad attribuire alla rivelazione divina non solo ciò che egli sa sulle cose e sul mondo dello spirito, ma anche tutto ciò che sa della natura (cfr. Sap. 7,17-21). Ciò dà al discorso della nuova epoca un carattere particolare, dal tono sempre esoterico; è evidente che ciò che conta non è la conoscenza empirica delle cose di cui aveva parlato Qohelet e che non ha valore, ma l'interpretazione delle cose; e l'interpretazione delle cose è sem­ pre possibile solo per rivelazione divina. In questo senso la conoscenza è sempre iniziazione a un segreto. Una volta, mentre pascolavo i greggi. . . , venne su di me lo spirito di in­ telligenza del Signore e vidi tutti gli uomini smarrire la loro via: sopra le mura si era insediato il peccato e l'ingiustizia si era stabilita sopra la torre (Testl..evi 2,3). Oggetto della conoscenza rivelata sono frequentemente anche i cieli o gli inferi. Ancora nel Testamento di Levi si legge: Mi preoccupai per la stirpe degli uomini e pregai il Signore perché fos­ si salvo. Allora cadde su di me un sonno: vidi un monte alto e io ero su di esso. Ecco, si aprirono i cieli [vedi Ez. 1,1] e un angelo del Signore mi disse: «Levi, Levi, entra». Entrai nel primo cielo e vi vidi molta acqua sospesa. E vidi ancora un secondo cielo molto più luminoso e splendente: e'era infatti un'altezza sconfinata. Domandai all'angelo: «Che significa questo cielo che è cosi splendente?» Mi rispose l'angelo: «Non ti stupire di que­ sto, perché vedrai un altro cielo ancora più splendente e più puro. Quan­ do sarai salito lassù, sarai vicino al Signore. Sarai suo ministro; rivelerai agli uomini i Suoi misteri e annunzierai riguardo a chi verrà a riscattare Israele» (Testl..evi 2,4-10). Talvolta l'autore del passo fa seguire alla visione, che voleva apparisse incomprensibile o non chiarissima, l'interpretazione autentica che esce dal­ la bocca stessa di un angelo. Ascolta, dunque, [ciò che ti dico] dei cieli che ti sono stati mostrati. Quel­ lo più basso per questo ti appare triste, perché vede tutte le ingiustizie

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Storia del Secondo Tempio degli uomini. Esso tiene pronti fuoco, neve e ghiaccio, per il giorno del giudizio [che sarà] nella giustizia di Dio. In esso infatti ci sono tutti gli spiriti delle punizioni per fare vendetta degli uomini. Nel secondo cielo vi sono le potenze delle schiere celesti schierate a battaglia per il giorno del giudizio, per far vendetta degli spiriti dell'inganno e di Beliar. Al di sopra di loro stanno i santi [cioè gli angeli e, forse, anche le anime dei giusti]. Nella sede poi più alta di tutte c'è la Grande Gloria che è al di sopra di ogni sacertà2 . Nel cielo sotto di esso3 ci sono gli arcangeli, che prestano il loro servizio e placano il Signore per tutti i peccati di ignoranza dei giusti. Offrono al Signore un aroma profumato, un sacrificio spirituale e incruento. Nel cielo sotto ci sono gli angeli che portano le risposte agli angeli del Volto del Signore. In quello àncora sotto ci sono i troni e le potenze; in esso si inneggia incessantemente a Dio. Quando Dio volge il Suo sguardo verso di noi, tutti tremiamo: il cielo, la terra e l'abisso si scuotono davanti alla Sua Maestà. I figli degli uomini peccano e provocano l'ira dell'Altissimo, perché non comprendono queste cose (TestLevi 3,1-10). Fra Dio e gli uomini vi è un vastissimo «mondo di mezzo» organizzato in maniera gerarchica, fra la «Gloria al di là di ogni santità» e il suo oppo­ sto, che è rappresentato da questa terra piena di ingiustizie. Il mondo ha due piani, uno che cade sotto i sensi, ma che non lascia tra­ sparire i suoi segreti, se non quando Dio svela a chi sceglie, a un eletto, la realtà autentica delle cose; e un secondo, posto più in alto, come già aveva visto Zaccaria, nel quale avvengono veramente le cose (cfr. Parte II, 3.4). Si riveda il passo prima riportato di TestLevi 2,3: lo spirito dell'empietà ha oc­ cupato le porte della città e non c'è più scampo. Gli uomini non possono vedere ciò, ma il fatto è accaduto e per loro non ci sarà via d'uscita. La si­ curezza che aveva avuto Zaccaria circa la salvezza di Giosuè, fondata pro­ prio sul fatto che essa si era già realizzata nel mondo di mezzo, si volge ora in una certezza per lo più di sventure, inevitabili perché già accadute in un mondo superiore a quello degli uomini, dal quale questi non possono es­ sere che schiacciati. Nel mondo di mezzo angeli e demòni si affrontano ta­ lora in una lotta le cui conseguenze ricadono inevitabilmente sugli uomini.

2 L'aggettivo «santo», «sacro» è riservato nei manoscritti di Qumran, di norma, solo a esseri angelici. Fa eccezione lQM 12,7 e 19, 1 in un contesto fortemente influenzato dall'Antico Testamento, dove la sacertà è il segno della forza divina che schiaccerà i pagani. Una concezione simile è documentata anche nel testo dei Cantici del Sabato, testo qumranico pubblicato da C. N EWSOM, Songs ofthe Sabbath Sacrifice. A criticai edition, Atlanta 1985. Dio è fonte della santità, ma non santo (cfr. 4Q400ShirShabba frg. 2). 3 «Nel cielo sotto di esso»: Non è chiaro quale sia la struttura dei cieli secondo l'autore. Prima ha descritto i cieli procedendo dal basso verso l'alto, poi prosegue dall'alto verso il basso. Sembra pertanto che i cieli siano solo tre e in ciascuno vi siano angeli che hanno funzioni diverse.

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11 . Il problema della conoscenza nel giudaismo medio Nel libro di Daniele l'angelo invocato da Daniele tarda la sua venuta per ben ventun giorni, perché l'angelo che proteggeva la Persia gli aveva sbar­ rato il cammino (Dan. 10,13), e solo l'intervento di Michele, il grande pro­ tettore di Israele, gli permise di continuare la sua via. La conoscenza rivelata può presentarsi in più modi, che possono ridursi in quest'epoca a tre tipi fondamentali: c'è prima di tutto la visione apocalit­ tica che può essere o rappresentazione diretta dell'aldilà o allegoria capace di interpretare il reale; sono una semplificazione della visione apocalittica le cosiddette «tavole celesti», libri nei quali Dio stesso scrisse all'inizio del mondo tutta la storia futura e nei quali qualche eletto può gettare lo sguar­ do. Le tavole celesti corrispondono a una visione predeterministica della storia comune in quest'epoca in certi ambienti. Ma lo sviluppo più originale della conoscenza per rivelazione si ebbe nell'essenismo, che concepì la conoscenza del vero come frutto dell'intelletto umano che si innalza, per grazia divina ( «Niente può essere conosciuto senza la volontà di Dio» [lQH 9 [l],8 e altrove]), fino a vedere il cosmo intero nella luce, cioè nell'intelligenza stessa di Dio. In questo caso la verità è immanente alle parole del saggio nei limiti in cui il pensiero divino può essere espresso. E ancora: Dalla fonte della sua conoscenza ha fatto sgorgare la sua luce cosicché il mio occhio ha contemplato le sue meraviglie e la luce del mio cuore il mistero futuro e l'essere eterno (l QS 11,3-4). In queste parole il processo di illuminazione è descritto in maniera partico­ lareggiata. La conoscenza è luce sia in Dio sia nell'uomo, solo che nell'uomo è possibile soltanto di riflesso; non è concessa a tutti gli uomini, ma soltanto agli eletti o all'eletto. L'oggetto della conoscenza è l'oggetto stesso della co­ noscenza divina, cosicché la mente dell'autore può afferrare e il senso della storia passata (le sue meraviglie) e il senso globale del fine della creazione (il mistero futuro e l'essere eterno). Ciò che oggi accade ha infatti un senso solo in quanto è preparazione dell'evento decisivo del futuro. Passato, presente e futuro, cosmo e storia, si raccolgono in un'unità che ha il suo centro in Dio. Il fluire del tempo non ci porta verso l'ignoto; la sto­ ria è soltanto una manifestazione del volere divino, alla pari del cosmo. L'il­ luminazione sembra in questo modo un fatto alla pari di tutti gli altri, uno degli elementi del cosmo stesso. Questo modo radicale di concepire l'illu­ minazione comporta necessariamente la convinzione del predeterminismo e la nullificazione della libertà dell'uomo. In alcuni passi l'autore (una volta identificato col «Maestro di Giustizia») ringrazia Dio per l'illuminazione ricevuta, come in lQH 12 [4],5: «Ti ringra­ zio, o Signore, perché hai illuminato il mio volto per il tuo Patto4 [ . • • ] Io ti 4 Intendo: allo scopo di realizzare il tuo patto, cioè i fini per cui hai fatto esistere la mia setta.

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Storia del Secondo Tempio cerco. Come un'aurora sicura, in luce perfetta mi sei apparso». Vedi anche lQS 2,2-4: «Ti benedica [Dio] con ogni bene e ti preservi da ogni male; il­ lumini il tuo cuore [concedendoti] l'intelletto della vita e ti faccia la grazia della conoscenza dell'eterno. Egli rivolga il suo volto misericordioso verso di te [per concederti] la pace dell'eternità»5 • La Bibbia dice che Dio può illuminare gli occhi di qualcuno (Sal. 13,4; 19,9; Prov. 29,13; Esd. 9,8), oppure che illumina il suo volto su qualcuno (Num. 6,25; Sal. 31,17; 67,2; 80,4.8.20; 119,135; Dan. 9,17), ma non dice mai che Dio illumina il volto di qualcuno6 • La novità dell'espressione non è pu­ ramente stilistica: il Maestro di Giustizia ha una funzione tutta particolare, il suo volto, anzi la sua mente (in ebraico leb, il «cuore») riceve e dà luce. Comunque anche autori che non condividono il radicalismo ideologico del Maestro di Giustizia, come l'autore del libro della Sap ienza sono ugual­ mente concordi nel concepire ogni conoscenza «vera» come frutto se non d'illuminazione, in ogni caso di una qualche forma di rivelazione: Lui infatti mi ha dato una vera conoscenza del creato: per conoscere la costituzione del mondo e la forza degli elementi, il principio, la fine e il mezzo dei tempi, l'alternanza dei solstizi e il cambiamento delle stagioni, il ciclo degli anni e la posizione degli astri, la natura degli animali e l'istinto delle belve, la forza dei venti e i ragionamenti degli uomini, la varietà delle piante e le proprietà delle radici: quanto è nascosto e quanto è evidente ho conosciuto: perché mi istruì la sapienza, maestra di ogni disciplina (Sap. 7,17-21). Questa riflessione prende lo spunto da quanto narrato in I Re 5,13-14 e dalle tradizioni giudaiche a proposito della conoscenza enciclopedica di Salomone. Tutto lo scibile umano è stato donato da Dio a Salomone (7,17a) e a lui insegnato dalla sapienza stessa (7,22): le materie e le scienze che co­ stituivano la base degli studi profani nel mondo ellenistico non vengono tuttavia rifiutate; allo stesso tempo, però, la sapienza d'Israele non ha nulla da invidiare a quella dei greci. Così Salomone è presentato come un esperto di cosmologia (17b), di astronomia (18-19), di botanica e zoologia (20a), di metereologia e di psicologia (20b), di medicina (20c)7 .

5 Questa benedizione riecheggia quella di Nurn. 6,22-24; ma le differenze sono molto illuminanti per capire la nuova spiritualità. Si notino in particolare le aggiunte relative al concetto di eternità nel senso di globalità e assolutezza e come il Dio «che fa brillare il suo volto sopra di te» divenga il Dio che «illumina il tuo cuore concedendoti l'intel­ letto della vita». «Pace dell'eternità»: selom 'olamim. Intendo la pace assoluta, al di sopra di o� pace umana, quella che nulla può turbare. Cfr. J. CARMIGNAC, Les textes de Qumràn traduits et annotés, 3. 205, n. 2. 7 Cfr. L. MAZZINGHI, Weisheit, Stuttgart 2018, pp. 208-216.

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11. Il problema della conoscenza nel giudaismo medio In Sap. 7,17-22a va certamente sottolineato un aspetto apologetico; l'esal­ tazione delle conoscenze scientifiche di Salomone è una reazione alla van­ tata superiorità dei greci in quel campo. L'aggettivo «vera» (a.ljrEUOT)ç «non menzognera»), aggiunto a «conoscenza» (yvwcnç), ha la sua importanza. Ma c'è di più: ogni conoscenza umana viene da Dio, attraverso la sua sapienza; non viene così negato il procedimento razionale tipico della scienza greca; al contrario, esso viene rivalutato nella sua origine (Dio) e nella sua finali­ tà (ancora Dio). Inoltre, non va sottovalutato il fatto che questo testo si po­ ne più volte in polemica con la conoscenza magica e, soprattutto, con una gnosi di carattere misterico. Sul problema della conoscenza apocalittica, cioè della conoscenza del mondo e dei misteri di Dio per visione e rivelazione, gli studiosi hanno già discusso a lungo, soprattutto per collocare questo tipo di conoscenza in pro­ spettiva storica. Essa è stata riallacciata dalla maggior parte degli studiosi al profetismo, da altri, certamente a torto, alla sapienza; ma qualunque sia l'origine dei singoli elementi del sistema conoscitivo per rivelazione e visio­ ne, esso non esiste in maniera coerente fino a diventare un genere letterario prima delle più antiche apocalissi enochiche cioè, al massimo, prima del IV sec. a.C. Ciò che poteva preesistere sono singoli elementi e motivi, destinati però ad avere un significato diverso in un'epoca diversa. Sono stati anche messi in evidenza i rapporti fra questo tipo di cono­ scenza e la gnosi. Anche in questo caso vale lo stesso discorso, perché è evidente che anche nei sistemi gnostici esiste una sorta di rivelazione, ma essa ha necessariamente un significato diverso, perché inserita in una co­ stellazione ideologica diversa. Il singolo elemento può restare invariato per generazioni, ma il suo significato varia nei tempi a seconda delle diverse situazioni storiche8 . 8 Sul problema in genere, vedi K. KOCH, Difficoltà dell'apocalittica, Bresòa 1977 (ed. tedesca 1970) e G. VON RA.o, Teologia dell'Antico Testamento, II, Bresòa 1974, pp. 356-364 (fatta sull'edizione tedesca del 19654; 1960 1, II, pp. 263 ss. Vedi anche TWNT, VI, pp. 827828, e RGG, I, pp. 466-467. Cfr. la voce di G. FAGGIN, Gnosi e gnosticismo, in: Enciclopedia filosofica, a cura del Centro Studi Filosofiò di Gallarate, II, Firenze 1957. Di scarsa utilità per il nostro problema la voce 'wr nel TWAT, I, pp. 181-182. Sulla gnosi, cfr. G. SFAMENI GASPARRO, La conoscenw che salva: lo gnosticismo, Soveria Mannelli (CZ) 2013. Per il rapporto fra apocalittica e gnosi, cfr. R. Orro, Reich Gottes und Menschensohn, Miinchen 1934, dove a p. 5 si trova una frase veramente efficace a esprimere un cer­ to atteggiamento: «Die Gnosis ist Geist vom Geiste der Apokalyptik und gerade die henochische Apokalyptik, [ . . . ] zeigt indertat bereits bestimmt gnostische Ziige und Termini», ovvero «La gnosi è lo spirito dello spirito dell'apocalittica». Vedi ancora P. SACCHI, Motivi di gnosi nella letteratura giudaica precristiana, in: I vangeli gnostici, Bre­ sòa 2011, pp. 39-58. Per la metodologia generale, cfr. quanto ho scritto in Apocrifi, II, pp. 14-15 a propo­ sito del rapporto tra il Nuovo Testamento e gli altri documenti giudaiò: «Resta ancora il problema del peso globale che òascun gruppo di fonti può avere. Se uno sfoglia lo Strack-Billerbeck può avere l'impressione che nei Vangeli non ò sia nulla che non sia tramandato anche dalla tradizione rabbinica: singole frasi e singole massime sono docu-

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Storia del Secondo Tempio Di fronte al mondo greco che, salvo rare e interessanti eccezioni, crede nell'autonomia del discorso umano, il mondo giudaico presenta atteggia­ menti opposti, volti a spiegare il processo conoscitivo come possibile so­ lo per volontà e grazia di Dio. Forse non si pensavano cose molto diverse da quelle della filosofia stoica, ma è interessante che il modo di vedere un medesimo fatto proceda da due lati opposti. Per lo stoico greco la verità espressa dal singolo ha un senso in quanto coincidente con la volontà del Destino o della Divinità. Per l'esseno era la volontà stessa di Dio che per­ metteva la formulazione della verità. Il discorso stoico parte dall'uomo, quello ebraico da Dio. Questa complessa visione delle cose che contrappone il mondo giudai­ co alla cultura greca anche là dove esiste una concordanza nel particolare ha una lunga storia alle sue spalle, che forse non è stata ancora studiata ab­ bastanza. Ne accenneremo qui i tratti fondamentali e troveremo che certi problemi di fondo della conoscenza quale il criterio di verità sono comuni, ma la soluzione è costantemente ricercata su due versanti tra loro opposti.

