Storia contemporanea. Dal XIX al XXI secolo [2 ed.] 880074642X, 9788800746427

Questo volume, realizzato come uno strumento didattico per gli insegnamenti di Storia contemporanea nei Corsi di laurea

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Storia contemporanea. Dal XIX al XXI secolo [2 ed.]
 880074642X, 9788800746427

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Fulvio Cammarano, Giulia Guazzaloca, Maria Serena Piretti

Storia contemporanea Dal XIX al XXI secolo Secondo edizione

LE M ONNIER UNI VERSI TÀ

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Le Monnier Università M ondadori Education Viale Manfredo Fanti, 51/53 - 50137 Firenze Tel. 055.50.83.223 - Fax 055.50.83.240 www.mondadorieducation.it Mail [email protected] Nell’eventualità che passi antologici, citazioni o illustrazioni di competenza altrui siano riprodotti in questo volume, l’editore è a disposizione degli aventi diritto che non si sono potuti reperire. L’editore porrà inoltre rimedio, in caso di cortese segnalazione, a eventuali non voluti errori e/o omissioni nei riferimenti relativi.

Stampato in Italia - Printed in Italy

Indice Nota Introduzione Percorsi di lettura C a p it o lo 1.

1.1 1.2 1.3 1.4 1.5 1.6 1.7

C a p it o lo 2 .

2.1 2.2 2.3 2.4 2.5 2.6 2.7 2.8 2.9

4.5

Oltre l'Europa

Stati Uniti: come nasce una potenza mondiale L’A m erica Latina nel secolo del liberalismo Giappone: la trasformazione tra progresso e tradizione Cina: la fine di un Impero Africa: le dinamiche della colonizzazione

C a p it o lo 4 .

4.1 4.2 4.3 4.4

Le trasformazioni dell'Europa

L’Inghilterra vittoriana e la trasformazione del sistema politico negli anni di Gladstone e Disraeli La Francia dal Secondo Im pero alla Terza Repubblica La Germ ania: la costruzione dellTmpero e le sue fasi L’Impero asburgico L’Italia: l’unificazione da Cavour alla caduta di Crispi La Spagna: un sistema parlam entare solo apparente La Russia: un sistema autocratico I Paesi scandinavi nell’O ttocento L’Im pero ottom ano

C a p it o lo 3 .

3.1 3.2 3.3 3.4 3.5

Le grandi problematiche dell'Ottocento

L’eredità dell’Uluminismo e della Rivoluzione francese L’Europa dopo Vienna Le Rivoluzioni del 1848 tra Costituzione, diritti e principio di nazionalità Stato e società Le ideologie diventano «partiti» I primi movimenti suffragisti Dalla politica come decisione alla politica come mediazione

Le istanze imperialistiche nella crisi di fine secolo

II difficile passaggio dall’O tto al Novecento: la crisi politica in Europa L a nascita della società di massa e la nazionalizzazione della politica L’Europa tra nazionalismo e imperialismo D al liberalismo classico al new liberalism: i governi inglesi di inizio secolo e l’età giolittiana L a crisi del razionalismo positivista

IX XI X III

1

1 4 6 10 13 18 21 24

24 28 34 40 41 49 52 54 56 58

58 65 68 71 74 79

79 85 88 93 97

C a p it o lo 5 . La Prima Guerra mondiale e lo scontro tra internazionalismo e nazionalismo

100

5.1 5.2 5.3 5.4 5.5

100 105 109 113 118

La sindrome della «guerra in vista» Internazionalism o versus nazionalismo La prim a guerra totale Russia: le due rivoluzioni Versailles e lo scontro tra vecchio e nuovo mondo

VI

Indice

Gli anni tra le due guerre: dalla vittoria delle democrazie alla deriva autoritaria C a p it o lo 6 .

La dissoluzione dell’Im pero ottom ano tra questione armena e modernizzazione turca 6.2 La G erm ania da W eimar a H itler 6.3 L’Italia: dal «biennio rosso» all’avvento del fascismo 6.4 II fascismo al potere 6.5 II nazismo e il progetto politico hitleriano 6.6 Lo stalinismo 6.7 Gli Stati Uniti dalla G rande G uerra al New Deal 6.8 La grande crisi del 1929 in Europa 6.9 Francia e G ran Bretagna: un ventennio dominato dai conservatori .10 La risposta dei Fronti Popolari alle minacce del nazifascismo: il caso della Francia 6.11 La Spagna dalla Seconda Repubblica alla G uerra Civile

122

6.1

C a p it o lo 7.

7.1 7.2 7.3

C a p it o lo 8 .

8.1 8.2 8.3 8.4 8.5 8.6

9.3 9.4 9.5 9.6

Il ritorno delle democrazie in un mondo bipolare

Da alleati a nemici: l’inizio della lunga Guerra Fredda II ruolo degli accordi economici nella strategia della coesistenza internazionale Tra Welfare State e società del benessere La divisione della Germ ania La guerra di Corea Le nuove alleanze: NATO e SEATO contro Patto di Varsavia

C a p it o lo 10.

10.1 10.2

La Seconda Guerramondiale

163 165 1 69

169 172 177 181

L’invasione della Polonia e l’inizio della Seconda G uerra mondiale 181 La svolta del 1941: la guerra ideologica 184 I regimi collaborazionisti e gli sviluppi della guerra 187 La Shoah 190 I movimenti di Resistenza 194 Yalta e Potsdam: la nuova carta dell’Europa 200

C a p it o lo 9 .

9.1 9.2

Politiche estere a confronto negli anni tra le due guerre

La questione irlandese: un problema irrisolto II fallimento del «sistema Versailles» A ddom esticare Hitler: la politica dell’appeasement

122 125 130 137 144 148 152 157 159

Nuove egemonie e potenze emergenti

Gli Stati Uniti di Trum an e di Eisenhower Repubblica federale e Repubblica democratica: la G erm ania divisa 10.3 La Spagna franchista 10.4 II consolidamento della Jugoslavia di Tito 10.5 Cina comunista e Cina nazionalista 10.6 II Giappone: il nuovo baluardo dell’Occidente in Asia 10.7 La fondazione dello Stato d’Israele e l’origine della crisi mediorientale 10.8 La difficile decolonizzazione: tra modello inglese, francese e portoghese 10.9 Unione Indiana e Pakistan: la difficile indipendenza dell’India 10.10 I Paesi non allineati fra terzomondismo e sottosviluppo

204

204 208 210 213 216 219 224

224 227 230 234 237 240 243 247 253 255

Indice

Capitolo 11. Il 1 9 5 6 11.1 II XX Congresso del PCUS: prove di disgelo 11.2 Speranze di libertà: Polonia e Ungheria 11.3 D all’affermazione dello Stato nasseriano alla crisi di Suez 11.4 II Concilio Vaticano II come momento di svolta C a p it o lo 12.

12.1 12.2 12.3 12.4 12.5 12.6

Lo scontro Est-Ovest e la sua ricaduta nelle politiche nazionali

La Francia dalla Q uarta alla Q uinta Repubblica: l’affermazione del gollismo L’Italia dal referendum istituzionale al centro-sinistra L a G ran Bretagna: dai laburisti ai conservatori e ritorno L’A m erica Latina: dai populismi ai regimi militari Gli Stati Uniti e la crisi del consenso liberale: da Kennedy a Johnson Alle origini dell’Unione europea

Capitolo 13. I nuovi conflitti 13.1 II Vietnam 13.2 II conflitto israelo-palestinese 13.3 Lo scenario africano: il Corno d’A frica e l’A frica australe C a p it o lo 14. G li

14.1 14.2 14.3 14.4 14.5 14.6 14.7

anni Settanta come svolta

II 1968: la rivolta di una generazione II «nuovo femminismo» e l’affermazione dei diritti delle donne L a crisi petrolifera e il crollo del sistema di B retton Woods Le difficoltà statunitensi e l’avvio della distensione L’Italia negli «anni di piombo» Dalla crisi dei modelli di welfare al neoliberismo di M argaret Thatcher e Ronald Reagan Le «tigri asiatiche»

259 259 261 263 266 270

270 274 283 286 291 295 299 299 304 307 3 11

311 316 319 321 324 329 333

Capitolo 15. La crisi delle dittature 15.1 Spagna, Portogallo e G recia verso la democrazia 15.2 L’URSS e i Paesi del Patto di Varsavia: una convivenza difficile 15.3 II 1979 in M edio Oriente: A fghanistan, Iran e Iraq 15.4 La politica riform atrice di Gorbacev e la dissoluzione dell’URSS 15.5 La caduta del M uro di Berlino 15.6 Piazza Tiananmen: il vento della libertà non soffia in Cina 15.7 I partiti comunisti dei Paesi occidentali di fronte al crollo del «mito» sovietico 15.8 L’Unione europea guarda ad Est: gli allargamenti

336 336 340 343 348 353 359

Capitolo 16. Unilateralismoecrisi 16.1 II sistema politico italiano tra proporzionale e maggioritario 16.2 La divisione della Jugoslavia: il problema dei micro-nazionalismi 16.3 L a fine delì’apartheid in Sudafrica e il genocidio in Rwanda 16.4 Nazionalisti e unionisti: il Nord Irlanda a un punto di svolta 16.5 II «pantano» m ediorientale

369 369 374 378 381 382

Capitolo 17. Il XXI secolo 17.1 L’avvio del nuovo secolo nel segno della crisi 17.2 L’11 settembre e i nuovi equilibri internazionali

388 388 392

361 364

VII

Vili

Indice

17.3 17.4 17.5 17.6 17.7 17.8 17.9

Gli Stati U niti da George W. Bush jr. a Barack Obama Le potenze emergenti La Russia di Putin L’Europa, un continente «vecchio» in difficoltà La grave turbolenza del Medio Oriente II dram m a delle primavere arabe L’A frica subsahariana: conflitti, crescita economica e processi di democratizzazione 17.10 I flussi migratori 17.11 La politica italiana tra continuità e rotture

397 401 405 409 412 415

Il mondo 1915-2015 Bibliografia Indice dei nomi Indice delle cartine

435 447 453 461

Questo volume è arricchito da materiali digitali integrativi disponibili Online aH’indirizzo www.mondadorieducation.it/Canali/Universita

421 424 428

Nota Questo libro è il frutto della riflessione e dell’assidua collaborazione dei tre autori. Nello specifico, tuttavia, la stesura dei vari paragrafi è stata così ripartita: Fulvio Cammarano: parr. 5,7 del cap. 1; parr. 1, 3,5 del cap. 2; parr. 3, 5 del cap. 3; parr. 1,4 del cap. 4; parr. 1, 5 del cap. 5; parr. 8, 9,10 del cap. 6; par. 3 del cap. 7; parr. 1,2 cap. 8; parr. 2, 6 del cap. 9; parr. 1, 5, 6,10 del cap. 10; par. 2 del cap. 11; parr. 3, 5 del cap. 12; par. 3 del cap. 13; parr. 3,4, 6 del cap. 14; parr. 3, 5 del cap. 15; par. 2 del cap. 16; parr. 1 ,3 ,5 del cap. 17. Giulia Guazzaloca: parr. 1, 2, 4 del cap. 1; parr. 4, 8, 9 del cap. 2; parr. 1, 2 del cap. 3; parr. 3, 5 del cap. 4; par. 3 del cap. 5; parr. 1, 5, 7 del cap. 6; par. 1 del cap. 7; parr. 3,4, 5 del cap. 8; par. 3 del cap. 9; parr. 4, 8 ,9 del cap. 10; par. 3 del cap. 11; parr. 1,4, 6 del cap. 12; par. 2 del cap. 13; parr. 1,2 del cap. 14; parr. 1,6, 8 del cap. 15; parr. 3, 4 del cap. 16; parr. 2,4, 6,10 del cap. 17. Maria Serena Piretti: parr. 3, 6 del cap. 1; parr. 2, 6, 7 del cap. 2; par. 4 del cap. 3; par. 2 del cap. 4; parr. 2 ,4 del cap. 5; parr. 2 ,3 ,4 ,6 ,1 1 del cap. 6; par. 2 del cap. 7; par. 6 del cap. 8; parr. 1 ,4 ,5 del cap. 9; parr. 2 ,3 ,7 del cap. 10; par. 1,4 del cap. 11; par. 2 del cap. 12; par. 1 del cap. 13; par. 5, 7 del cap. 14; parr. 2, 4 ,7 del cap. 15; parr. 1, 5 del cap. 16; parr. 7, 8, 9,11 del cap. 17. Le voci del glossario allegato a questo volume, disponibile all’indirizzo w w w .m ondadorieducation.it/Canali/U niversita, sono state così composte: le voci dalla A alla G da M aria Serena Piretti; le voci dalla H alla O da Giulia Guazzaloca; le voci dalla P alla Z da Fulvio Cammarano. Nel testo, il simbolo (—>-) rim anda a una voce di glossario. Tale simbolo compare solo alla prim a occorrenza del nome. In successive ricorrenze dello stesso nome, esso non compare.

Introduzione La comprensione degli avvenimenti storici che hanno attraversato il X IX e X X secolo richiede una particolare attenzione verso le relazioni tra soggetti politici e sociali, tra individui e istituzioni, tra Stati e organi­ smi internazionali. Le stesse vicende nazionali, che pure rimangono il filo conduttore della Storia contemporanea, e la logica che le muove ap­ paiono più comprensibili alla luce di una più vasta interazione tra prota­ gonisti individuali e collettivi. Partendo dalla esperienza di docenti di Storia contemporanea, abbiamo cercato di conciliare l’esigenza di con­ tenere le nozioni e l’elencazione dei fatti con quella di fornire un quadro il più esaustivo possibile dei tanti fili che uniscono il passato al presente. Abbiamo quindi cercato di dare conto della dimensione politico-istitu­ zionale delle trasformazioni avvenute durante il X I X e X X secolo senza tralasciare quella economico-sociale, di inquadrare le singole storie na­ zionali nelle dinamiche dell’evoluzione dei rapporti internazionali, di collocare, già a partire dalla storia ottocentesca, il «sistema-Europa» nel contesto più ampio del «sistema-mondo». Consapevoli dell’impossibilità di fare a meno, nel nostro contesto culturale, della prospettiva della centralità dell’Occidente, siamo stati at­ tenti a dare conto di soggetti e vicende tradizionalmente ritenute «eccen­ triche», o comunque meno presenti, nello studio manualistico della Sto­ ria contemporanea. Anche lo spazio riservato alla storia italiana è mino­ re rispetto allo spazio che le viene tradizionalmente riservato negli altri manuali; questo non perché non la ritenessimo utile, ma perché credia­ mo che chi studia oggi la Storia contemporanea debba potersi dotare di una più adeguata strumentazione per comprendere meglio dimensioni e proporzioni delle vicende politiche e sociali che hanno attraversato il pianeta negli ultimi due secoli. Questo manuale ha pertanto l’ambizione di offrire uno «sguardo ampio» sulla storia dei secoli X IX e XX, sia dal punto di vista geopolitico sia da quel­ lo tematico, avendo sempre presente il «peso» relativo dei singoli fenomeni o soggetti nei vari periodi trattati. Consapevoli, naturalmente, che la necessità di concentrare due secoli di storia mondiale in poche centinaia di pagine porta a ridurre drasticamente la narrazione di eventi e personaggi anche importanti, abbiamo ritenuto utile fornire un «supplemento» d’informazione sui soggetti citati nel testo. Per questo è stato affiancato al testo un supporto in formato elettronico. A ll’indirizzo www.mondadorieducation.it/Canali/Universita il lettore troverà un ampio glossario nel quale si dà brevemente conto delle bio­ grafie di tutti i personaggi menzionati, si illustra il significato di termini, istitu­ zioni e sigle utilizzati e, infine, si ricostruiscono la storia e l’operato di quei gruppi e movimenti politici solo accennati nel testo. Bologna, febbraio 2015 Fulvio Cammarano, Giulia Guazzaloca, Maria Serena Piretti

Percorsi di lettura

Qui di seguito riportiamo le indicazioni (paragrafi e relative pagine) che consentono di seguire un percorso di lettura all’interno del testo per alcune tematiche particolarmente significative. Sistema politico italiano par. 2.5 (p. 41); parr. 4.1,4.4 (p. 79, p. 93); parr. 6.3-Ó.4 (p. 130, p. 137); par. 12.2 (p. 274); par. 15.7 (p. 361); par. 16.1 (p. 369); par. 17.11 (p. 428) Sistema politico francese par. 2.2 (p. 28); par. 4.1 (p. 79); parr. 6.9-6.10 (p. 159, p. 163); par. 12.1 (p. 270) Sistema politico britannico par. 2.1 (p. 24); parr. 4.1, 4.4 (p. 79, p. 93); par. 6.9 (p. 159); par. 12.3 (p. 283); par. 14.6 (p. 329) Sistema politico tedesco par. 2.3 (p. 34); par. 4.1 (p. 79); parr. 6.2, 6.5 (p. 125, p. 144); par. 9.4 (p. 213); par. 10.2 (p. 227); par. 15.5 (p. 353) Sistema politico spagnolo par. 2.6 (p. 49); par. 6.11 (p. 165); par. 10.3 (p. 230); par. 15.1 (p. 336) Sistema politico russo/sovietico par. 2.7 (p. 52); par. 4.1 (p. 79); par. 5.4 (p. 113); par. 6.6 (p. 148); parr. 11.1-11.2 (p. 259, p. 261); parr. 15.2, 15.4, 15.7 (p. 340, p. 348, p. 361); par. 17.5 (p. 405) Sistema politico statunitense par. 3.1 (p. 58); par. 6.7 (p. 152); par. 10.1 (p. 224); par. 12.5 (p. 291); parr. 14.4,14.6 (p. 321, p. 329); parr. 17.2,17.3 (p. 392, p. 397) Sistema politico latinoamericano par. 3.2 (p. 65); par. 12.4 (p. 286); par. 17.4 (p. 401) Sistema politico giapponese par. 3.3 (p. 68); par. 10.6 (p. 240) Sistema politico cinese par. 3.4 (p. 71); par. 10.5 (p. 237); par. 15.6 (p. 359); par. 17.4 (p. 401)

XiV

Percorsi di lettura

Sistema politico dell’Impero ottomano par. 2.9 (p. 56); par. 6.1 (p. 122) Questione irlandese e Irlanda par. 7.1 (p. 169); par. 16.4 (p. 381) Dalla Jugoslavia alla balcanizzazione della regione par. 10.4 (p. 234); par. 16.2 (p. 374) La politica internazionale dall’Ottocento al Novecento par. 1.2 (p. 4); par. 5.5 (p. 118); parr. 1.2-13 (p. 172, p. 177); par. 8.6 (p. 200); parr. 9.1-9.2, 9.5-9.6 (p. 204, p. 208. p. 216, p. 219); par. 13.1 (p. 299); par. 14.4 (p. 321); parr. 17.2,17.4,17.5 (p. 392, p. 401. p. 405) Le guerre mondiali parr. 5.1, 5.3 (p. 100, p. 109); parr. 8.1-8.6 (p. 181, p. 200) Le trasformazioni della società parr. 1.4-1.5 (p. 10, p. 13); par. 4.2 (p. 85); par. 9.3 (p. 210); par. 11.4 (p. 266); par. 14.1 (p. 311); parr. 17.1,17.10 (p. 388, p. 424) L’emancipazione femminile par. 1.6 (p. 18); par. 14.2 (p. 316) Tra imperialismo, decolonizzazione e conseguenze della decoloniz­ zazione par. 3.5 (p. 74); par. 4.3 (p. 88); parr. 10.8-10.10 (p. 247, p. 255); par. 11.3 (p. 263); par. 13.3 (p. 307); par. 16.3 (p. 378); parr. 17.9,17.10 (p. 421, p. 424) Lo scenario mediorientale par. 10.7 (p. 243); par. 13.2 (p. 304); par. 14.3 (p. 319); par. 15.3 (p. 343); par. 16.5 (p. 382); parr. 17.7 e 17.8 (p. 412, p. 415) L’Europa come soggetto politico par. 12.6 (p. 295); par. 15.8 (p. 364); par. 17.6 (p. 409) I modelli di sviluppo economico condizionano gli scenari politici? parr. 9.2-9.3 (p. 208, p. 210); par. 14.3 (p. 319); par. 17.9 (p. 421) Il terzomondismo si vedano i temi della decolonizzazione

Capitolo 1

Le grandi problematiche dell'Ottocento

1.1 L'eredità dell'Illuminismo e della Rivoluzione francese 1.2 L'Europa dopo Vienna 1.3 Le Rivoluzioni del 1848 tra Costituzione, diritti e principio di nazionalità 1.4 Stato e società 1.5 Le ideologie diventano «partiti» 1.6 I primi movimenti suffragisti 1.7 Dalla politica come decisione alla politica come mediazione

1.1 L'eredità dell'Illuminismo e della Rivoluzione francese Il Settecento fu un secolo contrassegnato da un grande fermento in­ tellettuale che si espresse in una nuova visione del mondo, in un’entu­ siastica fiducia nella ragione e nell’idea di progresso. Le élite intellet­ tuali ed economiche si fecero sempre più consapevoli della contraddi­ zione esistente tra le nuove occasioni di sviluppo offerte dalle innovazioni in campo scientifico ed economico e l’immobilismo delle classi privilegiate, clero e nobiltà, saldamente arroccate nella difesa dell’assolutismo politico (—>) e di una concezione del potere come emanazione della volontà divina. Il nuovo, grande movimento culturale affermatosi nel corso del seco­ lo fu Fllluminismo che, pur avendo radici in Gran Bretagna, ebbe largo seguito in Francia e da qui si diffuse in tutta Europa. Nella smisurata fi­ ducia nella ragione risiedeva la grande responsabilità degli intellettuali - dei philosophes, come si facevano chiamare - nei confronti dell’intera popolazione; furono infatti loro a diffondere le nuove verità frutto del metodo critico e della sperimentazione razionale in modo che uscissero dal ristretto circuito delle élite colte. La circolazione del sapere, di cui fu massima espressione l’Encyclopédie (—>), divenne un obiettivo priori­ tario dei filosofi illuministi, affinché le idee potessero tradursi in co­ scienza critica capace di redimere la popolazione dalla miseria, dallo sfruttamento e dall’ignoranza. Animatrice di questo movimento culturale fu, assieme ad una parte dell’aristocrazia, soprattutto la borghesia, in piena ascesa all’interno di una società, come quella francese e inglese, che stava conoscendo una fase di grande espansione economica e demografica. Per la borghesia, dotata di mentalità utilitaristica e di spiccato senso pratico, Fllluminismo rappresentò il mezzo fondamentale con cui smantellare quell’A ncien Régime (—>-) che nella monarchia di diritto divino e nei dogmi del-

Fermento intellettuale e sodale

Il movimento culturale illuminista

Ascesa della borghesia

Storia contemporanea

Voltaire Pensiero politico illuminista

Montesquieu

Rousseau

Pensiero economico illuminista

Smith

la Chiesa aveva i propri fondamenti. A distinguersi, in particolare, nella battaglia contro il potere clericale, l’Inquisizione, la tortura e tutto il re­ taggio culturale del Medioevo fu Francois-Marie Arouet, più noto col nome di Voltaire (-»-), assertore di un razionalismo epurato da tutte le credenze d’indole oscurantista predicate dalle istituzioni ecclesiastiche. L’affermazione degli ideali illuministici di tolleranza e di libertà di pensiero si tradusse sul piano politico nella lotta decisa al dispotismo delle classi privilegiate e a favore di una società cosmopolita composta da «cittadini del mondo» dove tutti erano ugualmente degni di rispetto e in grado di arrivare al pieno esercizio della ragione e della conoscenza critica. Sul piano politico, sebbene le proposte degli illuministi fossero molte e differenziate, di particolare rilievo soprattutto per gli sviluppi futuri dei sistemi politici fu il contributo del barone di Montesquieu (—>) che, tenendo presente il sistema sorto in Inghilterra già a partire dalla fine del XVII secolo, sostenne la necessità della separazione dei poteri al fine di sconfiggere qualunque forma di tirannia. A un Parlamento rappresentativo doveva essere demandata la costruzione delle leggi, al re e ai suoi ministri il potere di darvi esecuzione e di governare, a una magistratura indipendente il potere di garantire una giusta applicazione delle leggi. Montesquieu era pertanto favorevole a una monarchia costi­ tuzionale nella quale, cioè, il potere del sovrano fosse moderato da leggi fondamentali statuite e dalla presenza di corpi politici intermedi. Assai più vicino a un liberalismo di matrice democratica si dimostrò il pensiero di Jean-Jacques Rousseau (—►). Egli, infatti, si fece propu­ gnatore di un modello di democrazia diretta che affondava le proprie ra­ dici nell’idea che tutti gli uomini fossero uguali per natura e quindi tutti egualmente titolari del diritto alla vita, ai beni materiali, alla libera dif­ fusione delle proprie idee. Diritti che il monarca, per primo, avrebbe do­ vuto rispettare. Per Rousseau, poi, il detentore della sovranità non era il re per diritto divino, ma il popolo nel suo complesso che, attraverso un vero e proprio «contratto», aveva rinunciato alla libertà illimitata di cui godeva originariamente nello stato di natura. Ne derivava quel concetto di «volontà generale» che, superando gli egoismi personali e particolari, fu all’origine delle teorie sulla sovranità popolare; per Rousseau, infatti, la «volontà generale» presupponeva il continuo intervento e controllo dei cittadini nella gestione dello Stato, il potere di revoca dei governanti e di ribellione a ogni tentativo di tirannide. Il pensiero illuminista mostrò una maggiore unità di vedute nelle ri­ flessioni sull’economia, anche grazie alla grande influenza esercitata dalle teorie di Adam Smith (—►). Questi, ribaltando le conclusioni della scuola mercantilista per la quale il fine ultimo della produzione doveva essere quello di rafforzare la prosperità dello Stato e del sovrano, soste­ neva che l’economia fosse destinata principalmente alla sussistenza e al­ lo sviluppo della popolazione. Uno sviluppo generalizzato che sarebbe scaturito dal perseguimento, da parte di ciascun individuo, del proprio interesse personale. Per Smith, in sostanza, la ricerca della felicità e l’egoismo individuale si sarebbero tradotti nella prosperità per tutti. Al potere politico, dunque, spettava solo il compito di agevolare l’espansio­ ne della produzione, eliminando i monopoli, gli ordinamenti corporativi

Le grandi problematiche dell'Ottocento

e tutti gli ostacoli che si potevano frapporre alla libera iniziativa indivi­ duale. Il lavoro come fonte di ricchezza e il principio della libera concor­ renza in campo economico furono i capisaldi del pensiero di Smith che influenzarono rilluminismo francese ma anche, nel lungo periodo, le economie inglese e americana. La diffusione degli ideali delFUluminismo si combinò nel corso del Settecento con la cosiddetta Rivoluzione industriale (—>), specie in Gran Bretagna che, come vedremo, conobbe una prima fase di indu­ strializzazione e modernizzazione economica già a metà del XVIII se­ colo. Espressione di questo nascente capitalismo fu proprio la borghe­ sia, protagonista della storia politica ed economica dell’Europa e degli Stati Uniti lungo tutto l’Ottocento. Priva di titoli nobiliari, ma dotata di spirito imprenditoriale e soprattutto decisa a combinare il proprio pote­ re economico con un eguale potere politico, essa determinò grandi mu­ tamenti in campo economico, politico e culturale. Fu soprattutto la bor­ ghesia, infatti, a far circolare i saperi e le idee delFIlluminismo e a dar vita a quelle prime forme di «opinione pubblica» (—»•) che, emancipata dal controllo dello Stato e della Chiesa, rivendicava il diritto legittimo di occuparsi delle questioni politiche. Tanto gli ideali illuministici di libertà ed uguaglianza, quanto il pro­ tagonismo della nascente borghesia industriale furono i tratti caratteriz­ zanti delle due grandi Rivoluzioni che, nella seconda metà del Settecen­ to, sconvolsero il panorama europeo e nordamericano. La Rivoluzione americana del 1776, condotta dalle 13 colonie inglesi della costa atlanti­ ca del Nord America contro la madrepatria, non solo portò all’indipen­ denza delle colonie e alla nascita degli Stati Uniti d’America (1783), ma espresse, attraverso la Dichiarazione d ’indipendenza (~^>~), tutti i prin­ cipi della filosofia illuminista. Rivendicando l’uguaglianza di tutti gli uomini, il diritto alla rappresentanza politica e i diritti fondamentali ed inalienabili della vita, della libertà e della ricerca della felicità, la D i­ chiarazione d ’indipendenza creò un nuovo modello politico e statuale, dimostrò che gli ideali dellTlluminismo non erano solo utopie, accelerò la crisi già in atto nell’assolutismo monarchico francese e al contempo stimolò le ambizioni indipendentiste delle colonie spagnole e portoghesi dell’America Latina. La ribellione della borghesia francese contro Luigi XVI (—►) e la sua monarchia assoluta si manifestò con l’attacco, il 14 luglio del 1789, alla Bastiglia, la prigione-fortezza parigina simbolo a un tempo del po­ tere e della repressione. Era l’inizio di una nuova Rivoluzione la cui eco avrebbe continuato a farsi sentire nei secoli successivi. La Rivoluzione francese infatti non solo affermò, con la Dichiarazione dei diritti dell’uo­ mo e del cittadino (-+ ), i principi di libertà e la sovranità popolare qua­ li fondamenti del potere politico, ma innescò una serie di eventi e feno­ meni che, come vedremo, neppure la successiva ferma volontà di restau­ razione dei sovrani potè fermare. Distintosi come ufficiale di artiglieria nel corso della Rivoluzione francese, durante la quale assunse prima la guida dell’esercito interno, poi quella delle truppe della campagna d’Italia, Napoleone Bonaparte (—►), fra il 1796 e il primo decennio del XIX secolo, conquistò con il suo

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Libera iniziativa e libera concorrenza

La Rivoluzione industriale

Ruolo della borghesia

Rivoluzione americana e nascita degli Stati Uniti

Dichiarazione d'indipendenza

Rivoluzione francese

Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino

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Ascesa di Napoleone

Diffusione degli ideali illuministi in Europa

Storia contemporanea

esercito gran parte del continente europeo e, forte di questi successi, ri­ uscì a consolidare in Francia una dittatura personale. Proclamatosi console a vita nel 1802, due anni dopo si incoronò a Parigi imperatore dei francesi. Le sue guerre di conquista in Europa finirono inevitabil­ mente per diffondere al di fuori della Francia le idee di libertà ed egua­ glianza postulate dalla Rivoluzione del 1789. Inoltre, le sue campagne militari favorirono il sorgere e il radicarsi delle identità nazionali presso quei popoli che subirono l’invasione delle truppe francesi. Il senso di umiliazione e rivalsa che scaturiva nei popoli sconfitti dagli eserciti na­ poleonici rafforzò ovunque quel pathos nazionale e patriottico che, già frutto degli ideali della Rivoluzione francese, sarebbe stato determi­ nante nella formazione dell’idea moderna di «nazione» condivisa dall’intera collettività. La sconfitta di Napoleone nel 1815, se da un lato chiuse la lunga fase di turbolenze aperta dalla Rivoluzione francese, non potè d’altra parte sopire del tutto le speranze e le rivendicazioni della nascente borghesia europea. 1.2 L'Europa dopo Vienna

Il Congresso di Vienna

Metternich

Il nuovo eguilibrio tra le potenze europee

Il Congresso convocato a Vienna nell’autunno del 1814, e conclusosi nel giugno 1815 dopo la definitiva sconfitta di Napoleone, aveva richia­ mato nella capitale dell’Impero asburgico tutte le grandi potenze euro­ pee con l’obiettivo di tracciare un nuovo ordine geopolitico dell’Europa dopo gli sconvolgimenti seguiti alla Rivoluzione francese e alle guerre napoleoniche. Basandosi sui principi di legittimità dinastica e di equili­ brio tra le potenze, gli statisti riunitisi a Vienna stabilirono innanzi tutto di riportare sui troni europei i sovrani, riconosciuti tali per diritto divi­ no, che erano stati spazzati via dalle conquiste napoleoniche. Al tempo stesso intesero costruire un sistema di relazioni internazionali bilancia­ to all’interno del quale non potesse emergere una potenza in grado di imporsi sulle altre. I veri protagonisti del Congresso di Vienna furono Gran Bretagna e Russia, anche se un ruolo significativo fu svolto dal mi­ nistro degli Esteri austriaco K.W. Lothar von Metternich (—>*). Dalla risistemazione dell’Europa fissata a Vienna la Russia ottenne la Finlandia, la Bessarabia e una parte della Polonia, incrementando quindi il suo territorio verso Occidente; le fu negato, invece, il passaggio dello stretto dei Dardanelli che le avrebbe consentito l’accesso ai mari caldi. L’Impero asburgico estese i suoi domini sul territorio della peni­ sola italiana, vedendosi riconosciuto, oltre al possesso della Lombardia, anche il Veneto. Soddisfatta del nuovo equilibrio che si stava delineandc al Congresso, la Gran Bretagna non accampò richieste territoriali sul continente e si limitò a garantirsi una posizione strategica sui mari ac­ quisendo l’isola di Malta, il cui possesso, aggiungendosi al controllo che già vantava su Gibilterra, le permetteva di consolidare una posizione egemonica nel Mediterraneo. Successivamente, nel settembre del 1815, lo zar Alessandro I (—>■’ propose alle altre potenze europee di stringere un’alleanza a cui fu date l’appellativo di «Santa» per i richiami ai testi delle Sacre Scritture e pe]

Le grandi problematiche dell'Ottocento

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l’atto di sottomissione che si tributava al potere divino. Accolsero l’invi­ La Santa Alleanza: to e sottoscrissero il patto il re di Prussia e l’imperatore d’Austria, men­ Russia, Prussia tre rifiutò la Gran Bretagna che lo riteneva un accordo poco efficace sul e Austria piano internazionale e soprattutto lontano dall’ordine costituzionale su cui si reggeva il sistema politico britannico. Di fatto la Santa Alleanza non produsse risultati concreti ed efficaci, ma servì a Metternich per ga­ rantire la conservazione del nuovo equilibrio raggiunto a Vienna di fronte ai moti nazionali di impronta indipendentista che già tra gli anni Venti e Trenta dell’Ottocento si riaffacciarono sul continente europeo. Ben più efficace si dimostrò, invece, la Quadruplice Alleanza firmata nel novembre del 1815, su proposta del ministro degli Esteri britannico Robert Stewart Castlereagh (—►), dai re di Prussia e Gran Bretagna, Castlereagh dall’imperatore d’Austria e dallo stesso zar di Russia. Nel disegno di Ca­ e la Quadruplice stlereagh, la nuova alleanza doveva servire ad imporre, per il futuro, la Alleanza diplomazia come unico mezzo di risoluzione delle contese tra gli Stati. Al termine del Congresso di Vienna, quindi, la cartina geopolitica La Restaurazione dell’«Europa restaurata» rimandava a un’immagine per molti aspetti si­ e la nuova carta mile a quella che il continente aveva avuto prima della Rivoluzione fran­ geopolitica europea cese. In Spagna ritornava sul trono il re Ferdinando VII di Borbone (—►) che pose immediatamente fine alle garanzie costituzionali intro­ dotte dalla Costituzione di Cadice nel 1812. La Prussia aveva esteso i suoi territori verso ovest, incorporando la Sassonia, le città di Colonia e Treviri e il bacino della Ruhr, ma non le fu consentito di porsi come gui­ da di un processo di unificazione nazionale dei popoli di lingua tedesca. I territori dell’Europa centrale, compresi parte di quelli prussiani ed au­ striaci, vennero infatti uniti nella Confederazione germanica, che risul­ tava formata di 39 Stati di lingua tedesca. La Confederazione fu posta sotto la presidenza dell’imperatore d’Austria e venne dotata di un im­ pianto istituzionale la cui Dieta (—>-) aveva sede a Francoforte. Anche nella penisola italiana furono reintrodotti i sovrani deposti Penisola italiana dalle trasformazioni seguite all’arrivo delle truppe napoleoniche: Ferdi­ nando III di Asburgo-Lorena (—»-) tornava a reggere il granducato di Toscana; il ducato di Parma e Piacenza veniva assegnato a Maria Luisa d’Austria (—>) e quello di Modena e Reggio a Francesco IV di Asburgo; (—»-) il Regno di Napoli, ribattezzato nel 1816 Regno delle Due Sicilie, ritornava alla dinastia dei Borbone. Anche lo Stato pontificio rientrava in possesso di tutti i suoi vecchi territori, compresi quelli dell’area emi­ liano-romagnola che gli erano stati sottratti da Napoleone. Al Regno di Sardegna, guidato dalla dinastia dei Savoia, fu assegnata la Liguria, anch’essa soggetta alla dominazione francese durante l’età napoleonica. La Francia, che pure era stata il Paese da cui era partita la scintilla La Francia e Talleyrand rivoluzionaria, benché penalizzata nei suoi possessi territoriali, fu ugualmente ammessa a Vienna e in quella sede il suo rappresentante, Charles Maurice de Talleyrand (—►), ottenne che le fossero garantiti i suoi confini originari e che il trono andasse al fratello del sovrano ghi­ gliottinato durante la Rivoluzione. Luigi XVIII di Borbone (—>-), ri­ prendendo possesso del trono francese, scelse di seguire una linea mo­ derata e, come primo atto, concesse una Costituzione (—>■), a riprova che il ritorno all’assolutismo di Ancien Régime non era più possibile. In

Storia contemporanea

capo ad alcuni decenni, però, si sarebbe dimostrata del tutto illusoria la convinzione che la sola restaurazione delle antiche case regnanti bastas­ se a ripristinare completamente la situazione geopolitica precedente la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche. Gli eventi degli anni Trenta e soprattutto la nuova ondata rivoluzionaria del 1848 avrebbero, di lì a breve, sgretolato gran parte del sistema europeo uscito dalla me­ diazione realizzatasi a Vienna nel 1814-15. 1.3 Le Rivoluzioni del 1848 tra Costituzione, diritti e principio di nazionalità I moti del 1848-49

La «Primavera dei popoli»

Crisi economica e sociale

Insurrezione di Parigi

Seconda Repubblica francese

Nel biennio 1848-49 l’Europa continentale fu attraversata da impo­ nenti moti che segnarono la crisi definitiva dell’assetto politico-istituzio­ nale definito dal Congresso di Vienna. Ai principi della Restaurazione si contrappose, infatti, la volontà della borghesia di avere un ruolo poli­ tico attivo nella sfera del governo e dunque di sostituire il principio asso­ lutistico dell’origine divina dell’autorità con quello liberale del merito e della responsabilità. In molti casi, poi, i moti del 1848 ebbero anche ori­ gine dall’affermarsi del principio di nazionalità, così come era emerso della Rivoluzione francese, ispiratore di lì a poco di una nuova legitti­ mazione del potere politico e delle relazioni internazionali. L’ondata rivoluzionaria non ebbe comunque le medesime caratteri­ stiche in tutto il vecchio continente. Mentre in Francia essa si alimentò di contrasti di classe e fu animata da ideali democratici, nei territori au­ striaci e nella penisola italiana prevalsero le lotte per l’indipendenza, l’unità nazionale e l’istituzione di regimi liberali e costituzionali. La co­ siddetta «Primavera dei popoli» non toccò, invece, Gran Bretagna e Russia, per motivi molto diversi tra loro; mentre i governi inglesi aveva­ no già da tempo imboccato la strada del costituzionalismo e delle rifor­ me di stampo liberale, in Russia l’autocratico regime zarista, che aveva represso nel sangue la rivolta decabrista (—>■) del 1825, fu ben attento a non lasciare attecchire altri movimenti ispirati al liberalismo. Nell’Europa continentale il progressivo allargarsi dei moti venne fa­ vorito anche da una grave crisi economica iniziata nel 1846, che aveva causato ovunque un profondo malessere sociale. Allo spettro della re­ cessione economica seguì quello della crisi finanziaria, che colpì soprat­ tutto i Paesi in via di industrializzazione, come la Francia, dove oltretut­ to cominciavano a trovare ampi consensi tra gli operai le rivendicazioni ispirate all’ideologia socialista. Proprio la diffidenza nutrita dalla mo­ narchia di Luigi Filippo d’Orléans (—>-) e dai suoi ministri nei confronti delle richieste di democratici e radicali, che pure incontravano un largo consenso popolare, fece da detonatore all’insurrezione parigina del 22 febbraio 1848. Di fronte al divieto, posto dal governo, di tenere riunioni pubbliche, i cosiddetti «banchetti», per chiedere l’ampliamento del suf­ fragio elettorale, i parigini insorsero costringendo il re alla fuga. Procla­ mata la Repubblica, la Seconda dopo quella del 1792, fu creato un go­ verno provvisorio nel quale entrarono rappresentanti di tutti gli schieramenti: liberali moderati, repubblicani e il socialista Louis Blanc (-»-).

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Importanti riforme furono varate dal nuovo esecutivo: libertà di stampa e di associazione, imposta progressiva sul reddito, riduzione della gior­ nata lavorativa. Louis Blanc, in linea con quanto aveva teorizzato qual­ che anno prima nel suo VOrganisation du travati, proclamò il diritto al lavoro e tentò di realizzare un programma a favore dei disoccupati, che prevedeva l’istituzione di «opifici nazionali» (ateliers nationaux) desti­ nati a realizzare un vasto piano di opere pubbliche. Proprio tale iniziati­ va fu alla base di un’inversione di tendenza del clima rivoluzionario; i salari pagati dagli opifici provocarono, infatti, un aumento del debito pubblico e quindi delle imposte. Il provvedimento di Blanc, non gradito alla parte moderata del governo, paladina di un liberismo (—*-) econo­ mico che non contemplava gli interventi statali in economia, incontrò anche l’ostilità di ampi settori della società: contadini, artigiani, botte­ gai, piccoli proprietari e professionisti. Le elezioni dell’Assemblea Costituente, svoltesi il 23 aprile 1848, de­ cretarono perciò la vittoria schiacciante dei moderati, sostenuti da un elettorato rurale tradizionalmente conservatore. Di fronte a un risultato tanto sconfortante (su 900 deputati solo un centinaio erano socialisti o democratico-radicali), la sinistra (->-), ormai esclusa dal nuovo esecuti­ vo, abbandonò la via legalitaria per tentare di nuovo quella insurrezio­ nale. Ma la Guardia nazionale, sotto il comando del generale Louis-Eugène Cavaignac (—>■), ministro della Guerra, represse duramente la ri­ volta ed ebbe la meglio sugli insorti in pochi giorni. La Seconda Repubblica si presentava dunque con un profilo sempre più diffidente nei confronti della democrazia assembleare. Prova ne fu la nuova Costi­ tuzione che, pur prevedendo l’elezione a suffragio universale maschile dell’Assemblea nazionale e un sistema monocamerale, concedeva al presidente, eletto direttamente dai cittadini, poteri molto ampi, tra cui la titolarità del governo. Il 10 dicembre 1848 fu eletto alla più alta carica dello Stato, con ben 6,5 milioni di consensi su 7 milioni di aventi diritto al voto, Luigi Napoleone Bonaparte (—►), nipote di Napoleone I; un successo spiegabile in parte con l’esigenza di stabilità e ordine, ma so­ prattutto col grande prestigio popolare dei Bonaparte. Se in Francia il 1848 sfociò, di fatto, in uno scontro tra moderati e forze democratiche e socialiste, nei territori tedeschi e nell’Impero as­ burgico, dove era assente il motivo del contrasto di classe, a rendere an­ cor più problematici i conflitti fra le forze rivoluzionarie si aggiunse la questione nazionale. L’eco dei fatti parigini si diffuse rapidamente nel cuore dell’Europa infiammando città come Berlino, Vienna, Budapest e Praga. Il 13 marzo, una rivolta scoppiata a Vienna costrinse l’impera­ tore Ferdinando I d’Austria (—>) ,a convocare un’Assemblea Costituen­ te e ad allontanare dalla corte il principe di Metternich. Questi eventi alimentarono la convinzione tra gli altri popoli soggetti all’Impero asburgico, come polacchi, boemi, italiani e ungheresi, che il momento fosse propizio per ribellarsi alla dominazione austriaca e ottenere l’in­ dipendenza nazionale. In Ungheria i rivoluzionari guidati dal patriota Lajos Kossuth (—►) affrancarono i contadini dalla servitù della gleba e, con il loro appoggio, intrapresero una vera e propria guerra d’indipen­ denza. Ma a compromettere tale iniziativa fu il netto rifiuto degli un-

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Blanc e le riforme di stampo socialista

Vittoria dei moderati

Elezione di Luigi Napoleone Bonaparte

La questione nazionale nell'Impero aburgico

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Fallimento dei moti ungheresi e polacchi

I territori tedeschi

L'Assemblea Costituente di Francoforte

Insurrezioni nella penisola italiana

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gheresi di concedere parità di diritti, nella Dieta magiara rivoluziona­ ria, alle minoranze costituite da slovacchi, serbi, romeni e croati. Una scelta che alla fine favorì l’Austria, così come andarono a vantaggio de­ gli Asburgo lo scontro tra contadini e nobili agrari in Polonia e il timore dei liberali viennesi che, di fronte a queirimprovvisa ondata rivoluzio­ naria, l’Impero si potesse disgregare. La dinastia asburgica, facendo le­ va proprio su questi dissidi interetnici e sociali all’interno del fronte ri­ voluzionario e avvalendosi del prezioso appoggio militare della Russia, riuscì in breve tempo a domare i moti autonomisti e a ristabilire l’ordine in tutti i propri territori. Anche il mondo germanico fu attraversato dai venti di rivolta. I so­ vrani della Confederazione germanica furono costretti a concedere or­ dinamenti liberali e lo stesso re di Prussia Federico Guglielmo IV (—>■), di fronte alla popolazione berlinese in rivolta, dovette di fatto piegarsi alla rivoluzione rendendo omaggio ai caduti durante gli scontri. Alla ri­ chiesta di maggiori libertà da parte delle forze democratiche si venne però intrecciando quel desiderio di unità nazionale che non si era mai sopito da quando le guerre napoleoniche avevano esteso in tutta Europa i fermenti del liberalismo e del patriottismo. Si giunse così, nei territori della Confederazione, all’elezione a suf­ fragio universale maschile di un’A ssemblea Costituente dove dovevano essere rappresentati tutti gli Stati tedeschi. Insediatasi a Francoforte sul Meno, l’Assemblea vide immediatamente l’affermazione di due partiti contrapposti: i «grandi tedeschi» e i «piccoli tedeschi». Mentre i primi auspicavano l’unione di tutti i popoli di lingua tedesca sotto la guida dell’Austria, i secondi intendevano far nascere uno Stato nazionale più piccolo e compatto guidato dalla Prussia. A prevalere, dopo lunghe di­ scussioni, fu il progetto «piccolo tedesco» e ciò spinse i deputati a offri­ re, nell’aprile del 1849, a Federico Guglielmo IV di Prussia la corona dell’Impero federale tedesco. Il re, tuttavia, la rifiutò poiché accettare un’investitura venuta da una rivoluzione di popolo lo avrebbe costrette ad ammettere un maggior peso politico al principio della sovranità po­ polare. L’Assemblea perse così una parte dei suoi eletti, quelli moderati e conservatori, ma continuò i propri lavori per dar vita a uno Stato na­ zionale tedesco in cui la sovranità derivasse dal popolo. Il riflusso de: moti in tutta Europa, durante la primavera-estate del 1849, colpì anche l’Assemblea Costituente tedesca che fu sciolta definitivamente il 18 giu­ gno 1849. Quel che rimase della fiammata rivoluzionaria dei popoli te deschi fu, però, il mantenimento quasi ovunque di alcune basilari garan­ zie di libertà. La Prussia, poi, nel 1850 si diede una Costituzione ch« mantenne in vita le istituzioni rappresentative, sebbene il Parlamentc fosse eletto con un complicato sistema elettorale, quello delle «tre clas si» (->-), che di fatto garantiva il mantenimento del potere politico nelk mani delle élite tradizionali. In Italia, prima ancora che Parigi divenisse l’epicentro degli sconvol gimenti europei, il malcontento popolare fomentò una serie di rivolte. I 12 gennaio 1848 l’insurrezione del popolo di Palermo costrinse Ferdi nando II di Borbone ( ^ - ) a concedere una Costituzione, seguito dopc pochi giorni da quasi tutti i sovrani della penisola. Sulla spinta dei mot

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rivoluzionari che dilagavano ovunque, concessero infatti una Costitu­ zione Leopoldo II (—►) in Toscana, Carlo Alberto di Savoia (—►) nel Regno di Sardegna e persino papa Pio IX ( ^ - ) nello Stato pontificio. Subito dopo la sollevazione di Vienna, anche i possedimenti austriaci nella penisola italiana furono teatro di violente rivolte. In questi territo­ ri alle istanze liberali e costituzionali si aggiungevano le rivendicazioni indipendentiste. La prima a ribellarsi, il 17 marzo, fu Venezia: i patrioti Daniele Manin ( ^ - ) e Niccolò Tommaseo (—>) furono liberati dal car­ cere, il governatore austriaco venne costretto alla fuga e dopo pochi giorni un governo provvisorio presieduto da Manin proclamò la nascita della Repubblica di Venezia. Quasi contemporaneamente a Milano, nel corso delle cosiddette «cinque giornate», furono innalzate le barricate e il palazzo del governo fu assaltato dai rivoltosi. La guida dell’azione ri­ voluzionaria venne assunta da un consiglio di guerra costituito da de­ mocratici e diretto da Carlo Cattaneo (—►). Il maresciallo austriaco Jo­ hann J.F. Radetzky (—»■), al comando del presidio militare della città, temendo di rimanere bloccato a Milano e preoccupato di un possibile intervento del Piemonte, si ritirò nel «quadrilatero» delimitato dalle for­ tezze di Mantova, Verona, Peschiera e Legnago. Spinto dalle sollecitazioni di numerosi patrioti liberali che volevano evitare uno sbocco repubblicano della rivoluzione, ma anche dalle mai sopite aspirazioni della monarchia sabauda ad allargare verso est i con­ fini del suo regno, Carlo Alberto si decise a intervenire militarmente contro gli Asburgo. Il 23 marzo 1848 il Regno di Sardegna dichiarò guerra all’Austria e lo stesso fecero Ferdinando II, Leopoldo II e Pio IX, anch’essi preoccuparti dal diffondersi di un’agitazione di stampo de­ mocratico e repubblicano. L’entusiasmo popolare per un’iniziativa che, nelle speranze dei patrioti, avrebbe addirittura potuto condurre all’uni­ ficazione nazionale, scemò tuttavia molto rapidamente. Già alla fine di aprile, infatti, gli alleati del Piemonte, a cominciare dal Papa, ritirarono le proprie truppe e a sostenere l’esercito piemontese rimasero solo alcu­ ni reparti di volontari. Inoltre, la scarsa risolutezza di Carlo Alberto nel condurre la campagna militare, nonostante alcune vittorie come quelle di Goito e Peschiera, diede modo agli austriaci di riorganizzarsi e ri­ prendere l’iniziativa. A fine luglio, quindi, l’esercito sabaudo venne defi­ nitivamente sconfitto a Custoza, presso Verona, e Carlo Alberto, dopo aver firmato il 9 agosto l’armistizio di Salasco con gli austriaci, ritirò le sue truppe in Piemonte. Nel tentativo di recuperare il prestigio perduto, nel marzo 1849, Carlo Alberto decise di riaprire le ostilità con l’Austria, ma senza successo: nuovamente sconfitto a Novara, il sovrano abdicò a favore del figlio, Vittorio Emanuele II (^ -). Una volta conclusa la guerra col Regno di Sardegna e ritornata alla normalità la situazione nei territori dell’Impero, l’esercito austriaco po­ tè riprendere con vigore l’opera di restaurazione nel resto della penisola, a sostegno del papa e dei sovrani legati alla Corona asburgica; fu così, quindi, che le truppe austriache intervennero in Toscana, a Venezia e nelle Legazioni pontificie per abbattere le ultime isole di resistenza de­ gli insorti. Tra le ultime a capitolare, per mano della Francia di Luigi Napoleone, fu la Repubblica Romana (—>*), sorta dopo la fuga del Papa

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Le rivolte di Venezia e Milano

Gli Stati italiani dichiarano guerra all'Austria

Carlo Alberto di Savoia

Sconfitta del Regno di Sardegna

Vittoria degli austriaci in tutta la penisola

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La breve vita della Repubblica Romana

Fine dei moti

Lo Statuto Albertino

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a Gaeta. Pio IX, infatti, aveva lasciato Roma il 24 novembre 1848, mani­ festando così tutta la sua opposizione alla decisione di eleggere a suffra­ gio universale maschile un’Assemblea Costituente. A Roma si insediò quindi un governo provvisorio retto da un triumvirato composto dai de­ mocratici Giuseppe Mazzini (—»-), Aurelio Saffi (—>-) e Carlo Armellini (—*■). Nonostante la strenua resistenza opposta dai volontari, guidati da Giuseppe Garibaldi (—->), la Repubblica Romana venne stroncata dagli eserciti di un’altra Repubblica sorta proprio dalla tempesta rivoluziona­ ria del 1848, quella francese, che però aveva già trovato il suo equilibrio politico nelle forze liberal-conservatrici. Sull’onda di questa «seconda Restaurazione» che imperversò in Eu­ ropa nella prima metà del 1849 mettendo fine alle speranze che avevano animato i moti dell’anno precedente, il solo, ma decisivo, lascito della «Primavera dei popoli» furono le Costituzioni che molti sovrani decise­ ro di concedere una volta riportato l’ordine nei propri territori. Nel caso della penisola italiana, mentre tutti i monarchi, non appena avevano co­ minciato a spirare i venti della Restaurazione, si affrettarono a ritirare i testi costituzionali concessi nel 1848, Vittorio Emanuele di Savoia ac­ cettò, con una scelta sofferta ma di straordinaria lungimiranza politica, di mantenere in vigore lo Statuto promulgato dal padre Carlo Alberto. 1.4 Stato e società

Una delle conseguenze principali della Rivoluzione industriale fu quella di rendere evidente quanto la potenza economica avrebbe deter­ minato la gerarchia fra gli Stati. Emblematico da questo punto di vista il caso della Gran Bretagna, dove la Rivoluzione industriale esplose già nella seconda metà del Settecento. A ll’inizio del secolo successivo, infatti, il 30% della produzione industriale di tutto il globo era di pro­ venienza britannica e questo, unito al primato nei commerci e al con­ Primato trollo dei mari, dava alla Gran Bretagna un ruolo di assoluto primo della Gran Bretagna piano negli equilibri fra le potenze. L’introduzione della macchina a vapore permise un rapido sviluppo dei due settori trainanti dell’econo­ mia inglese: l’industria tessile e quella dei trasporti. Ben presto, però, fu chiaro che l’industrializzazione finiva per apportare benefici solo a una parte minoritaria della popolazione e proprio in questo senso la Nascita del sistema Gran Bretagna fu il primo Paese a mostrare i vizi e le virtù del neonato capitalistico sistema capitalistico. Gli operai infatti, che rappresentavano nel processo di produzione capitalistico la forza lavoro, ricevevano una remunerazione, ovvero il salario, del tutto sottostimata rispetto a quella che veniva riconosciuta agli altri fattori della produzione. A questo va aggiunto che il riversarsi di una massa consistente di uomini e donne dalle campagne, dove non avevano prospettive di sopravvivenza, verso le città industriali come Liverpool, Manchester e Birmingham e la conseguente impetuosa urba­ nizzazione crearono problemi sociali nuovi e drammatici che metteva­ no in luce le difficili condizioni di vita della classe operaia. Fu proprio a Riforma della PoorLaw questa massa di indigenti che la nuova Poor Law (—>-) del 1834 cercò di Potenza economica e politica

Le grandi problematiche dell'Ottocento

far fronte. Nata nel Seicento come legge che istitutiva forme di sostegno per coloro che, a causa dell’età o di malattie, non erano in grado di svol­ gere un’attività lavorativa, aveva in origine un carattere puramente fi­ lantropico; nonostante le resistenze nei ceti benestanti costretti a versa­ re i contributi, funzionò abbastanza bene, tanto che a metà del Sette­ cento garantiva l’assistenza a quasi un decimo della popolazione inglese. Nella fase del pieno sviluppo economico e capitalistico fu tuttavia ne­ cessario rivedere il vecchio sistema, sottoposto a forti critiche da parte di intellettuali e politici liberali, i quali consideravano la vecchia Poor Law un freno al libero mercato e uno strumento paternalistico usato dai conservatori solo per prevenire le tensioni sociali. Il provvedimento del 1834, perdendo le caratteristiche assistenzialistiche precedenti, isti­ tuzionalizzava il principio che il sussidio era concesso in cambio di lavo­ ro in workhouses (—>-), in modo da renderlo poco desiderabile a chi non era veramente povero. Durante la prima metà dell’Ottocento i processi di industrializzazio­ ne e urbanizzazione che avevano avuto inizio in Gran Bretagna si este­ sero a Francia, Belgio e Olanda. Tuttavia, fu solo dopo la crisi rivoluzio­ naria del 1848-49 che si aprì una nuova, grande fase di crescita economi­ ca la quale, protrattasi fino alla metà degli anni Settanta del XIX secolo, coinvolse gran parte dell’Europa e alcuni Paesi extraeuropei. Nella se­ conda metà dell’Ottocento, infatti, si dispiegarono tutte le potenzialità produttive del processo di industrializzazione; Stati Uniti, Svizzera, Prussia e, in misura minore, Italia e Giappone cominciarono a orientare verso l’industria ampie porzioni della loro economia e ad entrare così nel grande mercato mondiale. Tra gli anni Cinquanta e Settanta si getta­ rono quindi le basi di una moderna economia industriale di proporzioni mondiali, fondata principalmente sull’industria del ferro e del carbone. Nonostante questo impetuoso sviluppo cominciasse a profilare un regime di concorrenza tra le diverse economie nazionali, il modello li­ berista, affermatosi con la Rivoluzione industriale inglese del Settecen­ to, inizialmente non fu messo in crisi. La stessa Gran Bretagna, abolen­ do nel 1846 le Corri Laws, ovvero i dazi doganali sull’ingresso del grano proveniente da altri Paesi, mise fine definitivamente agli ultimi baluardi del sistema protezionistico in favore del pieno liberismo economico. L’ideologia del cosiddetto laissez-faire (—>-), il cui teorico Adam Smith riteneva che il rapporto fra domanda e offerta operasse come una «ma­ no invisibile» capace di regolare il mercato verso l’esito migliore, diven­ ne dominante e contribuì a creare un diffuso senso di euforia, sicurezza e orgoglio all’interno del complesso e multiforme mondo borghese che si stava affermando a livello commerciale, imprenditoriale e finanziario. Perlomeno fino all’inizio degli anni Settanta sembrava diffusa, in Eu­ ropa, la convinzione che la grande crescita economica degli anni prece­ denti fosse destinata a non avere fine. La fiducia espressa dalla società borghese in un progresso materiale illimitato prese addirittura la forma della certezza scientifica. Questa illimitata fiducia nel progresso indu­ striale e materiale subì, però, una battuta d’arresto di fronte alla contra­ zione dello sviluppo economico che si verificò a partire dal 1873 e durò fino alla metà degli anni Novanta. La Grande Depressione, questa fase

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Industrializzazione e urbanizzazione

Modello liberista eprindpio del laissez-faire

Ottimismo e fiducia nel progresso

Grande Depressione

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Crisi dei secondcomers

Concorrenza e protezionismo

Condizioni del proletariato urbano

Nascita della coscienza di classe

Le Trade Unions

Storia contemporanea

di grave recessione economica che colpì soprattutto i Paesi della seconda ondata di industrializzazione, i cosiddetti second comers (—>-), non portò ad un vero e proprio stallo della produzione, ma mise piuttosto in luce la complessità del sistema capitalistico ed i problemi connessi ai fenomeni di sovrapproduzione. Si trattò, in sostanza, di una crisi di assestamento delle economie europee: il mercato non era più in grado di assorbire tutti i prodotti industriali e gli imprenditori si trovarono costretti a licenziare una parte della manodopera, che si ritrovò così disoccupata. La crisi economica degli anni Settanta e Ottanta e la sempre più ac­ centuata concorrenza fra le diverse economie nazionali indussero molti Paesi a ridefinire in senso protezionista i loro sistemi produttivi. All’im­ presa privata o alla piccola azienda familiare tipiche del panorama indu­ striale britannico, cominciarono ad affiancarsi, in Francia, Germania, Stati Uniti e Italia, sia aziende sostenute da commesse pubbliche, sia grandi società di capitale riunite in cartelli (—►) prima e poi in trust (->-), capaci di effettuare i grossi investimenti che richiedevano i settori industriali emergenti. A differenza della Gran Bretagna, che si manten­ ne fedele al proprio sistema liberoscambista, le economie dei Paesi se­ cond comers vennero fortemente aiutate e pilotate dai rispettivi governi che, soprattutto attraverso l’imposizione di dazi protettivi sulle merci straniere, intendevano aiutare i gruppi industriali nazionali. Questo finì per incidere anche nel rapporto fra gli Stati dal momento che l’economia sempre più concorrenziale aveva ripercussioni anche sul piano delle re­ lazioni internazionali. Benché il primato industriale e commerciale bri­ tannico rimanesse indiscusso, perlomeno fino all’inizio del XX secolo, la presenza di nuove potenze economiche come Francia, Germania e Stati Uniti creava non solo una sorta di «oligopolio» nel sistema capita­ listico mondiale, ma aveva conseguenze anche in ambito politico e di­ plomatico nei rapporti fra gli Stati. Dal punto di vista sociale, la grande crescita economica di metà Ot­ tocento ebbe come effetto sia la nascita di un nuovo gruppo sociale, il proletariato industriale, sia un’urbanizzazione convulsa dovuta all’im­ ponente flusso migratorio verso i centri urbani di coloro che erano alla ricerca di un lavoro. Le città cominciarono presto a soffrire di un croni­ co sovrappopolamento e non furono in grado di rispondere in tempi brevi, adeguando strutture igienico-sanitarie e abitative al massiccio au­ mento della densità di popolazione. Il nuovo proletariato urbano era in origine tutt’altro che omogeneo. Accanto agli operai delle fabbriche, in costante espansione, vi erano infatti artigiani, domestici e manovali che condividevano con i primi le precarie condizioni di vita ma non il conte­ sto lavorativo. Nelle città i lavoratori finivano spesso per smarrire i tra­ dizionali riferimenti religiosi e culturali, mentre all’interno e all’esterno dei luoghi di lavoro cominciava a delinearsi una vera coscienza di classe, ossia la consapevolezza che la lotta per combattere lo sfruttamento non si poteva condurre singolarmente ma era necessario essere uniti. Benché in questa fase cominciassero a emergere organizzazioni di difesa di lavoratori e artigiani anche negli Stati Uniti e in alcuni Paesi europei, la Gran Bretagna fu il primo Paese in cui nacquero organizza­ zioni sindacali di mestiere, le Trade Unions (—>-). Sorte a metà degli an­

Le grandi problematiche dell'Ottocento

ni Venti per tutelare i lavoratori specializzati, contrattando con gli im­ prenditori gli orari di lavoro anche mediante il ricorso allo sciopero, es­ se continuarono a crescere nei decenni successivi e nel 1868 diedero vita al Trade Unions Congress, che riuniva tutti i maggiori sindacati e diven­ tò il primo vero nucleo del movimento operaio britannico. Un importante contributo teorico nella definizione del nuovo asset­ Il Manifesto del Partito to socio-economico mondiale era già stato dato, fin dal 1848, da Karl comunista Marx (—»-) e Friedrich Engels (—►) con il Manifesto del Partito comu­ nista, in cui si interpretava l’evoluzione dei rapporti sociali in termini di lotta di classe e si invitavano all’unità i proletari di tutto il mondo. Già in questa prima fase, Marx ed Engels contrapposero al «socialismo uto­ pistico» (—►) di Charles Fourier (—>■), Claude Elenri de Saint-Simon (—»-) e Charles Robert Owen (->-) un «socialismo scientifico» (—►) ba­ Il socialismo scientifico sato su una concezione materialista del divenire storico. Marx, poi, svi­ luppò ampiamente le sue teorie in un’opera, rimasta incompiuta, Il Ca­ pitale, nella quale delineava una critica serrata del capitalismo, una pre­ visione negativa dei suoi sviluppi futuri e un’indicazione dei compiti che spettavano al proletariato, considerato il nuovo soggetto rivoluzio­ nario della storia. La pubblicazione de II Capitale, il cui primo volume uscì nel 1867, se­ Il Capitale gnò un passaggio decisivo per il movimento operaio e per la cultura oc­ cidentale. Per la prima volta, infatti, il socialismo non era presentato so­ lo come l’utopia di un mondo migliore, ma come il deterministico e scientifico punto di arrivo da raggiungere grazie all’azione delle masse lavoratrici, approfittando delle intrinseche debolezze del sistema capita­ listico. L’aver messo per primo in un rapporto di causa-effetto la diffe­ renza tra la remunerazione dei fattori produttivi e le condizioni di sfrut­ tamento della classe operaia fece di Marx lo studioso di riferimento dei primi militanti socialisti e movimenti sindacali. Di tutto il variegato in­ segnamento marxiano fu infatti questo l’aspetto che più in profondità penetrò nella cultura del movimento operaio e che permise al marxismo di affermarsi gradualmente su tutte le altre teorie socialiste. 1.5 Le ideologie diventano «partiti» Uno dei fenomeni centrali del processo di modernizzazione politica verificatosi in Europa dopo la Rivoluzione francese è stato il ruolo, via via sempre più centrale, assunto dalle ideologie politiche, tanto che spesso l’età contemporanea viene definita come l’«età delle ideologie» per sottolineare l’importanza che hanno avuto queste forme di «cultu­ ra» nell’interpretazione e nel condizionamento del processo storico. Il termine «ideologia», usato dapprima dai filosofi del Settecento e, in un’accezione negativa, da Marx, acquisì nell’Ottocento una connotazio­ ne neutra per indicare una sorta di filosofia pratica tesa a spiegare e orientare l’agire umano nella sfera pubblica. Riflettendo sugli stessi no­ di teorici, come libertà, uguaglianza, potere politico, giustizia, ecc., cia­ scuna ideologia elabora un proprio sistema di valori e uno schema coe­ rente, fatto di parti sia prescrittive che descrittive, per comprendere la

L'età delle ideologie

Dalla teoria alla pratica

Storia contemporanea

I grandi interrogativi comuni

Quattro famiglie ideologiche

Il reazionarismo

Tradizionalismo e valori religiosi

realtà storico-politica di un dato momento e per indirizzare l’azione dei soggetti preposti alla gestione del potere pubblico. In tal senso, quindi, le ideologie assumono anche un carattere legittimante per gli attori po­ litici, fornendo loro il supporto teorico per giustificare le scelte compiu­ te all’interno dello spazio pubblico. Tanto gli elementi concettuali di base quanto gli interrogativi ai qua­ li le ideologie rispondono sono sostanzialmente uguali per tutte. Esse infatti si interrogano sul rapporto tra realtà storica ed azione umana, su quale deve essere il soggetto legittimato a detenere il potere politico, sul ruolo che deve avere lo Stato nei confronti della società, su quale sogget­ to (il singolo individuo o gruppi particolari come la famiglia, la comuni­ tà locale, la classe o la nazione) debba essere posto al centro della sfera pubblica e dell’azione politica. Ciò che cambia dunque, da un’ideologia all’altra, è il tipo di risposta a questi interrogativi, ovvero la maniera nel­ la quale i concetti fondamentali come libertà, uguaglianza e giustizia vengono utilizzati, ordinati, interpretati. Nel corso dell’Ottocento si affermarono in Europa quattro grandi fa­ miglie ideologiche (reazionarismo, conservatorismo, liberalismo, socia­ lismo), ciascuna con il proprio patrimonio concettuale di riferimento e ciascuna con un quadro ben preciso di come si sarebbe dovuto struttu­ rare il sistema politico-economico-sociale degli Stati. Va anche detto, però, che non sempre i confini tra le diverse ideologie erano rigidi e im­ mutabili, dal momento che l’utilizzo dello stesso apparato concettuale e la necessità di rispondere alle medesime domande producevano spesso intersezioni e sovrapposizioni. In ogni caso fu proprio nel corso della prima metà dell’Ottocento che, di fronte alla temperie prodotta dalla Rivoluzione francese e dai movimenti per l’indipendenza nazionale, le ideologie assunsero un profilo politico marcato e un ruolo sempre più importante nella determinazione delle scelte dei governanti. Nata come diretta reazione agli eventi prodotti dalla Rivoluzione del 1789, l’ideologia reazionaria intendeva opporsi a tutti i valori della cul­ tura rivoluzionaria e in primo luogo al presupposto di ricreare politica e società secondo un ordine razionale, trascurando completamente l’ere­ dità della tradizione e dei valori religiosi. I reazionari ottocenteschi, tra cui si può ricordare il francese Joseph De Maistre (-*-), negavano l’idea che gli uomini potessero organizzarsi liberamente secondo la propria ragione e viceversa ritenevano che l’assetto politico-sociale, derivato dall’ordine naturale e dalla volontà divina, non potesse essere modifica­ to. Per il reazionario, quindi, i principi dell’organizzazione sociale tradi­ zionale non si potevano cambiare e strutture come la famiglia, la comu­ nità locale, la Chiesa dovevano mantenere una forma piramidale e ge­ rarchica, con al vertice l’autorità tradizionale sancita dalla volontà divina. Accanto al tradizionalismo storico e al richiamo costante ai va­ lori dell'Ancien Régime, pertanto, il reazionarismo ottocentesco si fon­ dava sull’elemento divino e religioso, fornendo a quest’ultimo il ruolo di elemento legittimante dell’intero sistema politico e sociale. Quando però divenne chiaro, nel corso dell’Ottocento, che il proces­ so di modernizzazione politica non poteva essere fermato, il reazionari­ smo cominciò a mutare in parte i propri obiettivi e valori. Pur conti­

Le grandi problematiche dell'Ottocento

nuando a respingere, almeno sul piano concettuale, la Rivoluzione fran­ cese, il reazionarismo di fine Ottocento cessò di pensare al ristabilimento dell’ordine di «antico regime» e trovò una nuova veste politica nella di­ fesa a oltranza della nazione. La centralità dell’appartenenza alla comu­ nità nazionale segnò, quindi, la profonda trasformazione dell’impianto ideologico reazionario che prese corpo, dinanzi ai grandi mutamenti in­ terni e internazionali degli anni fra Otto e Novecento, nell’esplosione del nazionalismo e dell’imperialismo. Accanto al filone ideologico reazionario si può collocare quello con­ servatore, che diffidava decisamente dello spirito di cambiamento intro­ dotto dalla Rivoluzione Francese, ma era disposto a impegnarsi per mi­ tigarne gli effetti e rallentare la diffusione delle trasformazioni sociali. A differenza del reazionarismo, però, il conservatorismo era più dispo­ sto a entrare in rapporto dialettico con la modernizzazione, purché le trasformazioni non indebolissero troppo le strutture socio-politiche tra­ dizionali e fossero graduali. Anche l’ideologia conservatrice, molto complessa e sfaccettata al suo interno, credeva in una struttura gerarchi­ ca della società nella centralità dell’ordine e della coesione sociale, e nel ruolo determinante della famiglia, vero e proprio pilastro naturale del vivere umano. La tutela della religione e il rispetto per la proprietà pri­ vata, considerata quest’ultima il fondamento della piramide sociale, era­ no gli altri valori principali sostenuti dall’ideologia conservatrice. Nella seconda metà dell’Ottocento il conservatorismo cominciò a mostrare un’attenzione sempre più accentuata per i nuovi problemi so­ ciali legati allo sviluppo dell’industrializzazione. Lo faceva da un’otti­ ca paternalistica secondo cui le classi più agiate - proprio come il pa­ dre fa coi figli all’interno della famiglia - dovevano provvedere al be­ nessere dei gruppi più svantaggiati, anche al fine di impedire o attenuare proteste e rivendicazioni. Da questo approccio ai problemi sociali presero vita il filone del conservatorismo noto come «conserva­ torismo sociale» e quello del paternalismo socialisteggiante conosciu­ to come «socialismo della cattedra» (->-). Essi ritenevano che fosse lo Stato a dover garantire il benessere dei meno abbienti attraverso un si­ stema di tutele, sussidi e servizi. Tale evoluzione dell’ideologia conser­ vatrice fu in parte veicolata dalle propensioni sociali acquisite dal cat­ tolicesimo politico dopo la pubblicazione, nel 1891, dell’enciclica Re­ rum Novarum (—>■) da parte di papa Leone X III (—>). Con questo documento, infatti, per la prima volta la Chiesa affrontava esplicita­ mente i nuovi problemi sociali e, pur condannando le teorie socialiste e sindacaliste, invitava operai e imprenditori a una soluzione pacifica delle contese e vantaggiosa per entrambi. Sollecitando inoltre i cattoli­ ci a impegnarsi nel settore dell’assistenza, essa aprì la strada alla nasci­ ta di casse e mutue cattoliche. Anche il conservatorismo non rimase insensibile dinanzi all’affermarsi, alla fine del secolo, del principio nazionale, che utilizzò come vei­ colo di legittimazione sia per le scelte di politica estera che in politica in­ terna. Da un lato, infatti, i conservatori diventarono i principali artefici di una politica estera aggressiva di stampo nazionalista e colonialista; dall’altro, il richiamo alla coesione nazionale fu utilizzato dai gruppi

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Nazionalismo e imperialismo

Conservatorismo

Gerarchia sociale, famiglia, religione, proprietà privata

Paternalismo e conservatorismo sociale

L'enciclica Rernm Novarum

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Liberalismo

Individualismo e diritti dei singoli

Libertà economica e liberoscambismo

La corrente del «nuovo liberalismo»

Storia contemporanea

conservatori come elemento di coesione di fronte all’emergere dei parti­ ti socialisti e della competizione tra le classi. L’Ottocento europeo e nordamericano fu comunque il secolo del li­ beralismo, dal momento che fu proprio l’ideologia liberale di stampo il­ luminista a guidare tutti i tumultuosi fenomeni di modernizzazione po­ litica seguiti alla Rivoluzione francese. Il fulcro dell’ideologia liberale era costituito dall’individualismo, ovvero la salvaguardia dell’autono­ mia del singolo di fronte a qualsiasi altro soggetto, dallo Stato ai gruppi sociali tradizionali. L’affermarsi dei valori dell’individualismo fu il risul­ tato di un lungo percorso storico iniziato con la riforma protestante (—>-) e proseguito nella filosofia illuminista; la razionalità dell’individuo e la sua autonomia di giudizio e di azione, che avevano costituito la base teorica delle rivoluzioni americana e francese, diventarono quindi i pila­ stri concettuali e politici del pensiero liberale. La libertà dell’individuo, secondo i liberali, doveva essere difesa pri­ ma di tutto dalle possibili intrusioni del potere pubblico, che in partico­ lare non doveva interferire nell’attività economica dei singoli. Di conse­ guenza né la proprietà privata, né la discrezionalità del proprietario po­ tevano essere contestate dallo Stato o da qualsiasi altro soggetto collettivo; solo la capacità e l’intraprendenza dei singoli, in un quadro di libera concorrenza, dovevano costituire il motore dell’economia. La li­ bertà economica veniva difesa non solo in virtù del principio dell’auto­ nomia dei singoli, ma anche nel presupposto che essa rappresentasse lo strumento più efficace per promuovere il benessere dell’intera collettivi­ tà. Questo si tradusse in Gran Bretagna nella piena accettazione dei principi del liberoscambismo (cap. 1.4), ossia un sistema di libertà di commercio incentrato sulle idee del liberismo. Al contrario, nei Paesi dell’Europa continentale, dove l’affermazione dei valori liberali seguì storicamente un percorso diverso da quello anglosassone, non graduale, ma repentino e tumultuoso durante e dopo la Rivoluzione francese, il ruolo dello Stato continuò ad essere centrale anche per i teorici del libe­ ralismo. Dovendo infatti abbattere tutte le vecchie istituzioni dell’A ncien Régime, corporazioni, chiese, comunità locali, i liberali del conti­ nente pensarono di poter utilizzare le strutture dello Stato, facendo però di quest’ultimo il baluardo e il garante delle libertà individuali. Anche l’ideologia liberale, sul finire del secolo, cominciò a cambiare alcuni dei suoi presupposti originari. Di fronte all’emergere di due feno­ meni molto distanti dall’orizzonte ideologico liberale, una declinazione organicistica della nazione e la questione sociale, alcuni liberali non ri­ masero insensibili al richiamo del nazionalismo e, per esempio in In­ ghilterra, cercarono di coniugare i valori tradizionali dell’individuali­ smo con le nuove istanze della politica nazionalista. Anche i nuovi pro­ blemi legati allo sviluppo industriale portarono i liberali a rivedere le proprie teorie economiche classiche e a elaborare il concetto di «libertà positiva». Non era più sufficiente che l’individuo non fosse ostacolato nella sua realizzazione, ma dovevano essergli forniti anche gli strumenti minimi perché potesse davvero riuscire a vivere come desiderava. Fu su queste basi che, come vedremo, si sviluppò in Gran Bretagna la corrente del «nuovo liberalismo» all’inizio del Novecento; mentre negli anni fra

Le grandi problematiche dell'Ottocento

le due guerre mondiali furono due figli di questa corrente liberale atten­ ta alla questione sociale, John Maynard Keynes (—>-) e William Beve­ ridge (—►), a costruire le fondamenta del moderno Stato sociale. Sul piano dei diritti politici, il liberalismo ottocentesco non concepi­ va di concedere a tutti i cittadini, uomini e donne, benestanti e indigen­ ti, intellettuali e analfabeti, il potere di intervenire nella gestione della cosa pubblica. Tale potere doveva essere affidato soltanto a chi poteva agire senza condizionamenti dovuti al bisogno e all’ignoranza ed espri­ mere un’opinione politica autonoma. I requisiti per determinare questo corpo politico venivano quindi fissati sulla base della ricchezza e dell’istruzione. Le leggi elettorali varate dalle classi politiche liberali nel corso dell’Ottocento prevedevano infatti che gli elettori, solo di sesso maschile, fossero stabiliti in base al censo e/o al grado di istruzione. Nel corso del XIX secolo, tuttavia, in molti Paesi europei apparve una cor­ rente ideologica legata alla famiglia liberale, ma fondamentalmente più democratica: il radicalismo. Accanto ai tradizionali valori della difesa dei diritti individuali, della limitazione del potere statale e della libertà economica, il radicalismo ottocentesco si batteva per avvicinare il più possibile le istituzioni rappresentative al popolo, attraverso la concessio­ ne del suffragio universale, la moralizzazione delle procedure elettorali e la retribuzione dei deputati. Anche se all’inizio queste istanze erano appannaggio solo delle correnti radicali, col passare del tempo, e già all’inizio del XX secolo, le classi politiche liberali finirono per accettare l’idea dell’estensione del suffragio e per dotarsi di istituzioni tendenzial­ mente sempre più democratiche. Se l’individualismo era la cifra costitutiva del liberalismo, il sociali­ smo poneva come priorità il perseguimento del benessere del corpo so­ ciale. Esso doveva essere omogeneo al proprio interno, egualitario nella distribuzione del potere politico ed economico e fondato sulla solidarie­ tà reciproca tra tutti i membri della collettività. Tali principi conduceva­ no a sostenere una forma compiuta di democrazia con la partecipazione di tutti i cittadini e, sul piano economico, la scomparsa della proprietà privata e il passaggio a forme collettivistiche di possesso e gestione dei beni. Dopo gli esordi del socialismo utopista di inizio Ottocento, il con­ tributo più rilevante ed influente all’ideologia socialista venne fornito dalla riflessione di Marx ed Engels (cap. 1.4), i quali ritenevano inevita­ bile il rovesciamento del capitalismo e della borghesia ad opera della classe in quel momento oppressa e sfruttata, il proletariato. Secondo Marx, la dittatura del proletariato sarebbe stata diversa dagli altri pre­ domini di classe e non oppressiva, dal momento che il gruppo al potere sarebbe stato costituito dalla larghissima maggioranza della popolazio­ ne. Tale dittatura sarebbe stata solo transitoria dal momento che avreb­ be fatto scaturire una società senza classi, senza proprietà privata e, allo stesso tempo, priva di disuguaglianze e disparità sociali. Negli ultimi decenni dell’Ottocento cominciarono a essere fondati, in tutti i Paesi europei, partiti politici che si ispiravano direttamente all’ideologia socialista, il più grande ed influente dei quali fu quello te­ desco nato a Gotha nel 1875. Nel 1864 era già stata costituita, inoltre, la Prima Internazionale socialista (—►), un’organizzazione che aveva il fi

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Diritti politici

Nascita del radicalismo

Socialismo

Egualitarismo e abolizione della proprietà privata

Dittatura del proletariato

Nascita dei partiti politici socialisti

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La Prima Internazionale socialista

Dibattito tra le correnti

Storia contemporanea

ne di raccogliere e collegare in un unico organismo i movimenti sociali­ sti dei diversi Paesi. Già all’interno della Prima Internazionale, con lo scontro fra la corrente marxista e il gruppo degli anarchici (-V ), e più in generale nel mondo socialista europeo, si aprì ben presto un vivace di­ battito sulla tattica più opportuna da seguire e sugli strumenti da utiliz­ zare per ottenere la realizzazione della società socialista. Questo dibat­ tito, in realtà mai sopito, portò intorno alla fine del XIX secolo alla for mazione del gruppo dei cosiddetti revisionisti, di cui il principale esponente fu Eduard Bernstein (->-). Costoro sostenevano la necessità di interagire con le classi politiche borghesi al potere, rinunciando alla politica della conflittualità inevitabile e promovendo invece un’azione graduale per il conseguimento delle riforme. Sul fronte opposto vi era invece la corrente massimalista, fautrice dell’immediata realizzazione degli obiettivi socialisti e ispirata a una totale contrapposizione rispetto all’assetto socio-economico borghese. Spesso, come nel caso del Partito socialista italiano, le due correnti, quella riformista e gradualista e quel­ la massimalista, convivevano all’interno dello stesso partito con l’inevi­ tabile conseguenza di rallentare l’azione politica sui governi e di non ri­ uscire a trovare un profilo ideologico e politico definito. 1.6 I primi movimenti suffragisti

La questione femminile

Esclusione deile donne dal moderno costituzionalismo

Il processo rivoluzionario che, a partire dalla fine del Settecento, fe­ ce crollare le fondamenta del sistema gerarchico sul quale si fondava l’edificio politico-sociale deWAncien Régime coinvolse ben presto anche il ruolo delle donne nella sfera privata e in quella pubblica. La secolare esclusione della donna dalla politica affondava le radici in quella divi­ sione tramandata dal pensiero greco classico secondo cui la sfera pubbli­ ca era lo spazio propriamente maschile della polis (città), che doveva es­ sere «visibile a tutti» a differenza dello spazio privato della casa. Accan­ to a questa distinzione, il pensiero classico ne presentava un’altra che risultò determinante nel consolidare il ruolo subalterno del genere fem­ minile sino all’epoca contemporanea. Si trattava della differenza tra lo­ gos, cioè ragione, e corpo. Secondo tale schema, le donne, a causa delle differenze biologiche rispetto all’uomo e delle loro funzioni riprodutti­ ve, non sarebbero in grado di trascendere il proprio corpo e la propria dimensione «naturale» e quindi sviluppare un ordine morale di tipo ra­ zionale. Tali distinzioni concettuali si conservarono, nel contesto politi­ co e culturale occidentale, fino alla fine del XVIII secolo, lasciando dunque intatta la separazione tra una sfera pubblica-razionale appan­ naggio maschile e una privata-sentimentale propria invece delle donne. Di fronte a questo schema, anche il costituzionalismo liberale, nono­ stante la sua attenzione per i diritti individuali e la centralità del con­ trattualismo nel rapporto fra i singoli e lo Stato, finiva per entrare ir contraddizione. Infatti, nella definizione liberale dell’individuo come soggetto libero ed autonomo non venivano di solito comprese le donne considerate parte della sfera privata e dunque separate da quella pubbli ca i cui fondamenti erano dati, appunto, dai concetti di uguaglianza, li

Le grandi problematiche dell'Ottocento

bertà o cittadinanza. Proprio questa contraddizione fu all’origine del movimento di rivendicazione del diritto di voto (suffragismo) e, in gene­ rale, dei diritti di cittadinanza per le donne che mosse i primi passi a partire dalla fine del Settecento soprattutto negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e Francia. Da un lato, le prime femministe chiedevano per le donne l’uguaglianza e la parità dei diritti con gli uomini, nel presuppo­ sto di rendere veramente «universale» il concetto di individuo che era al centro del moderno costituzionalismo. Dall’altro, però, rivendicavano anche una differenza di genere tra maschile e femminile e chiedevano che l’accesso delle donne ai diritti universali avvenisse sulla base di una loro intrinseca «specificità» e non già come individui «neutri» in tutto e per tutto uguali agli uomini. Il testo fondativo del movimento di rivendicazione dei diritti delle donne risale al 1791 e fu opera della francese Olympe de Gouges (—>-); la sua Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina prendeva spunto direttamente dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo approvata due anni prima nel corso della Rivoluzione francese. Ricalcandone la struttura e attaccando la contraddizione insita nell’individualismo libe­ rale, la Dichiarazione ribadiva la necessità che i diritti naturali e l’ugua­ glianza politica e sociale fossero estesi anche a tutto il genere femmini­ le. L’anno successivo l’inglese Mary Wollstonecraft (—>■), con la sua Vindication o f thè Rights ofW oman, si spinse addirittura oltre, perché non solo rivendicava l’uguaglianza dei diritti tra uomini e donne, ma so­ steneva che soltanto in questo modo, ossia da un piano di assoluta pari­ tà, le donne sarebbero potute diventare vere compagne per l’uomo. Nel 1848, mentre il movimento suffragista si risvegliava in tutta Euro­ pa in corrispondenza dei moti rivoluzionari di quell’anno, anche le fem­ ministe americane approvarono un importante documento in cui chiede­ vano l’estensione del diritto di voto alle donne. Riunite a Seneca Falls, una località dello Stato di New York, queste donne, tutte bianche, prote­ stanti e di classe media, redassero una Declaration o f Sentiments il cui preambolo richiamava esplicitamente la Dichiarazione di indipendenza americana del 1776. Sull’onda della Dichiarazione di Seneca Falls, il movimento suffragista americano cercò di sovrapporre le rivendica­ zioni delle donne a quelle dell’abolizione della schiavitù dei neri. Il pre­ supposto era la costruzione di una forte analogia tra l’incapacità giuridi­ ca nella quale erano tenute le donne e quella che opprimeva i neri; ana­ logia che portò le femministe americane ad affiancare la lotta contro la schiavitù a quella per l’estensione del suffragio. Ma il binomio suffragismo-abolizionismo non portò a grandi risultati per le donne e il movi­ mento suffragista americano dovette proseguire la propria battaglia in modo autonomo dopo che, nel 1863, la schiavitù dei neri fu abolita. In Europa il movimento suffragista si presentava inizialmente molto meno strutturato di quello americano ed emergeva in maniera saltuaria, per lo più in corrispondenza dei momenti di crisi politica ed economica. Soltanto a partire dalla seconda metà del XIX secolo le associazioni femministe cominciarono a prendere corpo in modo stabile, legandosi talvolta allo sviluppo dei partiti democratici e socialisti. Questo avvenne anche perché, con l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro durante

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Nascita del suffragismo e del femminismo

Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina

Il movimento suffragista americano e la Dichiarazione di Seneca Falls

La situazione europea

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Rapporto con i partiti politici

La conquista del diritto di voto

Graduale ridefinizione dei ruoli

Storia contemporanea

la Seconda Rivoluzione industriale, cominciarono a dissolversi i vincoli familiari tradizionali e si venne delineando gradualmente un nuovo pa­ norama di rapporti sociali. Proprio in corrispondenza, infatti, della grande accelerazione economico-industriale della seconda metà dell’Ot­ tocento, le femministe sia europee sia americane si resero conto che la conquista del diritto di voto non sarebbe stata sufficiente per garantire alle donne la piena autonomia e realizzazione individuale. Oltre ai dirit­ ti politici, quindi, le battaglie femministe cominciarono a comprendere tutti quegli aspetti, come il diritto d’accesso all’istruzione e al mondo del lavoro, che dovevano mettere fine a qualsiasi vincolo di subordina­ zione nei confronti dell’uomo. Anche se in questa fase la lotta delle femministe finiva spesso per as­ sociarsi a quella dei partiti socialisti, specie per quel che riguardava i di­ ritti delle lavoratrici nelle fabbriche, il rapporto tra i movimenti di eman­ cipazione femminile e i partiti politici rimase sempre piuttosto comples­ so. Da un lato infatti molti partiti, anche quelli democratico-progressisti, si mostrarono alquanto refrattari ad accogliere le tematiche del suffragismo e del femminismo. Dall’altro, poi, anche i partiti socialisti europei non sempre accettarono le istanze dei diritti femminili, sia perché ten­ devano a considerarli diritti «borghesi», in quanto a patrocinarli erano soprattutto donne delle classi medio-alte, sia perché temevano che que­ sta battaglia avrebbe potuto danneggiare la causa del proletariato per le innate caratteristiche di moderazione che si riteneva fossero proprie dell’indole femminile. La vera accelerazione per i diritti delle donne si ebbe quindi solo alla fine dell’Ottocento. Accanto a un’accentuata mobilitazione sul tema del suffragio compiutamente universale, quindi maschile e femminile, in questa fase le richieste delle donne acquisirono un carattere più compiu­ to e generale, spaziando dall’autonomia nella sfera sessuale a quella del­ la realizzazione professionale. Furono in particolare i movimenti anglosassoni dell’inizio del XX secolo, come VUnione sociale e politica delle donne di Emmeline Pankhurst (—>), a mettere in moto un meccanismo che, dopo la Prima Guerra mondiale, con il suo massiccio impiego di manodopera femminile nell’industria bellica al posto degli uomini in­ viati al fronte, portò in molti Paesi alla concessione del diritto di voto al­ le donne. In Gran Bretagna questo avvenne nel 1918 (e in modo comple­ to dieci anni dopo), mentre tra il 1919 ed il 1920 si arrivò a riconoscere tale diritto in Austria, nella Germania di Weimar, nei Paesi Bassi, in Lussemburgo e negli Stati Uniti. Se nel periodo fra le due guerre il movimento suffragista e femmi­ nista conobbe per molti versi una contrazione, poiché con l’avvento dei regimi totalitari furono pesantemente ristabiliti i ruoli familiari tradizionali, nondimeno la lunga battaglia condotta dalle femministe tra XIX e XX secolo non andò del tutto persa. Oltre al diritto di voto, infatti, le donne ottennero alcuni significativi miglioramenti nel cam­ po delle politiche assistenziali (per esempio a vantaggio delle madri nubili o povere) e, più in generale, si assistette a una graduale ridefini­ zione dei ruoli all’interno della famiglia e delle vecchie divisioni fra pubblico e privato.