11.2 La conoscenza e la Legge Per quanto il problema della conoscenza assuma in genere aspetti cosmi­ ci, tuttavia esso fu talora sentito anche in relazione alla Legge e soprattutto legato a un discorso umano. Ed ora, figlioli miei, vi ordino: temete il Signore Dio nostro con tutto il vostro cuore, e comportatevi con semplicità secondo tutta la sua Legge. Insegnate anche voi ai vostri figlioli a leggere e a scrivere, perché abbiano l'intelligenza per tutta la loro vita, leggendo incessantemente la Legge di Dio. Ché chiunque conosca la Legge del Signore, sarà onorato [ . . . ]. Acqui­ state la sapienza nel timore del Signore, cosl, anche se finirete prigionieri, anche se saranno distrutte città e campagne, anche se andrà perduto oro, argento e ogni bene, nessuno può togliere la sapienza al saggio, tranne l'accecamento dell'empietà e l'indurimento del peccato (TestLevi 13,1-7).

mentate simili o uguali nell'uno come nell'altro corpus. Ma, come nota Sh. BEN CHORIN (Fratello Gesù, Brescia 1985, p. 116), «è l'accumularsi nel Nuovo Testamento di un certo tipo di massime e di pensiero che dà a questo un aspetto inconfondibile di fronte alla tradizione rabbinica [ . . . ] Il confronto non va condotto, o non va condotto solamente, a livello di singole frasi, ma va esteso a interi contesti e alle idee soggiacenti». In altri ter­ mini non solo bisogna essere cauti con singole frasi (che assumono il valore dal conte­ sto), ma bisogna essere cauti anche con singole idee: ogni idea assume il valore che ha nella costellazione in cui è inserita.

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11. Il problema della conoscenza nel giudaismo medio In questo passo il tono è decisamente più cauto che nei passi preceden­ temente letti. L'autore afferma la necessità di conoscere bene la Legge, per­ ché chi conosce la Legge ha tutto ciò che gli è utile nella vita. Ma questa conoscenza non sembra avere niente di superiore; è la conoscenza naturale degli uomini. Ciò che solo può ottenebrare questa conoscenza è piuttosto il peccato, che causa la perdita della saggezza. In questo caso la saggezza non deriva da rivelazione né da illuminazione; essa è alla portata di tutti, o almeno di tutti coloro che sanno leggere e scrivere. Essa è il fondamento della vita religiosa. L'idea che il saggio possiede tutto è anche stoica, ma nel mondo giudaico essa si sviluppa secondo una valenza religiosa tutta parti­ colare. C'è un elemento irrazionale che ormai accompagna la conoscenza. Per capire la Legge è necessario avere una certa umana preparazione, ma questa va coltivata attraverso la pietà. L'ansia di conoscere, che caratterizza il periodo, in questo caso è perfettamente assorbita nella visione tradizio­ nale del giudaismo, perché è sì funzione di salvezza, ma sempre attraverso la Legge, fonte perenne e immutabile di saggezza. Va in questo contesto ricordata la visione propria del Quarto libro dei Mac­ cabei, centrata sull'idea della «ragion pia», ovvero il À.oytoµòç EÙOEp�ç (dr. IV Mac. 1,1; 6,31; 7,16; 13,1; 15,23; 18,2). Per l'autore di questo libro la vera co­ noscenza è accessibile solo attraverso la «pietà», ovviamente da intender­ si nei confronti di Dio, in greco la EùoÉPEta (dr. IV Mac. 5,31.38); è infatti la 0EOoÉPE ta che vince su tutto (dr. IV Mac. 7,22; 17,15)9 •

11.3 La conoscenza razionale10 Un tipo di conoscenza fondato sul ragionamento è, in ogni caso docu­ mentato anche nel mondo ebraico. Già i farisei cominciarono a dedurre una halakah da altri precetti già assodati mediante il ragionamento. In ambito ellenistico il libro della Sapienza non è comunque estraneo a procedimenti di carattere razionale, com'è evidente ad esempio dalla menzione del con­ cetto logico di analogia di proporzionalità, applicato alla conoscenza di Dio in Sap. 13,5. Ma perfino nell'essenismo, specialmente tardo, è documentato un ragio­ namento di tipo razionale. L'autore del Documento di Damasco dice di «ri­ velare» qualcosa «alle orecchie di chi ascolta»: per esempio, in 2,2-3, «le vie degli empi»; ma niente dice per spiegare come abbia fatto lui a conoscere Cfr. G. ScARPAT, Quarto libro dei Maccabei, Brescia 2006, pp. 66-69 e 76-77, con inter­ essanti riferimenti anche a Filone. 10 Cfr. J. BEN Dov, S. SANDERS (a cura di), Ancient Jewish sciences and the history ofknow­ ledge in Second Tempie literature, New York 2014. 9

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Storia del Secondo Tempio ciò che rivela agli altri. Eppure egli conosce il problema della rivelazione, perché dice (OD 2, 11) che Dio istruì «uomini qeri'e sem [" eletti o qualcosa del genere"] per mezzo degli unti del suo spirito di santità». I profeti dissero la verità in nome di Dio, non perché Dio parlasse loro, ma solo perché erano «unti dello spirito di santità di Dio». In termini teologici cristiani, «perché ispirati dallo spirito santo, o qualcosa del genere». L'autore del Documento di Damasco non dice nemmeno chi gli ha rivelato che i profeti erano ispirati dallo spirito. Se non lo dice, vuol dire che la cosa doveva essere un luogo comune che, almeno agli uomini della setta, non faceva alcuna difficoltà: era idea comune, derivante dal modo stesso con cui ormai era letta la Bibbia. Essa era tutta verità di Dio, anche quando la Bibbia veniva considerata come vero racconto storico fondato sul ricordo. Quel che conta è che, qualunque sia il tipo dell'esposizione e quindi della conoscenza soggiacente, essa è sempre e in ogni caso Parola di Dio. Ma il fatto che l'autore del Documento di Damasco rivolga la sua parola solo ai membri della setta, perché soli in grado di capire (DD 1,1 ss.), ed esponga idee che sa condivise dagli ascoltatori mostra l'insorgere di un nuo­ vo concetto: quello di «tradizione», cioè di «tradizione garante». All'inizio della sua opera egli dichiara esplicitamente di rivolgersi esclusivamente a «coloro che conoscono e praticano la giustizia [yod 'e �edeq]»: fu.or di meta­ fora, ai soli membri della setta. Solo a chi conosce già la giustizia egli può fare le sue rivelazioni, che pertanto sono rivelazioni che devono riguarda­ re solo un certo sviluppo dell'ideologia della setta; non i suoi fondamenti. Non solo, ma solo chi ha già accettato le verità fondamentali della setta è in grado di seguire queste nuove rivelazioni, che poi si riducono, in quanto a rivelazione, a nulla. L'autore sa che la Legge non prevede tutti i casi possibili e che esisto­ no anche comandamenti oscuri (nistarot, un termine presente anche nella Regola della Comunità [5,111). La Legge è come un pozzo che bisogna conti­ nuamente scavare e si seguiterà così fino all'avvento di un Maestro di Giu­ stizia finale (OD 6,3-11). In effetti il discorso dell'autore del Documento di Damasco, finito il prolo­ go, prosegue facendo due tipi di rivelazioni. Un primo modo di rivelazio­ ne riguarda la sorte degli empi: poche parole costruite su ovvietà almeno per la maggior parte degli ebrei del tempo, certamente per gli esseni: (2,56) «Forza, potenza e furore grande con fiamme di fu.oco . . . contro tutti co­ loro che hanno deviato dalla via . . . per essi non vi sarà né un resto, né uno scampo». Questa non è in realtà una vera rivelazione; è, e non solo per gli esseni, una ovvietà. All'altro tipo di rivelazioni l'autore dedica molto più spazio e attenzione, ma c'è da domandarsi se l'autore rivela oppure dimostra. In 2,14 introduce questa serie di rivelazioni con la frase «Io aprirò [ 'agalleh] i vostri occhi, af­ finché possiate vedere e comprendere le opere di Dio». In altri termini l'au­ tore sembra introdurre un discorso di rivelazione sul reale, che dovrebbe

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11 . Il problema della conoscenza nel giudaismo medio servire da schema interpretativo per esporre casi di retta halakhah. Ma in re­ altà questo discorso manca: una volta dato per scontato che chi ascolta con­ sidera la Bibbia parola di Dio e che considera sua parola anche gli elementi fondamentali dell'ideologia della setta, la parte innovativa, che dovrebbe essere costituita dalla rivelazione vera e propria, viene sempre presentata attraverso un ragionamento. «Coloro che sposano due donne nella loro vita» sbagliano, «perché prin­ cipio della creazione è "maschio e femmina Dio li creò"» (DD 4,21). Anche nella seconda parte dell'opera, quella contenente le leggi, è de­ gno di nota che, se alcune hanno forma apodittica, altre spiegano perché viene inflitta una certa pena (vedi 9,1 per il primo caso e 9,6 per il secondo). Interessante appare anche il giudizio sulla condotta di David, che nella mente dell'autore era un santo. Come è che questo uomo santo non osser­ vò la scrittura che vieta al principe di possedere molte donne? La risposta si ricava dalla storia, ovviamente come era nota all'autore (5,2-6): «David non aveva letto nel libro della Legge, perché era stato sigillato . . . e non fu più aperto fino all'avvento di Sadoc». Così le opere di David furono accet­ te a Dio, anche se non conformi alla legge, eccetto il sangue di Uria. Dun­ que, anche chi non conosce la Legge è tenuto a osservare una certa morale; lo espliciti o no, l'autore ha chiaro quel concetto che noi chiamiamo della legge naturale e al quale fa riferimento anche Paolo: «Chi ha peccato senza la Legge perirà anche senza la Legge» (Rom. 2,12). Interessante che la leg­ ge rivelata riguardi, secondo quanto risulta da questo esempio, il campo delle abitudini sessuali. D'altra parte l'autore ha chiaro che non può pretendere di convincere quelli che lui chiama «gli uomini della fossa»: egli si rivolge solo a chi co­ nosce la giustizia. Segue di fatto un insegnamento della Regola della Comu­ nità, che vieta di parlare con gli uomini dell'ingiustizia (9,16-17). Ed è inu­ tile parlare agli uomini dell'ingiustizia, perché nella loro vita c'è un errore di fondo che è insanabile: non hanno seguito l'insegnamento del Maestro di Giustizia (cfr. lQpHab 8,2-3: i settari di Qumran si salveranno grazie al­ la loro fede nel Maestro di Giustizia).

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12 Il predeterminismo e il problema del male

12.1 Il predeterminismo Il termine «predeterminismo» (o altri simili) fa difficoltà a qualcuno. Vedi A. MARX, Y a-t-il une prédestination à Qumran ?, RQ 6 (1967), pp. 323-342, e F. NÙTSCHER, Zur theologischen Terminologie der Qumrantexte, Bonn 1956, il quale critica la rigidità della terminologia razionalistica moderna. In Marx vi è anche un ottimo status quaes­ tionis. In questo contesto il termine «predeterminismo» può essere mantenuto, ma chiarisco che va inteso solo come indicante un certo fenomeno storico che riguarda la setta essenica e non altro. In altri termini, il predeterminismo qumranico ha le sue caratteristiche che lo individuano indipendentemente dalle aporie filosofiche del concetto che possono essere poste in evidenza. La cosa non stupisce, perché ogni termine, anche filosofico, assume sempre un valore particolare, quando viene impie­ gato a indicare il pensiero concreto di un uomo: «anima» vuol dire sempre anima, ma non è la stessa in Platone, in Aristotele o in Tommaso. Il discorso degli esseni si incentra più su Dio che sull'uomo: essi credevano che l'uomo fosse buono o catti­ vo, perché tale fatto da Dio, e che Belial fosse stato creato tale da Dio per realizzare i suoi piani: anche i malvagi fanno parte del disegno divino come ne fa parte la lo­ ro distruzione finale. Comunque, il fatto che Flavio Giuseppe abbia incentrato pro­ prio sul problema della libertà di scelta dell'uomo la sua presentazione delle sette ebraiche ha il suo peso e mostra che al suo tempo il problema della libertà di scelta era centrale nel pensiero ebraico. Ogni religione, per poter sussistere, deve credere nella libertà dell'uomo e in quella di Dio, cosa che crea infiniti problemi, come mo­ stra la storia del pensiero teologico: ora, gli esseni dettero il massimo peso a quella di Dio a scapito di quella dell'uomo. In questo senso furono predeterministi, anche se il loro predeterminismo è unico e irripetibile, come ogni individualità storica.

L'onnipotenza di Dio e il suo libero intervento nella storia degli uomini per dirigerla verso mète a lui note sono concezioni antiche in Israele. Già in Amos l'onnipotente intervento di Dio nella storia è posto in stretta relazio-

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Storia del Secondo Tempio ne con la sua capacità creatrice: come Dio ha creato le cose, così in qualche modo causa anche gli avvenimenti umani: Egli fa le Pleiadi e Orione, muta la più profonda oscurità in aurora ottenebra il giorno in notte; chiama le acque del mare, le sparge sulla superficie della terra: YHWH è il suo nome. Egli fa venire la rovina su chi è forte, e fa arrivare la sventura sulla fortezza (Arn. 5,8-9). Il senso dell'uomo che si trova interamente nelle mani di Dio era stato espresso con la massima chiarezza da Geremia con la nota immagine del vasaio che sarà ripresa anche da Paolo (Rom. 9,20 ss.): Parola di YHWH indirizzata a Geremia da parte di YHWH: «Muòviti e scen­ di alla casa del vasaio, dove ti farò ascoltare le mie parole». Io scesi alla casa del vasaio e lo trovai che faceva un oggetto alla ruota. Quando il vaso che stava facendo gli veniva male [ . . . ] ne faceva un altro a suo pia­ cere. Allora YHWH mi rivolse la parola e mi disse: «Io posso agire verso di voi alla maniera di questo vasaio, o casa d'Israele, oracolo di YHWH, ecco, come l'argilla in mano al vasaio, così siete voi nella mia mano, o casa d'Israele (Ger. 18,1-6). Ma in Geremia, o almeno in un certo Geremia! , il senso dell'onnipoten­ za di Dio nella storia è contemperato anche dal riconoscimento della liber­ tà dell'uomo: Se io minaccio di annientare e distruggere un popolo, un regno, se quel popolo che ho minacciato si converte dalle sue iniquità, anch'io desisto dal castigo che avevo deciso di infliggergli (Ger. 18,7-8). Il senso della libertà dell'uomo è particolarmente evidente nelle opere più vicine alla teologia del Patto. Vedi il cap. 18 di Ezechiele, che insiste che l'uomo vive in quanto osserva (liberamente) i comandamenti o la frase la-

1 Il pensiero di Geremia è molto complesso e vi si coglie una linea di sviluppo, che difficilmente può essere attribuita alle varie edizioni che subl il suo testo. Per Geremia la missione profetica fu un vero peso (cfr. 20,7 ss.). Col passare del tempo si convinceva sempre più, se il senso della sua missione era la conversione di Israele, dell'inutilità di questa, perché un nero non può diventare bianco, né un leopardo può cambiare il colo­ re della sua pelle (13,23). Il fatto stesso che l'unica salvezza per il futuro gli sembrasse una nuova creazione della natura umana (31,33) mostra che non aveva alcuna speranza nell'uomo. E per quanto avesse un'infinita fiducia in Dio («Benedetto l'uomo che ha fi­ ducia in Dio» e «maledetto l'uomo che ha fiducia nell'uomo» [Ger. 17,5.7]), fu il primo ebreo a porsi chiaramente il senso della giustizia di Dio, se Dio retribuiva le azioni degli uomini secondo giustizia: «Perché le cose degli empi prosperano?» (12,1).