Le grandi problematiche dell'Ottocento

1.7 Dalla politica come decisione alla politica come mediazione Nell’epoca degli Stati assoluti europei, il sovrano, titolare esclusivo del potere politico, non doveva cercare una legittimazione al proprio potere in quanto si riteneva che gli derivasse direttamente dalla volon­ tà divina; non esisteva, d’altronde, una «società civile» (—>-) come sog­ getto autonomo col quale lo Stato dovesse confrontarsi. Senza dover tener conto di corpi e interessi distinti e particolari, il sovrano assoluto esercitava il suo potere svincolato da qualsiasi interferenza, ponendosi come legittimo interprete degli interessi del suo popolo. 11 sovrano era legibus solutus: la sua azione, cioè, si poneva al di sopra delle leggi e la produzione del diritto dipendeva da lui. Ciò significava altresì che il suo potere era completamente sottratto al controllo di quei gruppi so­ ciali e professionali (ceti, corporazioni) che erano andati formandosi dal Medioevo in poi. In tale contesto il governo, ossia l’organo deputato alla gestione della sfera pubblica e politica, si identificava col re e coi suoi ministri e colla­ boratori, senza alcun vincolo rispetto ad altri soggetti o istituzioni. Le funzioni e l’ampiezza di tale organo cambiarono nel corso dei secoli ma, per tutta la durata deWAncien Régime, rimase invariato il rapporto fra il governo e il sovrano. I ministri dovevano godere dell’esclusiva fiducia del re, che li poteva nominare e revocare a suo piacimento. La decisione politica era intesa come un atto quotidiano, programmato e prevedibile il cui solo artefice e responsabile era il sovrano assoluto che, tutt’al più, poteva servirsi della consulenza dei propri ministri e suddividerne le competenze (politica finanziaria, affari esteri ecc.) quando la comples­ sità degli affari dello Stato lo richiedeva. La fine dei regimi assoluti, innescata dalla Rivoluzione francese e, dopo la Restaurazione del 1815, accelerata dai moti del 1848, comportò una radicale trasformazione non solo nel rapporto fra il sovrano e l’isti­ tuto governativo ma anche nel modo di intendere e formulare il proces­ so della decisione politica. I mutamenti economici e sociali dovuti all’in­ dustrializzazione, le aspirazioni che erano state alla base della «Prima­ vera dei popoli» (cap. 1.3), il consolidarsi delle ideologie politiche furono tutti fattori che portarono alla graduale affermazione del civis, il cittadi­ no, come perno della comunità politica. In sostanza, nel corso della pri­ ma metà del XIX secolo si avviarono dei processi che condussero la so­ cietà civile a porsi come soggetto autonomo interlocutore del sovrano nella gestione dello spazio politico. Il costituzionalismo ottocentesco scaturì infatti in una fase in cui le trasformazioni economico-sociali sta­ vano portando alla diffusione dei principi del liberalismo e alla rivendi­ cazione di un diritto di «critica» e di partecipazione alle decisioni politi­ che le quali, di conseguenza, non potevano più restare appannaggio esclusivo dei monarchi. In Gran Bretagna, dove questo processo ebbe inizio già alla fine del XVII secolo, i protagonisti della Glorious Revolution del 1688-89 (—>-), che rivendicavano «gli antichi diritti e le antiche libertà», vollero mette­ re il Parlamento al centro del sistema: luogo eletto dove il sovrano, la

Potere assoluto del sovrano

Il governo del re

Affermazione della «sodetà ovile» come interlocutore del sovrano

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Storia contemporanea

nobiltà e la borghesia interagivano per la gestione dello spazio politico. Quella Rivoluzione «gloriosa», che non fu un atto di rottura traumatica come la Rivoluzione francese del 1789, intendeva infatti difendere la tradizione storica dell’organizzazione del potere che, nel corso dei se­ coli, aveva visto affermarsi presso la società inglese il riconoscimento dei diritti e delle libertà. Anche se inizialmente la Gloriosa Rivoluzio­ ne diede vita a una forma di governo costituzionale puro, dove la titola­ rità del potere esecutivo restava nelle mani del sovrano, la formula del King in Pariiament King in Pariiament faceva del re il primo rappresentante della Corona in Parlamento, consacrando di fatto il principio rappresentativo. In so­ stanza, il Parlamento, dove il sovrano interagiva costantemente con la nobiltà e coi rappresentanti del popolo inglese, diventava il custode e l’interprete della tradizione politica britannica, nonché il titolare unico della decisione politica. La nascita del costituzionalismo moderno, così come si venne profi­ Nascita del costituzionalismo lando in Gran Bretagna già nel corso del XVIII secolo, implicò due im­ moderno portanti cambiamenti nel modo di intendere e organizzare il potere po­ litico. Da un lato, il sistema costituzional-parlamentare poneva dei vin­ coli al potere del sovrano, che non poteva più essere assoluto e svincolato dalle leggi ma doveva essere gestito all’interno del Parlamen­ to; la formula del King in Pariiament faceva sì che il re fosse assoggetta­ to alla legge e nel caso si fosse rifiutato di sottoporvisi sarebbe stato pri­ Limitazione vato dei suoi poteri. Il principio della divisione dei poteri, teorizzato dai dell'autorità filosofi illuministi e soprattutto da Montesquieu, fu il necessario corol­ del sovrano e divisione lario della limitazione dell’autorità del sovrano; questi, infatti, non pote­ dei poteri va intervenire nell’amministrazione della giustizia e doveva riconoscere piena libertà ai rappresentanti politici. La nascita del costituzionalismo parlamentare portò anche - soprat­ tutto nella seconda metà del XIX secolo in concomitanza con l’avvento dei primi partiti politici - alla definizione del Parlamento non più solo come organo che doveva limitare il potere del re, ma anche come luogo in cui la decisione politica doveva scaturire dalla mediazione fra le di­ Discussione verse parti e i diversi interessi. La decisione politica, in altre parole, di­ e mediazione ventava il frutto della discussione e della mediazione fra i vari gruppi tra le parti presenti in Parlamento, i quali a loro volta erano rappresentativi degli interessi e dei gruppi presenti nella società civile. La formula, anche Government questa coniata in Gran Bretagna, del government by discussion, affer­ by discussion mando il carattere aperto e plurale della decisione politica frutto della mediazione quotidiana tra interessi spesso antagonisti, fu alla base di molti dei sistemi liberal-parlamentari ottocenteschi. Mentre dunque negli Stati deWAncien Régime il potere del sovrano era assoluto e indistinto e la società civile non aveva alcuna legittimazio­ ne a intervenire nella decisione politica, le trasformazioni in atto duran­ te l’Ottocento cambiarono radicalmente il modo di gestire e organizza­ re lo spazio pubblico. Una società sempre più complessa e differenziata che rivendicava le proprie libertà e i propri interessi non potè più essere esclusa dalla sfera della decisione politica; al tempo stesso questa socie­ tà, percorsa da fratture sia economiche sia sociali, finì per produrre cor­ pi politici distinti, quelli che col tempo si sarebbero trasformati nei mo­ Centralità del Parlamento nel sistema britannico

Le grandi problematiche dell'Ottocento

derni partiti, i quali resero necessario fare della politica un processo di mediazione, e non più solo un atto unilaterale di decisione. Nonostante le differenze che caratterizzarono in Europa e nel Nord America la nascita dei sistemi costituzional-parlamentari ottocente­ schi, i fenomeni che abbiamo brevemente tracciato furono comuni, con tempi e modi diversi, a tutti i Paesi. Attraverso la separazione dei pote­ ri e la centralità del Parlamento si ponevano le basi della sovranità po­ polare e, progressivamente, della politica come mediazione e discussio­ ne. In nome dell’unità dello Stato, infatti, il Parlamento aveva il compi­ to di tradurre la pluralità delle opinioni e degli interessi in un’unica decisione legittimata non solo dalla maggioranza ma, per il modo con cui era stata ottenuta, anche dalle minoranze. In questo modo il Parla­ mento, grazie al confronto tra opinioni diverse, diventava teoricamente il luogo di espressione della volontà nazionale. Volontà che si manife­ stava, però, attraverso una rappresentanza politica non soggetta al mandato imperativo; in altre parole, i deputati non erano vincolati alle richieste degli elettori, in quanto il loro compito era quello di «rappre­ sentare», appunto, il potere popolare nel suo complesso indirizzandolo al bene superiore del Paese. Questo modo di intendere la rappresentanza della nazione spiega an­ che, in parte, come mai, fino alla seconda metà del XIX secolo, le classi dirigenti abbiano contrastato la nascita dei partiti politici. Questi, infat­ ti, per lungo tempo furono giudicati corpi intermedi, non dissimili dai modelli presenti nel detestato Ancien Régime, pronti a interferire inde­ bitamente in un rapporto, quello tra cittadino e Stato, che invece, stando agli insegnamenti della Rivoluzione francese, doveva essere diretto e sottratto a qualsiasi forma di mediazione. La sostanziale omogeneità, sociale e culturale, delle élite politiche europee e il suffragio ristretto fe­ cero sì che, nel corso dell’Ottocento, i vari Parlamenti fossero espressio­ ne di domande politiche relativamente circoscritte e provenienti da gruppi sociali uniformi. Come vedremo, lo Stato liberale entrò in crisi proprio quando non riuscì più a garantire l’omogeneità politica dei rap­ presentanti e, di conseguenza, a escludere dalle istituzioni il conflitto ve­ ro e proprio. I progressivi allargamenti del suffragio elettorale, la nasci­ ta dei partiti socialisti, a cui fece seguito anche la creazione di formazio­ ni politiche strutturate da parte dei liberali, portarono ad estendere lo spazio della decisione politica, e dunque del conflitto, fino a un punto tale che i vecchi strumenti della mediazione e del government by discussion non furono più sufficienti a gestirlo e controllarlo.

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Volontà nazionale e rappresentanza politica

Politicizzazione della società e crisi dello Stato liberale

2.1 L'Inghilterra vittoriana e la trasformazione del sistema politico negli anni di Gladstone e Disraeli 2.2 La Francia dal Secondo Impero alla Terza Repubblica 2.3 La Germania: la costruzione dell'Impero e le sue fasi 2.4 L'Impero asburgico 2.5 L'Italia: l'unificazione da Cavour alla caduta di Crispi 2.6 La Spagna: un sistema parlamentare solo apparente 2.7 La Russia: un sistema autocratico 2.8 I Paesi scandinavi nell'Ottocento 2.9 L'Impero ottomano

Il modello britannico

Liberali e conservatori

Capitolo 2

Le trasformazioni dell'Europa

2.1 L'Inghilterra vittoriana e la trasformazione del sistema politico negli anni di Gladstone e Disraeli Durante l’Ottocento gli Stati europei guardarono al sistema politico­ istituzionale della Gran Bretagna come a un vero e proprio modello. A partire, infatti, dalla Glorious Revolution del 1688-89, la Gran Bretagna si era avviata sulla strada del costituzionalismo liberale e, diversamente da quanto sarebbe successo sul continente un secolo dopo con la Rivo­ luzione francese, aveva affrontato in modo abbastanza lineare e non traumatico il passaggio a un sistema politico fondato sulla sovranità del­ la nazione e del Parlamento. Forte di una balance istituzionale fondata sulla monarchia, l’aristocrazia e la rappresentanza popolare, la Gran Bretagna continuò a essere vista nel corso del XIX come un esempio di sistema politico regolare e solido. Dal punto di vista istituzionale, il potere legislativo era detenuto da due Camere: una elettiva, la Camera dei Comuni, che riuniva i rappre­ sentanti delle diverse comunità della nazione e l’altra, la Camera dei Lord, a cui avevano accesso membri dell’aristocrazia e della Chiesa anglicana che tramandavano il titolo per via ereditaria e quelli di no­ mina regia. Sebbene in origine il re fosse titolare del potere esecutivo, la prassi istituzionale finì per limitare sempre di più i poteri politici ef­ fettivi della Corona e instaurare, soprattutto a partire dalla grande ri­ forma elettorale del 1867, un rapporto fiduciario tra Parlamento e go­ verno. Il primo ministro, infatti, sarebbe dovuto emergere dai ranghi del partito che vinceva le elezioni. I due partiti storici erano i Whigs e i Tories, da cui nel corso del XIX secolo ebbero origine il Partito libe­ rale e quello conservatore. Tra gli anni Sessanta e Settanta dell’O tto­ cento liberali e conservatori cominciarono a dotarsi di strutture orga­ nizzative stabili e a carattere nazionale, che operavano anche fuori dai periodi elettorali.

Le trasformazioni dell'Europa

Lungi dall’essere un sistema compiutamente democratico, quello in­ glese della prima metà dell’Ottocento si fondava su un’estensione limi­ tata del suffragio e la Camera elettiva era espressione solo delle classi medie e medio-alte. La legge del 1832, il cosiddetto First Reform Act (—►) aveva infatti garantito il diritto di voto solo a un maschio adulto su 5. Fu con la nuova legge elettorale del 1867, il Second Reform Act (->-), varata dal governo conservatore di Benjamin Disraeli (—>■), che il corpo elettorale aumentò di quasi un milione di uomini, in quanto il diritto di voto veniva concesso non solo ai proprietari di beni mobili e immobili, ma anche a chi, nei centri urbani, pagava un affitto. Il siste­ ma elettorale rimase invece sempre lo stesso: maggioritario a turno unico. Se da un lato questo tipo di scrutinio evidenziava le radici me­ dievali e corporative del sistema politico inglese, secondo cui erano i corpi sociali, ovvero borghi, contee e università, a eleggere i rappresen­ tanti, dall’altro esso favorì col tempo il radicamento di un sistema ten­ denzialmente bipartitico. La forza della Costituzione britannica - secondo la classica interpre­ tazione di Walter Bagehot (-*-), autore del volume The English Constitution (1867) - era data dalla presenza di un perfetto bilanciamento tra elementi tradizionali e rituali del sistema politico (la dignified part), rappresentati dalla monarchia e dalla Camera dei Lord, ed elementi ra­ zionali e pratici (la efficient part), costituiti dal governo di gabinetto e dalla Camera dei Comuni. I primi, richiamandosi alla tradizione, servi­ vano a dare stabilità e continuità alle istituzioni; i secondi erano invece i garanti dell’efficienza e della funzionalità del sistema e ne permettevano l’adeguamento alle trasformazioni socio-economiche in atto. A partire soprattutto dagli anni Settanta dell’Ottocento, contribuì molto al conso­ lidamento del sistema liberal-parlamentare e alla creazione di una soli­ da identità nazionale del popolo inglese la figura della sovrana, la regina Vittoria (—>■). Madre della nazione e matriarca dell’Impero, custode della tradizione, creatrice di una nuova «monarchia popolare» in sinto­ nia coi sentimenti e la cultura delle classi borghesi, Vittoria regnò dal 1837 al 1901, dando il suo nome a un’intera epoca. Pur non rinunciando a un ruolo da protagonista nella vita politica, Vittoria accettò di fatto la crescente centralità del sistema partitico, riuscendo così a re-inventare l’immagine della monarchia in senso più moderno e conforme agli svi­ luppi del sistema parlamentare. Un’immagine nei cui valori tutti gli in­ glesi potevano riconoscersi e dai quali traevano la garanzia che i tumul­ tuosi cambiamenti politico-sociali di quegli anni non avrebbero alterato le fondamenta della tradizione britannica. A diffondere sul continente l’immagine dell’Inghilterra come di un Paese relativamente stabile e pacificato contribuì anche la notevole cre­ scita economica che il Paese conobbe per gran parte dell’Ottocento. Grazie all’ampliamento dei commerci e alla massiccia industrializzazio­ ne (a metà del secolo forniva circa i due terzi del carbone e la metà del ferro della produzione globale), con una rete ferroviaria tra le più svi­ luppate e la più grande flotta mercantile, l’Inghilterra vittoriana era il centro commerciale e finanziario a cui facevano capo le principali atti­ vità economiche del pianeta. Dal punto di vista sociale, questo sviluppo

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Disraeli e l'allargamento del diritto di voto

Bilanciamento istituzionale tra dignifiedpart ed effidentpart

La regina Vittoria e la nuova immagine della monarchia

Forte crescita economica

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Storia contemporanea

economico strepitoso portò al consolidamento della classe media. Per la Gran Bretagna, più ancora che per il resto d’Europa, il XIX secolo può essere infatti definito, con un po’ di approssimazione, il «secolo della borghesia». Gruppo sociale estremamente composito che includeva sia le élite economiche e colte, sia figure sociali di più basso livello, come artigiani, piccoli proprietari terrieri e commercianti, la borghesia, anche se non costituiva ancora la maggioranza della popolazione, riuscì a im­ porre progressivamente la propria cultura e il proprio stile di vita al re­ La morale borghese sto della società. I valori fondamentali dell’etica borghese, come l’auste­ rità, l’inclinazione al risparmio, il rispetto dell’autorità del capofamiglia, la subordinazione della donna, il decoro della famiglia, cominciarono infatti a permeare pian piano il resto della popolazione. Anche la classe lavoratrice, che conobbe nella seconda metà dell’Ottocento un discreto miglioramento del proprio tenore di vita, iniziò a fare propri i compor­ tamenti e i valori della «rispettabilità» borghese. Dal punto di vista politico l’incontrastata egemonia moderata del Palmerston e la golden age whig lord Henry John T. Palmerston (—>-) rappresentò, tra gli anni Cin­ vittoriana quanta e Sessanta, il culmine della golden age vittoriana e della supre­ mazia economica e culturale del modello britannico nel mondo. Con la morte di Palmerston, nel 1865, il conflitto politico riprese vigore, con­ centrandosi soprattutto sulla questione dell’estensione del suffragio. In seguito alle elezioni del 1868, le prime a suffragio allargato dopo la ri­ forma elettorale dell’anno precedente, il governo andò al leader del Par­ Le riforme di Gladstone tito liberale, William E. Gladstone (—>) che rimase in carica fino al 1874. Il suo esecutivo, nel 1872, abolì il voto palese e, con VEducation Act, migliorò il funzionamento dell’istruzione pubblica ridimensionan­ do anche il peso della Chiesa anglicana nelle scuole. Fu riformata l’am­ ministrazione pubblica con l’introduzione del reclutamento mediante concorsi e la rimozione delle barriere all’avanzamento in base al merito e nell’esercito fu proibita la compravendita delle cariche e dei gradi. Da La questione irlandese sempre attento alle rivendicazioni dell’Irlanda che, a causa della mag­ gioranza della popolazione di religione cattolica, aveva sviluppato un forte movimento nazionalista fautore dell’autonomia irlandese dal resto del Regno Unito, Gladstone cercò la via della conciliazione eliminando i privilegi della Chiesa anglicana in Irlanda e, con VIrish Land Act del 1870, migliorò le condizioni dei fittavoli. Nonostante tali misure, però, alle elezioni del 1874 ben 59 delle circoscrizioni irlandesi elessero rap­ presentanti del partito nazionalista, favorevole alla creazione di un Par­ lamento irlandese autonomo. Le riforme di Disraeli Usciti vittoriosi dalla tornata elettorale del 1874, i conservatori di Di­ sraeli non interruppero la strada delle riforme inaugurata dal Partito li­ berale. Nei sei anni successivi, infatti, il governo conservatore varò una serie di riforme sociali riguardanti la salute pubblica, la casa, le sofisti­ cazioni alimentari, l’istruzione e l’attività sindacale, eliminando alcune delle restrizioni al diritto di sciopero per le Trade Unions. Questa sta­ gione di riformismo, che diede origine al conservatorismo popolare in­ glese gettando le basi del moderno Partito conservatore, si accompagnò Politica coloniale ad un forte attivismo in politica estera. Disraeli infatti promosse la poli­ tica coloniale britannica, in particolare il consolidamento dei possessi Affermazione della borghesia

Le trasformazioni dell'Europa

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indiani (e a tale scopo, nel 1876, proclamò Vittoria imperatrice delle In­ die), e cercò di assicurare alla Gran Bretagna un ruolo più attivo nella gestione degli affari europei. Al Congresso di Berlino del 1878, seguito alla guerra russo-turca, riuscì a ottenere per la Gran Bretagna, che pure era rimasta neutrale, l’isola di Cipro, considerata dal primo ministro la «chiave per il Mediterraneo». Nel frattempo Gladstone manteneva sal­ damente il controllo del Partito liberale, benché fosse emersa la stella di Joseph Chamberlain (—►), dinamico leader radicale, ex sindaco di Bir­ mingham e fondatore nel 1877 della National Liberal Federation (—►). Per evitare la contrapposizione fra l’ala moderata del partito e i radicali guidati da Chamberlain, Gladstone giocò la carta dell’opposizione fron­ tale alla politica estera filoturca di Disraeli, accusandola di essere av­ ventata e arrogante e in contrasto coi sentimenti morali e religiosi del popolo inglese. La campagna {Bulgarian Agitation) culminò in un trion­ fale successo del Partito liberale alle elezioni del 1880. A capo di un nuovo esecutivo molto più diviso in fazioni del suo pre­ Vittoria liberale cedente governo, Gladstone, nonostante i propositi della campagna elet­ e proseguimento torale, non potè rovesciare completamente la politica estera del suo pre­ della politica decessore e il suo indirizzo imperialistico. Nel 1882, per esempio, avviò imperialista l’occupazione dell’Egitto, che nominalmente dipendeva ancora dall’Im­ pero ottomano ma, per via dello strategico canale di Suez, era già finito sotto l’influenza di Francia e Gran Bretagna. In politica interna pro­ mosse, nel 1884, il Third Reform Act (-*-), legge elettorale che fece sali­ re il numero degli elettori da 3,1 a 5,7 milioni, estendendo ai lavoratori agricoli i criteri stabiliti dalla legge elettorale del 1867 per gli abitanti delle città; l’anno successivo una nuova legge stabilì una più equa distri­ buzione delle circoscrizioni elettorali. Le leggi del 1884-85 furono però l’ultimo atto del Partito liberale di Gladstone, che fino a quel momento si era retto sulla combinazione tra whigs moderati, liberali e radicali fa­ centi capo a Chamberlain. La decisione del primo ministro, nel gennaio La legge per YHome 1886, di promuovere una legge per YHome Ride (autogoverno) irlandese Rule irlandese spezzò infatti per sempre l’unità dei liberali inglesi. Gladstone, con la e la scissione decisione di istituire un Parlamento autonomo a Dublino lasciando però del Partito liberale a quello di Londra il controllo della difesa, della politica estera e delle finanze, tentava di soddisfare le aspirazioni autonomistiche dell’Irlanda, mettere fine alle azioni terroristiche del movimento feniano (—>-), l’ala estremistica e repubblicana del nazionalismo irlandese, ed elimina­ re la crescente ingovernabilità della Camera dei Comuni, salvaguardan­ do così l’unione del regno e la pace interna. Ma l’opposizione di 93 libe­ rali, in gran parte moderati, e di alcuni radicali tra cui Chamberlain, fe­ ce naufragare il disegno di legge e mise in minoranza il governo. Gladstone si dimise e il suo partito conobbe uno scisma definitivo. Gli oppositori del YHome Rute, guidati da Chamberlain, andarono infatti a costituire il Partito liberale unionista, che col tempo si sarebbe progres­ sivamente avvicinato al Partito conservatore fino a esserne assorbito del tutto dopo la Prima Guerra mondiale. La crisi del 1886 ebbe conseguenze durature nella storia politica britannica. Lasciò il Partito liberale più piccolo e meno ricco, ma al tempo stesso più compatto e radicale, nonostante il leader della fran-

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Egemonia del Partito conservatore

Storia contemporanea

già radicale, Chamberlain, assolutamente contrario all’autonomia ir­ landese, non ne facesse più parte. Inoltre l’apporto del gruppo unioni­ sta consentì al Partito conservatore di proseguire sulla strada iniziata da Disraeli, una strada che combinava riformismo sociale, nazionali­ smo e politica imperialistica. Il Partito liberale, seccamente sconfitto alle elezioni del 1886, rimase quasi ininterrottamente per vent’anni (tranne la breve parentesi del 1892-95) lontano dal governo. Soffiando sul fuoco del patriottismo e dell’unità del regno contro il pericolo della «disintegrazione», i conservatori, guidati dal 1886 da Lord Salisbury (—>■), si assicurarono infatti una lunga fase di egemonia politica, che sarebbe durata fino al 1905. 2.2 La Francia dal Secondo Impero alla Terza Repubblica La Seconda Repubblica francese, nata dai moti del 1848, ebbe il de­ stino segnato dall’elezione quasi plebiscitaria alla presidenza della Re­ pubblica di Luigi Napoleone Bonaparte, candidato dell’area conserva­ trice, che tuttavia godeva di ampi consensi anche negli strati più popola­ ri della popolazione francese.

OCEANO ATLANTICO

REGNO DEI.

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L’EUROPA TRA REAZIONE E PROGRESSO (1815-1848) _| Monarchia assoluta Monarchia costituzionale

| Monarchia parlamentare Repubblica

Anno della Costituzione Moti insurrezionali nazionali o liberali

Le trasformazioni dell'Europa

Nel luglio 1851, Luigi Napoleone cercò di far approvare dall’Assem­ blea nazionale un progetto di revisione costituzionale che gli avrebbe consentito di ricandidarsi, nonostante la Costituzione stabilisse la non rieleggibilità consecutiva del presidente. Di fronte al rifiuto dell’Assem­ blea, Napoleone fece occupare dall’esercito, nella notte del 1° dicembre 1851, la capitale francese e la sede del Parlamento; il successivo 21 di­ cembre chiese ai cittadini francesi di sanzionare con un plebiscito (—►) la sua condotta. Il voto, a suffragio universale maschile, fu una vittoria schiacciante per il presidente che, con 7 milioni di sì e poco meno di 500.000 no, ottenne anche i poteri per redigere una nuova Costituzione. Promulgata nel gennaio successivo, allungava a dieci anni la durata in carica del presidente, confermava il suffragio universale maschile diret­ to, ma soprattutto toglieva alla Camera l’iniziativa legislativa, trasferen­ dola nelle mani del presidente e di una nuova seconda Camera, un Sena­ to di nomina presidenziale. Privato in questo modo di ogni potere effettivo, il sistema repubbli­ cano venne abbattuto anche dal punto di vista formale, il 7 novembre 1852, quando una modifica alla Costituzione reintegrò la dignità impe­ riale e la attribuì allo stesso Luigi Napoleone; il nuovo imperatore as­ sunse il nome di Napoleone III e nel dicembre dello stesso anno chiamò i francesi a ratificare, con un nuovo plebiscito, il ritorno dell’Impero in Francia. L’evento ebbe una portata decisiva anche per i caratteri politici nuovi che immediatamente assunse il regime; si trattava infatti di una nuova forma di governo per la quale Marx coniò il termine di «bonapar­ tismo» ( ^ -). Essa si esprimeva in una dittatura più o meno velata che univa elementi di modernità a forme politiche arcaiche e conservatrici. Da una parte, infatti, rimase in vigore il suffragio universale diretto, uti­ lizzato per l’appello al popolo mediante i plebisciti; dall’altro però Na­ poleone III volle recuperare alcuni elementi tipici delle forme autorita­ rie d'Ancien Régime, come il mito dell’Impero e l’assoluto centralismo decisionale. Il regime istituito da Napoleone III si poneva dunque a me­ tà strada tra il paternalismo e l’autoritarismo; oltre al sostegno dei con­ tadini, a cui aveva garantito la conservazione della proprietà terriera, determinante in un contesto dove circa la metà della popolazione era ancora impiegata nell’agricoltura, l’imperatore cercò anche di ottenere l’appoggio della borghesia urbana e degli imprenditori, grazie alla cre­ scita delle attività legate al settore bancario e agli imponenti investimen­ ti in opere pubbliche. In politica interna, dunque, Napoleone III si sforzò di cercare una sintesi tra impulsi di novità e ritorno agli antichi fasti imperiali, con l’obiettivo costante di impedire il ritorno dei fermenti politici del pas­ sato e di legittimare l’Impero come il solo regime in grado di assicurare pace e prosperità. In politica estera, invece, il suo punto di riferimento rimaneva la condotta aggressiva del suo predecessore Napoleone I e, volendo riaffermare lo status di Parigi come massima potenza conti­ nentale, operò fin da subito per rivedere il sistema uscito dal Congres­ so di Vienna, fortemente penalizzante per la Francia. La prima occa­ sione per applicare questo rinnovato protagonismo francese in campo internazionale fu il riesplodere della «questione d’Oriente» con

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Il plebisdto in favore di Luigi Napoleone

Il Secondo Impero: Napoleone III

Il «bonapartismo»

Politica estera aggressiva

La «questione d'Oriente»

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La guerra di Crimea

La sconfitta della Russia e la Conferenza di Parigi

L'alleanza col Regno di Sardegna

La guerra franco-piemontese contro l'Austria

Il voltafaccia di Napoleone III

Storia contemporanea

il tentativo russo di espandersi nel Mar Nero e nei Balcani sfruttando la crisi delPImpero ottomano. Napoleone III, interessato a ristabilire un’area di influenza francese nel Mediterraneo, non esitò a scendere in guerra accanto alla Gran Bretagna contro i russi nella guerra di Cri­ mea. Nell’estate del 1854 iniziò l’assedio della fortezza russa di Seba­ stopoli da parte dell’esercito anglo-francese al quale, dopo l’accordo tra il regno sabaudo e la Francia, si aggiunsero anche truppe piemonte­ si. Dopo la caduta di Sebastopoli, la Conferenza di pace di Parigi del febbraio 1856 sancì il fallimento delle pretese egemoniche della Russia sul Mar Nero. La sconfitta della Russia fu resa ancor più umiliante dal fatto che l’Impero asburgico, nonostante i patti sottoscritti e l’aiuto de­ cisivo che San Pietroburgo aveva assicurato a Vienna nel 1849, non era intervenuto in suo favore. Dalla Conferenza di Parigi scaturì un sistema internazionale decisa­ mente modificato rispetto a quello messo a punto al Congresso di Vien­ na, facendo emergere accanto alla potenza britannica quella della Fran­ cia, a discapito degli Imperi asburgico e russo. Da subito Napoleone III operò per estendere il ruolo egemonico del suo Paese sul continente, po­ nendosi a sostegno dei movimenti nazionali che contestavano l’ordine della Restaurazione. Fu in quest’ottica, quindi, che la Francia siglò l’al­ leanza del 1858 col Regno di Sardegna; gli accordi di Plombières, stipu­ lati tra Napoleone III e il presidente del Consiglio del regno sabaudo Camillo Benso conte di Cavour (—►), stabilivano infatti che, nel caso di un conflitto con Vienna, la Francia, in cambio del sostegno al Regno di Sardegna, avrebbe ottenuto Nizza e la Savoia e che, attraverso un princi­ pe della sua casata, Napoleone si sarebbe assicurato il controllo sull’Ita­ lia centrale, dove comunque sarebbe rimasto inviolato lo Stato pontifi­ cio. La guerra vittoriosa condotta l’anno successivo dalle truppe franco­ piemontesi contro l’Austria, che avrebbe portato, come vedremo, all’unificazione dell’Italia, ebbe tuttavia un esito molto diverso da quel­ lo auspicato all’inizio da Napoleone. Questi, infatti, aveva sperato di su­ bentrare all’Impero asburgico come potenza egemone sul territorio ita­ liano; tuttavia, di fronte alle prime pesanti sconfitte subite dagli austria­ ci a opera dell’esercito franco-piemontese, che legittimavano i Savoia come promotori dell’unificazione della penisola in un unico Stato, deci­ se di ritirarsi unilateralmente dal conflitto e siglò, a Villafranca presso Verona, l’armistizio con l’Austria l’i l luglio 1859. Il repentino voltafaccia dell’imperatore nei confronti dei Savoia fu determinato da un intreccio di ragioni di politica interna ed estera. Da un lato, gli alti costi della guerra indebolirono l’immagine dell’impera­ tore presso i francesi; dall’altro, la prospettiva dell’unificazione italiana sotto il Regno di Sardegna non solo metteva in discussione i disegni espansionistici della Francia, ma rischiava di alienare a Napoleone il so­ stegno di quell’area cattolico-conservatrice che vedeva messe in perico­ lo le sorti dello Stato pontificio dal processo di unificazione della peni­ sola italiana. Di fronte, quindi, all’indebolimento dei consensi verso il suo regime e alle spinte contrastanti che stavano attraversando l’Impe­ ro, dove tra l’altro anche le forze liberali e repubblicane avevano rialzato la testa, Napoleone III, bisognoso di una nuova legittimazione, mise in

Le trasformazioni dell'Europa

atto un piano di riforme in senso liberale che portò, nel 1869, alla modi­ fica della Costituzione. La nuova forma istituzionale abbandonava la struttura accentrata dell’Impero e, con l’introduzione del principio della responsabilità ministeriale verso il Parlamento, riproponeva gli elemen­ ti propri di un sistema rappresentativo; fu la fase del cosiddetto «Impero liberale». Questa svolta in senso liberale incontrò la ferma opposizione di monarchici e conservatori, ma non furono questi a mettere in crisi l’Impero. Furono invece le mai sopite ambizioni egemoniche di Napoleo­ ne III, che finirono per entrare in conflitto col percorso di unificazione nazionale avviato in quegli anni dalla Prussia. Lo scontro tra Francia e Prussia ebbe origine per una contesa ester­ na che riguardava la successione al trono di Spagna. Nel 1868, infatti, in seguito a un alzamiento da parte dell’esercito, la casa spagnola dei Bor­ bone fu dichiarata decaduta e la regina Isabella II (—*■) fu costretta a lasciare il trono. In quell’occasione fu presentata, tra le possibili candi­ dature, quella di Leopoldo di Hohenzollern, appartenente alla stessa casata del re di Prussia. Napoleone III, timoroso di un possibile ac­ cerchiamento del territorio francese da parte della casata tedesca, si af­ frettò a chiedere ai prussiani l’immediato ritiro della candidatura. La ri­ sposta negativa del re di Prussia, volutamente manipolata e resa pubbli­ ca dal cancelliere prussiano Otto von Bismarck (—*-) al fine di renderla inaccettabile all’imperatore e ai francesi, indusse Napoleone III a di­ chiarare guerra alla Prussia il 19 luglio 1870. Nonostante gran parte dell’opinione pubblica francese fosse galva­ nizzata da sentimenti nazionalistici e antitedeschi, la guerra si rivelò ro­ vinosa per l’esercito di Napoleone, che fin da subito mostrò di essere in­ feriore a quello prussiano per capacità logistiche e addestrative. Il 1° set­ tembre 1870, con metà dell’esercito assediato presso Metz e l’altra metà pesantemente sconfitto a Sedan (dove lo stesso imperatore venne fatto prigioniero), la Francia fu costretta ad arrendersi. A Parigi, cinta d’asse­ dio dalle forze prussiane, venne proclamata la Repubblica e creato un governo provvisorio di difesa nazionale che cercò di far fronte alle drammatiche urgenze del momento. Dopo una serie di ulteriori sconfit­ te, il governo provvisorio chiese l’armistizio che venne firmato nel gen­ naio del 1871; la pace di Francoforte, siglata il 10 maggio successivo, pre­ vedeva una pesante indennità economica e la perdita delle regioni fran­ cesi dell’Alsazia e della Lorena. L’invasione del Paese e la perdita di una parte del suo territorio furono vissute dalla Francia come una gravissi­ ma umiliazione che avrebbe segnato i rapporti con il neonato Impero te­ desco per molti decenni a venire. Proprio nel corso del negoziato per la pace, la Francia si trovò a fron­ teggiare una nuova drammatica crisi interna, dovuta al riemergere di una frattura che in realtà non si era mai sanata dopo i fatti del 1848: quella tra le sue componenti rivoluzionarie, presenti soprattutto a Parigi e nei centri urbani, e le variegate forze conservatrici, maggioritarie so­ prattutto nelle campagne. Tale frattura emerse fin dalle elezioni per la nuova Assemblea nazionale, svoltesi nel febbraio del 1871 e fortemente volute da Bismarck affinché non fosse un organo del decaduto Impero a controfirmare l’armistizio. Grazie soprattutto al voto delle campagne, la

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Le riforme istituzionali

Conflitto tra Franca e Prussia

Superiorità prussiana

Assedio di Parigi e governo provvisorio

Le condizioni della pace di Francoforte

Crisi interna

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Vittoria elettorale dei conservatori

La Comune di Parigi

La violenta repressione e la fine dell'esperimento comunardo

La Terza Repubblica

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nuova Assemblea vide eletti in maggioranza conservatori e monarchici di varie tendenze. Alla guida del governo fu chiamato Adolphe Thiers (—►), un ultramoderato con una lunga carriera politica alle spalle, il quale si trovò subito nella difficile situazione di dover sottoscrivere una pace umiliante coi tedeschi. Quando furono rese note le condizioni im­ poste da Bismarck, che prevedevano tra l’altro l’ingresso delle truppe te­ desche nella capitale, il popolo parigino insorse e costituì la Guardia na­ zionale, un esercito volontario intenzionato a provvedere autonoma­ mente alla difesa della città. Alla richiesta di Thiers di deporre le armi, la Guardia nazionale si rifiutò e indisse le elezioni per il Consiglio della Comune, un organo di autogoverno popolare il cui nome evocava l’esperienza della Comune giacobina del 1793-94. Indette per il 28 marzo 1871 e caratterizzate dall’astensione dell’elettorato conservatore, le elezioni videro il trionfo dell’estrema sinistra socialista e anarchica. In poche settimane il go­ verno della Comune (—»-) si tramutò nel più grande esperimento di de­ mocrazia diretta e autogoverno operaio dell’epoca, tanto che lo stesso Marx e Michail Bakunin ( ^ - ) , uno dei padri fondatori dell’anarchi­ smo moderno, lo salutarono come il primo esempio di gestione sociali­ sta del potere. Ben presto, però, fu chiaro che l’appello della Comune a tutte le libere città di Francia affinché si unissero alla sua lotta, non trovava largo seguito. La Francia profonda, quella delle campagne e dei centri urbani lontani dalla capitale, aveva già espresso il suo punto di vista alle elezioni di febbraio e aveva scelto di dare alla neonata Re­ pubblica un volto moderato. Facendo leva su questo isolamento, quin­ di, nel maggio 1871 le truppe governative, con l’avallo dei prussiani che temevano l’esplodere di una nuova fiammata rivoluzionaria in Francia, sferrarono l’attacco decisivo ai comunardi e ripresero il con­ trollo di Parigi. Con la repressione della Comune, che avvenne al prez­ zo di grandi violenze e atrocità da entrambe le parti, il movimento ri­ voluzionario francese subiva una seconda e definitiva battuta d’arresto dopo quella del 1848. Nel medio periodo, comunque, l’esperimento della Comune parigina produsse un effetto politico decisivo nell’opi­ nione pubblica europea; provocò infatti la definitiva separazione delle prospettive democratiche da quelle liberali, che invece nei moti del 1848 sembravano ancora intrecciate e destinate a fondersi nella lotta comune contro il conservatorismo. La nuova Repubblica francese, la Terza, nasceva con una marcata ipoteca conservatrice ma, pur in assenza di veri e propri partiti, conob­ be uno sviluppo della sociabilità politica (club, associazioni, logge) del tutto peculiare nell’Europa dell’epoca. La Terza Repubblica si avviava quindi a sperimentare la propria precaria legittimazione dinanzi alle pressioni di una destra ultranazionalista e reazionaria nella quale si univano il tradizionalismo cattolico, il desiderio di rivincita nei con­ fronti della Germania (il cosiddetto revanchismè) e l’aspirazione a ri­ pristinare la forma istituzionale monarchica. Accanto a essa vi era un composito schieramento che, pur essendo accomunato dalla volontà di difendere il sistema repubblicano e la memoria della Rivoluzione del 1789, era assai diviso al proprio interno.

Le trasformazioni dell'Europa

In tale contesto, mentre la ripresa economica del Paese fu abbastan­ za rapida, tanto che il pagamento delle riparazioni alla Germania ter­ minò con qualche mese di anticipo rispetto alla scadenza, il processo di stabilizzazione politica fu lento e travagliato. Nel 1873, infatti, la giova­ ne Repubblica subì una prima contestazione con l’elezione alla presi­ denza del generale Maurice de Mac Mahon (—►), fautore di una restau­ razione monarchica. Questi, con una legge del novembre 1873, si fece immediatamente conferire il potere esecutivo per sette anni. Mentre tuttavia Mac Mahon cercava di imporre, sotto le spoglie repubblicane, un ritorno della monarchia, le istituzioni repubblicane vennero formalizzate dalle tre leggi costituzionali approvate, con difficoltà, nel 1875. Brevi ed essenziali, queste leggi stabilivano che la Francia diventasse una Repubblica parlamentare con un presidente da eleggersi a maggio­ ranza assoluta dall’Assemblea nazionale (->-). I confini tra regime di tipo parlamentare e presidenziale rimanevano però incerti: se da un la­ to, infatti, il profilo parlamentare era garantito dalla presenza di due Camere col potere di controllo sul governo, dall’altro, al presidente ve­ niva riconosciuta la facoltà di sciogliere la Camera elettiva, sentito il parere del Senato. Mac Mahon cercò di rafforzare il peso politico del presidente, dap­ prima imponendo la sua volontà nella formazione del governo e in se­ guito, nel maggio 1877, chiedendo e ottenendo dal Senato l’autorizzazio­ ne allo scioglimento della Camera dei deputati, che contestava l’inter­ pretazione presidenzialista della Costituzione. Convocati i comizi elettorali, Mac Mahon spostò il conflitto dal terreno parlamentare a quello popolare. Le elezioni, però, sancirono la sconfitta dei progetti del presidente, consegnando 323 seggi ai repubblicani e 208 alle destre. Mac Mahon, vistosi negare dal Senato un nuovo decreto di scioglimento del­ la Camera appena eletta, si dimise il 30 gennaio 1879. Da quel momento il potere di scioglimento della Camera da parte del presidente della Re­ pubblica cadde in disuso e 1’impianto della Terza Repubblica assunse una chiara fisionomia parlamentare. Messa da parte ogni incertezza sulla natura dell’ordinamento istitu­ zionale, la guida della Francia passò quindi definitivamente nelle mani della classe politica liberale. Forti della vittoria su Mac Mahon ma an­ che consapevoli delle forti culture politiche ostili alle nuove istituzioni, i liberali si affrettarono a diffondere, attraverso lo strumento della scuola laica, la loro cultura repubblicana e i loro simboli. La Marsigliese (—►) divenne infatti l’inno nazionale francese e il 14 luglio, giorno della presa della Bastiglia ad opera dei rivoluzionari nel 1789, fu proclamato festa nazionale. Gli anni compresi fra il 1879 e il 1885 furono il periodo di grande fioritura della legislazione repubblicana; dal potenziamento dell’istruzione, estesa anche alle donne, al rinnovamento delle strutture amministrative (come nel caso della legge del 1882 che rese elettivi i sindaci da parte dei consigli comunali), i repubblicani riuscirono ad ammo­ dernare importanti settori della vita pubblica francese. Nonostante que­ sto sforzo riformatore, però, l’ampio utilizzo della prassi trasformistica da parte della classe di governo, finalizzata a cercare mediazioni con le aree progressiste e moderate, non solo valse ai repubblicani l’appellativo

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I tentativi di restaurazione di Mac Mahon

L'affermazione della repubblica parlamentare

La legislazione repubblicana

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Crisi di consenso dei repubblicani e ascesa di Boulanger

Fine dell'avventura boulangista e nascita del Parti ouvrier

di «opportunisti» (—►), ma incrementò l’insoddisfazione nei confronti della classe di governo, spesso al centro di scandali e di episodi di corru­ zione, finendo per innescare una nuova grave crisi. Protagonista ne fu il generale Georges Boulanger (-+ ), uomo am­ bizioso e dalle straordinarie doti comunicative, che dal 1886 era mini­ stro della Guerra su incarico del leader radicale Georges Clemenceau (—»-). I primi atti di Boulanger furono volti a modernizzare le struttu­ re dell’esercito, ma ben presto non esitò a proporsi come simbolo del mai sopito desiderio di rivincita rispetto alla Germania, sfidando su questo fronte lo stesso governo repubblicano. Forte del sostegno di uno schieramento ampio e trasversale, che comprendeva le forze della destra nazionalista e antirepubblicana ma anche frange dell’estrema sinistra e di quanti erano animati da sentimenti antitedeschi, Boulan­ ger si lanciò in politica riportando la vittoria in diverse elezioni sup­ pletive. Nonostante questi successi, tuttavia, non arrivò fino al punto di mettersi a capo di un colpo di stato delle destre, permettendo così allo schieramento repubblicano di mobilitarsi con un grande dispiega­ mento di forze. Furono coinvolte nella propaganda anti-boulangista le varie leghe per i Diritti dell’uomo e del cittadino e il governo varò una nuova legge elettorale fortemente penalizzante per l’eterogenea coali­ zione boulangista. Nel 1889 Boulanger, nel frattempo rifugiatosi in Belgio, fu dichiarato ineleggibile dal momento che il Senato, riunito in Alta Corte, lo aveva condannato in contumacia con l’accusa di atten­ tato alla sicurezza della Repubblica. A sanzionare la fine definitiva dell’avventura boulangista e del sogno di rivincita della destra monar­ chica, le elezioni dell’autunno 1889 decretarono la vittoria dello schie­ ramento repubblicano di centro e una crescita della sinistra radicale e socialista. Quattro anni dopo il gruppo socialista, riunito attorno alla leadership di Jules Guesde (—>-), dava vita al Parti ouvrier frangais, primo partito organizzato su base moderna che comparve sulla scena politica francese. 2.3 La Germania: la costruzione dell'Impero e le sue fasi

Le spinte verso l'unificazione nazionale tedesca

Lo Zollverein e il decollo industriale ed economico

Dopo il Congresso di Vienna la storia tedesca fu caratterizzata da spinte verso l’unificazione nazionale che si articolarono attorno a tre grandi direttrici: il Regno di Prussia, l’Impero asburgico e la Confedera­ zione germanica comprendente, oltre a Prussia e Austria, che la presie­ deva, altri 37 Stati. Se le aspirazioni all’unificazione erano state frustra­ te dal Congresso del 1815, durante la prima metà dell’Ottocento gli Sta­ ti della Confederazione avevano concentrato la loro attenzione sul potenziamento dell’economia, seguendo gli insegnamenti dell’economi­ sta Friedrich List (—>-), teorico di una sorta di nazionalismo economico. Si arrivò così, a partire dal 1818, allo Zollverein, ovvero a una Unione doganale il cui pieno compimento, raggiunto nella prima metà degli an­ ni Trenta, permise la nascita di un fiorente mercato interno senza bar­ riere economiche, che fu alla base del decollo industriale dei Paesi della Confederazione. La protezione dell’economia nazionale veniva inoltre

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garantita da dazi doganali verso l’esterno, che servivano a bloccare la competizione coi prodotti stranieri. Sul piano politico, i tentativi di realizzare il sogno dell’unificazione conobbero due momenti di particolare intensità: i moti del 1848, che sembrarono portare verso la costruzione di uno Stato «piccolo tedesco» con l’esclusione dell’Austria e degli Asburgo; successivamente, nel 1850, fu il re di Prussia Federico Guglielmo IV a cercare di promuovere l’uni­ Il tentativo di Federico ficazione mediante un libero accordo tra alcuni Stati tedeschi. Il proget­ Guglielmo IV to mise però in allarme l’Austria e la Russia che imposero a Federico Guglielmo IV, attraverso la Dichiarazione di Olmiitz, la fedeltà alla Confederazione creata nel 1815. Alla morte del sovrano, nel 1861, salì sul trono di Prussia Guglielmo I (—>). Questi cercò fin da subito di dare corpo all’immagine di una grande potenza prussiana ed entrò in conflit­ to con le forze liberali del Parlamento su una progettata riforma dell’esercito che avrebbe richiesto un forte stanziamento. Nel 1862 Gu­ Guglielmo I e il governo glielmo I chiamò come primo ministro Otto von Bismarck, che risolse Bismarck drasticamente il conflitto sul bilancio per il rafforzamento militare scio­ gliendo la Camera e governando senza l’approvazione parlamentare del­ le spese di bilancio. A suo avviso, di fronte al conflitto tra re e Parla­ mento doveva prevalere sempre la decisione della Corona. Forte di que­ sta determinazione, pur nella consapevolezza di porsi al di fuori della Costituzione che prevedeva l’avallo del Parlamento per ogni provvedi­ mento di spesa pubblica, varò la riforma dell’esercito voluta dal re. Aiutato da una fitta rete di accordi e grazie alla nuova potente mac­ Le guerre di Bismarck china bellica da lui creata, Bismarck portò avanti, tra il 1864 e il 1871, tre grandi campagne militari al cui termine si realizzò l’unità della Ger­ mania sotto l’egida del militarismo prussiano e al riparo dalle aspirazio­ ni ideali del liberalismo. Dopo la guerra del 1864 che aveva strappato al­ la Danimarca i ducati di Schleswig e Holstein, Bismarck mosse guerra all’Austria per dirimere la contesa sul controllo dei ducati stessi. Per la Prussia si trattava dell’occasione storica per risolvere definitivamente l’annosa competizione con gli Asburgo. Lo scontro era stato preparato con cura da Bismarck, che aveva stretto un’alleanza con l’Italia e si era al contempo garantito la neutralità di Russia e Francia, che vedevano nel conflitto un possibile indebolimento delle due più importanti casate dell’Europa centrale. Da parte sua, l’Austria poteva contare solo sull’al­ leanza di alcuni Stati della Confederazione, soprattutto quelli del sud che temevano le mire egemoniche della Prussia. La guerra, iniziata nel giugno del 1866, fu rapida; nel giro di tre settimane, l’indiscussa supre­ La sconfitta dell'Austria mazia militare della Prussia fece crollare l’esercito austriaco, sconfitto definitivamente nella battaglia di Sadowa. Fu proprio grazie all’adozio­ ne di tattiche e armamenti moderni, all’impeccabile addestramento dei soldati e al sapiente uso della rete ferroviaria per garantire rapidi movi­ menti alle proprie truppe che la Prussia riuscì a travolgere il meno mobi­ le esercito austriaco. Le conseguenze della vittoria si ebbero soprattutto in campo politi­ Le conseguenze co. L’Austria fu costretta a cedere il Veneto all’Italia, che pure non ave­ per l'Impero asburgico va dato buona prova di sé nel breve conflitto, ma soprattutto dovette ri­ vedere il suo ruolo all’interno del vasto Impero asburgico, lasciando

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La Confederazione tedesca del Nord

Il conflitto con la Francia

Le pesanti condizioni di pace

La nascita del Reich tedesco

La struttura federale dell'Impero

Il ruolo del Parlamento e dei partiti

spazio, come vedremo, alla componente magiara. Dal canto suo, la Prussia non avanzò richieste territoriali, ma riuscì definitivamente a mettere fine alla Confederazione e all’influenza degli Asburgo sugli Stati tedeschi. Mentre gli Stati del sud, come la Baviera, più omogenei all’Austria per tradizioni e confessione religiosa, quella cattolica, rima­ nevano indipendenti, quelli del nord diedero vita nel 1867 alla Confe­ derazione tedesca del Nord, sotto il controllo della Prussia. La vittoria sull’Austria ebbe conseguenze importanti anche nella politica interna prussiana. Il tripudio per quella che sembrava la realizzazione del vec­ chio sogno di unità nazionale portò infatti alla soluzione del conflitto costituzionale. Il Parlamento approvò, con effetto retroattivo, i bilanci statali degli anni precedenti. Vincitore sull’Impero asburgico, a Guglielmo I rimaneva solo da sconfiggere l’altro grande rivale che poteva contendere alla Prussia la supremazia sull’Europa centro-occidentale: Napoleone III. L’occasione per un confronto militare con l’imperatore francese si presentò nel 1870 in occasione dell’improvvisa vacanza del trono di Spagna (cap. 2.2). A n­ cora una volta l’efficienza dell’esercito prussiano dimostrò la sua supe­ riorità e la Francia fu irreparabilmente sconfitta a Sedan, con la conse­ guente caduta del Secondo Impero di Napoleone III. Le condizioni sta­ bilite dai prussiani furono particolarmente dure. Non solo la Francia perdeva due province, l’Alsazia e la Lorena, poste al confine coi territo­ ri tedeschi e doveva versare un’alta quota di riparazioni di guerra, ma fu anche costretta a subire l’onta di ospitare nella storica reggia di Versail­ les la cerimonia di incoronazione di Guglielmo I a Kaiser, ovvero impe­ ratore, di Germania. A Versailles venne infatti proclamata la nascita del Reich tedesco su tutti i territori germanici, compresi quelli degli Stati del sud. Questi ultimi, di fronte a un trionfo di così grandi proporzioni, misero fine ad ogni resistenza verso il progetto bismarckiano ed entra­ rono a far parte del nuovo Stato unitario tedesco. L’Impero si diede una struttura federale accentrata. Il Parlamento era composto da due Camere, una elettiva, il Reichstag, eletta a suffra­ gio universale maschile per godere della massima legittimazione popo­ lare, e il Bundesrat, ovvero la Camera federale formata dalle rappresen­ tanze dei governi dei diversi Stati tedeschi in numero proporzionale alla loro estensione, il che garantiva alla Prussia, che occupava una vasta parte del territorio dell’Impero, la maggioranza relativa al suo interno. Il governo del Reich rimaneva formalmente nelle mani dell’imperatore ed era esercitato da un cancelliere che non doveva rispondere al Parla­ mento del proprio operato; il governo non possedeva una struttura col­ legiale, ma ciascun ministro dipendeva direttamente dall’imperatore. Per rafforzare ulteriormente il ruolo della Prussia nelle strutture impe­ riali, Bismarck decise di far coincidere la carica di cancelliere con quella di primo ministro prussiano, senza tuttavia che questo venisse formal­ mente scritto nella Costituzione. Nonostante il sistema politico imperiale non avesse riservato un ruo­ lo di primo piano al Parlamento, per Bismarck erano ugualmente im­ portanti il confronto e il riferimento a una maggioranza politica coesa. Cercò quindi, fin dai primi anni, di ottenere dai partiti che sedevano al

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Reichstag una chiara legittimazione per la sua politica e lo fece distin­ guendo tra i partiti che, nella sua ottica, dovevano essere reichstreue, ov­ vero fedeli all’Impero, e i partiti reichsfeindliche, ovvero nemici dell’Im­ pero. Se il consenso gli venne garantito dalle aree conservatrici, quelle raccolte intorno al partito dei nazional-conservatori e al partito dei na­ zional-liberali che insieme formavano il cosiddetto «blocco bismarckiano», il cancelliere, nei primi anni dell’Impero, individuò un pericoloso nemico nel partito cattolico, il Zentrum; si trattava di una formazione politica che aveva mosso i primi passi in Prussia già alla fine degli anni Cinquanta e si era costituita ufficialmente in partito, sotto la presidenza di Ludwig Windhorst (—►), nel dicembre del 1870. A partire dal 1873, Bismarck attuò contro il Zentrum una dura politica che prese il nome di Kulturkampf letteralmente una «lotta di civiltà» contro quello che il cancelliere bollò come l’oscurantismo dei cattolici di fronte alla grande tradizione culturale tedesca di matrice luterana. La battaglia contro i cattolici aveva inizialmente posto in secondo piano un altro avversario che stava crescendo all’interno dell’Impero: il Partito socialista operaio tedesco, fondato al Congresso di Gotha del 1875 (cap. 1.5). In quell’occasione il partito di ispirazione marxista costi­ tuitosi nel 1869 ad opera di August Bebel ( ^ - ) e Wilhelm Liebknecht (—►) si era unito all’Associazione generale dei lavoratori tedeschi fon­ data nel 1863 da Ferdinand Lassalle (-»-), punto di riferimento di uno statalismo riformista e collettivista. Nel successivo Congresso di Erfurt del 1891, il Partito socialista operaio tedesco assunse definitivamente il nome di Partito socialdemocratico tedesco (SPD). Di fronte al consenso che il neonato Partito socialista sembrava ri­ scontrare nelle file operaie, nell’ottobre del 1878 Bismarck ottenne dal Parlamento l’approvazione di una legge eccezionale volta a colpire i so­ cialisti, che da questo momento diventarono il nuovo «nemico interno» del Reich. Nello stesso tempo, infatti, l’ostilità di Bismarck verso i catto­ lici si era andata progressivamente attenuando fino a scomparire del tut­ to e a coinvolgere il Zentrum, in più d’una occasione, a fianco dei cosid­ detti «partiti amici» dell’Impero, a sostegno della sua politica. L’avvio delle leggi antisocialiste fu accompagnato dall’introduzione di una mo­ derna legislazione sociale che contemplava assicurazioni contro le ma­ lattie, gli infortuni e l’invalidità e un sistema pensionistico per la vec­ chiaia. L’obiettivo del cancelliere era di sconfiggere la socialdemocrazia su un doppio fronte: da un lato impedendone l’azione e la propaganda, attraverso le leggi repressive, dall’altro sottraendole i consensi di una classe operaia in costante crescita che, grazie alla legislazione sociale, Bismarck sperava di integrare nelle strutture dell’Impero. Tuttavia, esattamente come era successo con il Zentrum, uscito rafforzato dagli anni del Kulturkampf, anche l’SPD non venne indebolita dalla strategia di Bismarck e anzi uscì, dopo oltre quindici anni di persecuzioni, più forte di prima. Le leggi antisocialiste, infatti, avevano costretto il partito a dotarsi di una ferrea e capillare organizzazione e alle elezioni del 1890 riuscì a far eleggere ben 35 deputati al Reichstag.

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il contrasto tra il «blocco bismarckiano» e il Zentrum cattolico

La nascita del Partito socialdemocratico tedesco

Le leggi antisocialiste eia legislazione sociale di Bismarck

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I BALCANI DOPO IL CONGRESSO DI BERLINO (1878)

o

Confine dell’Impero ottomano (1830-1878) Rivolte antiturche del 1875-1876

1

[----- Stati indipendenti l------1dal 1878 pn Bulgaria indipendente I l dal 1885

PCT] Impero ottomano L li-J nel 1885



IM PERO RUSSO

i m p Ér o

Au s t r o ­ u n g a r i c o :ridion; (alla Russia) 1878)

ROMANIA (amministrazione' v austriaca 1878),..

Dobrugia

(indipemlcnte 1878) • Bucarest-*

SERBIA (indipendente 187$)

MARNERÒ

BULGARIA O (autonoma 1878) (indipendente 18.85}'--ìa

■' Rumelia orientale iO

(autonoma 187^alla Bulgaria,-! 885)

Macedonia

•Smirne

MAR MEDITERRANEO

La politica estera di Bismarck

Il Patto dei tre imperatori

Cipro (alla G ranS Bretagna 1878)

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Negli anni del suo cancellierato Bismarck svolse anche un’importan­ te azione sul terreno della politica estera. Placate le ambizioni espansio­ nistiche prussiane con la costruzione dell’Impero, il disegno di alleanze che Bismarck costruì a partire dal 1870 fu volto esclusivamente a conso­ lidare lo spazio geografico e politico del Reich tedesco e a fare della Germania il pilastro del nuovo equilibrio europeo. Il mantenimento del­ lo status quo in Europa significava in primo luogo, per Bismarck, garan­ tirsi dai sogni di revanche (rivincita) della Francia costruendo una rete di alleanze che, in caso di conflitto franco-tedesco, assicurasse alla Ger­ mania la neutralità delle potenze sul suo confine orientale. Fu così che nel 1873 il cancelliere tedesco promosse, con Austria e Russia, il Patto dei tre imperatori, un’alleanza fondata sulla difesa reciproca che acco­ munava i tre grandi Imperi europei nel disegno di conservazione perse­ guito dalla Germania.

Le trasformazioni dell'Europa

La bandiera di custode dell’equilibrio europeo fu nuovamente assun­ ta da Bismarck, su sollecitazione britannica, nel 1878 quando convocò a Berlino un Congresso internazionale con l’obiettivo di ridimensionare gli spazi che lo zar di Russia aveva conquistato in seguito al conflitto con l’Impero ottomano del 1877. La guerra aveva avuto inizio per l’osti­ lità che la Russia, da sempre schieratasi a difesa dei popoli slavi, aveva dimostrato contro le dure repressioni perpetrate nel 1875-76 dal governo ottomano sulle popolazioni balcaniche. Sconfitti rapidamente i turchi, lo zar aveva ottenuto di consolidare la sua presenza nei Balcani con la pace di Santo Stefano del 1877, ma la nuova egemonia russa su questi territori collideva col disegno di equilibrio perseguito dalle altre poten­ ze europee. Al Congresso di Berlino, pertanto, la Germania, pur non vantando ambizioni espansionistiche, svolse l’importante ruolo di ga­ rante dell’ordine geopolitico europeo; la mediazione di Bismarck, infat­ ti, ridimensionò le pretese russe e avvantaggiò nell’area balcanica le po­ sizioni dell’Austria, a cui venne affidata temporaneamente l’ammini­ strazione della Bosnia e dell’Erzegovina. Da parte sua la Gran Bretagna, grazie all’assegnazione dell’isola di Cipro, potè rafforzare il primato sui mari e il controllo sul Mediterraneo orientale. Alla Francia, che Bi­ smarck intendeva distogliere dal teatro europeo, il Congresso concesse mano libera per un’eventuale conquista coloniale in Tunisia. Grazie alla sapiente gestione del Congresso di Berlino, Bismarck era riuscito a ribadire il ruolo centrale della Germania nell’Europa conti­ nentale, ma al tempo stesso le decisioni prese avevano finito per incrina­ re i rapporti con Austria e Russia, la cui rivalità per il controllo della pe­ nisola balcanica si era enormemente accentuata di fronte al declino inarrestabile dellTmpero ottomano. Nel 1881 il cancelliere riuscì ugual­ mente a sottoscrivere un rinnovo del Patto dei tre imperatori, riveden­ done le clausole e stabilendo una mediazione circa le aree di influenza all’interno dei Balcani. Tuttavia, consapevole della fragilità di tale ac­ cordo, già all’indomani del Congresso di Berlino aveva siglato un’alle­ anza segreta con l’Impero asburgico a cui, nel 1882, si aggiunse anche l’Italia. Con la firma della Triplice Alleanza (—»-) l’Italia, come vedre­ mo, usciva dal suo isolamento diplomatico e aderiva alla rete costituita dai due imperi dell’Europa centrale. Tra il 1885 e il 1886, tuttavia, nuovi contrasti nell’area balcanica misero definitivamente fine al Patto dei tre imperatori e Bismarck, temendo che venisse meno la neutralità della Russia nel caso di un conflitto europeo, si affrettò a stringere un accor­ do segreto con lo zar. Con il cosiddetto Patto di contrassicurazione, si­ glato nel 1887, la Russia si impegnava a non intervenire in un eventuale conflitto franco-tedesco, mentre la Germania garantiva la sua neutralità in caso di guerra austro-russa. In tal modo Bismarck riuscì a proseguire la strategia dell’isolamento della Francia, allontanando il pericolo di una sua alleanza con la Russia, che avrebbe messo lTmpero tedesco in una pericolosa situazione di accerchiamento. Questa complessa strategia, finalizzata ad assicurare lo status quo in Europa e a fare della Germania il perno degli equilibri continentali, venne tuttavia pericolosamente abbandonata dal nuovo imperatore te­ desco Guglielmo II (-*-), che salì al trono nel 1888. La sua volontà di

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La Germania come custode dell'equilibrio europeo

L'espansione russa nei Balcani e il Congresso di Berlino

La rivalità tra Austria e Russia

La Triplice Alleanza

Il Patto di contrassicurazione con la Russia

Il nuovo imperatore Guglielmo II

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Le dimissioni del «cancelliere di ferro»

Storia contemporanea

imprimere un «nuovo corso», più ambizioso e aggressivo, alla politica estera tedesca e il fallimento delle leggi antisocialiste di Bismarck, reso evidente dal successo elettorale dell’SPD nel 1890, costrinsero, nel mar­ zo di quell’anno, il «cancelliere di ferro» alle dimissioni. 2.4 L'Impero asburgico

L'instabilità dell'Impero asburgico

Le spinte autonomistiche

La nuova classe dei contadini

Il Concordato con la Chiesa

La sconfitta contro i prussiani

La perdita del Veneto

L’Impero asburgico aveva superato la traumatica temperie del bien­ nio 1848-49 solo grazie alla sua solida struttura burocratico-militare. L’instabilità causata dai moti che avevano attraversato tutto il suo ampio territorio multinazionale aveva comunque lasciato un senso di insicu­ rezza e provvisorietà nella classe dirigente asburgica. Dal punto di vista istituzionale la riorganizzazione procedette lungo il binario del vecchio assolutismo. La Costituzione concessa nel 1849, e mai applicata, venne revocata nel 1851 e solo dieci anni dopo si diede il via libera a un organi­ smo rappresentativo bicamerale, con poteri però molto limitati. Il nodo irrisolto dell’Impero, tuttavia, rimaneva sempre la sua natura multina­ zionale, che non trovava soluzione nella centralizzazione amministrati­ va e produceva, viceversa, sentimenti autonomistici sempre più forti da parte delle varie etnie. La casa d’Asburgo, indebolita non solo dalle spinte autonomistiche dei diversi gruppi nazionali, ma anche dal malcontento di una parte dell’ari­ stocrazia terriera, che in passato aveva rappresentato uno dei pilastri delPImpero e ora contestava l’abolizione della servitù della gleba, potè ot­ tenere una nuova legittimazione proprio dalla classe dei contadini. Questi infatti, affrancatisi dalla servitù, avevano potuto creare quella piccola proprietà contadina che, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, si trasformò in uno dei principali pilastri delPImpero. Il clero divenne il secondo grande alleato degli Asburgo, grazie al Concordato stipulato nel 1855 tra la casa imperiale e la Santa Sede. Centralismo burocratico, contadini e Chiesa costituivano quindi le fondamenta su cui poggiava l’edificio dell’Impero di Francesco Giuseppe (->-); ma fu proprio questa miscela conservatrice a soffocare le aspettative e le iniziative della borghesia più attiva. Alla fi­ ne, infatti, l’Impero perse il suo appuntamento con lo sviluppo economico e industriale e non avviò con rapidità le necessarie riforme in ambito so­ ciale, anche se la capitale Vienna rimase una feconda fucina in campo culturale ed artistico fino all’inizio del XX secolo. Altrettanto precaria si rivelò la nuova posizione internazionale della casa d’Asburgo nel momento in cui la Prussia, sotto la guida del re Gu­ glielmo I e del primo ministro Bismarck, decise di rimettere mano al progetto di costruzione di uno Stato nazionale delle popolazioni di lin­ gua tedesca. L’Impero asburgico costituì infatti il primo ostacolo che la Prussia dovette affrontare nel suo cammino verso l’unificazione nazio­ nale. La grave sconfitta subita ad opera dei prussiani nella guerra del 1866 per il controllo dei ducati danesi rappresentò per gli Asburgo un grave smacco. Con la pace di Praga, infatti, l’Impero perdeva il Veneto, che passava al Regno d’Italia, e accettava sostanzialmente la cessazione di ogni forma di influenza asburgica sull’Europa centrale.

Le trasformazioni dell'Europa

Questa sconfitta e la creazione di nuovi equilibri nel centro d’Euro­ pa accelerarono il processo che condusse al cosiddetto compromesso del 1867 e alla relativa Costituzione con cui si dava vita alla «duplice monar­ chia» austro-ungherese. Austria e Ungheria ottenevano ciascuna un Parlamento e un governo autonomi, ma restavano unite nella figura dell’imperatore che, assumendo il titolo di imperatore d’Austria e re d’Ungheria, avocava a sé la politica estera, di difesa e quella finanziaria. Accanto alla lingua tedesca, quella ungherese diveniva il secondo idio­ ma ufficiale. La scelta di Francesco Giuseppe fu dettata dalla necessità di spostare il baricentro dell’influenza austriaca verso est, dopo la scon­ fitta contro la Prussia, e dall’esigenza di trovare un accordo con la com­ ponente nazionale più forte e più pericolosa per la stabilità imperiale, quella magiara. Il compromesso del 1867, efficace nel breve periodo, contribuì però a far crescere le reazioni di malcontento da parte delle al­ tre minoranze dell’Impero, in particolare di quella slava che si era vista negare la dimensione nazionale autonoma concessa invece agli unghe­ resi. E difatti, negli anni successivi, i maggiori segnali di tensione, che avrebbero messo in crisi definitivamente il fragile Impero austro-unga­ rico, arrivarono proprio dalle nazionalità slave.