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12. Il predeterminismo e il problema del male pidaria di Deut. 30,15: «Oggi io pongo davanti a te la vita e il benessere, la morte e il male». Ma nessuno nega a Dio la possibilità di intervenire nella storia. Il problema è se il suo intervento è un atto possente che corregge la linea della storia che fanno gli uomini, affinché vada nella direzione da lui voluta, oppure se la storia stessa non è altro che una manifestazione della sua volontà. Tutti sanno, per usare le parole del Cantico di Anna, che nes­ suno può resistere a Dio con la forza: «L'arco dei forti è spezzato2, mentre i deboli si cingono di forza» (I 5am. 2,4, brano probabilmente post-esilico3). Il problema è se attraverso la giustizia e il pentimento si può stornare il ca­ stigo minacciato. Geremia conobbe la disperazione di essere profeta, pro­ prio perché ebbe dubbi sulla possibilità del pentimento. Abbiamo già visto che l'idea che tutti gli uomini sono nelle mani di Dio, giusti e iniqui, deboli e forti è una delle idee dominanti del pensiero di Giobbe e di Qohelet. Si potrebbe dire che essi non fanno che sviluppa­ re e rendere sempre più reciso nelle conclusioni un tema da tempo carat­ teristico della tradizione ebraica. Ciò che costituisce la novità di Giobbe e di Qohelet non è pertanto l'idea in quanto tale, ma piuttosto il fatto che all'onnipotenza di Dio non faccia riscontro né l'idea, tipica della Teolo­ gia del Patto, che Dio salvi il giusto o chi si pente, né quella della Teolo­ gia della Promessa che Dio salva in ogni caso Israele. Forse l'interesse di questi autori, che passa dalla meditazione sul popolo a quella sull'indivi­ duo, fece perdere loro anche il senso liberante e tranquillizzante della vita del popolo indipendentemente da quella del singolo. Ma in questo modo l'azione di Dio diviene incomprensibile all'uomo: Dio non ha più nessu­ no scopo comprensibile all'uomo nella sua azione: non mira a retribuire le opere dell'uomo. La grande meditazione sui destini ultimi dell'umanità non sembra interessare questi autori. Dopo Qohelet, il senso dell'onnipotenza di Dio si radicalizza a danno della sfera della libertà dell'uomo. Dio può tutto, Dio ha creato tutto, Dio è autore di tutta la storia; anzi, nella sua onnipotenza non è tanto autore della storia perché vi agisce, ma per il motivo ben più radicale che realizza nel tempo ciò che ha deciso ab aeterno e che ha scritto nelle tavole celesti. Nel Libro dei Sogni (scritto subito dopo la morte di Antioco IV verso la metà del II sec. a.C.) Enoc legge la storia per lui futura in queste tavole.

2 «Spezzato»: il testo masoretico ha un plurale che non dà senso. 3 Il cosiddetto Cantico di Anna ha tutta l'apparenza di essere tardo,

sia per le idee che mostra, sia per certe espressioni. In favore della sua datazione tarda cfr. H. STOEBE, Das erste Buch Samuelis, Giitersloh 1973, p. 106: «Man wird daraus folgern miissen, dass es sich hierbei um eine sekundare Komposition unter Verwendung verschiedener al.terer Moti.ve handelt». Diversamente de Vaux (nelle note della Bible de Jérusalem), che preferi­ sce una data all'epoca monarchica; cfr. anche R.W. KLEIN, 1 Samuel, Nashville 1983, p. 15.

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Storia del Secondo Tempio Nel libro dei Giubilei (metà del II sec. a.C.4) si dice che Dio incise il destino di tutta l'umanità su sette tavole dette «tavole del Cielo». [Giacobbe] vide in una visione notturna un angelo che era sceso dal cie­ lo tenendo in mano sette tavolette, le dette a Giacobbe che le lesse e così conobbe tutto ciò che c'era scritto che sarebbe capitato a lui e ai suoi figli attraverso tutti i tempi (Giub. 32,21). Se Dio è creatore, niente può esistere che non sia come egli ha voluto. L'idea è bene espressa in questo passo della Assunzione di Mosè5: Dio ha creato tutte le nazioni sulla terra: Egli ha previsto noi, loro e noi, dall'inizio della creazione della terra fino alla fine del mondo. Niente, fi­ no alla più piccola cosa, è stato trascurato da lui, ma egli ha visto e cono­ sciuto ogni cosa in anticipo [ . . . ] . Il Signore ha previsto tutte le cose de­ stinate a succedere in questo mondo e, ecco, sono portate a compimento (AssMos 12,4)6 • La preveggenza di Dio diviene, grazie alla sua onnipotenza, predeter­ minismo. Il rapporto strettissimo che intercorre fra la conoscenza come il­ luminazione, non come rivelazione, e il predeterminismo è evidente. L'uni­ ca conoscenza dell'uomo è quella stessa di Dio e Dio conosce ab aeterno ciò che ab aeterno ha stabilito. Gli aspetti dell'onniscienza / onnipotenza di Dio sono temi cari all'essenismo. Dal Dio della conoscenza7 viene tutto ciò che è e che sarà. Prima che gli uomini vengano all'esistenza, Egli ha stabilito tutto il lo­ ro piano8 cosicché, quando vengono all'esistenza, essi compiono le loro azioni secondo i tempi fissati per loro secondo il disegno della sua gloria. Nulla può essere cambiato. 4 Il libro dei Giubilei è la più antica opera che possediamo con caratteri chiaramente essenici; perciò il suo autore può essere considerato il fondatore dell' essenismo. Il pen­ siero dell'autore si distingue dall' enochismo per accettare la Legge di Mosè, pur conti­ nuando a rifiutare il Tempio. Esso rappresenta il massimo sforzo per fondere il giudai­ smo sadocita del Tempio (quello che a noi appare come canonico) con l'enochismo che rifiutava Tempio e Legge. Il predeterminismo sarà un'idea di fondo del pensiero essenico. 5 Altro nome di quest'apocrifo: Testamento di Mosè. 6 Traduzione D. Maggiorotti in AAT IV. 7 «Dio della conoscenza»: la conoscenza è attributo di Dio in quanto governa la sto­ ria. La conoscenza di Dio, data la sua onnipotenza è creazione di situazioni, cioè di sto­ ria. Cfr. I 5am. 2,3. Vedi P. SACCHI, 1 Q S, III, 15 ss. e 1 Sam., II, 3, RSO 44 (1970), pp. 1-5. 8 «Piano»: ebr. mehasebet. La parola può indicare anche il pensiero. In questo caso Dio stabilirebbe anche i singoli pensieri degli uomini. In effetti il senso della frase non cambia, perché Dio ha prestabilito tutto. Cfr. lQH 9 (1),28-29: «Tu hai creato lo spirito nella lingua e conosci le sue parole; Tu hai stabilito i frutti delle labbra prima che esist­ essero; Tu hai dato un ritmo alle parole e una misura al soffio d'aria sulle labbra» (tra­ duzione C. Martone).

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12. Il predeterminismo e il problema del male Nella sua mano è il destino9 di tutto. È Lui che ha cura degli uomini in tutte le loro cose (lQS 3,15-17). Tutto è stato predisposto fino nei minimi particolari. L'uomo pensa solo ciò che Dio ha voluto che pensasse. Il pensiero stesso dell'uomo non è libe­ ra espressione dell'uomo, ma un fatto che si produce nel cosmo secondo la legge stabilita da Dio. È una medesima la legge che governa gli astri e gli uomini: la legge della natura e la legge dei momenti non sono due leggi di­ verse, come aveva voluto Qohelet, ma entrambe hanno le loro radici in una stessa legge che si identifica con la volontà di Dio, l'una e l'altra conoscibili allo stesso modo, per illuminazione, se Dio la concede. Ecco un altro passo caratteristico, tratto dalla nona (già prima) colonna delle Hodayot: Prima che tu avessi creato gli uomini, già conoscevi tutte le loro opere . . . Senza di te nulla viene fatto, e nulla si può conoscere senza la tua volontà. Tu hai creato ogni spirito E hai stabilito tutte le loro a[zioni] Tu hai disteso i cieli per la tua gloria; Tutto [ciò che contengono] lo hai stabilito secondo la tua volontà: gli spiriti potenti, secondo le loro leggi, prima che diventassero angeli santi [ . . . e] spiriti eterni nei loro domini, i luminari secondo i loro misteri [cioè la legge da cui sono regolati] le stelle secondo i loro sentieri . . . Tu hai creato la terra con la tua forza, i mari, gli abissi [e i cieli . . . ] . E le loro stelle hai fissato con la tua sapienza: tutto ciò che è in essi tu hai stabilito secondo la tua volontà. [ . . . ] Nella sapienza della tua scienza hai stabilito il ruolo degli uomini, prima che essi vengano all'esistenza; tutto avviene secondo la tua volontà. Senza di te nulla può essere fatto. Questo io ho saputo dalla tua conoscenza, perché tu hai rivelato alle mie orecchie i tuoi misteri meravigliosi [razey pele' ]. [ . . . ] Tu hai creato lo spirito nella lingua e conosci le sue parole. Hai fissato il frutto delle labbra prima che le parole vengano pronunciate (lQH 9 [l],7-28 passim).

«Destino di tutto»: traduco così m§pty kwl («giudizi di tutto»). In questo contesto mi§pat, «giudizio», significa «volontà», o meglio «manifestazione della volontà divina»: in definitiva, indica il governo del mondo da parte di Dio. 9

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Storia del Secondo Tempio Nel seguente passo, tratto dal Documento di Damasco, l'accento della fra­ se si sposta: più che di determinismo sembra doversi parlare di «elezione»; o meglio il tema dell'onnipotenza di Dio è sentito vicino al tema dell'ele­ zione.L'uno sconfina nell'altro, con un movimento assolutamente naturale. Ma forza, potenza e furore grande con fiamme di fuoco, per mezzo di [lui] 1° tutti gli angeli devastatori, toccheranno a tutti coloro che hanno deviato dalla via e hanno detestato il comandamento: per essi non ci sarà né resto né scampo. Dio infatti non li ha scelti ab aeterno. Prima che ve­ nissero a esistere, già Dio conosceva le loro opere; ab aeterno 11 detesta le [loro] generazioni. Ha nascosto il suo volto alla faccia della terra, a Isra­ ele, [e lo terrà nascosto] fino alla loro distruzione. Egli conosceva gli an­ ni della loro esistenza, il numero e la data esatta dei tempi. .. Egli ha su­ scitato fra tutti per sé uomini chiamati per nome [cioè eletti], per lascia­ re uno scampo alla terra e riempire la superficie del mondo con la loro discendenza; li ha istruiti per mezzo di unti del suo spirito santo, che è verità; i loro nomi sono con precisione nel suo nome [ così il testo senza correzioni]; quelli che odia li fa smarrire (OD 2,5-13).

12.2 Il problema del dualismo Se tutto avviene nel mondo per volontà di Dio, anche il male viene a ri­ salire in qualche modo fino a Dio, come i passi già letti mostrano con suffi­ ciente chiarezza. Prima dell' essenismo ripugnò sempre al pensiero giudaico post-esilico l'attribuzione diretta del male a Dio, anche se ad alcuni sem­ brava che tutto ciò che accade dipendesse da lui: si trovò una via d'uscita, sviluppando le concezioni relative al mondo di mezzo, che si popolò sem­ pre più di spiriti, i quali venivano messi in relazione ai vari cieli. Anche il mondo di mezzo perse l'unità che aveva avuto in Zaccaria e in Giobbe; in Zaccaria il satana accusa Giosuè, ma fa parte dello stesso mondo del quale fanno parte gli angeli difensori. Il satana è nemico più nel senso in cui lo può essere un pubblico ministero che nel senso in cui lo è qualcuno che ci vuole male, perché intrinsecamente cattivo. Anche in Giobbe la situazione non cambia. Con l'enochismo vediamo che esistono degli angeli che libe­ ramente si ribellarono a Dio. Così il mondo di mezzo si divide in due parti contrapposte, quella degli angeli buoni e quella degli angeli cattivi. Ma con l'essenismo le due schiere angeliche, quelle buone e quelle cattive, appa­ iono create direttamente da Dio, per assolvere, l'una come l'altra, compiti assegnati direttamente dal loro creatore. In questo modo l'unicità e onni10

[lui]: l'espunzione della waw è necessaria e sicura. il testo ha mdm, «dal sangue». È certamente caduta una qof mdm.

11 «ab aeterno»:

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12. Il p redeterminismo e il problema del male potenza di Dio è assolutamente garantita, ma il male non può che essere attribuito a lui per motivi che non comprendiamo. Qualunque soluzione il pensiero umano adotti, davanti al divino e al suo rapporto col male resta sempre un'ombra di mistero. Ma leggiamo il passo fondamentale che tratta della cosiddetta dottrina dei due spiriti, in quanto tutti gli angeli buoni e tutti quelli cattivi dipen­ dono da un loro capo, che sarà il principe della luce per gli uni e il principe delle tenebre per gli altri. [Dio] ha creato l'uomo per dominare la terra, stabilendo per lui due spi­ riti, perché proceda in essi fino al momento del suo Intervento. Sono gli spiriti del Bene [ 'emet] e del Male [ 'awel]. Nella sorgente della Luce è la stirpe [toledot] del Bene e dalla fonte della Tenebra proviene la stirpe del Male. In mano al principe della Luce è il governo di tutti i figli della Giustizia, i quali camminano nelle vie della Luce. In mano all'Angelo della Tene­ bra è tutto il governo dei figli del Male, i quali camminano nelle vie del­ la Tenebra. A causa dell'Angelo della Tenebra si smarriscono tutti i figli della Giusti­ zia. Tutti i loro peccati, le loro colpe 12, le loro empietà, le loro azioni ribelli sono causati dal suo dominio secondo la misteriosa volontà di Dio, finché giunga la sua fine. Tutte le sventure dei figli della Luce e i tempi delle lo­ ro angosce dipendono dal dominio della sua ostilità. Tutti gli spiriti del suo partito cercano di far cadere i figli della Luce, ma il Dio di Israele e l'Angelo della sua Verità soccorrono tutti i figli della Luce. È Lui che ha creato gli spiriti della Luce e della Tenebra e su di loro ha fondato ogni azione [ . . . ] ogni opera e sulle loro vie [ . . . ] Il primo, Dio lo ama per tutti [i te]mpi eterni, compiacendosi sempre di tutte le sue azioni. In quanto all'altro, Egli lo aborre molto e odia tutte le sue vie per sempre. Queste sono le loro vie sulla terra [ . . . ] (lQS 3,17 - 4,2). Il brano è interessante anche perché mostra come l'essenismo avvertis­ se la difficoltà insita nel suo sistema: se Dio ha creato due parti nettamente distinte e contrapposte, una posta sotto la protezione dell'angelo del bene e una sotto il governo dell'angelo del male, si dovrebbero avere come risultato due schiere di uomini, gli uni perfettamente cattivi e gli altri perfettamen­ te buoni. Il fatto è che l'angelo del male porta i suoi attacchi anche contro gli uomini del partito avverso per farli peccare, e in effetti ogni volta che l'uomo pecca, è per colpa dell'angelo del male, e guai al giusto se non fosse protetto dall'angelo del bene e dagli interventi di Dio stesso. Dopo Qohelet, che aveva affermato che non esiste giusto senza peccato (7,20), il problema 12 «Colpe»: termine che, in senso stretto indica la macchia - reale - dell'anima, con­ seguente alla trasgressione.

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Storia del Secondo Tempio del male si complicava, perché la figura del giusto come di colui che non pecca è scomparsa. Non solo i peccatori hanno bisogno di una redenzione dal male, ma anche i giusti, supposto che giusto voglia dire ancora qualco­ sa. Ma per questo vedi il cap. 15 di questa stessa parte. Il dualismo essenico è un dualismo, come si vede, particolare. Non è metafisico, perché nessuna corrente giudaica fu più ferma nel sostenere che tutto deriva da Dio, ma non può, mi sembra, nemmeno essere definito dualismo morale, perché questo è proprio di tutto il giudaismo e non solo dell' essenismo: è proprio dell'etica. A volere proprio cercare una definizio­ ne, bisognerebbe usare il termine di «dualismo a livello degli spiriti»; ma penso che la soluzione migliore sia evitare ogni definizione e parlare sem­ plicemente del «dualismo essenico». Questa visione del mondo è profon­ damente pessimistica e non è caratteristica del solo essenismo, ma un po' di tutto il pensiero giudaico di questo periodo, che fu prevalentemente di tipo apocalittico. Il male predomina sul bene e l'uomo non ha in sé nessuna possibilità di salvezza. Bisogna attendere che la misura e il tempo del ma­ le si compiano, perché Dio finalmente intervenga in favore del bene e dei buoni. Non c'è da stupirsi se in quest'epoca prese vigore il messianismo, al quale dedicheremo un capitolo a parte. L' essenismo concorda con l' enochico Libro dei Vigilanti nella ricerca dell' o­ rigine del male al di fuori dell'uomo e l'identificazione sostanziale del ma­ le con l'impurità (vedi il cap. 17 di questa stessa parte), ma se ne distingue per un motivo fondamentale: per il Libro dei Vigilanti il mondo non è stato creato cosi da Dio, ma è stato sciupato, per cosi dire, da una ribellione an­ gelica deliberata liberamente. Per il Libro dei Vigilanti, pertanto, il mondo è in qualche modo diverso da come Dio lo aveva voluto. Gli astri sono fuori posto e mandano sulla terra influssi diversi da quelli prestabiliti da Dio. Fe­ de e scienza (astrologia) concordano in una visione del mondo, che ha per fondamento l'idea che il mondo è cattivo, o in parte cattivo e, in ogni ca­ so, diverso da come Dio lo volle; dunque, di fatto non ci sono che i resti di quello che fu l'ordine cosmico voluto da Dio; l'ordine cosmico è, in realtà, un disordine. Per questo il primo enochismo (lH [LV] 8,3) condannò tutte le scienze compresa l'astronomia1 3 • In un masso erratico dello stesso Libro dei Vigilanti (cap. 8) l'origine del male è riportata al disvelamento delle scienze agli uomini da parte di un angelo, naturalmente ribelle e liberamente ribelle, Asael14• Le scienze erano un segreto celeste, che non avrebbe dovuto essere rivelato agli uomini; an­ che in questo modo ritorna l'idea di base, che il mondo attuale non è come Dio lo aveva progettato. Si capisce bene come questo masso erratico, pur 13 Il

motivo ritornerà vigoroso nel Libro delle Parabole (fine r sec. a.C.). Vedi in seguito. 14 Il nome di Asael deriva dai frammenti aramaici di Qumran. I testi greco ed etio­ pico leggono Azazel, che è nome del demone biblico e quindi lectio facilior. Di opinione opposta G. DEIANA, Azazel in Lv 1 6, "Lateranum" 54 (1988), pp. 16-33.

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12. Il predeterminismo e il problema del male diverso dal resto del pensiero del Libro dei Vigilanti, tuttavia abbia potuto esservi incluso. Ed è conseguenza di questo atteggiamento di fondo riguar­ dante lo stato delle cose che il primo enochismo e in particolare il cap. 8 del Libro dei Vigilanti condannino l'astronomia, che in seguito diventerà la base di ogni sapere per l' enochismo. E questo cambiamento, già avvenuto col Libro dell'Astronomia, è uno dei tanti mutamenti radicali che caratterizzano la storia della tradizione enochica. Enoc è l'uomo che visse 365 anni tanti quanti sono i giorni dell'anno solare. L'Enoc del canonico libro della Gene­ si (Gen. 5,23), che visse 365 anni, appartiene a una corrente opposta a quel­ la enochica, probabilmente posteriore, perché il testo canonico, quello dei sadociti del Tempio, è testo di difesa. È un indizio che le prime tradizioni enochiche sono antiche, molto antiche. Può darsi che si tratti dello svilup­ po di quanto è detto nel secondo racconto della creazione, che materia del peccato di Adamo e di Eva fu la conoscenza del bene e del male. L'idea che il male derivi in qualche modo dalla conoscenza, che dovreb­ be essere prerogativa divina, è ripresa nel Libro delle Parabole, scritto verso la fine del I sec. a.C. e inserito adesso nel libro di Enoc Etiopico. In 69,9-11 l'autore dice che l'angelo ribelle Penemu insegnò agli uomini, evidentemen­ te contro la volontà di Dio, la scrittura: « [ . . . ] perciò sono molti quelli che hanno errato nei secoli fino a oggi, perché l'uomo non è stato creato perché confermi in questo modo la sua fede, con acqua, fuliggine e penna. Infat­ ti gli uomini non sono stati creati se non per essere come gli angeli, santi e giusti e la morte, che tutto distrugge, non li toccherebbe, ma per questa lo­ ro conoscenza, essi saranno distrutti [ . . . ] » . È notevole che nei vari elenchi delle male scienze, insegnate dagli angeli cattivi agli uomini, non compaia mai l'agricoltura. In questo senso viene in aiuto il Libro dei Giubilei (3,15), secondo il quale fu Dio stesso a insegnare ad Adamo quest'arte. Dietro a questo tipo di testi sembra potersi intravedere un mondo agricolo, conservatore, che vedeva nello sviluppo della cultura e delle tecniche, quale certamente ci fu nel periodo ellenistico, la causa di molti, se non di tutti i mali.

12.3 L'uomo e il male Se il problema del male, colto nelle sue dimensioni cosmiche, si presen­ tava nei termini che abbiamo visto nell' enochismo e nell' essenismo, esso si presentava all'uomo in termini drammatici, se visto nelle sue dimensioni antropologiche. Qualunque fosse l'origine e la vera essenza del male, questo, come si presentava nell'uomo? Che cosa doveva fare l'uomo per liberarsi, se libe­ razione ci poteva essere, dal male, che è odiato da Dio ed è causa di dolore all'uomo stesso?

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Storia del Secondo Tempio In questa nuova visione del cosmo, la risposta tradizionale al proble­ ma, che tuttavia è documentata sussistere, non soddisfa più, o almeno non soddisfa chi medita sul mondo alla luce dei principi che abbiamo esposto. La risposta tradizionale è documentabile in passi come quello già citato del Testamento di Levi, dove si dice che la soluzione del problema sta nel co­ noscere sempre meglio la Legge di Dio. Ciò però presuppone che si creda ancora che la radice del male sia nella libera volontà dell'uomo che accetta o trasgredisce un comandamento. È idea antica in Israele, ma che male si accorda con la conoscenza sentita come illuminazione e con il predetermi­ nismo dominante. Uno spiraglio per capire le nuove posizioni circa il problema del male, non visto nelle sue dimensioni metafisiche, ma nella sua realtà quotidiana e umana, si ha nel Libro delle Parabole (lH [LP] 50,2), dove si dice che l'eletto di Dio insegna agli uomini «a far penitenza e a rinunciare all'opera delle loro mani». «Far penitenza» non deve servire per tornare alle opere della Legge, o almeno le opere della Legge non sono viste come uno schema ideale da seguire. Per essere accetti a Dio, bisogna fare ciò che noi non vogliamo. Il testo non parla di Legge e questo è significativo. L'uomo deve liberarsi dal­ la propria volontà per fare la volontà di Dio, che è sentita come totalmente opposta a quella dell'uomo: fonte di perdizione questa, fonte di salvezza quella. Un'idea analoga si troverà anche in DO 3,2: «Abramo non proce­ dette nella pervicacia del cuore e fu considerato persona che con amore os­ servò i comandamenti di Dio, senza seguire l'impulso del proprio spirito». Come le scelte quotidiane non possano e non debbano risolversi in scelte secondo la Legge, ma più profondamente secondo la nostra adesione ai piani divini, è chiaramente illustrato anche da Giub. 12,20 ss.: Abramo è a Harran ed è incerto se tornare a Ur, dove i caldei pentiti di averlo cacciato, lo invitano a tornare, oppure restare dove è o andare altrove. Non è un problema morale; è un problema religioso. «Che la via giusta ai tuoi occhi fiorisca nelle mani del tuo servo, perché io possa seguirla senza smarrirmi dietro ai vaneggia­ menti del mio cuore [ . . . ]». Il compito dell'uomo è realizzare i piani di Dio: in questa atmosfera «fare la Legge» non basta più per la coscienza religiosa. Un'idea come questa si presenta come il logico sviluppo del pensiero di Qohelet che invitava a cercar di capire l'«opera di Dio» (7,13). L'idea che ciò che vuole l'uomo sia intrinsecamente cattivo, è appena adombrata nei passi dei libri che abbiamo visto, scritti da autori che ri­ specchiavano le idee del loro tempo in maniera sostanzialmente ingenua. Nell'essenismo qumranico troviamo la soluzione più compiuta del proble­ ma del male. Le sue idee sono ovviamente sulla scia del libro dei Giubilei, ma le conclusioni dell'autore della Regola hanno la radicalità della lunga meditazione e del forte convincimento. Mèta suprema del giusto, nel grado più alto di iniziazione (il testo sta parlando del maskil), è fare la volontà di Dio in ogni atto:

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12. Il p redeterminismo e il p roblema del male Egli deve fare la volontà di Dio in tutto quello che intraprende e in tutto quello che dipende da lui, come Egli ha ordinato. In quanto a tutto ciò che gli capita, in esso troverà gioia spontanea e, al di fuori della volontà di Dio, non si compiacerà di nulla. Si diletterà [di tut]te le parole della sua bocca e non desidererà nulla che Egli non abbia ordinato, ma starà sempre attento a ciò che Dio vuole da lui. [Nell'angoscia e nella deso]la­ zione benedirà il suo creatore (lQS 9,23-25). Fare il male è dunque anche per l'essenismo staccarsi da ciò che Dio vuole da noi nelle varie occasioni della vita. All'uomo non può e non deve basta­ re l'osservanza dei comandamenti imposti dalla Legge; è necessario attua­ re interamente la volontà di Dio, che naturalmente si rivela solo a colui che egli ha scelto. Chiunque segua la propria volontà non può che peccare, indi­ pendentemente dalla liceità della sua azione dal punto di vista della Legge. Perché ciò abbia un senso, è però necessario che nell'uomo vi sia un prin­ cipio intrinsecamente cattivo che si rivela nell'azione, ma che sia tale indi­ pendentemente da questa e prima di questa: questo è l'uomo stesso, che nella visione dell'essenismo non è che peccato. Ecco alcuni passi che rive­ lano il pensiero essenico a questo proposito. Io sono una creatura d'argilla, un essere impastato con acqua, un insieme di vergogna, una fonte di sozzura, un crogiuolo di iniquità, una struttura di peccato, uno spirito di errore e di perversione, incapace di conoscenza, timoroso dei giusti giudizi [ . . . ] Tu sei il Dio della conoscenza, a Te appartengono tutte le opere buone [ di «giustizia»: $edaqah] e il fondamento della verità, mentre ai figli dell'uomo appartiene il servizio dell'iniquità ['awon] [ . . . ] (lQH 9 [1),21-27). L'uomo, di per sé, non è che terra impastata con acqua. La sua struttura è il peccato stesso che si identifica con uno stato di perenne impurità; e un'im­ purità di questo tipo non può che essere definita ontica. La tradizione giudai­ ca aveva fino allora insistito, seguendo la linea del pensiero del Sacerdotale (Lev. 10,10), sulla necessità di distinguere le cose pure da quelle impure. Il sangue e il sesso potevano contaminare l'uomo, ma mai si era pensato che l'uomo fosse impuro per il suo stesso essere uomo. È lo sviluppo coeren­ te dell'idea di Giobbe, appena accennata che la sua debolezza niente altro fosse che l'impurità connaturata con la natura umana (cfr. Parte Il, 6.7). Da un lato pertanto ogni purità e giustizia non possono che appartenere a Dio, dall'altro ogni impurità e peccato non possono che appartenere all'uomo. L'uomo è nel peccato ['awon] fin da quando è nell'utero e fino alla vec­ chiaia si trova in uno stato di ribellione colpevole. Io so che la giustizia non è nell'uomo, né della creatura umana la via perfetta.

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Storia del Secondo Tempio A Dio altissimo appartengono tutte le opere buone [di «giustizia», 1;,edaqah], mentre la via dell'uomo non sta salda, se non per mezzo dello spirito che Dio crea per lui (lQH 12 [4],29-31). Il peccato, il male, è connaturato con l'uomo, fa parte della sua stessa natura e lo rende impuro ancor prima che nasca. L'unica speranza sta in un intervento di Dio che modifichi, almeno eccezionalmente, questa situa­ zione umana destinata all'odio di Dio. Nell'essenismo (ma forse anche nel giudaismo in genere) bisogna distinguere tra !Jet e 'awon. Entrambe le pa­ role possono voler dire peccato, ma mentre nella !Jet è presente l'idea di tra­ sgressione, in 'awon è piuttosto presente l'idea di qualcosa di negativo che è legato al peccato-trasgressione, ma che non coincide con questo (vedi in­ fra, il cap. 17). Nell'essenismo può addirittura preesistere alla formazione della coscienza ed essere presente nell'uomo già nell'utero materno. 'awon è l'aspetto più maligno dell'impurità, la sua interfaccia col peccato (mi si perdoni la metafora informatica). È concetto estremamente simile a quello di peccato originale: è un peccato d'origine. Questa intuizione circa l'impurità ontica dell'uomo cambia profondamente l'ideologia giudaica. Essa ha infatti numerose conseguenze. Il profano (IJol) cioè l'essenza più autentica dell'uomo, quella per cui Abramo aveva potu­ to parlare liberamente con Dio, mantenendo totalmente la propria autono­ mia spirituale e di giudizio (Gen. 18,22 ss.), non ha più un senso. Il profa­ no è diventato l'impuro e l'uomo non deve più seguire la propria volontà, la quale può solo portare ad azioni peccaminose. L'uomo deve in qualche modo svuotarsi, rinunciare a se stesso nel senso di fuggirsi, per fare solo le opere di Dio, che sole son giuste. È interessante notare che nel mondo giu­ daico è così avvenuto un rovesciamento di posizioni. Quando la tradizio­ ne sacerdotale raccolse il materiale del Levitico, si stabilì il parallelo sacro / profano - impuro / puro. Erano le cose sacre, cioè di Dio, che erano impure all'uomo, mentre delle cose pure l'uomo poteva disporre, perché in qualche modo erano sue. Ora il sacro diventa il luogo del puro, mentre il profano diviene il luogo dell'impuro. Il giudaismo tradizionale è così interamente snaturato. Tutti sono peccatori, non fa eccezione nemmeno lo stesso mae­ stro essenico che scrisse le righe seguenti: egli non trova in sé, per se stesso, niente di meglio che negli altri uomini: Io appartengo all'umanità malvagia, all'assemblea della carne del male. Le mie colpe ('awon), i miei peccati (pesa' ) e le mie trasgressioni (}Jattah), come anche la perversione del mio cuore appartengono all'assemblea dei vermi (cioè impura) di coloro che camminano nella tenebra (lQS 11,9-10). D'altra parte, subito dopo aver confessato la propria indegnità, le attribuisce una sorta di fatalità cosmica; è un dramma che lo investe, come investe tutti gli esseri viventi, ma non dipende dalla volontà né sua né degli altri uomini:

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12. Il predeterminismo e il problema del male Per mezzo della Sua conoscenza tutto viene ad esistere. Tutto ciò che è, per mezzo del Suo pensiero Egli lo fa esistere. Niente è fatto senza di Lui (lQS 11,11). Nel I sec. d.C. il problema del male e del peccato con tutte le sue inevita­ bili conseguenze era acutissimo in Israele, tenuto vivo dalla situazione tra­ gica in cui il paese si trovava. Caratteristica è la figura di Giovanni Battista: egli si rivolgeva a tutti gli ebrei senza preclusioni, perché per lui tutti erano ugualmente peccatori. Egli sa che tutti trasgrediscono e che questo è il dram­ ma, perché se tutti trasgrediscono, la pena di Israele sarà adeguata. Non sem­ bra preoccuparsi della normativa della Legge: fa evidentemente riferimento soltanto a un senso della morale comunemente riconosciuta, intervenendo solo con consigli pratici di carattere generico, adatti specialmente a vincere la corruzione e l'ingiustizia sociale, come quello rivolto a tutti: «Chi ha due tuniche, ne regali una»; rivolto ai pubblicani: «Non esigete niente di più di quanto vi è stato fissato» e rivolto ai soldati: «Non fate violenza a nessu­ no, non fate denunce false, accontentatevi della vostra paga» (Le. 3,11-14). L'unico ostacolo alla salvezza era il «peccato» nella sua globalità. Per quanto di stirpe sacerdotale, Giovanni non pensa a nessun rito espiatorio che possa perdonare il peccato; del resto i riti del Tempio riguardavano sol­ tanto i peccati involontari, o a questi riconducibili: in pratica non e'era nes­ suna possibilità di perdono per i peccati più gravi come l'assassinio o l'adul­ terio. Inoltre la sensibilità del tempo avvertiva l'esistenza di peccati gravi, ma male riconducibili alla legge scritta, come gli infiniti casi di corruzione. Bisognava che tutti facessero penitenza, ma è interessante che anche questa non fosse sufficiente: bisognava anche che il pentito si purificasse con bagno lustrale, il battesimo, per togliersi di dosso qualcosa di negativo che ancora restava dopo il pentimento. È un'interpretazione del concetto essenico di 'awon . Il peccato lasciava una traccia, un'impurità particolare che doveva essere tolta.L'opera di Giovanni era un tentativo estremo «per la remissione dei peccati» (Mc. 1,4; Le. 3,3), perché presto sarebbe giunto colui che doveva venire, il quale avrebbe annientato il peccato, estirpando il peccatore: «La scure è già posta alla radice» (Mt. 3,10 e Le. 3,9). La coscienza della catastro­ fe ha una vivezza impressionante. Il mondo intero è sprofondato nel male e sembra attendere la salvezza da un intervento divino che sarà essenzial­ mente di distruzione secondo un'idea comune del tempo tipica soprattutto della letteratura apocalittica. Quanto a se stesso, Giovanni prese la decisio­ ne di separarsi il più possibile dalla società in una vita di purità assoluta 1 5 • Credo che per capire Gesù di Nazareth in relazione a questo problema bisogni collocarlo nella prospettiva di Giovanni Battista, sia pure senza sot­ tovalutare le differenze: è il punto di partenza che è lo stesso: !'universali15 Cfr. E. LUPIERI, Giovanni Battista nelle tradizioni sinottiche, Brescia 1988, pp. 78-79. Vedi FLAVIO GIUSEPPE, Ant. Iud. 18,117, ottimamente tradotto e interpretato in E. LUPIERI, Giovanni Battista fra storia e leggenda, Brescia 1988, pp. 121-124.

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Storia del Secondo Tempio tà del peccato con tutti i problemi che comporta. Gesù rifiutò l'isolamento, non stette ad aspettare i peccatori, ma andò a cercarli e non dette alla purità l'importanza che le diede Giovanni; in ogni caso ne reinterpretò i valori (Mc. 7). Gesù non pensò, a differenza di Giovanni, a un Israele che si salvasse perché riuscisse a non peccare, ma a un Israele che si salvasse perché capace di perdonare: «con la stessa misura con cui avrete misurato, sarà misurato anche a voi» (Mc. 4,24: tema particolarmente sviluppato poi in Matteo). Il regno di Dio è un granello di senape e quindi esiste già a partire dalla sua predicazione ed è destinato a svilupparsi sempre di più in maniera inarre­ stabile (Mc. 4,26-29), fino a offrire riparo agli uccelli del cielo (Mc. 4,30-32). Per realizzare questo fine in un mondo dominato dalla tenebra era il rap­ porto stesso dell'uomo con Dio, cioè il Patto, che andava cambiato. Dopo la predicazione il Patto senza clausole sancito col sangue figurato nel vino e concretamente versato per tutti sulla croce 16 •

12.4 Il male come volontà maligna: il diavolo Fino a questo punto ci siamo occupati del male come trasgressione o come res; adesso lo guarderemo sotto un aspetto più inquietante. Abbia­ mo già visto che nel giudaismo antico si sviluppò l'idea che tra il mondo dell'uomo e la sfera del divino ci fosse un mondo di mezzo popolato da an­ geli, capace di influire sulle nostre vicende terrene. Abbiamo già visto che il Libro dei Vigilanti aveva attribuito il male che è sulla terra al fatto che la natura era stata sciupata fin dagli inizi da una ribellione angelica. La spe­ culazione ebraica si soffermò su questa ribellione angelica fino ad arrivare all'idea che essa derivasse da un capo angelo, che diventò il principio del male e che, comunque fosse chiamato, può essere bene da noi definito come diavolo: cioè un essere creato come spirito, dotato di intelligenza, volontà e coscienza, il quale si ribella in un determinato momento all'ordine delle cose voluto da Dio e a Dio stesso. La figura del diavolo nasce nel giudaismo, quando esso stava cercando di organizzare i dati ereditati dalla tradizione in una teologia rigidamen­ te monoteistica; come è noto, prima dell'esilio gli ebrei erano o politeisti o monolatrici. La figura del diavolo si presenta nel giudaismo del Secondo Tempio con due aspetti fondamentali. 1) Il diavolo può essere il principio del ma­ le e ne spiega l'origine, la archè, ma non è attivo. In questo caso il diavolo è solo la causa prima del fatto che la natura è sciupata. 2) Il diavolo può es-

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Cfr. infra, cap. 19.

12. Il predeterminismo e il problema del male sere al contrario concepito come volontà continuamente attiva nella storia, continuamente ribelle a Dio e malefica all'uomo. Vedremo poi come le due concezioni radicali possono di fatto o sommarsi o, in taluni autori, sfumar­ si fino a stabilire un certo rapporto, oserei dire collaborazione, fra Dio e il diavolo. A questa concezione del diavolo contribuì l'esistenza, nota solo a testi canonici1 7, di un angelo di Dio, detto satana. Noi troviamo per la prima volta una figura, che può in qualche modo corrispondere alla definizione di diavolo, che abbiamo dato nel Libro dei Vi­ gilanti (cfr. Parte Il, 6.4). Un gruppo di angeli scese sulla terra per sposare le donne contrariamente al disegno divino, che aveva creato gli angeli come puri spiriti (lH [LV] 15,6). Questi angeli che col loro gesto contaminarono la natura avevano un capo, Asa' el o Semeyaza che fosse. Questo capo può essere il primo abbozzo della figura del diavolo. Dico primo abbozzo, per­ ché il mito insiste sulla corresponsabilità della ribellione, che fu causa della contaminazione della natura. Questo fattaccio avvenne poche generazioni prima del diluvio. Nello stesso libro, in un secondo tempo, come è già sta­ to detto, il peccato angelico fu trasportato fino alle origini del tempo e si parlò del peccato delle sette stelle, cioè degli angeli preposti ai sette pianeti che girano intorno alla terra. La corresponsabilità era ancora più chiara che nel primo mito, perché degli angeli delle sette stelle (cfr. lH [LV] 21 special­ mente v. 3) non è mai indicato nessun capo. Il mito narrava che gli angeli ribelli furono da Dio incatenati nella tene­ bra di un mitico deserto di Dudael. In quanto ai figli nati dalla loro unione con le donne, i nefilim, Dio provvide a farli distruggere fra di loro in lotte fratricide. Purtroppo niente poteva contro le loro anime, che, come si sa, sono immortali. Sparirono i neftlim, ma le loro anime continuavano ancora ad aggirarsi sulla terra, per fare del male agli uomini e istigarli alla ribel­ lione contro Dio. Con questo si spiegava l'origine e la natura degli spiriti maligni, patrimonio comune di tutte le religioni, ma il diavolo restava in ombra: il male degli uomini derivava direttamente solo dalla contamina­ zione della natura e dalla presenza nel mondo, presenza disorganizzata, degli spiriti maligni 1 8 . L'autore di questo testo aveva formulato una complessa filosofia che ave­ va come scopo quello di strutturare in una unità razionale tutti i dati che gli venivano dalla sua tradizione e che la sua esperienza, per certi aspetti, gli confermava. D'altra parte egli cercava cosi di superare alcune aporie che ugualmente gli venivano dalla sua tradizione. Secondo il testo del cap. 1 della Genesi, che penso composto nell'ambiente sacerdotale di Ezechiele (ca 17 Fa eccezione l'apocrifo LP, il quale menziona tutta una schiera di angeli «satani», che hanno il compito di riferire a Dio le colpe degli uomini (lH [LP] 40,7). 18 Oltre agli spiriti maligni che si aggiravano sulla terra, come gli shedim, i se 'irim e Lilit, il demonio femminile della notte, gli ebrei conoscevano anche mostri cosmici come Yam, Leviatan e Beemot.

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Storia del Secondo Tempio VI sec. a.C.), Dio creò la Luce il primo giorno per contrapporla alla Tenebra, già esistente. In questo modo si salvava la bontà di Dio, ma c'era qualcosa che restava fuori della creazione. Un altro profeta, il Secondo Isaia (fine VI sec. a.C.), aveva rimediato, dicendo che Dio era creatore sia della Luce sia della Tenebra (Is. 45,7). In questo modo si salvava l'unità di tutta la crea­ zione, ma si apriva il problema del Dio che aveva creato anche la Tenebra, un principio indeterminato di male. Con la soluzione dell'autore del Libro dei Vigilanti la creazione era stata tutta buona e il male, anche nei suoi aspetti più concreti, veniva fatto risa­ lire non alla natura creata, ma alla natura sciupata da un peccato angelico. In questo modo, naturalmente, l'impurità assumeva connotati decisamente negativi, perché conseguenza del peccato di esseri liberi. L'autore del Libro dei Vigilanti si allineava così a quella tradizione che aveva sempre concepi­ to l'impurità come male: il serpente che aveva tentato Eva fu condannato a strisciare, cioè era un animale a quattro zampe che fu condannato a dive­ nire serpente e quindi massimamente impuro. Si opponeva alla tradizio­ ne sacerdotale che aveva affermato polemicamente che anche i rettili era­ no stati creati così da Dio e che Dio, dopo averli creati, vide che il tutto era buono (Gen. 1,24). Un altro problema era costituito dalla credenza antichissima che esistes­ sero spiriti maligni. Sembrano, come gli dèi, fuori dell'ambito di YHWH; ma si trattava di una concezione che male si adattava al monoteismo assoluto. Ezechiele e la tradizione sacerdotale furono veramente imbarazzati davanti a questo problema: lo risolsero proibendo il commercio con questi spiriti. Lo stregone era punibile 19; l'esistenza degli spiriti maligni era, con questa soluzione, confermata. L'autore del Libro dei Vigilanti trovò così una soluzione anche per questo problema. Gli spiriti maligni erano le anime dei nefilim: Dio non c'entrava nella loro creazione. Il pensiero del nostro autore è rivolto alla ricerca della archè, del princi­ pio passato capace di spiegare la realtà presente. Anche il diavolo rientra in questo schema generale del suo pensiero. In un certo senso, il suo diavolo è per l'uomo del suo tempo una realtà lontana, oserei dire metafisica, un po' come l'acqua di Talete. In effetti il diavolo non agisce più nella storia, per­ ché sta rinchiuso nella Tenebra infernale, punito e legato da Dio per sempre. Restano nella storia le conseguenze della sua azione: l'impurità e gli spiriti maligni. Quindi il reale è tutto creato, ma il male non risale in alcun modo a Dio. Inoltre la soluzione del peccato delle sette stelle presentava anche il vantaggio di legare il problema del male alla scienza di allora, l'astrologia: si spiegava perfettamente anche l'esistenza di influssi maligni provenienti 19 Cfr. Lev. 19,26b: «Non fate gli indovini, non praticate la magia»; 19,31: «Non rivol­ getevi a coloro che evocano le larve dei morti, né agli indovini, per non contrarre impu­ rità a causa di loro». Cfr. anche Lev. 20,6.

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12. Il predeterminismo e il problema del male dagli astri, che male si conciliava con la bontà della creazione. Erano astri portati da angeli ribelli fuori dall'orbita voluta da Dio. Abbiamo notato che nel primo enochismo il diavolo non è attivo; è un principio di male, ma sulla terra agisce solo quella massa di sbandati che sono gli spiriti maligni, esseri di natura inferiore a quella degli angeli (sono figli degli angeli e delle donne), in ogni caso esorcizzabili. La situazione cambiò intorno al 160 a.C. col Libro dei Sogni. Esso cono­ sceva il racconto della caduta degli angeli, ma per spiegare le sventure di Israele nel II sec. a.C. questo non sembrava più sufficiente; gli angeli caduti erano una archè lontana nel tempo e gli spiriti maligni dovevano sembra­ re troppo deboli. Inoltre l'Israele dell'esilio aveva interpretato la sua storia come scandita dalle punizioni di Dio per il popolo infedele; in quest' epo­ ca Israele, o almeno molti ebrei non si sentivano più iniqui e in ogni caso molto meno iniqui dei popoli circonvicini: c'era una sventura storica e po­ litica da spiegare, che sembrava risalire solo a qualcosa di superiore, non alle colpe di Israele20 • Viene così introdotta una nuova ribellione angelica detta dei «settanta angeli pastori». Erano settanta angeli, ai quali Dio aveva affidato il compi­ to di custodire e punire Israele dopo l'esilio (lH [LS] 89,59 ss.); ma essi ave­ vano abusato del loro potere, per fare strazio di Israele. Dietro la sventura si intuisce in maniera sempre più chiara la presenza di una volontà poten­ tissima e nemica. Non sono gli sbandati spiriti maligni ad assalire Israele, è qualcosa di molto più potente. I tempi sono maturi per sviluppare e orga­ nizzare il pensiero sul grande nemico. Lo stesso Libro dei Sogni racconta in termini simbolici il mito della caduta degli angeli, ma dice che ci fu un angelo che venne sulla terra prima degli altri angeli: la prima ribellione fu pertanto un fatto solitario: la figura del diavolo comincia a delinearsi. Ma di questo angelo caduto sulla terra per primo non si dice altro se non che viveva in mezzo agli uomini. Il discorso, che l'autore del Libro dei Sogni fa sulle origini del genere uma­ no, è così diverso da quello che conosciamo dalla tradizione del libro della Genesi, che stentiamo a capirlo, perché il nostro autore usa un linguaggio me­ taforico, che è chiaro solo quando allude a cose che conosciamo per altra via. 20 Se la tradizione ebraica fino al Secondo Isaia è concorde nel considerare Israele col­ pevole e quindi l'esilio una punizione (vedi il cap. 20 di Ezechiele e tutta la concezione storiografica di Rl), la tradizione successiva tende a vedere Israele come ingiustamen­ te perseguitato (dr. Gioele 4,19, dove Giuda è indicato come «sangue innocente», cioè fatto ingiustamente vittima di violenza; dr. G. GARBINI, Ideologia e storiografia nell'Israele antico, Brescia 1986, p. 158). Questa persecuzione può essere fatta risalire al mistero del­ la volontà divina e Israele fatto coincidere col Servo sofferente (vedi l'antica glossa del testo ebraico che aggiunge la parola «Israele» a «Servo» in Is. 49,3). Vedi anche il Salmo 44, certamente post-esilico e molto probabilmente tardo. Ancora il 4E, dopo la distru­ zione del Tempio e la rovina del 70 d.C., non esce da questo schema: Israele è più giusto di Babilonia; tuttavia Dio ha sopportato coloro che peccano, ha risparmiato i malvagi e ha distrutto il suo popolo (4E 3,28 ss.).