La «duplice monarchia» austro-ungherese

Il malcontento della minoranza slava

2.5 L'Italia: l'unificazione da Cavour alla caduta di Crispi Nella penisola italiana il fallimento dei moti del 1848-49 segnò an­ cora una volta il ritorno sui troni dei legittimi sovrani e il ritiro di qualsiasi progetto di riforma istituzionale. Unica eccezione in questo senso fu il Piemonte sabaudo, dove lo Statuto Albertino rimase in vi­ gore per volontà del nuovo sovrano Vittorio Emanuele II anche dopo la fine della fase rivoluzionaria (cap. 1.3). A partire dal 1850 all’inter­ no del governo piemontese cominciò ad affermarsi la figura del conte di Cavour, un liberale assertore del parlamentarismo e della necessità di modernizzazione economico-politica del Regno di Sardegna. No­ minato presidente del Consiglio nel 1852, Cavour, prima ancora di en­ trare in carica, promosse un accordo parlamentare tra la componente più avanzata della maggioranza moderata, da lui stesso guidata, e l’ala più moderata della sinistra parlamentare, capeggiata da Urbano Rattazzi (—*■). Si delineò così, nel Parlamento subalpino, il cosiddetto «connubio» grazie al quale le forze estreme, i clericali ultraconserva­ tori da un lato e i democratici dall’altro, venivano messe ai margini dell’attività politico-governativa e Cavour poteva così formare un go­ verno appoggiato da un’ampia maggioranza di centro. Al tempo stes­ so Cavour operò al fine di consolidare un’interpretazione in senso parlamentare dello Statuto Albertino. A differenza di quanto sarebbe occorso in Germania, dove prevalse un sistema di monarchia costitu­ zionale pura in cui l’esecutivo dipendeva esclusivamente dalla volontà del sovrano, nel regno sabaudo, pur tra mille resistenze, andava raf­ forzandosi un sistema che si può definire di monarchia costituzionale parlamentare dove, cioè, le sorti del governo dipendevano dalla volon­ tà del Parlamento.

Vittorio Emanuele II e lo Statuto Albertino

Il Conte di Cavour e il «connubio»

Il consolidamento del sistema parlamentare

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La modernizzazione del regno sabaudo

Mazzini e i fermenti rivoluzionari repubblicani

La nascita della Società nazionale

L'alleanza tra Francia e Regno di Sardegna

La guerra contro l'Austria

Storia contemporanea

Nei primi anni del suo governo, Cavour non mostrò particolare inte­ resse per i progetti di unificazione della penisola italiana, convinto, in ogni caso, che qualsiasi azione in questo senso dovesse avvenire in ma­ niera graduale, sotto la guida di un regime monarchico-costituzionale in grado di scongiurare pericolose pulsioni rivoluzionarie. Si impegnò quindi soprattutto in un’opera di accelerata modernizzazione economi­ ca del Piemonte sabaudo, su basi liberoscambiste e con un occhio di ri­ guardo alle grandi opere pubbliche e allo sviluppo agricolo e industria­ le. In occasione della Conferenza di pace di Parigi del 1856, dove Ca­ vour rappresentò il Piemonte tra le potenze vincitrici della guerra di Crimea, venne posto il problema dell’indipendenza della penisola italia­ na tra le grandi questioni internazionali da discutere. L’idea iniziale di Cavour di allargare i confini del Piemonte a scapito dell’Austria si in­ contrò in quella fase con le mire espansionistiche della Francia di Napo­ leone III (cap. 2.2). Ma oltre all’appoggio dell’imperatore francese, in vi' sta di un eventuale attacco allo status quo difeso dall’Austria, Cavour aveva anche bisogno di controllare e sottomettere i fermenti patriottici di stampo rivoluzionario mai del tutto sopiti dopo il 1849. Accanto all’ala moderata del movimento risorgimentale, infatti, con­ tinuava ad essere presente quella democratica rappresentata dalla stra­ tegia di Giuseppe Mazzini, secondo il quale si sarebbe ottenuta l’unità d’Italia solo con un moto insurrezionale repubblicano e nel quadro di un complessivo rivolgimento rivoluzionario. Di fronte, tuttavia, ai continui fallimenti dei tentativi di sollevazione guidati da quest’ultimo nei primi anni Cinquanta e alla dura repressione messa in atto dagli austriaci nei confronti delle organizzazioni mazziniane in Lombardia, cominciò a farsi strada anche fra i democratici un consistente nucleo di patrioti filo­ sabaudi. Fondamentale fu la nascita, nel 1857, della Società nazionale, fondata dal veneziano Daniele Manin allo scopo di operare per la causa dell’unificazione nazionale in sinergia col governo costituzionale sabau­ do. Alla proposta di Manin aderirono molti autorevoli rappresentanti dell’emigrazione democratica, tra cui Giuseppe Garibaldi rientrato in Italia dopo un lungo periodo trascorso in America Latina. Il Regno di Sardegna cominciava dunque ad apparire ai patrioti ita­ liani come la sola carta vincente per il progetto di unificazione, la sola alternativa possibile, cioè, dinanzi al ripetuto fallimento della strategia insurrezionale repubblicana. Da ultimo, il fallito attentato alla vita di Napoleone III, nel gennaio 1858, da parte del mazziniano Felice Orsi­ ni {-+ ) aveva gettato ulteriore discredito sul movimento democratico e accelerato l’avvicinamento della Francia al Piemonte di Cavour allo scopo di favorire una soluzione rapida e moderata dei problemi italia­ ni. Gli accordi di Plombières siglati nel luglio 1858 (cap. 2.2) prevede­ vano la cessione alla Francia dei territori transalpini di Nizza e della Savoia e la divisione della penisola italiana in tre Stati: il nord sotto il controllo sabaudo, il centro formato da Toscana e province pontificie e quello meridionale liberato dal controllo borbonico. Affinché l’allean­ za con la Francia diventasse operativa era però necessaria un’aggres­ sione da parte dell’Austria e Cavour riuscì abilmente a ottenerla con manovre militari al confine tra Piemonte e Lombardia e con la fornitu­

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ra di armi ai corpi volontari dei Cacciatori delle Alpi guidati da Gari­ baldi. L’ultimatum di Vienna giunse il 23 aprile 1859; Cavour lo respin­ se e si aprirono le ostilità. Dopo le prime importanti vittorie ottenute dai franco-piemontesi, a Solferino e San Martino, Napoleone III decise di firmare, nel luglio del 1859 a Villafranca, l’armistizio con l’Austria senza consultare l’al­ Il voltafaccia leato sabaudo. L’accordo stabiliva il passaggio della Lombardia alla di Napoleone III Francia che l’avrebbe poi passata al Piemonte. Oltre ai fattori di politi­ ca interna, ciò che aveva indotto l’imperatore francese al repentino voltafaccia fu la situazione che si stava profilando nel resto della peni­ sola italiana, dove una serie di insurrezioni avevano costretto alla fuga i vecchi sovrani e, di fatto, stavano vanificando l’ipotesi di un’Italia di­ visa in tre Stati così come previsto dagli accordi di Plombières. Nel Le insurrezioni marzo 1860, le popolazioni di Emilia, Romagna e Toscana, chiamate a nella penisola italiana esprimersi attraverso un plebiscito sul futuro assetto dei loro territori, e i plebisciti si pronunciarono a larga maggioranza per la soluzione unitaria sotto il controllo del Piemonte. Due mesi prima Cavour aveva negoziato la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia in cambio dell’assicura­ zione dell’imperatore che non si sarebbe intromesso su quanto stava avvenendo all’interno della penisola. Mentre, dunque, il regno sabaudo si stava trasformando in un vero e L'iniziativa proprio Stato nazionale, riprese vigore l’iniziativa dei democratici-maz­ democratico­ ziniani che sollecitarono l’intervento di Garibaldi a sostegno di un’in­ mazziniana surrezione antiborbonica che intendevano far scoppiare in Sicilia. Una e Garibaldi spedizione di un migliaio di garibaldini partì da Quarto il 5 maggio 1860, senza il sostegno aperto ma anche senza l’opposizione del Piemon­ te. Il rapido successo della spedizione dei Mille (—>-), che consentì a Ga­ La spedizione dei Mille ribaldi di controllare tutta l’isola e di risalire velocemente la penisola fi­ nell'Italia meridionale no a Napoli, dove giunse all’inizio di settembre, colse di sorpresa anche Cavour, il quale si mobilitò immediatamente con due precisi obiettivi. Da un lato, sostenere il movimento nazionale in corso nell’Italia meri­ dionale e dall’altro impedire eventuali velleità di ulteriori avanzate dei garibaldini. Il governo piemontese decise quindi di inviare l’esercito nel­ lo Stato pontificio, dove sconfisse le truppe pontificie a Castelfidardo. Alla testa delle sue truppe Vittorio Emanuele II raggiunse Garibaldi nei pressi di Teano nell’ottobre 1860. Nel frattempo erano stati indetti i Le annessioni al regno plebisciti in tutte le province meridionali, nelle Marche e in Umbria; sabaudo ovunque la popolazione, con amplissima maggioranza, decretò l’annes­ sione al regno sabaudo. Il 17 marzo 1861 il primo Parlamento nazionale, eletto con la legge Nascita del Regno elettorale vigente nel Regno di Sardegna, proclamò Vittorio Emanuele d'Italia II re d’Italia; si concludeva così la prima fase del Risorgimento (->-), durante la quale fu avviata l’unificazione nazionale. Essa era stata otte­ nuta dalla combinazione di diversi fattori: l’iniziativa liberal-moderata di Cavour e della monarchia sabauda, il movimento popolare rappresen­ tato dalle insurrezioni nell’Italia meridionale e centrale e la spedizione garibaldina. Poche settimane dopo la proclamazione dell’unità d’Italia, Cavour morì e la classe dirigente moderata si trovò improvvisamente La morte di Cavour senza il suo esponente di maggior spicco e prestigio. Questo gruppo, che

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La Destra Storica

La Sinistra Storica

Una classe dirigente molto ristretta

Accentramento amministrativo e «piemontesizzazione»

Il brigantaggio nel Mezzogiorno

L'intervento dell'esercito

Storia contemporanea

avrebbe governato il Paese ininterrottamente fino al 1876 ed è passato alla storia col nome di Destra Storica (—►), era espressione di un libera­ lismo moderato, quello stesso di Cavour, rispettoso delle libertà costitu­ zionali ma al tempo stesso contrario a qualsiasi ipotesi di rapida demo­ cratizzazione delle istituzioni, tendenzialmente liberista in economia e laico nei rapporti tra Stato e Chiesa. I suoi esponenti di maggior spicco, uomini come Quintino Sella (->-), Luigi Carlo Farini (—►), Marco Minghetti (—►), Stefano Jacini (—>-), Silvio Spaventa (—>•) condividevano, oltre alla linea politica, l’appartenenza all’aristocrazia terriera e all’alta borghesia per lo più settentrionale. Sull’altro versante dello schieramento politico vi era la cosiddetta Si­ nistra Storica (—>-) formata dalla vecchia sinistra piemontese, il cui lea­ der era Agostino Depretis (—>), e dai patrioti mazziniani o garibaldini come Francesco Crispi (—>) e Benedetto Cairoli (—>), che avevano nel frattempo abbandonato l’iniziale pregiudiziale repubblicana. La Sini­ stra Storica patrocinava un tipo di liberalismo più progressista, favore­ vole alFallargamento delle basi democratiche del regno, al decentra­ mento amministrativo, al completamento dell’unità nazionale mediante l’iniziativa popolare. Se la Destra aveva i suoi punti di forza in alcuni settori dell’aristocrazia e della borghesia del centro-nord, la Sinistra tro­ vava molti consensi tra la piccola e media borghesia e tra il ceto agrario del sud. Entrambe, tuttavia, erano espressione di una classe dirigente molto ristretta che poteva contare su una legittimità elettorale forzatamente limitata, dal momento che, in base alla legge elettorale in vigore, solo il 2% circa della popolazione aveva il diritto di voto. Inoltre l’assen­ za di un sistema strutturato di partiti faceva sì che la lotta politica fosse caratterizzata da un gioco di alleanze e mediazione tra i gruppi di nota­ bili che sedevano in Parlamento, molto distanti, sia culturalmente che economicamente, dal cosiddetto «Paese reale». Il contesto in cui gli uomini della Destra si trovarono a operare pre­ sentava numerose emergenze e disequilibri; fu in massima parte per questo che tramontarono subito le ipotesi di creare un sistema decentra­ to e l’unificazione del Paese venne condotta all’insegna dell’accentra­ mento amministrativo e della cosiddetta «piemontesizzazione», ovvero l’estensione a tutte le regioni delle leggi presenti nel vecchio Regno di Sardegna. Questo processo, che si svolse tra il 1861 e il 1865, coincise con il dilagare in alcune aree del Mezzogiorno del fenomeno del brigan­ taggio. Rivelando l’estremo grado di arretratezza e malessere delle po­ polazioni contadine meridionali, il brigantaggio si alimentava di bande di ribelli, contadini insorti, ex militari borbonici, i quali tennero in scac­ co intere regioni del sud per diversi anni. La reazione del governo fu du­ rissima. Nel 1863, con la legge Pica (—►), fu dichiarato lo stato di emer­ genza nel Mezzogiorno e venne inviato l’esercito che, al prezzo di una sanguinosa repressione, mise fine alla guerra civile nel giro di due anni. Benché i suoi principali esponenti fossero imbevuti delle tradiziona­ li dottrine liberiste e individualiste, la Destra Storica si convertì ben presto a un’attitudine statalista e a un dirigismo di stampo «giacobino» che dovevano servire a portare a termine in tempi rapidi l’unificazione amministrativa e legislativa del Paese. Anche in campo finanziario, il

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raggiungimento del pareggio del bilancio, che fin dal 1861 era stato un punto centrale del programma della classe dirigente liberale, fu portato avanti con particolare risolutezza. L’aspra politica fiscale e l’inflessibile L'aspra politica fiscale rigore finanziario della Destra non colpirono solo i ceti meno abbienti, e il raggiungimento che furono tuttavia quelli maggiormente danneggiati dalla tassa sul del pareggio di bilancio macinato introdotta 1868, ma anche i ceti più agiati. Questo duro fisca­ lismo, se da un lato provocò le prime agitazioni sociali ed accrebbe il malcontento della popolazione, dall’altro consentì al governo di rag­ giungere, a metà degli anni Settanta, il tanto agognato pareggio di bi­ lancio. Con analoga inflessibilità la Destra procedette alla requisizione a favore del demanio pubblico dei beni di proprietà delle congregazioni e degli ordini religiosi. L’altro grande obiettivo degli uomini della Destra era il completa­ Il completamento mento dell’unità nazionale. Dopo che il governo sabaudo, per non ini­ dell'unità nazionale micarsi la Francia protettrice del Pontefice, aveva fermato sull’Aspromonte, nel 1862, l’autonomo tentativo di Garibaldi di raggiungere Ro­ ma e sottrarre al Papa gli ultimi territori dello Stato pontificio, la situazione sembrò ulteriormente arenarsi con la firma, nel 1864, della cosiddetta Convenzione di settembre tra Marco Minghetti e Napoleone III. L’Italia si impegnava a restare nei suoi confini, rinunciando così al sogno di Roma capitale, e la Francia a ritirare le sue truppe dal Lazio. A conferma dell’impegno italiano a rispettare l’integrità dei possedi­ menti pontifici, il governo trasferì la capitale del regno da Torino a Fi­ renze. Poco dopo, tuttavia, la guerra scoppiata nel 1866 tra la Prussia e l’Impero asburgico offrì all’Italia la possibilità di inglobare i territori ancora sotto la dominazione austriaca. Alleatasi con la Prussia, nono­ stante il bilancio alquanto deludente della sua azione militare (gli ita­ liani furono sconfitti nella battaglia di Custoza e nello scontro navale di Lissa), l’Italia, grazie alla vittoria prussiana, ottenne dall’Austria la L'annessione del Veneto cessione del Veneto. Assai più complessa si profilava invece la «questione romana». Dopo un nuovo tentativo dei garibaldini che nel 1867, presso Mentana, furono bloccati nella loro marcia verso Roma dall’esercito francese, ancora pre­ sente nonostante la Convenzione del 1864, la prospettiva dell’annessio­ ne di Roma al regno divenne più concreta dopo che la sconfitta di Napo­ leone III nella guerra franco-prussiana del 1870 fece venir meno raccor­ do firmato tra il governo italiano e la Francia. Fu a questo punto che la classe dirigente italiana si sentì libera di usare, dopo l’ennesimo falli­ mento dei negoziati col Pontefice, l’opzione militare. Il 20 settembre L'azione militare 1870 le truppe italiane, dopo aver aperto una breccia nella cinta muraria e la presa di Roma della città presso Porta Pia, entrarono a Roma e la proclamarono capita­ le d’Italia. Per definire i rapporti con la Santa Sede il Parlamento varò, l’anno successivo, la legge delle guarentigie (—►): il Regno d’Italia rico­ La legge nosceva al Pontefice la massima autonomia nello svolgimento del suo delle guarentigie magistero spirituale, in linea col principio «libera Chiesa in libero Sta­ to» teorizzato da Cavour dieci anni prima, e si impegnava a fornire al Pontefice una dotazione annua per il mantenimento della corte papale. Pio IX, giudicando la legge un atto unilaterale dello Stato italiano e non accettando la perdita del potere temporale, assunse una linea di totale

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L'intransigenza di Pio IX

Il governo Depretis

La legge Coppinoe la riforma elettorale

La politica economica protezionista

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intransigenza nei confronti delle istituzioni del regno e della classe diri­ gente italiana. Nel 1874 arrivò a formulare esplicitamente il divieto per tutti i cattolici di partecipare alla vita politica, il cosiddetto non expedit. All’interno del mondo cattolico si delinearono quindi ben presto due correnti. La prima, il cosiddetto «transigentismo», cercava, anche con l’impegno di alcune figure dell’alto clero, di trovare una conciliazione tra lo Stato italiano e la Chiesa. La seconda, ispirata a un rigido intransigentismo secondo il dettato del Pontefice, si dotò di un’organizzazione, l’Opera dei Congressi (—►), che fungeva da centro di coordinamento delle varie associazioni cattoliche presenti sul territorio e si manteneva su posizioni di rigida opposizione verso il liberalismo laico. Consolidata l’opera di unificazione nazionale e raggiunto il pareggio del bilancio, la Destra cominciò a mostrare segni di divisione interna. Questi si concretizzarono il 18 marzo 1876, quando il governo guidato da Minghetti fu messo in minoranza e costretto alle dimissioni su un provvedimento riguardante la gestione statale delle ferrovie. Pochi gior­ ni dopo il sovrano Vittorio Emanuele II, con una scelta che sembrava confermare la natura parlamentare assunta dal sistema politico italiano, affidò l’incarico di formare il nuovo esecutivo al leader della Sinistra Storica Agostino Depretis. Il mutamento d’indirizzo politico venne poi confermato dalla netta vittoria elettorale ottenuta dalla Sinistra alle ele­ zioni del novembre successivo. Giungeva così al potere nel 1876 una classe dirigente in gran parte nuova ad esperienze di governo, che aveva perso la connotazione radicaldemocratica delle origini e si apprestava a governare il Paese con un programma chiaro ed essenziale: allargamen­ to del suffragio, riforma dell’istruzione, riforma fiscale. In realtà, però, il riformismo della Sinistra si rivelò all’atto pratico assai più cauto. Nel 1877 la legge Coppino, dal nome del ministro che la propose, re­ se l’istruzione pubblica obbligatoria e gratuita fino al compimento del primo biennio elementare. Ma solo nel 1882 fu adottata una nuova legge elettorale. Oltre ad abbassare da 25 a 21 anni il limite di età per gli elet­ tori, si proponeva di cambiare la logica stessa di accesso al voto. Il cen­ so, che aveva caratterizzato la selezione degli elettori fino a quel mo­ mento, rimase come criterio secondario a fronte di una soglia impositiva dimezzata, mentre si volle introdurre come primo criterio la capacità, legata all’alfabetizzazione e vincolata alla frequentazione del biennio elementare. Pur restando in termini assoluti contenuto, il corpo eletto­ rale grazie a questa riforma si triplicò, passando a oltre 2 milioni di aventi diritto. Fu modificato anche il sistema elettorale, sostituendo il collegio uninominale con collegi plurinominali che avrebbero dovuto portare i deputati a occuparsi meno del collegio di provenienza e più della politica nazionale complessiva. Dal punto di vista finanziario la Sinistra operò una netta inversione di rotta rispetto alla rigida politica fiscale della Destra. Oltre agli sgravi fiscali per i settori più in difficoltà, l’aumento della spesa pubblica fu no­ tevole e l’approccio liberista venne progressivamente abbandonato fino a giungere alla svolta protezionistica del 1887. In quell’anno fu infatti varata una nuova tariffa generale che doveva proteggere l’industria e l’agricoltura italiane dalla concorrenza straniera con l’imposizione di

Le trasformazioni dell'Europa

forti dazi all’entrata. Si trattò di una scelta in linea con le nuove tenden­ ze protezionistiche europee, ma che non servì a risolvere il crescente di­ vario economico tra nord e sud del Paese e finì per colpire soprattutto il settore agricolo delle colture specializzate, rettosi fino a quel momento soprattutto sulle esportazioni. In vista delle elezioni dell’ottobre 1882, le prime con la nuova legge elettorale, e di fronte al rischio di un successo delle forze dell’estrema si­ nistra, all’interno delle quali i socialisti stavano prendendo le distanze da repubblicani e radicali, si incominciarono a vedere i primi segnali di una possibile alleanza tra la Destra e la Sinistra Storica. Tale accordo prese forma nel maggio dell’anno successivo quando Depretis e Minghetti presentarono alla Camera la loro linea politica volta alla forma­ zione in Parlamento di un grande «centro» in cui sarebbero dovuti con­ vergere tutti i deputati liberali disposti a sostenere il governo a prescin­ dere dalle loro posizioni politiche. Il trasformismo (->-), come fu etichettata questa convergenza politica centrista, si sarebbe concretizza­ to in una prassi fondata sul progressivo annullamento delle differenze programmatiche tra Destra e Sinistra e sulla volontà comune di esclude­ re le forze estreme che, da destra e da sinistra, contestavano le istituzio­ ni dello Stato liberale. L’accordo tra Depretis e Minghetti, che sembrava riecheggiare il vecchio «connubio» cavouriano del 1852, permise quindi la costruzione di un’ampia maggioranza centrista, tendenzialmente omogenea e funzionale al rafforzamento dell’esecutivo. Ebbe però co­ me effetto un ruolo più attivo dell’esecutivo e il consolidamento all’op­ posizione di un gruppo radical-progressista tra le cui file emerse ben presto la figura di Felice Cavallotti (—>■). Questi si batteva per un’auten­ tica democratizzazione delle istituzioni e per una politica estera decisa­ mente anti-austriaca, che avrebbe dovuto portare all’Italia le «terre irre­ dente» (—*-) del Trentino e della Venezia Giulia e concludere così il pro­ cesso risorgimentale. In politica interna l’avvio del trasformismo segnò una battuta d’ar­ resto della cultura liberale più coerente, come quella portata avanti dal governo Cairoli (1878), e un incremento della spesa pubblica. In politica estera i governi, che continuavano a essere retti da uomini del­ la vecchia Sinistra, furono caratterizzati da un forte dinamismo e da una netta discontinuità col passato. Nel maggio del 1882 il governo Depretis stipulò infatti con Germania e Austria-Ungheria il trattato della Triplice Alleanza. A spingere verso questa alleanza difensiva, che andava in controtendenza rispetto alla passata politica diplomati­ ca dell’Italia e suscitava la forte opposizione di quanti desideravano il completamento dell’unificazione, vi furono il desiderio di uscire dall’isolamento internazionale in cui si trovava l’Italia e le difficili re­ lazioni con la Francia, peggiorate dopo l’occupazione francese della Tunisia. In corrispondenza di questa nuova stagione diplomatica, il go­ verno Depretis avviò anche l’espansione coloniale dell’Italia, con l’ac­ quisto della baia di Assab, sulla costa meridionale del Mar Rosso e i primi tentativi di controllo sull’Etiopia. Nonostante la sconfitta subita a Dogali, in Etiopia, nel 1887 e le proteste anticoloniali dei gruppi di estrema sinistra, la Camera diede ugualmente il via libera a nuovi fi-

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Crescente divario tra nord e sud

L'accordo elettorale tra Destra e Sinistra

Il trasformismo e la formazione di una maggioranza centrista

La nuova politica estera e la Triplice Alleanza

L'iniziativa coloniale in Africa

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Il governo Crispi

Il vasto progetto riformatore

Il rafforzamento dell'apparato repressivo

Il primo governo Giolitti

Malessere sociale e crisi economica

Il movimento dei Fasci siciliani

Il Partito socialista

Storia contemporanea

nanziamenti, nella convinzione che l’Italia dovesse stare al passo con la politica coloniale dei grandi Paesi europei. Alla morte di Depretis, nell’estate del 1887, fu chiamato alla guida dell’esecutivo il ministro degli Interni Francesco Crispi. Forte del so­ stegno di ampi settori della sinistra per il suo passato risorgimentale e garibaldino, ma anche dei gruppi più conservatori per il suo stile auto­ ritario, efficiente ed accentratore, Crispi mise mano ad un vasto proget­ to riformatore nel settore amministrativo. Introdusse l’elettività dei sindaci dei comuni con più di 10.000 abitanti; diede struttura autonoma alle province, pur mantenendo la figura del prefetto come longa manus del potere centrale nelle periferie; promosse la creazione di un nuovo codice penale, redatto dal ministro della Giustizia Giuseppe Zanardelli (->-); favorì la riforma della sanità pubblica e razionalizzò, togliendo­ le al controllo della Chiesa, il settore della carità e dell’assistenza. Ac­ canto a questa estesa opera di ammodernamento e razionalizzazione delle strutture statali, tuttavia, Crispi volle rafforzare, con una nuova legge di pubblica sicurezza che limitava le libertà sindacali e dava più ampio margine di azione alle forze di polizia, l’apparato repressivo del­ lo Stato. Diede poi avvio a una politica estera aggressiva di segno anti­ francese e filotedesco. Furono proprio le eccessive spese militari e quelle per finanziare la politica coloniale che costrinsero Crispi alle dimissioni nel 1891. Tra il 1892 e il 1893 la guida del governo fu assunta dal piemontese Giovanni Giolitti (—»■). Liberale progressista e figura cardine dei successivi trent’anni di storia italiana, in questo primo breve interludio, Giolitti non ebbe modo di avviare un solido programma riformatore, anche per­ ché il suo governo fu travolto dallo scandalo della Banca Romana ( ^ -), un grave episodio di speculazioni e affari illeciti che vide coinvolti uo­ mini politici, giornalisti ed esponenti del mondo della finanza. In quegli anni, inoltre, l’Italia stava attraversando un periodo di forte malessere sociale, causato sia da una prolungata congiuntura economica sfavore­ vole a livello internazionale, sia dalla guerra commerciale e finanziaria in corso con la Francia, partner privilegiato, in precedenza, nel commer­ cio estero. Una delle manifestazioni più evidenti di questo malcontento fu il movimento dei Fasci siciliani (—►) che, fra il 1892 e il 1893, conobbe una rapida diffusione in molte località della Sicilia. Si trattava di orga­ nizzazioni di lavoratori, sorte inizialmente nei centri urbani e poi este­ sesi nelle zone rurali, che davano voce al disagio di larghi strati della po­ polazione isolana per le condizioni di vita e di lavoro e che, pur senza professare ideali realmente socialisti, chiedevano la riduzione delle tas­ se e del prezzo dei generi di prima necessità. Tornato al governo nel dicembre 1893, Crispi accentuò ulteriormente i suoi tratti autoritari e di scarsa fiducia nel funzionamento delle istitu­ zioni parlamentari. Da un lato, completò la riforma del sistema bancario avviata da Giolitti e dall’altro risolse con duri interventi repressivi i ten­ tativi di rivolta in corso in Sicilia e in Lunigiana. Nel luglio 1894 riuscì a far approvare al Parlamento un insieme di leggi che limitavano la libertà di stampa, di riunione e di associazione e che, di fatto, intendevano col­ pire il neonato Partito socialista. Nel 1892, infatti, era stato fondato da

Le trasformazioni dell'Europa

Filippo Turati (—»■), Anna Kuliscioff (-»-), Camillo Prampolini (-^-) e Andrea Costa (—>) il Partito dei lavoratori italiani, che unificava tutti i precedenti gruppi della sinistra socialista e operaia e che, tre anni dopo, avrebbe assunto il nome di Partito socialista italiano. Proprio mentre stava emergendo in tutta evidenza, anche in Italia, la cosiddetta questio­ ne sociale, ovvero l’insieme dei problemi e delle tensioni legati all’indu­ strializzazione e alla presenza di un nuovo e attivo ceto operaio, la clas­ se politica sceglieva la strada della repressione e della limitazione dei di­ ritti costituzionali di libertà. Sempre più in difficoltà a causa della sua azione autoritaria e repres­ siva, Crispi venne tuttavia sconfitto sul terreno della politica coloniale, con cui il primo ministro sperava di distogliere l’attenzione dell’opinio­ ne pubblica dalla crisi politica e sociale e dal rinfocolarsi delle accuse di corruzione ad opera dei radicali di Cavallotti. Dopo aver cercato di chiudere il conflitto con l’Etiopia già nel corso del suo primo governo, a partire dal 1895 intensificò la politica di penetrazione in quell’area arri­ vando a dover affrontare la dura reazione del negus Menelik (-*-). Il grave rovescio subito ad Adua nel marzo 1896 dal corpo di spedizione italiano per opera delle milizie abissine, la più cocente sconfitta subita fino a quel momento da un esercito bianco contro popolazioni non euro­ pee, segnò la fine delle velleità italiane di accreditarsi come grande po­ tenza coloniale e la definitiva uscita di Crispi dalla scena politica.

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L'azione repressiva del governo Crispi

Il conflitto con l'Etiopia e la sconfitta di Adua

2.6 La Spagna: un sistema parlamentare solo apparente Il ritorno sul trono, nel 1814, di Ferdinando VII di Borbone diede av­ vio in Spagna a un regime assolutista. Il re riportò, infatti, l’intero pote­ re nelle sue mani, forte della legittimazione che gli veniva dall’aristocra­ zia terriera, dall’esercito e dalla Chiesa a cui, tra le altre cose, era de­ mandato il compito di formare la classe dirigente del Paese. Erano questi i tre grandi pilastri su cui si reggeva il sistema politico della «Spa­ gna restaurata» e soprattutto i militari, che si consideravano i custodi dell’unità politica spagnola, sarebbero intervenuti più volte nel corso dell’Ottocento per riportare l’ordine all’interno di un sistema fragile e attraversato da profonde fratture. I movimenti liberali, messi al bando con la restaurazione dei Borbone insieme alla soppressione della Costi­ tuzione di Cadice del 1812, continuarono infatti a mantenersi attivi, pur operando nella clandestinità. Nel 1830 il re, in assenza di eredi maschi, decise di abolire la legge salica che prevedeva la successione al trono solo per via maschile. La de­ cisione di Ferdinando VII, garantendo la successione alla figlia Isabella, faceva tuttavia cadere le aspettative del fratello, il principe Carlos di Borbone (—►), che sarebbe stato il primo nella linea di discendenza ma­ schile. Contro tale provvedimento, e in appoggio alle aspirazioni del principe, si posero la destra spagnola e soprattutto quelle regioni, come la Catalogna e i Paesi Baschi, profondamente influenzate da un radicato cattolicesimo. Si delineò, dunque, tra la monarchia e i cosiddetti carlisti (—►) un’insanabile contrapposizione destinata a durare nel tempo e a

Il regime assolutista della «Spagna restaurata»

La crisi dinastica

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Isabella II costretta all'esilio

Conflitti per la successione al trono

Nascita della Prima Repubblica spagnola

Il colpo di Stato e il ritorno dei Borbone

La nuova Costituzione

Storia contemporanea

raggiungere, in alcune fasi, i connotati di un vero e proprio conflitto di legittimazione, col risultato di fiaccare ulteriormente la Spagna sia negli equilibri interni, sia nella politica internazionale. In questo ambito, tra l’altro, la monarchia spagnola aveva già perso tutte le colonie americane, ad eccezione di Cuba che riuscì a mantenere fino al 1898 quando le ven­ ne tolta in seguito a una guerra contro gli Stati Uniti, condannando così la Spagna a un ruolo minore sulla scena internazionale. Alla morte di Ferdinando, nel 1833, la reggenza di Maria Cristina (—>-) prima, dovuta alla minore età della figlia, e il regno di Isabella II poi, furono segnati da una continua instabilità causata dal perdurare dello scontro coi carlisti e soprattutto dal riemergere delle forze liberali; queste, infatti, cercarono di insinuarsi nel conflitto tra Corona e carlisti dando il loro sostegno alla prima ma rivendicando al contempo un ruolo di maggior spicco all’interno del regime. Fu proprio un pronunciamiento da parte di un gruppo di ufficiali di fede liberale che costrinse nel 1868 Isabella II all’esilio, mettendo così fine a un sistema profondamen­ te instabile e incapace di dare una risposta chiara ai numerosi problemi di ordine politico e sociale. Cercando un difficile equilibrio tra autorita­ rismo e parlamentarizzazione, infatti, il regno di Isabella II non era riu­ scito ad arginare la forte opposizione repubblicana, né a sedare le tradi­ zionali pressioni autonomistiche di baschi e catalani. In seguito all’uscita di scena di Isabella II, le Cortes (—>-) votarono nel 1869 una Costituzione di stampo liberale che accettava l’istituzione monarchica pur in assenza di un sovrano. Fu questo il frangente che sti­ molò le mire della casata prussiana degli Hohenzollern, da cui scaturì l’anno successivo il conflitto franco-prussiano (cap. 2.2 e 2.3). Fu invece accolta positivamente dalle potenze europee la candidatura di Amedeo Ferdinando di Savoia duca d’Aosta (—►), figlio di Vittorio Emanuele II, che fu incoronato all’inizio del 1871 ma lasciò volontariamente il trono dopo soli due anni di fronte ai profondi conflitti interni. L’abdicazione del sovrano portò alla nascita della Prima Repubblica spagnola, votata dalle Cortes all’inizio del 1873 ma destinata anch’essa ad avere breve vita. Dopo soli undici mesi, infatti, un nuovo colpo di sta­ to dell’esercito fece crollare la Repubblica e sancì il ritorno della monar­ chia e dei Borbone, con Alfonso XII (—>-), figlio di Isabella. Nei disegni del nuovo re c’era la volontà di costruire un regime finalmente stabile e duraturo, soprattutto al fine di ridurre i poteri assunti progressivamente dall’esercito. Convinto della necessità di instaurare un effettivo sistema rappresentativo per contenere e veicolare le tensioni presenti tra le nu­ merose forze politiche, Alfonso XII fu aiutato in questo disegno da due importanti uomini politici: Antonio Canovas del Castillo leader del gruppo conservatore, e Mateo Sagasta (—►), leader dei liberali. Co­ storo, persuasi che la stabilità del sistema politico non si sarebbe potuta raggiungere se non attraverso un accordo tra i loro partiti, si fecero pro­ motori del nuovo testo costituzionale varato nel 1876. Questa Costituzione, pur promovendo importanti correttivi di stam­ po liberale, lasciava nelle mani del sovrano poteri ancora molto ampi, tra cui la prerogativa del conferimento e della rimozione del mandato ai capi del governo. Di fatto, tuttavia, si instaurò un sistema che, grazie

Le trasformazioni dell'Europa

all’accordo tra le principali forze politiche, garantiva un regolare avvi­ cendamento al potere tra conservatori e liberali, che l’elezione delle Cortes doveva solo confermare. Questo meccanismo, noto come «turnismo pacifico» (—*■) perché si basava sulla turnazione consensuale di conservatori e liberali alla guida del governo, si avvaleva per la sua rea­ lizzazione della presenza dei cosiddetti caciques (-»-). Si trattava dei seguaci di entrambe le formazioni politiche che, grazie ai ruoli ricoper­ ti nelle amministrazioni locali e in quelle dei centri rurali, erano in gra­ do di controllare e manipolare il voto; i caciques operavano quindi con qualsiasi mezzo, lecito e illecito, per forzare il voto nella direzione della politica governativa, assicurando che il partito vincitore all’interno del collegio fosse quello stabilito dagli accordi di vertice. In questo modo si riusciva ad assicurare una maggioranza al partito che avrebbe dovuto ricevere dal re il mandato di formare il nuovo governo. Dietro l’appa­ renza formale di un meccanismo rappresentativo basato sull’alternan­ za, il quadro uscito dalla Costituzione del 1876 presentava in realtà un sistema fortemente appiattito sul ruolo del monarca. I partiti «extratur­ no», cioè quelli come repubblicani, socialisti e liberali progressisti esclusi dai meccanismi del «turnismo pacifico», erano in grado di affer­ marsi nei soli centri urbani. Se il «turnismo» aveva in un qualche modo neutralizzato i conflitti politici più evidenti, rimanevano le incertezze e le contraddizioni di un sistema che stentava a imboccare la strada della piena modernizza­ zione politica. Un chiaro segno di ciò si ebbe nel 1878, quando fu abo­ lito il suffragio universale maschile e reintrodotto il criterio del paga­ mento delle imposte per la definizione del corpo elettorale. Tuttavia anche quando nel 1890 fu ripristinato il suffragio universale maschile, il deficit di democraticità del sistema politico spagnolo rimase presso­ ché immutato. La Spagna infatti, al di là delle apparenze, restava un Paese politicamente arretrato, nel quale le tradizionali gerarchie di potere non cam­ biarono lungo tutto l’Ottocento. L’aristocrazia terriera conservava sem­ pre il monopolio dell’economia nazionale, anche se in alcune regioni, come Catalogna, Paesi Baschi e Galizia e Asturie, cominciò ad affer­ marsi una prima, timida industrializzazione. Questo stato di cose favorì la diffusione dell’anarchismo, che trovava nelle economie non industrializzate un fertile terreno di sviluppo. Accanto all’anarco-individualismo presente soprattutto nelle regioni rurali, l’anarchismo spagnolo si radicò anche in alcune aree urbane, dove assunse la forma dell’anarco-sindacalismo. Nel 1910 nacque una confederazione di sindacati anarchici, la Confederación nacional del trabajo (—►), che fece proprie le tradiziona­ li rivendicazioni sindacali muovendosi in parallelo con il sindacato so­ cialista, la Union generai de trabajadores (—►). In questo clima, dove conflittualità sociale e malessere economico si combinavano in una miscela esplosiva, la capacità di controllo da parte dei liberali e dei conservatori subì un duro colpo alla morte dei due lea­ der storici Canovas e Sagasta. Con la minaccia carlista sempre latente e un’esplosione di violenze anarchiche tra il 1886 e il 1900, la monarchia spagnola entrava nel XX secolo priva di vitalità politica, mentre la scon-

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Il «turnismo pacifico»

Il ruolo dei cadques

Deficit di democraticità e arretratezza

Diffusione dell'anarchismo

Conflittualità sociale e malessere economico

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Fallimento del movimento «rigenerazionista»

Storia contemporanea

fitta subita ad opera degli Stati Uniti nel 1898 ne aveva minato definiti­ vamente il prestigio internazionale. Fu proprio sull’onda di questa scon­ fitta e del più generale declino del Paese che il dirigente conservatore Francisco Silvela (—>-) lanciò un appello per la «rigenerazione» della politica. Nacque così un movimento «rigenerazionista» che coinvolse molte forze politiche, tra loro diverse, con l’obiettivo di adeguare il livel­ lo della politica spagnola a quello dei principali Paesi europei. Fu, tutta­ via, un tentativo destinato al fallimento sia per l’ostilità della monar­ chia, che in questo dibattito vedeva emergere preoccupanti elementi di disgregazione nazionale, soprattutto per le spinte autonomistiche delle regioni più avanzate socialmente ed economicamente (come la Catalo­ gna), sia per l’ostilità delle altre forze contrarie alla modernizzazione politica come l’esercito e la Chiesa. 2.7 La Russia: un sistema autocratico

Assolutismo reazionario dell'Impero russo

La servitù della gleba

Una società arcaica

La guerra contro l'Impero ottomano

La Russia fu una delle grandi potenze protagoniste della prima metà dell’Ottocento. Nonostante il Congresso di Vienna non le avesse ricono­ sciuto l’ambito sbocco sui mari caldi, la vittoria riportata su Napoleone le attribuiva il ruolo di baluardo orientale della restaurazione europea. Questo riconoscimento era perfettamente in linea con la natura politi­ co-sociale dell’Impero russo, un assolutismo reazionario dove tutto il potere era concentrato nella figura autocratica dello zar e veniva gestito nella burocrazia, composta prevalentemente dalla nobiltà. Il popolo russo non godeva di nessuno dei diritti civili e politici che, dalla Rivolu­ zione francese in poi, si erano affermati nella maggior parte dell’Euro­ pa; inoltre i contadini si trovavano ancora nella condizione di servi della gleba, erano cioè privi della libertà personale e venivano comprati e venduti assieme alla terra che coltivavano. Da un punto di vista econo­ mico quindi, nonostante l’incremento dell’esportazione di cereali verso l’Europa, la crescita fu complessivamente limitata a causa degli arcaici rapporti sociali e produttivi, fondati sul sistema servile e su una proprie­ tà terriera gestita in modo inadeguato da un’aristocrazia assenteista ed impermeabile al progresso. A questi tratti dispotici e autocratici il regno di Nicola I (->-), dal 1825 al 1855, aggiunse anche una predisposizione all’espansionismo mi­ litare che portò la Russia, da un lato, a consolidare la propria presenza in Asia e, dall’altro, a esercitare una crescente pressione nell’area dei Balcani e del Mediterraneo. Ma l’espansione dell’Impero zarista segnò anche l’emergere di potenziali contraddizioni al suo interno, in partico­ lare mettendo a dura prova la struttura arcaica di gestione del potere e ponendo il Paese in rotta di collisione con le altre grandi potenze euro­ pee, soprattutto la Gran Bretagna, tradizionalmente interessata al con­ trollo sull’area mediterranea e desiderosa di mantenere lo status quo nella regione balcanica. Fu in questo contesto di espansionismo che nel 1854 lo zar mosse guerra all’Impero turco, nella speranza di sfruttare la crisi del regime ottomano e partecipare alla spartizione dei suoi territori partendo da

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una posizione di forza. La guerra combattuta in Crimea nel periodo 1854-1856 mostrò ben presto di rispondere a logiche in parte estranee alla cosiddetta «questione d’oriente». Alla tradizionale rivalità anglo­ russa si affiancarono infatti l’espansionismo della Francia di Napoleone III e il desiderio di riconoscimento internazionale del Piemonte sabau­ do. Al di là della sconfitta subita dalla Russia, la guerra di Crimea evi­ La sconfitta russa denziò tutte le inefficienze amministrative e militari dell’Impero zari­ nella guerra di Crimea sta, mettendo quindi in discussione il rigido assolutismo zarista e contri­ buendo all’apertura di una fase di riforme. Il nuovo zar Alessandro II (—>-) avviò infatti un processo di rifor­ Alessandro II me, di cui la più significativa fu la pur contrastata abolizione della ser­ e l'abolizione vitù della gleba nel 1861. Enorme fu la portata della riforma, dal mo­ della servitù mento che coinvolgeva circa 22 milioni di servi e servì a consolidare la della gleba struttura delle «comunità di villaggio» (obscina). Nel progetto di eman­ cipazione dei servi, infatti, questi non potevano diventare liberi senza possedere la terra su cui vivere; si stabilì quindi che i contadini pagasse­ ro la terra ricevuta attraverso prestiti della Banca dei contadini apposi­ tamente creata e, a garanzia della restituzione del prestito, essi rimane­ vano all’interno di «comunità di villaggio» che ogni anno provvedeva­ no alla estinzione del debito. Questo complesso meccanismo fece sì che, all’entusiasmo iniziale dei contadini liberati, si sostituisse ben pre­ sto un senso di frustrazione. La fine della servitù della gleba non fu l’unica riforma di Alessandro IL Un altro importante provvedimento riguardò l’autogoverno locale, L'istituzione con l’istituzione, nel 1864, di consigli distrettuali e provinciali elettivi di enti locali (zemstva) in rappresentanza dei proprietari, delle comunità rurali e del­ la popolazione urbana. Anche se sottoposti a pesanti controlli ed inge­ renze da parte dell’autorità centrale e composti in maggioranza da nobi­ li, tali comitati cominciarono a svolgere un ruolo importante nella ge­ stione dei servizi pubblici, dell’assistenza sanitaria e dell’istruzione. Furono inoltre riformati il sistema giudiziario, l’esercito e il sistema sco­ lastico. Il complesso delle riforme, pur non intaccando le fondamenta del sistema autocratico, creò i presupposti per l’inizio di una prima mo­ dernizzazione del Paese che tuttavia fu messa in discussione quando, nel 1863-64, i polacchi insorsero rivendicando una maggiore autonomia. Lo La fine dello slancio slancio riformista potè dirsi concluso nel 1866, all’indomani di un fallito riformista attentato contro lo zar. Questo riflusso, dopo le tante aspettative sollevate, ebbe un effetto Fermento tra i giovani particolare tra le generazioni più giovani e più colte, la cosiddetta intelli- intellettuali gencija. Si diffusero infatti, in particolare tra gli anni Sessanta e Settan­ ta, atteggiamenti di rifiuto totale dell’ordine costituito. Da un lato, si trat­ tò di un sentimento di rigetto in blocco della società del tempo (tradizio­ nalismo della famiglia, della gerarchia e della religione) e dei suoi valori morali che sfociava in un individualismo anarchico, il nichilismo (—>-). Dall’altro, tale attitudine si incarnò nello sforzo concreto di accostarsi in modo più diretto ai problemi delle classi subalterne per far loro prendere coscienza delle condizioni in cui versavano e sollecitarle verso la richie­ sta di riforme e cambiamenti. La parola d’ordine di questi giovani intel­ lettuali rivoluzionari, che cercarono di compiere una vera e propria ope-

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Il movimento populista

La politica reazionaria dello zar Alessandro Ili

Tensioni e contraddizioni

Storia contemporanea

ra di educazione culturale fra le masse contadine, era «l’andata al popo­ lo», da cui prese corpo il termine «populismo» con cui fu definito il loro movimento. Difficilmente classificabile in base alle categorie occidenta­ li, il populismo russo riuniva componenti molto diverse: gruppi clande­ stini legati airanarchismo europeo, democratici occidentalisti e sociali­ sti. Il vero e proprio trait d ’union ideologico tra i vari gruppi era la pro­ spettiva di un socialismo agrario in grado di far leva sul proletariato delle campagne e sulla tradizione comunitaria della società rurale russa. Ben presto, però, alla scarsa risposta da parte delle campagne si ag­ giunse l’accentuarsi dell’azione repressiva dello Stato e quando, nel 1881, un anarchico uccise Alessandro II, tutte le speranze che avevano inizialmente accompagnato il suo regno sembrarono svanire. La confer­ ma di ciò venne dal nuovo zar Alessandro III (—►), che scelse di tornare alla rigida autocrazia degli anni passati. Le riforme avviate da Alessan­ dro II furono, infatti, bloccate e con esse si dissolse ogni speranza di procedere verso uno sviluppo democratico-costituzionale. Le opposi­ zioni politiche, così come le minoranze etniche e religiose, in particolar modo gli ebrei, furono brutalmente represse. La politica russa degli ultimi venti anni del XIX secolo tornò quindi a fondarsi sui suoi tre pilastri tradizionali: lo zar e il suo apparato repressi­ vo, la Chiesa ortodossa e la sua gerarchia e infine l’esercito, vero garante del ruolo di potenza internazionale a cui aspiravano tutti i sovrani russi. Gigante demografico e militare, l’Impero zarista non seppe, nel corso dell’Ottocento, avviare la necessaria modernizzazione sul piano politico e sociale e, nel medio periodo, tale contraddizione sarebbe esplosa in ma­ niera violenta e drammatica, anche in considerazione del fatto che Ales­ sandro III accompagnò le misure reazionarie in politica a provvedimenti volti a favorire lo sviluppo economico e l’industrializzazione del Paese. 2.8 I Paesi scandinavi nell'Ottocento

Danimarca

I conflitti con la Prussia

Anche le regioni scandinave risentirono fortemente degli eventi che avevano sconvolto l’Europa tra la Rivoluzione francese e il Congresso di Vienna. La Danimarca, alleata di Napoleone I nelle guerre europee di inizio Ottocento, fu costretta a firmare nel 1814 la pace di Kiel con cui le fu sottratto il controllo sulla Norvegia, assegnato, nonostante la forte ri­ chiesta d’indipendenza dei norvegesi, alla Svezia. Il Congresso di Vien­ na ratificò in parte queste decisioni, stabilendo che la Svezia, in cambio della Norvegia, cedesse alla Russia il granducato di Finlandia e la Pomerania alla Prussia; si decise inoltre che al re di Danimarca venissero concessi, a titolo di possesso personale, i granducati dello Schleswig e dell’Holstein, i cui territori facevano formalmente parte della Confede­ razione germanica. Negli anni successivi proprio il controllo sui due granducati fu all’origine di una serie di conflitti che ridisegnarono gli equilibri territoriali nell’Europa centrale. Furono infatti i reiterati ten­ tativi dei re danesi, prima Federico VII (-^-) e poi Cristiano IX di annettere a tutti gli effetti lo Schleswig e l’Holstein alla Danimarca che portarono quest’ultima a scontrarsi nel 1848 con la Prussia e nel 1864

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con l’alleanza austro-prussiana. Al termine di questo secondo conflitto, la Danimarca perse definitivamente il controllo sui due granducati. La Norvegia, nonostante l’unione formale al Regno di Svezia, con­ Norvegia servò un’ampia autonomia nella politica interna; l’esercito svedese non poteva mantenere truppe stanziali sul territorio norvegese in tempo di pace, mentre il Parlamento norvegese, che dal 1898 fu eletto a suffragio universale maschile, amministrava autonomamente le finanze del Pae­ se. La Norvegia conobbe in quegli anni una rilevante crescita economi­ ca, basata sullo sfruttamento delle risorse naturali, sulla pesca e sul po­ tenziamento della flotta commerciale, e un’intensa fase riformatrice sul piano politico. Furono infatti riconosciuti i diritti civili, la libertà reli­ giosa, il libero esercizio delle professioni e furono estesi progressiva­ mente anche i diritti politici. Tuttavia i sentimenti nazionali, favorevoli ad una piena indipendenza, continuarono a mantenersi vivi lungo tutto l’Ottocento. Nel 1905, di fronte alle resistenze del re di Svezia a conce­ dere una rappresentanza diplomatica autonoma e un esercito indipen­ dente, il Parlamento votò la formale separazione dalla Corona svedese, L'indipendenza decisione che venne poi confermata da un referendum popolare. Sul tro­ dalla Svezia no di Norvegia fu chiamato così il principe Carlo di Danimarca, che di­ venne re col nome di Haakon VII (—►). Sotto il suo regno, nel 1913, fu riconosciuto il diritto di voto alle donne. La Svezia si era già dotata fin dal 1809 di una Costituzione che realiz­ Svezia zava un sistema politico di stampo parlamentare fondato sulla divisione dei poteri. Un importante ammodernamento delle strutture istituzionali e della legislazione svedese si ebbe nel corso degli anni Sessanta dell’Ot­ tocento, quando il vecchio sistema della rappresentanza per ordini cedra­ li fu sostituito dall’introduzione di due Camere elettive, di cui una eletta dalle corporazioni comunali e l’altra dai cittadini in base a criteri censitari. Fu in questa fase che si costituì una prima forma embrionale di or­ ganizzazione politica dei contadini, i quali lottarono a lungo, ma senza riuscirvi, per l’abolizione dell’antica imposta fondiaria e per riformare l’organizzazione dell’esercito, che obbligava alla leva solo il ceto contadi­ no. Nel 1889, sull’onda delle tensioni sociali e della diffusione delle dot­ trine socialiste nel resto dell’Europa, nacque in Svezia il Partito socialde­ mocratico, che diede un notevole impulso all’attuazione di riforme socia­ li e politiche, tra cui l’estensione del diritto di voto. Nel 1900, poi, dalla confluenza di gruppi liberal-borghesi e radicali, fu fondato il Partito libe­ rale. Socialdemocratici e liberali si affermarono subito come i due princi­ pali pilastri del sistema politico svedese e furono i promotori del grande Il grande slancio slancio riformatore che il Paese conobbe dopo la Prima Guerra mondia­ riformatore le, grazie anche alla sua neutralità durante il conflitto. Fra il 1918 e il 1921 furono gradualmente ampliati i criteri di accesso al voto fino a rea­ lizzare il suffragio universale maschile e femminile. Nel Regno di Danimarca il clima della restaurazione aveva favorito, dopo il 1815, la riaffermazione del potere assoluto del sovrano. In segui­ to ai moti rivoluzionari del 1848, tuttavia, il re Federico VII concesse una Costituzione, la quale venne però modificata in senso conservatore I conflitti all'interno a metà degli anni Sessanta. Nella seconda metà dell’Ottocento cominciò del Parlamento danese poi a delinearsi un aspro conflitto tra le due Camere del Parlamento da-

Storia contemporanea

La nuova Costituzione danese

nese. Nella Camera Bassa, infatti, eletta a suffragio universale maschile, prevalevano formazioni politiche di stampo progressista, mentre la Ca­ mera Alta era controllata stabilmente dai conservatori. Di fronte a que­ sto dualismo, il sovrano si schierò costantemente a favore dei conservatori, affidando loro il governo. Solo in seguito alla sconfitta riportata dal Partito conservatore nelle elezioni del 1901, il re Cristiano IX si piegò definitivamente al regime parlamentare e chiamò al governo un rappre­ sentante dell’area liberale. Nel 1915 venne varata una nuova Costituzio­ ne che introduceva il suffragio universale per l’elezione di entrambe le Camere, estendendo il diritto di voto anche alle donne. 2.9 L'Impero ottomano

Il declino militare ed economico

Fallimento della riforma militare

La perdita della Grecia e la crisi dell'Impero

La fase riformatrice

Composto da numerosi gruppi etnici e nazionali, tra cui turchi, ara­ bi, slavi, albanesi, greci, armeni, curdi, ed esteso su gran parte dell’Eu­ ropa balcanica, dell’Asia mediorientale e del Nord Africa, l’Impero ot­ tomano era entrato in una fase di declino militare ed economico dopo le sconfitte subite dall’Austria che avevano portato alla firma dei Trattati di Carlowitz (1699) e Passarowitz (1718) e alla perdita di Ungheria, Transilvania e Serbia settentrionale. L’apparato finanziario e ammini­ strativo ottomano era infatti basato sulle prede di guerra e su un sistema fiscale costruito sulla decima dei prodotti delle terre e sul testatico (—*■) applicato ai cittadini non musulmani, su tributi di vario genere, fra cui quelli per gli Stati vassalli. Pertanto, ogni perdita territoriale rappresen­ tava per Flmpero Pimpossibilità di recuperare risorse fiscali fondamen­ tali per il mantenimento della propria struttura militare, costruita su due corpi principali, i giannizzeri (—►) e gli spahi (-+ ). Declino militare e crisi finanziaria rappresentavano perciò le due facce della stessa medaglia. Per uscire da questo circolo vizioso, il primo tentativo della Sublime Porta, impressionata dalle esperienze militari delle guerre napoleoniche e dall’inefficienza del proprio apparato belli­ co, fu quindi quello di riformare la struttura militare in senso moderno secondo i canoni europeo-occidentali. Tuttavia tale tentativo in gran parte fallì e la ribellione dei giannizzeri e degli spahi produsse la sop­ pressione fisica dei primi nel 1826. La definitiva perdita della Grecia nel 1830, la diffusa corruzione, la mancanza di adeguate forze produttive, l’incapacità di evoluzione scientifica e tecnologica, ma soprattutto le spinte centrifughe dei vari nazionalismi interni ebbero l’effetto di cronicizzare, nel corso dell’Ottocento, la crisi dell’Impero turco, tanto che gli fu attribuito l’appellativo di «malato d’Europa». Il processo di rinnovamento e secolarizzazione delle istituzioni, ini­ ziato nel 1839 con le riforme del tanzimat, ovvero «riorganizzazione», e conclusosi nel 1876, rappresentò un tentativo di rendere più efficienti le strutture dellTmpero, soprattutto mediante il trasferimento di funzioni dalle istituzioni religiose a quelle secolari. Nel 1876 venne concessa una Costituzione di stampo liberale e l’anno successivo fu convocato il pri­ mo Parlamento, sciolto però quasi subito a causa della crisi provocata dalla guerra contro la Russia. Questa fase riformatrice, nonostante

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avesse cercato di integrare i gruppi non musulmani e non turchi nella società ottomana e di rinnovare le amministrazioni municipali secondo i modelli europei, non fu tuttavia in grado di tenere a freno le pressioni Le pressioni autonomistiche delle diverse etnie, né di impedire il lento declino del autonomistiche prestigio internazionale della Sublime Porta. Gran parte del potere, in­ delle diverse etnie fatti, continuava ad essere esercitato dal sultano (—»■), che nominava il gran visir con funzioni analoghe a quelle di un primo ministro, dai fun­ zionari di corte e dalla élite militare dei giannizzeri. Incapace di rinnovarsi sul piano politico, amministrativo ed econo­ mico e oppresso dalle rivendicazioni dei diversi nazionalismi interni, l’Impero ottomano subì anche, nel corso dell’Ottocento, una serie di sconfitte militari da parte delle grandi potenze europee che ne accelera­ Le sconfitte militari rono ulteriormente il declino. Già nella guerra di Crimea del 1853-56, e il progressivo infatti, l’Impero turco aveva evitato lo smembramento, che era nei piani smembramento russi, solo grazie all’intervento franco-inglese-piemontese, mentre al dell'Impero Congresso di Berlino del 1878, dopo la sconfitta subita dagli ottomani ad opera della Russia, fu riconosciuta l’indipendenza di Serbia, Montenegro e Bulgaria e la Bosnia-Erzegovina passò sotto l’amministrazione austriaca. Nel 1881, poi, i turchi dovettero ritirarsi dalla Tunisia, dove si istituì un protettorato francese, nel 1882 furono costretti ad abbandona­ re l’Egitto, occupato dalla Gran Bretagna, e nel 1912 persero anche la Libia che, come vedremo, venne conquistata dall’Italia. In questo contesto di progressivo sfaldamento delle strutture imperia­ li, dove si sommavano le rivendicazioni autonomistiche delle popolazioni dell’Europa sud-orientale e le ambizioni delle potenze europee di ottene­ re vantaggi territoriali ai danni del «grande malato», maturò il progetto di Il movimento rinnovamento politico-istituzionale del movimento dei cosiddetti Giovani dei Giovani Turchi Turchi. Formato per lo più da intellettuali, provenienti dalle file dell’eser­ cito e in misura minore della burocrazia, e dalle élite colte della società turca, più sensibili alla cultura europea, il movimento dei Giovani Turchi premeva per una trasformazione in senso liberale delle strutture imperia­ li, che tenesse conto dell’esperienza delle riforme del tanzimat e dei mo­ delli istituzionali degli Stati europei. Nell’estate del 1908 i Giovani Turchi, che univano ideali nazionalisti ad aspirazioni di rinnovamento costituzio­ nale, passarono alla rivolta aperta per costringere il sovrano a ripristinare La rivolta aperta la Costituzione del 1876 e a riconvocare il Parlamento. L’anno successivo e il nuovo Parlamento il sultano Abdulhamid II (-->), che già era stato costretto a rimettere in vigore la Costituzione e a indire le elezioni, fu deposto e sostituito dal fra­ tello Maometto V (->-)• Tuttavia, una volta giunti al potere, i Giovani Turchi non riuscirono a risolvere il problema cruciale delle spinte indipendentistiche dei popoli europei ancora soggetti al dominio ottomano. Fu­ rono infatti attuate riforme per ridurre i poteri del sultano e rendere i mi­ nistri responsabili davanti al Parlamento ma, al tempo stesso, i Giovani Turchi realizzarono un ordinamento amministrativo ancora più centrali- Centralismo stico di quello precedente e lo stesso Parlamento, tra il 1909 e il 1911, si e nazionalismo servì dei suoi poteri per limitare le libertà personali e di stampa. Abban­ donate, dunque, le istanze liberali delle origini, i Giovani Turchi accen­ tuarono il loro nazionalismo ai danni delle minoranze non turche, con l’effetto di esasperare ancor di più il loro malcontento.

3.1 Stati Uniti: come nasce una potenza mondiale 3.2 L'America Latina nel secolo del liberalismo 3.3 Giappone: la trasformazione tra progresso e tradizione 3.4 Cina: la fine di un Impero 3.5 Africa: le dinamiche della colonizzazione

Capitolo 3

Oltre l'Europa

3.1 Stati Uniti: come nasce una potenza mondiale L'impetuoso sviluppo economico

La colonizzazione dell'ovest

Il «mito della frontiera» come mito fondativo

L’impetuoso sviluppo economico degli Stati Uniti, che a partire dall’indipendenza ottenuta ufficialmente dalla Gran Bretagna nel 1783 avrebbe trasformato in poco più di un secolo una ex colonia in una delle più grandi potenze del mondo, fu possibile grazie alle immense risorse offerte dal territorio, al costante flusso migratorio proveniente dall’Eu­ ropa e al continuo allargamento dei confini dell’Unione verso ovest. La popolazione passò infatti dai 5,3 milioni del 1800 ai circa 23 milioni del 1850 fino a raggiungere i 76 milioni nel 1900. Tra il 1800 e il 1860, poi, entrarono a far parte dell’Unione 17 nuovi Stati. A partire dagli anni Venti e Trenta, infatti, centinaia di migliaia di persone, provenienti per lo più dalle regioni del nord-est, penetrarono al di là della catena degli Appalachi e nelle immense praterie del West, dando vita a nuovi Stati e introducendovi un sistema economico-sociale fondato sulle aziende agricole e sull’allevamento del bestiame. Nell’immaginario collettivo del popolo americano, la colonizzazione dell’ovest ha sempre rappresen­ tato il simbolo e la quintessenza dello spirito d’iniziativa individuale, dell’intraprendenza dei singoli, capaci di dominare una natura possente e selvaggia e della vocazione intrinsecamente democratica della società americana. Infatti, in assenza di gerarchie sociali preesistenti, i pionieri impostarono la politica e i rapporti sociali su criteri di profondo eguali­ tarismo, ben diversi da quelli che reggevano gli Stati del nord e del sud. Tuttavia, questa immagine tradizionale dei pionieri come uomini li­ beri, artefici del proprio destino, in lotta perenne contro le forze della natura per imporvi progresso e civiltà fu, sotto alcuni aspetti, una co­ struzione della retorica nazionale utile, da un lato, a soddisfare interessi economici ben precisi e, dall’altro, a gettare le basi del mito fondativo della nazione americana. Il «mito della frontiera», visto come simbolo dei successi del libero mercato e come manifestazione vincente del vo-

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lontarismo dei singoli, nascondeva in realtà molte contraddizioni: la conquista dell’ovest non fu affatto un processo semplice, pacifico e line­ are. L’indebitamento dei coloni con le banche o gli speculatori per riu­ scire ad acquistare i lotti di terra, le occupazioni abusive delle terre stes­ se, le continue violenze perpetrate nei confronti dei «nativi», ossia di quelle popolazioni che abitavano il continente americano prima della colonizzazione dei bianchi, la difficile convivenza che si venne a stabili­ re nelle comunità di frontiera fra bianchi, ispanici e meticci furono tutti elementi ben presenti durante la corsa all’ovest, nonostante l’iconogra­ fia tradizionale li abbia progressivamente cancellati. La nascita del mito fondativo della nazione americana, che trovò una delle massime espressioni nella colonizzazione del West, avvenne in pa­ rallelo al consolidamento delle strutture della democrazia americana, Consolidamento verificatosi nel corso degli anni Venti e Trenta e soprattutto durante la delle strutture presidenza di Andrew Jackson ( ^ -). Uomo dell’ovest e primo presiden­ democratiche te a non appartenere alla generazione che aveva fatto la Rivoluzione, Jackson fu anche il primo presidente ad essere eletto grazie al contribu­ to di una nuova classe di professionisti della politica che, di fatto, diede­ ro al Partito democratico il volto di un partito, per l’epoca, moderno e di massa, radicandone l’organizzazione e la diffusione sull’intero territorio nazionale. La presidenza Jackson, durante la quale furono aboliti i re­ La presidenza Jackson quisiti censitari per l’accesso al voto introducendo gradualmente il suf­ e l'ampliamento fragio universale maschile, corrispose pertanto alla progressiva evolu­ della partecipazione zione della politica americana verso una partecipazione popolare di politica massa, sempre più guidata e incanalata dai partiti attraverso le loro articolazioni locali, statali e nazionali. L’età jacksoniana fu anche quella durante la quale cominciarono a farsi sentire le prime tensioni fra gli Stati del sud e il governo federale. A Prime tensioni fra Stati dividere il nord dal sud del Paese erano infatti differenze di tipo econo­ del sud e del nord mico, sociale e culturale, che il boom demografico e il grande dinami­ smo dell’economia nella prima metà del secolo resero sempre più mar­ cate. Gli Stati del nord-est, che corrispondevano in buona parte ai primi insediamenti dei coloni britannici, avviarono infatti nel corso della pri­ ma metà del XIX secolo un impetuoso sviluppo di tipo industriale e im­ prenditoriale, mentre l’organizzazione sociale ed economica degli Stati del sud si fondava sulle grandi piantagioni lavorate per lo più da schiavi neri. Gli schiavi, discendenti dei neri trapiantati forzatamente in Ameri­ ca nel corso del Settecento, costituivano il perno dell’economia agricola del sud, ma rappresentavano altresì l’emblema vivente della contraddi­ zione dello spirito liberale e individualista che faceva da sfondo allo svi­ luppo capitalistico del nord. La frattura tra le due parti del Paese, a cui si andò gradualmente ad La questione della aggiungere quella con le regioni dell’ovest fondate su un sistema econo­ schiavitù dei neri mico di agricoltori e allevatori, si approfondì sempre di più sia sotto il profilo economico-sociale, sia sul piano culturale. Gli Stati del nord, per la cui economia la schiavitù era sostanzialmente inutile, la aboliro­ no progressivamente e cominciarono a condannarla anche sul piano morale. Per l’economia agricola del sud, invece, la schiavitù rappresen­ tava un fattore essenziale: permetteva infatti agli agrari di avvalersi del

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Frattura culturale e diversi interessi economici

La guerra contro il Messico e l'annessione di nuovi territori

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lavoro che gli schiavi erano costretti a svolgere nelle piantagioni, otte­ nendo in cambio solo vitto e alloggio. Giustificando il lavoro schiavista col presupposto che la manodopera nera riceveva protezione e istruzio­ ne in cambio del lavoro prestato, la cultura sudista intendeva accredita­ re un’immagine paternalistica del proprio sistema, contrapposto a quel­ lo del nord venale ed egoista dove il motore di tutto era esclusivamente il profitto. Ma tale stereotipo andava a cozzare contro il principio sul quale la nazione americana si era costruita a partire dalla Rivoluzione del 1776. Il principio, cioè, che poneva alla base del sistema repubblica­ no il cittadino libero, autonomo e capace di autodeterminarsi attraver­ so il lavoro. In quest’ottica, quindi, era il lavoro a dare dignità al singolo individuo e chiunque, per ragioni economiche, di età o di sesso, non go­ deva né di autonomia, né della possibilità di autodeterminarsi, non po­ teva diventare un cittadino a pieno titolo. A questa frattura di tipo cul­ turale si aggiungevano poi gli effetti prodotti dai diversi sistemi econo­ mici. Al nord, infatti, si stava consolidando un’economia fondata sull’industria e sul settore terziario, mentre l’agricoltura, impostata sul­ la piccola proprietà contadina, non assorbiva tutti i capitali e ne con­ sentiva quindi il reinvestimento nell’industria e nei commerci. Al sud, invece, la produzione di cotone e tabacco, destinata prevalentemente al mercato internazionale, faceva dipendere il sistema economico dalle fluttuazioni del mercato internazionale e dall’afflusso di capitali dal nord. Inoltre anche la politica doganale, stabilendo dazi sui prodotti manufatti per stimolare l’industria del nord, finì per accrescere il risen­ timento degli agricoltori del sud. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta l’iniziale integrazione tra le eco­ nomie del nord e del sud cominciò a incrinarsi. Dapprima le tensioni riguardarono i dazi doganali imposti dal governo federale, ma ben pre­ sto il nodo del contrasto divenne la questione della schiavitù, come si vide in occasione della guerra tra Stati Uniti e Messico. Scoppiata nel 1845 in seguito alla decisione del Congresso americano (—>-) di annet­ tere all’Unione i territori del Texas, che erano stati occupati progressi­ vamente dai pionieri, la guerra si concluse tre anni dopo con l’annes­ sione agli Stati Uniti di California, Nevada, Utah, parte dell’Arizona, del New Mexico, del Colorado e del Wyoming. Da una parte, la guerra contro il Messico risultò la prima applicazione di quel «destino mani­ festo» (-+ ) che in quegli anni entrò nel dibattito pubblico americano, attribuendo agli Stati Uniti un destino palese e autoevidente di colo­ nizzare l’intero continente americano per portarvi la democrazia, la ci­ viltà cristiana e il proprio ordine sociale e culturale. Dall’altra parte, tale conflitto ripropose in modo cruciale il problema della schiavitù. Nel 1850 fu raggiunto un fragile compromesso in base al quale il Texas sarebbe stato schiavista, mentre la California no; negli altri Stati si de­ cise di applicare il principio che a decidere se accettare o meno l’istitu­ to della schiavitù sarebbero stati gli elettori. Ne conseguì una vera e propria gara tra le élite dirigenti del nord e quelle del sud per inviare nei nuovi Stati annessi all’Unione i propri esponenti al fine di affer­ marvi quella che ormai era una vera e propria visione politica e cultu­ rale del futuro degli Stati Uniti.

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A rompere definitivamente il compromesso raggiunto nel 1850 sul destino schiavista o meno delle regioni del sud-ovest strappate al Mes­ sico sopraggiunse la nascita, nel 1854, di una nuova formazione politi­ ca, il Partito repubblicano. Originato in parte dall’ala progressista del Nasdta del Partito vecchio gruppo whig (—*■) legato alla borghesia industriale del nord e repubblicano alla tradizione federalista fautrice del rafforzamento del governo cen­ trale a scapito di quello dei singoli Stati, il partito assunse un profilo chiaramente antischiavista e ottenne in breve la maggioranza nel nord del Paese. L’altro grande partito, quello democratico, che aveva domi­ nato la scena politica fino a quel momento, era diviso tra una compo­ nente nordista e una sudista e, dal punto di vista elettorale, raccoglieva consensi sia tra gli agricoltori e gli artigiani delle regioni del nord e dell’ovest, sia fra i grandi proprietari del sud. Alle elezioni presidenzia­ Elezione di Lincoln li del 1860, il Partito democratico, presentatosi diviso con due candida­ ti, uno al nord e uno al sud, fu sconfitto dal candidato repubblicano Abraham Lincoln (—*■). Pur non teorizzando l’eliminazione della schiavitù laddove esisteva e non avendo fatto del proposito di abolirla il perno della propria cam­ pagna elettorale, Lincoln era profondamente convinto che il sistema schiavistico fosse un male morale, sociale e politico del quale non si poteva permettere l’espansione. Sentendosi minacciata dalla vittoria di Lincoln, la Carolina del Sud proclamò immediatamente la propria secessione dall’Unione e nel febbraio 1861, dopo che altri Stati del sud La secessione avevano seguito l’esempio della Carolina, nacque la Confederazione degli Stati del Sud e la nascita della degli Stati del sud sotto la presidenza di Jefferson Davis (—>). Per il presidente Lincoln, benché l’Unione si reggesse formalmente Confederazione sulla libera adesione di Stati sovrani, la secessione del sud costituiva un atto palesemente anticostituzionale, in quanto violava il responso della maggioranza degli elettori e dunque distruggeva i principi fondanti del­ le istituzioni americane. Il conflitto scoppiato nell’aprile del 1861 tra gli La guerra tra unionisti Stati dell’Unione e la Confederazione del sud non rappresentò dunque e confederati solo uno scontro tra schiavisti e anti-schiavisti, ma soprattutto una guerra tra unionisti e confederati, nella quale gli Stati secessionisti ap­ parivano al governo federale come ribelli il cui operato contraddiceva lo spirito e la lettera della Costituzione del 1787 (-»-). Se questo fu l’elemento scatenante del conflitto, la guerra civile mise anche definiti­ vamente di fronte due diverse visioni del futuro della nazione america­ na, cresciute e consolidatesi nel corso della prima metà del secolo, quel­ la del nord industriale e quella del sud agrario. Da una parte la borghe­ Nord industriale sia industriale del nord puntava al progresso economico, democratico e contro sud agrario morale del Paese da fondarsi essenzialmente sulFautodeterminazione dell’individuo; dall’altra parte, i grandi latifondisti del sud intendevano imporre il loro sistema fondato sull’economia agricola, sulla comunità dei bianchi, sulle tradizioni e su una vocazione intrinsecamente pater­ nalista dei rapporti sociali. I sudisti aprirono per primi le ostilità e, grazie al miglior addestra­ mento e alle notevoli capacità del loro comandante, il generale Robert Lee (-—►), ottennero importanti vittorie nei primi due anni di guerra. Prime vittorie Tuttavia, in virtù della schiacciante superiorità numerica della popola- dei sudisti

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Contrattacco e affermazione unionista

Abolizione della schiavitù

Gli effetti della sconfitta del sud

Le resistenze all'integrazione dei neri negli Stati del sud

La segregazione razziale

Progresso economico del nord

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zione degli Stati del nord, del loro vasto potenziale industriale e di una flotta relativamente forte che, presidiando le coste, impediva i riforni­ menti agli Stati ribelli, gli unionisti riuscirono nel luglio 1863 a fermare l’avanzata dei confederati verso Washington e Philadelphia, nella gran­ de battaglia di Gettysburg, in Pennsylvania, e immediatamente passaro­ no al contrattacco lungo il fiume Mississippi. Nel corso del 1864 le trup­ pe nordiste riuscirono a penetrare nel territorio nemico fino a invadere la Georgia e a spezzare, di fatto, lo schieramento sudista. Ormai allo stremo, i confederati si arresero il 9 aprile 1865. Qualche giorno dopo, il 14 aprile, un fanatico sudista assassinò il presidente Lincoln. La guerra civile, che coi suoi 600.000 morti rappresentò il più sangui­ noso conflitto della storia degli Stati Uniti e la prima vera guerra totale per le immense distruzioni, le tecniche innovative di lotta e il massiccio coinvolgimento della popolazione civile, mise fine alla schiavitù, come effetto del proclama di emancipazione emesso da Lincoln nel gennaio 1863 il quale, tuttavia, ne circoscriveva inizialmente l’applicazione solo agli Stati «ribelli» della Confederazione. Per l’economia del sud la guer­ ra ebbe effetti lunghi e disastrosi; non solo, infatti, le piantagioni subiro­ no vaste distruzioni dal passaggio degli eserciti, ma l’abolizione della schiavitù mise in ginocchio l’intero sistema del latifondo. Tutto questo accentuò il risentimento e l’ostilità della popolazione del sud nei con­ fronti del governo centrale. Sottoposto, fino a metà degli anni Settanta, a un vero e proprio regime di occupazione militare e governato dagli esponenti più radicali del Partito repubblicano, il sud bianco sviluppò forme di resistenza sempre più aspra sia verso l’integrazione dei neri, sia verso l’influenza politica ed economica degli Stati del nord. Nonostante, infatti, l’approvazione da parte del Congresso, dopo il 1865, degli emen­ damenti costituzionali che assicuravano cittadinanza e diritti agli ex schiavi, la piena integrazione dei neri negli Stati del sud non avvenne. Da una parte, i sudisti più insofferenti attivarono una vera e propria lot­ ta clandestina e violenta contro la popolazione nera, attraverso organiz­ zazioni paramilitari e razziste come il Ku Klux Klan (—►). Dall’altra, la fine dell’occupazione militare del sud nel 1876 quando, in cambio del vo­ to dei sudisti al Congresso per eleggere un presidente nordista, il gover­ no federale decise di abbandonare il progetto di ricostruzione del sud, comportò la definitiva esclusione dei neri dal «patto nazionale» e l’ini­ zio della segregazione razziale. Grazie all’indiscussa supremazia della popolazione bianca e a una legislazione che rispondeva ai suoi interessi, i governi degli Stati del sud riuscirono infatti a precludere ai neri il godi­ mento dei diritti civili e politici e a creare un regime di segregazione che li discriminava nelle scuole, sui luoghi di lavoro e nei locali pubblici e che sarebbe durato per quasi un secolo. A differenza del sud, le altre regioni conobbero invece, dopo la guer­ ra, un tumultuoso progresso economico, che interessò soprattutto le zo­ ne del nord-est attraversate da un imponente fenomeno di urbanizzazio­ ne; gli Stati Uniti avviarono inoltre una nuova fase di espansione territo­ riale. Grazie anche al potenziamento della rete ferroviaria venne infatti accelerata, fra gli anni Settanta e Ottanta, la conquista degli ultimi ter­ ritori dell’estremo ovest. A farne le spese furono le tribù dei pellirosse

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che abitavano da sempre quelle terre e tentarono di resistere strenua­ mente all’avanzata deH’«uomo bianco». Sconfitti e brutalmente decima­ Le «guerre indiane» ti nel corso delle cosiddette «guerre indiane» (-»-), i pellirosse furono e lo sterminio confinati in apposite riserve isolate e non si integrarono mai alla società dei pellirosse americana. Un altro fattore che accelerò lo sviluppo economico fu la nuova ondata migratoria che, negli ultimi tre decenni dell’Ottocento, ri­ Nuova ondata guardò soprattutto popolazioni provenienti dall’Europa meridionale e migratoria mediterranea. Siccome gli immigrati fornivano alle industrie manodo­ pera a basso costo di cui avevano estremo bisogno, il governo federale cercò di favorire l’immigrazione e nel corso degli anni Ottanta tolse tut­ ti i vincoli d’ingresso negli Stati Uniti, eccezion fatta per i cinesi. L’impetuosa crescita economica, accompagnata a fenomeni di urba­ nizzazione e aumento demografico, produsse, come stava avvenendo anche nei Paesi europei negli stessi anni, forti squilibri sociali e immen­ Disuguaglianze sodali se sacche di povertà. Negli Stati Uniti, tuttavia, al divario economico e sociale tra la borghesia benestante e le classi lavoratrici, si aggiungeva il problema della non facile integrazione tra le numerose etnie degli immi­ La difficile integrazione grati. La nuova ondata migratoria infatti, che non era più composta so­ tra le diverse etnie lamente da lavoratori bianchi e protestanti, innescò un ampio dibattito sul modo migliore di integrare i nuovi stranieri, eventualmente cercan­ do di «americanizzare» i loro costumi e disincentivare la pratica delle lingue e delle tradizioni dei Paesi d’origine. Durante gli ultimi due decenni del secolo, l’imponente sviluppo in­ dustriale e la nascita delle grandi concentrazioni industriali e finanzia­ rie, le cosiddette corporations (—>-), accentuarono le tensioni sociali e le lotte sindacali. Nel 1886 venne fondata {American Federation ofL a- Le lotte sindacali bor (—>) che riuniva gran parte delle precedenti organizzazioni sinda­ e la nascita cali e operaie. Diventata rapidamente la più numerosa e meglio struttu­ del YAmerican rata organizzazione per la tutela della classe lavoratrice, la AFL era in Federation ofLabor realtà una federazione di sindacati di mestiere che riunivano esclusivamente operai specializzati. Chiusa, quindi, a immigrati, neri, donne e operai non qualificati, 1American Federation ofL abor si limitava a tu­ telare i diritti delle «aristocrazie operaie» e non assunse una precisa ca­ ratterizzazione politica, come avvenne, invece, nella maggior parte dei sindacati europei. Anche il Partito populista, sorto nel 1892 sull’onda delle rivendica­ La meteora del Partito zioni dei contadini dell’ovest e del sud, danneggiati dal calo dei prezzi populista dei prodotti agricoli, dalle tariffe protezionistiche imposte dal governo centrale e dallo strapotere delle grandi corporations, non riuscì a inci­ dere in profondità nel sistema politico americano. Difendendo gli inte­ ressi dei contadini, patrocinando un vasto programma di nazionalizza­ zioni e la restituzione allo Stato delle terre incolte possedute dagli spe­ culatori, i populisti ottennero un discreto consenso fino al 1896 quando, di fatto, scomparvero dopo la sconfitta alle elezioni presidenziali del candidato democratico che essi stessi avevano fortemente appoggiato. Nonostante, quindi, negli anni a cavallo tra Otto e Novecento, gli Stati La debole Uniti conoscessero duri scontri di classe, anche a causa della forte resi­ politicizzazione stenza degli imprenditori, numerosi fattori impedirono una vera politi­ delle classi operaie cizzazione delle classi lavoratrici e dei movimenti sindacali. La manca-

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Politica estera

La «dottrina Monroe»

La guerra contro la Spagna

L'ascesa al rango di potenza mondiale

Storia contemporanea

ta saldatura tra le rivendicazioni operaie e quelle contadine, in parte riconducibile all’originaria divisione tra nord e sud, la frammentazione di tipo etnico, linguistico e religioso all’interno dello stesso ceto opera­ io, la presenza di una classe media robusta e culturalmente omogenea che temeva e ostacolava la radicalizzazione delle proteste dei lavoratori e, infine, il consolidamento del sistema bipartitico furono tutti elementi che, pur non eliminando gli scontri sociali, impedirono l’attecchimento di un forte partito socialista. Negli stessi anni in cui consolidavano la loro struttura interna, gli Stati Uniti furono anche impegnati ad affermarsi sulla scena internazio­ nale. Il principio guida restava quello formulato nel 1823 dal presidente James Monroe (->-), secondo il quale gli Stati Uniti dovevano porsi a garanti dell’equilibrio dell’intero continente americano e della difesa della sua autonomia da qualsiasi interferenza delle potenze europee. In nome di questo principio, la cosiddetta «dottrina Monroe», negli anni Sessanta il governo americano intervenne in Messico a sostegno delle forze repubblicane che si battevano contro l’imperatore Massimiliano d’Asburgo (—>■). Questi era stato posto sul trono dalla Francia di Napo­ leone III che intendeva fare del Messico un proprio Stato satellite. A n­ che grazie all’aiuto degli Stati Uniti, però, i repubblicani ebbero la me­ glio e nel 1867 Napoleone III fu costretto a richiamare le proprie trup­ pe, mettendo così fine alla breve esperienza dell’Impero messicano di Massimiliano, che venne giustiziato. Nel corso degli anni Novanta la «dottrina Monroe» cominciò ad es­ sere impiegata in forma sempre più estensiva, anche perché la crisi di so­ vrapproduzione che aveva colpito le economie dei Paesi industrializzati e degli stessi Stati Uniti nei due decenni precedenti aveva reso sempre più impellente la conquista di nuovi mercati. L’occasione propizia per stabilire nuove basi commerciali nell’oceano Pacifico e nel mar dei Caraibi venne dalla rivolta anticoloniale scoppiata nel 1895 nell'isola di Cuba, ancora sotto il dominio spagnolo. L’affondamento, il 15 febbraio 1898, della corazzata americana Maine ancorata nel porto dell’Avana spinse gli Stati Uniti a dichiarare guerra alla Spagna. Il conflitto, che si estese anche al Pacifico, dove la Spagna manteneva il dominio sulle Fi­ lippine e altre isole minori, si concluse nel giro di pochi mesi con la com­ pleta disfatta degli spagnoli. Con il trattato di Parigi dell’ottobre 1898, Cuba fu dichiarata indipendente, anche se di fatto entrò nell’orbita d’in­ fluenza americana, mentre Portorico, Filippine e Guam furono ceduti dalla Spagna agli Stati Uniti. Durante la guerra gli Stati Uniti avevano anche annesso formalmente le isole Hawaii, che già da tempo gravitava­ no nella loro orbita. La necessità di nuovi sbocchi per le proprie merci e la volontà di comporre le crescenti tensioni sociali ed etniche interne, a cui si aggiungevano alcuni dei tratti tipici dell’ideologia imperialista eu­ ropea, spinsero gli Stati Uniti a inaugurare alla fine del secolo una nuo­ va fase di politica estera, che li avrebbe in seguito elevati al rango di grande potenza mondiale.

Oltre l'Europa

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3.2 L'America Latina nel secolo del liberalismo Al termine delle guerre di indipendenza che, tra il 1810 e il 1825, Le guerre portarono i Paesi del Centro e del Sud America a liberarsi del dominio di indipendenza coloniale di Spagna e Portogallo, tutti i nuovi Stati, eccezion fatta per e le nuove repubbliche il Brasile che rimase una monarchia fino al 1889, si costituirono in re­ latinoamericane pubbliche. Le élite creole, di discendenza spagnola ma americane, vol­ lero in questo modo rinnegare qualsiasi legame con la vecchia monar­ chia cattolica e si appellarono ai principi del costituzionalismo liberale per sottolineare una volontà di cesura netta col passato coloniale. Tut­ tavia, per quanto diffusi e propagandati nel dibattito politico, gli ordi­ namenti del costituzionalismo parlamentare e le idee dellTlluminismo, che negli stessi anni stavano modificando gli assetti politico-istituzio­ nali di molti Paesi europei, non trovarono un’effettiva attuazione nei Paesi latinoamericani. L’estrema frammentazione del potere, infatti, Gli ostacoli che impediva ai governi di avere un controllo totale sul territorio, il re­ alla modernizzazione taggio culturale e istituzionale del vecchio sistema coloniale, i forti socio-politica squilibri sociali ed economici tra le élite creole e le masse popolari im­ pedirono che il processo di modernizzazione socio-politica si avviasse su una strada lineare e coerente. A partire all’incirca dalla metà del secolo, in coincidenza con l’asce­ Gli sforzi delle élite sa di una nuova generazione che risentiva maggiormente delle influenze liberali europee, le élite liberali cercarono di imporre in modo ancor più radica­ le e accelerato l’evoluzione delle società latinoamericane verso un ordi­ ne politico «moderno». Ritenendo, infatti, che se non si fosse imboccata la strada della modernizzazione liberale, non solo i Paesi latinoamerica­ ni sarebbero rimasti schiacciati dai vincoli secolari di un sistema arcai­ co, ma non avrebbero neppure potuto beneficiare dei vantaggi economi­ ci prodotti dall’industrializzazione europea e statunitense, le élite creole sferrarono un attacco radicale alla cultura e alle strutture socio-politi­ che preesistenti. Si cercò, per esempio, di contrastare il grande potere della Chiesa e di sostituire all’immaginario tradizionale che concepiva la società come un insieme armonico, omogeneo e indivisibile i principi dell’individualismo liberale e dell’autodeterminazione personale. Prin­ cipi che erano ostacolati sia dalla persistenza di una concezione organi­ cistica della società, retaggio del lungo passato coloniale, sia dalla radi­ cata presenza di una struttura socio-politica fondata sulla grande pro­ prietà terriera, Yhacienda, al cui interno i rapporti tra il latifondista, il peon (—►) e lo schiavo continuavano a essere quelli tradizionali, fatti di sfruttamento e paternalismo, di dominio economico ma anche di condi­ Concezione zionamento sociale e culturale. Anche la presenza dei caudillos, capi lo­ organicistica cali che, spesso appoggiati da milizie proprie, controllavano ampie por­ della società zioni di territorio, e in taluni casi l’intero Stato, rendeva oltremodo diffi­ e rigida stratificazione cile il superamento dell’ordine tradizionale e della rigida stratificazione gerarchica gerarchica della società. Più dell’accelerazione imposta dalle élite liberali, le quali tra l’altro si muovevano in uno spazio politico scarsamente istituzionalizzato, ri­ stretto e ancora legato a logiche di tipo notabilare, l’impulso alla moder­ nizzazione per i Paesi dell’America Latina venne, negli anni tra Otto e

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Integrazione con l'economia europea

Esportazione di materie prime

Vulnerabilità e instabilità

Conseguenze dello sviluppo economico

Permanenza delle grandi proprietà terriere

L'affermazione di regimi oligarchici

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Novecento, dalla progressiva integrazione delle loro economie con quel­ le dei Paesi europei. Furono infatti la crescente domanda di materie pri­ me da parte dell’Europa e i progressi nell’ambito dei trasporti interoce­ anici a favorire l’integrazione dei Paesi latinoamericani nel mercato in­ ternazionale. Adottando un sistema produttivo tutto orientato verso l’esterno, fondato sull’esportazione di materie prime agricole o minera­ rie, alcuni Paesi, in particolare Argentina, Brasile, Messico, conobbero una crescita economica straordinaria, soprattutto se raffrontata alla sta­ gnazione dei primi decenni del XIX secolo. Si trattò, comunque, di uno sviluppo molto differenziato da Paese a Paese; non tutti, infatti, si inte­ grarono nel mercato europeo a condizioni ugualmente favorevoli e l’af­ flusso di capitali e investimenti stranieri, soprattutto inglesi e statuni­ tensi, si indirizzò in modo prevalente sulle economie più promettenti. Al tempo stesso, questo modello economico tutto incentrato sulle espor­ tazioni, e in taluni casi su un sistema di vera e propria monocultura, pro­ duceva grande vulnerabilità anche nei Paesi che maggiormente se ne av­ vantaggiarono: saturazione dei mercati, brusche alterazioni dei prezzi delle materie prime, instabilità fiscale furono alcuni dei principali fatto­ ri di instabilità di queste economie fortemente dipendenti dai mercati internazionali e dalle loro fluttuazioni. La modernizzazione economica produsse anche rilevanti trasfor­ mazioni sociali, che furono tuttavia diverse a seconda dei Paesi e delle singole regioni. In generale comunque lo sviluppo economico avviò, co­ me del resto era avvenuto in Europa negli anni delle «rivoluzioni indu­ striali», un rapido processo di urbanizzazione specie nelle capitali na­ zionali o provinciali. Qui infatti, dove si concentravano le principali at­ tività burocratico-amministative, nel corso degli anni Venti del Novecento crebbero un nuovo ceto medio impiegatizio e anche i primi nuclei di proletariato urbano; l’affacciarsi del moderno conflitto tra ca­ pitale e lavoro diede poi vita ai primi movimenti e partiti che si batteva­ no per le rivendicazioni dei lavoratori e per l’allargamento della parte­ cipazione politica. In alcuni Paesi, come Argentina e Brasile, si verificò anche una vera e propria rivoluzione demografica già negli anni a ca­ vallo tra i due secoli, grazie soprattutto al massiccio flusso migratorio proveniente dall’Europa. Nelle campagne i cambiamenti indotti dai nuovi rapporti di produzio­ ne capitalistici furono importanti ma non tali da modificare del tutto la gerarchia sociale preesistente. Non si instaurò, infatti, un sistema di pic­ cole e medie proprietà agricole e le ristrette oligarchie dei grandi pro­ prietari continuarono a mantenere il controllo sulla produzione, semmai diversificando i propri investimenti anche nel settore commerciale, fi­ nanziario e nella nascente industria manifatturiera. L’espansione della produzione agricola e delle terre coltivate produsse comunque, in molti casi, la secolarizzazione delle proprietà ecclesiastiche e la privatizzazio­ ne di molte terre in precedenza coltivate dalle comunità indigene. Dal punto di vista politico, lo sviluppo economico dei decenni tra Otto e Novecento si accompagnò, seppur con differenze anche notevoli da Paese a Paese, all’affermazione di sistemi di stampo oligarchico ed elitario. Anche quando non si trattava di regimi apertamente autocrati­

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ci, il funzionamento delle istituzioni liberal-parlamentari era infatti ta­ le da circoscrivere il potere a ristrette élite che, nella maggior parte dei casi, erano le stesse che detenevano il potere economico e sociale. G ra­ zie a leggi elettorali che limitavano fortemente il diritto di voto e alla pratica diffusa di brogli e frodi in sede di elezioni, i sistemi latinoame­ ricani non conobbero, in questa fase, un vero processo di nazionalizza­ zione della politica. Gli stessi gruppi dirigenti, del resto, declinavano spesso gli assunti del liberalismo in modo peculiare, nella convinzione che il libero dispiegarsi del progresso, attraverso l’affermazione e l’emancipazione individuali, non fosse adatto alle società cronicamente arretrate e frammentate dei Paesi latinoamericani. Difendendo pertan­ to il diritto di «civilizzare» i propri Paesi, in quanto popolati da etnie strutturalmente refrattarie all’adozione dei modelli europei, queste éli­ te mantennero il saldo controllo di tutte le leve del potere politico, eco­ nomico e sociale fino all’incirca alla fine degli anni Venti del Novecen­ to e talvolta ben oltre. Pur garantendo una certa stabilità interna, i regimi oligarchici dell’età liberale non furono comunque immuni, specie dopo la Prima Guerra mondiale, da pressioni finalizzate all’allargamento della parte­ cipazione politica. Pressioni che assunsero quasi sempre tratti di forte nazionalismo e antiliberalismo, proprio perché crescevano all’interno di società dove la modernizzazione liberale era stata imposta dall’alto. Un esempio emblematico delle difficoltà dei Paesi dell’America Latina a ge­ stire in modo ordinato e graduale l’ingresso delle masse nella vita politi­ ca e sociale fu quello del Messico, dove la spinta alla democratizzazione produsse, all’inizio del Novecento, una lunga e sanguinosa rivoluzione. La rivolta contro il regime semidittatoriale del presidente Porfirio Diaz (—►), eroe della guerra contro i francesi degli anni Sessanta, che era al potere dal 1876, scoppiò nell’autunno del 1910 per iniziativa di Franci­ sco Madero (->-), un ricco proprietario terriero creolo, attorno al quale si coagularono sia le élite liberali sia un vasto movimento contadino. L’ondata rivoluzionaria spinse Diaz alle dimissioni e successivamente, nel novembre 1911, Madero fu eletto presidente. Fu a questo punto, però, che emerse il forte scollamento tra i gruppi liberali, i quali ritenevano conclusa la rivoluzione, e le masse contadine che premevano per una radicale riforma agraria che risolvesse definiti­ vamente il problema dell’iniqua distribuzione delle terre e delle misere condizioni in cui versavano i braccianti agricoli, per nulla avvantaggiati dalla crescita economica conosciuta dal Paese nei trent’anni precedenti. Guidati dai capi rivoluzionari Emiliano Zapata (—»-) e Pancho Villa (—>■), i contadini del sud e i lavoratori del nord continuarono la lotta provocando una violenta controffensiva reazionaria. All’inizio del 1913 Madero fu prima costretto a dimettersi e poi assassinato e la presidenza passò al generale Victoriano Huerta (->-), che si era posto a capo della controrivoluzione. La guerra civile tuttavia continuò, con crescente vio­ lenza, negli anni successivi, anche dopo l’estromissione di Huerta dal potere nel luglio 1914. Solo fra il 1919 e il 1920, dopo l’uccisione di Zapata e la resa ai gover­ nativi di Pancho Villa, la guerra nelle campagne venne definitivamente

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Pressioni per l'allargamento della partecipazione politica

La rivoluzione del Messico

La questione della riforma agraria

La sanguinosa guerra civile

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La mancata democratizzazione del Messico

domata. Nel febbraio del 1917, poi, era stata varata una nuova Costitu­ zione che coniugava i principi del costituzionalismo liberale a istanze di riforma e di giustizia sociale e finì quindi per conquistare alla causa go­ vernativa il proletariato urbano e, col tempo, anche le masse contadine. La fine della lunga rivoluzione messicana, che aveva prodotto oltre un milione di morti, non risolse comunque i gravi squilibri sociali all’ori­ gine della sollevazione contadina e soprattutto non avviò il Messico sul­ la strada della piena democratizzazione politico-istituzionale, nonostan­ te l’opera di normalizzazione svolta dal presidente Àlvaro Obregón (—>-) e dai suoi successori, specie Làzaro Càrdenas negli anni Trenta, il quale, pur avviando una riforma agraria di notevole ampiezza e appoggiando i sindacati e le organizzazioni dei lavoratori, incanalò l’ingresso delle masse nella vita politica secondo modalità che tendeva­ no a escludere il pluralismo politico, anticipando taluni dei caratteri che, come vedremo, furono propri dei regimi populisti latinoamericani. 3.3 Giappone: la trasformazione tra progresso e tradizione

La riapertura agli scambi commerciali con l'Occidente

Le condizioni imposte dagli Stati Uniti

La struttura feudale

Insieme agli Stati Uniti, il Giappone fu l’altro Paese extraeuropeo che nella seconda metà dell’Ottocento conobbe un’accelerata moderniz­ zazione economica e politica. Impermeabile da almeno tre secoli alle influenze straniere, il Giappone fu costretto proprio dagli Stati Uniti ad aprirsi agli scambi commerciali con l’Occidente, anche se i primi Pae­ si ad interessarsi al mercato giapponese erano stati la Russia, insediata fin dal Settecento nelle isole Curili, e la Gran Bretagna, che controllava i mari orientali. Nel 1854 furono però gli Stati Uniti, a seguito di spedi­ zioni navali guidate dal commodoro Matthew C. Perry (->-), a imporre ai giapponesi non solo l’apertura di alcuni porti alle navi americane, ma anche l’accettazione di una serie di vincoli e restrizioni, come l’esonero dal pagamento delle tasse doganali per gli americani e il loro diritto a essere giudicati da propri tribunali anche per reati commessi in Giap­ pone. Passati alla storia come «trattati ineguali» (->-), secondo un mo­ dello già applicato dalle potenze occidentali alla Cina, quelli imposti dagli Stati Uniti nel 1858 furono utilizzati analogamente, negli anni successivi, anche da Russia, Francia e Gran Bretagna per regolare i rapporti col Giappone. L’improvvisa apertura al commercio straniero e l’arrivo di mercanti e operatori europei e americani provocarono un vero e proprio terremo­ to politico e sociale. L’aumento vertiginoso dell’inflazione e dei prezzi aggravarono i già forti squilibri presenti nel Paese e questo, assieme alla volontà di alcuni settori della società giapponese di innovare le istituzio­ ni, mise in moto un processo di radicale trasformazione che comportò anche una graduale, seppur selettiva, apertura ai contributi culturali, scientifici e tecnologici provenienti dall’esterno. Il Giappone aveva an­ cora una struttura politico-economica di stampo feudale, dove tutto il potere era detenuto da una nobiltà terriera di grandi feudatari, i daimyo (-*-), che lo esercitavano attraverso la suprema autorità politica e mili­ tare dello shogun (—*■) e avevano al loro servizio una nobiltà minore di

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guerrieri, i samurai (—►). Formalmente alla guida dello Stato vi era l’imperatore, ma di fatto si trattava di un’autorità puramente simbolica e religiosa. AH’ultimo gradino della scala sociale si trovavano i mercanti e i contadini. Mentre i primi, che costituivano un gruppo numericamente ridotto, avevano acquisito, nel tempo, un discreto prestigio e potere eco­ nomico, i contadini, che rappresentavano oltre l’80% della popolazione, vivevano in condizioni durissime, soprattutto a causa delle imposte e dei balzelli che dovevano versare alla nobiltà dei daimyo. Anche i samurai, privati di un’autonoma funzione sociale, se non quella di casta guerriera al servizio dei grandi feudatari, raramente riuscivano a raggiungere po­ sti di prestigio nell’esercito e nella burocrazia e quasi mai si dedicavano all’attività mercantile, giudicata indegna per un nobile. Il processo che, nel corso degli anni Sessanta del XIX secolo, mise fi­ ne a questo arcaico sistema coinvolse sia alcune famiglie di grandi feu­ datari, che accusavano il regime dello shogunato di aver stipulato, con­ tro la volontà dell’imperatore, i trattati commerciali con le potenze stra­ niere, sia gli strati medio-bassi del ceto dei samurai, desiderosi di riscatto sociale e convinti della necessità di svecchiare le strutture economico-sociali del Giappone. Nonostante le promesse dello shogun di intraprendere alcune riforme burocratiche e militari e il tentativo di coinvolgere nel governo i daimyo e lo stesso imperatore, l’opposizione allo shogun si fece sempre più forte. Nell’aprile del 1868 gli eserciti dei maggiori feudatari occuparono la città imperiale di Kyoto e, proclaman­ do la restaurazione imperiale in nome del giovane imperatore Mutsuhito (->-), o imperatore Meiji, dichiararono decaduto lo shogunato. L’im­ peratore, recuperati i suoi poteri effettivi, si trasferì da Kyoto a Tokyo, che divenne la nuova capitale del Giappone. Iniziò così un’epoca di «governo illuminato» durante il quale la clas­ se politica che si sostituì allo shogun produsse numerose riforme in am­ bito amministrativo, politico, sociale e fiscale, gettando in pochi anni le basi del Giappone moderno e industrializzato. Furono cancellati i privi­ legi feudali e, tra il 1868 e il 1871, si procedette all'accentramento ammi­ nistrativo, trasformando i vecchi feudi in circoscrizioni amministrate da governatori. Nel 1872-73 la riforma del sistema scolastico nazionale in­ trodusse l’obbligo dell’istruzione e negli stessi anni anche il servizio mi­ litare, sottratto al monopolio della vecchia casta dei samurai, divenne obbligatorio. Un’imponente riforma del sistema fiscale consentì poi allo Stato di disporre delle risorse necessarie per finanziare una politica di sviluppo industriale e la costruzione delle necessarie infrastrutture: ponti, ferrovie, telegrafo, strade accompagnarono infatti la fondazione di industrie moderne nel settore tessile, idroelettrico e siderurgico. Lo Stato intervenne massicciamente in questo processo di industrializza­ zione, facendo anche ricorso al contributo di tecnici stranieri; furono in­ fatti reclutati oltre 6.000 professionisti europei ed americani e la tecno­ logia straniera venne importata attraverso la fruttuosa interazione tra l’acquisizione di brevetti e l’invio all’estero di giovani per soggiorni di studio. Questo repentino processo di occidentalizzazione non snaturò, tuttavia, le tradizioni culturali e religiose più profonde del Giappone. Lo scintoismo la religione più diffusa tra la popolazione, che vene-

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L'opposizione allo shogunato

La «restaurazione Meiji»

L'epoca delle riforme

Il processo di industrializzazione

Permanenza delle tradizioni culturali e religiose

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Un sistema rappresentativo precario

La «rivoluzione dall'alto»

Accelerazione dello sviluppo economico

La vittoria contro la Cina

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rava l’imperatore come discendente degli dei e gli riconosceva formal­ mente tutti i poteri, riprese vigore negli anni della «restaurazione Meiji» e il sistema rappresentativo introdotto dalla Costituzione rimase, di fat­ to, assai precario. Concessa nel febbraio del 1889, la Costituzione si ispirava solo in parte, infatti, ai principi del liberalismo europeo e fu il risultato di un’aspra lotta politica che oppose l’oligarchia Meiji alle due formazioni politiche, il Partito liberale e quello progressista, sorti in quegli anni co­ me espressione degli interessi della nuova borghesia imprenditoriale e rurale. Mentre liberali e progressisti presentarono progetti costituziona­ li di stampo liberal-democratico, la Costituzione del 1889 lasciava anco­ ra molti poteri all’imperatore, tra cui la titolarità del potere esecutivo. Delle due Camere che formavano il Parlamento, una era nominata dal sovrano, l’altra eletta con un suffragio censitario che esprimeva, di fatto, la rappresentanza dei grandi imprenditori e mercanti. Al Parlamento erano riconosciuti il potere legislativo e la facoltà di respingere le leggi di bilancio, ma non esercitava alcun controllo sul governo. Quella in atto in Giappone negli ultimi tre decenni dell’Ottocento fu, quindi, una vera e propria «rivoluzione dall’alto», in quanto la rapi­ da modernizzazione economica e politica si realizzò senza il coinvolgi­ mento, diretto o indiretto, degli strati inferiori della società e senza compromettere il potere dei ceti privilegiati, né l’ordine gerarchico tra­ dizionale. Grazie a un’anomala sintesi tra «anima giapponese» e «tec­ nica occidentale», i governi dell’epoca Meiji impressero al Giappone un accelerato sviluppo che, pur mantenendo in vita molti dei vecchi tratti autoritari del sistema politico, portò il Paese, alla fine del secolo, ad avere un tasso di crescita del prodotto nazionale fra i più alti al mondo. Se da una parte, dunque, le vecchie oligarchie feudali lasciarono il po­ sto a nuovi ceti dirigenti di imprenditori, gruppi finanziari, proprietari terrieri e grandi mercanti, dall’altra le precarie condizioni dei contadi­ ni non furono modificate. Si assistette pertanto, proprio nella fase del massimo slancio riformatore dei governi, alla radicalizzazione delle proteste contadine, che assunsero le sembianze della classica jacquerie (—*■) occidentale. Alle soglie del XX secolo, oltre a cercare di rivedere alcune delle clausole più svantaggiose dei trattati commerciali siglati dal vecchio shogunato negli anni Cinquanta, il Giappone si sforzò anche di afferma­ re la propria egemonia nelle regioni dell’Asia orientale, sottoposte pre­ valentemente all’influenza deH’Impero cinese. Dalla competizione con la Cina per il controllo sulla Corea, ne scaturì il conflitto sino-giappone­ se del 1894-1895, che si concluse con la netta vittoria del Giappone. La Cina si impegnava a pagare ai vincitori una forte indennità di guerra, a cedere l’isola di Taiwan, l’arcipelago delle Pescadores, situato nello stretto di Formosa, e la penisola di Liaotung; rinunciava inoltre a qual­ siasi pretesa sulla Corea, lasciando di fatto campo libero al Giappone. Sebbene le potenze europee, in particolare Russia, Francia e Ger­ mania, fossero intervenute per ridimensionare gli acquisti territoriali del Giappone, obbligandolo alla restituzione del Liaotung, proprio la guerra tra Giappone e Cina aprì la strada alla penetrazione europea nei

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territori dell’Impero Celeste. Negli anni successivi, infatti, la Russia oc­ cupò alcune province della Manciuria, sottrasse progressivamente la Corea all’influenza del Giappone e nel 1898 installò una base navale a Port Arthur. L’attrito fra Russia e Giappone per il controllo delle regio­ L'alleanza ni nordorientali della Cina esplose nel 1904, dopo che nel 1902 il Giap­ con la Gran Bretagna pone si era alleato con la Gran Bretagna; tale alleanza avrebbe costitui­ to il pilastro della diplomazia giapponese per i primi vent’anni del Nove­ cento. Forte della copertura finanziaria inglese e americana e sicuro delle propria superiorità militare, il Giappone attaccò nel febbraio 1904 la flotta russa nel Mar Giallo e cinse d’assedio Port Arthur. La guerra si La vittoria schiacciante concluse dopo poco più di un anno con la schiacciante vittoria del Giap­ contro la Russia pone, che ottenne la Manciuria meridionale, la metà meridionale dell’isola di Sakhalin e il riconoscimento del protettorato sulla Corea, successivamente annessa in modo definitivo nel 1910. La vittoria nella guerra con la Russia, se da un lato affermò a livello Inasprimento internazionale la potenza del Giappone, primo Paese asiatico a sconfig­ delle tensioni interne gere uno Stato europeo, dall’altro acuì le tensioni interne. La guerra, in­ fatti, era stata vinta a prezzo di gravi perdite e di pesanti sacrifici della popolazione; inoltre il rapido progresso economico, che aveva portato la produzione industriale a superare quella agricola, aveva accentuato il divario tra città e campagna. Dopo il 1905, quindi, si inasprirono i con­ flitti sociali e si ebbero i primi grandi scioperi nelle industrie e nelle mi­ niere. I governi succedutisi fra il 1906 e il 1912, anno della morte dell’im­ peratore, a fronte di qualche concessione alle richieste operaie come la prima legislazione di fabbrica varata nel 1911, procedettero alla dura re­ Repressione pressione delle proteste. Furono colpiti soprattutto il movimento anar­ delle proteste chico e l’appena costituito Partito socialista, messo fuori legge nel 1907 appena un anno dopo la sua costituzione. Al tempo stesso, attraverso il potenziamento del culto scintoista e l’addestramento militare della po­ polazione, per tenerla costantemente preparata ad un’eventuale guerra, la classe dirigente giapponese cercò di tenere a freno le tensioni sociali e politiche interne. 3.4 Cina: la fine di un Impero Anche nel Celeste Impero, seppure con modalità ed esiti diversi da quelli del Giappone, la penetrazione dei mercanti stranieri, in particola­ re inglesi, mise in crisi, nel corso della seconda metà dell’Ottocento, il secolare equilibrio sociale e politico. Retto fin dalla metà del XVII se­ colo dalla dinastia dei Qing, l’Impero cinese, che contava oltre 400 mi­ lioni di abitanti nel 1846, era di fatto amministrato da una potente casta di burocrati, i mandarini (->-), che provenivano per lo più dalla grande nobiltà terriera ma esercitavano il loro potere, in nome dell’imperatore, non tanto in virtù di privilegi aristocratici ereditari, quanto per meriti intellettuali. Custodi del confucianesimo (->-), i mandarini costituivano da secoli i pilastri di uno Stato burocratico fortemente centralizzato. Nonostante alcune riforme promosse nel corso del Settecento, per ren­ dere l’apparato statale più efficiente e per aumentare la produzione agri-

La crisi di un equilibrio secolare

Il potere dei mandarini

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Gli inglesi e il traffico dell'oppio

La prima guerra dell'oppio Schiacciante vittoria della Gran Bretagna

La rivolta dei Taiping nelle regioni meridionali

Seconda sconfitta contro gli inglesi

Repressione dei Taiping

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cola, gran parte della popolazione, artigiani, mercanti ma soprattutto contadini, viveva in condizioni molto precarie. AlFimmobilismo del sistema socio-politico corrispondeva un orgo­ glioso isolamento rispetto alla penetrazione occidentale: unica conces­ sione del governo cinese era la possibilità offerta ai mercanti inglesi di operare nel porto di Canton sotto la stretta sorveglianza delle autorità imperiali. Lo scontro con la Gran Bretagna fu originato dal commercio dell’oppio che, da tempo coltivato in India, gli inglesi esportavano clan­ destinamente in Cina. Qui, infatti, era ampiamente consumato, benché la legge lo proibisse e, soprattutto nel sud del Paese, si era formato un potente gruppo di contrabbandieri che, a volte col sostegno di funziona­ ri corrotti, partecipavano al commercio britannico. La decisione di fer­ mare questo traffico fu dettata soprattutto dalla necessità di stroncare le attività dei contrabbandieri delle regioni meridionali, dove già da tempo stava crescendo una latente opposizione al potere centrale. Alla fine del 1839 venne quindi sequestrato e bruciato un intero ca­ rico di oppio giunto sulle navi inglesi nel porto di Canton. Gli inglesi, ritenendo che fossero stati violati i diritti di navigazione, risposero at­ taccando militarmente Canton e altri porti della Cina. La guerra si concluse nel 1842 con la schiacciante vittoria della Gran Bretagna che impose alla Cina il trattato di Nanchino: gli inglesi ottenevano la ces­ sione di Hong Kong, l’abrogazione del divieto d’importazione dell’op­ pio, l’apertura al commercio internazionale di altri cinque porti, tra cui quello di Shanghai, e un risarcimento monetario come indennità per l’oppio distrutto. Oltre a mettere a nudo la debolezza militare dell’Impero Celeste, la cosiddetta prima guerra dell’oppio fece esplodere le tensioni sociali che covavano da tempo. Dopo il 1850, infatti, le regioni meridionali furono teatro della rivolta dei Taiping (—>-), una ribellione di contadini che, sulla base di un'ideologia egualitaria di ispirazione vagamente cristia­ na, si proponevano di realizzare il Regno celeste della Grande Pace. Dotati di un potente esercito, i Taiping occuparono una vasta porzione della Cina meridionale, tra cui Nanchino che divenne la loro capitale. La rivolta dei Taiping si incrociò con un nuovo conflitto tra Cina e Gran Bretagna, affiancata in questo caso dalla Francia. La guerra, scoppiata nel 1856 in seguito all’attacco a una nave inglese nel porto di Canton, si concluse nel 1860 con nuove concessioni agli occidentali, tra cui l’apertura di altri porti, l’accesso alle vie fluviali interne e il diritto per gli europei di acquisire proprietà in Cina. Al tempo stesso, tuttavia, Francia e Gran Bretagna appoggiarono il governo centrale nella re­ pressione dei Taiping, i quali a metà degli anni Sessanta furono costret­ ti a mettere fine al loro governo autonomo nelle regioni meridionali. La ribellione dei Taiping fu comunque solo il primo atto di una serie di lot­ te e rivolte contadine sanguinosamente represse dal governo centrale, che continuava a indirizzare tutte le misure a sostegno dell’agricoltura solo a beneficio dei ricchi proprietari. Nonostante le sconfitte militari avessero incrementato i rapporti commerciali tra la Cina e l’Occidente, la classe dirigente continuò a op­ porre una ferrea resistenza alla penetrazione straniera e, identificando

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negli armamenti moderni la ragione della superiorità delle potenze eu­ ropee, avviò un consistente programma di potenziamento dell’industria bellica. Tali misure non impedirono tuttavia alla Cina di venire nuova­ mente sconfitta, questa volta dal Giappone nella guerra del 1894-95 (cap. 3.3). Fu soprattutto a partire da questo momento che prese a cre­ scere un movimento ultranazionalista e xenofobo il quale, favorito an­ che dai ceti dirigenti, ebbe un vasto seguito soprattutto tra i contadini del nord. Questo movimento, guidato da un’organizzazione segreta di stampo paramilitare denominata Società di giustizia e concordia, ma più nota col termine inglese di Boxer (—>-), radicalizzò la propria prote­ sta contro gli stranieri alla fine degli anni Novanta, prendendo d’assalto le missioni cristiane e le legazioni europee. Nel 1900, quando le violenze e le rivolte toccarono il picco più alto, le potenze europee, insieme a Sta­ ti Uniti e Giappone attaccarono militarmente la Cina, per liberare il quartiere delle ambasciate straniere a Pechino assediate dai Boxer, sconfiggendola nuovamente. L’ennesimo insuccesso militare mise definitivamente in crisi il gover­ no dellTmpero Celeste e la sua politica ispirata al tradizionalismo più reazionario. La cronica debolezza dellTmpero favorì, d’altronde, l’emer­ gere di una nuova élite. Già dagli anni Novanta, infatti, giovani intellet­ tuali delle regioni meridionali, che avevano avuto maggiori contatti con gli stranieri, proponevano una riforma radicale di stampo «occidentale» delle strutture del Paese. Influenzata dalla cultura europea, questa gio­ ventù intellettuale trovò il sostegno dei nuovi ceti mercantili che si sta­ vano formando nelle città portuali del sud, in particolare a Shanghai. Su questo sfondo, a cui si aggiungeva il progressivo distacco dei no­ tabili della Cina meridionale dal governo centrale, giudicato inefficien­ te e vessatorio, si inserì l’azione di Sun Yat-sen (->-), un medico cantonese che aveva vissuto a lungo all’estero e nel 1905 fondò l’organizza­ zione Tung meng hui (Lega di alleanza giurata). Di idee repubblicane, Sun Yat-sen si batteva per i cosiddetti «tre principi del popolo», ovvero indipendenza nazionale, potere del popolo, da attuarsi mediante le isti­ tuzioni rappresentative, e benessere del popolo, da ottenersi con una radicale riforma agraria. Il suo programma, nel quale confluivano sia aspetti della cultura occidentale sia elementi della tradizione rivoluzio­ naria cinese, in particolare quella espressa dai Taiping, riuscì ben pre­ sto a catalizzare il vasto e differenziato malcontento verso l’autocratico regime imperiale. Alla fine del 1911 una serie di sommosse, innescate dalla decisione del governo di affidare a imprese straniere il controllo della rete ferro­ viaria nazionale, dilagarono nel sud della Cina, provocando l’ammutina­ mento di alcuni reparti dell’esercito. Il 29 dicembre i delegati di sedici Parlamenti provinciali dichiararono decaduto il potere imperiale, pro­ clamarono la Repubblica e nominarono, il 1° gennaio 1912, presidente provvisorio Sun Yat-sen. Il nuovo regime repubblicano, tuttavia, non estendeva il proprio controllo alle province del nord e Sun Yat-sen, che aveva cercato invano il sostegno delle potenze straniere, per preservare il Paese dalla guerra civile fu costretto a chiedere l’appoggio di Yuan Shi-kai (—■>-), un militare ultraconservatore. Alla fine, la dinastia impe-

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Sconfitta contro il Giappone

tendenze ultranazionaiiste e xenofobe

La rivolta dei Boxer

Crisi dell'Impero e affermazione di una nuova élite filooccidentale

Il programma rivoluzionario di Sun Yat-sen

Proclamazione della Repubblica

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L'ultraconservatore YuanShi-kai

L'instaurazione della dittatura

Storia contemporanea

riale abdicò a favore della Repubblica, ma Sun Yat-sen dovette lasciare la presidenza a Yuan Shi-kai. La prospettata istituzione di un sistema parlamentare si rivelò quindi estremamente difficile, anche se alle elezioni del 1912 il partito fondato da Sun Yat-sen, il Guomindang, ottenne la maggioranza. La spinta alla modernizzazione e alla democratizzazione del sistema poli­ tico promossa dal Guomindang e dagli intellettuali rinnovatori che avevano sostenuto la nascita della Repubblica si opponeva, infatti, agli interessi dei notabili conservatori i quali, avendo in Yuan Shi-kai il lo­ ro punto di riferimento, intendevano reprimere qualsiasi trasformazio­ ne, anche solo culturale, che potesse minacciare l’ordine e gli equilibri tradizionali nelle campagne. Forte dell’appoggio dei notabili locali e dei governatori militari che detenevano il controllo sulle province, Yuan Shi-kai trasformò progressivamente, tra il 1914 e il 1916, il suo potere in aperta dittatura. 3.5 Africa: le dinamiche della colonizzazione

La tratta atlantica degli schiavi

Forme di schiavitù interna

Debolezza delle strutture istituzionali

Dinamismo e crescita dei rapporti commerciali

Anche per l’Africa l’Ottocento fu un secolo di cambiamenti politici, economici e sociali assai rilevanti. Tali mutamenti furono prodotti in parte dal progressivo esaurimento della tratta atlantica degli schiavi, che tuttavia avvenne in un tempo lungo, ossia tra il 1807, quando l’In­ ghilterra abolì la tratta, e il 1888 anno dell’interdizione del commercio degli schiavi da parte del Brasile, ultimo Paese occidentale a prendere questo provvedimento. In questa fase si moltiplicarono inoltre gli scam­ bi commerciali cosiddetti «leciti» che univano le società africane tra lo­ ro e con il mercato mondiale, anche se spesso questo comportò l’inten­ sificazione di forme di schiavitù interna. Dal punto di vista politico, il panorama delle formazioni statuali africane del XIX secolo, prima dell’intervento diretto delle potenze europee, era caratterizzato da una notevole varietà di strutture e tipologie istituzionali, da regni a cittàstato, da imperi a sistemi politico-sociali fondati sulle comunità di vil­ laggio o di clan. La debolezza istituzionale di gran parte di queste for­ mazioni, insieme alle devastazioni provocate dalla tratta schiavistica, dalle guerre e dai conseguenti trasferimenti di popolazioni, dalla diffu­ sione di nuovi tipi di epidemie rendevano tuttavia in molti casi assai fragile il collante politico che teneva insieme le società africane. Una parziale eccezione era rappresentata dalla regione sahariana e da quel­ la della costa nord-occidentale, controllate da potentati locali e da re­ gni musulmani dove un importante elemento di coesione era dato dalla religione islamica. Lo stesso valeva per l’Impero etiopico, il più vasto e solido fra gli Stati africani, la cui popolazione era nella stragrande mag­ gioranza di religione cristiana. Nonostante però la debolezza delle sue strutture istituzionali, l’Afri­ ca precoloniale, pur con differenze notevoli da regione a regione, si pre­ sentava come una realtà abbastanza dinamica, permeabile alle influen­ ze esterne e, specie col progressivo esaurimento della tratta degli schia­ vi, legata da crescenti rapporti commerciali coi mercati industriali

Oltre l'Europa

europei. La colonizzazione europea, che culminò nei decenni compresi tra gli anni Ottanta del XIX secolo e la Prima Guerra mondiale, andò quindi a interagire con società non completamente statiche e ciò rese molto complessi, e spesso traumatici, i processi di adattamento delle po­ polazioni africane ai cambiamenti imposti dalle potenze colonizzatrici. La data simbolo dell’inizio della «corsa alla spartizione» del conti­ nente africano, che le potenze europee consideravano alla stregua di ter­ ra nullius, è il 1884-1885 quando, per dirimere le contese suscitate fra i Paesi europei dall’occupazione belga del Congo, fu indetta da Bismarck una conferenza internazionale a Berlino. Anche se l’obiettivo non era quello di fissare i criteri per l’occupazione dell'Africa, bensì di impedire che la competizione coloniale alterasse gli equilibri fra le potenze euro­ pee, così faticosamente creati dal cancelliere tedesco, in quella sede si elaborarono i criteri di spartizione e controllo dell’Africa da parte delle grandi potenze. Venne infatti definito il principio dell’«effettiva occupa­ zione» che, comunicata agli altri Stati, sarebbe diventata l’unico elemen­ to sanzionatorio del possesso di un territorio. Tale principio, che pure lasciava ampi margini d’incertezza, visto che in molti casi l’occupazione si limitava a postazioni commerciali lungo le coste, accelerò comunque la corsa alla conquista di nuovi territori, soprattutto quelli ritenuti eco­ nomicamente vantaggiosi. Da quel momento in poi, la conquista effetti­ va e l’attuazione di sistemi di controllo coloniale, che pure erano iniziati già nel corso degli anni Settanta, proseguirono a ritmo molto intenso fi­ no alla Prima Guerra mondiale, e in taluni casi anche dopo. Prima del 1885 la penetrazione europea era iniziata nelle regioni nordafricane per iniziativa di Francia e Gran Bretagna. Nel 1881, infat­ ti, la Francia, che già possedeva dagli anni Trenta l’Algeria, occupò la Tunisia e l’anno successivo la Gran Bretagna assunse il controllo dell’Egitto che, pur restando formalmente indipendente, divenne da quel momento un protettorato britannico. Nominalmente legati all’Im­ pero ottomano, Tunisia ed Egitto erano di fatto amministrati da gover­ nanti locali e nel corso degli anni Settanta avevano conosciuto una timi­ da fase di modernizzazione che tuttavia, a causa della scarsità di risorse proprie e della dilagante corruzione amministrativa, non aveva prodot­ to alcun beneficio per le popolazioni. Di fronte quindi alle crescenti ten­ sioni interne e al forte indebitamento dei governi locali con le banche europee, Francia e Gran Bretagna optarono per l’occupazione militare. I francesi, col pretesto di un incidente alla frontiera con l’Algeria, impo­ sero alla Tunisia un regime di protettorato. In Egitto, dove era cresciuto un forte movimento nazionalista che rischiava di compromettere non solo il recupero dei crediti esteri ma anche il commercio britannico at­ traverso il Canale di Suez, la Gran Bretagna intervenne nell’estate del 1882, dopo che era scoppiata una rivolta antieuropea ad Alessandria. La conquista delle regioni dell’Africa settentrionale fu completata all’inizio del Novecento con l’occupazione francese del Marocco nel 1911 e quella italiana della Libia nel 1912. Da tempo oggetto delle mire francesi, il Marocco, dopo il 1904, subì una crescente occupazione da parte della Francia, che suscitò la ferma opposizione tedesca; l’impera­ tore Guglielmo II, infatti, oltre a proseguire la tradizionale politica anti-

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Colonizzazione europea

La «corsa alla spartizione» del continente africano tra'le grandi potenze

La Conferenza di Berlino e il principio dell'«effettiva occupazione»

Penetrazione nelle regioni nordafricane di Francia e Gran Bretagna

L'occupazione militare

L'occupazione francese del Marocco e la reazione tedesca

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L'occupazione italiana di Tripolitania e Cirenaica

La conquista dell'Africa subsahariana

La regione del Congo e lo sfruttamento delle materie prime

Spartizione tra Belgio, Francia, Germania e Gran Bretagna

Conflitto tra inglesi e boeri nell'Africa australe

Storia contemporanea

francese di Bismarck, rivendicava anche un ruolo più attivo e aggressivo nella competizione coloniale. Dopo due gravi crisi, nel 1905-6 e nel 1911, che rischiarono di scatenare una nuova guerra tra Germania e Francia, si arrivò ad una mediazione assegnando alla Francia il protet­ torato sul Marocco e alla Germania una striscia di territorio nel Congo francese. Proprio l’occupazione francese del Marocco diede impulso al­ le rivendicazioni dell’Italia sui territori della Tripolitania e della Cire­ naica, nominalmente sotto la sovranità dellTmpero ottomano. Spinta, come vedremo, anche dalle pressioni del crescente movimento naziona­ lista, la guerra fu più lunga e complessa del previsto e si concluse nel 1912 con la pace di Losanna, dopo un anno di duri combattimenti che si erano estesi anche all’isola di Rodi e all’arcipelago del Dodecaneso. La pace sancì la sovranità politica dell’Italia su Tripolitania e Cirenaica, la­ sciando al sultano solo l’autorità religiosa. Relativamente meno difficoltosa per le potenze europee fu la con­ quista dell’Africa subsahariana, a causa sia della debolezza delle orga­ nizzazioni politiche locali, sia della presenza lungo le coste, fin dal Cin­ que-Seicento, di numerosi scali controllati dai Paesi europei che se ne servivano per le rotte commerciali verso l’Estremo Oriente. A partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, e soprattutto dopo la Conferenza di Berlino del 1885, le potenze europee, in particolare Francia, Gran Bre­ tagna e Portogallo, accelerarono la penetrazione verso l’interno, sulla spinta del crescente bisogno di materie prime per le proprie industrie e della necessità di intraprendere nuove forme di commercio dopo la fine della tratta degli schiavi. Di particolare interesse economico era la re­ gione del Congo e fu per questo che il re Leopoldo II del Belgio (—►) ne intensificò il controllo all’inizio degli anni Ottanta, suscitando l’opposi­ zione di Francia e soprattutto Portogallo, che rivendicava il possesso della foce del Congo per contiguità con la propria colonia dell’Angola. Dopo la Conferenza di Berlino re Leopoldo riuscì a farsi riconoscere la sovranità personale sul vasto territorio del cosiddetto Stato libero del Congo, che in realtà era una vera e propria colonia sulla quale le compa­ gnie concessionarie operarono ogni sorta di sfruttamento. Alla Francia andarono i territori sulla riva destra del fiume Congo e, dopo anni di sanguinose guerre di conquista contro gli Stati musulmani del Sahara, i francesi riuscirono a impadronirsi di una vastissima porzione di territo­ rio, per lo più desertico, dall’Atlantico al Sudan, dal Mediterraneo al ba­ cino del Congo. La Germania, fra il 1884 e il 1885, conquistò invece To­ go, Camerun, Tanganyika e Rwanda-Urundi; questi ultimi furono uniti a formare l’Africa Orientale Tedesca. La Gran Bretagna occupò a sua volta le regioni di Cambia, Costa d’Oro, Sierra Leone e Nigeria. I maggiori interessi inglesi si rivolsero comunque verso l’Africa au­ strale. La Gran Bretagna, che già aveva strappato alla popolazione bianca locale dei boeri ( ^ - ) la Colonia del Capo, costringendoli a emi­ grare nell’entroterra dove avevano fondato gli Stati del Transvaal (1852) e dell’Orange (1854), conobbe un rinnovato interesse per la regione do­ po che, tra gli anni Sessanta e Ottanta, furono scoperti importanti gia­ cimenti di diamanti e oro. La politica aggressiva condotta, per conte degli inglesi, da Cecil Rhodes (—>), uomo d’affari e primo ministre

Oltre l'Europa

della Colonia del Capo tra il 1890 e il 1896, riuscì a estendere il dominio inglese fino alla regione del fiume Zambesi, che da lui prese il nome di Rhodesia. Le due repubbliche boere, ormai quasi completamente ac­ cerchiate dai possedimenti inglesi e minacciate dal massiccio afflusso di forestieri, gli uitlanders (->-), che intendevano sfruttarne le risorse minerarie, assunsero un atteggiamento sempre più ostile verso gli in­ glesi e gli stranieri. I contrasti si tramutarono in guerra aperta nel 1899, quando il presidente del Transvaal Paulus Kriiger (—*■) dichiarò guerra alla Gran Bretagna. Il conflitto, lungo e sanguinoso, vide inizialmente i boeri riportare importanti vittorie, causando una grossa crisi politica in Gran Bretagna che vedeva messo in discussione il proprio primato militare da Paesi non europei. Alla fine tuttavia i boeri, sconfitti, do­ vettero accettare nel 1902 l’imposizione dell’autorità inglese. L’annes­ sione del Transvaal e dell’Orange allTmpero britannico non placò co­ munque la resistenza dei boeri; dopo un’iniziale dura repressione, la Gran Bretagna concesse a Transvaal e Orange uno statuto di parziale autonomia simile a quello della Colonia del Capo, a cui le due ex repub­ bliche boere furono unite, assieme al Natal già conquistato dagli ingle­ si, dando vita nel 1910 all’Unione Sudafricana. Da allora inglesi e boeri avrebbero fondato la loro reciproca collaborazione sullo sfruttamento delle immense risorse del Paese e sulla negazione dei diritti politici agli africani neri; quest’ultima misura si concretizzò nell’adozione di un re­ gime di segregazione razziale che durò fino al 1948 e fu seguito da un altro sistema di segregazione e discriminazione della popolazione indi­ gena detto apartheid (—>). Negli ultimi decenni dell’Ottocento la Gran Bretagna si assicurò an­ che il controllo su Uganda, Kenya, isola di Zanzibar, importantissima per le rotte commerciali verso l’oceano Indiano, e Sudan. In quest’ulti­ ma regione gli inglesi dovettero fronteggiare, all’inizio degli anni Ottan­ ta, la rivolta dei dervisci (->-), una setta religiosa islamica che si oppone­ va al controllo anglo-egiziano del territorio sudanese e che riuscì, nel 1885, a fondare uno Stato proprio. Nel 1898 proprio la regione del Sudan fu all’origine di una grave crisi diplomatica tra Gran Bretagna e Francia, dal momento che i due Paesi stavano sviluppando contemporaneamente dei piani di penetrazione nell’area, da nord a sud gli inglesi e da est ad ovest i francesi. Reparti dell’esercito britannico, impegnati nella ricon­ quista del Sudan, si incontrarono quindi con reparti francesi che aveva­ no occupato la roccaforte sudanese di Fashoda sulle rive del Nilo. Nono­ stante la forte tensione iniziale, che aveva portato le due potenze colo­ niali sull’orlo del conflitto aperto, i francesi decisero di abbandonare la regione e nel 1899, sconfitta definitivamente la resistenza locale, la Gran Bretagna fece del Sudan un proprio protettorato. A completare l’occupazione dell’Africa vi erano il Portogallo, che conservò le proprie antiche colonie di Angola e Mozambico, e la Spa­ gna, che mantenne alcuni territori lungo la costa dell’Africa nord-occi­ dentale. L’Italia volse invece le proprie mire coloniali alla zona del Mar Rosso, dove da tempo erano presenti esploratori e missionari italiani. Dopo aver occupato nel 1885 il porto di Massaua, le truppe italiane si spinsero nell’entroterra e vi fondarono nel 1890 la colonia dell’Eritrea.

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La politica aggressiva di Rhodes

Scoperta dei giacimenti minerari e afflusso degli uitlanders

Guerra anglo-boera e vittoria britannica

Regime AeW'apartheid

Tensione tra Francia e Gran Bretagna nella regione del Sudan

Le colonie portoghesi e spagnole

Le mire coloniali dell'Italia

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Tentativi di occupazione dell'Impero etiopico

Disfatta dell'esercito italiano ad Adua

Fine della prima fase della colonizzazione africana

Riorganizzazione del potere coloniale

Storia contemporanea

La tentazione era tuttavia quella di occupare il vasto Impero etiopico e, nonostante la sconfitta subita a Dogali nel 1887, ambigue iniziative espansionistiche continuarono negli anni successivi. Nel 1889 il governo Crispi, nel tentativo di esercitare una qualche forma di protettorato sul­ la regione, stipulò col negus d’Etiopia Menelik il trattato di Uccialli. Re­ datto in due versioni, il trattato lasciava ampi margini di ambiguità e finì per accrescere le tensioni tra i due Paesi. Nel 1895 gli italiani ripresero la penetrazione verso l’Etiopia, ma a dicembre, presso il monte Amba Alagi, un contingente italiano fu attaccato e sconfitto. Tre mesi dopo, il 1° marzo 1896, le truppe italiane subirono una nuova, drammatica di­ sfatta presso Adua che costrinse alle dimissioni il presidente del Consi­ glio Crispi (cap. 2.5). L’Italia dovette quindi rinunciare momentanea­ mente all’occupazione dell’Etiopia, che sarebbe stata poi colonizzata dal regime fascista nel 1935-36; riuscì comunque a farsi riconoscere il protettorato sulla Somalia meridionale, trasformata poi nel 1905 in vera e propria colonia. Alla vigilia della Prima Guerra mondiale, di tutto l’immenso conti­ nente africano avevano mantenuto l’indipendenza solo il Regno d’Etio­ pia e la Repubblica di Liberia, sottoposta di fatto, però, all’egemonia statunitense. Questa prima fase della colonizzazione dell’Africa, attuata all’insegna della grande corsa all’occupazione di territori da parte delle potenze europee, si avvalse di modalità di penetrazione militare, com­ merciale e religiosa estremamente violente e predatrici. Ipersfruttamento delle risorse economiche, espropriazioni fondiarie, creazione di vere e proprie riserve per le popolazioni indigene, come nella Rhodesia del Sud e in Kenya, abusi da parte delle compagnie concessionarie, furono i tratti caratterizzanti con cui si svolse la penetrazione europea nella pri­ ma fase della storia coloniale dell’Africa. Queste modalità cambiarono parzialmente all’inizio del Novecento, quando le forti resistenze delle popolazioni locali, i disastri demografici e naturali, prodotti molto spes­ so proprio dalla violenta intrusione coloniale, spinsero i governi europei a riformare gli statuti delle compagnie concessionarie, ad aumentare gli investimenti nel settore minerario e in quello agricolo per favorire le produzioni destinate all’esportazione e a razionalizzare ovunque il si­ stema amministrativo locale. Tale processo di riorganizzazione e stabi­ lizzazione del potere coloniale si intensificò all’indomani della Prima Guerra mondiale, quando mutarono sia le forme di gestione sia gli inte­ ressi economici delle potenze europee e, in molti casi, le autorità colo­ niali incontrarono la collaborazione di capi e aristocrazie locali.

Capitolo 4

Le istanze imperialistiche nella crisi di fine secolo

4.1 II difficile passaggio dall'Otto al Novecento: la crisi politica in Europa 4.2 La nascita della società di massa e la nazionalizzazione della politica 4.3 L'Europa tra nazionalismo e imperialismo 4.4 Dal liberalismo classico al new liberalism: i governi inglesi di inizio secolo e l'età giolittiana 4.5 La crisi del razionalismo positivista

4.1 II difficile passaggio dall'Otto al Novecento: la crisi politica in Europa In Europa gli anni a cavallo tra Otto e Novecento furono segnati da eventi e stati d’animo contraddittori. L’idea che il nuovo secolo avrebbe aperto una stagione di progresso e crescita illimitata in tutti i settori del­ la scienza, dell’economia e della politica si accompagnava all’inquietan­ te constatazione che un lento, ma inarrestabile processo di erosione sta­ va minando dalle fondamenta il vecchio ordine europeo e con esso i principi del costituzionalismo liberale e dell’economia di mercato. Il trionfante eurocentrismo sembrava essere messo in crisi dalla rapida ascesa delle potenze extraeuropee come Stati Uniti e Giappone, mentre la radicata fiducia nel progresso e nella ragione, che aveva caratterizzato il liberalismo ottocentesco, pareva sbiadire dinanzi alle contraddizioni della nuova società di massa e all’irrompere tumultuoso sulla scena pub­ blica dei partiti socialisti e delle rivendicazioni operaie. A cavallo tra i due secoli si ripropose dunque, in modo più concen­ trato e conflittuale, quell’impasto di ansie e speranze circa il funziona­ mento delle istituzioni rappresentative che aveva accompagnato la storia dell’Ottocento europeo e per la prima volta sembrò incrinarsi la fiducia di una parte delle classi dirigenti liberali in una possibile, sebbene cauta, integrazione tra sistema parlamentare e democrazia politica. Alcuni set­ tori delle élite europee cominciarono infatti a percepire i Parlamenti co­ me luoghi in cui venivano messe in discussione le gerarchie tradizionali, luoghi affollati di demagoghi interessati solo a solleticare gli appetiti delle masse. Con modalità ed esiti differenti a seconda dei Paesi, si af­ frontarono così per la prima volta in modo aperto i difensori del sistema politico basato sullo sviluppo del sistema parlamentare e sulla progressi­ va estensione del suffragio elettorale, secondo la tradizione anglosasso­ ne, e i propugnatori di un sistema incentrato invece su un esecutivo il più

L'erosione del vecchio ordine europeo

Le contraddizioni e le tensioni della nuova società di massa

Crisi della fiducia nelle istituzioni rappresentative

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L'acuta crisi italiana e il governo Rudinì

Repressione violenta delle proteste popolari

Il programma liberticida del governo Pelloux

Il successo dell'ostruzionismo delle opposizioni

L'assassinio del re Umberto I

Storia contemporanea

possibile sganciato dalla volontà dell’elettorato, come nel modello della Germania imperiale impostosi in Europa dopo la guerra franco-prus­ siana del 1870. Per l’Italia la fase acuta della crisi si ebbe dopo l’uscita di scena di Crispi, in seguito alla sconfitta militare di Adua nel 1896. Il suo succes­ sore, il marchese Antonio Starabba di Rudinì (—>) si trovò ad affronta­ re una stagione di gravi fermenti sociali, con scioperi e sommosse che attraversarono tutto il Paese soprattutto a causa del carovita prodotto dal cattivo raccolto del 1897. In quello stesso anno fu pubblicato anoni­ mo l’articolo di Sidney Sonnino (—>-) Torniamo allo Statuto, che focaliz­ zava le ragioni del dissenso del liberalismo più moderato nei confronti del ruolo ormai «onnipotente» del Parlamento e invocava, in difesa del­ le istituzioni liberali minacciate dall’invadenza socialista e clericale, un ritorno alla «lettera» dello Statuto Albertino secondo cui la gestione del potere esecutivo doveva spettare esclusivamente al sovrano, anziché a un governo sorretto dalla maggioranza parlamentare. L’aggravarsi delle tensioni contro il carovita nella primavera del 1898, che ebbero la loro massima espressione in maggio a Milano quando l’esercito, al comando del generale Fiorenzo Bava Beccaris (—»-), sparò sui dimostranti in pro­ testa per l’aumento del prezzo del pane, provocando oltre 100 morti, in­ dussero Rudinì ad approvare una serie di leggi fortemente lesive della libertà dei cittadini. Mentre la stampa d’opposizione veniva chiusa e i principali esponenti socialisti, radicali e cattolici furono arrestati, il so­ vrano Umberto I (—►) decise di decorare Bava Beccaris per l’azione re­ pressiva da lui condotta. Dopo le dimissioni di Rudinì, per contrasti col re e dissensi in seno alla compagine governativa, il governo fu assunto dal generale savoiar­ do Luigi Pelloux ( ^ -), che lavorò subito all’attuazione di un progetto politico incentrato sulla limitazione del ruolo del Parlamento e sulla re­ pressione delle libertà d’opinione e associazione. Il suo pacchetto di provvedimenti liberticidi si infranse però contro la tattica ostruzionisti­ ca messa in atto, alla Camera, dagli esponenti dell’estrema sinistra (repubblicani, radicali e socialisti) a cui si aggiunsero, nelle fasi più dram­ matiche dello scontro, anche i deputati liberal-progressisti facenti capo a Giovanni Giolitti e Giuseppe Zanardelli. L’ostruzionismo, portato avanti mediante interminabili discorsi e facendo leva sul regolamento della Camera, finì per impedire la trasformazione in legge dei decreti il­ liberali, nonostante questi ultimi fossero stati approvati e sottoscritti an­ che dal sovrano. Il livello di tensione era talmente alto che si decise di sciogliere la Camera nella speranza di ottenere per il governo un mag­ gioranza parlamentare più favorevole. Alle elezioni del giugno 1900 lo schieramento governativo ottenne, però, una maggioranza risicata e Pel­ loux preferì dimettersi. Gli successe il senatore liberale Giuseppe Sarac­ co, con un ministero di transizione che raffreddò il clima di tensione ri­ tirando le proposte del precedente governo. La crisi di fine secolo italia­ na, conclusasi con la sconfitta del progetto autoritario e liberticida, ebbe il suo drammatico epilogo il 29 luglio 1900, quando l’anarchico Gaetano Bresci (—»■) uccise a Monza il re Umberto I, ritenuto responsabile delle repressioni degli anni precedenti.

Le istanze imperialistiche nella crisi di fine secolo

Negli stessi anni anche la Francia conobbe una violenta crisi politi­ co-istituzionale che vide fronteggiarsi le forze liberali fedeli alla Terza Repubblica e la destra filomonarchica e nazionalista. La causa scate­ nante fu una vicenda giudiziaria, il cosiddetto affaire Dreyfus, che vide protagonista il capitano ebreo Alfred Dreyfus (—►) condannato nel 1894 alla degradazione e all’esilio perpetuo per attività di spionaggio militare a favore della Germania. Il fatto si trasformò in un caso politico allorché, in seguito alla scoperta di nuovi elementi che scagionavano Dreyfus, l’ipotesi di revisione del processo divenne l’occasione per un regolamento di conti tra avversari e difensori dei valori della Repubbli­ ca parlamentare. La lettera aperta al presidente della Repubblica dello scrittore Émile Zola (->-), pubblicata nel 1898 con l’eloquente titolo J ’accuse in cui si denunciavano le palesi irregolarità giudiziarie ai danni di Dreyfus, diede infatti inizio a una nuova fase del dibattito che coinvolse l’intera opinione pubblica francese, schierata a favore o contro la revisione del processo. Tra i colpevolisti, che facevano leva su un radi­ cato spirito antisemita, c’erano tutti coloro che, incuranti della verità giudiziaria, volevano difendere l’onore dell’esercito e tentavano di colpi­ re la cultura liberal-parlamentare nel suo complesso, considerandola re­ sponsabile del declino della tradizione, della cattolicità e della grandez­ za patria. Le pressioni della destra nazionalista e antisemita culminaro­ no nel febbraio 1899 quando la Ligue des patriotes, una struttura politi­ ca di estrema destra, tentò senza successo di promuovere un vero e proprio colpo di stato in senso autoritario. Sul fronte opposto, in difesa delle istituzioni repubblicane e di Dreyfus, si schierarono i paladini dei diritti dell’uomo, tutti coloro che intendevano sconfiggere la crescente ondata eversiva della destra e, seppur in ritardo, il partito socialista. La vicenda giudiziaria di Dreyfus si concluse solo nel 1906, con l’an­ nullamento del verdetto di colpevolezza e la reintegrazione del capitano nell’esercito. Ma la sconfitta politica della cultura antidreyfusarda ap­ parve evidente già nel 1899, con la formazione di un governo di «difesa repubblicana» che comprendeva anche un esponente socialista. Con il superamento di questa crisi la Francia stabilizzò definitivamente le pro­ prie istituzioni repubblicane che, in seguito alle elezioni del 1902, assun­ sero un profilo marcatamente laico e radicale; a seguito di una vigorosa battaglia contro le posizioni di potere ancora detenute dal clero cattoli­ co, infatti, si giunse nel 1905 alla completa separazione tra Stato e Chie­ sa e si ruppero le relazioni diplomatiche tra la Francia e la Santa Sede. Meno traumatica, ma altrettanto decisiva fu la crisi che attraversò la Gran Bretagna a partire dal 1899. Se il simbolo più evidente delle diffi­ coltà inglesi continuava ad essere la richiesta di autonomia dellTrlanda, non meno allarmanti si presentavano altri segnali. La nascita nel 1893 di un vero «partito del lavoro», YIndependent Labour Party che, unitosi ad altre associazioni, sostenne il progetto politico delle Trade Unions di dar vita, tra il 1900 e il 1906, al Labour Party, incrementò la forza di contrattazione del movimento operaio, introducendo sulla scena politi­ ca una nuova struttura partitica stabile. Gravi furono anche le ripercus­ sioni interne della guerra che la Gran Bretagna combattè, tra il 1899 e il 1902, contro la popolazione bianca del Sudafrica per il controllo del

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L'affaire Dreyfus e la crisi politica francese

Scontro tra repubblicani e destra filomonarchica

Sconfitta politica della cultura antidreyfusarda

Consolidamento del profilo laico e radicale della repubblica francese

La crisi politica in Gran Bretagna Nascita del Labour Party

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Storia contemporanea

Transvaal (cap. 3.5); le difficoltà incontrate dall’esercito britannico nel piegare la resistenza dei boeri misero infatti in discussione l’efficienza dei reparti militari e dell’intero sistema politico e amministrativo. I governi liberali Sul piano politico-istituzionale la vera crisi scoppiò una volta ter­ di inizio secolo minata la lunga egemonia conservatrice al governo. Alle elezioni del gennaio 1906, infatti, i liberali ottennero una schiacciante maggioran­ za e per la prima volta entrarono alla Camera una trentina di deputati laburisti; la nuova amministrazione si distinse subito per una forte ini­ ziativa riformatrice (riduzione dell’orario di lavoro per i minatori, assi­ curazione sociale, uffici di collocamento) e per una imposizione fisca­ le marcatamente progressiva che andava a colpire soprattutto la gran­ de proprietà fondiaria. Dinanzi al voto contrario con cui la Camera dei Lord, tradizionale roccaforte dell’aristocrazia e del Partito conservatore, respinse la leg­ ge di bilancio, denominata People’s Budget, presentata dal cancelliere dello Scacchiere David Lloyd George (—*-) nella primavera del 1909, il governo liberale ingaggiò una dura battaglia contro la Camera dei Lord. Battaglia che alla fine vinse, facendo passare non solo la legge di bilancio ma anche, nel 1911, il Parliament A ct ( ^ - ) , che sanciva in modo netto la superiorità della Camera dei Comuni su quella dei Lord e toglieva a quest’ultima la facoltà di respingere le leggi finan­ Il ParliamentAct ziarie. Dopo un braccio di ferro durato due anni e ben due tornate e la svolta in senso elettorali, sempre vinte dai liberali, alla fine la Camera Alta, anche democratico dietro le pressioni del nuovo re Giorgio V (—*■), si piegò ad approvare, dell'assetto seppur a stretta maggioranza, questa legge che stabiliva la superiorità istituzionale inglese delle istituzioni elettive e ridisegnava la delicata balance costituzio­ nale inglese in senso democratico. Anche la Germania, pur non conoscendo una vera e propria crisi po­ Nuovo corso litico-istituzionale, cambiò decisamente il suo corso politico dopo la fi­ della politica tedesca ne, nel 1890, del lungo cancellierato di Bismarck. Il nuovo Kaiser Gu­ glielmo II aspirava infatti a esercitare un potere marcatamente persona­ le e a imprimere un orientamento nuovo e più aggressivo alla politica estera tedesca. Nel 1897, grazie alla presenza dell’ammiraglio Alfred von Tirpitz (—>-) al ministero della Marina e di Bernhard von Bulow La Weltpolitik (—>-) a quello degli Esteri, ebbe quindi inizio la fase della Weltpolitik (politica mondiale), finalizzata a dotare la Germania di una grande flot­ ta da guerra, tale da competere con quella inglese, e a rilanciare in gran­ de stile la politica coloniale, solo marginalmente praticata da Bismarck. In questo nuovo clima, che favorì il rinsaldarsi dell’alleanza fra la casta agraria e militare degli Junker e i grandi imprenditori, si assistette a Mobilitazione un’intensa mobilitazione sociale e politica dei «ceti d’ordine», secondo dei «ceti d'ordine» una dinamica per molti versi opposta a quella presente negli altri Paesi europei dove ad alimentare le proteste, negli anni fra i due secoli, erano soprattutto le forze della sinistra. Nel 1893 nacque infatti la Lega pan­ germanica (—*~) per sostenere politiche imperialistiche e nel 1898 sorse la Lega navale (—»-) per favorire gli investimenti sulla flotta. Queste, co­ me altre associazioni minori, contribuirono a diffondere culture e idee sempre più aggressive, propugnando una militanza attiva dei propri esponenti e soprattutto criticando ferocemente la presunta «moderazio­

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ne» degli organi di governo nell’usare la mano forte per la gestione dell’ordine pubblico. Un misto di populismo (appello alle virtù superiori del «popolo» contro la degenerazione delle classi politiche) e antisemiti­ smo (gli ebrei come capro espiatorio di tutti i «mali» della società) fun­ geva da collante di questi movimenti e si radicò profondamente nella Germania guglielmina. Mentre la sola grande forza politica di opposizione, l’SPD, si trova­ va in condizioni di totale isolamento, nemmeno il lungo cancellierato di von Biilow (1900-1909) riuscì ad affrontare i grandi problemi aperti dalla crisi di fine secolo: non fu in grado di far rientrare l’imperatore in un sistema costituzionale bilanciato, non potè sopire il populismo delle destre, non trovò un modus vivendi coi grandi partiti di massa (Zentrum e SPD) che continuavano a costituire le grandi forze struttu­ rate del Reichstag. La Germania arrivava quindi alla vigilia della Pri­ ma Guerra mondiale con tutte le contrastanti forze liberate da una so­ cietà in vorticoso progresso economico incapaci di trovare un punto stabile di equilibrio. Il Paese dove, nella temperie politica e sociale degli anni fra i due se­ coli, il malcontento produsse un vero e proprio moto rivoluzionario fu invece la Russia. Attaccata nel 1904 dal Giappone, che le contendeva il controllo della Manciuria, la Russia venne rapidamente sconfitta (cap. 2.7). L’onta subita ad opera di un Paese non ancora assurto al rango del­ le grandi potenze e la grave carestia che la Russia stava attraversando fecero immediatamente precipitare la situazione. Già nel novembre del 1904, il primo Congresso degli zemstva aveva infatti elaborato un pro­ gramma di stampo liberale dove si richiedeva la «convocazione di rap­ presentanti liberamente eletti dalla popolazione». Al Congresso fece se­ guito un’ampia campagna di propaganda in cui si chiedeva la convoca­ zione immediata di un’Assemblea Costituente. Lo zar, da un lato, promise un piano di riforme, dove comunque non si faceva menzione di alcun meccanismo per garantire la rappresentanza popolare, dall’altro mise in guardia contro l’organizzazione di manifestazioni che avrebbero potuto turbare l’ordine pubblico. Durante lo sciopero che ne seguì fu elaborata, sotto l’impulso di Georgij Gapon (-^-) leader dell’Unione de­ gli operai di fabbrica di San Pietroburgo, una petizione che, presentata allo zar durante una grande e pacifica manifestazione il 9 gennaio 1905, fu accolta a fucilate dall’esercito imperiale. Le proteste che seguirono alla brutale repressione videro coinvolti sia i settori liberali e moderati favorevoli alla trasformazione del regime autocratico in una monarchia costituzionale, sia contadini, operai e al­ cuni settori dell’esercito e della marina. Si verificarono numerose som­ mosse in varie parti del Paese, mentre nascevano le prime Unioni dei contadini e, all’interno delle fabbriche, i primi Consigli operai, i soviet (—►); l’ammutinamento di una corazzata di stanza a Sebastopoli, sul Mar Nero, dette la misura dell’estendersi del moto rivoluzionario. Di fronte alla radicalizzazione assunta dal movimento di protesta, il 6 ago­ sto 1905 lo zar concesse un Parlamento elettivo, la Duma (->-), per il quale tuttavia si prefiguravano un corpo elettorale ristretto e funzioni meramente consultive. Lungi dal soddisfare le aspettative di operai e

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Populismo e antisemitismo

Tensioni irrisolte

Rivendicazioni liberali nella Russia in crisi

Brutale repressione della manifestazione di San Pietroburgo

Permanenza delle tradizioni culturali e religiose

Concessione del Parlamento elettivo

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Storia contemporanea

contadini, l’iniziativa dello zar produsse un ulteriore inasprimento del­ le tensioni ed ebbe anche l’effetto di dividere il fronte liberale. Mentre la parte più moderata accolse con soddisfazione l’introduzione della Duma, l’ala più progressista vi si oppose rivendicando per il Parlamen­ Il Manifesto to poteri più ampi. Alla fine, il 17 ottobre dello stesso anno, lo zar Nico­ delle libertà la II (-— >-) firmò il cosiddetto Manifesto delle libertà (—>) in cui si stabi­ liva la concessione delle principali libertà civili, la partecipazione di tutti i cittadini alle elezioni della Duma, l’attribuzione a quest’ultima del potere legislativo. Il Manifesto, che segnava il primo passo della trasformazione in senso costituzionale dell’Impero russo, non fu tuttavia sufficiente a te­ Divisioni nel fronte nere unito il fronte liberale. I liberali moderati, soddisfatti delle con­ liberale cessioni del Manifesto, costituirono il Partito degli ottobristi, mentre l’ala più progressista diede vita al Partito costituzionale-democratico, detto anche Partito dei cadetti. Anche la sinistra restava divisa. Il Par­ tito socialdemocratico, fondato nel 1898 da Georgij Plechanov (->-), non assunse un ruolo rilevante negli eventi del 1905, anche a causa del­ Il Partito la divisione interna fra menscevichi e bolscevichi (—»-) che si era fatta socialdemocratico strada a partire dal 1903 e divenne poi definitiva nel 1912. Emerse in­ e il Partito dei socialisti vece nel corso delle rivolte del 1905 il Partito dei socialisti rivoluziona­ rivoluzionari ri, movimento di stampo populista che aveva la sua base nelle comuni agricole e si batteva principalmente per ottenere migliori condizioni di vita e di lavoro per i contadini. Riflusso autoritario A causa della rottura del fronte rivoluzionario e del ricompatta­ e debolezza della Duma mento, invece, dei settori politici e sociali più conservatori, il governo dello zar ebbe modo di dare ai decreti del Manifesto di ottobre un’ap­ plicazione restrittiva che riportò il potere politico quasi esclusivamente nelle mani dello zar e della sua burocrazia. Le varie Dume elette in quegli anni, attraverso un sistema elettorale complesso che privilegia­ va i proprietari terrieri, vennero infatti sciolte una dopo l’altra e non ri­ uscirono a far decollare un vero sistema parlamentare. Nel 1907, inol­ tre, il governo modificò la legge elettorale in senso ancor più riduttivo, ottenendo alla fine di disporre di un’Assemblea docile e priva di poteri effettivi. Mentre la Costituzione, sempre promessa dallo zar, non fu La riforma agraria mai emanata, il nuovo primo ministro Petr Stolypin ( ^ - ) , nominato nel 1906, mise mano a una durissima repressione nei confronti di tutte le opposizioni. Il suo governo, che durò fino al 1911 quando Stolypin cadde vittima di un attentato, produsse però una riforma agraria che, sebbene attuata solo in parte, riuscì a introdurre alcuni cambiamenti nella struttura sociale del Paese. I contadini, infatti, potevano diventa­ re proprietari della terra coltivata e ottennero facilitazioni creditizie per l’acquisto dei lotti. Con questo provvedimento Stolypin sperava di rompere la compattezza del ceto contadino, favorendo l’affermazione di una nuova classe di contadini ricchi, i kulaki (—►). In effetti solo una minoranza riuscì ad arricchirsi grazie alla riforma agraria, mentre la gran parte dei contadini continuava a disporre di appezzamenti pic­ coli e a vivere in condizioni di grande miseria.