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Storia del Secondo Tempio In una prima visione (lH [LS] 85) l'autore presenta Adamo ed Eva che escono dalla terra, seguiti immediatamente da due figli, Caino e Abele. Adamo è presentato come un giusto. Per l'Eden, quindi, non c'è spazio in questa esposizione. Il diavolo appare solo in una seconda visione (lH [LS] 86), o in una seconda fase della prima: l'incipit è comunque ben mar­ cato. Il diavolo si mescola ai figli di Adamo che sono diventati numero­ si e vive in mezzo a loro, anche se non è detto sotto quali sembianze. Fu, dunque, sulla terra insieme a Caino e ad Abele. Si può pensare che nella tragedia di Abele c'entri l'opera del diavolo, ma non è detto nel testo in maniera esplicita21 • L'autore ripete poi sostanzialmente il mito della caduta quale ci è noto dal Libro dei Vigilanti, compreso il fatto che il diavolo fu messo nella prigio­ ne cosmica insieme con gli angeli caduti. La sua dottrina non sembra molto diversa su questo punto, anche se è difficile pronunciarsi chiaramente, per­ ché l'autore si appoggia su miti delle origini, che non coincidono con quelli che noi conosciamo. In ogni caso il suo diavolo resta un diavolo inattivo. Una netta evoluzione nel pensiero riguardante il diavolo appare nel li­ bro dei Giubilei. L'autore ripete il mito della caduta degli angeli avvenuta al tempo di Yared, ma non menziona l'esistenza di un capo. Il diavolo inattivo del primo enochismo non lo interessa. L'autore del libro dei Giubilei sottoli­ nea la contaminazione della natura provocata dal peccato angelico. Narra come gli angeli caduti furono imprigionati, come furono uccisi i nefilim «e [scii. le loro anime] legati nella profondità della terra» (Giub. 5,6). La natura fu rinnovata (Giub. 5,11). Quindi gli spiriti maligni scomparvero dalla terra. La nuova creazione fu messa nelle mani della nuova umanità che era usci­ ta dal diluvio (Giub. 5,14). Però dopo il diluvio le anime dei nefilim torna­ rono all'opera, come spiriti maligni, per turbare gli uomini (Giub. 10,1). Fin qui niente o ben poco di nuovo rispetto al pensiero del primo enochismo. Ed ecco il nuovo: Noè vede che l'opera dei nefilim può costituire un pe­ ricolo mortale per la sua stirpe e chiede a Dio di tenerli chiusi «nel luogo della condanna infernale» (Giub. 10,5). Dio dette in effetti ordine agli angeli fedeli di legare tutti gli spiriti maligni (Giub. 10,7). Ma a questo punto arriva alla corte celeste «Mastema, messaggero degli spiriti», e rivolge a nome di qualcun altro una strana preghiera a Dio: «Signore e creatore, lascia qual­ cuno di loro innanzi a me e facciano quel che io dirò loro, perché, se di loro non mi resta nessuno, io non posso applicare la potenza della mia volontà nei figli dell'uomo» (Giub. 10,8). Allora Dio decise di rinchiudere nell'infer­ no i nove decimi degli spiriti maligni e di lasciarne un decimo agli ordini 21 Poiché nel LS manca il mito dell'Eden, il diavolo non può essere in alcun modo identificato col serpente. Egli scende sulla terra e si mescola agli uomini; ma Caino, es­ sendo nato come vitello nero, cioè, in questo contesto, violento e malvagio, sembra co­ sl per sua natura fin dalla nascita. Il rapporto fra il peccato di Caino e il diavolo non è pertanto chiaro.

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12. Il p redeterminismo e il problema del male del personaggio, di cui Mastema è messaggero e il cui nome appare nel te­ sto poco dopo: Satana. Il diavolo da principio metafisico del male è diventato il capo di una spe­ cie di regno, parallelo e opposto a quello di Dio, al quale Dio stesso assegna come sudditi le anime dei nefilim, cioè gli spiriti maligni. Il regno del male è unificato e reso contemporaneo all'uomo. L'uomo non è più circondato da bande di spiriti maligni, ciascuno autonomo, ma è circondato da qualcosa di organizzato: un regno, che si oppone a Dio, pur dipendendo in qualche modo da lui, se il diavolo è ridotto a chiedergli che non tutti i demòni siano rinchiusi sotterra: sembra che anche a Dio stia a cuore che il diavolo possa avere un certo potere. In effetti, questo mito sembra porre il problema del rapporto fra Dio e il male, un rapporto che in qualche modo viene ipotiz­ zato, come nella più antica tradizione ebraica, quando non si esitava a dire che certi mali venivano da Dio22 . In effetti nel libro dei Giubilei Mastema viene impiegato da Dio contro gli uomini, per esempio, contro gli egiziani: è una specie di cane rabbioso. Mastema, dopo aver colpito duramente gli egiziani, colpirebbe anche gli ebrei scampati alla schiavitù d'Egitto, se non accorressero gli angeli della corte celeste a legarlo, per evitare il massacro. Qui siamo nel grottesco, ma il problema soggiacente è ben chiaro: è il rapporto fra Dio e il male, che il primo enochismo aveva risolto separando nettamente i due termini, ter­ mini che ora tendono a confondersi. Abbiamo così incontrato per la prima volta il nome di Satana quale nome del diavolo, a capo del regno del male. Il nome di «satana» deriva da ambienti che sul problema del male avevano adottato soluzioni meno drastiche di quelle della prima apocalittica. Il sa­ tana (con la esse minuscola) era un angelo della corte celeste, che aveva il compito di riferire a Dio sulle colpe degli uomini. «Satana» significa nemi­ co, con valore molto forte. Come termine tecnico, è probabile che indicasse l'accusatore nel processo. Quest'angelo satana compare per la prima volta in Zac. 3,2; dunque verso la fine del VI sec. a.C., all'inizio del periodo persiano. È l'angelo che accusa davanti a Dio il sommo sacerdote Giosuè. Dal racconto emerge che il satana ha un compito preciso, ma che lo esegue con spirito di iniziativa personale, per cui si scontra con l'opera di altri angeli: nei limiti delle sue attribuzioni, è libero. Questa autonomia operativa appare ancora meglio nel libro di Giobbe: egli discute con Dio sul problema della giustizia. È lui che propone di met­ tere alla prova Giobbe. Nei limiti dell'autorizzazione ricevuta, è lui che de­ cide come colpire Giobbe. Pur essendo un angelo di Dio, lo si vede agire con una discreta libertà di iniziativa e questa sempre sfavorevole all'uomo.

22

Cfr. Am. 3,6.

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Storia del Secondo Tempio Verso la fine dell'epoca persiana la sua figura appare ancora una volta in I Cr. 21,1, dove ormai il suo nome diventa nome proprio. Ha perso l'arti­ colo e da «il satana» diventa «Satana», con la lettera maiuscola. Il confronto fra il testo delle Cronache e la sua fonte, che ci è restata nei libri di Samuele (II Sam. 24,1), permette di capire quali problemi spinsero alcuni ebrei a ser­ virsi della sua figura. Nel testo più antico, quello della fonte si legge: «L'ira di Dio arse di nuovo contro Israele ... » in un contesto, dove non appare la motivazione dell'ira. Evidentemente l'idea di un Dio che si adira senza un motivo preciso e mette in cuore a qualcuno (in questo caso a David) idee peccaminose doveva ripugnare alla sensibilità religiosa del IV sec. e il te­ sto nella penna del Cronista diventa così: «Satana stette contro Israele ...». Senza il confronto con la fonte, il testo delle Cronache sembrerebbe par­ lare proprio del diavolo; messo a confronto con la fonte, si capisce che era solo un modo per esprimere un'idea imbarazzante: quella di un Dio che può volere il male di qualcuno, come nella tradizione più antica. In ogni caso, in questo libro Satana è una figura ambigua, perché non si capisce bene quale sia la sua libertà d'azione all'interno della corte celeste e fino a che punto possa nuocere all'uomo. In questo modo il satana e il diavolo (Asa'el o Se­ meyaza23) vanno stranamente avvicinandosi fra di loro, finché nel libro dei Giubilei, come abbiamo già visto, Satana diventa, con ogni certezza, il nome del diavolo vero e proprio, quello che non appartiene più alla corte di Dio, ma è a capo di un suo regno. Ciò che colpisce è che nulla si dice della sua natura, della sua storia. Non è un angelo caduto. Come vedremo in seguito, in un altro testo, quello del Libro delle Parabole, Satana appare ingiudicato e ingiudicabile. Agli inizi del II sec. a.C., quando l'autore del Libro dei Sogni sviluppava le sue idee sul diavolo, doveva essere luogo comune attribuirgli le cattive inclinazioni dell'uomo. Ne fornisce la prova il Siracide che polemizzava: «Quando l'empio maledice il satana24 non fa che maledire se stesso». Per il Siracide, dunque, il diavolo non esiste: Satana è solo una metafora per in­ dicare i nostri istinti peggiori (21,27). La concezione essenica del diavolo fu coerente con l'impostazione gene­ rale del pensiero. Se Dio è onnipotente, tanto che nella sua onnipotenza ha previsto e predeterminato perfino tutte le parole che usciranno dalla bocca

Cfr. supra, p. 333. la presenza dell'articolo davanti al nome, non è chiaro come il Siracide con­ cepisse il satana. Era un angelo di Dio oppure un ribelle? Il problema è aperto, un po' come nel libro delle Cronache. In ogni caso era un istigatore al male e più vicino a Sata­ na che al satana. Ma è problema di scarso peso, perché il Siracide non crede all'esistenza di questo S / satana. Il testo greco (l'ebraico è qui mancante) potrebbe di per sé indica­ re anche un "avversario" umano; forse l'ambiguità è intenzionale. Cfr. G. BoccACCINI, 23

24 Data

When Does Ben Sira Belong? The Canon, Literary Genre, Intellectual Movement and Socia[ Group of a Zadokite Document, in: G. XERAvrrs, J. ZsENGÉLLER, Studies in the Book of Ben Si­ ra, Leiden-Boston 2008, pp. 36-37.

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12. Il predeterminismo e il problema del male dell'uomo (lQH 9 [1],29), non può non avere determinato anche le vicende angeliche. Dio creò fin dall'inizio due spiriti, due esseri angelici, e uno po­ se a capo della Luce e l'altro a capo della Tenebra (lQS 3,17 ss.), l'uno per amarlo e l'altro per odiarlo (lQS 3,26 ss.). Questo principe della Tenebra è ancora una nuova interpretazione del diavolo; in questo caso, però, creato tale da Dio con poteri su tutti coloro, spiriti e uomini, che vengono asse­ gnati da Dio al suo partito. Con il libro della Sapienza (fine del I sec. a.C.) il diavolo torna a essere solo la archè del male e in particolare della morte. Ma questo diavolo è di­ verso da quello del primo enochismo. La sua figura non coincide con quella del capo angelo caduto, ma per la prima volta con quella del serpente ge­ nesiaco, anche se il serpente non è mai esplicitamente nominato. Tuttavia l'affermazione che Dio non ha creato la morte (1,14) e che essa è entrata nel mondo invocata e cercata dagli empi (1,16) e per invidia del 6uxj3oJ..oç (2,24) non può spiegarsi che pensando a un riferimento al racconto dell'Eden. Que­ sta figura non appare più nel libro della Sapienza e il tema dell'invidia del diavolo è qui appena accennato. Il libro della Sapienza non sembra stabilire alcun rapporto esplicito tra il peccato dell'uomo e della donna narrato in Gen. 3 e l'ingresso nel mondo della morte (cfr. Sap. 10,1). La morte appare legata piuttosto al peccato personale: ne fanno infatti esperienza coloro che appartengono al partito di lei (cfr. 1,16)25 • Il problema del peccato di Adamo, che tanta importanza avrà nel pensie­ ro di Paolo, compare in ogni caso per la prima volta nel pensiero giudaico proprio in Sap. 10,126, sia pure in maniera non esplicita perché Adamo non è menzionato. Ma proprio l'introduzione del peccato di Adamo riduce l'im­ portanza del diavolo come tentatore. Il peccato deriva dai «ragionamenti distorti» che fa l'anima umana e che portano l'uomo lontano da Dio (1,3). Nei Testamenti dei Dodici Patriarchi il diavolo si presenta come attività ma­ lefica, specialmente se letti nella loro redazione del I sec. a.C. Nel TestRuben 2,2 leggiamo che il diavolo pone nell'uomo, al momento della nascita, set­ te spiriti, che sono le radici «delle opere di gioventù. Quando un'anima è continuamente turbata, il Signore si allontana da lei e la signoreggia il dia­ volo» (TestDan 4,7). Il diavolo qui vive vicinissimo all'uomo; è ormai den­ tro di lui. È il diavolo che ha immesso nell'uomo ogni istinto cattivo, è lui stesso che entrerà nell'uomo, che ha perso l'equilibrio interiore, la serenità. In quest'opera precedenti ambiguità circa il rapporto fra Dio e il tenta­ tore sono risolte: il confine tra bene e male è netto. Il diavolo è totalmente estraneo a Dio; è volontà a lui nemica. «Bisogna attaccarsi alla volontà di 25 Cfr. MAzzlNGHI, Weisheit, Kohlhammer 2018, pp. 98-100. 26 Nel Siracide il peccato non è di Adamo, ma, almeno nella forma del suo discorso, di Eva (25,24); il testo è tuttavia discusso ma una allusione a Gen. 3,6 sembra innegabi­ le: cfr. M. GILBERT, Ben Sira reader of Gen 1-11, in: Io., Ben Sira. Receuil d'études - Collected Essays, BEThL 264, Leuven 2014, p. 302.

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Storia del Secondo Tempio Dio e respingere quella di Belial» (TestNeft 3,1). «Dio sta nella Luce, Belial sta nella Tenebra» (TestGius 20,2). I due regni hanno sedi ben separate e, più che distinte, contrapposte; i due regni estendono il loro dominio e la loro lotta anche all'interno dell'uomo. Nel Libro delle Parabole la concezione del diavolo è estremamente com­ plessa e probabilmente non unitaria, perché talora dipende troppo stretta­ mente da altre fonti. Mi limito qui a esaminare un solo passo certamente di pugno dell'autore. Nel capitolo 54 egli narra di aver visto in visione le cate­ ne preparate per Azazel27, il capo degli angeli caduti. Dunque, per il nostro autore il capo degli angeli caduti non è stato ancora legato: non è più un diavolo inattivo, ma è un diavolo ancora operante, ancora a capo della sua schiera che lo seguirà nella dannazione eterna. Non ci sono più gli spiriti maligni distinti dagli angeli caduti: i demòni sono tutti dello stesso rango, sono solo angeli decaduti. La potenza del diavolo è aumentata. Ciò che ci colpisce è il modo in cui l'autore indica la colpa di tutti questi: essa consiste nell'essere stati servitori di Satana e avere indotto gli uomini al peccato (lH [LP] 54,6). Quindi Azazel peccò in quanto si mise al servizio di Satana, che dunque, preesisteva. Ancora una volta, come nel libro dei Giubilei, niente si dice della sua origine. Ma mentre si parla in due passi della punizione futura, ma certa, di Aza­ zel, in nessuno si parla di un Giudizio su Satana. È difficile che sia un'omis­ sione (vedi cap. 54 e 55,4). Chi è questo Satana ingiudicato e ingiudicabile, seguire il quale è causa della rovina sia per gli angeli sia per gli uomini? Del diavolo si parla di nuovo nel cap. 69, ma questo è un passo non scrit­ to di getto dall'autore. È interessante comunque che l'origine del diavolo, però con un nome che non si trova altrove in questa letteratura, Yequn, venga rimandata indietro nel tempo, a prima della creazione dell'uomo. Il tentatore di Eva non fu il primo peccatore, ma il terzo e si chiamava Gadri­ ele. Ormai il serpente dell'Eden è chiaramente interpretato come figura del diavolo o di un diavolo. Se ripensiamo ai testi che siamo venuti scorrendo fino a questo momento, vediamo spuntare qua e là un problema, in particolare nel libro dei Giubilei, che rapporto ci sia fra Dio e il diavolo. Abbiamo già visto che nel libro dei Giubilei della metà del II sec. a.C. Dio aveva mostrato interesse a che Satana potesse fare la sua opera. Dunque, l'opera del diavolo poteva rientrare in qualche modo nei piani stessi di Dio; fra i due ci doveva essere una qualche collaborazione e non solo perché Dio ne sopportava l'azione e l'esistenza. Questa concezione del diavolo è sviluppata in un'opera databile alla me­ tà del I secolo, il Testamento di Giobbe. Qui il diavolo, chiamato proprio così o anche Satana, appare antagonista più dell'uomo che di Dio. Egli è «colui che inganna la natura umana» (3,3), nel senso che «tenta di ingannare». In 27 Azazel è lo stesso che Asael

del LV nel testo aramaico. Nei testi greco ed etiopico vi appare sempre come Azazel. Del LP non ci è restato nessun frammento in lingua originale.