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4.2 La nascita della società di massa e la nazionalizzazione della politica Negli anni fra Otto e Novecento i Paesi che avevano conosciuto, lun­ go il corso del XIX secolo, un primo sviluppo industriale e il fenomeno dell’urbanizzazione furono attraversati da importanti mutamenti eco­ nomici, sociali e politici. L’industrializzazione infatti, oltre a determina­ re la nascita del proletariato urbano e ad allargare quantitativamente la fascia della media e piccola borghesia, finì per cambiare anche il profilo delle società, i rapporti tra gli individui e i gruppi, le forme del consumo e il ruolo stesso dello Stato nell’economia. Si trattò di un processo com­ plesso e non privo di contraddizioni che si suole definire come l’avvento della «società di massa». Caratterizzata dalla presenza di grandi agglomerati urbani, nei quali viveva la maggior parte della popolazione e dove i rapporti fra gli individui si articolavano in forme per lo più anonime e impersonali, la società di massa tendeva a ridurre la centralità dei classici punti di rife­ rimento come la famiglia, la comunità locale o le istituzioni religiose per dare sempre più importanza alle forme di organizzazione politica come i partiti e i sindacati. Grazie allo sviluppo dei mezzi di trasporto e degli strumenti di comunicazione e informazione, come il telegrafo, la stampa popolare e, da ultimo, il telefono, crebbero sia la mobilità dei cittadini sia la circolazione delle notizie. Inoltre industrializzazione e società di massa misero progressivamente fine all’economia basata sull’autoconsumo, tipiche delle società rurali, e gli individui entrarono, come produttori e consumatori di beni e servizi, nel grande circuito dell’economia di mercato. L’avvento della società di massa e la conseguente trasformazione dei rapporti socio-economici furono favoriti dall’impetuoso sviluppo economico e tecnologico dei Paesi industrializzati, dove cominciarono ad affermarsi nuovi e redditizi settori produttivi, come la siderurgia, l’industria chimica e quella elettrica, le industrie produttrici di beni di consumo durevoli. Fu all’interno di questo processo che si verificò una graduale razionalizzazione dei processi produttivi per la quale fu deci­ siva l’elaborazione, messa a punto dall’americano Frederick W. Taylor (->-), di un modello di controllo della produzione basato sulla misura­ zione dei tempi di lavoro. Nel suo studio Principi di organizzazione scientifica del lavoro del 1911, Taylor proponeva un sistema dove, gra­ zie a un minuzioso monitoraggio delle singole fasi di lavorazione, il la­ voro degli operai venisse ottimizzato, riducendo i tempi di fabbricazio­ ne di un manufatto complesso. Tale sistema fu applicato per la prima volta dalle industrie automobilistiche americane Ford, che tra il 1908 e il 1913 introdussero la «catena di montaggio» (-—>-) per la produzione dell’autovettura Ford modello T. L’utilizzo da parte delle industrie di tecniche per la razionalizzazio­ ne del lavoro e la produzione in serie ebbero l’effetto, sul sistema pro­ duttivo, di aumentare la produttività, con conseguente aumento dei sa­ lari e della domanda di beni di consumo. Questo fattore, unito anche al­ la nascita dei grandi magazzini nelle principali città europee e

Conseguenze sociali dell'industrializzazione

L'avvento della «società di massa»

Economia di mercato

Impetuoso sviluppo tecnologico

La razionalizzazione dei processi produttivi

L'introduzione della «catena di montaggio» nelle industrie Ford

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Progressiva stratificazione della classe operaia

Ampliamento del ceto medio

Il ruolo dello Stato

Introduzione dell'obbligo scolastico

Formazione della moderna opinione pubblica Allargamento del suffragio

Politicizzazione delle masse

Trasformazione del discorso politico

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americane, portò a modificare progressivamente le abitudini di consu­ mo dei cittadini. Al tempo stesso l’introduzione della catena di montag­ gio finì per rendere più marcata la stratificazione sociale alFinterno del­ la classe operaia. All’operaio non specializzato, espropriato della pro­ pria capacità creativa e reso simile alla macchina, cominciò ad affiancarsi l’operaio qualificato, capace di intervenire nel processo pro­ duttivo e dotato di un profilo lavorativo sempre più simile a quello dei lavoratori industriali non manuali, come tecnici, disegnatori o sorve­ glianti. Mentre, quindi, i vecchi sindacati di mestiere risultavano sempre meno adeguati a raccogliere le istanze di una classe operaia complessa, nacquero in questo contesto le grandi organizzazioni sindacali che riu­ nivano tutti i lavoratori di uno stesso settore. Oltre alla progressiva stratificazione della classe operaia si assistette all’ampliamento del ceto medio, i cosiddetti «colletti bianchi», costituito da tecnici, impiegati, commessi e funzionari del settore privato e di quello pubblico; ambito quest’ultimo le cui competenze si accrebbero a causa delle sempre più ampie funzioni assunte dallo Stato e dalle ammi­ nistrazioni locali in materia di sanità, istruzione, trasporti ed altri servi­ zi. Anche se il sostanziale incremento degli interventi statali in econo­ mia si sarebbe avuto solo durante la Prima Guerra mondiale, già in que­ sta fase lo Stato svolgeva un ruolo importante attraverso commesse e sovvenzioni alle industrie, forme di protezione doganale, il finanzia­ mento e la gestione del sistema scolastico, la garanzia di elementari ser­ vizi di sanità ed assistenza. Soprattutto nel settore della scolarizzazione si verificò in quegli anni un crescente interventismo degli Stati che in­ trodussero, come fece per esempio l’Italia nel 1877, l’istruzione elemen­ tare obbligatoria e gratuita. L’alfabetizzazione di massa, la diffusione della stampa popolare e la crescente consapevolezza politica di strati sempre più ampi della popo­ lazione favorirono l’estendersi della moderna opinione pubblica, desti­ nata a influenzare le scelte delle classi dirigenti. Negli anni tra Otto e Novecento, il processo di nazionalizzazione della politica, che avrebbe avuto corso compiutamente solo dopo la Prima Guerra mondiale, fu causa e al tempo stesso conseguenza dell’allargamento del suffragio. Es­ so infatti, richiesto soprattutto dai partiti socialisti, dai gruppi liberalradicali e dagli ambienti del cattolicesimo democratico, venne promosso dai governi di molti Paesi europei tra gli anni Settanta dell’Ottocento e i primi due decenni del secolo successivo. L’introduzione del suffragio universale maschile, la crescita del sindacalismo operaio e dei partiti so­ cialisti, il sempre maggiore attivismo sociale e politico delle donne furo­ no tutti canali attraverso cui la politicizzazione delle masse modificò lo spazio e i caratteri della politica tradizionale. La dimensione di massa della politica innescò infatti una serie di processi che, in forme diverse da Paese a Paese, misero parzialmente in crisi la struttura notabilare dei sistemi politici ottocenteschi. Da un lato, la nazionalizzazione della politica richiese il ricorso a forme di coinvol­ gimento anche emotivo, e non più solo razionale, nella propaganda poli­ tica. Cominciarono quindi a cambiare i contenuti e le modalità del di­ scorso politico, mentre la comparsa di simboli, slogan e rituali collettivi,

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che si sarebbe radicata stabilmente nella politica europea solo dopo la guerra mondiale, fu il segno evidente che la politica stava uscendo dai circuiti elitari nei quali si era mantenuta per gran parte del XIX secolo. Dall’altro lato, questo fenomeno indusse anche i liberali e i gruppi diri­ genti tradizionali a cercare di dotarsi di organizzazioni politiche stabili e strutturate. Mentre infatti nel corso dell’Ottocento, soprattutto nell’Europa continentale, liberali e conservatori non avevano dato vita a vere e proprie formazioni partitiche radicate stabilmente sul territorio e i loro partiti si configuravano piuttosto come comitati di notabili attivi quasi solamente nei periodi elettorali, alla fine del secolo la dimensione sempre più estesa della politica e l’esempio dei partiti socialisti indusse le élite tradizionali a rivedere le modalità e gli strumenti della propria azione politica. Tuttavia, la prospettiva di dotarsi di un partito vero e proprio, fondato sulla militanza dei simpatizzanti e su una rigida orga­ nizzazione verticistica sul modello del partito-macchina (-—>-) america­ no o dell’SPD tedesca, incontrò non poche resistenze alFinterno dei gruppi liberali e conservatori che temevano, in questo modo, la sopraf­ fazione della volontà del «numero» sulle graduali e ponderate decisioni prodotte dalla «ragione». Queste resistenze nei confronti delle moderne strutture di partito fu­ rono un aspetto della più generale diffidenza che le élite dirigenti tradi­ zionali manifestarono nei confronti della politicizzazione delle masse. Quest’ultima, infatti, rischiava di compromettere l’egemonia politica che le classi borghesi avevano conquistato nel corso dell’Ottocento, in­ nescando un pericoloso processo di conflittualità e la conseguente legit­ timazione delle forze «anti-sistema», come i partiti socialisti e, nel caso dell’Italia, le organizzazioni cattoliche. Oltre a questo, molti intellettua­ li e politici moderati e conservatori paventavano il rischio che la società di massa potesse portare all’avvento di demagoghi e politici di profes­ sione che, abili nel manipolare l’opinione pubblica e nell’utilizzare gli «appetiti» delle masse, avrebbero stravolto gli ordinati meccanismi del parlamentarismo rappresentativo. Proprio negli anni fra i due secoli, sull’onda delle trasformazioni che attraversarono i sistemi politici e gli apparati burocratici dei Paesi europei, cominciarono a essere studiati l’origine, la natura e le funzioni dei gruppi dirigenti. Nell’ambito di queste riflessioni si affermò soprat­ tutto la cosiddetta «teoria delle élite» formulata da Gaetano Mosca (—►) e in seguito ripresa da Vilfredo Pareto Secondo questa teo­ ria, in ogni comunità politica il potere è detenuto da una minoranza ri­ stretta di persone che costituisce la classe politica, definita da Mosca anche come «minoranza governante»; tale élite esercita il potere su una maggioranza che ne è di fatto priva e proprio in virtù di queste posizio­ ni di comando acquista una precisa coscienza di sé come «gruppo sepa­ rato» rispetto alla comunità dei «governati». Le teorie di Mosca e Pare­ to, da cui discendeva che ogni forma di governo è di per sé «oligarchi­ ca» in quanto gestita da una minoranza organizzata di politici e funzionari, furono riprese dal sociologo tedesco Roberto Michels (—*■), il quale applicò la dottrina elitista all’analisi dei grandi partiti di massa, in particolare al Partito socialdemocratico tedesco. Michels mostrò che

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Consolidamento dei partiti

Il modello del partito-macchina americano

Diffidenza e resistenza delle élite dirigenti tradizionali

La «teoria delle élite»

La dottrina elitista applicata ai partiti di massa

Storia contemporanea

Gli studi di Weber sulla burocratizzazione della pubblica amministrazione

persino all’interno dei partiti d’ispirazione democratica vi era la ten­ denza a creare un «esercizio professionale della leadership» e dunque a circoscrivere il potere a un ristretto gruppo di persone. Sintetizzando tale tendenza nella cosiddetta «legge ferrea dell’oligarchia», evidenziò che tutti i moderni apparati di partito avevano una doppia esigenza, ov­ vero l’organizzazione burocratizzata e la concentrazione del potere in poche mani. In un ambito più generale i fenomeni della burocratizza­ zione furono studiati dal sociologo e storico tedesco Max Weber (—*-) il quale, dinanzi agli sviluppi sociali e politici in atto all’inizio del XX se­ colo e alla comparsa della moderna forma-partito, mise in luce come la «modernità» politica si accompagnasse ad un processo di razionalizza­ zione di tutte le attività e alla conseguente necessità di riconsiderare l’organizzazione e la legittimazione dell’agire politico. Nell’opera Par­ lamento e governo del 1918 Weber denunciò il rischio che le crescenti competenze della burocrazia statale e la presenza di nuovi compiti per i quali erano necessari professionalità e saperi specialistici portassero alla concentrazione eccessiva di potere nelle mani di funzionari e am­ ministratori a scapito della classe politica e di un controllo propriamen­ te democratico sulle attività di governo. 4.3 L'Europa tra nazionalismo e imperialismo

Gli ideali nazionali risorgimentali e democratici

La tradizione romantica del nazionalismo liberale

Il nuovo concetto di nazionalismo e la politica di potenza

Gli ideali nazionali che, per buona parte dell’Ottocento, avevano animato i progetti di indipendenza sorti nella penisola italiana, nei ter­ ritori tedeschi e balcanici o nelle colonie ispaniche dell’America Lati­ na appartenevano a quella matrice democratico-risorgimentale che aveva cercato di coniugare le aspirazioni nazionali alla solidarietà in­ ternazionale. Connesso originariamente al concetto rivoluzionario e repubblicano di «nazione», così come era stato declinato durante la R i­ voluzione francese e quella americana o elaborato in Italia da Giusep­ pe Mazzini, e anche legato alla tradizione del Romanticismo cresciuta nei territori di lingua tedesca, quel tipo di nazionalismo aveva contri­ buito al consolidamento dei moderni Stati nazionali accentrati, favo­ rendo la nascita di un contesto unitario e disciplinato di appartenenze. Questa idea di nazione, che individuava ed esaltava i legami naturali (territorio), culturali (lingua, religione, tradizioni) e talvolta mitici (sangue, storia) di una determinata popolazione, era infatti profonda­ mente calata nel contesto laico del liberalismo europeo dove l’afferma­ zione del principio della sovranità popolare imponeva una nuova legit­ timazione per le istituzioni politiche. Pur in tempi e modi diversi da Paese a Paese, il principio nazionale si venne così collegando a quello del «legittimo potere» del popolo quale fondamento della nuova legit­ timità degli Stati contemporanei. Negli anni di fine secolo, il concetto di nazionalismo subì invece una profonda trasformazione e divenne la base su cui si andò progressiva­ mente fondando la politica di potenza degli Stati europei. La matrice classica del nazionalismo assunse infatti una connotazione antidemo­ cratica, venata di tratti sia difensivi che offensivi, dove l’antico ideale di

Le istanze imperialistiche nella crisi di fine secolo

fratellanza venne sostituito dal principio dell’esclusione del «diverso». Autoritarismo, apologia della guerra, politica di potenza, esaltazione del patriottismo, difesa dell’interesse nazionale e, in alcuni casi, della razza furono le leve utilizzate per combattere il «nemico», individuato sia all’interno che all’esterno della nazione. Questa diversa declinazione del nazionalismo si saldò con altri due fattori, ovvero la spinta degli in­ teressi economico-finanziari dei Paesi industrializzati e la necessità del­ le classi dirigenti di contenere gli effetti dirompenti della nazionalizza­ zione delle masse, nel determinare il cosiddetto «delirio imperialistico» delle potenze europee negli anni fra Otto e Novecento. Sul piano culturale l’ideologia nazionalista si alimentò di una serie di studi tesi ad applicare ai fenomeni sociali le teorie evoluzioniste di Char­ les Robert Darwin (—>■). Il principio della «sopravvivenza dei più adat­ ti», applicato da Darwin alle specie animali, cominciò ad essere esteso anche agli esseri umani, distinguendo tra presunte razze inferiori, desti­ nate a soccombere, e razze superiori il cui diritto-dovere era quello di sottomettere i più deboli. Queste teorie vennero assunte e diffuse da al­ tri studiosi. Di particolare rilievo la lettura che ne fece Arthur de Gobineau (—■►), il quale sostenne, al di fuori di qualsiasi base scientifica o le­ gittimazione storica, la superiorità morale e intellettuale della razza bianca rispetto a tutte le altre. In Germania le tesi di Gobineau e quelle dell’inglese Houston Ste­ wart Chamberlain ( ^ - ) , sostenitore dell’identificazione delle popola­ zioni germaniche con la pura razza ariana e della superiorità di quest’ultima su tutte le altre, diedero al nazionalismo tedesco un carattere ten­ denzialmente razzista e antisemita. Fondato sul «mito» del popolo inteso come comunità di sangue legata alla terra d’origine (Blut und Boden, sangue e suolo), il nazionalismo tedesco divenne la piattaforma teorica dei movimenti pangermanisti, che lottavano per la riunificazio­ ne di tutti i popoli di lingua tedesca. Anche il nazionalismo francese as­ sunse una forma definitiva attorno al volgere del secolo. Strettamente collegato alle vicende dell 'affaire Dreyfus (cap. 4.1), ebbe anch’esso una rilevante connotazione antisemita. Attorno all’ideologia nazionalista si raccolsero intellettuali, variegati gruppi della destra, ma anche alcuni settori della sinistra rivoluzionaria che nutrivano ancora un profondo desiderio di rivincita nei confronti della Germania ed erano in disac­ cordo con la politica moderata dei repubblicani di governo. Il naziona­ lismo francese aveva come bersagli il cosmopolitismo, l’internazionali­ smo, la massoneria e soprattutto la comunità ebraica, accusata di mina­ re l’unità e i valori fondanti della nazione francese. La principale espressione del nazionalismo francese di quegli anni fu 1Action frangaise (-*-), un’associazione di destra, monarchica e antisemita, che venne fondata nel 1899, assieme all’omonima rivista, da Charles Maurras (—>-) e da altri intellettuali. Anche il movimento nazionalista italiano, pur senza assumere una connotazione antisemita, ebbe origine, come in Francia, in un contesto letterario e culturale che esaltava la patria come «nazione eletta» e, cri­ ticando la debolezza e l’individualismo della cultura liberale, in analo­ gia con il coevo movimento futurista, celebrava la lotta, il dinamismo e

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Nuova connotazione antidemocratica del nazionalismo

Il «delirio imperialistico» delle potenze europee

Il darwinismo sociale

Pretesa superiorità della razza bianca

Carattere razzista e antisemita del nazionalismo tedesco

Il nazionalismo francese

Il movimento nazionalista italiano

90 Storia contemporanea

LIBERIA

C O LO N IA LISM O E IMPERIALISMO Potenze coloniali

Territori coloniali

Stati semicoloniali

Stati indipendenti

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la guerra. Nel 1910 queste tendenze portarono alla nascita dell’Associa­ L'Assodazione zione nazionalista italiana (—>■), che diede al movimento nazionalista nazionalista italiana una struttura organica e un progetto politico definito. Tra gli esponenti di maggior spicco vi erano i letterati Enrico Corradini (—►) e Giovanni Papini ( ^ - ) e il giurista Alfredo Rocco (—>•). I nazionalisti auspicavano per l’Italia un futuro di grande potenza imperiale e, in nome di questo obiettivo, cercavano consensi presso l’opinione pubblica italiana per combattere la politica a loro avviso rinunciataria dei liberali. All’origine della prospettiva imperialista vi furono anche fattori di I fattori economia carattere economico. La politica di potenza messa in atto dai Paesi eu­ all'origine ropei tra la fine del XIX secolo e la Prima Guerra mondiale fu infatti in dell'imperialismo parte determinata dalla saturazione dei mercati nazionali e dalla conse­ guente necessità di trovare nuovi sbocchi per la produzione industriale. Diverse, tuttavia, furono le analisi che emersero nel dibattito dell’epoca Le diverse analisi su questo fenomeno. Secondo l’inglese John A. Hobson (—►), la satura­ del fenomeno zione dei mercati interni e il rischio di crisi di sovrapproduzione erano all’origine delFimperialismo. A suo avviso, tuttavia, un piano di riforme sociali e di politiche redistributive avrebbe prodotto l’aumento di do­ manda interna e, favorendo l’assorbimento della produzione, avrebbe fatto venir meno il principale motore dell’espansione imperialistica. A n­ che Rosa Luxemburg (-—>-) e Nikolaj Vladimir Lenin (-+ ), nel quadro delle loro pur differenti rielaborazioni del pensiero marxiano, indivi­ duarono nei fattori economici la prima causa dell’imperialismo. A diffe­ renza di Hobson, però, entrambi escludevano che il sistema capitalistico, finalizzato alla produzione del profitto, avrebbe potuto adottare po­ litiche di redistribuzione del reddito, in quanto esse avrebbero penalizzato la remunerazione del capitale. Diventava quindi inevitabile, per le economie in eccedenza di produzione, la ricerca di nuovi mercati. Ma altrettanto inevitabile era la saturazione dei mercati esteri, che avrebbe accresciuto sempre di più lo scontro e le tensioni tra i diversi Stati imperialisti producendo alla fine, per irreversibile crisi di sovrap­ produzione, il crollo dell’economia capitalista. Al contrario, per l’econo­ mista austriaco Joseph Schumpeter (—>) l’imperialismo non si doveva considerare una conseguenza della ricerca di nuovi mercati da parte del­ le economie capitaliste. Giudicandolo una forma di «atavismo» nel qua­ le si manifestavano la volontà di guerra e l’istinto alla sopraffazione del­ le élite dirigenti, Schumpeter riconduceva l’imperialismo alla sopravvi­ venza di strutture sociali e attitudini mentali di epoche remote. Oltre a quelli economici e culturali, vi furono anche fattori politici I fattori politici all’origine dell’imperialismo. La graduale affermazione della società di all'origine massa, la politicizzazione di gruppi sociali sempre più estesi e l’inevitabile delFimperialismo uscita della politica dai circuiti ristretti delle élite notabilari ottocentesche cambiarono infatti i connotati dello spazio pubblico e politico. Anche la politica estera cominciò a entrare nel dibattito pubblico e le classi dirigenti si servirono dell’ideologia nazionalista e delFimperialismo per incoraggia­ re l’identificazione delle masse con lo Stato e la nazione imperiale, così da legittimare indirettamente il sistema politico-sociale esistente. In questo modo si auspicava che la politica coloniale producesse un duplice effetto: da un lato, fornire una nuova legittimazione al sistema politico tradiziona-

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La tesi della «missione civilizzatrice»

Ridimensionamento del primato e della centralità dell'Europa

Ascesa degli Stati Uniti

Peculiarità dell'Imperialismo americano

Vocazione europea e occidentale

Storia contemporanea

le e alle sue élite dirigenti, dall’altro contenere l’affermazione dei partiti potenzialmente «anti-sistema», come quelli socialisti. La «missione civiliz­ zatrice» di cui ciascuna nazione europea si faceva interprete nei confronti dei «barbari» doveva dunque servire sia a consolidare l’orgoglio patriottico e l’identità nazionale, sia a spostare all’esterno le tensioni interne prodotte dalla crescente conflittualità sociale. La tesi della «missione civilizzatrice» assegnata alle nazioni svilup­ pate e di razza bianca, espressa dallo scrittore inglese Rudyard Kipling (—►) come il «fardello dell’uomo bianco», si inseriva in un contesto dove la centralità dell’Europa nel mondo sembrava ancora indiscussa. Tutta­ via, negli anni tra i due secoli, proprio quando si dispiegò al massimo la politica di potenza delle nazioni europee, l’assunto del primato dell’Eu­ ropa sul resto del mondo fu sfidato da alcune pesanti sconfitte militari. Quella subita ad Adua nel 1896 dall’esercito italiano ad opera degli etio­ pi (cap. 2.5), oltre a essere percepita in Europa come una vera e propria sconfitta «europea», cominciò anche a incrinare tutte le certezze relati­ ve alla missione di civilization di cui si sentivano investiti gli europei. Anche le difficoltà militari incontrate dalla Gran Bretagna nella guerra contro i boeri del Transvaal nel 1899-1902 (cap. 3.5 e cap. 4.1) e la schiac­ ciante superiorità dimostrata dall’esercito giapponese nella guerra con­ tro la Russia del 1904-5 (cap. 3.3) finirono per scalfire la fiducia nell’in­ trinseca «superiorità» militare dell’Europa. Non meno importante per il ridimensionamento del ruolo internazio­ nale dell’Europa fu la sconfitta riportata dalla Spagna nella guerra con­ tro gli Stati Uniti (cap. 2.6 e cap. 3.1), che aveva avuto origine dalla rivolta anticoloniale di Cuba. All’indomani della «piccola splendida guerra» del 1898, come fu definita dall’allora segretario di Stato, gli Stati Uniti par­ vero diventare anch’essi una potenza imperialistica. Cercando di esten­ dere la propria egemonia non solo sul continente americano ma anche in Asia, si fecero promotori di un colonialismo in parte diverso da quello europeo. A differenza di esso, infatti, l’imperialismo americano mirava soprattutto alla penetrazione commerciale nei mercati stranieri, salva­ guardando però l’integrità territoriale e l’indipendenza politica dei popo­ li. A molti americani l’espansione oltremare, economica o territoriale, apparve la naturale prosecuzione dell’espansione in patria. Già nel 1885, del resto, la pubblicazione del saggio Destino manifesto da parte dello storico John Fiske ( ^ - ) , che reintroduceva l’espressione coniata quarant’anni prima durante la guerra contro il Messico, suggellava un desti­ no che gli Stati Uniti si vedevano assegnato dalla stessa provvidenza. La nascita dell’imperialismo americano e la crescente concorrenza economica, commerciale e coloniale proveniente dagli Stati Uniti, pur mettendo parzialmente in crisi l’idea della storica «superiorità» delle nazioni europee, non rappresentò tuttavia un trauma per la cultura eu­ ropea dell’epoca. Grazie infatti al forte legame, culturale e politico, con l’ex madrepatria britannica e all’ancoraggio ai valori di un «anglosassonismo» che proprio in quegli anni si affermò come categoria interpreta­ tiva, gli Stati Uniti avevano ormai perso l’originaria immagine di Paese «eccentrico» rispetto all’Europa e consolidato definitivamente la loro vocazione europea e occidentale.

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4.4 Dal liberalismo classico al n ew liberalism i i governi inglesi di inizio secolo e l'età giolittiana A partire dall’inizio del Novecento si assistette, specie in Gran Bre­ tagna, a una parziale riformulazione dei valori tradizionali dell’ideolo­ gia liberale. Il liberalismo classico, sviluppatosi nel corso del XIX seco­ lo sulla centralità dell’individuo e della sua libertà, aveva tradizional­ mente concepito solo un tipo di uguaglianza «formale» che consisteva nel dovere dello Stato di garantire a tutti i cittadini i medesimi diritti e doveri. Secondo questa logica lo Stato, pur dovendo assicurare che la competizione fra gli individui avvenisse nelle condizioni più eque pos­ sibili, non era altresì tenuto a intervenire di fronte a tutte le forme di di­ suguaglianza presenti nella società ma indipendenti dall’ordine politi­ co. Tuttavia, di fronte all’emergere impetuoso della questione sociale e di tutti i problemi connessi alle condizioni di vita delle classi meno ab­ bienti, i liberali inglesi cominciarono a rivedere i precetti tradizionali dell’individualismo liberale e del non interventismo dello Stato nelle questioni economico-sociali. Per quella generazione di liberali che cominciò a profilarsi in Gran Bretagna all’inizio del XX secolo e che cercava lentamente di riprender­ si dallo smacco di una crisi quasi ventennale del gladstonismo, il rilancio del liberalismo consisteva essenzialmente nel ritrovare quel delicato equilibrio tra identità whig e tradizione radicale proprio dell’età gladstoniana e nella capacità di nutrire tale equilibrio con gli stimoli della nuova epoca. Dal punto di vista della riflessione intellettuale furono so­ prattutto intellettuali liberali legati alla tradizione del socialismo evolu­ zionista della Fabian Society (—>-), come l’economista John Hobson e il filosofo sociale Léonard T. Hobhouse (—»-), a farsi portavoce di un «nuovo liberalismo» favorevole alla politica sociale, alla progressività fi­ scale, alla riforma agraria. La corrente del new liberalism quindi, pur nel rispetto dei valori classici del pensiero liberale, cercava di elaborare un tipo di «democrazia etica» dove collettivismo e interventismo statale dovevano affiancarsi al tradizionale individualismo liberale. Non si trat­ tava certamente di abbracciare l’ideologia socialista, quanto piuttosto di razionalizzare l’azione dello Stato e del governo al fine di garantire il massimo possibile di parità nelle condizioni di partenza a tutti gli indi­ vidui, e dunque di libertà, eguaglianza e benessere all’intera società. Il contributo intellettuale del new liberalism fu decisivo nel definire la piattaforma riformatrice dei governi liberali che si succedettero in Gran Bretagna dal 1906 alla Prima Guerra mondiale; governi che, infat­ ti, grazie anche alla presenza dei laburisti nella compagine ministeriale, attuarono un ampio programma di redistribuzione dei redditi, attraver­ so la progressività fiscale, e di assistenza sociale per tutti i lavoratori. Il primo atto di questo programma fu il People’s Budget presentato nel 1909 (cap. 4.1), che introduceva nuove tasse e aumentava quelle sui red­ diti più elevati. La legge di bilancio prevedeva che il denaro ottenuto dalla tassazione dei ceti ricchi servisse a finanziare un ampio program­ ma di riforme sociali, comprendente le pensioni d’anzianità e i sussidi di disoccupazione. Nel 1909 fu infatti varato un sistema previdenziale che,

Riformulazione dell'ideologia liberale

Il liberalismo classico

La questione sociale

Gli intellettuali della Fabian Society e la corrente del new liberalism

Politiche sociali e interventismo statale

Piattaforma riformatrice dei governi liberali inglesi di inizio secolo

Nuova politica fiscale e sistema previdenziale

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Storia contemporanea

senza versamenti di contributi, destinava le pensioni di anzianità a colo­ ro che avessero superato i settant’anni di età e fossero al di sotto di una data soglia di reddito. Due anni dopo fu la volta del National Insurance Bill, vasto programma di assicurazioni contro la disoccupazione, l’inva­ lidità e le malattie. La cosiddetta progressive alliance dei governi inglesi di inizio secolo, fondata suH’allineamento a comuni principi di «etica pubblica» e di maggior giustizia sociale, promosse dunque un programma riformatore Le basi del Welfare ad ampio spettro che gettò le basi del Welfare State britannico, portato a State britannico compimento in forma definitiva solo dopo la Seconda Guerra mondiale. Mutuata tanto dagli apporti intellettuali del new liberalism quanto dalle istanze del Partito laburista, questa stagione riformatrice fu anche il ri­ sultato della consapevolezza che il consolidamento delle istituzioni poli­ tiche poteva venire solo dal riformismo sociale e dalla creazione di una società compatta e il più possibile solidale. Per tale motivo, dunque, an­ che i governi conservatori degli anni Venti si conformarono alle linee programmatiche del riformismo liberale e non stravolsero la legislazio­ ne sociale varata in precedenza. L'età giolittiana in Italia Anche in Italia il periodo compreso tra il 1901 e il 1914 e dominato politicamente dalla figura di Giovanni Giolitti costituì la fase più avan­ zata del liberalismo. Dopo la crisi di fine secolo e il tentativo di svolta au­ toritaria dei governi Pelloux, infatti, la classe dirigente italiana optò per un indirizzo politico autenticamente liberal-democratico, volto a tutelare le liberà civili e a promuovere il graduale inserimento delle masse nella compagine politico-istituzionale dello Stato attraverso il riformismo so­ ciale, l’ammodernamento amministrativo e l’allargamento del suffragio. Tale indirizzo politico fu inaugurato dal governo di Giuseppe Zanardelli, entrato in carica nel febbraio 1901; nella sua veste di ministro degli In­ terni, fu Giolitti il vero promotore di una nuova politica sensibile ai pro­ blemi dello sviluppo produttivo, del lavoro e delle rivendicazioni dei la­ Programma riformista voratori. Il suo programma prevedeva infatti la piena libertà delle e democratico organizzazioni sindacali e degli scioperi, nel rispetto della legge, e l’asso­ luta neutralità dei poteri pubblici nelle dispute tra capitale e lavoro. Tale programma, che da un lato veniva incontro alle esigenze della parte più dinamica della borghesia industriale italiana, per nulla interessata alla repressione violenta del movimento operaio, e dall’altro era conforme all’indirizzo riformista e democratico del governo, si scontrò tuttavia con Agitazioni e scontri l’impennata delle agitazioni e degli scioperi verificatasi a partire dal nel Mezzogiorno 1902. Tra il 1902 e il 1904 si moltiplicarono in tutta Italia, specie nel Mez­ zogiorno, gli scontri fra dimostranti e forze dell’ordine, con esiti spesso sanguinosi come i cosiddetti «eccidi proletari» che provocarono una qua­ rantina di morti nelle campagne meridionali. Tuttavia, nonostante le dif­ ficoltà e le critiche che provenivano soprattutto dagli ambienti moderati e conservatori, il governo proseguì nel proprio progetto riformatore: nel 1902 varò una legge a tutela del lavoro minorile e femminile ed ampliò la legge del 1898 sull’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul la­ voro. Di grande rilevanza, soprattutto per le amministrazioni delle gran­ di città, fu la legge del 1903 che consentì ai comuni la municipalizzazione dei servizi pubblici (trasporti, acqua, energia elettrica, gas).

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Dimessosi Zanardelli nell’autunno del 1903, Giolitti lo sostituì alla II governo Giolitti guida del governo presentando un programma improntato su una «poli­ tica interna di libertà la più ampia, nei limiti della legge», su un piano di riforme economiche, sociali e finanziarie e su provvedimenti speciali per il Mezzogiorno. Il programma riformatore, però, non potè essere messo in atto subito dal momento che Giolitti, dinanzi al problema della statalizzazione delle ferrovie e alle difficili trattative per la liquidazione delle compagnie ferroviarie, preferì ritirarsi lasciando ad Alessandro Fortis (—►) il compito di far approvare la legge sull’esercizio statale del­ le ferrovie (1905). Dopo l’intermezzo dèi governo Fortis e di un breve ministero Sonnino, il più autorevole avversario della politica giolittiana, Giolitti ritornò al potere nel maggio 1906, inaugurando il suo cosiddetto «lungo mini­ Il «lungo ministero» stero» che durò fino al dicembre 1909. Si apriva così per l’Italia una sta­ giolittiano e la stagione gione di cauto riformismo in campo politico e di forte consolidamento riformista dei ceti produttivi e del movimento operaio e contadino. L’attività go­ vernativa venne infatti dedicata al consolidamento del bilancio statale, al miglioramento dei servizi pubblici e dell’esercito, a provvedimenti speciali per il Mezzogiorno e a una serie di riforme per la tutela delle classi lavoratrici. Tali iniziative, assieme al successo della corrente so­ cialista riformista, non ostile all’esperimento giolittiano, e alla crisi del sindacalismo rivoluzionario, contribuirono alla piena affermazione del Consolidamento sistema giolittiano e della sua strategia volta a rafforzare i gruppi bor­ dei ceti produttivi ghesi e operai che costituivano l’avanguardia del processo di industria­ lizzazione in atto. Gli anni dal 1906 al 1909 furono molto intensi anche sul piano della mobilitazione sociale e dell’organizzazione delle forze capitalistiche e La Confederazione dei lavoratori. Nel 1906, infatti, venne fondata la Confederazione gene­ generale italiana rale italiana del lavoro (—►), col compito di incrementare e disciplinare del lavoro la lotta delle classi lavoratrici, e l’anno successivo nacque la Confedera­ e l'associazionismo zione italiana dell’industria, che diede il via all’associazionismo impren­ imprenditoriale ditoriale. Il riformismo dell’età giolittiana si inseriva quindi in una fase storica che vide, anche in Italia, la progressiva definizione delle contrap­ poste identità di classe, segno di una modernizzazione impetuosa ancor­ ché squilibrata, e un crescente dinamismo dell’assetto politico generale. Anche sul fronte cattolico, infatti, si assistette a un rinnovato impegno Impegno dei cattolici politico e, dopo lo scioglimento dell’Opera dei Congressi da parte di Pio in politica X (—►) nel 1904, nacquero una serie di nuove organizzazioni col compi­ to di coordinare le attività politico-culturali dei cattolici. Le elezioni del marzo 1909 si svolsero pertanto in una situazione profondamente mutata rispetto al 1904: nel Partito socialista prevale­ va la corrente riformista, l’attivismo politico dei cattolici era in piena espansione, il non expedit venne ufficialmente sospeso in 72 collegi, mentre dopo l’annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina erano ri­ prese le manifestazioni irredentistiche. Caratterizzate da un’alta par­ Elezioni del 1909 tecipazione (il 65% degli aventi diritto), le elezioni videro la buona te­ nuta della m aggioranza m inisteriale, un notevole incremento dell’estrema sinistra e l’elezione di ben 16 candidati cattolici. Tuttavia, anche in questo caso Giolitti, che aveva dinanzi alcuni difficili obiet-

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Monopolio statale delle assicurazioni sulla vita

Riforma elettorale e ampliamento del suffragio

Rilancio della politica coloniale

Conquista della Libia e fine del giolittismo

Storia contemporanea

tivi politici, tra cui il rinnovo delle convenzioni marittime, preferì ras­ segnare le dimissioni. Tornò alla guida del governo all’inizio del 1911, dopo un nuovo ministero Sonnino e uno presieduto da Luigi Luzzatti ( ^ - ) che aveva proposto una riforma per l’allargamento del suffragio. Giolitti, inaspettatamente, pose nel programma del suo nuovo gover­ no addirittura la concessione del suffragio universale maschile. Pur essendosi sempre dichiarato contrario all’estensione del diritto di vo­ to agli analfabeti, capì in quel frangente che solo in questo modo avrebbe potuto preservare il delicato equilibrio fin lì raggiunto, di fronte alla crescente radicalizzazione dello scontro sociale e politico. A preoccuparlo erano infatti soprattutto le posizioni della destra clerico-moderata e nazionalista. Il suo nuovo programma governativo si caratterizzò dunque per la presenza di due proposte politicamente e socialmente avanzate: il mo­ nopolio statale delle assicurazioni sulla vita e la riforma elettorale. Con l’approvazione, nel 1912, del monopolio pubblico delle assicurazioni sul­ la vita, si costituì l’Istituto nazionale delle assicurazioni, primo ente pubblico di tipo economico con una personalità giuridica propria distin­ ta da quella dello Stato, il quale tuttavia dovette rinviare l’effettivo ini­ zio della propria attività a causa delle forti resistenze di alcuni settori parlamentari. Sempre nel 1912 fu varata la legge elettorale che estende­ va il diritto di voto ai maschi analfabeti che avessero compiuto 21 anni e prestato il servizio militare e a tutti i maschi di età superiore ai 30 anni, indipendentemente dal grado di istruzione e dal servizio militare. Gli elettori crebbero così dal 9,50% al 24,50% della popolazione complessi­ va. La legge del 1912 istituì inoltre l’indennità per i deputati. L’allargamento delle basi politiche dello Stato, che avrebbe dovuto essere funzionale al consolidamento deH’egemonia liberale e alla gestio­ ne razionale del processo di integrazione dei ceti medi e proletari, av­ venne però in una fase contraddittoria caratterizzata da un crescente fermento nazionalistico e dal sorgere di nuove spinte culturali irraziona­ listiche. Nel tentativo, quindi, di bilanciare l’ampliamento del suffragio con un’iniziativa capace di coagulare i consensi del sovrano e degli am­ bienti di corte, dell’esercito e della destra nazionalista, Giolitti rilanciò la politica coloniale italiana e, fra il 1911 e il 1912, condusse una guerra contro l’Impero ottomano per il possesso della Tripolitania e della Cire­ naica (cap. 3.5). La vittoriosa guerra di Libia, nonostante avesse dato sfogo alle mire del movimento nazionalista, rappresentò tuttavia l’inizio della fine del giolittismo. Da un lato, infatti, la conquista della Libia, che già i socialisti avevano definito lo «scatolone di sabbia» africano in quanto le ricchezze del suo sottosuolo non erano ancora conosciute, si risolse in una cocente delusione e, dall’altro, si interruppe il dialogo, sia pure intermittente, con i socialisti. Divenne chiaro a Giolitti che la sua strategia di mediazione parlamentare tra le forze liberali e di graduale riformismo non bastava più a una realtà politica diventata sempre più aggressiva e radicale.

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4.5 La crisi del razionalismo positivista Gli anni compresi tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e la Prima Guerra mondiale furono densi di cambiamenti sia in ambito politico, sia sul piano culturale. In politica, infatti, cominciò a farsi strada l’idea di un lento, ma inarrestabile declino del vecchio ordine istituzionale costruito sui pilastri del costituzionalismo liberale, sempre più in diffi­ coltà a rapportarsi con la crescente politicizzazione delle masse. La pa­ rallela ascesa del nazionalismo sembrò mettere ulteriormente in di­ scussione le solide certezze del liberalismo ottocentesco che, dopo qua­ si un secolo di stabilità e grande sviluppo, non pareva più in grado di assorbire e ricomprendere tutti i cambiamenti di una accelerata e feb­ brile modernizzazione. In ambito culturale, invece, l’illimitata fede nel progresso faceva immaginare un ruolo sempre più centrale per la scien­ za, l’economia e la tecnologia. I nuovi orizzonti della medicina e della chirurgia, gli sviluppi della matematica e della fisica, la crescita economica e industriale, i migliora­ menti nel settore delle comunicazioni, le nuove e moderne tecnologie militari erano tutti fattori che sembravano dover confermare l’ottimi­ smo nel quale la cultura occidentale era cresciuta lungo tutto l’Ottocen­ to. Da questo punto di vista, quindi, gli anni a cavallo tra Otto e Nove­ cento parvero davvero accreditare l’immagine di una belle époque (—►) di straordinaria accelerazione in tutti i settori della vita pubblica e priva­ ta, così come si venne nostalgicamente configurando dopo la guerra mondiale. In realtà, tuttavia, la belle époque fu più che altro un mito creato a posteriori, dopo le immense catastrofi del conflitto. I trent’anni che avevano preceduto il 1914 furono, al contrario, caratterizzati da for­ ti contraddizioni sul piano socio-economico e politico e da sentimenti contrastanti circa un futuro che difficilmente si riusciva a immaginare basandosi sulle categorie cognitive del passato. Dal punto di vista filosofico si assistette al parziale declino della cul­ tura razional-illuministica propria del XIX secolo e i modelli interpreta­ tivi offerti dal positivismo (-»-), fondati sul progresso e su un sapere ra­ zionale scientifico e positivo, si rivelarono ben presto inadeguati a com­ prendere non solo le trasformazioni socio-politiche ma anche gli stessi sviluppi della scienza. Il positivismo, pur continuando a essere utilizzato come metodo di ricerca e di comprensione della realtà, entrò in crisi co­ me sistema interpretativo del mondo e dell’evoluzione storica. Alla crisi del positivismo corrispose la graduale affermazione di nuove dottrine filosofiche di stampo irrazionalistico e vitalistico che, in varie forme e modalità, contestavano la radicata fiducia nella ragione contrapponen­ dovi valori come l’istinto, la volontà di potenza-e il vitalismo Di particolare importanza fu la riflessione del filosofo tedesco Frie­ drich Wilhelm Nietzsche (-->), massimo interprete della dottrina del ni­ chilismo, che era già stata in parte anticipata dalle opere dello scrittore russo Fédor M. Dostoevskij (-^-). Critico verso il razionalismo della cultura ottocentesca, Nietzsche riteneva il nichilismo l’esito inevitabile dell’intero corso della tradizione occidentale. Senza tuttavia fermarsi a questa visione negativa del nichilismo, quale simbolo della decadenza

Crisi delle certezze del liberalismo ottocentesco

L'illimitata fede nel progresso

Il mito della belle epoque

Declino della cultura razional-illuministica

Crisi del positivismo e affermazione di nuove dottrine filosofiche Nietzsche e il nichilismo

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La volontà di potenza e l'«oltreuomo»

Rinascita dell'idealismo in Italia

Einstein e i limiti delle scienze tradizionali

Il Decadentismo

Freud e la nascita della psicoanalisi

Relatività e soggettività

Weber e le nuove scienze sociali

Storia contemporanea

del pensiero filosofico occidentale e del razionalismo dei sistemi politici moderni, Nietzsche elaborò un nichilismo forte e creatore, che sarebbe stato attivato dalla volontà di potenza di un «oltreuomo» (—>-) capace di trasformare e superare i valori del passato. L’«oltreuomo», liberatosi dal fardello della tradizione e portatore di una nuova giustizia e di un’etica autonoma, avrebbe quindi dato vita a una nuova «aurora» fondata su quella volontà di potenza che Nietzsche considerava non come pretesa di dominio, bensì come principio di organizzazione e disorganizzazione continua dell’esistente. Le dottrine di Nietzsche non furono comunque le sole a manifestare la crisi del modello interpretativo positivista. In Germania e Italia si as­ sistette a una ripresa della filosofia idealista che, privilegiando la dimen­ sione ideale e spirituale rispetto a quella materiale, respingeva i fonda­ menti stessi del positivismo. In Italia la rinascita dell’idealismo fu dovu­ ta soprattutto a Benedetto Croce (—►) e Giovanni Gentile (—►). Il primo, storico, filosofo e letterato, elaborò un articolato sistema teorico fondato sulla preminenza della libertà nel processo storico e sull’insepa­ rabilità tra storia e filosofia, intesa quest’ultima come vera e propria me­ todologia storiografica. Gentile portò invece alle estreme conseguenze il pensiero idealista, ponendo all’origine della realtà e del processo sto­ rico l’«atto» del soggetto individuale. La ripresa dell’idealismo in filosofia, la nascita di nuove correnti spi­ ritualistiche e irrazionalistiche, gli stessi progressi della scienza, come la formulazione della teoria quantistica, la nascita della fisica atomica, l’enunciazione della teoria della relatività da parte di Albert Einstein (—>-) nel 1905, cominciarono a mettere in luce i limiti delle scienze fisi­ co-matematiche tradizionali. Sul fronte umanistico, lo sviluppo di movi­ menti artistici e letterari come il Decadentismo e il Simbolismo (—►) fu­ rono altrettanti segnali del declino del positivismo ottocentesco. Agli orientamenti dell’arte e della poesia «decadente», dove l’artista, rifiu­ tando il materialismo della società dell’epoca, cercava il ripiegamento nella vita interiore e la ricerca degli aspetti misteriosi, irrazionali e oni­ rici della personalità umana, fece poi riscontro la fondazione della psi­ coanalisi da parte del medico austriaco Sigmund Freud (->-). Ponendo alla base del comportamento degli esseri umani e delle loro relazioni l’inconscio, Freud non solo rivoluzionò le conoscenze sulle malattie mentali e introdusse un nuovo sistema terapeutico basato sull’analisi dell’attività onirica dei pazienti, ma dimostrò l’importanza delle motiva­ zioni pulsionali e non razionali del comportamento umano. L’attenzione per gli aspetti irrazionali dell’esistenza si accompagnò alla riflessione sulla relatività e la soggettività della conoscenza; anche in questo caso alle certezze del metodo scientifico positivista si sostitui­ va l’idea che le inclinazioni personali e il punto di vista dell’osservatore potessero alterare lo studio e la rappresentazione dei fenomeni della re­ altà. Questo approccio influenzò soprattutto i teorici delle scienze so­ ciali e trovò una delle sue massime espressioni nell’opera di Max Weber. Egli infatti, nei suoi studi sulle origini dello Stato contemporaneo e del moderno capitalismo, pose le basi di una nuova metodologia delle scien­ ze storico-sociali in grado di definire sia l’analisi degli interessi indivi-

Le istanze imperialistiche nella crisi di fine secolo

duali e personali, sia quella dei fenomeni collettivi e del funzionamento delle élite politico-burocratiche. Anche negli studi sulla politica, che per Weber doveva configurarsi come passione, senso di responsabilità e lun­ gimiranza, fu molto attento a considerare i fattori dell’agire umano e le complesse motivazioni che spingono l’uomo all’azione politica, intesa da Weber come lotta tra visioni contrapposte del mondo. Tra relativismo cognitivo e teorie irrazionalistiche, tra decadentismo e volontarismo, il nuovo secolo si apriva quindi nel segno di un bagaglio culturale e spirituale molto diverso da quello che aveva caratterizzato l’Ottocento. La politicizzazione delle masse, la progressiva emancipazione sociale delle donne, la scoperta degli aspetti inconsci e irrazionali che intervengono nell’agire umano, l’indebolimento della fiducia nel progresso pacifico, l’idea di una lotta sempre più agguerrita per il domi­ nio mondiale intaccarono progressivamente l’ottimismo dei decenni precedenti e causarono, soprattutto nella cultura europea, un senso di inadeguatezza generale. La Prima Guerra mondiale, col suo carico di morti e devastazioni, rappresentò quindi, da un lato, il condensato di queste paure e dall’altro accelerò ancor di più la crisi dei valori e delle certezze del «lungo Ottocento» (—»-).

99

La crisi dei valori e dell'ottimismo ottocenteschi

5.1 La sindrome della «guerra in vista» 5.2 Internazionalismo vera/s nazionalismo 5.3 La prima guerra totale 5.4 Russia: le due rivoluzioni 5.5 Versailles e lo scontro tra vecchio e nuovo mondo

Capitolo 5

La Prima Guerra mondiale e lo scontro tra internazionalismo e nazionalismo

5.1 La sindrome della «guerra in vista»

La nuova politica estera della Germania

Competizione commerciale internazionale e rivalità nazionalistiche

Crisi degli imperi multietnici

Il quadro geopolitico dell’Europa si modificò rapidamente dopo il 1890 quando, con l’uscita di scena di Bismarck, entrò in crisi il suo dise­ gno di equilibrio europeo fondato sull’isolamento diplomatico della Francia e sul ruolo egemone della Germania, perno di un sistema di al­ leanze che comprendeva Russia, Austria e Italia e la benevola, neutrale indifferenza della Gran Bretagna. L’imperatore Guglielmo II cambiò infatti rotta rispetto alla strategia bismarckiana e, abbandonato l’obiet­ tivo della tutela dell’equilibrio, intraprese una politica estera imperiali­ stica e aggressiva. Dotò la Germania di una grande flotta navale, che immediatamente suscitò tensioni con la Gran Bretagna per il controllo dei mari, si inserì nella corsa coloniale e sostenne il progetto panger­ manista di una «grande Germania» che avrebbe dovuto riunire tutte le popolazioni europee di lingua tedesca. Oltre al nuovo corso della poli­ tica tedesca, a rendere instabile il quadro internazionale dell’Europa contribuì l’accresciuta competizione commerciale che, assumendo trat­ ti fortemente nazionalistici, finì per creare nuove forme di rivalità e mettere in crisi l’idea, consolidatasi con il Congresso di Vienna, che i rapporti tra gli Stati si dovessero gestire e sorvegliare con mezzi con­ sensuali. Mentre, quindi, il nuovo contesto della competizione interna­ zionale cominciava a essere gestito mediante alleanze bilaterali e inte­ se segrete, si diffuse anche una nuovo atteggiamento verso la guerra, percepita sempre di più neH’immaginario collettivo come mezzo per ri­ solvere le rivalità nazionali. In questa spirale di contrapposizioni nazionalistiche dove ciascuno Stato ambiva a svolgere una politica di potenza apertamente «imperia­ le» si inserì la crisi degli imperi multietnici, in particolare quello otto­ mano e quello austro-ungarico. Nel 1908 fu proprio l’Impero asburgi­ co, approfittando della crisi che aveva colpito la Sublime Porta con la

La Prima Guerra mondiale e lo scontro tra internazionalismo e nazionalismo

rivoluzione dei Giovani Turchi, ad annettersi definitivamente la Bosnia-Erzegovina, affidatale in amministrazione temporanea dal Con­ gresso di Berlino del 1878. L’iniziativa austriaca rese più acute le ten­ sioni presenti nella penisola balcanica dove soprattutto la Serbia, già indipendente dal 1878, aspirava a porsi alla guida del nazionalismo sla­ vo e godeva dell’appoggio della Russia che, in nome di riemergenti aspirazioni panslaviste, si poneva come protettrice delle rivendicazio­ ni dei popoli slavi. Le difficoltà economiche e le lacerazioni interne dellTmpero otto­ mano, sfruttate sistematicamente dalle potenze europee per ottenere vantaggi territoriali, e le spinte centrifughe del nazionalismo slavo ac­ celerarono lo sfaldamento del sistema imperiale ottomano, accrescen­ do nel contempo le tensioni e le rivalità in tutta Europa. Sempre nel 1908, infatti, la Bulgaria annesse la Rumelia e proclamò la completa in­ dipendenza, mentre Creta, ribellatasi al governo turco, si unì alla Gre­ cia. Nel 1911-12 fu l’Italia a muovere guerra alla Sublime Porta per an­ nettersi Tripolitania e Cirenaica (cap. 3.5 e cap. 4.4) e nel 1912 Bulga­ ria, Grecia, M ontenegro e Serbia, uniti nella Lega balcanica, attaccarono gli ottomani, approfittando dello sbandamento seguito alla guerra contro l’Italia, e li sconfissero in pochi mesi. La conclusione di questa prima guerra balcanica, sancita dalla pace di Londra del 1913, vide Flmpero ottomano perdere la Macedonia. La spartizione dei terri­ tori, tuttavia, non soddisfece la Bulgaria che attaccò immediatamente Grecia e Serbia, al cui fianco si schierarono la Romania e la stessa Tur­ chia. Questa seconda guerra balcanica, nella quale la Bulgaria venne sconfitta, si concluse con trattato di Bucarest del 1913 che modificò completamente gli equilibri della penisola. La Macedonia venne sparti­ ta tra Serbia e Grecia; la Bulgaria dovette restituire allTmpero ottoma­ no una parte della Tracia e alla Romania una striscia di territorio sul Mar Nero; fu inoltre creato sulle coste meridionali dell’Adriatico il Principato di Albania, voluto soprattutto da Austria e Italia in funzio­ ne antiserba. Al termine delle due guerre balcaniche, quindi, i territori europei dellTmpero ottomano si riducevano a una parte della Tracia, ai Dardanelli e alla città di Istanbul. Da un punto di vista più generale la conclusione delle guerre balca­ niche, che avevano sancito il rafforzamento della Serbia senza per que­ sto che si attenuassero la sua tradizionale ostilità verso l’Austria e l’aspirazione a unificare in un unico Stato tutti i popoli slavi, definì un quadro geopolitico molto instabile e sfavorevole soprattutto a Vienna e Berlino. L’Impero turco, loro tradizionale alleato, era stato infatti quasi del tutto estromesso dall’Europa e anche la Bulgaria, che fra i Paesi balcanici era quello più legato al blocco austro-tedesco, aveva visto for­ temente ridimensionata dalla guerra del 1913 la propria posizione. Lo scacchiere europeo, del resto, si era già profondamente modificato ri­ spetto a quello voluto da Bismarck e la Germania non poteva più con­ tare, come nel ventennio 1870-1890, sull’isolamento della Francia e sul­ la capacità della propria cancelleria di tenere uniti i suoi due principali alleati, l’Impero russo e quello austro-ungarico, tradizionalmente rivali per il controllo sui Balcani.

101

Tensioni nella penisola balcanica

Sfaldamento dell'Impero ottomano

La prima guerra balcanica

La seconda guerra balcanica e il nuovo assetto della penisola

Instabilità del nuovo quadro geopolitico

Finlandia

IL SISTEM A D I A LLEAN ZE ALL’O R IG IN E D ELLA PRIM A G U E R R A M O N D IA L E

[ORVEGIA

Q ì 905

102

Duplice Intesa (1894), dal 1908 allargata alla Gran Bretagna (Triplice Intesa)

(j ) G uerra bc

1899-19

IMPERO RUSSO

[ Lega Balcanica (1912)

GERMANIA

»

> Tensioni internazionali

®

Guerre

O

Insurrezioni

BELGIO;

Guerra russo-giapponese 1904-1905

FRANCIA

(Confini del 1914)

IMPERO AUSTRO UNGARICO

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ROMANIA

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PORTOGALLO

Bosnia SERBIA ITALIA

BULGARIA

SPAGNA G u erra ispano-am ericana/

1898

IMPERO OTTOMANO

Marocco

Algeria

(F rancia)

(F rancia)

Tunisia (Francia)

®

Guerra italo-turca 1911-1912

Storia contemporanea

| Triplice Alleanza (1882) I (l’Italia se ne distacca nel 1914)

La Prima Guerra mondiale e lo scontro tra internazionalismo e nazionalismo

Tra il 1891 e il 1894, infatti, si era consolidata l’alleanza franco-rus­ sa, che da semplice accordo diplomatico si era trasformata in una vera alleanza militare. Le due potenze, superate le difficoltà dovute ai di­ versi sistemi politico-istituzionali e alle differenti tradizioni culturali, avevano deciso di accordarsi per far fronte comune contro la Germa­ nia. Il disegno bismarckiano si sfaldò completamente quando la Gran Bretagna, dinanzi alla sfida del riarmo navale tedesco, decise di uscire dal proprio «splendido isolamento», dapprima, nel 1902, alleandosi col Giappone e poi, due anni dopo, stabilendo con la Francia la cosiddetta Enterite cordiale, un accordo maturato inizialmente per la soluzione delle controversie coloniali tra i due Paesi. Nel 1907, poi, Gran Breta­ gna e Russia arrivarono ad accordarsi definitivamente sulle rispettive aree d’influenza in Asia. A questo punto l’Europa si trovò di fatto divi­ sa in due blocchi contrapposti: da un parte, gli Imperi centrali e l’Italia legati dalla Triplice Alleanza, dall’altra la Triplice Intesa fra Gran Bre­ tagna, Francia e Russia. Questo nuovo assetto politico europeo, le ten­ sioni e le guerre nell’area balcanica e la tendenza della diplomazia ad agire esclusivamente attraverso alleanze permanenti e accordi bilatera­ li, rifiutando qualsiasi forma di regolazione «concertata» e multilatera­ le delle controversie internazionali, mostravano un quadro estremamente precario e conflittuale che non lasciava alternative tra «la guerra generale e la pace generale». La situazione precipitò dopo che, il 28 giugno 1914, il nazionalista ser­ bo-bosniaco Gavrilo Princip (—*-) uccise a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando (->-), erede al trono dell’Impero asburgico. La crisi, inizial­ mente locale e circoscritta, assunse presto una dinamica incontrollata per la decisione di Vienna, e in particolare del ministro degli Esteri Leopold Berchtold (-^-), di risolvere una volta per tutte il problema slavo e per la rigidità del sistema di alleanze in cui si muovevano sia gli alleati sia gli avversari dell’Impero austro-ungarico. Anche se è probabile che in quel momento nessuna cancelleria europea cercasse apertamente una guerra generale, tutte erano comunque disposte a correrne il rischio, seb­ bene in forme e misure diverse. La Germania, infatti, si dispose ad asse­ condare interamente l’alleato austriaco, mentre la Russia, che non aveva più intenzione di rinunciare al proprio tradizionale ruolo di protettore dei popoli slavi, ottenne dalla Francia l’assicurazione che non sarebbe ri­ masta sola in un eventuale conflitto contro gli austro-tedeschi. Dopo che l’Austria, il 23 luglio, inviò alla Serbia un durissimo ulti­ matum, che prevedeva tra l’altro la presenza di funzionari austriaci nel­ le indagini sull’attentato di Sarajevo, la Serbia rispose con la mobilita­ zione dell’esercito. Il 28 luglio l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia e immediatamente scattò il sistema di alleanze: la Russia inter­ venne in difesa di quest’ultima e due giorni dopo la Germania dichiarò guerra alla Russia dopo averle, invano, imposto di sospendere i prepa­ rativi militari. Anche la Francia cominciò a mobilitare le proprie trup­ pe e il 3 agosto la Germania le dichiarò guerra. Quando le truppe tede­ sche, per mettere in atto un piano di guerra concepito già nel 1905 dal capo di stato maggiore Alfred von Schlieffen ( ^ - ) , che prevedeva un massiccio attacco a sorpresa contro la Francia, invasero Lussemburgo e

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L'alleanza franco-russa

La fine dello «splendido isolamento» britannico

Due blocchi contrapposti in Europa

L'attentato di Sarajevo

Reazione dell'Impero austro-ungarico

Dichiarazione di guerra alla Serbia

Il sistema delle alleanze

104

Dimensione mondiale del conflitto

La complessa vicenda italiana

L'iniziale neutralità

Il fronte interventista

La volontà del re Vittorio Emanuele III

Storia contemporanea

Belgio neutrali per aggirare lo schieramento francese, anche la Gran Bretagna, garante deH’indipendenza del Belgio, dichiarò guerra alla Germania. Il conflitto, che assunse già una dimensione mondiale nell’estate del 1914 per l’intervento, il 23 agosto, del Giappone a fianco dell’Intesa, si sarebbe allargato ad altri Paesi negli anni successivi. Alla fine del 1914 la Turchia entrò in guerra a fianco degli Imperi centrali, seguita l’anno dopo dalla Bulgaria, mentre nel 1916 Portogallo e Roma­ nia si schierarono con l’Intesa. Nel 1917 scesero in campo a fianco dell’Intesa, oltre alla Grecia, gli Stati Uniti che, come vedremo, diedero una svolta decisiva all’andamento del conflitto. Molto più complessa fu la vicenda dell’Italia che, legata agli Imperi centrali solo da un patto difensivo (la Triplice Alleanza) e non consul­ tata da Vienna al momento dell’ultimatum alla Serbia, dichiarò inizial­ mente la propria neutralità. Il Paese si lasciava alle spalle un periodo di forti tensioni sociali e rivendicazioni operaie che erano culminate nel giugno 1914 in un’ondata di scioperi e proteste particolarmente ra­ dicali nelle Marche e in Romagna, dove erano sfociati nella cosiddetta «settimana rossa» (—►). Sia le difficoltà interne, sia il carattere pura­ mente difensivo della Triplice Alleanza spinsero quindi il capo del go­ verno Antonio Salandra (—>-) a optare per il non intervento, su cui concordava la maggior parte delle forze politiche, tra cui socialisti, cat­ tolici e liberali giolittiani. Nonostante il fronte neutralista fosse largamente maggioritario nel Paese e in Parlamento, dove soprattutto Giolitti sosteneva con fermezza la tesi che, proprio grazie alla neutralità, l’Italia avrebbe potuto più fa­ cilmente ottenere dall’Austria le «terre irredente» del Trentino, dell’Al­ to Adige e del Friuli Venezia Giulia, esso risultava scarsamente omoge­ neo e poco efficace sul piano politico. Assai più agguerrita era invece la minoranza interventista che, escludendo l’ipotesi di una partecipazione a fianco degli Imperi centrali, premeva affinché l’Italia si schierasse con l’Intesa per portare finalmente a compimento il processo risorgimenta­ le. Nonostante le divisioni interne, il fronte interventista comprendeva, oltre a una rilevante parte del mondo intellettuale del tempo, i naziona­ listi, le associazioni irredentiste tradizionalmente antiaustriache, alcuni repubblicani e socialriformisti, come Leonida Bissolati (—►), alcune frange radicali del sindacalismo rivoluzionario, come Alceste De Ambris (->-), al cui fianco, come vedremo, si pose anche il socialista Benito Mussolini (-^-) che per questo fu espulso dal partito. Il fronte interven­ tista, che dal settembre 1914 al maggio 1915 si scontrò ripetutamente nelle piazze italiane con le forze della sinistra socialista, raccoglieva an­ che alcuni rappresentanti dell’area liberal-moderata e conservatrice, tra cui lo stesso Salandra e il ministro degli Esteri Sonnino, i quali temeva­ no che un mancato intervento avrebbe compromesso il prestigio inter­ nazionale dellTtalia. Anche il sovrano Vittorio Emanuele III (-»-), i cir­ coli di corte e una parte dei vertici militari erano a favore dell’intervento italiano a fianco delllntesa. Furono proprio le propensioni interventiste del re e un’interpreta­ zione letterale dello Statuto Albertino, che attribuiva al sovrano e al suo governo le decisioni in materia di politica internazionale, a spinge­

La Prima Guerra mondiale e lo scontro tra internazionalismo e nazionalismo

re, nell’aprile 1915, il ministro degli Esteri Sonnino a firmare, all’insa­ puta del Parlamento e col solo avvallo del re e di Salandra, il Patto di Londra con Francia, Gran Bretagna e Russia. L’Italia si impegnava a entrare in guerra a fianco dell’Intesa e, in caso di vittoria, avrebbe otte­ nuto il Trentino, il Tiralo meridionale, la Venezia Giulia e la penisola istriana, ad eccezione della città di Fiume, una parte della Dalmazia e Valona in Albania. Di fronte alla probabile opposizione del Parlamen­ to a maggioranza giolittiana, chiamato a ratificare il trattato, Salandra si dimise, ma per mancanza di realistiche alternative ottenne il reinca­ rico da parte del sovrano. La chiara volontà di Vittorio Emanuele III di proseguire sulla strada dell’intervento e le violente manifestazioni di piazza a favore della guerra, celebrate dalla retorica interventista come le «radiose giornate» di maggio, finirono per piegare definitivamente il Parlamento, introducendo per la prima volta sulla scena pubblica l’im­ magine delle istituzioni liberali sottomesse alla violenza e alle minacce della piazza. Il 20 maggio la Camera, con la sola opposizione dei socia­ listi, approvò i crediti di guerra e il 23 maggio l’Italia dichiarò guerra all’Austria. Il giorno successivo le truppe italiane varcarono il Piave, dando inizio alle operazioni militari.

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La firma del Patto di Londra all'insaputa del Parlamento

Le manifestazioni di piazza e la resa del Parlamento

L'entrata in guerra a fianco dell'Intesa

5.2 Internazionalismo v e rsu s nazionalismo Lo scoppio della guerra mondiale accese gli entusiasmi nazionalisti e suscitò ovunque una grande mobilitazione patriottica; in tutti i Paesi, intellettuali di prestigio intervennero per sostenere la causa nazionale e le ragioni della guerra. Questo si verificò anche perché, almeno nella fa­ se iniziale, quasi tutti gli ambienti militari e politici ipotizzavano una guerra rapida, condotta secondo gli schemi dei conflitti europei di metà Ottocento. Questo clima mise in seria difficoltà soprattutto i partiti so­ cialisti, tradizionalmente legati a ideali di internazionalismo e universa­ lismo. Il rapporto tra il socialismo europeo e l’idea di «nazione», matu­ rato ben prima del 1914, era complesso e il precipitare degli eventi nell’estate del 1914 fece emergere tensioni latenti e visioni non del tutto omogenee. Mentre infatti, nella sua fase iniziale, il socialismo aveva ab­ bracciato un universalismo ideologico che sottovalutava le dinamiche sociali connesse all’appartenenza nazionale, negli anni della guerra era maturato un orientamento diverso. La Seconda Internazionale (—>-), sorta nel 1889 quando i rappresen­ tanti di vari partiti di ispirazione marxista si riunirono a Parigi per defi­ nire i principali obiettivi del movimento operaio, fu convocata ufficial­ mente due anni dopo al Congresso di Bruxelles. Memori della contrap­ posizione tra marxisti e anarchici che aveva fatto fallire la Prima Internazionale, i rappresentanti riuniti a Bruxelles decisero l’esclusione degli anarchici e di tutti coloro che erano contrari per principio alla pre­ senza dei socialisti alPinterno delle istituzioni parlamentari. Sul piano organizzativo la Seconda Internazionale non si diede una struttura rigi­ da, limitandosi a svolgere una funzione di coordinamento fra i partiti socialisti dei diversi Paesi. Al suo interno, tuttavia, il Partito socialde-

Entusiasmi nazionalisti

I partiti socialisti in difficoltà

La Seconda Internazionale

106

Le diverse anime del socialismo europeo

Il rapporto tra appartenenza nazionale e ideologia internazionale

L'idea di «patria» e l'integrazione pacifica

Lo scoppio della guerra e la crisi dell'Internazionale

Storia contemporanea

mocratico tedesco assunse ben presto un ruolo fondamentale e i dibatti­ ti che animarono la SPD negli anni Novanta finirono per diventare mo­ menti di confronto per tutta l’Internazionale. Fu in questo contesto che cominciarono a emergere le diverse anime e correnti del socialismo eu­ ropeo: da quella rivoluzionaria di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht (—►) a quella marxista ortodossa, di cui il maggior interprete fu Karl Kautsky (->-), fino alle varie posizioni riformiste o revisioniste di August Bebel ed Eduard Bernstein. Mentre, dunque, l’Internazionale lasciava spazio all’autonomia dei singoli partiti e al dibattito interno fra le varie correnti, i partiti socialisti si erano innestati sempre di più nelle realtà politiche dei rispettivi Paesi, cominciando a maturare una prima consapevolezza circa l’importanza del fattore nazionale nello sviluppo dei processi politici e sociali. Si deli­ nearono così diversi orientamenti su come affrontare il difficile nodo del rapporto tra appartenenza nazionale e ideologia internazionalista. Alle posizioni più radicali di quanti continuavano a sostenere la supe­ riorità dei legami sovranazionali e delle appartenenze di classe rispetto a qualsiasi altro vincolo, si affiancava l’approccio particolare del bolsce­ vismo russo che, come vedremo, associava la difesa del principio di au­ todeterminazione nazionale alla rivendicazione dell’identità classista delle forze operaie di tutto il mondo. Il terzo orientamento, decisivo nel­ le scelte compiute dai partiti socialisti europei al momento dello scoppio della guerra, tendeva invece a non disgiungere il profilo e l’azione dei gruppi socialisti dalle tradizioni civili e culturali alla base di ciascuna comunità nazionale. Espressa soprattutto dall’elaborazione teorica del socialista francese Jean Jaurès (->-), questa posizione cercava di conci­ liare la politica socialista e la sua vocazione internazionalista con i valo­ ri e i legami delle identità nazionali. Ne derivò un parziale mutamento del significato del cosmopolitismo socialista, dove alla negazione radi­ cale dei vincoli nazionali del movimento operaio cominciò ad affiancar­ si un’idea di «patria» che, contrapposta a quella di «nazione» esaltata dagli imperialismi, avrebbe dovuto rappresentare un nucleo vitale della comunità internazionale. Si trattava, per una parte dei socialisti euro­ pei, di creare un sistema libero e pacifico d’integrazione fra gli Stati, fondato sul rispetto reciproco delle varie nazionalità, garante della com­ posizione dei contrasti e della tutela della pace: una «più grande patria», come aveva scritto Jaurès, nella quale il movimento socialista europeo avrebbe potuto operare senza abdicare alla propria vocazione interna­ zionalista, ma al tempo stesso riconoscendo il valore della comunità cul­ turale e delle specificità storiche e sociali del proprio Paese di origine. Se l’Internazionale delle patrie aveva cercato di essere la risposta del movimento operaio al dilagare del nazionalismo e delle politiche impe­ rialistiche negli anni fra i due secoli, la crisi del 1914 evidenziò che per la nuova concezione dell’internazionalismo socialista era indispensabile il mantenimento della pace fra i diversi Stati. Solo così, infatti, l’adesione del socialismo alla «patria» non avrebbe compromesso il pacifismo della cultura socialista e soprattutto la solidarietà internazionale della classe operaia. Lo scoppio della guerra, invece, ruppe questo delicato equili­ brio tra la «patria» e l’Internazionale e quest’ultima entrò in una fase di

La Prima Guerra mondiale e lo scontro tra internazionalismo e nazionalismo

drammatica crisi. Tutti i maggiori partiti membri, infatti, ad eccezione di quelli russo, serbo e italiano, si schierarono al fianco dei rispettivi go­ verni, dimostrando come, di fatto, la solidarietà nazionale prevalesse su quella di classe, perlomeno nei Paesi dove il movimento operaio si era maggiormente integrato nelle strutture politiche interne. In Germania la SPD votò a favore dei crediti di guerra, motivando tale scelta col peri­ colo di vittoria dell’autocrazia russa, mentre la Section frangaise de l’In­ ternationale ouvrière (SFIO), il partito socialista francese sorto nel 1905, entrò a far parte del governo di union sacrée, un governo di solida­ rietà nazionale che riuniva tutte le forze politiche per far fronte alla guerra. Lo stesso fecero i laburisti inglesi e la formula deli’union sacrée, sancendo la piena adesione dei partiti socialisti alle istituzioni dei Paesi in guerra, dimostrò la sostanziale impotenza politica della Seconda In­ ternazionale che, di fatto, si sciolse nel corso della guerra In Francia il conflitto all’interno del movimento socialista fu parti­ colarmente lacerante. A metà luglio 1914, infatti, la SFIO aveva elabora­ to un documento da presentare all’Internazionale per impedire la guer­ ra e Jaurès aveva proposto uno sciopero generale per indurre i governi alla mediazione e all’arbitrato. Convinto che i socialisti non dovessero boicottare la guerra per ragioni di principio, Jaurès riteneva però che il movimento operaio europeo dovesse fare di tutto per impedirla. Di ri­ torno da Bruxelles, dove aveva tentato un estremo intervento dell’Inter­ nazionale, venne ucciso da un nazionalista. La tragica morte di Jaurès servì, paradossalmente, a ricompattare il fronte socialista e la SFIO en­ trò nel governo di «sacra unione» alla quale fece appello, rivolgendosi a tutti i francesi, il presidente Raymond Poincaré (—>-). Mentre in Serbia e Russia i partiti socialisti, sostanzialmente emargi­ nati dalla vita politica, non affiancarono i rispettivi governi allo scoppio del conflitto, più complessa e ambigua fu la situazione del Partito socia­ lista italiano. Benché, infatti, impossibilitati a incidere sulle scelte go­ vernative e incapaci di porsi alla testa del variegato fronte neutralista, i socialisti reagirono in modo compatto alla scelta interventista fatta nell’autunno del 1914 da un loro esponente di spicco, Benito Mussolini direttore del quotidiano «Avanti!». Propugnando dapprima una neutra­ lità assoluta, poi una «neutralità attiva ed operante», come scrisse in un articolo pubblicato il 18 ottobre, Mussolini passò a un interventismo aperto e fortemente polemico nei confronti dell’ostinato neutralismo del socialismo nazionale. Espulso dal partito a novembre, Mussolini fondò, grazie al denaro stanziato da gruppi interventisti italiani e francesi, un proprio giornale, «Il Popolo d’Italia» che fino al 1918 mantenne l’inte­ stazione di «quotidiano socialista». Pur nella loro sostanziale compat­ tezza, i socialisti italiani non riuscirono a opporre un atteggiamento ri­ soluto e combattivo alla scelta interventista del governo italiano e si at­ testarono su una posizione ambigua sintetizzata dalla formula «né aderire, né sabotare», che il segretario Costantino Lazzari (—►) coniò nel maggio 1915 in occasione di una riunione della direzione del partito e del gruppo parlamentare socialista. Priva di un vero contenuto politi­ co in grado di orientare il movimento operaio italiano e di dare sostanza all’azione dei socialisti, la formula di compromesso «né aderire, né sabo-

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Prevalenza dell'appartenenza nazionale su quella di dasse

Il tentativo pacifista eia morte di Jaurès

Reazione del partito socialista italiano

Espulsione dal partito di Mussolini

La posizione di compromesso dei socialisti

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La conferenza diZim m erwald

Le posizioni di Lenin

La conferenza di Kienthal

Spaccatura tra riformisti e radicali

L'appello alla pace di Benedetto XV

Storia contemporanea

tare» servì semmai a tenere temporaneamente unito il partito. Qui in­ fatti alla linea riformista, più duttile, di Turati continuava a contrapporsi la corrente massimalista di Giacinto Menotti Serrati (—>•) e Amadeo Bordiga (—»■), i quali, in nome dell’internazionalismo proletario, conti­ nuarono ad opporsi strenuamente alla guerra e all’ingresso dell’Italia nel conflitto. La crisi della Seconda Internazionale e la scelta patriottica dei principali partiti socialisti europei non misero fine alle tensioni all’in­ terno del movimento socialista. Nel settembre 1915 si tenne a Zimmerwald, in Svizzera, una Conferenza (—>-) internazionale a cui par­ teciparono i partiti socialisti dei Paesi neutrali, i delegati di quelli che avevano inizialmente appoggiato la guerra e i rappresentanti di grup­ pi pacifisti di vario orientamento politico. In quell’occasione, che die­ de anche modo ai bolscevichi russi di farsi conoscere a livello euro­ peo, venne approvato un documento in cui si chiedeva una pace «sen­ za indennità né annessioni»; non passò, invece, la mozione di Lenin di trasformare la «guerra imperialista» in «guerra di classe», che ripren­ deva la tesi già espressa da Karl Liebknecht in occasione del voto fa­ vorevole della SPD ai crediti di guerra nel 1914. Alla successiva Con­ ferenza di Kienthal ( ^ - ) , nell’aprile del 1916, le posizioni di Lenin guadagnarono un più largo consenso e dall’enunciazione dei principi si cercò di passare all’individuazione dei metodi di lotta per accelera­ re la fine della guerra. Anche se l’inasprirsi del conflitto e, come ve­ dremo, l’adozione di misure autoritarie da parte dei governi dei Paesi belligeranti allargarono il fronte dei socialisti europei contrari alla guerra, rimase evidente, nelle due conferenze svizzere, la spaccatura tra il generico anti-bellicismo dei gruppi riformisti, favorevoli a una pace «senza indennità né annessioni», e la vocazione apertamente ri­ voluzionaria di quelli radicali, i quali ritenevano che il movimento operaio internazionale dovesse profittare della «guerra imperialista» per mettere fine definitivamente al sistema capitalistico. Sostenute so­ prattutto da Lenin e dai bolscevichi russi, queste tesi furono all’origi­ ne della spaccatura che si verificò nel 1916 all’interno della socialde­ mocrazia tedesca, quando l’ala estremista, guidata da Liebknecht e Luxemburg, diede vita alla Lega di Spartaco attestata su posi­ zioni rivoluzionarie e antimilitariste. Le lacerazioni che segnarono il socialismo europeo all’indomani dello scoppio della guerra mondiale caratterizzarono anche il movi­ mento cattolico e, in generale, le istituzioni religiose. Il papa, Benedet­ to XV (->-), condannò duramente la guerra definendola un «suicidio dell’Europa civile» e invocando, nel novembre 1914, una «pronta pace» fra le nazioni. La vocazione universalista e pacifista della Chiesa di cui si fece interprete il pontefice venne però, di fatto, smentita dall’atteggiamento di una parte consistente dell’episcopato europeo. In molti ca­ si infatti le gerarchie ecclesiastiche, non solo cattoliche, avallarono la guerra in nome del lealismo nazionale e della solidarietà patriottica. In Italia, tuttavia, i cattolici passarono sulla sponda interventista nella speranza del riconoscimento di un’identità nazionale sino ad allora messo in discussione.