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12. Il predeterminismo e il problema del male quanto tentatore, la sua iniziativa è libera e trova un ostacolo solo nella co­ scienza dell'uomo; ma se Satana vuole assalire qualcuno materialmente, si trova nella necessità di chiedere l'autorizzazione di Dio (cap. 8) e ne divie­ ne in qualche modo strumento e collaboratore, un po' come il satana del libro canonico di Giobbe. L'antico ebraismo, quello pre-esilico, ma ancora il Secondo Isaia (Is. 45,7) non aveva esitato ad attribuire ogni sventura a Dio; ora si preferisce la for­ mula «iniziativa diabolica e autorizzazione divina»: le due figure, quella di Dio e quella del diavolo, si avvicinano stranamente; il diavolo deve col­ loquiare con Dio, se vuole realizzare certe sue iniziative. Non per nulla la virtù principale dell'uomo è, secondo l'autore, la pazienza. Il Siracide, che non credeva nel diavolo (vedi supra, p. 338), diceva che solo chi è provato da Dio può essere considerato veramente giusto: «l'oro si prova col fuoco e gli uomini cari a Dio con l'umiliazione» (Sir. 2,5). Per il Siracide l'uomo poteva essere messo alla prova da Dio, senza bisogno di servirsi di Satana, o addirittura, come nel caso del Testamento di Giobbe, della sua iniziativa. Il diavolo appare anche negli scritti neotestamentari in vesti diverse, dal tentatore di Gesù stesso fino al leone ruggente che si aggira intorno a noi di Pietro (I Pie. 5,8) e al primo peccatore di Giovanni (I Giov. 3,8), causa del­ lo spaventoso dramma cosmico, che ancora ci investe. Inoltre nel Nuovo Testamento, per l'esattezza in Paolo, si può trovare il peccato di Adamo in luogo di quello di Satana, ma con le stesse funzioni. Negli scritti giudaici della fine del I secolo diavolo e demòni scompaio­ no improvvisamente. Ne abbiamo tre di vastissimo respiro, l'Apocalisse si­ riaca di Baruc, il Quarto Libro di Ezra e Enoc slavo (recensione B, la più anti­ ca, anteriore al 70 d.C.). In nessuno di questi si parla del diavolo, anche se è ricordata la storia della caduta, ma nell'Apocalisse siriaca di Baruc è detta conseguenza del cattivo esempio di Adamo (quindi il peccato di Adamo coinvolge gli angeli, non il contrario!) e nell'Enoc slavo gli angeli apostati stanno silenziosi nel secondo cielo, privi di ogni potere in attesa del giudi­ zio, che sembra non ancora definitivo. Nell'Apocalisse siriaca di Baruc e nel Quarto Libro di Ezra il peccato di Adamo, come in Paolo, sostituisce a tutti gli effetti il peccato di Satana. Ma l'eclissi del diavolo durerà poco: la stessa riscrittura di Enoc slavo, av­ venuta qualche secolo dopo darà ampio spazio alla speculazione su Satana.

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13 La salvezza

13.1 Osservazioni generali Per l'ebraismo la salvezza riguardava soltanto questa terra. Durante il giudaismo antico l'enochico Libro dei Vigilanti allargò il destino dell'uomo oltre la tomba. La sua anima sarebbe stata giudicata da Dio e, a seconda del Giudizio, sarebbe potuta vivere eternamente presso di lui (prima delinea­ zione del Paradiso), o destinata a restare lontana da lui (prima delineazione dell'Inferno; lH [LV] 22,13). A parte il Libro dei Vigilanti e i problemi suscitati da Giobbe e da Qohelet, il giudaismo aveva sempre visto la giustizia, cioè il «fare la Legge», come unica via di salvezza per l'uorri.o. E salvezza deve essere intesa nel senso di «salvezza su questa terra». Al tempo di Qohelet (seconda metà del rn sec. a.C.) le idee che parlavano della possibilità di sopravvivere in qualche mo­ do alla morte dovevano già circolare abbondantemente in Israele, se egli le respinse fermamente (Qo. 3,18-20). Nel secolo successivo, almeno in alcuni ambienti, si affermò una fede di tal fatta, non solo attraverso l'immortalità dell'anima, ma anche attraverso la risurrezione dei corpi 1 .

Com'è noto la risurrezione è affermata in Daniele (12,2) e in II Mac. (7,9). Nel giudai­ smo di lingua greca sarà Filone ad asserire con chiarezza l'immortalità dell'anima (cfr., ad esempio, Leg. All. I, 108). L' essenismo credeva nell'immortalità dell'anima; per quanto non esistano chiare affermazioni nei testi in questo senso, tuttavia la cosa è certa sia per la testimonianza delle fonti indirette, sia per la probabile interpretazione di alcuni testi. In effetti, l'esseno viveva in qualche modo inserito nel mondo angelico già in questa vita e ciò lo portava a non fermare il suo pensiero sulla morte come sul momento dell'inizio della vita disincarnata dell'anima. Vedi infra, 13.4 La salvezza per l'essenismo, in fine. Cfr. l'ormai ben noto testo di E. PuECH, La croyance des Esséniens en la vie future: immortalité, résurrection, vie éternelle? Histoire d'une croyance dans le judaisme anden, 1-11, Paris 1993. 1

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Storia del Secondo Tempio Questa fede in una vita post mortem è chiaramente affermata per il II sec. a.C. nel Secondo Libro dei Maccabei (7,23), anche se essa vi appare più come un fatto eccezionale per ricompensare coloro che hanno perso la vita per non tradire la Legge, che come ricompensa in genere per il giusto. Tratteremo più ampliamente il tema della risurrezione e quello dell'im­ mortalità dell'anima nel cap. 16. Per ora ci limitiamo a sottolineare che la credenza in una continuazione della vita oltre la morte provoca come un rigonfiamento della concezione stessa della salvezza. Allo stesso modo, la visione del mondo che si andava affermando nel II sec. a.C., fondata sulla concezione della conoscenza come rivelazione o illuminazione e della sto­ ria come campo della manifestazione della volontà ab aeterno di Dio, dove­ va provocare una diversa concezione della salvezza. Questo nuovo modo di intendere la salvezza è particolarmente chiaro nell'essenismo, nelle cui opere è possibile cogliere lo stretto rapporto esistente fra la nuova conce­ zione della salvezza, da una parte, e l'illuminazione, con tutto ciò che essa comporta, dall'altra. Ma prima di parlare del modo con cui l'essenismo concepiva la salvez­ za, è meglio vedere quali mezzi avesse effettivamente l'esseno per salvarsi.

13.2 Salvezza e purificazione Poiché il male è per l'essenismo l'impurità, nel senso vastissimo che eb­ be il termine, è naturale aspettarsi che la via di salvezza dovesse essere per esso prima di tutto una via di purificazione; solo che la purificazione ca­ pace di mondare l'uomo da se stesso, dalla sua natura che è impura, non poteva essere fornita da nessuno dei mezzi di purificazione che fino allo­ ra aveva conosciuto il giudaismo. Nemmeno tutta l'acqua del mare e dei fiumi può purificare l'uomo dalla sua natura. La sola via di purificazione consiste nell'accettare l'insegnamento della setta, separandosi nettamente da tutti gli altri uomini, pagani o giudei che siano (sulla necessità della se­ parazione, cfr. infra, 17.7 Il sacro durante il primo sadocitismo) . Solo in questo modo è possibile togliersi di dosso quell'impurità ontica e connaturata con l'essere umano che impedisce ogni contatto con Dio, ogni preghiera, ogni salvezza. In questo senso la purificazione derivante dall'adesione alla setta è vero atto salvifico. Il passo seguente è tratto da lQS 2,25 - 3,8: Chiunque rifiuti di entrare [nel patto di D]io procedendo nella durezza del suo cuore, non [entrerà nella co]munità della Sua verità, perché ha disprezzato le istruzioni riguardanti la conoscenza dei giusti precetti; non ha avuto la forza di convertire la sua vita; [per questo] non può essere

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13. La salvezza annoverato fra i giusti [ . . . ] non può diventare giusto per lo smarrimento del suo cuore indurito, in quanto guarda la tenebra come vie della luce. Non sarà annoverato nella fonte dei perfetti; non sarà purificato dai ri­ ti espiatori; non sarà reso puro dall'acqua lustrale; non sarà reso santo2 dall'acqua dei mari, né da quella dei fiumi; non diventerà puro nemme­ no con tutte le acque di abluzione. Resterà completamente impuro3 per tutto il tempo che rifiuterà i precetti di Dio, senza lasciarsi istruire nella comunità del suo Consiglio. Infatti è per mezzo dello spirito dell'Assemblea fondata sulla Verità di Dio che sono espiate tutte le azioni4 dell'uomo, tutte le sue colpe [ 'awon], cosicché egli può contemplare la Luce della Vita. Per mezzo dello spiri­ to santo della comunità fondata sulla sua Verità egli è purificato da tut­ te le sue colpe. Solo l'adesione alla setta e alla volontà di Dio che si manifesta attraverso i suoi maestri è capace di purificare l'uomo dalla sua impurità ontica, ma non per questo è scomparsa la sua capacità di peccare. Gli angeli delle Tene­ bre insidiano costantemente i figli della Luce per indurli alla trasgressione. A questo punto non è facile seguire quale fosse con precisione la dottrina della setta, che, dal nostro punto di vista, non appare coerente, ma forse la cosa dipende dal fatto che non sappiamo come vi si classificassero i pecca­ ti. Più probabile ancora è che il concetto di giusto stesse variando in tutto il giudaismo, una volta accettata la verità qoheletiana che non esiste giusto senza peccato (7,20). Da un lato, infatti, vediamo che chiunque pecca, sia contro la Legge, sia contro le norme particolari che reggevano la setta, veniva aspramente pu­ nito e riammesso nella comunità solo dopo aver espiato la pena; dall'altro, certe espressioni lasciano intendere che Dio giustificava gli aderenti alla set­ ta e non solo dal peccato che abbiamo definito ontico, non solo dallo 'awon, ma anche dalla /Jet. Chi peccava era allontanato dalla setta. Ecco alcune norme tratte dalla Regola della Comunità: Chiunque sia entrato nell'Assemblea santa, procede nella via della per­ fezione, secondo quanto è stato ordinato; se trasgredirà una qualunque delle disposizioni della Legge di Mosè, volontariamente o per rilassa-

2 «Reso santo»: traduco cosi l'ebraico ytqds. La radice indica piuttosto la sacertà, ma a Qumran «essere sacri» significa raggiungere quello stato di sacralità, inteso come unione con Dio, che corrisponde più all'italiano «santo» che all'italiano «sacro». 3 Il destino di coloro che non entrano o non riescono a entrare nella comunità è quel­ lo di restare immersi nella loro impurità ontica, cioè nel loro 'awon, nel quale si trovano fin dalla nascita. 4 «azioni [ . . . ] colpe»: il termine ebraico derakim che qui traduco con «azioni» è più generico dell'italiano. Il senso è che la vita dell'uomo è sempre colpevole, qualunque cosa faccia se non aderisce alla comunità e accetta tutte le sue norme.

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Storia del Secondo Tempio tezza, sarà espulso dall'Assemblea della Comunità e non vi tornerà più. Nessun uomo santo abbia alcuna relazione con lui, sia per ciò che riguar­ da il patrimonio, sia per ciò che riguarda il consiglio senza alcuna ecce­ zione; ma se egli ha agito per inavvertenza, deve essere tenuto lontano dalla purità e dall'Assemblea e poi si esaminerà il caso. Egli non potrà giudicare né interrogare nessuno su qualsiasi problema per due anni. Se la sua condotta sarà perfetta [ . . . ], e se non avrà più peccato per inavver­ tenza per due anni [ . . . ]5. Infatti, per una colpa commessa per inavverten­ za, uno deve essere punito con una pena di due anni, ma in quanto a chi ha agito deliberatamente, questi non sarà più riammesso (lQS 8,21 - 9,1). È evidente che si hanno tre possibilità diverse riguardanti la trasgressione di un comandamento della Legge. Si può trasgredire la Legge: 1) volonta­ riamente (beyad ramah, lett. «a mano alzata»); 2) per rilassatezza (remiyyah); 3) per inavvertenza (segagah). Nel primo caso, non c'è remissione possibile: l'uomo è cacciato dalla comunità dei puri e dovrà tornare fra gli altri ebrei, condannato a restare per tutta la vita impuro al pari di essi. Nel terzo caso, l'uomo è sospeso dalle sue funzioni in seno alla comunità, non ha pertanto comunione con essa, ma alla fine di due anni, se potrà dimostrare di non aver più commesso trasgressioni involontarie, sarà riammesso al consiglio. Resta da stabilire che cosa si intendesse per remiyyah. È chiaro che la colpa per re­ miyyah dovrebbe esser meno grave di quella per volontà deliberata, dato il clima discendente del discorso; tuttavia è punita nello stesso modo. Dietro l'espressione indicante il «peccato per rilassatezza» deve vedersi la posizione di coloro che, pur seguendo la Legge di Mosè, tuttavia la seguivano secondo un'interpretazione più lassista, in ogni caso diversa da quella imposta dalla setta. Non è difficile scorgere in questi peccati per remiyyah peccati commes­ si seguendo l'interpretazione della Legge qual era data da altri gruppi e in particolar modo da Gerusalemme; l'allusione agli assidei / farisei sembra evi­ dente. Interpretare la Legge come la interpretavano altri equivaleva all'aper­ ta trasgressione della Legge, tanto che si era cacciati per sempre dalla setta6 . Altre punizioni sempre assai gravi, ma che non comportavano l'espul­ sione definitiva dalla setta, sono indicate in altre parti della stessa Regola della Comunità, anche per colpe volontarie. Si tratta, nell'insieme, di colpe non gravi. A questo punto viene in mente che gli esseni dividessero i peccati in due grandi categorie, quella dei peccati irremissibili e quella dei peccati perdo­ nabili. Ho evitato volutamente due termini sinonimi che, per essere usati dall'insegnamento cristiano, potrebbero lasciar pensare a un influsso diretto dell'essenismo addirittura sulla formazione della dottrina cristiana: peccati 5 Il testo manca della proposizione principale, ma è evidente che il senso della pro­ posizione mancante doveva essere «sarà riammesso nella comunità». 6 Per questa interpretazione della remiyyah, dr. J. CARMIGNAC, Les Textes de Qumran, Paris 1961, p. 35, nota 47.