La Prima Guerra mondiale e lo scontro tra internazionalismo e nazionalismo

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5.3 La prima guerra totale Dopo l’invasione di Belgio e Lussemburgo nell’agosto 1914, le truppe tedesche guidate dal generale Helmuth J. von Moltke ( ^ - ) dilagarono rapidamente in Francia e si spinsero fino quasi a Parigi. Nelle prime set­ timane di settembre, tuttavia, i francesi riuscirono a fermare l’avanzata tedesca lungo il fiume Marna e contrattaccarono costringendo l’esercito avversario ad arretrare le proprie posizioni. Fallito il progetto della Germania di condurre una guerra-lampo sul fronte occidentale, gli eser­ citi francese e tedesco iniziarono a scavare trincee che correvano lungo una linea compresa tra il mare del Nord e il confine svizzero e lì si atte­ starono. Il conflitto sul fronte occidentale, pertanto, si trasformò da guerra di movimento a guerra di posizione; si trattava di un tipo di guer­ ra completamente nuovo a cui nessun esercito era, in realtà, preparato. Armi che da secoli avevano brillato sui campi di battaglia, come la ca­ valleria, diventarono improvvisamente inutili, impotenti di fronte agli sbarramenti di filo spinato, mitragliatrici e artiglieria che costituivano il nuovo micidiale trinomio contro cui ogni soldato lanciato all’assalto del­ le trincee nemiche doveva confrontarsi. Sul fronte orientale, invece, la guerra era più fluida. L’esercito russo, dopo aver tentato invano di inva­ dere la Germania, fu sconfitto nelle battaglie di Tannenberg e dei laghi Masuri tra l’agosto e il settembre 1914. Nell’estate dell’anno successivo i russi dovettero abbandonare buona parte della Polonia e la Serbia, at­ taccata a novembre dalle truppe di Austria e Bulgaria, venne compietamente occupata. Anche l’intervento della Romania a fianco dell'Intesa, nell’agosto 1916, si risolse in un completo fallimento e il Paese venne ra­ pidamente invaso e conquistato dagli Imperi centrali. Il fronte aperto dalla Gran Bretagna nel mare del Nord, dove con la sua potente flotta cercava di bloccare il traffico di rifornimenti diretto in Germania, si rivelò invece particolarmente gravoso per gli Imperi centrali e soprattutto per la Germania che, a causa del blocco navale, conobbe una vera e propria carestia. I tedeschi risposero al blocco me­ diante l’impiego massiccio di una nuova arma, il sommergibile, con l’intento di isolare la Gran Bretagna affondando le navi dirette nei suoi porti. Tale guerra sottomarina causava però, a volte, la distruzio­ ne di navi appartenenti a Paesi neutrali. Accadde infatti che nel mag­ gio 1915 un sommergibile tedesco affondò il transatlantico inglese Lusitania che ospitava anche passeggeri americani. Le proteste degli Sta­ ti Uniti furono così energiche che i tedeschi, temendo un intervento in guerra degli USA, abbandonarono temporaneamente la guerra sotto­ marina indiscriminata. Anche sul fronte italiano il conflitto assunse il carattere di un’este­ nuante guerra di logoramento in trincea, che venne combattuta lungo il corso del fiume Isonzo e sulle alture del Carso. Nel 1915 le truppe ita­ liane, comandate dal generale Luigi Cadorna (—»•), non ottennero al­ cun successo nelle quattro sanguinose offensive lanciate lungo l’Isonzo contro gli austriaci. Nel maggio-giugno del 1916 furono invece le trup­ pe austriache a sferrare un massiccio attacco contro le linee italiane, una spedizione punitiva, la cosiddetta Strafexpedition, verso l’alleato

Fallimento del progetto tedesco di guerra-lampo

La guerra di posizione sul fronte occidentale

L'avanzata dell'Alleanza sul fronte orientale

Il blocco navale inglese

L'avvento del sommergibile e la guerra sottomarina

La guerra di logoramento sul fronte italiano

L'offensiva austriaca

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La carneficina di Verdun

Un conflitto senza precedenti

Nuove armi e nuovi mezzi

La prima guerra di massa

L'impossibilità di un accordo di compromesso

Storia contemporanea

traditore passato al nemico. Gli italiani resistettero strenuamente sugli altipiani di Asiago bloccando l’offensiva nemica, mentre i ripetuti e sanguinosi attacchi lanciati da Cadorna sull’Isonzo non ottennero al­ cun vantaggio territoriale significativo, eccezion fatta per la conquista di Gorizia nell’agosto 1916. Un analogo stallo caratterizzava il fronte occidentale. Nel tentati­ vo di piegare la resistenza francese, le truppe tedesche, da febbraio a giugno 1916, attaccarono la zona di Verdun, con l’intento di logorare il più possibile l’avversario. La battaglia si esaurì senza riportare al­ cun successo di rilievo, ma provocando una carneficina con oltre 600.000 caduti. A ltrettanto lunga e cruenta fu, nei mesi successivi, la controffensiva anglofrancese lanciata nella regione del fiume Somme, nella Francia settentrionale; anche in questo caso, però, gli eserciti, a costo di pesanti perdite, rimasero sostanzialmente immobilizzati nel­ le posizioni originarie. Senza aver prodotto nessun mutamento significativo rispetto alla si­ tuazione dall’autunno 1914, i primi due anni di guerra mostrarono però chiaramente che si trattava di un conflitto completamente diverso da tutti i precedenti. Dal punto di vista militare, infatti, i progressi scienti­ fici e tecnologici avevano permesso l’utilizzo di armi perfezionate come mitragliatrici, lanciafiamme, bombe a mano e, per la prima volta, gas chimici asfissianti. Furono impiegati per la prima volta anche nuovi mezzi come l’aeroplano e il carro armato. Si intensificò inoltre l’utilizzo degli autocarri per il trasporto di uomini e rifornimenti e le comunica­ zioni, anche via radio, permisero collegamenti rapidi e un maggiore coordinamento tra i diversi punti del fronte. Altrettanto importante fu il carattere di massa, mai sperimentato prima, assunto da questa guerra. La radicalità dell’impiego di risorse umane e produttive necessarie a una logorante guerra di posizione e la vastissima mobilitazione interna, che coinvolse strati molto ampi della popolazione, comprese le donne impiegate in modo massiccio per sosti­ tuire gli uomini partiti per il fronte, furono i tratti del tutto nuovi della guerra del 1914-18, percepita come la prima guerra totale della storia e destinata a incidere in profondità nei sistemi politici e sociali dei Paesi europei. Al tempo stesso le modalità assunte dalla guerra resero im­ possibile raggiungere, nel corso dei durissimi anni del conflitto, un ac­ cordo di compromesso fra le potenze belligeranti. Non solo, infatti, lo impedivano le cause stesse che lo avevano scatenato, come la rigidità delle alleanze e la forte militarizzazione del confronto tra le potenze, ma anche il fatto che nessuna pace di compromesso sembrava possibile di fronte agli immensi sacrifici richiesti alle popolazioni e alle truppe. Mentre, quindi, l’obiettivo della vittoria a qualunque costo divenne ben presto assai più importante dei contenuti della pace da conseguire, la guerra di posizione rese evidente che la vittoria sarebbe toccata a chi fosse riuscito a farsi «logorare» di meno dal nemico. Si verificò pertan­ to in tutti i Paesi, come effetto della razionalizzazione produttiva e del­ le impellenti necessità belliche, un’estensione degli apparati statali e delle loro competenze. Gli stessi governi assunsero molto spesso poteri più ampi di quelli tradizionalmente attribuiti loro, anche in Paesi, come

La Prima Guerra mondiale e lo scontro tra internazionalismo e nazionalismo

Francia e Gran Bretagna, dove le istituzioni rappresentative erano ben consolidate. L’economia, soprattutto in Germania, fu piegata alle esi­ genze militari e subì una rigida pianificazione statale. Proprio il carat­ tere totale della mobilitazione bellica e la necessità di tenuta del «fron­ te interno» diedero per la prima volta un ruolo centrale alla propagan­ da politica; i governi, infatti, dovevano cercare di tenere alto a tutti i costi il morale delle truppe e della popolazione, facendo leva sull’orgo­ glio patriottico e accusando di «disfattismo» tutti coloro che criticava­ no le scelte politiche di guerra. Questi sforzi non riuscirono tuttavia a impedire che ovunque, nel corso del 1917, si diffondesse un profondo malessere sia nelle truppe sia tra i civili, fiaccando pesantemente la tenuta psicologica delle po­ polazioni coinvolte nel conflitto. Si intensificarono infatti le manife­ stazioni di insofferenza nei confronti della guerra, con scioperi, som­ mosse e ammutinamenti nei reparti combattenti. In Italia l’episodio più grave si verificò a Torino nell’agosto 1917, dove la carenza di generi alimentari suscitò una vera e propria sommossa popolare. Negli eser­ citi si ebbero diserzioni di massa e insubordinazioni, represse dai tri­ bunali militari con pene molto severe e fucilazioni. Nel maggio 1917 si ammutinarono i marinai della flotta russa del Baltico, ma una delle si­ tuazioni più a rischio per la tenuta del fronte interno era quella dell’Impero asburgico, dove alle difficoltà militari si sommavano i conflitti et­ nici e le tensioni centrifughe delle varie nazionalità. Il nuovo impera­ tore Carlo I (-»-), temendo che la guerra portasse alla disgregazione dellTmpero, cercò di avviare trattative segrete per una pace separata nei primi mesi del 1917, ma senza successo. Anche il pontefice Bene­ detto XV volle farsi interprete del malessere delle popolazioni e dei soldati, invitando nuovamente i governi a metter fine all’«inutile stra­ ge», ma il suo appello rimase inascoltato. Proprio nel 1917, tuttavia, si verificarono due avvenimenti decisivi per le sorti, ancora incerte, del conflitto. La Rivoluzione bolscevica di ottobre in Russia portò, come vedremo, all’uscita del Paese dalla guer­ ra, sancita dal trattato di Brest-Litovsk del 3 marzo 1918. L’altro avveni­ mento determinante, che riequilibrò il vantaggio ottenuto dai tedeschi sul fronte orientale per il crescente cedimento delle truppe russe, fu, all’inizio di aprile, l’entrata in guerra degli Stati Uniti, a cui seguì quello di diversi Paesi deH’America centrale e meridionale. Il presidente ameri­ cano Woodrow Wilson (—>-), dopo aver difeso gelosamente la neutralità del suo Paese e cercato invano, soprattutto a partire dal dicembre 1916, una mediazione tra gli Imperi Centrali e i Paesi dell’Intesa, decise di in­ tervenire militarmente, superando l’atteggiamento isolazionista allora prevalente negli Stati Uniti. La ripresa della guerra sottomarina indiscriminata da parte dei tedeschi, la necessità di tutelare i capitali finan­ ziari prestati alle potenze dell’Intesa e l’aspirazione ideale a un nuovo ordine internazionale improntato ai valori della democrazia e dell’auto­ determinazione dei popoli furono le principali ragioni che indussero Wilson a partecipare a una guerra presentata all’opinione pubblica ame­ ricana come indispensabile per salvare la democrazia che, secondo le parole di Wilson, era quanto di più caro essi avessero.

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Ruolo della propaganda

Manifestazioni di insofferenza della popolazione

Insubordinazioni e ammutinamenti

L'appello del Papa

La Rivoluzione bolscevica e l'uscita della Russia dalla guerra

L'intervento in guerra degli Stati Uniti a fianco dell'Intesa

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La disfatta italiana a Caporetto

La resistenza lungo il Piave

La controffensiva dell'Intesa sul fronte occidentale La ritirata tedesca e la sconfitta austriaca

La firma dell'armistizio

Un bilancio tragico

Storia contemporanea

Dal punto di vista militare nel corso del 1917 gli equilibri preesisten­ ti non furono alterati in modo significativo, se si eccettua la tragica di­ sfatta delle truppe italiane a Caporetto. La smobilitazione della Russia permise infatti agli eserciti di Germania e Austria di destinare ingenti rinforzi contro le linee italiane, che il 24 ottobre furono attaccate mas­ sicciamente sull’alto Isonzo e sfondate nei pressi di Caporetto. Incapace di rispondere alle nuove tattiche di infiltrazione messe a punto dagli au­ stro-tedeschi, l’esercito italiano, praticamente dimezzato, si ritirò in mo­ do caotico lungo la linea difensiva del Piave. Le truppe italiane, al cui comando fu posto il generale Armando Diaz (—*■) in sostituzione di Ca­ dorna, riuscirono tuttavia a reggere l’urto e a opporre una strenua resi­ stenza lungo il corso del Piave e sul Monte Grappa, impedendo all’eser­ cito nemico di avanzare fino alla Pianura Padana. Anche sul fronte occidentale i tedeschi cercarono di lanciare una potente offensiva nel tentativo di sfondare le linee avversarie prima dell’arrivo del contingente americano. Spintisi nuovamente fino alla Marna e in prossimità di Parigi tra il marzo e il giugno del 1918, i tede­ schi furono però costretti a indietreggiare dalla massiccia controffen­ siva lanciata a metà luglio dalle forze dell’Intesa, riunite sotto il co­ mando unificato del generale francese Ferdinand Foch (—*-). Ad ago­ sto cominciarono ad arrivare in Europa i rinforzi americani e da quel momento la lenta ritirata dell’esercito tedesco fu costante. Mentre le truppe italiane, con la battaglia di Vittorio Veneto, tra ottobre e no­ vembre riuscirono a sfondare le difese austriache, avanzando fino a Trento e Trieste e costringendo l’Austria-Ungheria all’armistizio, che fu firmato il 4 novembre 1918. In Germania, come vedremo, erano scoppiate nel frattempo numerose rivolte, che da Berlino si stavano propagando fino in Baviera e che indussero Guglielmo II, il 10 novem­ bre, a lasciare il Paese. Anche l’Impero ottomano, dopo aver subito ri­ petute sconfitte ad opera degli inglesi e dei loro alleati, si era arreso a fine ottobre. La guerra si concluse ufficialmente ITI novembre 1918, quando a Rethondes, in Francia, il governo provvisorio tedesco firmò il duro armistizio imposto dai vincitori; la Germania doveva conse­ gnare l’armamento pesante e la flotta, ritirare le proprie truppe oltre il Reno, annullare i trattati con Russia e Romania e restituire tutti i pri­ gionieri di guerra. Con un bilancio fra gli 8 e i 9 milioni di morti e un numero altissi­ mo di mutilati e invalidi, la Prima Guerra mondiale era stata una im­ mane carneficina. Ai caduti sui campi di battaglia si sommavano infat­ ti quelli prodotti dai regolamenti di conti fra i gruppi etnici, le distru­ zioni dei centri abitati, i danni causati dalla guerra sottomarina, dalla penuria di cibo e dalle malattie, quali la micidiale epidemia influenza­ le detta «spagnola» che colpì l’Europa e l’America proprio alla fine del conflitto. Le drammatiche esperienze vissute dai soldati nelle trincee, il logoramento fisico e psicologico dovuto all’estenuante guerra di po­ sizione, la ferrea disciplina a cui erano sottoposte le truppe e le puni­ zioni, spesso brutali, inflitte anche per trasgressioni minori costituiro­ no un trauma che avrebbe reso per molti assai difficile il ritorno alla vita di tutti i giorni.

La Prima Guerra mondiale e io scontro tra internazionalismo e nazionalismo

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5.4 Russia: le due rivoluzioni Quando, il 30 luglio 1914, lo zar Nicola II firmò l’ordine di mobilita­ zione dell’esercito, la Russia fu attraversata da un sentimento di orgoglio patriottico per la difesa dell’Impero contro il nemico tedesco. La mag­ gior parte delle forze politiche presenti nella Duma votò infatti i crediti di guerra, richiamando la necessità di dimenticare i conflitti interni in nome della causa nazionale. Fuori dall’ondata di mobilitazione patriotti­ ca rimasero solo le diverse formazioni socialiste, che tuttavia non costitu­ ivano un fronte compatto. Tra le file di un’opposizione fedele ai principi internazionalisti si distinguevano, infatti, figure come quella di Plechanov, fondatore del Partito socialdemocratico, definito «socialpatriota» in quanto sosteneva l’opportunità di collaborare con i progressisti accanto­ nando temporaneamente la lotta contro il regime zarista, oppure il so­ cialrivoluzionario Aleksandr Kerenskij (->-), fautore di un impegno nel­ la lotta contro il nemico esterno che però non si accompagnasse a com­ promessi col governo zarista. Benché dotato di una solida maggioranza al momento della dichia­ razione di guerra, il governo si trovò ben presto a dover fare i conti con la sostanziale inadeguatezza del Paese a reggere un conflitto che, con­ trariamente alle previsioni, si stava rivelando lungo e logorante. Con­ vinta di dover sostenere una campagna militare di soli tre mesi e dun­ que impreparata ad affrontare una guerra di posizione, la Russia fu travolta da un’inflazione impetuosa, dalla mancanza di viveri e com­ bustibile, dal deterioramento del sistema dei trasporti. Di fronte all’emergenza, aggravata dai rovesci subiti al fronte a partire dal mag­ gio 1915, il governo non fu capace di rispondere alla crisi. Le sconfitte militari e la mancanza di una salda guida politica acuirono quindi, nel corso del 1916, le preoccupazioni della maggioranza della Duma, ti­ morosa che in un simile contesto potessero avere buon gioco le oppo­ sizioni rivoluzionarie. I primi segnali della rottura definitiva si ebbero all’inizio del 1917, quando lo zar, di fronte agli scioperi e ai disordini che dilagavano nel Paese, decise di far intervenire l’esercito. Le trup­ pe, tuttavia, si rifiutarono di impiegare le armi contro i manifestanti e si ammutinarono. A Pietrogrado, il 27 febbraio, i soldati si unirono agli operai in sciopero contro il regime e fu a questo punto che apparve chiaro come le manifestazioni contro il governo si stessero trasforman­ do in una rivoluzione vera e propria. Alcuni deputati della Duma, infatti, diedero vita a un comitato dal quale sarebbe scaturito il governo provvisorio che, guidato dal principe Georgi] L’vov (—>■), comprendeva esponenti dei vari gruppi liberali (ottobristi, cadetti, progressisti) e anche il socialrivoluzionario Kerenskij. Nel frattempo gli insorti, che avevano assunto il controllo della capitale, diedero vita a dei soviet egemonizzati politicamente da menscevichi e socialisti rivoluzionari. Lo zar Nicola decise quindi di abdicare, lascian­ do il trono al fratello che tuttavia vi rinunciò: il 3 marzo 1917 aveva così fine il potere della dinastia dei Romanov e con esso la direzione impe­ riale della Russia. Si profilava, tuttavia, nel governo del Paese un duali­ smo di potere: quello del governo provvisorio, favorevole a instaurare

L'entrata in guerra e la mobilitazione patriottica

L'inadeguatezza a sostenere una guerra di posizione

Sconfitte militari e crisi interna

Manifestazioni antigovernative e ammutinamenti

La rivoluzione di febbraio

L'abdicazione dello zar eia fine della dinastia dei Romanov

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Affermazione dell'autorità dei soviet

Dualismo di potere: governo e soviet

Il rientro in Russia di Lenin

Le Tesi di aprile

La perdita di legittimazione del governo

Il tentato colpo di stato controrivoluzionario

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una democrazia parlamentare e a proseguire la guerra, e quello rappre­ sentato dai soviet, che divennero ben presto la sola autorità riconosciuta dalle masse. Nei fatti, nonostante il fragile accordo a cui giunsero i due organismi, il governo provvisorio, che deteneva formalmente tutto il po­ tere, si trovò spesso scavalcato dalle decisioni del Comitato esecutivo dei soviet, soprattutto per quel che riguardava l’organizzazione dell’eser­ cito e la conduzione della guerra. Tra aprile e maggio si verificò la prima grave crisi che mise in eviden­ za l’ambiguità di una gestione duale del potere. Mentre infatti i ministri degli Esteri e della Guerra erano decisi a proseguire la guerra, in osser­ vanza degli impegni assunti con gli alleati, la maggioranza dei soviet premeva affinché la continuazione dell’impegno bellico russo fosse ac­ compagnata dall’appello ai «proletari della coalizione austro-tedesca» per l’insurrezione contro i rispettivi governi. Si trattava di una linea di «difensivismo rivoluzionario» che cercava di coniugare le istanze della difesa nazionale con quelle della mobilitazione classista contro la guerra imperialista. La contrapposizione fra le posizioni del governo e quelle dei soviet portò a un rimpasto ministeriale che vide le dimissioni dei due ministri moderati e il passaggio del dicastero della Guerra a Kerenskij. La maggior parte dei quadri del partito bolscevico, che nel 1912 ave­ va consumato il divorzio dalla componente menscevica del partito so­ cialdemocratico, si trovava in carcere o in esilio. Il governo tedesco, consapevole che la presenza dei bolscevichi avrebbe potuto far prevale­ re all’interno dei soviet la linea favorevole alla pace immediata, favorì il rientro in Russia del loro leader Lenin. Diversamente dalle tesi mensce­ viche, che ritenevano necessario il passaggio a una «fase borghese» pri­ ma di arrivare all’instaurazione di un regime socialista in Russia, Lenin pensava che i soviet dovessero chiudere ogni rapporto col governo prov­ visorio, diventare gli unici depositari del potere politico, far uscire la Russia dalla guerra e avviare, sulle ceneri dell’autocrazia zarista, una ri­ voluzione per instaurare la dittatura del proletariato. Giunto a Pietrogrado il 3 aprile, Lenin presentò queste idee nelle cosiddette Tesi di aprile (—►) che, nonostante lo scetticismo di alcuni dirigenti del partito in quanto rompevano drasticamente con la dottrina marxista ortodossa, ottennero un vasto consenso tra gli operai e i soldati. Nel corso dell’estate, dopo il fallim ento dell’offensiva contro l’esercito asburgico in Galizia, i soldati abbracciarono in massa la causa dell’uscita immediata dal conflitto. Mentre si moltiplicavano in tutto il Paese le manifestazioni contro la guerra, il deficit di legit­ timazione del governo provvisorio causò le dimissioni di L’vov, so­ stituito da Kerenskij che mise subito in atto una dura repressione nei confronti dei bolscevichi, ritenuti responsabili del disfattismo; que­ sto, tuttavia, non riuscì a restituire autorevolezza e compattezza al governo. Con il Paese in preda all’anarchia e il peso delle continue sconfitte m ilitari rischiavano di essere compromesse le sorti stesse della rivoluzione di febbraio. Le forze conservatrici avevano infatti individuato nel generale Lavr Kornilov (—►) l’uomo forte in grado di restaurare il regime zarista e questi, a settembre, tentò un colpo di stato controrivoluzionario che fu sventato solo grazie alla massic-

La Prima Guerra mondiale e lo scontro tra internazionalismo e nazionalismo

eia mobilitazione dei bolscevichi. Proprio il fallimento dell’opera­ zione di Kornilov contribuì a consolidare, tra l’agosto e l’ottobre del 1917, l’immagine e la forza dei bolscevichi nel Paese e nei soviet. La direzione del Comitato esecutivo dei soviet passò infatti nelle mani di Lev D. Trockij ( ^ - ) , già menscevico e passato nel luglio del 1917 tra le file bolsceviche. A questo punto, mentre anche nelle campagne stava dilagando una vera e propria rivoluzione agraria, Lenin, rientrato dalla Finlandia dove si era rifugiato per sfuggire alla repressione di Kerenskij, giudicò la si­ tuazione matura per la presa del potere da parte dei bolscevichi e stabilì che l’azione avrebbe dovuto precedere la riunione del Congresso pan­ russo dei soviet prevista per il 25 ottobre. Il 24, quindi, il Comitato rivo­ luzionario militare, costituito dai bolscevichi per la difesa della rivolu­ zione, prese il controllo di tutti i principali luoghi strategici della capita­ le. Il colpo di mano, che coinvolse qualche migliaio di persone e quasi non incontrò resistenza, mise fine alla fase del dualismo di potere; la mattina del 25 ottobre, infatti, Kerenskij fuggì e i suoi ministri furono arrestati. La sera stessa il Congresso dei Soviet, abbandonato per prote­ sta da menscevichi e socialisti rivoluzionari, ratificò, in nome dei soviet, la presa del potere da parte dei bolscevichi e proclamò la Repubblica so­ vietica. Furono inoltre approvati due decreti sulla pace e sulla terra. Il primo lanciava un appello generale per la fine della guerra e la ratifica di una pace senza annessioni e indennità sulla base del principio di au­ todeterminazione dei popoli. Il secondo avviava un programma di so­ cializzazione della terra che, di fatto, si limitava a dare una veste legale alle occupazioni che già da mesi i contadini stavano attuando nelle cam­ pagne. Un terzo decreto istituiva un organismo, il Consiglio dei com­ missari del popolo, che doveva assumere temporaneamente i poteri in vista della convocazione di un’Assemblea Costituente. Al vertice del Consiglio fu posto Lenin, mentre il «ministero» per le nazionalità venne affidato a Josif Stalin (—>-). Le elezioni per l’A ssemblea Costituente, che si svolsero il 12 novem­ bre, mostrarono che i bolscevichi, pur essendo maggioritari in luoghi strategici come Pietrogrado, Mosca, tra i soldati delle guarnigioni citta­ dine e i marinai della flotta del Baltico, non avevano la maggioranza nel Paese. A fronte, infatti, dei 175 seggi conquistati dai bolscevichi, col 24% dei voti, i socialisti rivoluzionari ottennero ben 430 seggi, mentre modesto fu il risultato ottenuto da menscevichi e cadetti. Dinanzi all’evi­ dente sconfitta, il Consiglio dei commissari del popolo cercò di procra­ stinare la convocazione dell’Assemblea, che solo il 5 gennaio 1918 si po­ tè riunire sia pure per un’unica seduta. Constatata l’impossibilità di far prevalere le proprie posizioni, Lenin la fece sciogliere con la forza il giorno successivo, argomentando che la Costituente rappresentava il momento più alto delle democrazie liberal-borghesi ma che in Russia essa era già stata superata dalla Repubblica dei soviet. Fu a questo punto che i bolscevichi si dovettero misurare col fatto che la loro percezione della rivoluzione era diversa da quella della mag­ gioranza del popolo russo. Per quest’ultimo, infatti, la fine della guerra e la collettivizzazione delle terre costituivano i provvedimenti fonda-

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Consolidamento della forza dei bolscevichi

La presa di potere dei bolscevichi

Proclamazione della Repubblica sovietica

Fine della guerra e collettivizzazione delle terre

L'elezione dell'Assemblea Costituente e la sconfitta dei bolscevichi

Lo scioglimento forzato dell'Assemblea

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La resistenza popolare e l'imposizione violenta della rivoluzione

Le teorie leniniste sull'autogoverno delle masse

Le dure condizioni di pace imposte alla Germania

La guerra civile fra bolscevichi e forze controrivoluzionarie

Storia contemporanea

mentali che sostanziavano la rivoluzione, mentre per Lenin e i bolscevi­ chi questi atti rappresentavano solo l’inizio della rivoluzione socialista. Di fronte alla resistenza popolare non c’era quindi, secondo il partito, altra strada che imporre la rivoluzione dall’alto. Lenin, deciso a sbaraz­ zarsi con rapidità e feroce determinazione di ogni potenziale nemico della rivoluzione, procedette quindi alla centralizzazione di tutti i pote­ ri, alla repressione degli oppositori e allo smantellamento del sistema giudiziario. Contro ogni principio democratico, fu imposta a tutta la po­ polazione una vera e propria militarizzazione coatta e, in difesa della «patria socialista», venne istituita una polizia segreta, la Commissione straordinaria panrussa per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio (Qeka — Leni n restava convinto che dopo questa prima fase, necessa­ ria per salvaguardare gli esiti della rivoluzione, la nascita di una società socialista avrebbe ottenuto un vasto consenso popolare, come affermò nel saggio Stato e rivoluzione scritto nel settembre 1917. Per Lenin, in­ fatti, seguendo in questo la linea marxiana, lo Stato altro non era che lo strumento attraverso cui si esplicava il dominio di una classe sulle altre; una volta venuto meno questo dominio, anche lo Stato non avrebbe più avuto ragione di esistere. Quando, pertanto, si fosse instaurato definiti­ vamente il socialismo, la Russia non avrebbe più avuto bisogno degli istituti tipici della democrazia borghese, perché la gestione del potere sarebbe stata affidata all’autogoverno delle masse secondo le forme del­ la democrazia diretta sperimentate all’interno dei soviet. Le aspettative dei bolscevichi si scontrarono però con una ben diver­ sa realtà. L’appello alla rivoluzione rivolto al proletariato austriaco e te­ desco rimase in larga parte inascoltato e Lenin, di fronte all’impossibili­ tà di trasformare la «guerra imperialista» in una vasta ondata rivoluzio­ naria, fu costretto a ripiegare su una pace separata con la Germania. Siglata nel marzo 1918, la pace di Brest-Litovsk impose ai russi condi­ zioni durissime: la Russia perdeva la Polonia, la Finlandia, i Paesi baltici e una parte della Bielorussia, cedeva alla Turchia una striscia compresa tra il Mar Nero e il Mar Caspio e doveva riconoscere l’indipendenza dell’Ucraina. Con la perdita di questi territori la Russia vedeva compro­ messa quasi totalmente la produzione di carbone, ridotta di oltre il 50% quella metallurgica e perdeva circa la metà dei bacini agrari. Da parte loro, le potenze dell’Intesa considerarono la scelta russa un vero e pro­ prio tradimento che avrebbe potuto cambiare le sorti del conflitto a fa­ vore degli Imperi centrali. Preoccupate quindi sia per l’esito della guer­ ra, sia per gli effetti che la Rivoluzione bolscevica avrebbe potuto susci­ tare tra i partiti socialisti europei, esse decisero di sostenere le forze controrivoluzionarie che si stavano organizzando in Russia. Usciti dalla «guerra imperialista», i bolscevichi si trovarono imme­ diatamente travolti da una guerra civile che nel 1918-1920 contrappose l’Armata Rossa dei bolscevichi, guidata da Trockij, alle forze controri­ voluzionarie. Accompagnata da una terribile carestia e dal collasso dell’industria, la guerra civile alienò molti consensi ai bolscevichi, so­ prattutto tra i contadini che subirono requisizioni forzate di prodotti agricoli necessari per sfamare gli abitanti delle città. Spinti dalla neces­ sità di far fronte a una grave emergenza, ma anche persuasi di poter bru-

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dare le tappe della socializzazione dell’economia, i dirigenti bolscevichi imposero un sistema provvisorio, il cosiddetto «comuniSmo di guerra», l'imposizione del che prevedeva la nazionalizzazione delle terre e di tutte le industrie, «comuniSmo di guerra» l’abolizione del libero commercio e della moneta, il razionamento di tut­ ti i generi alimentari e di consumo. Dal punto di vista economico il «co­ muniSmo di guerra» si rivelò un vero fallimento; nel 1921 la produzione agricola era calata del 40% rispetto al 1913, mentre la carestia e la guer­ ra civile avevano prodotto un massiccio fenomeno di ruralizzazione del­ la società a scapito dell’industria. Condotta con estrema ferocia da entrambe le parti, la guerra civile si Vittoria dei bolscevichi concluse all’inizio del 1920 con la definitiva vittoria dei bolscevichi. Si calcola, infatti, che tra scontri a fuoco, epidemie e carestie vi furono cir­ ca 7 milioni di morti, che andavano a sommarsi ai 2 milioni di caduti du­ rante il primo conflitto mondiale. La guerra civile dimostrò inoltre che era scomparsa definitivamente la prospettiva di realizzare in Russia un comuniSmo fondato sull’autentico consenso delle masse. Il partito di Lenin, che nel 1918 aveva assunto il nome di Partito comunista, comin­ La perdita di consensi ciò infatti a perdere consensi anche nei settori che tradizionalmente lo del Partito comunista avevano sostenuto, come gli operai e i soldati. Emblematica in questo senso fu la ribellione, nel marzo 1921, dei marinai di Kronstadt, la base navale di Pietrogrado da sempre baluardo del bolscevismo. Essi chiede­ vano libere elezioni dei rappresentanti dei soviet, la fine della dittatura del Partito comunista e la cessazione delle requisizioni nelle campagne, ma la loro iniziativa fu duramente repressa dal governo. Il X Congresso del Partito comunista, svoltosi nello stesso mese della rivolta di Kronstadt, da un lato confermò la politica autoritaria del par­ tito, ribadendo il divieto di qualsiasi frazionismo, dall’altro decise di ab­ bandonare il «comuniSmo di guerra», varando la cosiddetta «nuova po­ La «nuova politica litica economica» (->-). La NEP cercò di avviare una fase di transizio­ economica» e la ripresa ne, rilanciando l’iniziativa contadina e reintroducendo l’economia di mercato nelle campagne e nella piccola industria. Le requisizioni forza­ te di grano del «comuniSmo di guerra» furono sostituite dal pagamento di una tassa in natura fissata in anticipo, mentre fu mantenuta la politica degli «ammassi» (—>). La grande industria e le banche rimasero rigida­ mente sotto il controllo dello Stato, ma furono reintrodotti i metodi tra­ dizionali di calcolo e di finanziamento. Nel complesso i risultati della NEP furono positivi: l’economia recuperò i livelli del 1913, la popolazio­ ne riprese a crescere e, sul piano sociale, emerse un nuovo ceto di picco­ li commercianti e artigiani, mentre nelle campagne si tornò a formare uno strato di contadini benestanti, i kulaki. Negli stessi anni della guerra civile, il Partito comunista russo con­ dusse una dura lotta contro i partiti socialisti europei, ritenuti responsa­ bili di aver fatto fallire il progetto di rivoluzione generale contro la «guerra imperialista». Nel 1919 partì da Lenin l’iniziativa di costituire La formazione una nuova Internazionale, l’Internazionale comunista o Comintern dell'Internazionale (->-). Nel suo II Congresso, che si tenne nel 1920, furono fissati la strut­ comunista tura, i compiti e gli obiettivi della Terza Internazionale. A tutti i sociali­ sti che vi volevano aderire fu imposto il cambio del nome del partito, da socialista a comunista, l’espulsione delle correnti riformiste e l’assunzio-

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Nascita dei partiti comunisti in Europa

Storia contemporanea

ne del modello bolscevico di partito (-*-). Tra il 1920 e il 1921 l’adesione allTnternazionale provocò in tutti i Paesi europei la divisione delle forze socialiste e la nascita di partiti comunisti per nulla disposti a confron­ tarsi coi rispettivi governi, ma interessati solo a perseguire l’obiettivo raggiunto dai bolscevichi russi. 5.5 Versailles e lo scontro tra vecchio e nuovo mondo

La Conferenza di pace di Parigi

Assenza dei rappresentanti dei Paesi sconfitti

I «quattordici punti» del presidente Wilson

Il principio di autodeterminazione dei popoli

L'istituzione di un organismo internazionale di garanzia

Nel gennaio 1919 i rappresentanti dei Paesi vincitori si riunirono a Parigi per disegnare nuovamente, a poco più di cento anni dal Congres­ so di Vienna, la struttura geopolitica dell’Europa. La costruzione della pace seguì canali in parte tradizionali, in parte decisamente nuovi. Alla Conferenza di Parigi parteciparono per la prima volta i massimi respon­ sabili politici delle potenze: il presidente del Consiglio Georges Clemenceau per la Francia, il primo ministro David Lloyd George per la Gran Bretagna, il presidente Wilson per gli Stati Uniti e per l’Italia il capo del governo Vittorio Emanuele Orlando (-*-), accompagnato dal ministro degli Esteri Sonnino. L’assenza dei rappresentanti dei Paesi sconfitti si collegò all’attribuzione alla Germania dell’intera responsabilità della guerra. Tale principio, al di là della complessità storica delle vicende del 1914, venne ufficialmente stabilito da un articolo del trattato di Versail­ les e avrebbe avuto forti ricadute anche in seguito. Il perseguimento di obiettivi particolaristici da parte delle potenze europee, che pensavano di poter gestire il fallimento degli imperi au­ striaco, tedesco, turco e russo mediante la tradizionale politica delle spartizioni territoriali e delle annessioni, si scontrò con l’intenzione wilsoniana di imporre un nuovo ordine internazionale, formulato dal presidente americano fin dall’entrata in guerra degli USA e reso noto, attraverso un organico programma in «quattordici punti», nel gennaio 1918. I punti salienti di questo programma erano l’abolizione della di­ plomazia segreta, la libertà di navigazione sui mari e il libero commer­ cio, la riduzione degli armamenti e l’applicazione del principio di auto­ determinazione dei popoli nel definire il nuovo assetto geopolitico dell’Europa. Su tale base si sarebbe dovuta garantire la piena autono­ mia di Serbia e Romania, i tedeschi avrebbero dovuto abbandonare i territori russi occupati e restituire l’Alsazia e la Lorena alla Francia; si doveva assicurare «uno sviluppo autonomo» alle nazionalità sottomes­ se all’Impero turco e a quello austro-ungarico e, nel caso dell’Italia, i confini orientali si sarebbero dovuti fissare tenendo conto delle diverse appartenenze etniche. La proposta di istituire un organismo interna­ zionale per garantire la convivenza pacifica fra i popoli e dirimere le controversie fra gli Stati completava il progetto wilsoniano; tutti questi provvedimenti, nell’auspicio del presidente americano, avrebbero do­ vuto rendere il mondo finalmente safe for democracy, ovvero sicuro per il consolidamento delle istituzioni democratiche. Anche la sfida dell’internazionalismo socialista, incarnato nel nuovo regime sovietico, sem­ brava per molti versi rafforzare l’esigenza wilsoniana di imboccare un nuovo corso nella politica internazionale. Lo stesso Lenin, infatti, ave-

La Prima Guerra mondiale e lo scontro tra internazionalismo e nazionalismo

va lanciato simbolicamente una sfida in tale direzione, facendo pubbli­ care tutti i documenti relativi ai trattati segreti stipulati dal governo za­ rista nei decenni precedenti. Wilson riuscì a introdurre nel corso della Conferenza di pace l’istitu­ zione della Società delle Nazioni (—►), un organismo internazionale che riuniva diversi Stati sovrani e che sarebbe dovuto intervenire nelle even­ tuali crisi future, giudicando le controversie, cercando di ricomporle in modo pacifico e ricorrendo, se necessario, a sanzioni politiche ed eco­ nomiche. Tuttavia, la difficoltà di realizzare il nuovo ordine europeo se­ condo gli orientamenti del presidente americano apparve evidente nel momento in cui si entrò nei dettagli dell’elaborazione dei trattati di pa­ ce. L’eredità delle immense lacerazioni nazionali e sociali prodotte dalla guerra e soprattutto la questione della «colpa» tedesca e della sua puni­ zione, pretesa in particolare dalla Francia, impedirono di impostare gli accordi su forme radicalmente diverse dal passato. Il trattato di Versail­ les, firmato il 28 giugno 1919 e riguardante la Germania, fu un vero e proprio Diktat punitivo e vendicativo, anche in funzione del fatto che il Paese, pur sconfitto, era ancora economicamente forte. Al governo te­ desco furono quindi imposti la restituzione alla Francia di Alsazia e Lo­ rena, la smilitarizzazione della Renania e il trasferimento del bacino carbonifero della Saar, per 15 anni, sotto il controllo della Società delle Nazioni. La Germania dovette inoltre cedere alla Polonia la Posnania, una striscia della Pomerania e alcuni territori della Prussia orientale che andavano a costituire il cosiddetto «corridoio polacco» per consentire alla Polonia uno sbocco al mare; la città di Danzica, abitata in maggio­ ranza da tedeschi, fu dichiarata «città libera». Privata di tutte le colonie, che furono divise tra Francia, Gran Bretagna, Belgio e Giappone, co­ stretta a ridimensionare in modo massiccio le forze armate, a cedere la propria flotta e a rinunciare alla coscrizione militare obbligatoria, la Germania fu poi vincolata al pagamento delle riparazioni di guerra, che dovevano servire ad addossare al Paese aggressore e sconfitto i costi su­ biti dai vincitori, calcolati con un criterio analitico e minuzioso. Ben di­ verso dalla vecchia e per lo più simbolica «indennità di guerra», questo risarcimento non venne tuttavia stabilito durante il congresso di pace per il mancato accordo fra i vincitori; solo in seguito la cifra delle ripa­ razioni venne fissata a 132 miliardi di marchi-oro, una somma colossale da pagarsi in trent’anni. Gli accordi di pace imposti agli altri Paesi vinti produssero un radi­ cale mutamento degli equilibri geopolitici europei. La disgregazione dellTmpero asburgico portò alla nascita delle repubbliche di Austria, Cecoslovacchia e Ungheria (dal 1920 monarchia) e del regno di Jugosla­ via. L’Italia ottenne il Trentino e l’Alto Adige fino al Brennero, Trieste e l’Istria, ma non la Dalmazia che fu rivendicata dalla Jugoslavia. Anche in questo caso la sistemazione territoriale dell’Europa centrale e balca­ nica non venne fondata sul principio di autodeterminazione dei popoli, creando una situazione che avrebbe alimentato in seguito nuove tensio­ ni e crisi. L’Ungheria perse infatti tutti i territori slavi ma pure alcune terre abitate da magiari; il nuovo Stato cecoslovacco, oltre a boemi e slo­ vacchi, includeva una minoranza di oltre 3 milioni di tedeschi nella re-

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La Società delle Nazioni

Il trattato di Versailles e le dure condizioni imposte alla Germania

Le colossali riparazioni di guerra

Il nuovo quadro geopolitico dell'Europa centrale e balcanica

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Nascita delle repubbliche baltiche

I mandati inglesi e francesi nell'ex-lmpero ottomano

La mancata realizzazione del «nuovo ordine» mondiale

Storia contemporanea

gione dei Sudeti. Nel caso della Jugoslavia, poi, il patto nazionale tra gli slavi del sud, che era stato un fattore di grave debolezza per l’Impero asburgico, non si rivelò, nel corso del tempo, un altrettanto solido ele­ mento di stabilità per lo Stato jugoslavo, dove permanevano le tradizio­ nali rivalità tra serbi, croati, sloveni e montenegrini e continuavano a es­ sere presenti numerose minoranze. Mentre la Romania s’ingrandì con l’acquisto della Transilvania e la Bulgaria fu notevolmente ridimensio­ nata, l’annullamento delle clausole del trattato di Brest-Litovsk, stipula­ to fra Germania e Russia alFinizio del 1918, portò alla nascita delle quattro repubbliche baltiche di Finlandia, Lituania, Estonia e Lettonia. Le repubbliche baltiche, la Polonia e la Romania dovevano costituire, nell’intenzione delle potenze vincitrici, che non avevano riconosciuto la Repubblica socialista russa, un «cordone sanitario» in funzione antibol­ scevica; tanto più che l’intervento occidentale per sconfiggere il nuovo regime sorto in Russia si stava rivelando fallimentare, mentre la guerra civile mostrava invece la capacità di tenuta dei bolscevichi. Francia e Gran Bretagna ottennero un ultimo successo in linea col vecchio imperialismo europeo ripartendosi una parte dei territori del dissolto Impero ottomano: la prima assunse il mandato (—►) in Siria e Libano, la seconda in Palestina, Transgiordania e Iraq. La formula del «mandato» fu esplicitamente voluta da Wilson che, in nome dell’avver­ sione americana al colonialismo europeo, chiese che i Paesi mandatari della Società delle Nazioni operassero in vista della futura indipendenza di quei popoli. Questo parziale successo delle vecchie potenze europee non fu comunque in grado di compensare il ridimensionamento del ruo­ lo internazionale dell’Europa, così come, di fatto, la guerra mondiale aveva sancito. La Francia, pur restando la maggior potenza militare del continente, era uscita dal conflitto molto provata e non riuscì a mettere in atto una solida politica di sicurezza. I timori nei confronti del nemico tedesco, che continuavano a permanere nonostante la vittoria, la porta­ rono infatti a costruire una rete diplomatica fondata su una serie di alle­ anze coi Paesi dell’est europeo (Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Romania) che, col tempo, si sarebbe rivelata nel complesso assai fragile. Dal canto suo, la Gran Bretagna perse definitivamente il proprio prima­ to produttivo e finanziario mondiale a vantaggio degli Stati Uniti. An­ cor più indebolita dall’esito della Conferenza di pace fu l’Italia. Orlando e Sonnino, infatti, non solo avevano svolto fin dall’inizio un ruolo assai marginale rispetto agli altri «grandi», ma arrivarono ad abbandonare i lavori nell’aprile 1919 in segno di protesta per la mancata assegnazione della Dalmazia e di Fiume; la prima veniva rivendicata in virtù del Patto di Londra del 1915, la seconda sulla base del principio di autodetermi­ nazione dei popoli in quanto abitata in prevalenza da italiani. A ll’ordine stabilito a Parigi mancarono, in sostanza, una guida e una linea coerenti. A fronte della volontà delle potenze europee vinci­ trici di piegare le risoluzioni a vantaggio dei propri interessi particolari, non ci fu un leader capace di imporsi sugli altri e nemmeno il presiden­ te Wilson, il solo che avrebbe potuto svolgere questo ruolo, riuscì a por­ tare fino in fondo il proprio progetto di «nuovo ordine» mondiale. Il compromesso fra le tradizionali aspirazioni di potenza di Gran Breta-

La Prima Guerra mondiale e lo scontro tra internazionalismo e nazionalismo

gna e Francia e il progetto wilsoniano di un mondo safefor democracy fu reso ancora più fragile dalla mancata adesione degli Stati Uniti alla Società delle Nazioni, visto che il Senato americano, nel marzo 1920, ne bocciò l’ingresso. La rinata volontà isolazionista degli USA privò quin­ di la Società delle Nazioni, da cui erano esclusi anche i Paesi sconfitti, della forza e della legittimazione che le sarebbero potute venire dalla presenza di quella che era ormai la più grande potenza mondiale. Priva dunque di un’organica struttura‘decisionale, dotata di scarsi strumenti per intervenire efficacemente nelle controversie internazionali, accet­ tata senza troppa convinzione dalle stesse potenze europee, la Società delle Nazioni nacque in un contesto di incertezza e debolezza che, co­ me vedremo, ne ridusse drasticamente la capacità di intervento nei de­ cenni successivi.

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Il rinato isolazionismo americano e il deficit di legittimazione della Società delle Nazioni

6.1 La dissoluzione dell'Impero ottomano tra questione armena e modernizzazione turca 6.2 La Germania da Weimar a Hitler 6.3 L'Italia: dal «biennio rosso» all'avvento del fascismo 6.4 II fascismo al potere 6.5 II nazismo e il progetto politico hitleriano 6.6 Lo stalinismo 6.7 Gli Stati Uniti dalla Grande Guerra al New Deal 6.8 La grande crisi del 1929 in Europa 6.9 Francia e Gran Bretagna: un ventennio dominato dai conservatori 6.10 La risposta dei Fronti Popolari alle minacce del nazifascismo: il caso della Francia 6.11 La Spagna dalla Seconda Repubblica alla Guerra Civile

La questione armena

Massacri e persecuzioni

Capitolo 6

Gli anni tra le due guerre: dalla vittoria delle democrazie alla deriva autoritaria

6.1 La dissoluzione dell'Impero ottomano tra questione armena e modernizzazione turca La cosiddetta «questione armena» emerse nel corso degli ultimi tre decenni del XIX secolo come parte integrante della più generale «que­ stione d’Oriente» e dello stato di perenne conflitto tra il governo ottoma­ no e le minoranze etniche e religiose presenti all’interno dell’Impero. Già al Congresso di Berlino del 1878, il problema degli armeni e dei macedoni si era posto all’attenzione della diplomazia europea che, ritenendo la Tur­ chia responsabile del duro trattamento inflitto a queste minoranze, solle­ citò il governo della Sublime Porta ad attuare un piano di riforme specie nelle province orientali, dove risiedeva la maggior parte dei circa 2 milio­ ni di armeni ottomani. Le riforme rimasero però lettera morta, tanto più che il sovrano Abdulhamìd II, salito al trono nel 1876, volle ripristinare la supremazia della tradizione islamica e rafforzare l’accentramento politi­ co, con la conseguenza di rendere ancora più forti i vincoli di sudditanza a cui erano sottoposte le minoranze non musulmane. Di religione cristiana monofisita (—►), gli armeni erano, fra le mino­ ranze residenti nellTmpero ottomano, una delle più attive nel cercare di contrastare il centralismo del governo turco e le sue strutture economico-sociali. Inoltre, l’afflusso di circa 3 milioni di musulmani nelle regio­ ni abitate dagli armeni, a causa delle crisi balcaniche e del conflitto con la Russia, negli ultimi decenni dell’Ottocento peggiorò ulteriormente le condizioni di vita della popolazione armena. Tra il 1894 e il 1896 gli ar­ meni furono vittime di una serie di massacri che portarono alla morte di oltre 200.000 persone, a cui si aggiungeva circa un milione di armeni de­ predati e spogliati di tutti i loro averi, molti dei quali costretti poi all’esi­ lio. In parte organizzati dal governo centrale per punire i contadini che contestavano il livello della pressione fiscale, in parte come effetto di una reazione a catena di violenze di massa, questi massacri furono com­

Gli anni tra le due guerre: dalla vittoria delle democrazie alla deriva autoritaria

piuti in assenza dell’intervento umanitario delle potenze europee che avevano firmato gli accordi di Berlino nel 1878. Fu tuttavia nel corso della Prima Guerra mondiale che il governo ot­ tomano, direttamente sotto gli occhi degli osservatori stranieri, militari e civili presenti sul territorio, mise in atto un vero e proprio sterminio pianificato della popolazione armena. Con la giustificazione, smentita però da innumerevoli testimonianze, di una repressione dovuta a esi­ genze militari perché la regione abitata dagli armeni era teatro delle operazioni belliche fra l’esercito turco e quello russo, il governo avviò nell’aprile del 1915 una vasta operazione di deportazione in massa di centinaia di migliaia di armeni. Alla fine dell’estate, in Anatolia non vi erano più armeni; quelli che riuscirono a sopravvivere fino alla meta fi­ nale di Aleppo, dove furono concentrate anche le popolazioni armene provenienti da Tracia, Asia Minore e Cilicia, furono rinchiusi in una se­ rie di campi improvvisati costruiti lungo le rive dell’Eufrate. Lasciati dapprima morire per fame e malattia, i deportati superstiti furono ster­ minati nel corso della seconda metà del 1916, direttamente dagli emissa­ ri del governo turco oppure dalle tribù nomadi locali a cui i turchi ave­ vano affidato questo compito. Le deportazioni e i massacri, che ebbero il loro culmine negli anni 1915-1916 ma proseguirono fino alla fine della guerra, provocarono un vero e proprio genocidio; mentre i turchi hanno riconosciuto di aver pro­ vocato tra le 300.000 e le 600.000 vittime, secondo altre ricostruzioni le vittime furono oltre un milione e mezzo. Legato in parte alla tradizione repressiva ottomana, dove il ricorso ai massacri era frequente per risol­ vere i conflitti con le minoranze interne, lo sterminio degli armeni si ri­ tiene abbia inaugurato l’era moderna dei genocidi. Si trattò infatti di un progetto pianificato di annientamento rivolto contro un «nemico inter­ no» che si riteneva ostacolasse l’obiettivo di «turchificazione» dell’Impero messo in atto dalla classe dirigente dei Giovani Turchi. Alla fine della guerra, il trattato di Sèvres del 10 agosto 1920, che sanciva lo smembramento dell’Impero ottomano, conteneva alcuni arti­ coli in cui si proponeva di demandare i responsabili dei massacri a un tribunale designato dalle potenze vincitrici. Questo provvedimento ri­ mase tuttavia inattuato, sia perché i Paesi vincitori incontrarono diffi­ coltà a reperire le prove legali documentarie dello sterminio, sia perché l’ondata di nazionalismo che attraversò la Turchia all’indomani della guerra produsse dissensi tra le potenze europee. Mentre Francia e Italia erano favorevoli al consolidamento dei gruppi nazionalisti emergenti, gli inglesi volevano difendere l’autorità del sultano e il suo governo. Fu quest’ultimo, quindi, a processare i responsabili delle deportazioni e dello sterminio degli armeni, ma alla fine il tribunale turco, pur stabi­ lendo tre condanne a morte e pene detentive per diversi dirigenti della precedente amministrazione, non riconobbe la prova della colpa di Sta­ to e considerò il genocidio come la «cospirazione» di una minoranza. Gli armeni riuscirono a costituirsi in Stato nazionale autonomo già nel 1918, ma la regione, oggetto delle mire di Russia, Turchia e Gran Breta­ gna, fu occupata dai bolscevichi e nel 1920 l’Armenia divenne una Re­ pubblica sovietica.

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Lo sterminio sistematico della popolazione armena

Le deportazioni di massa e i campi di concentramento

Il primo genocidio dell'era moderna

L'ondata nazionalista in Turchia e il dissenso tra le potenze europee

La negazione del genocidio L'annessione dell'Armenia alle repubbliche sovietiche

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Storia contemporanea

Il trattato di Sèvres ridusse i territori dell’ex Impero ottomano alla zona degli Stretti e alla parte settentrionale dell’Anatolia, con circa 8 Il ridimensionamento milioni di abitanti. Drasticamente ridimensionato nei suoi territori, co­ territoriale stretto a subire l’occupazione greca di Smirne e la presenza militare di e la capitolazione Francia e Gran Bretagna in alcune zone costiere, il governo del sultano, del sultano sempre più debole e scarsamente legittimato, dovette alla fine capitolare dinanzi all’ondata nazionalistica che si produsse all’indomani della guerra. Guidati da Mustafà Kemal (—>), che aveva fatto parte del movi­ mento dei Giovani Turchi (cap. 2.9), i nazionalisti intendevano reagire, Kemal e la «rinascita in nome della «rinascita nazionale», alle dure condizioni imposte dai nazionale» Paesi vincitori e mettere fine al sistema inefficiente del sultanato. Dopo aver disconosciuto il trattato di Sèvres, i nazionalisti aprirono le ostilità contro i greci insediatisi a Smirne e in altre zone dell’Anatolia e nel 1922, dopo averli sconfitti, crearono le basi per la revisione delle prece­ denti condizioni imposte ai turchi. Con il trattato di Losanna del luglio 1923, quindi, la Turchia entrò nuovamente in possesso dell’intera Ana­ tolia e della Tracia orientale, anche se si dovette impegnare a garantire il libero passaggio negli Stretti delle navi mercantili e militari di tutti i Paesi. Fu inoltre stabilito, al fine di evitare nuovi conflitti etnici, che ol­ tre un milione di greci lasciasse il territorio turco e che circa 350.000 turchi abbandonassero la Grecia. Proclamazione Nell’ottobre 1923 l’Assemblea nazionale turca abolì il sultanato e della Repubblica proclamò la repubblica, eleggendo a presidente Mustafà Kemal, insi­ gnito del titolo di Ataturk ovvero «padre dei turchi». Leader incon­ trastato del Partito repubblicano del popolo, costituitosi nel 1923, La semidittatura Kemal instaurò un sistema di potere semidittatoriale, anche se for­ di Kemal Ataturk malmente nel 1924 fu varata una Costituzione che introduceva il par­ lamentarismo con suffragio universale maschile. Il nuovo Stato as­ sunse un carattere fortemente nazionalista, che portò all’emargina­ zione e alla rapida assimilazione delle m inoranze etniche, e fu Nazionalismo, sottoposto a un’intensa opera di laicizzazione e occidentalizzazione. laicizzazione Ataturk puntò infatti a coniugare il nazionalismo laico con l’assimi­ e occidentalizzazione lazione delle strutture economiche e istituzionali di tipo europeo. Abrogò la norma che faceva dell’islam la religione di Stato, mise fine alla poligamia e istituì l’obbligatorietà del matrimonio civile, sop­ presse gli ordini religiosi, abolì scuole e tribunali islamici, vietò alle donne l’uso del velo e nel 1934 riconobbe loro il diritto di voto. Alla lotta contro gli usi e i costumi islamici, Mustafà Kemal unì l’adozione di codici giuridici di ispirazione occidentale, l’uso dell’alfabeto lati­ no, l’introduzione del calendario gregoriano e del sistema metrico decimale. In campo economico l’opera di modernizzazione si tradus­ se nell’eliminazione degli ultimi residui del sistema feudale ancora presenti nelle campagne e in un forte impulso all’industrializzazione, con un ruolo determinante dello Stato. La giovane Repubblica turca, che comunque non riuscì a eliminare tutte le tensioni interne dovute alla presenza delle minoranze etniche e religiose e all’opposizione dei musulmani tradizionalisti verso i provve­ dimenti di laicizzazione, cercò anche di consolidare il proprio prestigio sul piano internazionale. Mantenne buoni rapporti con l’Unione Sovie-

Gli anni tra le due guerre: dalla vittoria delle democrazie alla deriva autoritaria

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tica, accompagnati tuttavia dalla repressione interna dei comunisti, e nel 1932 fu ammessa nella Società delle Nazioni. 6.2 La Germania da Weimar a Hitler Fin dal settembre 1918 fu evidente che l’esercito tedesco aveva perso la guerra, tuttavia l’alto comando militare, diretto dai generali Paul Ludwing von Hindenburg (—►) e Erich Ludendorff (—►) non volle assu­ mersi la responsabilità della sconfitta e riconsegnò alla classe politica la guida del governo che aveva di fatto assunto nel 1917 quando, in un ulti­ mo tentativo, i vertici militari avevano imposto come cancellieri uomini di stretta fiducia dello stato maggiore. Fu il principe Max von Baden (—►) che, assunto il cancellierato, si impegnò nella gestione della diffici­ le transizione. Mentre nelle trattative coi vincitori emerse la condizione posta dal presidente americano Wilson, che pretendeva dalla Germania un impegno formale di democratizzazione prima di arrivare all’armisti­ zio, Max von Baden si incaricò di comunicare all’imperatore la necessità di lasciare il trono. Fu a questo punto che la situazione tedesca precipitò, lasciando al cancelliere spazi di manovra sempre più ridotti. Alla fine di ottobre, infatti, i marinai della flotta di base a Kiel insorsero e nel giro di pochi giorni il focolaio rivoluzionario si allargò da Lubecca ad Am­ burgo, da Berlino a Monaco. Ovunque gli insorti creavano, sul modello della Rivoluzione bolscevica, dei «consigli di operai e soldati». La pro­ spettiva di una rivoluzione, più ancora dell’invito di von Baden, convin­ se Guglielmo II della necessità di abdicare e il 9 novembre lasciò la Ger­ mania. Fu immediatamente proclamata la Repubblica dal socialista Philipp Scheidemann (—>) e lo stesso giorno il leader della SPD Frie­ drich Ebert invitato dallo stesso Max von Baden, benché non avesse titolo per farlo, a subentrargli come cancelliere, precisò che il nuovo governo doveva avere una chiara legittimazione popolare e impe­ gnarsi a portare pace e libertà al popolo tedesco. Fu dunque il governo provvisorio di Ebert a firmare il duro armisti­ zio imposto alla Germania, ma al momento il compito più gravoso che si trovò ad affrontare era costituito dalla minaccia rivoluzionaria fomenta­ ta dal gruppo spartachista di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Per riuscire ad avere ragione degli insorti, Ebert si avvalse non solo dell’eser­ cito, ma anche dei Freikorps (—►), truppe volontarie di ispirazione na­ zionalista che, dopo la smobilitazione generale, erano rimaste al coman­ do dei loro ufficiali. Al tempo stesso Ebert, di fronte all’ondata rivolu­ zionaria e al vuoto di potere politico creato dall’abdicazione del­ l’imperatore, cercò di fissare alcuni accordi per garantire un minimo di stabilità al suo governo. Il primo accordo lo fece con l’esercito, il quale si impegnava a giurare fedeltà alla Repubblica in cambio della garanzia di impunità e salvaguardia della propria tradizionale autonomia rispetto al potere politico. Il secondo compromesso venne siglato tra i sindacati della SPD e il presidente degli imprenditori Hugo Stinnes (—*■): il conte­ nimento della conflittualità operaia veniva assicurata da garanzie su sa­ lari e occupazione. L’ultimo accordo fu raggiunto coi conservatori, che

Il governo di transizione e le trattative coi vincitori

Moti rivoluzionari e abdicazione di Guglielmo II

Proclamazione della Repubblica

Il governo provvisorio e la minaccia rivoluzionaria

Accordi con l'esercito, coi sindacati e coi conservatori

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Storia contemporanea

ottennero, in cambio del loro sostegno alla Repubblica, la promessa di mantenere in vita le autonomie federali. Tali «contrattazioni», che anti­ ciparono la convocazione dell’Assemblea Costituente, ne fissarono al tempo stesso i limiti di manovra. In vista delle elezioni per l’Assemblea Costituente, che si sarebbero Riorganizzazione svolte il 19 gennaio 1919, tutti i partiti politici si riorganizzarono. I diver­ dei partiti politici si gruppi della destra conservatrice si riunirono dando vita al Partito na­ zional-popolare tedesco (DNVP). Il vecchio gruppo dei nazional-libe­ rali, guidato da Gustav Stresemann (—►), costituì il Partito popolare te­ desco (DVP), mentre i liberali progressisti, insieme ad alcune eminenti figure de\Yintellighenzia tedesca come Friedrich Naumann (—»-) e Max Weber, formarono il Partito democratico tedesco (DDP). Il partito cat­ tolico del Zentrum mantenne la propria struttura e venne affiancato in Baviera dal Partito popolare bavarese (BVP). La SPD, che aveva visto fuoriuscire nel 1917 il gruppo socialdemocratico indipendente, la USPD, assunse il nome di Socialdemocrazia maggioritaria. Di nuova formazio­ ne erano invece i due partiti che si collocavano agli estremi opposti dello schieramento politico: a sinistra, la Lega di Spartaco diede vita, all’ini­ zio del 1919, al Partito comunista tedesco (KPD), mentre all’estrema de­ stra era nato il Partito dei lavoratori tedeschi, che poi assunse il nome di Il Partito Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi (NSDAP) sotto la gui­ nazionalsocialista da di Adolf Hitler (—>■). guidato da Hitler Mentre per le strade di Berlino era ancora in atto la rivolta spartachi­ sta, le elezioni per l’Assemblea Costituente del 1919 diedero una schiac­ ciante vittoria alla coalizione formata da SPD, DDP, Zentrum e BVP, che ottenne complessivamente 331 seggi contro i 63 delle destre e i 22 I lavori dell'Assemblea del Partito socialdemocratico indipendente. L’A ssemblea svolse i suoi costituente a Weimar lavori nella città di Weimar, da qui il nome con cui, nel tempo, si sarebbe definita la Repubblica tedesca. Il testo della Costituzione, frutto del lungo e appassionato dibattito intellettuale degli anni precedenti, fu ap­ prezzata da molti giuristi che, come Hans Kelsen (—*-), vi vedevano fi­ nalmente realizzati i principi del pluralismo politico e della democrazia. Altri invece, come Cari Schmitt (-*-), la criticarono pesantemente, ve­ dendo proprio nel pluralismo la dissoluzione della fedeltà allo Stato che, mediata necessariamente dai partiti, ne sarebbe risultata compromessa. La Costituzione Il testo costituzionale era effettivamente innovativo su certi aspetti, di Weimar ma molto ambiguo su altri. Manteneva, infatti, alcuni legami col passato non solo nella forma federale, come concordato dal compromesso di Ebert, ma anche nell’uso del termine Reich utilizzato per definire le due assemblee parlamentari: Reichstag per la Camera elettiva e Reichsrat per quella federale. Al vertice dello Stato veniva posto un presidente della Repubblica eletto a suffragio universale maschile e femminile. Il cancelliere e i ministri del governo venivano nominati dal presidente della Repubblica, ma dovevano ricevere la fiducia del Reichstag. Solo a quest’ultimo, eletto a suffragio universale con sistema proporzionale, spettava il potere legislativo. La Camera federale era invece composta Pesi e contrappesi dai rappresentanti dei governi dei singoli Stati. Per garantire il manteni­ nei rapporti fra i poteri mento deH’equilibrio nei rapporti tra i poteri fu introdotta una serie di dello Stato pesi e contrappesi: il governo, infatti, doveva avere la fiducia del Reich-

Gli anni tra le due guerre: dalla vittoria delle democrazie alla deriva autoritaria

stag ma quest’ultimo poteva essere sciolto per volontà del presidente della Repubblica. Al presidente, inoltre, l’art. 48 della Costituzione assi­ curava in caso di crisi poteri eccezionali, che dovevano comunque essere ratificati (e potevano venir abrogati) dal Reichstag; le ordinanze di emergenza che il presidente poteva emanare in virtù dell’art. 48 doveva­ no però essere controfirmate dal cancelliere o dal ministro competente. L’equilibrio prodotto da queste disposizioni aveva, tuttavia, il gros­ so limite che il Reichstag, per poter funzionare correttamente, avrebbe dovuto esprimere maggioranze solide e compatte. Problema questo che, nonostante la frammentazione politica, non si era mai posto du­ rante l’Impero, in quanto la mancata centralità del Parlamento assicu­ rava al governo una stabilità fondata esclusivamente sulla fiducia dell’imperatore. Lo stesso articolo 48, che qualcuno definì la «costitu­ zione di riserva» perché sembrava riprodurre un «surrogato del Kai­ ser», rischiava di introdurre nell’impianto costituzionale di Weimar un’endemica fragilità. A ll’inizio, comunque, questo sembrò poco ri­ schioso dal momento che alla presidenza della Repubblica fu eletto Ebert, ma per assicurare la piena funzionalità del sistema parlamentare era necessario imboccare subito la strada della ricostruzione e della normalizzazione, dopo l’emergenza rappresentata dalla sconfitta belli­ ca e dall’ondata rivoluzionaria del 1918-19. A mettere a rischio la stabilità della neonata Repubblica erano sia le condizioni economiche del Diktat, sia la perdurante agitazione sociale e politica. Alla Germania infatti i Paesi vincitori imposero il pagamento di una fortissima indennità di guerra, che nel 1921 venne fissata a 132 miliardi di marchi-oro (cap. 5.5). Come disse l’economista Keynes, tali condizioni avrebbero impedito al Paese di ritrovare la strada della nor­ malità. Tra il 1920 e il 1921 si ebbe poi un’ondata di violenze alimentate, questa volta, soprattutto dai gruppi dell’estrema destra intenzionati a colpire la classe politica che aveva gestito la transizione verso la Repub­ blica. Nel 1920 vi fu un tentativo di colpo di stato da parte delle forze paramilitari del generale Wolfgang Kapp (—►), che l’anno precedente avevano represso l’insurrezione spartachista. Nel 1921 venne ucciso Matthias Erzberger (->-), uomo politico del Zentrum che all’epoca era ministro delle Finanze, mentre l’anno successivo cadde vittima di un at­ tentato il ministro degli Esteri Walther Rathenau (—»-), ritenuto dall’estrema destra responsabile di cercare una mediazione coi Paesi vincitori. Nel complesso, tra il 1919 e il 1922 furono assassinati quasi 400 uomini politici. Dal momento che i governi cercarono di rispettare il pagamento del­ le rate delle riparazioni senza gravare la popolazione con una pesante imposizione fiscale, bensì stampando carta moneta, nel giro di un anno si mise in moto un fortissimo processo inflattivo che deprezzò irrime­ diabilmente il valore del marco. A tale crisi, già evidente all’inizio del 1922, si aggiunse l’anno successivo l’occupazione del bacino della Ruhr da parte delle truppe belghe e francesi per ritorsione contro la mancata consegna dei beni in natura dovuti alle potenze vincitrici. All’occupa­ zione, percepita come un’ulteriore vessazione, gli abitanti della Ruhr ri­ sposero mediante una «resistenza passiva» che comportò la cessazione

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Endemica fragilità dell'impianto istituzionale di Weimar

Violenze dei gruppi di estrema destra

Il pagamento dell'indennità di guerra e la crisi del marco

La crisi della Ruhr

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Collasso dell'economia tedesca

Il Governo di grande coalizione di Stresemann

Il tentativo fallito di colpo di stato di Hitler

Risanamento finanziario e ripresa produttiva

Hindenburg alla presidenza della Repubblica

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di tutte le attività produttive. Nel giro di pochi mesi il drastico calo della produzione, l’impegno del governo a sostenere la tattica della «resisten­ za passiva» e la continua stampa di nuova carta moneta fecero definiti­ vamente collassare l’economia tedesca. Sulla Germania si abbatté la più grave inflazione mai vista in un Paese occidentale e alla fine del 1923 per acquistare un dollaro erano necessari 400 miliardi di marchi. Per uscire dalla drammatica emergenza fu necessario ricompattare le forze politiche sull’obiettivo comune della stabilizzazione economica e alla fi­ ne dell’anno si costituì un governo di grande coalizione, retto da Strese­ mann, che comprendeva tutti i partiti dell’arco costituzionale, dai con­ servatori della DNVP alla SPD. Convinto che solo mediante un accordo coi Paesi vincitori la Germa­ nia avrebbe potuto trovare una via di uscita, Stresemann ordinò l’imme­ diata cessazione della «resistenza passiva» nella Ruhr e, dopo aver di­ chiarato lo stato d’emergenza, fece sciogliere i governi socialcomunisti che erano al potere in Sassonia e Turingia e, con la stessa determinazio­ ne, sventò il Putsch organizzato dall’estrema destra hitleriana. La NSDAP, infatti, nella notte tra l’8 e il 9 novembre 1923 aveva tentato un’insurrezione nella città di Monaco e solo l’intervento dell’esercito ri­ uscì a impedire che il colpo andasse a buon fine; la condanna a cinque anni di carcere inflitta a Hitler spinse a credere che il Partito nazional­ socialista fosse stato definitivamente sconfitto. Altrettanto ferma fu la politica di risanamento finanziario attuata da Stresemann: fu creata una nuova moneta, il Rentenmark (—>) e avviata una severa politica defla­ zionistica che, attraverso un drastico contenimento della spesa pubblica e un’alta imposizione fiscale, portò in poco tempo la Germania a una maggiore stabilità economica e finanziaria. Grazie, poi, ad accordi con le potenze vincitrici, cessò l’occupazione franco-belga della Ruhr e nel 1924 gli Stati biniti proposero il piano Dawes (—>■), che abbassava le rate annuali delle riparazioni e concedeva alla Germania un prestito di 800 milioni di marchi. Benché al prezzo di grandi sacrifici per la popolazio­ ne, queste misure favorirono la ripresa produttiva e, come vedremo, l’av­ vio della distensione dei rapporti franco-tedeschi. Il rilancio dell’economia non comportò, tuttavia, un’immediata sta­ bilizzazione sul fronte politico e già alle elezioni del 1924 fu evidente la polarizzazione verso cui muoveva la politica tedesca. Alle elezioni presidenziali del 1925, dopo la morte improvvisa di Ebert, ciascun partito presentò un proprio candidato e tale frammentazione favorì le destre che, nel secondo turno, fecero scendere in campo un nuovo can­ didato, il maresciallo Hindenburg, un vecchio militare potenzialmente in grado di coagulare numerosi consensi in nome del mai sopito nazio­ nalismo tedesco. Se con Ebert il rischio di un presidente «surrogato del Kaiser» non vi era stato, ben diversa sarebbe stata, in futuro, la si­ tuazione con la presidenza Hindenburg, anche se nell’immediato il presidente si attenne al più scrupoloso rispetto delle regole costituzio­ nali. Nella seconda metà degli anni Venti, infatti, la Repubblica di Weimar conobbe una relativa stabilità anche sul piano politico, come venne confermato dalle elezioni del 1928 che, a fronte di un calo del Partito democratico e del Zentrum e della secca sconfitta della DN-

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VP, videro la SPD raggiungere il proprio massimo storico col 29,8% delle preferenze. Furono gli effetti della crisi del 1929 che, come vedremo, colpirono la Germania più di ogni altro Paese europeo a causa della dipendenza dell’economia tedesca dai prestiti statunitensi, a causare il progressivo tracollo delle istituzioni repubblicane. Con un calo dell’occupazione che riportava la Germania ai tragici scenari dell’immediato dopoguerra, la fiducia dei tedeschi nella Repubblica e nella sua classe dirigente entrò in crisi. Mentre la retorica della «pugnalata alle spalle», che attribuiva a socialisti, cattolici, liberali ed ebrei la responsabilità della sconfitta nella guerra mondiale, fu sapientemente riportata alla ribalta dalle destre, l’intera opinione pubblica sembrava desiderosa di sbarazzarsi definitiva­ mente delle clausole punitive di Versailles. Anche il piano Young (->-), varato nel 1929, come vedremo, per rateizzare ulteriormente il paga­ mento delle riparazioni, venne fortemente avversato dalla NSDAP, con una campagna propagandistica che finì per accrescere la popolarità del partito presso i tedeschi. Crisi economica e radicalizzazione delle prote­ ste contro il Diktat del 1919 rappresentarono quindi la miscela esplosiva della campagna per le elezioni del 1930 volute dal cancelliere Heinrich Briining (^ -), il quale, per far fronte all’emergenza nazionale, era stato costretto a ricorrere più volte alle clausole dell’art. 48 della Costituzione che gli consentivano di legiferare senza il controllo del Reichstag. Alle elezioni del 30 settembre il partito hitleriano, che nella tornata prece­ dente era riuscito a far eleggere solo 12 deputati, ottenne ben 107 rap­ presentanti, diventando così il secondo partito della Repubblica dopo la SPD. Anche la KPD conobbe un grosso balzo in avanti e passò da 54 a 77 deputati. La radicalizzazione del conflitto politico era dunque ben rappresentata dall’aumento di consensi per i due partiti estremi che era­ no ora in grado di bloccare il funzionamento di qualsiasi governo retto sulla vecchia coalizione del 1919. Di fronte a questo scenario, la SPD non negò la fiducia al program­ ma presentato dal governo Bruning, che pure spostava a destra l’asse go­ vernativo e concentrava sul presidente e sul cancelliere la maggior parte del potere decisionale. La strada intrapresa era tuttavia più pericolosa di quanto potesse apparire. Il Partito nazionalsocialista continuava a fare proseliti e l’ideologia su cui si fondava, delineata da Hitler fin dal 1925 nel suo scritto Mein Kampf, sembrava trovare nell’incerto scenario poli­ tico del 1930 un grande credito. L’ideologia della NSDAP era infatti co­ struita sull’idea che la nazione tedesca sarebbe potuta tornare ai fasti del passato solo eliminando i «nemici interni», come ebrei e comunisti, che ne minavano le potenzialità economiche e ideali e si fondava sul mi­ to della purezza e della superiorità della razza ariana. Grazie alla sua ef­ ficiente organizzazione paramilitare e all’abile campagna propagandi­ stica condotta da Hitler, il quale aveva in Mussolini il proprio modello, la NSDAP riuscì quindi a far presa nell’opinione pubblica tedesca, im­ paurita anche da quanto stava accadendo in Russia dove, come vedre­ mo, era iniziata la collettivizzazione forzata delle campagne. La situazione precipitò rapidamente dopo che, nel marzo 1932, si tennero le elezioni presidenziali. Nel timore che la tradizionale fram-

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La crisi del 1929

Radicalizzazione delle proteste contro ilM fo fd e l 1919

Successo elettorale dei partiti estremisti

La campagna propagandistica di Hitler e la presa sull'opinione pubblica

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Il tracollo del sistema parlamentare

Radicalizzazione dell'elettorato tedesco

Affermazione della NSDAP

Hitler cancelliere

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mentazione politica potesse favorire la vittoria di Hitler, il cui partito era ormai padrone delle piazze, i socialdemocratici e i partiti di centro decisero di sostenere il presidente uscente Hindenburg, nonostante non ne condividessero la gestione politica, ma che in quel momento sembra­ va rappresentare la sola barriera possibile contro il dilagare del nazio­ nalsocialismo. Era ormai chiaro che l’assetto di Weimar stava assumen­ do sempre più i connotati di un sistema presidenziale, pur all’interno di un involucro parlamentare. Hindenburg, dopo aver congedato Briining, scelse infatti come cancellieri prima Franz von Papen (—►) e poi Kurt von Schleicher (—>), entrambi privi di una reale maggioranza par­ lamentare ma che comunque ottennero la fiducia del Reichstag in quan­ to, ancora una volta, i partiti del centro e la SPD pensarono che questa fosse l'unica strada per tutelare le istituzioni repubblicane. Questi «ga­ binetti presidenziali» poterono operare grazie al massiccio ricorso all’art. 48 della Costituzione e il perdurante uso di questo articolo co­ me strumento legislativo diede il via a una trasformazione in senso au­ toritario del sistema. Nel tentativo, comunque, di ottenere una base di legittimazione all’interno del Reichstag, von Papen indisse per due volte le elezioni nel corso del 1932, a luglio e a novembre. In entrambe le tornate, che si svol­ sero in un clima di persistente violenza politica, la radicalizzazione dell’elettorato tedesco si manifestò nel successo dei due partiti estremi, la NSDAP e la KPD, a scapito delle forze moderate e del centro-sini­ stra. Alle elezioni di luglio il partito di Hitler ottenne addirittura il 37,4% dei voti e a quelle di novembre, nonostante un calo, si confermò partito di maggioranza relativa. La legittimazione ottenuta fino a quel momento nelle piazze conquistava ora anche una veste legale, a fronte dell’incapacità delle altre forze politiche di esprimere una coalizione: senza la NSDAP, infatti, non era possibile governare. Fallita l’ipotesi di poter includere i nazisti in un esecutivo di coalizione senza concedere a Hitler la presidenza, il 30 gennaio 1933 Hindenburg lo nominò cancel­ liere, affidando le sorti della Germania al nuovo governo formato da na­ zionalsocialisti, nazional-popolari e popolari. 6.3 L'Italia: dal «biennio rosso» all'avvento del fascismo

La difficile eredità della Prima Guerra mondiale

Anche in Italia la Prima Guerra mondiale, che costituì ovunque Yhumus materiale e culturale delle rivoluzioni e delle sollevazioni di quegli anni, lasciò in eredità gravi difficoltà e squilibri economici e un’acuta conflittualità sociale. Mentre l’industria di guerra aveva arricchito i grandi speculatori e determinati settori industriali, l’inflazione, alimen­ tata dal continuo aumento dei prezzi, erodeva i risparmi del ceto medio. La riconversione dell’industria bellica fu estremamente difficile e causò numerosi fallimenti d’imprese che non riuscivano a reggere il confronto col mercato. A tutto questo lo Stato cercò di far fronte attraverso la re­ golamentazione della spesa pubblica e della politica monetaria e impo­ nendo il blocco degli affitti e dei prezzi dei generi di prima necessità. Ta­ li misure di intervento non riuscirono, tuttavia, a impedire un diffuso

Gli anni tra le due guerre: dalla vittoria delle democrazie alla deriva autoritaria

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malessere sociale che coinvolgeva sia i ceti medi che la classe operaia e i Diffuso malessere contadini. L’aumento del costo della vita, causa di una costante rincorsa sodale fra prezzi e salari, la crescita vertiginosa della disoccupazione, le pres­ sioni dei contadini, tornati dalla guerra con una maggiore consapevolez­ za dei propri diritti e non più disposti a sottostare a contratti agrari sfa­ vorevoli, furono le ragioni principali di una vasta ondata di agitazioni e scioperi nel biennio 1919-1920. A questi fattori di malessere economico si aggiungevano poi le diffi­ Il difficile coltà del reinserimento nel quotidiano dei reduci di guerra e le trasfor­ reinserimento mazioni che, più in generale, il conflitto aveva prodotto nella coscienza dei reduci politica collettiva. La media borghesia, che aveva combattuto inquadra­ ta nei gradi intermedi dell’esercito, si trovava ora a rivendicare uno spa­ zio più ampio come classe dirigente del Paese; ufficiali e sottoufficiali si sentivano infatti, in molti casi, delusi nelle loro aspirazioni e avvertivano che la fine della guerra li aveva privati di quei piccoli e grandi privilegi guadagnati sui campi di battaglia. I ceti popolari, che avevano conosciu­ to una vasta mobilitazione e una socializzazione forzata durante il con­ Rivendicazioni operaie flitto, lottavano non solo contro il carovita ma anche per ottenere mag­ e contadine giori diritti politici ed economici. Anche le donne, largamente impiega­ te nell’industria, nell’agricoltura e nei servizi a sostegno dello sforzo bellico, uscirono dalla guerra avendo acquisito una maggiore consape­ volezza politica. Benché comuni a tutti i Paesi europei, in Italia queste novità assunsero una connotazione particolarmente conflittuale in quanto il processo di democratizzazione delle strutture politiche, rispet­ to a Paesi come Francia e Inghilterra, era proceduto con più lentezza; l’ancora debole legittimazione del sistema liberal-parlamentare rese quindi più difficile realizzare quella vasta integrazione politica che era resa necessaria dal tumultuoso avvento delle masse nello spazio pubbli­ co e dai mutamenti che stavano investendo il mondo del lavoro. Sotto la congiunta minaccia delle nuove pressioni nazionalistiche e delle rivendi­ cazioni operaie e contadine, la classe dirigente liberale si trovò dunque ad affrontare un contesto di forte radicalizzazione politica, che mise ben presto in evidenza l’inadeguatezza degli strumenti tradizionali del parlamentarismo e della rappresentanza. L’ondata di scioperi e lotte sociali che attraversarono l’Italia nel Ondata di scioperi 1919-20 coinvolsero massicciamente operai e contadini. Gli scioperi e lotte sociali agrari non mobilitarono solo, come per il passato, i contadini e i brac­ nel «biennio rosso» cianti della Valle Padana, ma anche i mezzadri delle regioni centrali e i salariati dei latifondi del Mezzogiorno, che si impadronirono di vaste porzioni di terre. Nei centri industriali del nord la protesta, che portò spesso all’occupazione delle fabbriche, coinvolse nel 1919 oltre un milio­ ne di operai, numero che crebbe ancora l’anno successivo. Questo attivi­ smo senza precedenti dei lavoratori si espresse, soprattutto tra i brac­ cianti dell’area padana, anche nella crescita del numero degli iscritti ai sindacati e nella nascita di «leghe rosse», socialiste, e «bianche», cattoli­ che. Il Partito socialista, dove la corrente massimalista si era imposta già al Congresso del 1918, non riuscì comunque a incanalare queste prote­ ste verso uno sbocco politico. Infatti la corrente riformista, favorevole a proseguire sulla strada della collaborazione con la classe dirigente libe-

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rale, continuava a essere maggioritaria nel gruppo parlamentare sociali­ sta e alPinterno della Confederazione generale del lavoro. Oltre alla di­ visione interna dei socialisti, la mancata convergenza in un movimento unitario tra le lotte operaie e le rivendicazioni contadine e l’ambigua condotta del partito, rivoluzionario nella retorica propagandistica ma cauto e mediatore nella prassi parlamentare, mostrarono i limiti della prospettiva rivoluzionaria del «biennio rosso». Le lotte sociali del 1919-20 non furono, tuttavia, le sole manifesta­ zioni del malessere diffuso e della mobilitazione delle masse. L’esalta­ zione nazionalista, aumentata negli anni del conflitto mondiale dando sostanza a nuovi valori come il culto della giovinezza e della violenza e la fiducia nella superiorità dell’Italia, fu alimentata nel dopoguerra dal mito della «vittoria mutilata» (->-), secondo cui la mancata acquisizio­ ne della Dalmazia, promessa dal Patto di Londra, e di Fiume aveva mostrato in occasione della Conferenza di Parigi tutta la debolezza e lo spirito rinunciatario della classe dirigente liberale. L’ondata nazio­ nalista, che nell’aspirazione a creare uno «Stato forte» sia all’interno sia sulla scena internazionale cominciava a trovare appoggi anche nei ceti medi impoveriti dalla guerra e negli imprenditori decisi a ridimen­ sionare il movimento operaio, culminò nel settembre 1919, quando il poeta-soldato Gabriele D ’A nnunzio (->-), alla guida di un corpo di volontari, prese militarmente possesso della città di Fiume. L’occupa­ zione, che violava palesemente i patti internazionali, si protrasse fino al 1920 e nel corso di quell’anno la propaganda nazionalista ebbe buon gioco nel contrapporre la forza e la determinazione dei «legionari» dannunziani alla debolezza della classe dirigente nazionale. La situa­ zione si sbloccò solo nel novembre 1920, quando il governo italiano, presieduto da Giolitti, mise fine con la forza all’occupazione di Fiume e siglò con la Jugoslavia il trattato di Rapallo. Fiume veniva dichiarata città libera, mentre all’Italia erano riconosciute Trieste, Gorizia, tutta l’Istria e la città di Zara. Se, da un lato, la classe dirigente liberale riuscì a tenere a freno le pressioni del movimento operaio e contadino e a risolvere, non senza difficoltà, la complessa questione fiumana, dall’altro vide seriamente compromesso il proprio tradizionale controllo sul Parlamento dalla pre­ senza di nuovi soggetti politici diffusi e radicati sul territorio. Nel gen­ naio 1919, infatti, era stato fondato da don Luigi Sturzo (—►) il Partito popolare italiano, una formazione che, pur presentandosi come laica e non confessionale, doveva dare voce ai cattolici italiani e raccogliere tutto il cattolicesimo militante dell’epoca. In seno al PPI, che avanzò un vasto programma di riforme, tra cui la riforma agraria e una più effi­ ciente legislazione sociale, coesistevano comunque diverse tendenze, dalla sinistra progressista, legata soprattutto al movimento contadino, ai gruppi moderati fortemente compenetrati con la classe politica liberale, fino alla destra guidata da padre Agostino Gemelli (->-). Sempre nel 1919 il quadro politico italiano si arricchì di una nuova formazione: il 23 marzo, infatti, Benito Mussolini fondò a Milano i Fasci di combattimen­ to (—»-) che, mescolando alcuni punti della tradizione democratica e so­ cialista, come la richiesta di un’Assemblea Costituente, con istanze na-

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Mancata convergenza in un movimento unitario

La nuova ondata nazionalista e il mito della «vittoria mutilata»

D'Annunzio e l'occupazione di Fiume

Nascita di nuovi soggetti politici

Il Partito popolare italiano e il cattolicesimo militante

I Fasci di combattimento

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Il nuovo sistema elettorale proporzionale

Affermazione di socialisti e popolari

Crescente instabilità

La formazione delle squadre paramilitari fasciste

Le violenze contro le organizzazioni operaie e socialiste

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zionalistiche e autoritarie, raccolsero il sostegno di nazionalisti, intellet­ tuali futuristi, ex sindacalisti rivoluzionari e molti reduci di guerra. Alle elezioni politiche del novembre 1919, mentre il movimento mussoliniano rimase del tutto marginale, si affermarono i due partiti di mas­ sa esterni al sistema liberale, ovvero popolari e socialisti. Le elezioni del 1919 si tennero infatti con il nuovo sistema proporzionale, fortemente vo­ luto dal Partito socialista e da quello popolare e introdotto, dopo un ac­ ceso e lungo dibattito parlamentare, nell’agosto 1919 quando al governo era Francesco Saverio Nitti (-»-). Grazie alla mediazione di Nitti, che cercò di compenetrare le istanze dei proporzionalisti con quelle dei libe­ rali giolittiani, favorevoli al vecchio sistema maggioritario perché meglio soddisfaceva i meccanismi notabilari del liberalismo, fu approvato il meccanismo del panachage (->-), un sistema volto a garantire all’elettore una maggior libertà di scelta tra i candidati delle diverse liste. Tale espe­ diente non fu tuttavia sufficiente a impedire l’affermazione dei partiti or­ ganizzati (i socialisti ebbero 156 seggi e il Partito popolare 100), mentre i liberali, pur potendo contare su un cospicuo numero di eletti, non riusci­ rono a riunirsi in una compagine unitaria neppure all’interno del Parla­ mento. Il movimento dei Fasci di combattimento, nell’unica lista presen­ tata esplicitamente come fascista, a Milano, ottenne solo poco più di 4.000 voti. In questo quadro soltanto il fermo antagonismo tra PPI e PSI, che numericamente avevano la maggioranza alla Camera, consentì ai li­ berali di continuare a mantenere le redini del governo. Perduta quindi la maggioranza assoluta in Parlamento, i liberali, con il nuovo governo Giolitti entrato in carica nel giugno 1920, si trovarono ad affrontare una situazione di crescente instabilità. Infatti, con la que­ stione di Fiume ancora aperta e la protesta operaia che, seppure calante, nel corso dell’estate culminò nell’occupazione di diverse fabbriche a To­ rino, il fascismo di Mussolini, forte dell’appoggio della grande proprietà terriera in Emilia e Toscana, cominciò a organizzarsi in vere e proprie squadre paramilitari, scatenando una violenta tensione sociale. Accre­ ditandosi come forza di rinnovamento politico e culturale e come ba­ luardo degli interessi degli imprenditori (soprattutto agrari) e dei ceti medi, il fascismo, attraverso le sue squadre di «camicie nere» in armi, avviò una sistematica opera di distruzione delle strutture e delle orga­ nizzazioni del mondo del lavoro, sia socialiste che cattoliche, grazie spesso alla connivenza delle autorità e degli apparati dello Stato. La strategia delle spedizioni fasciste, che consisteva nel devastare e incen­ diare le Camere del lavoro, le sedi delle leghe, le Case del popolo, le re­ dazioni dei giornali, crebbe fino ad arrivare ad attaccare, dopo le elezio­ ni amministrative del 1920, le amministrazioni comunali guidate da giunte «rosse», come avvenne a Bologna in quell’anno. L’aggressività delle squadre colse di sorpresa le organizzazioni socialiste, non abituate a un impiego sistematico della violenza di massa e prive del supporto lo­ gistico e materiale per fronteggiare le squadre di Mussolini. Nel giro di una decina di mesi, i fascisti quindi riuscirono a smantellare quasi com­ pletamente la rete delle strutture socialiste e operaie. Di fronte al dilagare della violenza armata fascista e all’accordo fra imprenditori e sindacato che, con la mediazione di Giolitti, mise fine

Gli anni tra le due guerre: dalla vittoria delle democrazie alla deriva autoritaria

nel settembre del 1920 all’occupazione delle fabbriche del nord, esplo­ sero definitivamente le profonde divisioni da tempo presenti all’interno del movimento socialista. Per aderire alla Terza Internazionale, infatti, il Partito socialista avrebbe dovuto accettare i «ventuno punti» indicati da Lenin. La questione venne affrontata al Congresso di Livorno del gennaio 1921 e in quella sede, di fronte all’impossibilità di comporre la frattura tra l’ala comunista del partito e una parte della stessa corrente massimalista che restava contraria all’espulsione dei riformisti, si pro­ dusse la scissione definitiva. Il gruppo comunista guidato da Amadeo Bordiga e Umberto Terracini (—>•) fondò il Partito comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale comunista. Al nuovo partito aderì anche il gruppo torinese raccolto attorno al giornale «L’Ordine Nuovo», dove operavano da tempo alcuni giovani intellettuali come Antonio Gram­ sci (-^-) e Paimiro Togliatti (—>■). La nascita del PCd’I non mise co­ munque fine alle divisioni interne al gruppo socialista; nel Congresso del partito dell’ottobre 1922, infatti, si ebbe la fuoriuscita della frazione riformista di Turati e Giacomo Matteotti (— che diedero vita al Par­ tito socialista unitario al quale aderì la maggior parte del gruppo parla­ mentare socialista. La scissione del Congresso di Livorno e il graduale riflusso delle lotte operaie del «biennio rosso» diedero a Giolitti la speranza, in vista delle elezioni politiche del maggio 1921, di ristabilire l’ordine e la pace sociale nel Paese creando un vasto «blocco nazionale» in funzione anti­ socialista. Nel tentativo di formare una diga contro le sinistre e di ri­ portare alla legalità i Fasci mussoliniani, furono inserite nelle liste del «blocco nazionale» anche candidature fasciste. La campagna elettorale si giocò tutta sui temi della retorica nazionalista e della vecchia con­ trapposizione ai «rossi» e ai «neri», dal momento che anche il Partito popolare di Sturzo era rimasto fuori dalle liste di «blocco». Il risultato delle elezioni, che non modificava sostanzialmente il quadro parlamen­ tare rispetto a quello prodotto nel 1919, portò però all’ingresso in Par­ lamento di 35 deputati fascisti, tra cui Mussolini. Il calcolo di Giolitti, che si dimise il mese successivo lasciando la guida del governo a Ivanoe Bonomi (^ -), di riassorbire nella legalità il movimento mussoliniano si dimostrò tuttavia illusorio. Mussolini infatti, pur cercando una mediazione tra le violenze squadriste portate avanti dai vari ras locali (—»-) e la strategia legalitaria, co­ me dimostrò il patto di pacificazione siglato ad agosto coi socialisti, non intendeva abbandonare il capitale dei crescenti consensi che il suo movi­ mento stava incontrando in alcuni settori della grande industria, fra al­ cuni liberali e nell’area più conservatrice del mondo cattolico. Forte del vasto blocco sociale, non più costituito solo dai ceti medi e dal padrona­ to agrario, che si era venuto raccogliendo attorno ai Fasci di combatti­ mento, il 7 novembre 1921, Mussolini trasformò il movimento in partito, nonostante una vivace resistenza interna alimentata soprattutto dall’op­ posizione di Dino Grandi (—►). I Fasci assunsero così il nome di Partito nazionale fascista. Accanto al PNF fu creata la Confederazione delle corporazioni sindacali che doveva contrastare il monopolio delle orga­ nizzazioni sindacali socialiste e cattoliche.