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13. La salvezza «mortali» e peccati «veniali». Ciò non toglie che fra la posizione essenica e quella cristiana vi sia qualche analogia, specialmente se pensiamo al rigo­ rismo dei cristiani dei primi secoli, che effettivamente escludevano dalla comunione i colpevoli di peccati gravi7 Per gli esseni erano peccati irremissibili le gravi trasgressioni della Leg­ ge, sia commesse con l'intenzione di trasgredirla in quanto tale, sia di tra­ sgredirla seguendo un'interpretazione diversa da quella loro. Erano pec­ cati remissibili quelli commessi in materia meno grave e quelli commessi per inavvertenza. Dietro al problema della remiyyah si apre il problema della posizione dei farisei nella storia della normativa giudaica. Visti attraverso il Vangelo possono sembrare dei rigidi applicatori delle norme della Legge secondo l'interpretazione orale, ma l'appellativo di ipocriti che nel Vangelo stesso ricevono mostra che il loro sforzo di adattare le norme della Legge alla realtà contingente poteva essere interpretato dai loro avversari come rilassatezza. Si pensi, per esempio, allo sforzo farisaico di salva­ re la Legge che voleva l'anno sabbatico, in cui i debiti dovevano essere condonati, e le necessità pratiche dell'economia, avvertite particolarmente dalla classe dirigente di Gerusalemme, per cui l'anno sabbatico col suo stesso avvicinarsi bloccava di fatto il commercio8 • Che la halakah farisaica rappresenti un addolcimento della più antica halakah stabilita dal sacerdozio di Gerusalemme, fu tesi di A. GEIGER (Zaddusiier und Pharisiier, Breslau 1863), che merita di essere ripresa e approfondita. L. Rosso Ubi­ gli9 ha fatto notare il caso delle purificazioni mediante bagno prima del pasto, che sono indicate come normali per gli ebrei pii nel libro di Tobia e in quello di Giuditta, ma che al tempo di Gesù erano ridotte alla semplice lavanda delle mani. Si potreb­ be aggiungere anche il caso di Mattatia che abolisce una delle proibizioni del saba­ to (quella di combattere), che l'essenico Libro dei Giubilei invece riafferma (50,12). Ecco ora alcune leggi che riguardano casi diversi. Esse danno un'idea di come gli esseni giudicassero il comportamento umano in maniera assai differente da noi e mostrano in che cosa effettivamente consistesse il cosid­ detto rigorismo essenico. Riporto il testo della Regola della Comunità da 6, 24 a 7, 2410: Queste sono le norme, con le quali si giudicherà in un procedimento del­ la comunità a seconda dei casi. Se fra di essi si trova qualcuno, che mente riguardo al patrimonio e lo fa coscientemente, questo deve essere escluso per un anno dal cibo puro dei rabbim e per punizione deve essere messo a un quarto del suo pane.

7 Cfr. EC IX, 1104 ss. 8 Per il prozbul, vedi JEREMIAS, Jérusalem, p. 189. Per il korban, dr. Mt. 15,6. 9 Cfr. L. Rosso UBIGLI, Un 'antica variante del libro di Tobit (Tob., VII, 9), RSO 50

(1976), pp. 73-89. 10 Cfr. A. VMAN, Il concetto di Legge nel Rotolo del Tempio (11 QTemple Scroll), RSB 3 (1991), pp. 97-114.

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Storia del Secondo Temp io Colui che risponde a un suo compagno con durezza e gli parla con im­ pazienza, trascurando la parità di rango, o ribellandosi all'autorità di un altro che ha un rango più alto del suo, si [è fat]to giustizia da sé 11 e deve essere punito per u[n) anno [ . . . ]. [Colui c]he giura sul Nome Glorioso 12 al di sopra di tutti i [ . . . ] e se bestemmia, perché preso da improvviso timore sia per una difficoltà sia per qualsiasi altro motivo che gli capiti, mentre sta leggendo il Libro 13 o pronunciando una benedizione, deve essere cacciato e non tornerà più nell'Assemblea della comunità 14 . Se uno ha parlato con ira contro un sacerdote di quelli iscritti nel libro 15, deve essere punito per un anno e deve restare separato dal cibo puro dei rabbim in solitudine. Ma se ha parlato per inavvertenza, egli deve essere punito per solo sei mesi 16 . Colui che mente coscientemente deve essere punito per sei mesi. Colui che offende coscientemente e ingiustamente un compagno deve essere punito per un anno e restare separato. Colui che parla con un suo compagno con arroganza o agisce nei suoi confronti coscientemente con trascuratezza, deve essere punito per sei mesi; ma se è solo trascurato verso il suo compagno, deve essere puni­ to per tre mesi. Se uno si comporta con trascuratezza nei riguardi del patrimonio del­ la comunità cosl da danneggiarlo, deve ripagare i danni col suo lavoro personale. Se poi egli non è in grado di ripagarli, deve essere punito per sessanta giorni. Colui il quale mantiene rancore contro un compagno senza motivo, deve essere punito per sei mesi. Lo stesso per chi si vendica da sé per qualsiasi motivo. Colui il quale fa un discorso sciocco 17: tre mesi. Per colui che interrompe le parole di un compagno 1 8 : dieci giorni. Colui il quale si sdraia e si addormenta durante una seduta dei rabbim: trenta giorni. 11 «Si è fatto giustizia da sé»: cosa proibita. Alla lettera, «la sua mano lo ha salvato». Cfr. DD 9,8-10. 12 Da questo passo, anche se corrotto, si comprende che il giuramento nella comunità di Qumran era proibito: in realtà era ammesso in circostanze particolari. 13 «Leggendo il Libro»: potrebbe essere il libro per eccellenza, la Scrittura. 14 Il Levitico per il bestemmiatore prevedeva la pena capitale. La comunità non co­ nosce questa pena, cosi comune nell'antichità. Mi pare che la cosa si possa spiegare più che con l'orrore per il sangue, col fatto che per la comunità essere fuori da essa equiva­ leva alla morte eterna. 15 «Nel libro»: è il registro dove sta scritto il ruolo di ciascuno. Il sacerdote, che si trovi ancora nella condizione di neofita, non ha diritto al rispetto dovuto ai sacerdoti. 16 In questo caso la punizione riguarda la quantità di cibo, non la comunione della mensa. 17 «Discorso sciocco»: cfr. DD 10,17-18. Nel DD il discorso sciocco profana il sabato e la proibizione è strettamente legata a questo giorno. In lQS la proibizione è generale. Cfr. anche Ef. 5,4. 18 Naturalmente durante una seduta dei rabbim. Vedi 6,10.

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13. La salvezza Lo stesso per chi si allontana durante una seduta dei rabbim senza permesso. Colui che si addormenta 19 fino a tre volte durante una medesima seduta, deve essere punito per dieci giorni; ma se si alza e se ne va, deve essere punito per trenta giorni. Colui il quale si mostra nudo davanti a un suo compagno, senza essere malato, deve essere punito per sei mesi. Colui il quale sputa in mezzo a una riunione dei rabbim, deve essere pu­ nito per trenta giorni. Colui il quale fa uscire la sua mano20 da sotto alla sua veste, o se questa è lacerata in modo da lasciar vedere la sua nudità, deve essere punito per trenta giorni. Colui che ride stupidamente, in modo da essere sentito, deve essere pu­ nito per trenta giorni. Colui il quale tira fuori [dalla veste] la mano sinistra per fare gesti21, de­ ve essere punito per dieci giorni. Colui che sparge calunnie contro un suo compagno, deve stare separato per un anno dal cibo puro dei rabbim e sarà punito; ma se egli sparge le calunnie contro i rabbim [ cioè la totalità dei membri della setta], deve es­ sere espulso da mezzo a loro e non sarà più riammesso. Colui che mormora contro le autorità della comunità deve essere espul­ so e non più riammesso; ma se mormora ingiustamente contro un suo compagno deve solo essere punito per sei mesi. Colui il cui spirito devia dai prindpi della comunità, tradendo la verità22 e procedendo nella durezza del suo cuore, se si pentirà, sarà punito per due anni23 . Durante il primo non deve toccare il cibo puro dei rabbim e nel secondo dovrà soltanto non toccare la bevanda dei rabbim, ma siede19 «Si addormenta»: questo caso è diverso da quello di colui che «si sdraia e si ad­ dormenta» della linea precedente. Sdraiarsi prima di addormentarsi indica volontarie­ tà dell'atto. 20 «Mano»: l'ebraico scrive «mano», ma si tratta di un eufemismo evidente, anche se non appoggiato da esempi biblici. Vedi anche lQS 11,21-22. 21 Questo passo ha sempre fatto difficoltà, perché non è chiaro il senso del verbo syh/ swh. La traduzione che qui do segue l'interpretazione di GARdA MART1NEZ 1996, accolta anche da Martone, che mette in relazione la mano sinistra con la proibizione in vigore presso i terapeuti di comunicare mediante gesti della mano sinistra. Pertanto «fare ge­ sti» va inteso nel senso di «fare gesti significativi», come accennare o salutare. Vedi FILO­ NE, De vita contemplativa, § 76-77: i terapeuti fanno cenni col capo e con la mano destra. 22 Qui si tratta il caso di una vera e propria apostasia. La parola tradotta qui con «principi» è yesod, che indica il fondamento, ciò che regge il tutto. La verità non va inte­ sa riferita solo ai mispatim, alle regole proprie della comunità, ma all'insieme della sua dottrina. A Qumran si formò una mentalità che imponeva non solo norme di compor­ tamento, ma un vero e proprio credo; cfr. lQpHab che in 8,1-2 commentando Ab. 2,4b, scrive: «L'interpretazione di questo passo riguarda tutti coloro che osservano la Legge nella casa di Giuda, che Dio libererà dal giudizio per le loro sofferenze e per la loro fede nel Maestro di Giustizia». La fede nel Maestro di Giustizia è diventata un pilastro per ap­ partenere alla comunità e essere salvi. Per la traduzione di 'emunah con «fede» e non con «fedeltà», vedi P. SACCHI, Giustizia e giustificazione nel mondo giudaico ellenistico, DSBP 28 (2001), pp. 107-127, p. 119 in nota. Comunque è traduzione diffusa, anche se contrastata. 23 Dovrà, cioè, rifare il noviziato. Cfr. 6,16-23.

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Storia del Secondo Tempio rà dietro a tutti i membri della comunità. Quando saranno passati due anni, i rabbim saranno interrogati riguardo a lui. Se lo riammetteranno, sarà iscritto di nuovo nel suo rango e poi si potrà richiedere il suo parere. Se uno è stato nell'Assemblea della comunità per almeno dieci anni, ma poi il suo spirito si ritrae, tradendo la comunità, e abbandona i rabbim procedendo nella durezza del suo cuore, questi non può più essere ri­ ammesso nell'Assemblea della comunità. Come si evince da questa normativa, il colpevole doveva essere allonta­ nato dalla «purità» dei membri innocenti. In altri termini, il problema non era soltanto far scontare al colpevole la pena, ma impedirgli di contamina­ re i «puri», perché il peccatore, vuoi contro la Legge vuoi contro le norme particolari della setta, diveniva impuro nel momento della trasgressione. Lo stato di impurità sembra durare un certo tempo, più o meno lungo a seconda della gravità della colpa commessa; finito il periodo di impurità, il colpevole viene riammesso, a quanto pare, senza bisogno di riti particolari. Un esempio tipico di via di perfezione intesa come via di purità sempre maggiore, cioè di allontanamento da qualunque cosa possa contaminare, è offerto da Giovanni Battista. Lo scopo principale della predicazione di Gio­ vanni, stando a quanto si può ricavare dai vangeli e da Flavio Giuseppe, è quello di spingere Israele alla conversione totale. Il peccato dilaga: bisogna trovare una via per la «remissione dei peccati». Bisogna non peccare più e intanto, fatta penitenza, purificarsi con un battesimo. È chiaro che per Gio­ vanni il peccato produceva un'impurità che doveva essere tolta: il penti­ mento non bastava a togliere quella macchia o qualcosa del genere che il peccato aveva provocato. E quella macchia, se fosse restata, sarebbe stata l'equivalente del peccato. Siamo in uno schema teologico simile a quello documentato a Qumran, che doveva essere diffuso tra gli ebrei del tempo: non c'era solo la /Jet ma anche lo 'awon. Proprio perché il peccato era o generava un'impurità, la purità era vista dal Battista come via maestra verso la perfezione e fu la via nella quale si mise. Evitò i luoghi abitati, evitò di cibarsi di alimenti toccati da mano d'uo­ mo ignota: la sua alimentazione era basata su miele selvatico e su cavallet­ te. Cibarsi di miele selvatico e di cavallette voleva dire evitare quanto più possibile i cibi manipolati da ignoti, che potevano aver toccato gli alimenti in stato di impurità. Allo stesso modo può essere interpretata anche la ve­ ste di pelo di cammello, se è giusta l'osservazione di lbba che il cammello perde il pelo naturalmente. Il cammino di Giovanni verso Dio era una stra­ da fatta di purità assoluta24 •

24 Una difficoltà sorge di fronte al suo abito, che era fatto di peli di cammello, ani­ male impuro (Lev. 11,4). Sul problema e sulla sua soluzione cfr. G. IBBA, fohn the Baptist and the Purity Laws of Leviticus 11-16, "Henoc" 28 (2006), pp. 75-89, speòalmente pp. 8588, con ricca bibliografia.

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13. La salvezza

13.3 Giustificazione e giudizio Uno dei temi più vivi e certamente più produttivi su cui si soffermò la meditazione dell' essenismo è il problema del «giusto», problema da coglier­ si sempre nella prospettiva della salvezza, che resta in tutto il mondo giu­ daico l'idea madre, capace di strutturare intorno a sé tutte le altre. Questa linea essenica di pensiero fu innovativa, ma derivava da una problematica esistente da tempo nel mondo giudaico. Ancora una volta dobbiamo rifarci a Qohelet, col quale il pensiero giudai­ co assoda definitivamente alcuni punti come l'inafferrabilità del concetto di «giusto» e la mancanza, in ogni caso, di un criterio di retribuzione nell'opera di Dio. Dopo di lui Antigono di Soko (prima metà del II sec. a.C.) riprende il problema del «giusto» e della sua retribuzione, per risolverlo ancora una volta in maniera negativa, ma battendo una via originale, perché spiega il motivo per cui non può esistere retribuzione da parte di Dio. Antigono insegnò che, come lo schiavo non deve servire il padrone per amore di ricompensa, quale certi padroni potevano anche concedere agli schiavi, allo stesso l'uomo non ha niente da pretendere da Dio per ciò che ha fatto al suo servizio. Antigono di Soko ricevette l'insegnamento da Simone il Giusto. Soleva dire: «Non siate come gli schiavi che servono il padrone per il pensiero di ricevere una ricompensa [prs ], ma siate come quegli schiavi che ser­ vono il padrone col pensiero di non ricevere prs. Sia in voi il timor di Dio» 25 (Pirqe Abot 1,3). Antigono ha cosi scoperto perché non c'è retribuzione, come invece il buon senso umano vorrebbe che ci fosse. Dio, nella sua giustizia, retribui­ sce, solo che non troverà mai niente da retribuire nell'uomo per il semplice motivo che l'uomo il quale abbia fatto tutto ciò che deve fare, cioè tutto ciò che sta scritto nella Legge, ha appena fatto il suo dovere. Scompare con ciò l'idea antichissima e radicata nell'ebraismo come nel giudaismo che il giu­ sto debba essere ricompensato per la sua giustizia. «Fare la Legge» era per Antigono un dovere che non aveva da essere ri­ compensato, ma le trasgressioni restavano certamente colpe e come tali da punire. Un rapporto col pensiero stoico è evidente.

25 Su questa massima, cfr. E.J. BICKERMAN, The Maxim of Antigonus of Socho, HfR 44 (1951), pp. 153-165. Il testo accettato legge: hyw k'bdym hmsmrym 't hrb 'l mnt sl ' lqbbel prs, e sottolinea nell'ultima parte l'intenzione di non ricevere ricompensa. Il testo tra­ dizionale legge: hyw k'bdym hmsmrym 't hrb sl ' 'l mnt lqbbel prs («Siate come i servi che servono il padrone senza mira di ricompensa»). Cfr. A.I. l