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Le divisioni all'interno del movimento socialista

Nascita del Partito comunista d'Italia

Il progetto giolittiano del «blocco nazionale» antisocialista

L'ingresso in Parlamento dei fascisti di Mussolini

La nascita del Partito nazionale fascista

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Rafforzamento del consenso per Mussolini

La «marcia su Roma»

Il governo Mussolini

Il Gran Consiglio del fascismo

La Milizia volontaria per la Sicurezza Nazionale

Storia contemporanea

La crisi precipitò nel corso del 1922. Mentre l’esecutivo presieduto da Luigi Facta (->-), succeduto a Bonomi a febbraio, non fu in grado di ristabilire l’ordine pubblico ed esprimere un chiaro indirizzo politico, Mussolini riusciva a irrobustire ulteriormente i propri consensi, rassicu­ rando agrari e industriali e reclutando operai e contadini nel sindacato fascista. Il fallimento dello «sciopero legalitario» indetto per il 31 luglio 1922 dalla Alleanza del lavoro, un organismo nato quello stesso anno per riunire tutti i movimenti sindacali di sinistra, fece capire a Mussolini che anche il fronte della sinistra era poco compatto. Fu in questo conte­ sto quindi che, dopo aver organizzato varie manifestazioni contro il go­ verno in tutta Italia, maturò la decisione di compiere un vero e proprio atto di forza di stampo militare. Il 24-25 ottobre 1922, al Congresso del PNF tenutosi a Napoli, fu progettata una mobilitazione generale di «ca­ micie nere» fasciste in direzione di Roma. Guidati dal «quadrumvirato» composto da Emilio De Bono (—>), Italo Balbo (-*-), Cesare Maria De Vecchi (—►), Michele Bianchi (-*-), decine di migliaia di fascisti realiz­ zarono, tra il 27 e il 28 ottobre, la cosiddetta «marcia su Roma», mentre Mussolini rimase prudentemente a Milano in attesa dello sviluppo degli eventi. Benché l’esercito regio avrebbe potuto disperdere con facilità le milizie fasciste, il re Vittorio Emanuele III, nel timore di dover fronteg­ giare una sedizione da parte dei settori filofascisti dell’esercito o even­ tualmente di essere sostituito dal cugino Amedeo d’Aosta (-*-), sosteni­ tore di Mussolini, rifiutò di firmare la richiesta, presentatagli da Facta, di decretare lo stato d’assedio. Le colonne fasciste poterono così entrare nella capitale senza incontrare resistenza. Il sovrano, appoggiandosi alla norma statutaria che gli conferiva il diritto di scegliere il capo dell’esecutivo anche in assenza del parere del­ la Camera, il 30 ottobre affidò a Mussolini il compito di formare il nuo­ vo governo. Questi costituì un governo di coalizione di cui facevano par­ te fascisti, liberali, popolari, un nazionalista e anche alcune personalità di spicco come il filosofo Giovanni Gentile e il generale Armando Diaz. Nel suo discorso d’insediamento Mussolini definì la Camera un’«aula sorda e grigia» e disse che, se lo avesse voluto, avrebbe potuto formare un governo di soli fascisti, senza tener conto della composizione plurali­ sta del Parlamento. Chiese quindi i pieni poteri per realizzare un ambi­ zioso programma fondato su tre obiettivi: ripresa economica, ordine e disciplina. La fiducia gli fu accordata da oltre 300 deputati, mentre vota­ rono contro 116 e 7 si astennero. A quel punto Mussolini si mise immediatamente all’opera per dotar­ si degli strumenti che gli avrebbero consentito di consolidare il suo pote­ re. Già a dicembre istituì il Gran Consiglio del fascismo (->-), un organo nuovo e non previsto dallo statuto del PNF, che avrebbe permesso a Mussolini e ai capi storici del fascismo di tenere sotto stretto controllo tutto il partito. Lo stesso avvenne per le squadre di «camicie nere» che furono fatte confluire nella Milizia volontaria per la Sicurezza Naziona­ le, una nuova forza armata posta alle dirette dipendenze di Mussolini. Al tempo stesso il capo del governo operò per garantirsi una più solida maggioranza parlamentare. Nel corso del 1923 la forte repressione, at­ tuata anche dalla magistratura e dalle forze di polizia, nei confronti dei

Gli anni tra le due guerre: dalla vittoria delle democrazie alla deriva autoritaria

comunisti costrinse il partito a operare nella semi-clandestinità. Ad aprile, dopo l’uscita dei ministri popolari dal governo, il PPI si divise e una discreta parte dei suoi quadri entrò nelle file fasciste. A luglio Sturzo, fautore invece di una ferma intransigenza verso i fascisti, fu costretto ad abbandonare la segreteria del partito. L’atto decisivo per fiaccare le opposizioni fu la nuova legge elettorale, progettata da Giacomo Acerbo (—*■) e approvata dal Parlamento quello stesso mese; con essa veniva operata una correzione maggioritaria del sistema proporzionale, stabi­ lendo che i due terzi dei seggi sarebbero stati assegnati alla lista che avesse ottenuto la maggioranza con almeno il 25% dei voti. In vista delle elezioni del 6 aprile 1924 molti esponenti liberali ed ex popolari entrarono, assieme ai fascisti, nella lista governativa denomi­ nata «lista nazionale». Essa ottenne un forte successo e superò abbon­ dantemente il quorum richiesto dalla legge Acerbo. Benché rafforzato da questo successo elettorale, proprio nel 1924 il fascismo attraversò un momento di crisi, che dimostrò come la «normalizzazione» promessa da Mussolini fosse difficile da realizzare. Il 30 maggio, infatti, il depu­ tato Giacomo Matteotti, segretario del Partito socialista unitario, de­ nunciò pubblicamente alla Camera i brogli e le violenze che avevano preceduto il voto; rapito da un gruppo di squadristi, venne assassinato e il suo corpo fu ritrovato due mesi dopo. L’uccisione di Matteotti susci­ tò una vasta ondata d’indignazione presso l’opinione pubblica e per al­ cuni mesi parve addirittura che il fascismo fosse completamente isolato e sul punto di cedere. I partiti d’opposizione, ad eccezione di quello co­ munista, reagirono all’assassinio del deputato socialista abbandonando i lavori parlamentari; fu la cosiddetta «secessione dell’Aventino», che riprendeva idealmente l’atto della plebe romana di ritirarsi sul monte Aventino in segno di protesta contro i soprusi dei patrizi. Il gesto, ben­ ché espressione di un’altissima tensione ideale, non ebbe in realtà alcu­ na conseguenza pratica, anche perché il sovrano si sottrasse a qualsiasi intervento in nome di un rigido formalismo giuridico e di un preciso calcolo politico. Mussolini quindi, ripresosi dopo lo sbandamento ini­ ziale, ne approfittò per l’atto di forza decisivo. Il 3 gennaio 1925, in un discorso alla Camera che non lasciava dubbi sui metodi della politica fascista, prese su di sé ogni responsabilità «politica, morale, storica» di quanto accaduto nei mesi precedenti, affermando che se il fascismo era «un’associazione a delinquere» egli ne era il capo. Da quel momento prese il via la trasformazione di quanto rimaneva dello Stato liberale in una dittatura a viso aperto.

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La repressione delle opposizioni

La riforma elettorale

Il successo della «lista nazionale» nelle elezioni del 1924

L'assassinio di Matteotti

La «secessione dell'Aventino»

Il discorso del 3 gennaio 1925: il passaggio alla dittatura

6.4 II fascismo al potere Forte di una solida maggioranza alla Camera e del sostegno della monarchia e senza più avversari politici, il fascismo avviò a partire dal 1925 la costruzione di un regime autoritario a partito unico, muovendo­ si sul piano istituzionale, nel settore economico-sociale e riformando la struttura del PNF al fine di renderla rigidamente funzionale agli inte­ ressi del governo e di Mussolini. Nell’ambito degli interventi istituziona-

Un regime autoritario a partito unico

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Le «leggi fascistissime»

La riforma elettorale Rocco

La Camera dei fasci e delle corporazioni

Il nuovo statuto del PNF

Processo di centralizzazione

Storia contemporanea

li, le cosiddette «leggi fascistissime» del 1925-26 ebbero la funzione di imprimere una completa fascistizzazione al sistema statuale. Nel 1925 furono infatti approvate leggi per il controllo delle attività delle associa­ zioni segrete, l’eliminazione della libertà di stampa e l’allargamento del­ le attribuzioni del capo del governo, il cui potere venne completamente svincolato da ogni controllo parlamentare; al contempo si dotava il go­ verno della facoltà di fissare l’ordine del giorno delle sedute del Parla­ mento. L’anno successivo l’opera di fascistizzazione dello Stato fu porta­ ta avanti mediante l’eliminazione delle cariche elettive nelle ammini­ strazioni locali, la messa al bando di qualsiasi manifestazione di dissenso, lo scioglimento di tutti i partiti e delle organizzazioni contra­ rie al fascismo. Venne inoltre istituito un Tribunale speciale per la dife­ sa dello Stato e furono introdotti il confino politico e la pena di morte per gli attentatori alla vita dei membri della famiglia reale e del capo del governo e per i reati contro la sicurezza nazionale. Nel 1928 fu realizzato un altro progetto di riforma dello Stato, che si fondava sulla convinzione che le masse non avessero la capacità di assu­ mersi il compito di scegliere i propri rappresentanti. Come sosteneva il ministro della Giustizia Alfredo Rocco, estensore della riforma eletto­ rale presentata in quell’anno, «le masse per se stesse non sono capaci di formare spontaneamente una propria volontà, meno che mai di proce­ dere spontaneamente ad una scelta di uomini». La riforma stabiliva quindi che la selezione dei candidati alla deputazione fosse affidata al Gran Consiglio del fascismo e che le candidature venissero poi sottopo­ ste a un plebiscito. Il Gran Consiglio, organo che dal 1922 aveva il com­ pito di ricondurre a unità le tante anime del movimento fascista, sempre nel 1928 venne «costituzionalizzato», diventando così un vero e proprio organo dello Stato con importanti prerogative tra cui la facoltà di inter­ venire sulle scelte politiche del PNF, di preparare l’elenco di possibili successori di Mussolini da sottoporre al re e di decidere in merito alla successione al trono. La fascistizzazione dello Stato fu completata defi­ nitivamente nel 1939 quando, cancellando gli ultimi residui di legittima­ zione popolare, la Camera dei deputati fu trasformata nella Camera dei fasci e delle corporazioni. Mussolini assunse infatti su di sé la facoltà di nominare per decreto i deputati, scegliendoli in base al ruolo ricoperto nelle istituzioni statali e di partito. Anche l’organizzazione del partito risentì della virata impressa al si­ stema istituzionale nel gennaio 1925. L’anno successivo, infatti, venne promulgato un nuovo statuto del PNF. Furono temporaneamente chiu­ se le iscrizioni, fu avviato un processo di epurazione tra i quadri perife­ rici e tutte le cariche cessarono di essere elettive. Al Gran Consiglio ve­ niva riconosciuto il ruolo di «organo supremo» del partito e ad esso ve­ niva attribuita la facoltà di scegliere il segretario del PNF, il quale nominava i segretari federali che a loro volta individuavano quelli dei fasci locali. Nel 1929 fu introdotto un nuovo statuto del PNF che preve­ deva che la nomina delle cariche passasse attraverso istituti statuali: il segretario del partito veniva nominato con decreto reale su proposta del capo del governo, mentre i segretari delle federazioni erano nomi­ nati con decreto del capo del governo su proposta del segretario del

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PNF. Nonostante questo processo di centralizzazione, il Partito fasci­ sta, tuttavia, non riuscì mai a controllare completamente quei residui di «movimentismo» rimasti attivi soprattutto nelle periferie. Fu anche a causa di questo fenomeno, sempre presente benché marginale, che Mussolini preferì esercitare il proprio potere attraverso le strutture e gli strumenti che l’organizzazione statuale gli forniva, mettendo in su­ bordine quelle del partito. Emblematiche di questa vocazione statalista del fascismo italiano furono le indicazioni, distribuite nel 1923 e nel 1927 dal ministero degli Interni, in cui si ribadiva che a livello periferi­ co, in caso di contrasto tra il prefetto e il segretario federale, la decisio­ ne ultima sarebbe spettata al prefetto. Più in generale, Mussolini voleva assicurarsi la possibilità di giocare la carta dell’ambiguità nel prendere posizioni di fronte ai contrasti tra l’amministrazione statale e il partito, garantendosi una discrezionalità che gli permise di mantenere un con­ trollo assoluto su entrambi i settori. La nomina, nel 1931, di Achille Starace (—»-) alla segreteria del partito accentuò la subordinazione del Subordinazionedel PNF PNF allo Stato. Questi infatti cessò di fare attività propriamente politi­ allo Stato ca e mise il partito al totale servizio della costruzione della liturgia e dei cerimoniali del regime: dalle parate ginniche all’introduzione delle nuove divise, alla creazione del culto del duce. L’opera di ristrutturazione del sistema economico, che col tempo as­ sunse sempre più i caratteri del dirigismo statale, fu anch’essa avviata a partire dal 1925. Con gli accordi di Palazzo Vidoni di quell’anno, infatti, la Confindustria riconosceva nel sindacato fascista il solo rappresentan­ te legittimo del mondo del lavoro, mentre l’anno successivo fu sciolta la CGIL e venne abolito lo sciopero. Inoltre il fascismo, per evitare scontri tra interessi economici diversi e nel tentativo di impostare un modello economico alternativo a quello socialista e a quello capitalista, creò de­ gli organismi di coordinamento, le cosiddette corporazioni (—►), che L'istituzione avevano il compito di comporre, nei vari settori dell’economia, i conflit­ delle corporazioni ti tra imprenditori e lavoratori mediante una pianificazione concordata degli indirizzi economici. Teoricamente finalizzate a mediare le diverse posizioni in nome del superiore «interesse nazionale», le corporazioni diventarono, in realtà, degli organismi dello Stato completamente su­ bordinati al ministero delle Corporazioni, creato nel 1926. Peraltro, né dopo la formale istituzione delle corporazioni nel 1934, né quando fu istituita la Camera dei fasci e delle corporazioni, l’ordinamento corpora­ tivo riuscì a trasformarsi nel motore di un diverso modello economico e rimase piuttosto un’impalcatura burocratica funzionale al controllo to­ Controllo totale tale dello Stato sulla vita economica. Tuttavia la creazione del sistema dello Stato sulla vita corporativo e soprattutto la promulgazione, nel 1927, della Carta del la­ economica voro, dove si richiamava, fra le altre cose, la «solidarietà fra i vari settori della produzione», servirono sul piano propagandistico per accreditare il fascismo come reale alternativa tra capitalismo e socialismo. Dal punto di vista economico, mentre nei primissimi anni del regime Mussolini aveva puntato sulla ripresa della produzione e sul consegui­ mento del pareggio del bilancio mediante una forte pressione fiscale, la riduzione dei salari e della spesa pubblica e ampie concessioni alle im­ prese, a partire dal 1925 il regime impresse una svolta drastica alla poli-

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La nuova politica economica del regime

La «battaglia del grano» e l'obiettivo dell'autosufficienza

La rivalutazione della lira

La recessione produttiva

Sviluppo dei lavori pubblici

Salvataggio dei settori industriali in crisi

Creazione dell'IRI

Storia contemporanea

tica economica. Il nuovo ministro delle Finanze Giuseppe Volpi (—>■) inaugurò infatti una strategia fondata sul protezionismo, sulla deflazio­ ne, sulla stabilizzazione monetaria e su un più accentuato intervento pubblico in economia. Venne quindi reintrodotto il dazio sulle importa­ zioni di grano e zucchero e nel 1925 fu lanciata da Mussolini, con grande enfasi propagandistica, la cosiddetta «battaglia del grano» (—>-) finaliz­ zata al raggiungimento dell’autosufficienza nel settore cerealicolo me­ diante l’aumento della superficie coltivata e l’adozione di tecniche di coltivazione più avanzate. La scelta cerealicola e protezionista, accom­ pagnata da provvedimenti per impedire l’inurbamento delle famiglie contadine, ebbe però l’effetto di accentuare gli squilibri economici tra nord e sud del Paese; finirono infatti per essere penalizzate le colture or­ tofrutticole del Mezzogiorno, la cui esportazione subì un drastico crollo a causa dei vincoli protezionistici. Sempre nel 1926 Mussolini annunciò una forte rivalutazione della lira, il cui cambio con la sterlina fu portato a un’enfatizzata «quota 90», mentre in precedenza il rapporto tra la mo­ neta italiana e quella inglese era di 155 a 1. Questa manovra, con la qua­ le si cercava di rafforzare l’immagine di stabilità e prestigio dell’Italia e rassicurare i ceti medi risparmiatori, raggiunse solo in parte i propri obiettivi; il nuovo tasso di cambio venne infatti sostenuto mediante una drastica riduzione del credito e dei salari e causò una forte contrazione delle esportazioni, tanto che già nel 1927 la produzione economica en­ trò in una fase di recessione. La crisi del 1929, che ebbe non pochi effetti anche sull’economia italia­ na, non produsse contraccolpi sul regime, sia perché la politica tenden­ zialmente autarchica adottata dopo il 1925 ridusse le conseguenze della crisi internazionale sul mercato interno, sia perché Mussolini colse l’occa­ sione della congiuntura economica sfavorevole per potenziare ulterior­ mente gli interventi dirigistici dello Stato. Attraverso lo sviluppo dei lavo­ ri pubblici (strade, ferrovie, cantieristica, edilizia pubblica) il regime cercò infatti di far fronte al brusco aumento della disoccupazione e di rilanciare la produzione. Già tra il 1927 e il 1928 era iniziato il programma di «boni­ fica integrale» che doveva portare al recupero e alla valorizzazione delle terre incolte; esso culminò nei primi anni Trenta con la bonifica dell’Agro Pontino, a sud di Roma, e la costruzione di nuove città come Sabaudia e Littoria. L’altra faccia dell’intervento statale, oltre al massiccio incremen­ to dei lavori pubblici, consistette nel salvataggio dei settori industriali e bancari più colpiti dalla crisi. Il piano mussoliniano di avviare una forte imprenditoria di Stato ebbe i suoi più importanti risultati nella creazione dell’Istituto mobiliare italiano (—►), un ente pubblico fondato nel 1931 col compito di sostituire le banche private nel sostegno alle industrie in diffi­ coltà, e dell’Istituto per la ricostruzione industriale una compagnia finanziaria statale sorta nel 1933 per provvedere al salvataggio delle mag­ giori banche miste. L’IRI, diventando azionista di numerose banche in crisi e rilevandone le partecipazioni industriali, finì per ottenere il con­ trollo su alcune delle principali imprese italiane, come le industrie Ansal­ do e le acciaierie di Terni. Nel 1936 fu inoltre varata una riforma che tra­ sformava la Banca d’Italia in un ente di diritto pubblico, rafforzandone i poteri di controllo sugli altri istituti bancari.

Gli anni tra le due guerre: dalla vittoria delle democrazie alla deriva autoritaria

Nel complesso la politica dirigista degli anni Trenta ebbe taluni aspetti innovativi e positivi, tanto che il PIL (-—>-) e la produzione indu­ striale aumentarono in modo rilevante nella seconda metà del decen­ nio. Di tale ripresa, però, beneficiarono solo alcuni settori industriali, come i gruppi chimici, elettrici e meccanici, a scapito delle industrie tessili e di quelle che si indirizzavano principalmente all’esportazione. A pagare maggiormente i costi del nuovo corso dirigista della politica mussoliniana furono comunque le classi lavoratrici, penalizzate da bas­ si salari e dal fenomeno della sottoccupazione. Mentre, quindi, non fu possibile ridare slancio ai consumi privati, la domanda interna venne sostenuta soprattutto dal settore pubblico, in particolare dopo che con l’intervento in Etiopia e in Spagna, come vedremo, aumentarono le commesse all’industria bellica. Fin dall’inizio Mussolini dedicò particolare attenzione al radicamen­ to del consenso interno e alla fascistizzazione della società; l’obiettivo era quello di creare una sorta di nuova «religione politica» fondata sul culto del duce e sul mito di una patria forte, efficiente e militarizzata. Alla ristrutturazione della scuola il regime aveva provveduto sin dal 1923 con la riforma attuata dal ministro della Pubblica Istruzione Gio­ vanni Gentile, che sanciva il primato delle discipline umanistiche, l’ac­ centramento del sistema scolastico e la preminenza della formazione li­ ceale, unica via d’accesso all’università. Attraverso una costante sorve­ glianza sugli insegnanti e l’introduzione di un testo unico per le scuole primarie, il fascismo giunse al controllo totale sulla scuola e nel 1931 cercò di estenderlo all’università imponendo ai docenti il giuramento di fedeltà al regime; su circa 1.200 professori, solo una dozzina rifiutò di sottoporsi a tale obbligo. La pedagogia totalitaria del fascismo si manifestò poi nella costru­ zione di un’importante rete di organizzazioni di massa. Nel 1926 venne fondata l’Opera nazionale balilla per l’inquadramento di bambini e ado­ lescenti che, oltre a qualche rudimento d’istruzione premilitare, riceve­ vano anche un primo indottrinamento ideologico; nel 1937 essa si fuse con i Fasci giovanili a formare la Gioventù italiana del littorio. Gli stu­ denti furono inquadrati nei Gruppi universitari fascisti, che dipendeva­ no direttamente dal partito e avevano il compito di diffondere l’ideale delP«uomo nuovo» fascista. Il più importante strumento di fascistizza­ zione di massa fu l’Opera nazionale dopolavoro (—►), creata nel 1925 per organizzare il tempo libero degli italiani attraverso il potenziamento del turismo popolare e delle attività culturali e ricreative. Un attento e capillare uso della propaganda, attraverso i cinegiorna­ li trasmessi nelle sale cinematografiche e la radio, servì a consolidare il consenso attorno al regime. Tale opera di organizzazione della cultura e del tempo libero degli italiani culminò nel 1937 con l’istituzione del Ministero della Cultura Popolare (Minculpop), nato dal precedente Ministero per la Stampa e la Propaganda diretto dal genero di Mussoli­ ni Galeazzo Ciano (—>-). Il nuovo ministero divenne il filtro di garanzia del regime, volto non solo al controllo dell’informazione, ma anche alla costruzione del consenso in termini specificatamente culturali. Sempre al fine di garantirsi il sostegno delle masse, il fascismo varò anche

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Penalizzazione delle classi lavoratrici

Radicamento del consenso interno

Controllo totale su scuola e università

La pedagogia totalitaria e le organizzazioni di massa

L'uso capillare della propaganda

Il Ministero della Cultura Popolare

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Legislazione sodale

Politica di potenziamento demografico

L'accordo tra lo Stato italiano e la Chiesa: i Patti Lateranensi

Grande successo propagandistico

L'esilio degli oppositori

Storia contemporanea

un’ampia legislazione sociale che tuttavia, in assenza del pluralismo po­ litico e della normale dialettica sindacale, assunse un carattere più che altro demagogico e paternalistico. Venne ridotto a otto ore l’orario la­ vorativo giornaliero e innalzata da 12 a 14 anni l’età minima per le as­ sunzioni; furono varate norme riguardanti gli infortuni sul lavoro, le malattie professionali, l’invalidità e la vecchiaia. Una particolare atten­ zione fu rivolta alle madri che, nell’ottica della politica di potenziamen­ to demografico per assicurare all’Italia un grande ruolo internazionale, furono assistite attraverso l’Opera nazionale per la maternità e l’infan­ zia (—>), inaugurata nel 1925. Funzionale ad accreditare Mussolini come l’«uomo della provviden­ za», ma soprattutto ad alzare il livello di consenso del fascismo tra le masse cattoliche, fu poi la decisione Mussolini di definire un accordo con la Chiesa al fine di risolvere la spinosa questione dei rapporti tra es­ sa e lo Stato italiano. Gli accordi del Laterano, dal nome del palazzo in cui furono siglati l’i l febbraio 1929, furono sottoscritti da Mussolini e dal Cardinal Pietro Gasparri (—*-) in rappresentanza di Pio XI (->-). I Patti Lateranensi erano composti da un trattato internazionale, da una convenzione finanziaria e da un concordato. Nel trattato, la Santa Sede riconosceva lo Stato italiano, ponendo così fine alla «questione romana» apertasi nel 1870, mentre al Pontefice veniva assicurata la sovranità su una piccola porzione di territorio all’interno della città di Roma, la cit­ tà-stato del Vaticano. Nella convenzione finanziaria lo Stato italiano si impegnava a corrispondere al Vaticano una somma di denaro come ri­ sarcimento per la perdita dei territori pontifici. Nel concordato si defini­ vano invece i diritti della Chiesa in Italia; la religione cattolica veniva elevata a religione di stato, si stabiliva l’esonero dal servizio militare per i sacerdoti, si garantivano effetti civili al matrimonio religioso e l’inse­ gnamento della religione cattolica nelle scuole era reso obbligatorio. Di fronte alle pressioni esercitate dal regime affinché anche i giovani cattolici entrassero nelle associazioni fasciste, il Vaticano accettò di sciogliere tutto il variegato mondo associativo cresciuto all’ombra delle parrocchie, pur di poter conservare la sola Azione Cattolica (^ -). La firma dei Patti non significò comunque un totale asservimento della Chiesa al fascismo; gli spazi di autonomia che gli accordi le lasciavano furono in seguito utilizzati, soprattutto a partire dagli anni Quaranta, per preparare nello spirito dei valori cristiani una nuova generazione di giovani capaci di assumersi responsabilità politiche, nel caso se ne fosse presentata l’opportunità. I Patti Lateranensi rappresentarono invece un grande successo propagandistico per il regime, in quanto Mussolini potè accreditarsi come il leader che era riuscito là dove tutti i governi liberali avevano fallito. Nel marzo 1929, alle prime elezioni indette col nuovo si­ stema del plebiscito, la lista unica fascista ottenne il 98% dei consensi. Alle soglie degli anni Trenta lo Stato italiano era ormai compietamente sottoposto al controllo del regime fascista e l’opposizione interna era stata completamente debellata. Gli avversari erano stati incarcerati, uccisi, in patria o all’estero, o si trovavano in esilio. Direttisi soprattutto in Francia, tranne i comunisti che ripararono in gran parte in Unione So­ vietica e furono i soli a mantenere una rete clandestina in Italia, i fuoriu­

Gli anni tra le due guerre: dalla vittoria delle democrazie alla deriva autoritaria

sciti fondarono a Parigi nel 1927 la Concentrazione antifascista (-—»-) e successivamente, nel 1929, il movimento Giustizia e Libertà (—>), crea­ to da Emilio Lussu (—>-) e Carlo Rosselli (—►). Praticamente sgominata l’opposizione politica interna, soprattutto grazie alla polizia segreta dell’OVRA (—►) istituita nel 1927, una qualche forma di dissenso al fa­ scismo potè sopravvivere solo in ambito culturale. Le massime espressio­ ni della resistenza intellettuale al fascismo furono quelle di Piero Gobet­ ti e di Benedetto Croce il quale già nel 1925, come risposta al Manifesto degli intellettuali fascisti promosso poche settimane prima da Giovanni Gentile, pubblicò il Manifesto degli intellettuali antifascisti, sottoscritto dai più autorevoli rappresentanti del liberalismo democratico. Gli interventi operati dal fascismo, sui diversi piani tracciati, furono funzionali negli anni Venti ad accreditare anche all’estero l’immagine di un’Italia efficiente e stabile, posta al fianco delle altre potenze europee nella difesa di un equilibrio internazionale condiviso. Benché la compo­ nente nazionalista e imperialista fosse parte integrante dell’ideologia fa­ scista fin dalle origini, Mussolini cercò inizialmente di presentarsi come garante dell’ordine europeo stabilito a Versailles. Questo equilibrio si ruppe irreparabilmente nel 1935 quando, sul mito della costruzione di una nuova Roma imperiale, il duce volle ancora una volta mostrare che il fascismo sarebbe riuscito là dove il liberalismo aveva fallito. L’avvio della guerra d’Etiopia, nel 1935, e il successivo allineamento con la Germania nazista accentuarono nel giro di pochi anni la vocazio­ ne totalitaria del regime. Nel 1938 infatti, in linea con la politica tede­ sca, furono varate le leggi antisemite per la difesa della razza italiana. Accompagnate dal Manifesto degli scienziati razzisti, che affermava 1’esistenza di una razza italiana «pura» di origine ariana, le leggi del 1938 ricalcarono la legislazione antisemita varata da Hitler nel 1935: prevedevano infatti l’espulsione degli ebrei stranieri, la revoca della cit­ tadinanza per coloro che l’avevano ottenuta dopo il 1918, il divieto del matrimonio misto e l’esclusione degli ebrei dall’esercito, dall’insegna­ mento e dalle principali cariche pubbliche. La svolta antisemita del regi­ me ebbe tuttavia effetti contrastanti presso l’opinione pubblica, comin­ ciando a incrinare il forte consenso popolare che il regime si era costru­ ito negli anni Trenta. Da un lato, infatti, i giovani militanti del PNF trovarono in essa una nuova spinta rivoluzionaria e le basi di un attivi­ smo politico troppo a lungo oscurato dagli obiettivi di «normalizzazio­ ne» di Mussolini; dall’altro, però, la maggior parte degli italiani, a cui era estranea la cultura antisemita, reagì con perplessità e sgomento e so­ prattutto il mondo cattolico cominciò a dividersi sul consenso a queste misure della politica mussoliniana. Anche se rispetto al totalitarismo nazista, o a quello attuato da Sta­ lin in Unione Sovietica, al fascismo italiano mancò il ricorso indiscrimi­ nato al terrore di massa, secondo la categoria di «totalitarismo» (—>-) elaborata da Hannah Arendt (—>), e nonostante la presenza di contropoteri potenzialmente alternativi a quello mussoliniano, come la Chiesa cattolica, il sovrano e il Senato regio, il regime di Mussolini rappresentò una «forma fascista» di totalitarismo. Il fascismo infatti, che dal punto di vista ideologico era antidemocratico, antiliberale e antirazionalista,

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Croce e il Manifesto degli intellettuali antifascisti

La politica imperialista

La guerra d'Etiopia

L'allineamento alla Germania nazista e le leggi antisemite

Una «forma fascista» di totalitarismo

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Storia contemporanea

mirò al controllo totalitario della popolazione attraverso la politicizza­ zione in senso fascista della società civile, che veniva chiamata a parteci­ pare in massa alla costruzione di uno Stato organico e potente nel quale sarebbe cresciuto l’«uomo nuovo» fascista. 6.5 II nazismo e il progetto politico hitleriano

L'ondata di violenze naziste e l'incendio del Reichstag

Concessione dei pieni poteri a Hitler

Epurazione di tutti gli apparati statali

La «sincronizzazione» tra Stato e Partito

Il 30 gennaio 1933 Hindenburg nominò Hitler cancelliere (cap. 6.2) nella convinzione, condivisa dalle principali forze politiche moderate, che questa fosse la strategia vincente per riportare la NSDAP nel solco della legalità costituzionale. Sciolto nuovamente il Reichstag, le elezioni furono fissate per il marzo successivo. Durante la campagna elettorale i nazisti scatenarono una vasta ondata di violenze che colpì soprattutto gli oppositori legati alle formazioni di sinistra. Sulla KPD venne fatta cadere la responsabilità dell’incendio che divampò nell’edificio del Rei­ chstag nella notte del 27 febbraio, un pretesto che servì a Hitler per ac­ cusare i comunisti di essere in procinto di compiere un’azione eversiva. Alle elezioni la coalizione di destra ottenne 342 seggi, di cui 288 anda­ rono ai nazisti. Tale maggioranza non raggiungeva, tuttavia, i due terzi necessari per attuare riforme costituzionali e Hitler, pertanto, chiese al Parlamento che gli venissero accordati i pieni poteri. Si piegarono alla volontà del nuovo cancelliere tutti i partiti dell’arco costituzionale ad ec­ cezione della SPD. Il Partito comunista infatti, pur avendo fatto elegge­ re 81 deputati, non sedeva più al Reichstag a causa dei provvedimenti as­ sunti dopo l’incendio di febbraio. Anche il Zentrum capitolò dinanzi al­ le richieste di Hitler, dopo che questi aveva negoziato direttamente con la Santa Sede un concordato per regolare i rapporti tra Stato e Chiesa. Forte dei pieni poteri concessigli, Hitler procedette a un’epurazione sistematica di tutti gli apparati dello Stato, dall’università alla burocra­ zia. A maggio fu creato il sindacato nazista del Fronte del lavoro (—►) e il 14 luglio 1933 il Partito nazionalsocialista fu dichiarato l’unico legale in Germania. Nel dicembre dello stesso anno una nuova norma gettò le basi per una sempre maggiore compenetrazione tra Stato e Partito, la cosiddetta «sincronizzazione» (—»■). Essa stabiliva che i membri del par­ tito godevano di uno statuto speciale, sottraendoli ai tribunali ordinari, e che il responsabile politico-organizzativo del partito e il capo delle squadre d’assalto naziste, le SA (-*-), diventavano membri di diritto del governo; in questo modo Hitler riuscì a omogeneizzare l’amministrazio­ ne pubblica secondo gli scopi del partito. Con l’abolizione del sistema federale e la progressiva occupazione delle istituzioni da parte di mem­ bri della NSDAP o di uomini di fiducia del Fiihrer, la «sincronizzazio­ ne» permise di creare un regime autoritario a partito unico senza abro­ gare formalmente il sistema costituzionale preesistente. Il primato del partito e la subordinazione ad esso dello Stato si produssero nei fatti e in una serie di norme che misero fine alla Costituzione di Weimar. A differenza del fascismo italiano, a Hitler furono sufficienti pochi mesi per portare a termine la costruzione dello Stato nazista. Per prima cosa, per tranquillizzare i conservatori e l’esercito, epurò le SA di Ernst

Gli anni tra le due guerre: dalla vittoria delle democrazie alla deriva autoritaria

Rohm (—>-) che, pur avendo svolto un ruolo fondamentale durante gli scontri dei primi anni Trenta, mostravano eccessive velleità di autono­ mia. Nella notte del 30 giugno 1934, nota come la «notte dei lunghi col­ telli», i vertici delle SA, a cominciare da Rohm, furono eliminati da un’altra milizia nazista, destinata da quel momento in poi a crescere enormemente, le squadre di sicurezza SS (-^-) guidate da Heinrich Himmler (-*-). Alla morte di Hindenburg, a fine luglio, Hitler potè ag­ giungere alla carica di cancelliere quella di capo dello Stato e capo su­ premo dell’esercito e il 2 agosto si autoproclamò «Fiihrer del Reich e del popolo tedesco». I partiti e gli oppositori del regime poterono organiz­ zarsi solo in esilio. Anche molti intellettuali, tra cui Thomas Mann (—>■) e Theodor Adorno ( ^ - ) , lasciarono il Paese. Secondo l’elaborazione dei giuristi del regime, il sistema di potere creato da Hitler trovava la propria legittimazione su tre elementi princi­ pali: il popolo, entità mitica a base razziale definita dal sangue e dal ter­ ritorio, lo Stato e il «movimento». Il popolo, messo idealmente al di so­ pra di tutto e lontano da tutti, rappresentava il referente astratto del po­ tere del Fiihrer e ne legittimava l’autorità in virtù di un legame diretto e immediato, estraneo a ogni forma di rappresentanza politica. Procla­ mandosi «mandatario del popolo», Hitler pretendeva così di incarnare il legame naturale e originario tra popolo e capo e, proprio su tali basi, ne­ gava di derivare il suo potere da un atto di sopraffazione personale co­ me nelle dittature tradizionali. Da ciò scaturirono, sotto il profilo giuri­ dico, il Fiihrerbefehl, ovvero il principio per il quale ogni cosa doveva esser sottoposta all’approvazione del capo, e il Fiihrerprinzip, secondo cui ogni controversia doveva risolversi secondo il principio di autorità, che in ultima istanza rimandava alla stessa volontà del Fiihrer. Lo Stato, che formalmente rimaneva quello tradizionale, era stato sottoposto, come abbiamo visto, alla «sincronizzazione» mediante il si­ stema delle unioni personali fra esponenti del partito e ruoli della diri­ genza politico-amministrativa. Il meccanismo della «sincronizzazione», tuttavia, non sempre potè essere applicato fino in fondo, specie nei set­ tori tecnici deH’amministrazione e nell’esercito dove, in molti casi, ci si accontentò che i funzionari non fossero ebrei oppure ostili al regime. La struttura dello Stato, controllata da Hitler e dai suoi uomini di fiducia ma priva di un reale coordinamento, rimandava a tratti l’immagine di un organismo dominato dalla discrezionalità e dal predominio assoluto della volontà del Fiihrer. Inoltre la supremazia della NSDAP sullo Stato, nonostante la concorrenza fra i diversi centri di potere, fu, a differenza del caso italiano, indiscussa. Terzo pilastro del regime, il «movimento», comprendeva non solo il partito, ma anche tutte le organizzazioni di massa volute da Hitler per costruire il consenso e inquadrare la popolazione. Rientravano nella ca­ tegoria del «movimento» la Gioventù hitleriana (—►), il Fronte del lavo­ ro e la Forza attraverso la gioia (—►), creata nel 1933 per gestire il tempo libero e le attività ricreative dei cittadini tedeschi. Di esse il partito, che presentava la struttura piramidale e le simbologie (divise, marce, ban­ diere e slogan) tipiche delle formazioni totalitarie, doveva costituire l’anima e l’élite, occupandosi principalmente di organizzare la liturgia

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L'epurazione dei vertici delle SA e l'affermazione delle SS

Autoprodamazione di Hitler a Fiihrer

Le basi del potere hitleriano: popolo, Stato e «movimento»

Supremazia della NSDAP sullo Stato

Le organizzazioni di massa e la costruzione del consenso

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Crescita del potere delle SS

Terrore di massa e apparato propagandistico

Difesa della razza ariana e persecuzione dei «diversi»

I campi di concentramento

Antisemitismo programmatico

Le leggi di Norimberga

Storia contemporanea

pubblica del regime e la mobilitazione di massa. Più che il partito, furo­ no tuttavia le SS a costituire il nerbo di questa dinamica: inizialmente strutturate come un corpo paramilitare di modeste dimensioni, le SS si trasformarono via via nella vera élite del popolo tedesco, il nucleo raz­ zialmente puro della nuova «grande Germania». Mentre, quindi, il pote­ re delle SS crebbe col passare del tempo, fino a renderle una componen­ te fondamentale del controllo totalitario sulla vita tedesca, il partito venne progressivamente depotenziato delle funzioni politiche. Lo stesso Hitler, in un discorso del febbraio 1934 ai dirigenti della NSDAP, disse loro che dovevano fare propaganda e non politica. Attraverso il terrore di massa, la violenza indiscriminata e un appa­ rato propagandistico abilmente gestito dal ministro della Propaganda Joseph Goebbels (-*-), il nazionalsocialismo procedette sul doppio bi­ nario della costruzione della liturgia del regime e delFeliminazione di oppositori e «diversi». Sul piano propagandistico, grazie soprattutto alla radio, vera e propria voce del regime, il culto del capo e l’orgoglio pa­ triottico fecero dell’ideologia nazista il punto di riferimento della vita, pubblica e privata, di ogni tedesco, stimolando al tempo stesso l’odio verso le minoranze etniche e religiose. La repressione degli oppositori politici e dei «diversi», come omosessuali, zingari, testimoni di Geova, slavi, immigrati, vagabondi e soprattutto ebrei, veniva giustificata in no­ me della difesa della razza ariana dalla minaccia delle «razze parassite». Tutti costoro venivano rinchiusi in campi di concentramento, inizial­ mente finalizzati alla detenzione e allo sfruttamento dei prigionieri. L’allineamento della magistratura, la reintroduzione della pena di mor­ te e l’efficienza delle SS e della Gestapo (—►), la polizia segreta, permi­ sero quindi al nazismo di mettere in atto una campagna sistematica di igiene razziale. Se il terrore dominava nei campi di concentramento, fuori da essi il regime instaurò un clima di insicurezza e intimidazione dove la censura sull’informazione, la soppressione delle libertà politiche e sindacali e l’inserimento obbligatorio e sorvegliato di tutti gli individui nelle organizzazioni naziste rappresentavano la massima realizzazione di un disegno totalitario volto al completo assoggettamento della socie­ tà civile nello Stato. Cuore dell’ideologia nazista erano il concetto di «razza» e il pro­ grammatico antisemitismo, che Hitler aveva già elaborato nel Mein Kampf: il darwinismo sociale e, per certi aspetti, la dottrina nietzschia­ na dell’«oltreuomo» erano i suoi riferimenti teorici ideali, a cui il nazi­ smo faceva ricorso per esaltare la volontà di potenza e la superiorità cul­ turale della razza ariana. L’affermazione della Germania e della razza ariana doveva dunque passare attraverso le politiche di eugenetica, il so­ stegno all’incremento demografico e la conquista dei territori a est, pre­ sentati come «spazio vitale» per il futuro della popolazione tedesca. In questo disegno la repressione della comunità ebraica tedesca subì un’escalation che, come vedremo, culminò nella «soluzione finale» mes­ sa in atto a partire dal 1942. Già nel 1933, tuttavia, furono epurati gli ebrei impiegati nelle amministrazioni statali e comunali e una serie di provvedimenti li escluse dall’esercizio delle libere professioni e dalla do­ cenza universitaria. Nel 1935 le leggi di Norimberga privarono gli ebrei

Gli anni tra le due guerre: dalla vittoria delle democrazie alla deriva autoritaria

della parità dei diritti con gli altri cittadini tedeschi e vietarono i matri­ moni misti fra ebrei e ariani. Dalla discriminazione legislativa si passò, tre anni dopo, alla persecuzione violenta; nella cosiddetta «notte dei cri­ stalli», fra il 9 e il 10 novembre 1938, furono saccheggiati più di 7.000 ne­ gozi di ebrei, 91 persone furono assassinate e 200 sinagoghe incendiate. Da quel momento, e fino al 1939, diverse migliaia di ebrei furono inter­ nati nei campi di concentramento. Oltre alla violenta repressione e alla propaganda, l’altro elemento fondamentale che agevolò la costruzione del consenso al regime hitle­ riano fu la ripresa economica. Salito al potere col chiaro obiettivo di contrastare la disoccupazione e l’iperinflazione, Hitler mise in atto una politica economica di espansione della spesa pubblica per creare nuovi posti di lavoro e assicurare alla Germania un massiccio riarmo. Con­ travvenendo alle clausole del trattato di Versailles, favorì con commesse e lavori pubblici i maggiori trust industriali e li stimolò al potenziamento della produzione bellica. L’aumentata produzione dell’industria pesante e una politica di grandi opere pubbliche riuscirono in pochi anni ad as­ sorbire quasi completamente la disoccupazione. La ripresa produttiva favorì inoltre la crescita dei redditi e dei consumi, mentre la costruzione della rete autostradale incentivò la motorizzazione privata. Con il piano quadriennale varato nel 1936, la cui realizzazione fu affidata a Her­ mann Gòring (—►), la preparazione militare ebbe un’assoluta priorità nell’agenda economica del nazismo, nella convinzione che i tempi fosse­ ro maturi per intraprendere una decisa azione di espansionismo territo­ riale. Meno efficaci si dimostrarono invece le misure a favore dei conta­ dini, seppur celebrati dalla propaganda nazista come le «pupille del re­ gime». Nessun intervento strutturale venne intrapreso per ridurre la grande proprietà fondiaria delle regioni orientali e quasi inesistenti fu­ rono i provvedimenti per favorire la meccanizzazione del lavoro agrico­ lo. Anche l’obiettivo dell’autarchia, ovvero dell’autosufficienza econo­ mica della Germania, non potè essere realizzato e la priorità assoluta data al riarmo finì per causare distorsioni soprattutto negli approvvigio­ namenti dei beni di consumo. Queste difficoltà non modificarono co­ munque i piani di Hitler e nel 1938, in assenza di accordi commerciali con altri Paesi, l’economia tedesca soffriva di un deficit pubblico eleva­ tissimo e della mancanza di materie prime a eccezione del carbone. Molto attento a cementare il consenso fra i cittadini, il regime hitle­ riano dedicò particolare cura alla legislazione sociale e all’assistenza dei lavoratori. Lo Stato si impegnò infatti in una politica sociale e assisten­ ziale; cercando di mantenere bassi i prezzi dei beni di consumo, favorire l’aumento dei salari reali, anche se più che l’aumento delle retribuzioni fu l’allungamento della giornata di lavoro a permettere agli operai di guadagnare di più. Ferie pagate fino a 12 giorni all’anno, colonie estive per i figli dei dipendenti, corsi di formazione professionale e di perfezio­ namento, musica e premi per incentivare il lavoro furono alcuni dei provvedimenti che il regime e gli industriali adottarono per favorire l’adesione dei lavoratori. Completamente emarginate dalla vita lavorati­ va furono invece le donne: epurate dalla pubblica amministrazione, dal corpo della magistratura e dal personale scolastico, le donne furono og-

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La «notte dei cristalli» contro gli ebrei

La ripresa economica

Produzione bellica e preparazione militare

Il mancato obiettivo dell'autarchia

Politica sociale e assistenziale

Esclusione delle donne dalla vita pubblica

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Solido consenso popolare

La conquista dello «spazio vitale» per la popolazione tedesca

Mobilitazione bellica e allineamento con l'Italia

Storia contemporanea

getto di una vera e propria «sacralizzazione» da parte del nazismo, ma solo in quanto procreatrici della razza ariana. Grazie alla forza della propaganda e alla durezza della repressione, il regime riuscì a garantirsi un solido consenso presso il popolo tedesco. Anche i successi ottenuti in ambito economico e sociale, l’alleanza tra il regime e due importanti centri di potere come la grande industria e l’esercito e la debole resistenza che proveniva dalle Chiese furono fattori di politica interna che contribuirono al radicamento della dittatura hitle­ riana. Solo una minoranza di sacerdoti protestanti e cattolici, infatti, si schierò contro il regime. Le crescenti violazioni del concordato del 1933 da parte di Hitler e la diffusione di miti e simboli neopagani indussero comunque papa Pio XI a pubblicare nel 1937 l’enciclica Mit Brennender Sorge (—►), in cui si condannava esplicitamente l’ideologia nazista. Anche la politica estera, che intendeva assecondare i sentimenti di rivincita dei tedeschi nei confronti di Versailles con la promessa di un nuovo ordine europeo dominato dalla razza ariana e incentrato sulla conquista dello «spazio vitale» a est ai danni dei popoli slavi, contribuì a cementare il consenso verso il regime. Coerentemente con questo dise­ gno, Hitler fece uscire, nel 1933, la Germania dalla Società delle Nazio­ ni e l’anno successivo tentò di annettere l’Austria; l’impresa fu però sventata per l’opposizione delle potenze occidentali e dello stesso Mus­ solini, che era all’epoca ancora tra i sostenitori dell’equilibrio del 1919. Nel gennaio 1935, secondo le clausole del trattato di Versailles, si tenne un plebiscito popolare che sancì il ritorno alla Germania del bacino car­ bonifero della Saar. Nel marzo 1936, dopo che era stata ripristinata la coscrizione obbligatoria e l’esercito tedesco aveva ormai superato di gran lunga il contingente fissato nel 1919, Hitler fece occupare dall’eser­ cito tedesco la regione della Renania. Da quel momento in poi la mobi­ litazione bellica divenne incessante e l’allineamento con l’Italia di Mus­ solini mandò in frantumi, come vedremo, i precari equilibri del sistema internazionale creato all’indomani della Prima Guerra mondiale. 6.6 Lo stalinismo

La morte di Lenin e il suo testamento politico

Lenin, che morì il 24 gennaio 1924, aveva redatto negli ultimi anni una sorta di testamento politico nel quale esprimeva le proprie valuta­ zioni e preoccupazioni su coloro che si sarebbero contesi la successio­ ne al vertice del Partito comunista. Di Stalin temeva avesse accumula­ to nelle sue mani troppo potere e ne denunciava la tendenza ad ante­ porre i propri interessi personali a quelli del partito; a Trockij veniva rimproverata una malcelata sicurezza di sé, mentre di Nikolaj Bucharin (—►), considerato il più fine teorico del partito, Lenin metteva in dub­ bio la coerenza marxista delle idee. Nel testamento, inoltre, Lenin esprimeva la necessità di riorganizzare le strutture del governo e del partito, di cui temeva l’eccessiva burocratizzazione e individuava, nel­ la particolare congiuntura che stava attraversando la Russia, il rischio della rottura dell’unità del partito e quello dell’indebolimento dell’al­ leanza tra operai e contadini.

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Sempre nel 1924 fu portata a termine la stesura della Costituzione La Costituzione dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, che era stata istituita dell'Unione il 30 dicembre 1922. Gli organi principali del nuovo Stato federale erano il delle Repubbliche Congresso dei deputati del popolo e il Comitato esecutivo centrale. Il socialiste sovietiche Congresso era eletto a suffragio ristretto e indiretto, secondo un sistema piramidale in cui ogni soviet eleggeva i delegati che andavano a costituire il soviet di livello superiore. Dal diritto di voto rimanevano esclusi tutti gli appartenenti a categorie ritenute potenzialmente ostili al nuovo assetto politico, come i vecchi proprietari terrieri, i commercianti, gli ecclesiasti­ ci, gli ex membri della polizia zarista. Il Congresso si riuniva ogni due an­ Le strutture ni e delegava i propri poteri al Comitato esecutivo centrale, formato da istituzionali due assemblee: il Soviet dell’Unione, composto di circa 400 rappresentan­ ti eletti dal Congresso in proporzione alla popolazione delle varie repub­ bliche, e il Soviet delle Nazionalità, i cui membri venivano nominati dai rappresentanti delle repubbliche. Il Comitato esecutivo si riuniva tre volte all’anno e, in tutti gli altri momenti, la gestione del Paese spettava al Presidium e al Consiglio dei commissari del popolo, il vero e proprio organo esecutivo che stava al vertice dell’apparato amministrativo. L’impianto istituzionale dell’Unione garantiva una certa autonomia alle singole repubbliche, secondo quel principio che Lenin aveva accolto fin dal 1918: «la Repubblica sovietica di Russia si costituisce sulla base di una libera unione di nazioni libere quale federazione delle repubbli­ che sovietiche nazionali». In realtà, il controllo sul vasto territorio Il controllo esercitato dell’Unione era assicurato non tanto dalle strutture istituzionali, quanto dal Partito comunista dal Partito comunista dell’Unione di cui i partiti comunisti nazionali co­ stituivano delle sezioni. Nel corso dei primi anni Venti proprio gli orga­ ni dei partiti nazionali furono quelli sottoposti alle più drastiche epura­ zioni e fin da subito il leader supremo dell’Unione divenne il segretario del Partito comunista. In questo quadro diventavano quindi centrali le scelte del partito. Tuttavia, nonostante già al X Congresso fossero stati posti la necessità dell’unità del partito e il «divieto di frazionismo», con­ tinuava ad esserci fermento sia all’interno della vecchia guardia bolsce­ vica, sia tra i militanti. La morte di Lenin scatenò nel gruppo dirigente bolscevico un’aspra La lotta per lotta per la successione, che riguardò soprattutto le linee di sviluppo la successione a Lenin economico che il Paese avrebbe dovuto adottare. La sinistra del partito, guidata da Trockij, premeva per stimolare al massimo la produzione in­ La linea Trockij dustriale attraverso finanziamenti derivati da una forte imposizione fi­ e quella di «destra» scale sul settore agrario; la destra invece, che faceva riferimento soprat­ tutto a Bucharin, temeva che in questo modo si potesse rompere l’alle­ anza contadini-operai e proponeva, al contrario, un forte sostegno all’agricoltura. Gli altri leader della vecchia guardia bolscevica, come Stalin, dal 1922 a capo della Segreteria del Comitato centrale da cui ave­ va potuto ampliare il controllo sull’intera organizzazione del partito, Lev Kamenev (—*-) e Grigorij Zinov’ev (-^-) non presero una posizione netta sul progetto di sviluppo economico, più attenti, invece, a muoversi in funzione di quanto avrebbero potuto ottenere in termini di potere personale. Alla fine, comunque, in questa prima fase tutti scelsero, in opposizione a Trockij, la soluzione di «destra».

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La denuncia dell'eccessivo centralismo del partito

La linea di Stalin e il «socialismo in un solo Paese»

La sconfitta e l'esilio di Trockij

L'ascesa di Stalin

L'eliminazione di tutti gli antagonisti

Storia contemporanea

La linea di Trockij fu condannata perché la si riteneva lesiva dell’al­ leanza campagna-industria, già fortemente sostenuta da Lenin. In real­ tà, egli era ritenuto pericoloso perché stava denunciando, in linea con un’opposizione maturata tra i vecchi leader della Rivoluzione d’ottobre, l’eccessivo centralismo del partito, che riteneva avesse perso i contatti con la base. Era questo il senso dell’intervento pubblicato da Trockij sul quotidiano «Pravda» (—>-) nel dicembre 1923, dal titolo II nuovo corso: vi si affermava che solo un’autentica democratizzazione del partito, che restituisse ai militanti il potere decisionale e alla dirigenza la capacità esecutiva, avrebbe permesso l’effettivo controllo sulla produzione. Pro­ prio tali posizioni costarono a Trockij la guida dell’Armata Rossa, inca­ rico che aveva ricoperto fin dal 1917. Nel 1925 Stalin lanciò la parola d’ordine del «socialismo in un solo Paese», con la quale si accantonava la prospettiva immediata di una ri­ voluzione mondiale in nome della priorità dello sviluppo del sistema co­ munista in URSS. L’agricoltura della NEP conosceva proprio in quegli anni la sua massima espansione, ma al tempo stesso la propensione dei contadini a trattenere il grano per far aumentare i prezzi adduceva nuo­ vi argomenti a favore di quanti intendevano imprimere al sistema eco­ nomico una sterzata in direzione dello sviluppo industriale. Nel 1926 Kamenev e Zinov’ev si unirono a Trockij e a quel che rimaneva del vec­ chio gruppo operaista, dando vita a un’«opposizione unificata» che con­ dannava la linea di Bucharin e Stalin accusandola di riportare l’URSS verso il deprecato sistema capitalista. La loro completa sconfitta politica si tradusse nell’esilio in Asia centrale per Trockij e in una umiliante ritrattazione per Kamenev e Zinov’ev. Dieci anni più tardi Trockij avreb­ be imputato il proprio fallimento al «trionfo della burocrazia stalinista sulle masse». In effetti Stalin si era impegnato in quegli anni a dare una nuova dimensione di massa al partito, che contava già 1,3 milioni di mi­ litanti, assumendone ben presto l’intero controllo e accentuando l’ac­ centramento interno. Eliminata l’opposizione di sinistra e avendo ben salde le redini del partito, Stalin decise di affrontare il problema, manifestatosi nel 1927, della crisi degli ammassi del grano ricorrendo alle requisizioni forzate e a metodi coercitivi. Era l’abbandono della linea di Bucharin e, in ge­ nerale, della politica di collaborazione con le campagne che era stata a fondamento della NER Consapevole del crescente potere di Stalin, Bu­ charin pubblicò sulla «Pravda» nel settembre 1928 un contributo, Note di un economista, che raccoglieva le sue tesi, cercando in questo modo di avviare un dibattito pubblico sulle linee di sviluppo economico da perseguire. Nel confronto apertosi nel partito, tuttavia, Stalin non af­ frontò lo scontro con Bucharin sul piano delle scelte economiche, bensì su quello politico, enfatizzando le valutazioni che da sempre avevano collocato Bucharin a destra. La sua strategia fu vincente: all’unanimità, infatti, il Comitato centrale del partito condannò la linea di Bucharin come «deviazione di destra». Al tempo stesso Stalin, nel timore di una possibile convergenza delle opposizioni contro di lui, fece espellere dall’Unione Sovietica Trockij. Eliminati, quindi, tutti i possibili anta­ gonisti, Stalin potè diventare l’unico artefice della costruzione a tappe

Gli anni tra le due guerre: dalla vittoria delle democrazie alla deriva autoritaria

forzate del «socialismo in un solo Paese», secondo la formula da lui stesso coniata per evidenziare che l’affermazione del socialismo in Rus­ sia sarebbe stata possibile anche senza una rivoluzione nei Paesi econo­ micamente più avanzati. Il primo piano quinquennale, iniziato ufficialmente nell’ottobre 1928, fu realizzato in quattro anni e tre mesi, secondo quanto stabilito nel corso del 1929 quando Stalin decise di adottare, tra i diversi progetti in discussione, quello con le previsioni di crescita più ardite in nome del­ la necessità di attuare un «grande balzo in avanti» che ponesse l’Unione Sovietica in condizione di competere coi Paesi più industrializzati. Il piano accordava un’assoluta priorità allo sviluppo dell’industria pesante e alla produzione di macchinari e infrastrutture, a scapito dei beni di consumo. Tra il 1928 e il 1932 furono costruite circa 8.000 nuove indu­ strie, la forza lavoro venne massicciamente spostata dalle campagne alle città e furono create dal nulla nuove aree industriali, soprattutto nelle zone a est degli Urali. La pianificazione industriale fu accompagnata nelle campagne, a partire dal 1930, dalla collettivizzazione forzata: i contadini furono costretti a entrare in massa nelle fattorie collettive {Kolchoz —►), mentre i più benestanti, i kulaki, ormai considerati «ne­ mici di classe», divennero oggetto di una vera e propria liquidazione co­ me classe. Coloro che non erano fucilati sul posto, venivano arrestati o deportati in regioni remote. Gli arresti di massa che accompagnarono la collettivizzazione con­ tribuirono a creare le premesse per la riorganizzazione del sistema dei campi di lavoro, che nel corso degli anni Trenta divennero una compo­ nente significativa dell’economia sovietica soprattutto per la produzione di legname e l’estrazione di metalli e combustibili in regioni e in condi­ zioni estreme. Fu istituita l’A mministrazione generale dei campi (gulag —>■), che venne posta sotto il controllo della polizia politica. Nel 1940 esistevano più di 50 campi di lavoro con oltre un milione di detenuti im­ piegati, in condizioni estremamente proibitive, nella costruzione di grandi opere e nel lavoro delle miniere. In alcuni gulag il tasso di morta­ lità per freddo, fame ed epidemie raggiunse il 30%. Nel corso degli anni Trenta il regime di terrore, accompagnato alla costruzione di un vero e proprio culto della personalità di Stalin, colpì anche il partito, che fu sottoposto a drastiche epurazioni e a vere e pro­ prie «purghe». Tali misure raggiunsero il culmine nel 1936-38, il periodo del cosiddetto «Grande terrore» e dei «processi-farsa»: nel primo, 16 op­ positori, tra cui Kamenev e Zinov’ev, furono accusati di «deviazionismo» rispetto alla politica di Stalin e giustiziati. Negli anni successivi vi furono altri processi a carico della vecchia dirigenza bolscevica e anche Bucharin venne condannato a morte. Nel 1940 Trockij, che si trovava in esilio in Messico, fu ucciso da un sicario di Stalin. Attraverso la repressione di massa, un capillare sistema di controlli sociali e politici e la presenza di un apparato ideologico che legittimasse il proprio culto personale, Stalin riuscì quindi a dotarsi di un potere assoluto e totale. Si affermò, a partire soprattutto dalla seconda metà degli anni Trenta, una vera e propria «re­ ligione politica» incentrata sul culto del dittatore, sul recupero dei vecchi ideali patriottici e sulla demonizzazione dei «nemici del popolo».

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Il primo piano quinquennale

Lo sviluppo dell'industria pesante

La collettivizzazione forzata delle campagne

Il sistema dei gulag

Il regime di terrore e le «purghe» staliniane

L'uccisione degli oppositori politici e la repressione di massa Il culto del dittatore

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Il «balzo in avanti» in campo produttivo

Gli enormi costi umani

Censura e propaganda stalinista

Storia contemporanea

Dal punto di vista economico, la collettivizzazione forzata delle cam­ pagne e i piani di industrializzazione cambiarono progressivamente, nel corso degli anni Trenta, la struttura economica del Paese. A fatica l’agri­ coltura era arrivata, dopo il 1935, a migliorare i risultati che erano stati raggiunti con la NEP, mentre il «balzo in avanti» nel campo industriale produsse incrementi notevoli soprattutto nel settore del carbone e dell’acciaio, che aumentarono del 200% rispetto alla produzione del 1928. A fronte di questo forte slancio produttivo, che portò l’URSS a es­ sere la terza potenza industriale del mondo dopo USA e Germania alla vigilia della Seconda Guerra mondiale, i costi umani dell’industrializza­ zione forzata furono enormi. Tra il varo del primo piano quinquennale e il momento in cui si cominciarono a vedere gli effetti dell’operazione economica imposta da Stalin furono circa 8,5 milioni i decessi al di so­ pra del tasso medio di mortalità. Vaste aree del Paese, infatti, tra le qua­ li l’Ucraina, furono colpite nel 1932-33 da una gravissima carestia, frut­ to anche dei terribili sconvolgimenti causati dalla collettivizzazione e dalle requisizioni dei cereali. Di questi costi, tuttavia, poco si sapeva nel Paese. La censura sui mezzi di informazione e il cupo oscurantismo im­ posto alla vita culturale fecero sì che la ripresa economica venisse accol­ ta da un clima di entusiasmo ed esaltazione generali. Inoltre, la propa­ ganda stalinista faceva in modo di giustificare le repressioni con la ne­ cessità di colpire chiunque potesse ostacolare l’obiettivo della costruzio­ ne di una «grande patria sovietica». 6.7 Gli Stati Uniti dalla Grande Guerra al N ew D eal

Le riforme dell'«età progressista»

La presidenza di Theodore Roosevelt

Limitazione dei poteri delle grandi corporations

I primi vent’anni del Novecento rappresentarono per gli Stati Uniti un’epoca di grandi riforme che si indirizzarono su tre linee principali: l’estensione delle funzioni del governo federale, la lotta per limitare l’in­ fluenza dei grandi potentati economici e la tendenza a rafforzare la de­ mocratizzazione del sistema politico mediante l’estensione del controllo dei cittadini sulla vita politica. Definita comunemente come «età pro­ gressista», questa epoca vide il graduale declino della dimensione loca­ le, decentrata e individualista su cui si era fondata la vita pubblica nel secolo precedente e l’avvento di una «democrazia nazionale organizza­ ta», caratterizzata non solo dal rafforzamento dell’autogoverno popola­ re ma anche dell’autorità del presidente e della burocrazia federale. La fase riformatrice ebbe inizio con l’arrivo alla Casa Bianca, nel 1901, di Theodore Roosevelt (-+ ) che succedette al presidente William McKinley (—>) assassinato da un anarchico. Appartenente all’ala progressista del Partito repubblicano, Roose­ velt si distinse subito per la sua immagine di leader energico e decisioni­ sta e per un forte attivismo riformatore. Mentre in politica estera raffor­ zò le pressioni imperiali nel Centro e nel Sud America, che culminarono nel 1903 con la trasformazione di Panama in un protettorato americano, primo passo per la successiva apertura dell’omonimo canale nel 1914, in politica interna Roosevelt si impegnò a contrastare i poteri delle grandi corporations, non tanto perché fosse pregiudizialmente antimonopoli-

Gli anni tra le due guerre: dalla vittoria delle democrazie alla deriva autoritaria

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sta ma perché riteneva che dovessero essere regolati dal governo federa­ le. Negli anni della presidenza Roosevelt si andarono inoltre delineando i primi provvedimenti strutturali di tutela sociale: quasi tutti gli Stati Provvedimenti adottarono leggi sul lavoro minorile e femminile, si cominciarono a isti­ di tutela sociale tuire uffici pubblici di collocamento per la lotta alla disoccupazione e 25 Stati vararono forme di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro. In alcuni Stati comparve il nuovo strumento del referendum, che servì a dare ai cittadini il potere di iniziativa legislativa e di revoca degli eletti alle cariche pubbliche durante il mandato. Alle elezioni del 1912, anche a causa della scissione all’interno del Partito repubblicano dove il gruppo progressista fondò un partito indipendente, vinse il candidato democratico Woodrow Wilson. Questi por­ La presidenza Wilson tò comunque avanti l’impegno progressista, varando, per esempio, nor­ me nazionali contro il lavoro minorile, e rafforzò i divieti alle pratiche anticoncorrenziali dello Sherman Act (—>*) del 1890. Presentatosi come il portavoce di tutto il riformismo del Paese, Wilson vinse le elezioni presidenziali del 1916 e l’anno successivo decise l’intervento degli Stati L'idealismo progressista Uniti nella guerra mondiale (cap. 5.3), facendo leva sullo stesso ideali­ e l'intervento in guerra smo progressista applicato in questo caso al contesto internazionale. L’intervento americano contribuì quindi a dare al conflitto una dimen­ sione mondiale che non aveva all’inizio, anche se poi l’andamento delle trattative di pace e la mancata adesione degli Stati Uniti alla Società del­ le Nazioni sconfessarono in gran parte le aspirazioni wilsoniane di rifor­ mare l’intera politica delle relazioni internazionali. Nel 1919-20, anche a causa di una breve ma intensa recessione eco­ nomica, gli Stati Uniti furono attraversati da un’ondata di scioperi e ri­ vendicazioni operaie che scatenarono una vera e propria «paura ros­ La «paura rossa» sa» nella classe media e fra gli imprenditori. Non solo il piccolo Partito comunista, che era stato fondato a Chicago nel 1919, divenne bersaglio di una violenta campagna da parte delle forze dell’ordine, ma anche attivisti, sindacalisti, immigrati furono arrestati per attività sovversive ed espulsi dal Paese. Negli stessi anni furono però adottati dal governo federale due importanti provvedimenti: nel 1920 entrò in vigore, anche dietro la spinta di potenti lobbies private, un emendamento alla Costi­ tuzione che vietava la produzione, la vendita e il trasporto delle bevan­ de alcoliche e sempre nel 1920 diventò operativo l’emendamento che sanciva il suffragio femminile a livello nazionale. La messa fuori legge Il proibizionismo dell’alcol fu presentata dal governo come un atto patriottico per con­ tribuire all’austerità e all’efficienza dei lavoratori e anche l’emenda­ mento sul voto femminile, approvato dal Congresso fra il 1918 e il Il suffragio femminile 1919, venne proposto da Wilson come passo essenziale nella condotta della «guerra per la democrazia». Superata la depressione dell’immediato dopoguerra, gli Stati Uniti Prosperità economica entrarono in una fase di prosperità economica mai conosciuta prima che senza precedenti diffuse nell’opinione pubblica un’euforia generalizzata protrattasi per tutti i «ruggenti anni Venti». Sfruttando una posizione di assoluto domi­ nio finanziario nel mondo, gli USA si posero al centro del capitalismo mondiale e grazie alla razionalizzazione del lavoro industriale e al nuo­ vo fenomeno del consumismo di massa, crebbero sia la produzione indu-

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L'esplosione dei consumi individuali

La nuova cultura del tempo libero

L'ondata speculativa

Fenomeni di concentrazione oligopolistica

La politica repubblicana

Ripresa dei sentimenti razzisti

Storia contemporanea

striale sia il reddito pro-capite. Fra il 1922 e il 1928 il PIL aumentò del 40% e il settore dei servizi conobbe un’enorme espansione, tanto che al­ la fine del decennio il numero degli occupati nel settore terziario supe­ rava quello degli addetti all’industria. L’aspetto più imponente e durevo­ le di questo straordinario boom economico fu l’esplosione dei consumi individuali, di cui diventarono ben presto il simbolo gli elettrodomestici e le automobili. Grazie infatti all’applicazione del sistema della produ­ zione in serie e all’utilizzo di nuove fonti di energia, come il petrolio al posto del carbone, ebbero un grosso impulso nuovi settori produttivi, come quello chimico e quello automobilistico. Nel 1929 vi erano circa 200 veicoli ogni mille abitanti rispetto ai 12 del 1913. Benché la capacità di consumo non fosse egualmente distribuita in tutte le fasce sociali e soprattutto gli immigrati recenti e i neri degli Stati del sud ne fossero quasi completamente privi, la disponibilità e il facile accesso a beni e servizi a buon mercato finì per alimentare il «sogno americano» di egua­ glianza di opportunità, benessere materiale e ascesa sociale. In questo clima di euforia generalizzata si diffuse anche una nuova cultura del tempo libero, che spinse milioni di individui a frequentare i luoghi dell’intrattenimento di massa, dai grandi magazzini al cinema, e a fre­ quentare i grandi eventi sportivi settimanali. Se, dunque, la produzione di beni di consumo fu il principale fattore trainante del grande boom degli anni Venti, la felice congiuntura econo­ mica produsse anche una crescente ondata speculativa, che interessò sia i grandi investitori sia milioni di piccoli risparmiatori e diventò una del­ le cause scatenanti della crisi del 1929. Inoltre il grande sviluppo di de­ terminati settori, come l’industria automobilistica, elettrica ed elettroni­ ca, favorì i fenomeni di concentrazione oligopolistica e l’accesso di nu­ merose società finanziarie e banche nei consigli d’amministrazione delle principali corporations nazionali. Accanto ai trust e ai cartelli comparvero infatti le Holdings (—*-), ovvero società che concentravano nelle proprie mani le quote azionarie delle maggiori imprese. Mentre in questa fase il governo, a differenza del passato, consentì le fusioni azien­ dali anche quando sfidavano le norme antitrust, le autorità monetarie aumentarono la quantità di denaro in circolazione e ridussero i tassi di interesse, incoraggiando così gli investimenti e le speculazioni in borsa (->-), che divennero febbrili tra il 1928 e il 1929. Dal punto di vista politico, gli anni Venti furono dominati dal Partito repubblicano, prima col presidente Warren Harding (—>-) eletto nel 1920, poi con Calvin Coolidge (—>) e infine con Herbert Hoover (^ -). Fondata su una strategia liberista all’interno e sul disimpegno diploma­ tico in ambito internazionale, la politica repubblicana degli anni Venti favorì l’accumulazione della ricchezza e dei capitali, riducendo le impo­ ste dirette, mantenendo bassa la spesa pubblica e rinunciando alle misu­ re antimonopolistiche. In questo modo il Partito repubblicano riuscì ad assicurarsi un forte consenso presso i gruppi d’interesse economico-finanziario e nell’America «bianca, anglosassone, protestante». L’altra faccia di questa politica conservatrice sul piano sociale fu la ripresa dei vecchi sentimenti xenofobi e razzisti, che spinsero la parte più tradizio­ nalista dell’opinione pubblica americana a rifiutare qualsiasi ipotesi di

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integrazione degli immigrati. Alimentate anche dal fatto che, durante gli anni del proibizionismo, nelle comunità immigrate, soprattutto irlan­ desi, ebree e italiane si era sviluppata una potente criminalità organiz­ zata dedita al contrabbando degli alcolici, queste paure ebbero la loro massima espressione nella rifondazione del Ku Klux Klan, che negli an­ ni Venti, al culmine del suo successo, raggiunse i 2 milioni di iscritti. Dal canto suo, il governo federale rispose alla dilagante paura nei confronti degli immigrati procedendo alla chiusura quasi completa delle frontiere; la misura più drastica fu il Quota Act del 1924 che stabiliva un tetto massimo agli ingressi annuali e un sistema di «quote nazionali» per fa­ vorire l’immigrazione proveniente dall’Europa settentrionale. Nel 1933, invece, venne abrogata a livello nazionale la norma sul proibizionismo, nel tentativo di arginare il fenomeno del contrabbando e gli affari illeci­ ti legati alla vendita degli alcolici. A partire dal 1928 il mercato finanziario degli investimenti in borsa cominciò a seguire logiche in parte autonome rispetto agli indici econo­ mici effettivi, con la conseguenza che la crescita vertiginosa degli scam­ bi di azioni e obbligazioni, maggiore di quella della produzione e dei consumi, fece gonfiare artificiosamente i titoli. Nel corso dell’anno suc­ cessivo, tuttavia, il timore degli effetti di questa distorsione indusse mol­ ti investitori a cercare di vendere i propri titoli, il che ne fece calare im­ provvisamente il valore. Tra il settembre e l’ottobre del 1929, di fronte al massiccio calo delle quotazioni, si scatenò un vero e proprio panico e la corsa alla vendita dei titoli divenne travolgente. Il 24 ottobre 1929 l’indi­ ce della borsa di Wall Street, a New York, crollò vertiginosamente con un ribasso del 50% circa dei principali titoli scambiati. Diversa da tutte le crisi precedenti, quella del cosiddetto «giovedì nero» innescò un effet­ to a catena devastante. Milioni di risparmiatori, impauriti, ritirarono immediatamente tutti i depositi bancari, causando il fallimento di mi­ gliaia di istituti di credito e il blocco degli investimenti. Dalle banche la crisi si propagò subito all’industria e a tutti i settori economici. Tra il 1929 e il 1933 la produzione americana si ridusse di circa un terzo, men­ tre i prezzi dei prodotti industriali diminuirono di oltre il 50% e quelli agricoli scesero di circa il 25%. Le imprese, quando non chiudevano, fu­ rono costrette a operare massicci licenziamenti e a ridurre al minimo i salari: nel 1933 il numero dei disoccupati raggiunse la cifra record di 13 milioni, ovvero circa il 25% della popolazione attiva. Il presidente Hoover, ritenendo che un intervento statale avrebbe aggravato ulteriormente la crisi e che comunque si trattasse di un feno­ meno limitato e temporaneo, sollecitò la collaborazione tra imprendi­ tori e amministrazioni locali, ma non predispose alcun intervento fe­ derale per assistere i disoccupati e ridare spinta alla produttività. Par­ ticolarmente dannosa si rivelò la scelta di mantenere alti i prezzi di grano, cotone e altri prodotti mediante l’imposizione di dazi doganali più elevati. Questa misura, infatti, causò un’immediata flessione del volume degli scambi commerciali con l’estero, riacutizzando la crisi e la sua portata mondiale. Gli effetti del crollo della borsa di Wall Street furono, quindi, disastrosi per l’economia americana sia perché manca­ rono interventi incisivi da parte del governo e delle autorità monetarie,

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La rifondazione del/fu Klux Klan

Il sistema delle «quote nazionali» per l'immigrazione Abrogazione del proibizionismo

La bolla speculativa e il crollo della borsa di Wall Street

Il devastante effetto a catena

Crollo della produzione

Nessun intervento strutturale da parte dell'amministrazione Hoover

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sia perché la recessione giunse al culmine di un ciclo espansivo senza precedenti. La «grande crisi» del 1929 rese pertanto evidente la debo­ lezza di tutte le ottimistiche previsioni circa la crescita illimitata e co­ stante dell’economia capitalistica e mise i governi dei vari Paesi, primo fra tutti quello americano, di fronte alla necessità di rivedere le pro­ prie politiche economiche. L'elezione Proteste, disordini, marce della fame, barricate e violenze di ogni ti­ del democratico po turbarono profondamente l’opinione pubblica americana, creando le Franklin Delano condizioni per il successo, alle elezioni del novembre 1932, del candida­ Roosevelt to democratico Franklin Delano Roosevelt (->-), con il quale si aprì una lunga stagione di dominio del Partito democratico che si sarebbe con­ clusa solo all’inizio degli anni Cinquanta. Fin dal discorso inaugurale della presidenza, Roosevelt denunciò gli egoismi economici privati, le inadempienze della precedente amministrazione repubblicana e assicu­ rò che il governo federale, e il presidente in prima persona, si sarebbero assunti la responsabilità di garantire il benessere a tutta la nazione. Non esitò, quindi, a chiedere al Congresso ampi poteri, come se si dovesse af­ I discorsi radiofonici frontare un’emergenza bellica, e prese a rivolgersi direttamente ai citta­ dini americani attraverso le seguitissime «chiacchierate al caminetto» trasmesse per radio. Con un’azione rapida e vigorosa, Roosevelt si mise immediatamente Il NewDeal all’opera per realizzare il «nuovo patto», il cosiddetto New Deal, pro­ messo ai cittadini. Riordinò le operazioni bancarie e borsistiche per au­ mentarne la trasparenza e l’affidabilità, fornì prestiti agevolati alle fami­ glie, mise in atto tutta una serie di misure, come il rafforzamento dei Contenimento controlli sugli istituti di credito e la svalutazione del dollaro, per conte­ dell'inflazione e aiuti nere l’inflazione. Per l’agricoltura fece approvare una legge speciale che all'agricoltura prevedeva aiuti federali agli agricoltori per regolare la produzione, in­ centivando lo smaltimento del surplus agricolo e la riduzione dei terreni messi a coltura. Sempre nell’ambito del programma d’emergenza del 1933 fu istituita la Tennessee Valley Authority, un ente pubblico incari­ cato di sfruttare le risorse naturali del bacino del Tennessee costruendo dighe, serbatoi e centrali per produrre energia elettrica e fertilizzanti a buon mercato per gli agricoltori. Il successo di questa iniziativa spinse L'impulso ai lavori Roosevelt ad aumentare la quota di bilancio destinata ai lavori pubblici, pubblici allo scopo di combattere la disoccupazione e, di conseguenza, favorire la ripresa dei consumi. Anche se nell’immediato i provvedimenti del New Deal non diedero i risultati sperati, in quanto la ripresa economica fu modesta e la disoc­ cupazione ridotta di poco, essi aprirono la strada a una serie di altre mi­ sure che, nel corso del 1935, fecero emergere fino in fondo l’idea rooseveltiana di un «capitalismo democratico» come alternativa vincente ri­ spetto sia al dirigismo delle dittature fasciste, sia al collettivismo Il «secondo NewDeal» sovietico. Nel cosiddetto «secondo New Deal» il governo lanciò quindi un piano sistematico di lavori pubblici attraverso la Works Progress Administration. Con il Wagner Act, dal nome del senatore democratico proponente, fu definitivamente riconosciuto il diritto dei sindacati di or­ ganizzarsi e di contrattare collettivamente coi datori di lavoro e infine con il Social Security Act venne istituito un sistema di collaborazione tra

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gli Stati e l’autorità federale per provvedere agli assegni di disoccupa­ zione e alle pensioni di vecchiaia. I sindacati, che furono tra i maggiori sostenitori del «nuovo corso» di Roosevelt, conobbero un nuovo vigore dopo la fase di stallo del precedente decennio repubblicano; grandi on­ date di agitazioni operaie triplicarono in pochi anni gli iscritti ai sinda­ cati, che raggiunsero i 9 milioni nel 1940. La più importante delle orga­ nizzazioni sindacali divenne il Congress o f Industriai Organizations, sorto nel 1935, che trovò adesioni soprattutto tra i minatori e gli strati meno qualificati della classe operaia. Nonostante le forti proteste che il New Deal suscitò nei grandi im­ prenditori, immediatamente cavalcate dal Partito repubblicano che se ne fece interprete presso il Congresso e la Corte Suprema, Roosevelt ot­ tenne una schiacciante vittoria alle elezioni presidenziali del novembre 1936, che furono quelle della massima polarizzazione di classe nella sto­ ria americana. Gli operai, infatti, votarono compattamente per il Partito democratico, mentre l’alta borghesia imprenditoriale votò repubblicano. Nello stesso anno il reddito pro-capite era risalito ai livelli degli anni Venti e nel corso della seconda metà degli anni Trenta il New Deal, pur senza raggiungere gli obiettivi economici prefissati e senza riuscire a de­ bellare la disoccupazione che anzi riprese a salire dopo il 1937, divenne l’espressione concreta di un «nuovo liberalismo» americano che affian­ cava al successo individuale la dimensione della solidarietà collettiva. Riprendendo taluni caratteri del riformismo progressista di inizio Nove­ cento, arricchito dai contributi del riformismo sociale europeo, soprat­ tutto britannico e scandinavo, ma anche dalle riflessioni delle femmini­ ste dell’età progressista, il new liberalìsm degli anni Trenta riuscì a dare, nonostante i limiti effettivi delle misure del New Deal e le opposizioni che incontrò, un «tocco socialdemocratico» alla politica americana, fa­ cendo del Partito democratico anche una sorta di «partito del lavoro».

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Nuovo vigore delle organizzazioni sindacali

Polarizzazione di classe alle elezioni presidenziali del 1936 e schiacciante vittoria di Roosevelt

Il newlibemlism degli anni Trenta

6.8 La grande crisi del 1929 in Europa A differenza degli Stati Uniti, usciti dalla guerra come la maggior potenza creditrice, i cui capitali ebbero un ruolo decisivo nel far riparti­ re l’economia europea, i Paesi dell’Europa coinvolti nel conflitto mon­ diale conobbero una ripresa lenta e difficile, condizionata da un’ondata La lenta ripresa di forte conflittualità sociale e da un’impennata dei tassi d’inflazione. economica europea Solo alla fine degli anni Venti, infatti, gli indici di produzione e reddito dei Paesi europei superarono in modo considerevole i valori dell’ante­ guerra. Inoltre il fenomeno dell’inflazione, a cui i governi, salvo quello inglese, non risposero con adeguate misure deflazionistiche, ingenerò una crisi complessiva che toccò il suo apice in Germania. Lo shock cau­ sato dall’iperinflazione tedesca ebbe effetti notevoli anche negli altri Paesi dell’Europa, che intendevano utilizzare i proventi delle riparazio­ ni tedesche per saldare i debiti contratti con gli Stati Uniti negli anni del conflitto. I ritardi e i mancati pagamenti da parte della Germania inne­ I mancati pagamenti scarono quindi un grave circolo vizioso che fu solo in parte attenuato della Germania dal piano Dawes varato dagli Stati Uniti nel 1924. Esso garantì alla Ger-

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mania quella liquidità monetaria che le avrebbe consentito di rimettere in moto la propria economia e al tempo stesso ottemperare al pagamen­ Il piano Dawes to delle riparazioni alle potenze vincitrici. Il programma americano di e i prestiti investimenti, tuttavia, finì per legare in modo ancor più stretto l’econo­ alla Germania mia degli USA a quella europea; i capitali americani servirono infatti alla Germania per ripagare le potenze europee creditrici e da queste ve­ nivano utilizzati per saldare i debiti di guerra con gli Stati Uniti. A queste condizioni di fragilità dell’economia europea si aggiunge­ La politica monetaria vano anche fattori legati alla politica monetaria inglese. La Gran Breta­ britannica gna, infatti, per rafforzare il tradizionale primato della propria moneta, istituì nel 1925 il gold exchange standard, un sistema che stabiliva di af­ fiancare la sterlina all’oro come mezzo di pagamento internazionale, in modo tale che le banche centrali dei vari Paesi potessero scegliere se an­ corare la propria valuta solo all’oro o anche alla sterlina. Ne conseguiro­ no non soltanto l’aumento della percentuale di riserve valutarie nelle banche centrali dei Paesi europei, ma anche un certo irrigidimento nei rapporti di scambio tra le monete, che finì per limitare gli spazi di inter­ vento delle autorità monetarie nazionali. Inoltre quando, nel 1928, la Francia decise di convertire in oro tutte le proprie riserve di valuta este­ ra, ne risultarono indebolite sia la sterlina sia l’efficacia complessiva del gold exchange standard. A causa della centralità americana nel mercato mondiale e della forte dipendenza dell’economia europea da quella statunitense, la Le conseguenze drammatica crisi del 1929 ebbe un «effetto domino» su tutti i Paesi in­ della crisi del 1929 dustrializzati. Fatta eccezione per la neonata Unione Sovietica, dove il sui Paesi occidentali regime socialista e la collettivizzazione economica la rendevano per molti aspetti immune dai pericoli del mercato internazionale, tutti gli altri Paesi subirono i gravi effetti della recessione americana. Il Paese più colpito fu la Germania, dove la crisi del 1929 aggravò il malconten­ to sociale e la debolezza delle istituzioni repubblicane (cap. 6.2). Ma anche l’Austria e i Paesi dell’Europa centro-orientale, che maggior­ mente avevano beneficiato del flusso di investimenti americani, furono pesantemente travolti dalla recessione e dalla disoccupazione. Colpiti furono anche Brasile e Argentina, in quanto produttori ed esportatori di materie prime e derrate agricole, mentre la Gran Bretagna fu co­ stretta nel 1931 a svalutare la sterlina per far fronte alla crisi di produt­ tività e alla contrazione delle esportazioni. Un provvedimento questo che, oltre a segnare il definitivo declino dell’Inghilterra dal ruolo tra­ Declino del gold dizionale di «banchiere del mondo», compromise seriamente il già exchangestandard precario sistema di gold exchange standard. Dopo la Gran Bretagna, infatti, altri 25 Paesi scelsero di uscirne e nel 1933, quando lo fecero anche gli Stati Uniti, i Paesi che ancora aderivano al «blocco dell’oro» erano solamente sei, tra cui l’Italia. Innalzamento L’innalzamento delle barriere doganali a protezione dell’econo­ delle barriere doganali mia interna fu la ricetta adottata dalla maggior parte dei governi eu­ ropei per far fronte all’emergenza, con la conseguenza però di spezza­ re l’unità economica mondiale raggiunta nei primi due decenni del XX secolo e di danneggiare soprattutto il Paese che ne era stato il motore. Infatti proprio quando, fra il 1932 e il 1933, l’economia ame-

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ricana cominciava a dare segni di ripresa, essa si trovò pesantemente colpita dagli effetti delle misure protezionistiche e anticicliche varate dai Paesi europei. 6.9 Francia e Gran Bretagna: un ventennio dominato dai conservatori L’immediato dopoguerra rappresentò un momento di crisi per i siste­ mi politici europei, stretti tra le difficoltà economiche della ricostruzio­ ne, le lotte sociali che ne derivarono e la minaccia di una grande rivolu­ zione proletaria sul modello della Russia bolscevica. Nonostante questo, Francia e Gran Bretagna riuscirono a salvaguardare le istituzioni liberal-democratiche sorte nel corso dell’Ottocento garantendosi, pur con qualche difficoltà, una relativa stabilità nella politica interna. Questo avvenne, in entrambi i Paesi, all’insegna di un progetto politico tenden­ zialmente conservatore che, superata la fase acuta delle agitazioni ope­ raie e del pericolo rivoluzionario del biennio 1919-20, permise alle classi dirigenti moderate di ricostruire, per quanto possibile, gli equilibri poli­ tici e sociali degli anni precedenti la Grande Guerra. In Francia la coalizione di centro-destra che vinse le elezioni del 1919 mise in atto una rigorosa politica deflativa per garantire la stabilità monetaria e soprattutto usò il pugno di ferro nei confronti degli scioperi e delle manifestazioni contro la disoccupazione che dilagarono nel Pae­ se nel corso del 1920. Nonostante la radicalizzazione dei conflitti socia­ li, la sinistra si trovava divisa, come nel resto dell’Europa, da quando la nascita della Terza Internazionale, nel 1919, aveva posto ai partiti socia­ listi il problema dell’espulsione dei riformisti e del cambio del nome. AlFinterno della SFIO, dove una parte dei dirigenti, tra cui Léon Blum (—►), erano contrari all’adesione, si produsse un acceso dibattito che portò nel 1920, durante il Congresso di Tours, alla nascita del Parti communiste franqais (PCF), sezione dell’Internazionale comunista. Benché inizialmente eterogeneo e composto di numerose correnti non tutte disposte ad accettare i precetti dell’Internazionale leninista, il PCF finì per irrigidire la propria vocazione operaista e i termini dello scontro di classe, scegliendo dunque la via dell’isolamento, come peral­ tro imposto dalla Terza Internazionale. Nel 1924, pochi mesi prima delle elezioni, i radicali promossero la formazione di un cartello elettorale delle sinistre che includeva anche i socialisti e l’operazione fu premiata con la vittoria elettorale. Il nuovo governo, presieduto dal leader radicale Édouard Herriot (—*-) e al quale i socialisti diedero solo un sostegno esterno, non riuscì tuttavia a far fronte alla grave crisi economico-finanziaria in corso, dovuta al forte deprezzamento del franco, e cadde nel 1925 dopo aver presentato una proposta socialista di tassazione dei capitali per risolvere l’emer­ genza finanziaria. Fu tuttavia nel 1926 che l’esperienza del cartello radical-socialista ebbe fine definitivamente. Di fronte infatti alla gravità della situazione economica del Paese e alla difficile tenuta della coali­ zione di sinistra, fu chiamato a presiedere un governo di unità nazio-

Salvaguardia delle istituzioni liberal-democratiche in Francia e Gran Bretagna Orientamento conservatore

La spaccatura della sinistra francese e la nascita del Partito comunista

L'esperienza del cartello radical-socialista

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Il governo di unità nazionale di Poincaré

Ripercussioni della crisi americana

La radicalizzazione dello scontro politico

Il tentativo di colpo di Stato delle destre nel 1934

Storia contemporanea

naie, ma senza socialisti e comunisti, il moderato Raymond Poincaré, già presidente della Repubblica durante la guerra e capo del governo nei primi anni Venti. Grazie a una ferma politica di rigore e alla solida maggioranza parlamentare che lo appoggiava, Poincaré riuscì a garan­ tire la stabilizzazione economica e nel 1928, dopo la necessaria svalu­ tazione del franco, la produzione industriale e le esportazioni riprese­ ro a crescere. In politica estera, come vedremo, questa fu la fase del dialogo con la Germania che sembrò stemperare le acute tensioni deH’immediato dopoguerra. Anche in Francia, tuttavia, la crisi della borsa americana dell’otto­ bre 1929 ebbe ripercussioni drammatiche: la produzione industriale tornò a scendere ai livelli prebellici e il bilancio dello Stato andò in pas­ sivo. I governi di centro-destra che si succedettero fra il 1929 e il 1932 cercarono di far fronte alla crisi e all’elevata disoccupazione attraverso misure protezionistiche e il forte contenimento della spesa pubblica. L’introduzione, nel 1930, dell’assicurazione nazionale contro malattie, anzianità e infortuni, i cui costi furono ripartiti tra imprenditori e lavo­ ratori, non servì a contenere il diffuso malessere della classe operaia e del ceto medio per la drastica caduta del potere d’acquisto delle loro re­ tribuzioni. Alle elezioni del 1932, le forze moderate furono sconfitte, ma i perduranti dissensi tra radicali e socialisti impedirono la forma­ zione di maggioranze di governo stabili e capaci di rilanciare la proget­ tualità politica della sinistra. Mentre infatti la SFIO continuava a esse­ re divisa al proprio interno in numerose correnti e i radicali si dimo­ stravano incapaci di elaborare un nuovo progetto politico, il quadro sembrava dominato, come del resto stava accadendo anche in Germa­ nia (cap. 6.2), dalle formazioni estreme. A sinistra il PCF, superate le incertezze strategiche dei primi anni, aveva radicalizzato la tattica dello scontro di classe e intrapreso una du­ ra battaglia antisocialista. Ma fu soprattutto sul fronte dell’estrema de­ stra che i primi anni Trenta videro un forte impulso organizzativo. Dopo la crisi deìVAction frangaise seguita alla scomunica pontificia del 1926, si formarono numerose leghe e gruppi paramilitari che, ispirandosi più o meno direttamente al fascismo e al nazismo, si mobilitavano contro le istituzioni parlamentari in nome di un programma ultranazionalista e autoritario. Nel 1934 la minaccia dell’estrema destra, dove il gruppo me­ glio organizzato politicamente e militarmente era la Croix de Feu (—>■), raggiunse il culmine quando, all’inizio di febbraio, una variegata coali­ zione di questi movimenti, muovendo sull’onda dell’emozione suscitata nel Paese dalla scoperta di uno scandalo politico-finanziario, tentò di assalire il Parlamento. L’intervento delle forze dell’ordine, che produsse una quindicina di morti e quasi 2.000 feriti, impedì che la sollevazione andasse a buon fine ma l’episodio, oltre a intaccare la già debole credibi­ lità della classe politica, diede la misura della gravità della minaccia re­ azionaria. Mentre la classe dirigente cercò di rispondere a questa sfida rinnovando la formula dei governi di ampia coalizione, dalla destra re­ pubblicana ai radicali, il Partito comunista cominciò a comprendere che la linea settaria dell’isolamento a tutti i costi si stava rivelando perdente dinanzi al rischio del contagio fascista che stava investendo la Francia.

Gli anni tra le due guerre: dalla vittoria delle democrazie alla deriva autoritaria

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Fu così, quindi, che, dopo gli eventi del febbraio 1934, tanto tra alcuni La nuova strategia intellettuali comunisti quanto nella base del partito si fece strada l’idea del Partito comunista della necessità dell’unità di azione coi socialisti. Tale impulso venne rac­ colto dal leader del PCF Maurice Thorez (—>-), che al Congresso del giugno 1934, rivolgendosi alla SFIO, lanciò l’appello all’«unità a tutti i costi» e alcuni mesi dopo lo estese anche agli esponenti di sinistra del gruppo radicale. La mutata strategia del PCF che, come vedremo, aprì la strada a un ripensamento delle pregiudiziali antisocialiste all’interno dell’Internazionale, diede il via a una nuova fase della politica francese che avrebbe caratterizzato gli anni fra il 1936 e il 1939. Anche in Gran Bretagna gli anni compresi tra le due guerre mondia­ li furono dominati politicamente dai conservatori all’interno, però, di un quadro politico complessivo del tutto mutato rispetto all’anteguerra. Alle elezioni del 1918, che si svolsero con la nuova legge elettorale che Successo elettorale estendeva il suffragio a tutti i cittadini maschi e alle donne con più di 30 della coalizione anni già in possesso del diritto di voto amministrativo, la coalizione fra tra liberali i liberali di Lloyd George e i conservatori di Andrew Bonar Law (—*■) e consevatori ottenne un successo schiacciante. Il Partito laburista, che pure aveva ot­ in Gran Bretagna tenuto un largo consenso elettorale, fu penalizzato dal sistema maggio­ ritario secco e conquistò solo 59 seggi. Al di là dei risultati, le elezioni del 1918 sancirono la fine della progressive alliance, che dal 1906 aveva tenuto insieme liberali e laburisti e soprattutto la fine dell’autonomia politica dei liberali. Anche sul fronte del nazionalismo irlandese il qua­ dro era cambiato. Il rinvio dell’applicazione dell’Home Rule per l’Irlanda, che era stato approvato nel 1914 ma non ancora applicato a causa dello scoppio della guerra, aveva infatti prodotto, come vedremo, una forte radicalizzazione delle tensioni e alle elezioni del 1918 il nuovo par­ Il Sinn Féin irlandese tito del Sinn Féin (-+ ), molto diverso dal vecchio gruppo nazionalista tradizionalmente alleato dei liberali, ottenne ben 73 seggi. Il governo di coalizione tra liberali e conservatori, sorto per salva­ guardare l’unità del Paese durante la guerra e guidato fino al 1922 da Lloyd George, non ebbe vita facile nonostante l’ampia maggioranza di cui godeva alla Camera dei Comuni. La grave recessione economica e l’aumento vertiginoso dell’inflazione produssero infatti, tra il 1919 e il 1920, una vasta ondata di scioperi e agitazioni sociali, che si andarono ad aggiungere all’acuirsi della violenza terroristica in Irlanda. Nel 1922 e nel 1923 si ebbero ben due tornate elettorali che sancirono il netto avanzamento dei laburisti, mentre il Partito comunista, fondato nel 1920, rimase sostanzialmente marginale. Di fronte all’impasse prodotto dall’esito delle elezioni del 1923, dove i conservatori persero la maggioranza assoluta e i liberali, momentanea­ mente ricompattatisi, negarono il loro sostegno a un governo conserva­ tore, nel gennaio dell’anno successivo si formò un governo laburista di minoranza, presieduto dal suo storico leader Ramsay MacDonald ( ^ -), che si reggeva sull’appoggio esterno dei liberali. Il primo governo labu­ Breve vita del primo rista della storia inglese ebbe, tuttavia, vita brevissima. A ottobre infatti governo laburista sull’onda dello scandalo, sapientemente orchestrato dalle opposizioni, della Red Letter (—>-) che faceva presupporre stretti rapporti tra il Par­ tito laburista e i bolscevichi, la legislatura fu sciolta per la terza volta in

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Il nuovo governo conservatore

Il grande sciopero del 1926

Il secondo governo MacDonald

L'emergenza disoccupazione

La svalutazione della sterlina

I governi conservatori e la ripresa produttiva

Storia contemporanea

due anni e le elezioni diedero una massiccia vittoria al Partito conserva­ tore, facendo perdere ai liberali oltre un milione di voti e causandone, di fatto, un netto ridimensionamento politico. Il nuovo governo conservatore, presieduto da Stanley Baldwin (—»-) e con Winston Churchill (—»-) cancelliere dello Scacchiere, attuò una poli­ tica economica estremamente rigorosa riuscendo, nel 1925, a raggiunge­ re la parità aurea della sterlina. La politica di austerità e contenimento dei salari causò tuttavia duri scontri coi sindacati. Le tensioni furono particolarmente alte nel settore minerario, il più penalizzato, in quegli anni, dalla contrazione dei mercati esteri e dall’impiego di nuove fonti di energia. Le proteste dei minatori culminarono nel maggio 1926 in un grande sciopero che coinvolse anche tutte le altre categorie di lavoratori salariati. Nonostante la vastissima mobilitazione, che si protrasse fino al­ la fine dell’anno, il governo rispose con estrema fermezza e i minatori, progressivamente isolati, dovettero cedere. Il Partito laburista, che all’inizio si trovò penalizzato dal carattere radicale di questa lotta e vide ridursi notevolmente il numero degli iscritti, riuscì comunque a risalire la china e si affermò alle elezioni del 1929. Dotato questa volta di un’ampia legittimazione elettorale, anche se non della maggioranza assoluta, Mac­ Donald tornò alla guida del governo, ma si trovò immediatamente a do­ ver affrontare le gravi ripercussioni della crisi economica mondiale. Nel 1931 i disoccupati superarono la soglia del 13% e, mentre il bi­ lancio dello Stato toccava un forte passivo, i sindacati si mostrarono ir­ removibili di fronte all’eventualità che i tagli alla spesa pubblica toccas­ sero le indennità di disoccupazione. Nonostante l’opposizione del parti­ to, MacDonald decise di accettare l’invito del sovrano a formare un governo di ampia coalizione per far fronte all’emergenza; tale operazio­ ne gli costò tuttavia l’espulsione dal partito, da cui uscì con un gruppo di parlamentari. La leadership del Partito laburista passò quindi ad Ar­ thur Henderson (—>•). Varato in agosto, il nuovo esecutivo, che com­ prendeva quattro laburisti, quattro conservatori e due liberali, decise immediatamente di abbandonare la parità aurea della sterlina, che in questo modo si svalutò di circa un terzo. Alle elezioni di ottobre i con­ servatori raccolsero quasi 12 milioni di voti e si trovarono, di fatto, a egemonizzare la maggioranza di governo, mentre l’opposizione laburi­ sta ritornava ai Comuni fortemente penalizzata dalla scissione. MacDo­ nald, ormai «ostaggio» della maggioranza conservatrice, continuò co­ munque a rimanere alla guida dell’esecutivo fino al 1935, quando passò la mano al leader conservatore Baldwin. Nel corso della seconda metà degli anni Trenta il quadro politico bri­ tannico rimase sostanzialmente stabile. Prima con Baldwin poi con Neville Chamberlain (—»-), i conservatori continuarono a rimanere alla guida del Paese e gli indici della produzione ripresero a crescere, anche se la disoccupazione rimase sempre piuttosto elevata. A differenza della Francia, dove la minaccia dell’estrema destra fu particolarmente violen­ ta, in Gran Bretagna la sfida fascista non destabilizzò il sistema politico. Nel 1932, per iniziativa di un ex esponente laburista, Oswald Mosley (—►), venne fondata la British Union o f Fascists che comunque, dopo un iniziale successo di immagine, non ebbe mai un ruolo significativo.

Gli anni tra le due guerre: dalla vittoria delle democrazie alla deriva autoritaria

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6.10 La risposta dei Fronti Popolari alle minacce del nazifascismo: il caso della Francia Nel corso degli anni Venti la strategia politica della Terza Internazio­ nale, controllata dal Partito comunista sovietico, rimase fermamente ancorata al presupposto della contrapposizione frontale nei confronti dei partiti democratico-borghesi e ancor più di quelli socialisti, secondo la dottrina del «fronte unico» delineata fin dal 1919 nel Congresso di fondazione dell’Internazionale. In base a questa linea, ai partiti comuni­ sti dei vari Paesi veniva impedita, in nome della tattica della «classe con­ tro classe», qualsiasi alleanza, elettorale o politica, non solo coi partiti progressisti di stampo borghese ma anche con le socialdemocrazie, defi­ nite come l’«ala sinistra del fascismo». Anche l’avvento del fascismo in Italia, infatti, venne interpretato dall’Internazionale e dai comunisti ita­ liani come uno dei possibili esiti dello scontro frontale che si era avviato nel dopoguerra, sull’onda della Rivoluzione bolscevica, tra le forze della reazione e quelle della rivoluzione proletaria. Ritenendo che non fosse possibile alcun compromesso o mediazione tra questi due estremi, per­ ché il fascismo era solo una delle tante facce in cui poteva manifestarsi il dominio capitalistico-borghese, l’Internazionale giudicava le posizioni dei partiti socialisti, disposti ad accettare le forme istituzionali della de­ mocrazia liberale, un arretramento e un tradimento degli ideali rivolu­ zionari più autentici. Per le socialdemocrazie europee, che proprio di­ nanzi alla minaccia del fascismo intendevano dare la priorità alla salvaguardia del sistema parlamentar-costituzionale, venne quindi coniato il termine di «socialfascismi». Questa radicalizzazione dello scontro finì tuttavia per danneggiare i partiti comunisti, che si ritrovarono completamente isolati. Emble­ matico fu, in Francia, l’isolamento del PCF che alle elezioni del 1932 ottenne solo 11 deputati. Ancor più grave era la situazione delle sini­ stre in Germania, dove la contrapposizione tra socialdemocratici e co­ munisti aprì la strada alla presidenza di Hindenburg (cap. 6.2) e contri­ buì, indirettamente, all’affermazione del nazionalsocialismo. A criti­ care la linea del «fronte unico» si levò, fin dalla metà degli Venti, la voce di Antonio Gramsci. Osservando la crisi politica in cui precipitò il fascismo dopo l’assassinio di Matteotti, Gramsci sostenne la necessi­ tà che i comunisti si inserissero nella lotta a fianco degli altri gruppi antifascisti. L’obiettivo della dittatura del proletariato rimaneva per Gramsci il fine principale, ma egli metteva in discussione il modo pro­ posto dall’Internazionale per raggiungerlo. La rigidità delle posizioni della Terza Internazionale cominciò a es­ sere rivista nei primi anni Trenta, dopo l’avvento al potere di Hitler. In realtà, già negli anni Venti i Paesi, specie quelli dell’Europa centro­ orientale e balcanica, dove le istituzioni democratiche erano più recenti e meno solide avevano visto instaurarsi dittature di stampo autoritario che presentavano alcuni tratti affini al fascismo mussoliniano: fu il caso di Ungheria, Bulgaria, Polonia, Jugoslavia ma anche Spagna, dove nel 1923 fu attuato un colpo di stato militare, e Portogallo che vide imporsi nel 1926 la dittatura autoritaria di Antonio de Oliveira Salazar (-»-).

La strategia politica della Terza Internazionale

Il divieto di stringere qualsiasi alleanza

Isolamento dei partiti comunisti

La critica di Gramsci

Le dittature di stampo autoritario nell'Europa centro-orientale, Spagna e Portogallo

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Il caso tedesco

Il travagliato cambiamento di rotta dell'Internazionale

La nuova politica di alleanze dell'URSS

Dal «fronte unico» al «fronte popolare»

Priorità alla lotta al nazifascismo

Il caso della Francia

Storia contemporanea

Ma se il fascismo italiano e i regimi autoritari sorti in Europa negli anni Venti erano stati tutti interpretati dall’Internazionale comunista come altrettante espressioni dell’oppressione borghese, l’ascesa del nazismo, col suo carattere brutale e guerrafondaio, mise in evidenza non solo la fragilità dell’equilibrio geopolitico dell’Europa, ma anche la debolezza dei partiti comunista e socialdemocratico tedesco; essi infatti, anche a causa della lotta frontale che li contrapponeva, non erano riusciti a fer­ mare l’avanzata di Hitler. Il cambiamento di rotta dell’Internazionale, anticipato dal richiamo all’«unità a tutti i costi» del PCF nel 1934 (cap. 6.9), fu tuttavia lungo e travagliato e venne reso possibile solo dal mutamento delle politiche di alleanza dell’URSS. Stalin temeva infatti che, con l’avvento del nazi­ smo, si tornasse ad accentuare l’isolamento del suo Paese, a fatica allen­ tatosi nel corso degli anni Venti, e l’uscita della Germania dalla Società delle Nazioni e dalla Conferenza di Ginevra sul disarmo, nel 1933, lo spinsero a cercare legami con Francia e Inghilterra. L’URSS riuscì quin­ di a farsi ammettere alla Società delle Nazioni nel 1934 e iniziò i nego­ ziati con la Francia che sfociarono nel patto franco-sovietico del maggio 1935. Anche se i partiti comunisti dei vari Paesi non assecondarono in­ tegralmente i cambiamenti di rotta nella diplomazia sovietica, il nuovo atteggiamento di Stalin verso le democrazie europee e il clima culturale e ideologico che stava prendendo corpo in Europa circa la radicalizzazione dello scontro tra fascismo e antifascismo favorirono il passaggio dalla strategia del «fronte unico» a quella del «fronte popolare». L’obiet­ tivo prioritario di impedire che gruppi di estrema destra giungessero al potere nei vari Paesi dell’Europa cominciò infatti a essere condiviso da una pluralità di forze, comprese quelle comuniste, che misero la lotta al nazifascismo al primo posto rispetto a qualsiasi altra pregiudiziale. Il passaggio alla strategia del Fronte Popolare, ammesso dall’Inter­ nazionale comunista fin dal giugno 1934, venne ufficializzato in occa­ sione del VII Congresso del luglio 1935, quando fu approvato il rappor­ to del leader bulgaro Georgj Dimitrov (—>) in cui si affermava l’interes­ se dei partiti comunisti ad aderire a coalizioni coi partiti socialisti e liberal-borghesi per la difesa dei sistemi costituzionali democratici in chiave antifascista. In questo senso i partiti comunisti venivano invitati ad abbandonare il rigido settarismo degli anni precedenti per stringere alleanze con tutte le formazioni politiche dalla chiara vocazione antifa­ scista e per sostenere i governi democratici. Se dal punto di vista gene­ rale la nuova linea del Fronte Popolare contribuì a ricompattare par­ zialmente le organizzazioni del movimento operaio europeo, sul piano politico l’alleanza tra i partiti comunisti e quelli socialisti e liberal-progressisti in chiave antifascista ottenne risultati concreti solo in Francia e Spagna. In quest’ultimo Paese, come vedremo, nel febbraio 1936 una co­ alizione di Fronte Popolare, comprendente anche il partito comunista, vinse le elezioni politiche. In Francia un cartello elettorale formato da PCF, SFIO, radicali e gruppi minori si formò in vista delle elezioni dell’aprile-maggio 1936. Aggiudicandosi complessivamente 386 seggi contro i 222 ottenuti dai partiti dell’opposizione, il Fronte Popolare vinse le elezioni. Forte fu

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l’avanzamento dei comunisti, che passarono da 11 a 72 deputati, buona l’affermazione dei socialisti che ottennero 149 seggi, mentre i radicali ne persero una cinquantina. La vittoria del fronte antifascista consegnò il governo nelle mani del leader della SFIO, Blum. Composto da ministri socialisti e radicali e col sostegno esterno del PCF, l’esecutivo del Fronte Popolare varò immediatamente una serie di importanti provvedimenti, tra cui un piano di grandi lavori pubblici, un nuovo statuto per la Banca di Francia, l’aumento dell’obbligo scolastico fino a 14 anni. All’inizio di giugno furono poi siglati gli accordi di Palazzo Matignon coi sindacati e coi rappresentanti del mondo imprenditoriale. Essi prevedevano l’istitu­ zione di contratti collettivi di lavoro, l’aumento dei salari, la rinuncia al­ le sanzioni contro gli scioperi e l’approvazione della libertà sindacale per i lavoratori. Subito dopo Blum riuscì a far approvare dalla Camera anche l’istituzione delle ferie pagate per due settimane e la riduzione della settimana lavorativa a 40 ore. Questa fase iniziale di grande progettualità politica, che suscitò enormi speranze nei lavoratori francesi, ebbe però vita breve. Da un la­ to, infatti, le difficoltà economiche in cui versava il Paese costrinsero Blum alla svalutazione del franco e a rallentare, già all’inizio del 1937, il piano riformatore per far fronte all’emergenza economica; dall’altro, gli scioperi e le occupazioni di fabbriche, con cui la classe operaia chiedeva al governo di accelerare i tempi delle riforme, ebbero l’effetto di suscita­ re un’ondata di paura nelle classi medie. Nel giugno 1937, dopo che l’in­ flazione e la fuga di capitali all’estero gli avevano progressivamente alie­ nato l’appoggio degli imprenditori e degli ambienti finanziari, Blum fu costretto a dimettersi. Dopo la parentesi di un governo radicale senza i socialisti, la formula del Fronte Popolare tornò a essere presentata da Blum nel marzo 1938 ma il nuovo esecutivo fu messo in minoranza al Senato, che votò contro la proposta del capo del governo di farsi conce­ dere i pieni poteri per fronteggiare la crisi economica sempre più grave. Con la caduta di Blum, nell’aprile 1938, e la formazione del governo pre­ sieduto dal radicale Eduard Daladier (-»-), al quale i socialisti non par­ teciparono, l’esperienza del Fronte Popolare si chiuse definitivamente.

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La vittoria elettorale del Fronte Popolare

La fine dell'esperienza del Fronte Popolare

6.11 La Spagna dalla Seconda Repubblica alla Guerra Civile La Spagna, uscita dalla scena internazionale dopo la sconfitta del 1898 nella guerra con gli Stati Uniti (cap. 2.6 e cap. 3.1), ritornò al centro del confronto politico europeo negli anni Trenta del Novecento. La guerra civile che travolse il Paese dal 1936 al 1939 venne infatti interpre­ tata da molti contemporanei come il primo grande scontro tra fascismo e antifascismo, una prova generale, cioè, di quello che sarebbe successo di lì a poco con lo scoppio della Seconda Guerra mondiale. In realtà, le cause della guerra civile spagnola ebbero un carattere prevalentemente interno e solo l’ambigua interferenza degli Stati europei nel conflitto lo portarono ad assumere una dimensione sovranazionale. Nel 1923, con un colpo di stato approvato dal sovrano, il governato­ re militare di Barcellona Miguel Primo de Rivera (—*-) instaurò una

La guerra civile spagnola

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Il colpo di stato militare

La promulgazione della Costituzione repubblicana

La limitazione dei privilegi della Chiesa

Il tentativo di riforma dell'esercito

Storia contemporanea

dittatura militare con l’obiettivo di garantire l’ordine dopo i sommovi­ menti del cosiddetto «triennio bolscevico», tra il 1918 e il 1921. In que­ gli anni, infatti, la Spagna aveva assistito alla crescita delle attività se­ mi-insurrezionali degli anarchici e delle rivendicazioni dei ceti popola­ ri, le cui condizioni erano particolarmente dure sia nelle campagne, ancora dominate dalla grande proprietà terriera, sia nel nascente setto­ re industriale. Nonostante alcuni successi in campo economico, come la riduzione della disoccupazione grazie a un massiccio piano di lavori pubblici, la dittatura di Primo de Rivera non riuscì a placare il malcon­ tento e finì semmai per accentuare le aspirazioni democratiche presen­ ti nei ceti intellettuali e in una parte delle forze armate. Nel 1930 rasse­ gnò quindi le dimissioni e l’anno successivo, dopo il tracollo elettorale dei partiti monarchici alle elezioni amministrative, anche il re Alfonso X III (—»•) decise di abdicare. I partiti tradizionali della sinistra spagno­ la, repubblicani, radicali, socialisti e comunisti, sostenuti da un vivace e consistente movimento anarchico, proclamarono la repubblica e con­ vocarono le elezioni dell’Assemblea Costituente, i cui lavori si conclu­ sero nel dicembre 1931, con la promulgazione della Costituzione repub­ blicana che istituiva il suffragio universale, la separazione tra Stato e Chiesa e la libertà religiosa. L’avvio della Repubblica non avvenne, tuttavia, in modo pacifico e semmai esacerbò le tensioni da sempre presenti tra i poteri forti della tradizione spagnola, come la Chiesa, l’esercito e i grandi proprietari ter­ rieri da un lato, e le forze politiche della sinistra laica, riformista e ancor più di quella rivoluzionaria dall’altro. L’istruzione scolastica, che era controllata in larga parte dalle organizzazioni cattoliche, venne affidata a istituzioni pubbliche attraverso un poderoso piano di investimenti. Ol­ tre a questo il governo del repubblicano Manuel Azana (—>■), in carica nel 1932-33, sciolse l’ordine dei gesuiti e fece cancellare la sovvenzione della «congrua» (—>-) che tradizionalmente lo Stato versava alla Chiesa. Tale scelta, in linea con la disposizione costituzionale che sanciva la lai­ cità dello Stato, finì per spostare verso sentimenti antirepubblicani e conservatori ampi settori del basso clero che, per la condivisione con le classi sociali più svantaggiate di condizioni di vita assai precarie, avreb­ bero potuto nutrire simpatie verso il nuovo ordine politico. Anche l’esercito fu sottoposto dalla nuova classe dirigente repubbli­ cana a un processo di rinnovamento che mirava a colpire la tradizionale autonomia delle forze armate e a riportarle sotto il controllo del potere politico. Il governo cercò quindi, da un lato, di allontanare attraverso il pensionamento anticipato tutta la vecchia guardia militare e, dall’altro, aprì le strutture di formazione degli ufficiali anche ai sottufficiali, nell’intento di avviare un processo di democratizzazione all’interno di un circuito tendenzialmente autoreferenziale, chiuso e potente. Quest’operazione riuscì, tuttavia, solo in parte: lo zoccolo duro dell’eser­ cito, i cosiddetti Africanistas (—>■) ovvero gli ufficiali di stanza nel Ma­ rocco spagnolo, riuscirono a conservare le proprie tradizionali posizioni di forza e cominciarono a covare risentimento verso la Repubblica. I grandi proprietari terrieri, che rappresentavano l’aristocrazia spa­ gnola e controllavano le principali leve del potere economico, furono

Gli anni tra le due guerre: dalla vittoria delle democrazie alla deriva autoritaria

danneggiati da una riforma agraria che mirava ad avviare un meccani­ smo di redistribuzione delle terre e ad introdurre obblighi a carico del latifondista. Essendo tuttavia il governo diviso sulla destinazione da da­ re alle terre espropriate, dal momento che i socialisti puntavano a un uso collettivo mentre i repubblicani le volevano destinare a piccoli pro­ prietari indipendenti, alla fine prevalse una legge di compromesso che ebbe effetti sostanzialmente limitati. Varata nel 1932, la legge portò nei due anni successivi ad espropriare solo lo 0,5% delle terre. Se l’azione volta a modificare i rapporti di forza alFinterno della so­ cietà spagnola radicalizzava lo scontro tra le vecchie e le nuove élite, nei primi tre anni della Repubblica il quadro politico subì trasformazioni di rilievo. A sinistra, infatti, le diverse forze politiche erano divise sugli obiettivi da perseguire. Nel corso dei primi tre anni repubblicani si ebbe infatti la doppia defezione degli anarchici, che giudicavano poco incisive le riforme prodotte dal governo, e dei radicali che, contrari a qualsiasi intervento limitativo della proprietà privata, si spostarono progressiva­ mente verso posizioni più moderate. I diversi gruppi della destra, colti sostanzialmente impreparati dall’avvento della Repubblica, avviarono un processo di unificazione nella convinzione che la loro tradizionale frammentazione fosse stata all’origine della disfatta del 1930-31. Ad ec­ cezione dei cartisti, quindi, le formazioni moderate e conservatrici die­ dero vita alla Confederazione spagnola destre autonome (CEDA); al tempo stesso, José Antonio Primo de Rivera (->-), figlio del dittatore che aveva retto la Spagna negli anni Venti, fondò la Falange (—►), un movimento di stampo ultranazionalista che presentava diverse assonan­ ze con il fascismo italiano e che ottenne fin da subito cospicui aiuti fi­ nanziari dal regime di Mussolini. Alle elezioni del 1933, che fecero seguito alle dimissioni del governo dopo una violenta sommossa organizzata a gennaio dal movimento anarchico catalano, la CEDA conquistò la maggioranza relativa dei vo­ ti. Si aprì dunque il cosiddetto bienio negro, che vide la fine della fase ri­ formatrice dei due anni precedenti e il ritorno dell’iniziativa politica nelle mani del conservatorismo più radicale. La reazione a quello che fu percepito dalle sinistre come il tentativo di riportare La Spagna sotto il controllo dei vecchi poteri si manifestò in una serie di sommosse e agita­ zioni che, organizzate dalle frange estreme degli anarchici e dal piccolo Partito comunista, dilagarono in diverse zone del Paese tra il 1934 e il 1936. Anche il Partito socialista guidato da Largo Caballero (—>-) si radicalizzò, abbracciando la strategia rivoluzionaria, mentre il governo re­ presse ovunque nel sangue i tentativi insurrezionali. Alla vigilia delle elezioni del 1936, quindi, la polarizzazione del conflitto politico aveva raggiunto livelli altissimi e la frattura ideologica tra i due fronti, uno ali­ mentato dal mito della rivoluzione proletaria, l’altro sotto il crescente fascino dei fascismi europei, era ormai insanabile. All’inizio del 1936, dopo lo scioglimento anticipato del Parlamento, si tennero nuove elezioni e le forze di sinistra, in sintonia con la strategia del VII Congresso dell’Internazionale comunista, costituirono un’alle­ anza pre-elettorale in chiave antifascista. La coalizione del Fronte Po­ polare spagnolo raccolse quindi l’intero schieramento della sinistra, dai

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L'inconcludente riforma agraria

La trasformazione del quadro politico

L'unificazione dei gruppi di destra nella CEDA

Nascita della Falange

Il bienio negro

Tentativi insurrezionali e repressione violenta

Le elezioni del 1936

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Vittoria del Fronte Popolare e colpo di mano militare del generale Franco

L'appoggio degli altri Paesi europei

I volontari antifascisti delle Brigate Internazionali

La vittoria dei nazionalisti di Franco

Storia contemporanea

repubblicani fino al gruppo trotzkista del Partito operaio di unificazio­ ne marxista (POUM) e agli anarchici. La vittoria del Fronte Popolare, favorita anche da un sistema elettorale che premiava i raggruppamenti più forti, spinse le destre a tentare la conquista del potere attraverso un colpo di mano militare. L’iniziativa della sollevazione fu presa dal gene­ rale Francisco Franco (—>) che, cogliendo l’occasione dell’assassinio del leader della destra José Calvo Sotelo ( ^ - ) , nel luglio 1936 guidò la ribel­ lione delle guarnigioni di stanza in Marocco. Allo scoppio della guerra civile in Spagna, i governi delle altre nazio­ ni europee scelsero ufficialmente di non intervenire e, per iniziativa di Gran Bretagna e Francia, si costituì un Comitato di non intervento a cui aderirono anche Germania, Italia e Unione Sovietica. Tuttavia, nono­ stante l’accordo, Germania e Italia appoggiarono militarmente le trup­ pe di Franco, mentre l’URSS inviò massicci aiuti alle forze repubblica­ ne, in particolare al Partito comunista. Accorsero intanto in Spagna da tutto il mondo decine di migliaia di volontari antifascisti, che diedero vi­ ta ai gruppi armati delle Brigate Internazionali (—>■) che combatterono per tutta la durata del conflitto a fianco dell’esercito repubblicano. La guerra fu lunga, estremamente violenta e brutale da ambo le par­ ti. I ribelli nazionalisti, sostenuti dalla Chiesa e dalla maggior parte del­ le forze armate, poterono contare anche sul massiccio appoggio di forze italiane, soprattutto terrestri, e di unità aeree tedesche che effettuarono bombardamenti a tappeto sulle città e, il 26 aprile 1937, giorno di merca­ to, raserò al suolo la città basca di Guernica. Le forze repubblicane, che operarono anch’esse con estrema violenza soprattutto contro il clero, sottoponendo a processi sommari un gran numero di religiosi e di ap­ partenenti alle classi agiate, si ritrovarono assai presto divise al loro in­ terno. Gli anarchici e il gruppo dell’estrema sinistra del POUM davano infatti la priorità a provvedimenti rivoluzionari di espropriazione e so­ cializzazione delle terre, mentre i comunisti privilegiavano la conduzio­ ne della guerra e, forti anche degli aiuti sovietici, attuarono vere e pro­ prie «purghe» interne, soprattutto ai danni degli anarchici. Le divisioni interne al raggruppamento repubblicano e il progressi­ vo venir meno degli aiuti internazionali e dei volontari, in un contesto che lasciava ormai presagire lo scoppio di una nuova guerra mondiale, consentirono ai nazionalisti di Franco di chiudere vittoriosamente la guerra all’inizio del 1939. Conquistata Barcellona a gennaio e due mesi dopo Madrid, Franco emanò il 1° aprile il bollettino della vittoria fina­ le, dopo aver rifiutato con forza qualsiasi ipotesi di cessazione negozia­ ta dei combattimenti.

Capitolo 7

Politiche estere a confronto negli anni tra le due guerre

7.1 La questione irlandese: un problema irrisolto 7.2 II fallimento del «sistema Versailles» 7.3 Addomesticare Hitler: la politica dell'appeasement

7.1 La questione irlandese: un problema irrisolto Fin dagli anni Sessanta del XIX secolo la classe politica inglese do­ vette affrontare i problemi posti dalla necessità di governare uno Stato Uno Stato multinazionale che comprendeva Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda. multinazionale Nel caso del Galles, nonostante la popolazione usasse la propria lingua e seguisse le chiese protestanti non-conformiste (—>), le differenze cul­ turali e religiose non avevano creato un vero movimento separatista; an­ che la Scozia, pur avendo alle spalle una forte tradizione culturale e un sistema giuridico diverso da quello inglese, si era integrata nell’assetto politico-istituzionale britannico e fino agli anni Trenta del Novecento non nacque alcun partito nazionalista scozzese. Diverso era invece il ca­ Il caso dell'lrlanda so dell’Irlanda (cap. 2.1), dove le proteste dei fittavoli per il costo della terra, e soprattutto la contrapposizione tra la maggioranza cattolica na­ zionalista da una parte e la minoranza protestante del nord-est dall’al­ tra, crearono crescenti tensioni col governo di Londra per tutta la secon­ da metà del XIX secolo. Mentre l’arma usata dai deputati nazionalisti irlandesi favorevoli aWHome Rule, guidati da Charles Stewart Parnell (-*-), era prevalentemente quella dell’ostruzionismo parlamentare con­ tro le leggi del governo, in Irlanda una violenta campagna di intimida­ zioni e proteste fu promossa soprattutto dal movimento feniano e dalla Irish Land League (—>-), che spingeva gli affittuari a non pagare le pi­ gioni e attaccava i proprietari terrieri. Fallito, nel 1886, il disegno di legge di Gladstone suWHome Rule ir­ Il fallimento landese, che causò la spaccatura del Partito liberale e la nascita dei libe­ del disegno di legge rali unionisti (cap. 2.1), le tensioni sociali e politiche in Irlanda aumenta­ suWHome Rule ne\ 1886 rono portando alla nascita, nel 1896, del Partito repubblicano socialista irlandese, fondato da James Connolly (-—>-) con l’obiettivo di saldare la causa dell’indipendenza irlandese con quella della lotta di classe e della rivoluzione socialista. Mentre il Partito nazionalista si riorganizzava per

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Storia contemporanea

impulso del suo nuovo leader John Redmond (->-), nel 1905 veniva fon­ dato ufficialmente dall’ex feniano Arthur Griffith (-—>-) il movimento indipendentista repubblicano e radicale del Sinn Féin. La questione dell’Home Rule irlandese tornò quindi prepotentemen­ te alla ribalta durante i governi liberali di inizio Novecento. Anche se, dopo la grande vittoria elettorale del 1906, i liberali speravano di non dover affrontare nuovamente la delicata questione irlandese, la crisi po­ litico-istituzionale del 1909-11 finì per attribuire agli 82 parlamentari ir­ I deputati irlandesi alla Camera dei Comuni landesi della Camera dei Comuni il ruolo di ago della bilancia della maggioranza governativa. Dopo l’approvazione del Parliament A ct del 1911, che non solo toglieva alla Camera dei Lord ogni potere sulle leggi finanziarie ma consentiva ai Comuni di superare il veto della Camera Alta anche sulle leggi ordinarie, la battaglia per l'Home Rule potè con­ cludersi con una prima, parziale vittoria per i nazionalisti irlandesi. No­ nostante, infatti, l’opposizione dei liberali unionisti, che rappresentava­ no i protestanti dell’Irlanda nord-orientale, e dei conservatori, il dise­ gno di legge sull’autonomia irlandese venne finalmente approvato tra l’aprile 1912 e il maggio 1914. Il lungo iter parlamentare per l’approvazione della legge suÌYHome Rule, che prevedeva l’istituzione di un Parlamento autonomo a Dublino e la riduzione della rappresentanza irlandese in quello di Westminster, Inasprimento fu tuttavia accompagnato da fortissime tensioni nelle nove contee delle tensioni dell’Irlanda nord-orientale che costituivano la provincia dell’Ulster ed nell'Ulster erano abitate in maggioranza da protestanti. Come risposta all’eventua­ lità di un Parlamento irlandese autonomo, gli unionisti dell’Ulster orga­ nizzarono YUlster Volunteer Force, mentre il leader conservatore Bonar Law si spinse a sostenere la causa della resistenza armata dei protestanti dell’Ulster. Lo spettro di una guerra civile apparve quanto mai vicino nel gennaio 1914, quando arrivò in Irlanda un carico di diverse migliaia di fucili destinati ai volontari dell’Ulster e nei mesi successivi ben 57 uf­ ficiali dell’esercito inglese di stanza in Irlanda si dimisero piuttosto che imporre con la forza la politica dell’Flome Rule nelle province nordorientali. Fu tuttavia l’inizio del conflitto mondiale, nell’estate del 1914, ad allontanare momentaneamente il problema irlandese. Il governo, in­ La guerra fatti, iscrisse l'Flome Rule Act nel libro degli statuti ma con la clausola e la rimandata che sarebbe diventato operativo solo un anno dopo la conclusione della applicazione guerra. Pur non entusiasti di questa dilazione, Redmond e i nazionalisti AeWHomeRule Act irlandesi appoggiarono lo sforzo bellico della Gran Bretagna e anche i volontari dell’Ulster furono dirottati sul fronte occidentale. Temporaneamente accantonato, il problema irlandese balzò nuova­ mente in primo piano nella primavera del 1916, quando, la domenica di Pasqua, i membri del Sinn Féin, assieme ad attivisti di altre organiz­ zazioni politiche e socio-culturali, si impadronirono della sede della posta centrale di Dublino. Benché si trattasse in origine di un gesto per lo più simbolico e l’atteggiamento dominante a Dublino fosse di ostilità verso il Sinn Féin, la risposta del governo di Londra fu partico­ La rivolta di Dublino larmente dura, anche perché l’insurrezione si protrasse per un’intera e ia sanguinosa settimana. La rivolta, che non riuscì a ottenere in tempo l’auspicato repressione inglese appoggio dei tedeschi, venne repressa in un bagno di sangue; fra gli irNascita del Sinn Féin

Politiche estere a confronto negli anni tra le due guerre

landesi vi furono 318 morti e oltre 2.000 feriti, mentre nell’esercito bri­ tannico i caduti furono 116. A colpire l’opinione pubblica furono, però, soprattutto le 15 condanne a morte inflitte ai capi dell’insurrezione, che diventarono immediatamente, agli occhi degli irlandesi, martiri della causa indipendentista. La radicalizzazione del problema irlandese, prodotta dagli eventi del 1916, si vide chiaramente alle elezioni del 1918; mentre nelle pro­ vince del nord furono eletti una ventina di unionisti, in quelle meridio­ nali il vecchio Partito nazionalista riuscì a far eleggere solo 6 deputati, mentre ben 72 furono i candidati del Sinn Féin che uscirono vittoriosi. Rifiutatisi di recarsi a Westminster, i deputati del Sinn Féin costituiro­ no all’inizio del 1919 un Parlamento autonomo a Dublino (Dàil Éireann) e proclamarono unilateralmente l’indipendenza dell’Irlanda, fa­ cendo appello alla Conferenza di pace di Parigi affinché fosse ricono­ sciuto per gli irlandesi il principio wilsoniano di autodeterminazione dei popoli. La presidenza della neonata Repubblica venne affidata a Eamon de Vaierà (-+ ), ma la situazione continuò ad aggravarsi a cau­ sa del mancato riconoscimento dell’indipendenza irlandese da parte del governo britannico che, con la sua maggioranza unionista, non era disposto ad adottare un atteggiamento conciliatorio dinanzi alle ri­ chieste del Dàil irlandese. Fra il 1919 e il 1920 si ebbe quindi una re­ crudescenza degli scontri tra l’esercito britannico e il braccio armato del Sinn Féin, Ylrish Republican Arm y (—>) creata nel gennaio 1919. Di fronte alla sempre più forte opposizione che la politica di rappresa­ glia suscitava nell’opinione pubblica britannica, Lloyd George fu co­ stretto a concedere nel 1920 il Government oflreland A ct che istituiva due parlamenti separati per il nord e il sud dell’Irlanda, nel tentativo di garantire i protestanti dell’Ulster e, allo stesso tempo, trovare una conciliazione con il Parlamento di Dublino. Il compromesso, pur soddisfacendo gli unionisti dell’Ulster, non fu abbastanza per il Dàil e nel corso del 1921 il governo di Londra non potè far altro che aprire i negoziati per una soluzione che garantisse la piena autonomia alle province meridionali dell’Irlanda. Il 6 dicembre, quindi, Lloyd George siglò coi rappresentanti irlandesi un trattato che proclamava lo Stato libero d’Irlanda e lasciava al Regno Unito sei del­ le nove contee che formavano l’Ulster. Si trattava di un ibrido costitu­ zionale che manteneva la finzione di un legame tra la Corona britanni­ ca e il Free Irish State, inserito come dominion (-—»-) all’interno del Commonwealth (—►), ma gli garantiva comunque ampie autonomie. La forzata separazione dal Nord Irlanda fu accettata dagli estremisti dell’IRA solo a prezzo di una sanguinosa guerra civile, che lacerò il Paese nel corso del 1922. Negli anni successivi, pur cessando gli scontri più cruenti, il nazio­ nalismo irlandese continuò a crescere e nel 1927 si ebbe la scissione dal Sinn Féin del gruppo del Fianna Fàil (Partito del destino) guidato da Eamon de Vaierà. Nel 1937 venne promulgata la Costituzione re­ pubblicana, la quale stabilì che la denominazione Free Irish State fos­ se sostituita dal nome gaelico Éire (Irlanda). Solo nel 1949, dopo aver mantenuto la neutralità nella Seconda Guerra mondiale, l’Éire diven-

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Prodamazione unilaterale dell'indipendenza

Mancato riconoscimento britannico e recrudescenza degli scontri La creazione M'Irish Republican Army

Lo stato libero dìrlanda e la separazione forzata dall'Ulster

La Costituzione repubblicana dell'Éire

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Storia contemporanea

ne ufficialmente indipendente. Veniva così meno qualsiasi legame con il Commonwealth britannico e l’Éire assunse il nome di Repub­ blica d’Irlanda. 7.2 II fallimento del «sistema Versailles» Gli anni immediatamente successivi alla Conferenza di pace di Pari­ gi sembrarono prolungare il clima di tensione e insoddisfazione che ave­ va accompagnato le trattative del 1919. In assenza di una leadership for­ La difesa te alFinterno della Società delle Nazioni, Francia e Gran Bretagna, che dello status quo erano state le principali beneficiarie degli accordi di pace, ne assunsero europeo di Francia il controllo, cercando di difendere lo status quo europeo e di contenere e Gran Bretagna diplomaticamente i potenziali revisionismi dei Paesi dell’Europa centra­ le e orientale dove era venuto meno il ruolo equilibratore svolto tradi­ zionalmente dall’Impero asburgico. Mentre la Gran Bretagna siglò nel 1922, assieme a Stati Uniti e Giappone, gli accordi di limitazione degli armamenti navali, la Francia cercò di costruire una rete di alleanze eu­ ropee per ottenere quelle garanzie di sicurezza che non aveva consegui­ La rete di alleanze to a Versailles. Decise dunque di stipulare alleanze difensive con Belgio francesi e Polonia nel 1920-21 e strinse rapporti coi Paesi della cosiddetta «pic­ cola intesa», ovvero Romania, Cecoslovacchia e regno jugoslavo che nel 1920 si erano uniti per opporsi alle mire espansionistiche dell’Ungheria. La strada degli accordi coi piccoli Paesi dell’Europa centrale e orientale proseguì negli anni successivi; con essi la Francia mirava sia ad estende­ re la propria influenza economica nell’area, sia a sostituire il vecchio le­ game franco-russo, accerchiando nuovamente la Germania. Tuttavia, anche se il «sistema francese» contribuì sul piano strategico a stabilizzare l’Europa continentale, l’ambizione di Parigi di dare all’Eu­ ropa una sistemazione secondo i vecchi criteri ottocenteschi avrebbe ri­ chiesto un potenziale finanziario e militare molto maggiore di quello di cui effettivamente disponeva. La guerra mondiale, infatti, aveva com­ promesso lo storico primato economico europeo e la forte inflazione postbellica aveva prodotto una grave instabilità monetaria, rendendo lungo e complesso il ritorno alla normalità. A questo si aggiungevano il rifiuto del governo bolscevico di pagare i debiti internazionali contratti La questione dei debiti in epoca zarista e le tensioni tra gli stessi Paesi alleati sulla questione dei di guerra debiti di guerra: la Francia intendeva saldarli solo dopo aver ricevuto le riparazioni tedesche, mentre gli Stati Uniti non erano disposti a conce­ dere alcuna dilazione. Mentre la Germania si era garantita, con il trattato di Rapallo del 1922, la ripresa dei normali rapporti diplomatici con l’Unione Sovietica, grazie alla reciproca rinuncia ai pagamenti dei danni di guerra, il pro­ L'occupazione blema delle riparazioni finanziarie fu aH’origine di una nuova accentua­ franco-belga della Ruhr zione della storica rivalità franco-tedesca. Di fronte, infatti, alla tattica ostruzionistica adottata dal governo di Berlino nei pagamenti delle ripa­ razioni, Francia e Belgio, nel gennaio 1923, occuparono militarmente la zona industriale della Ruhr (cap. 6.2). La scelta innescò una crisi che ri­ schiò di compromettere i fragili equilibri raggiunti nel 1919, tuttavia

Politiche estere a confronto negli anni tra le due guerre

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proprio tale crisi rappresentò il momento di svolta nelle relazioni tra Francia e Germania, aprendo la strada a una politica di stabilizzazione che sarebbe maturata tra il 1925 e il 1929. Chiave della svolta fu la deci­ Stabilizzazione sione di porre su basi negoziali la contrapposizione tra i due Paesi: da dei rapporti una parte, infatti, il ministro degli Esteri francese Aristide Briand (-—>-) franco-tedeschi capì che era necessario uscire dall’isolamento diplomatico in cui l’occu­ pazione della Ruhr aveva condotto la Francia, causando tra l’altro una forte svalutazione del franco sui mercati internazionali, dall’altra parte il governo tedesco di Gustav Stresemann scelse di abbandonare la poli­ tica di «resistenza passiva». Ministro degli Esteri dal 1923 al 1929, Stre­ semann mise in atto una strategia di parziale accettazione dei trattati nel tentativo di far uscire la Germania dal proprio isolamento e di ga­ rantirsi qualche possibilità per un’eventuale revisione degli aspetti rite­ nuti peggiori del diktat del 1919, come la questione del confine polacco. Il nuovo pragmatismo tedesco culminò nel 1925 con il Patto di Lo­ Il Patto di Locamo camo, con cui la Germania accettava l’intangibilità delle frontiere con Francia e Belgio e la smilitarizzazione della Renania. Dell’accordo si resero garanti la Gran Bretagna e lo stesso Mussolini che, in questa fa­ se, era soprattutto alla ricerca di una legittimazione internazionale e intendeva presentarsi quale garante dell’ordine fissato a Versailles. Nonostante, infatti, la retorica nazionalista e i sogni di gloria imperia­ le presenti nel fascismo fin dalle origini, nel corso degli anni Venti Mussolini adottò una strategia diplomatica estremamente prudente, dettata dalla necessità di stabilizzare il nuovo regime all’interno e dal­ la mancanza di risorse economiche e militari per condurre una politi­ ca estera aggressiva. Gli accordi franco-tedeschi del 1925 si inserirono in un quadro più La normalizzazione generale di normalizzazione degli assetti europei; la Francia stipulò in­ degli assetti europei fatti trattati con Cecoslovacchia e Polonia, mentre la Germania firmò arbitrati con Francia, Gran Bretagna, Belgio, Cecoslovacchia e Polonia e nel 1926 fu poi ammessa nella Società delle Nazioni, perdendo così de­ finitivamente il profilo di Paese vinto escluso dai grandi circuiti interna­ zionali. Tuttavia la stabilizzazione dei rapporti franco-tedeschi non pro­ dusse un mutamento stabile e duraturo dell’assetto europeo, in primo luogo perché gli accordi di Locamo avevano lasciato indeterminata la questione dei confini orientali della Germania. Non meno critica era la La posizione posizione dell’Unione Sovietica. Stalin, che pure aveva scelto una linea dell'Unione Sovietica di «isolazionismo antagonistico» rispetto ai Paesi occidentali, disponeva infatti, grazie al Comintern, di uno strumento accentrato ed efficace di influenza al di fuori dei propri confini: la ferrea guida sovietica del co­ muniSmo internazionale rappresentava una possibile minaccia rivolu­ zionaria globale e rischiava di immettere la politica internazionale in una spirale di crescente radicalismo ideologico. Esclusa da Locamo, l’Unione Sovietica interpretò il trattato come un tacito assenso alle ri­ vendicazioni tedesche verso est e questo ne rafforzò l’isolamento, che di­ venne sempre più marcato dopo il 1928 con l’avvio del primo piano quinquennale di industrializzazione forzata. A compromettere la vecchia illusione wilsoniana della stabilizzazio­ ne democratico-nazionale dell’Europa furono anche le trasformazioni

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Diffusione dei regimi autoritari

Il Patto Briand-Kellogg

La crisi del 1929 e la ripresa delle istanze nazionaliste

La costruzione di sfere d'influenza economica

Storia contemporanea

autoritarie che, come si è visto, interessarono diversi Paesi europei nel corso degli anni Venti: Ungheria, Italia, Spagna, Romania e Bulgaria, Polonia, Lituania e Jugoslavia. Benché inizialmente non fosse ritenuta plausibile l’eventualità della trasformazione del fascismo in un grande fenomeno transnazionale e lo stesso Mussolini, ancora nel 1928, dicesse che il fascismo non era un «fenomeno da esportazione», il crescente re­ visionismo dei nuovi regimi autoritari e le stesse oscillazioni di Mussoli­ ni, che dapprima si riavvicinò alla Jugoslavia (1924) e subito dopo cercò di imporre la propria influenza in Albania (1925-26), rappresentarono altrettanti focolai di crisi nella difficile stabilizzazione degli anni Venti. La lenta rinascita economica dell’Europa sembrò favorire, però, in un primo momento un clima apparentemente nuovo delle relazioni interna­ zionali. I Paesi vincitori iniziarono infatti a rimborsare gli Stati Uniti dei debiti contratti durante la guerra e nel 1929, attraverso il piano Young, le riparazioni tedesche vennero ulteriormente rateizzate. Nel 1928, il mini­ stro degli Esteri francese e il segretario di Stato americano siglarono il Patto Briand-Kellogg; nato dalla volontà francese di collegare indiretta­ mente gli Stati Uniti alla Società delle Nazioni, esso finì tuttavia per tra­ sformarsi in una generica dichiarazione di principi a cui avrebbero dovu­ to conformarsi le relazioni internazionali. Sottoscritto da numerosi altri Paesi, tra cui Germania, URSS e Italia, il Patto Briand-Kellogg stabiliva infatti di escludere la guerra come strumento di risoluzione delle contro­ versie internazionali e fu accolto dall’opinione pubblica come una pietra miliare nella costruzione di un ordine mondiale fondato sulla pace. La fragilità di questo equilibrio di compromesso apparve comunque evidente già di fronte al grande sconvolgimento messo in moto dalla crisi della borsa americana del 1929, che nel giro di due anni si estese a tutta l’Europa e a parte del mondo extraeuropeo. Percepita come il sintomo del­ la fragilità strutturale del sistema capitalistico, la crisi del 1929 accentuò enormemente in tutti i Paesi, a cominciare dagli Stati Uniti, la tendenza al­ la chiusura protezionistica delle economie nazionali (cap. 6.7 e 6.8) e ridie­ de fiato a istanze di tipo nazionalista. Le maggiori potenze non si limitaro­ no infatti a innalzare i dazi protettivi e a chiudere il circuito valutario, ma cercarono di costruire sfere d’influenza economiche impermeabili e com­ petitive nei confronti degli altri Paesi. Mentre gli Stati Uniti puntarono a rafforzare il loro tradizionale controllo sul continente americano, riformu­ lato dallo slogan rooseveltiano della politica del «buon vicinato», la Fran­ cia cercò di sviluppare questa tendenza nelle colonie e, in Europa, median­ te una politica di contenimento nei confronti della Germania assieme agli alleati della «piccola intesa». Anche la Gran Bretagna, dopo quasi un se­ colo di liberoscambismo, nel 1932 arrivò a trasformare il Commonwealth in un sistema di preferenze economiche sostanzialmente chiuso. Nel complesso, quindi, la crisi del 1929 e le difficoltà della ripresa misero in luce l’impossibilità di conciliare un sistema finanziario sem­ pre più interdipendente con le tendenze al protezionismo commerciale e soprattutto spinsero i diversi Paesi a cercare la stabilizzazione economi­ ca interna attraverso la proiezione esterna delle difficoltà in un quadro nuovamente semi-imperiale. A questo contesto, dove le politiche di ten­ denziale autarchia economica ridestavano antiche tensioni e ne creava-

Politiche estere a confronto negli anni tra le due guerre

no di nuove, si aggiungeva il crescente antagonismo ideologico tra fasci­ smo, comuniSmo e liberal-democrazie. Di fronte alla crisi del sistema capitalistico prodotta dagli eventi del 1929, infatti, l’esperimento di «so­ cialismo reale» creato da Stalin sembrò costituire un modello credibile e valido per rilanciare la produttività interna e, al tempo stesso, metterla al riparo dalle fluttuazioni dei commerci internazionali. Dal canto suo, Mussolini interpretò gli eventi del 1929 come una «crisi di civiltà» e, presentando il fascismo come risposta universale a tale crisi, riprese l’immagine della contrapposizione tra le nazioni «proletarie», come Ita­ lia, Giappone e Germania, e quelle «plutocratiche» come Stati Uniti, Francia e Inghilterra che, difendendo in modo esasperato il loro prima­ to economico, avevano causato il grande crollo del 1929. La debolezza della Società delle Nazioni e la sua incapacità di inver­ tire la nuova tendenza revisionista delle relazioni internazionali si vide­ ro chiaramente nel 1931 quando il Giappone, nel tentativo di assicurarsi una sfera d’influenza privilegiata in Estremo Oriente, occupò militar­ mente la regione cinese della Manciuria. L’appello del governo cinese alla Società delle Nazioni restò infatti senza alcun esito pratico e anche la posizione americana di «non riconoscimento» dei mutamenti territo­ riali avvenuti con la forza fu, nella pratica, inefficace. Dopo il voto di condanna della Società a seguito di un lungo tentativo di compromesso, il Giappone, dove stavano crescendo enormemente il peso politico e le ingerenze dei vertici militari, uscì dall’organizzazione e procedette tra il 1935 e il 1936 alla definitiva occupazione della Manciuria, in una pro­ spettiva sempre più marcatamente imperialista. Anche la Conferenza sul disarmo svoltasi a Ginevra nel 1932 registrò le crescenti tensioni tra le potenze vincitrici della Prima Guerra mon­ diale che, ancora una volta, non riuscirono a trovare un accordo rispetto alle richieste tedesche di revisione del trattato. Anche se il riarmo tede­ sco era iniziato, in segreto, già prima del 1933 e gli ambienti dell’esercito e dell’aristocrazia premevano per riportare la potenza militare della Germania al livello dei suoi vicini, fu l’avvento al potere di Hitler, nel gennaio 1933, a segnare il crollo definitivo della stabilità internazionale. Già nel Mein K am pf infatti, Hitler aveva delineato un piano di estensio­ ne del dominio tedesco in Europa e la costruzione di un «nuovo ordine» gerarchico dominato dalla razza ariano-tedesca. Alternando tatticamente distensione e aggressione, egli avviò fin dal 1933 una politica coe­ rente a tale programma: ritirò la Germania dalla Conferenza sul disar­ mo e dalla Società delle Nazioni e nel 1934 tentò una prima volta, ma senza successo a causa dell’opposizione italiana, di annettere l’Austria. Da parte sua Mussolini, che già dal 1932 aveva iniziato a pianificare la conquista dell’Etiopia, il solo Stato africano rimasto indipendente dopo la corsa coloniale di fine Ottocento, sposò definitivamente il revisioni­ smo dell’assetto di Versailles, sostenendo le pretese ungheresi e austria­ che e rafforzando la propaganda nazionalista e imperialista. Nel 193536, quindi, la situazione europea precipitò verso una deriva non più ge­ stibile con gli strumenti diplomatici tradizionali, di fronte alla quale esplose in tutta evidenza la debolezza della Società delle Nazioni e dei Paesi garanti dell’ordine di Versailles.

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Crescente antagonismo ideologico

Debolezza della Società delle Nazioni

Il caso del Giappone

Il riarmo tedesco

La politica estera di Hitler

La politica estera di Mussolini

SVEZIA L E T T O N IA 176

L IT U A N IA

IR LA N D A i

U N IO N E S O V IE T IC A

BELGIO'

P O L O N IA

G E R M A N IA

C E C O SL O V A C C H IA

FR A N C IA A U ST R IA U N G H E R IA R O M A N IA

■ •

PO R TO G A LLO

IU G O SL A V IA ITA LIA

■•

B U LG A R IA

SPAG N A

T U R C H IA

IL SISTEMA D I ALLEANZE IN EUROPA TRA IL 1933 E IL 1939

Alleati occidentali

^

Alleanze dell’Italia, 1934

Piccola intesa, 1933

#

Intesa balcanica, 1934

| Patto d’Acciaio, 1939 I Stati garantiti dagli I alleati occidentali, 1939

Storia contemporanea

G R A N BRETA G N A

Politiche estere a confronto negli anni tra le due guerre

177

Nel 1935, infatti, Hitler iniziò un piano massiccio di riarmo e intro­ dusse nuovamente la coscrizione obbligatoria, mentre nel marzo dell’an­ no successivo ordinò alle truppe di rioccupare la Renania. Negli stessi anni anche l’espansionismo mussoliniano passò dalle parole ai fatti con l’aggressione e la successiva conquista dell’Etiopia. 7.3 Addomesticare Hitler: la politica dell'ap p ea sem en t La risposta ai nascenti revisionismi di Germania, Italia e Giappone da parte dei Paesi che gestivano l’ordine di Versailles fu debole e mal coordinata. Gran Bretagna e Francia, di fatto le sole protagoniste della Società delle Nazioni, scelsero inizialmente la strada dei negoziati, dei compromessi e delle concessioni nel tentativo di trovare una via pacifica di contenimento alle pretese hitleriane. Definita in ambito britannico come appeasement («pacificazione»), tale strategia si disponeva ad ac­ cettare le pretese di Hitler confidando nel fatto che il raggiungimento dei principali obiettivi revisionisti della Germania ne avrebbe stempera­ to l’aggressività. Le pressioni francesi per una resistenza più decisa era­ no condizionate dalle scelte strategiche di Parigi, che aveva infatti opta­ to per una linea difensivistica a oltranza simboleggiata dalla costruzio­ ne, avviata nel 1930, della linea Maginot, un imponente sistema di fortificazioni lungo la frontiera franco-tedesca. D ’altra parte, Francia e Inghilterra dovettero presto riconoscere di non possedere le risorse eco­ nomiche e militari indispensabili per fronteggiare le numerose minacce che si stavano profilando all’orizzonte: non solo quella del revisionismo hitleriano, ma anche l’imperialismo giapponese, la nascita della potenza sovietica, le pressioni italiane in Africa e nel Mediterraneo. Le due potenze occidentali optarono dunque per una politica di ap­ peasement nei confronti della Germania. Essa si accompagnò al tentati­ vo, da un lato, di migliorare i rapporti con l’Italia fascista, anche in virtù del fatto che negli anni Venti Mussolini era stato un interlocutore stabile dei governi conservatori britannici, e dall’altro di riportare prudente­ mente l’URSS nel gioco della sicurezza europea. Nel 1934, infatti, l’Unione Sovietica chiese e ottenne di essere ammessa nella Società del­ le Nazioni e Stalin aderì al progetto di «sicurezza collettiva». L’anno successivo, oltre alla nuova strategia dei Fronti Popolari promossa dalla Terza Internazionale, venne siglato un patto franco-sovietico di non ag­ gressione, che riprendeva la tradizionale linea dell’accerchiamento di­ fensivo in funzione antitedesca. Mancavano tuttavia, a differenza del periodo antecedente al primo conflitto mondiale, solidi blocchi di alle­ anze e, nonostante la sostanziale identità di interessi tra Francia e Gran Bretagna da un lato e la solidarietà tra le potenze revisioniste dall’altro, ciascun Paese tendeva a seguire i propri interessi nazionali e la propria strategia politica. Conseguenze di questo clima generale di insicurezza furono l’ulteriore indebolimento della Società delle Nazioni e la corsa agli armamenti di tutti i principali Paesi europei; tra il 1934 e il 1936, in­ fatti, anche Francia e Gran Bretagna accelerarono i programmi di riar­ mo e i piani di modernizzazione dell’esercito, come risposta non solo al

Le reazioni di Franda e Gran Bretagna

La strategia deiì'appeasem ent

per contenere Hitler

La costruzione della linea Maginot

Ingresso dell'Unione Sovietica nella Società delle Nazioni

Clima di insicurezza e corsa agli armamenti

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L'aggressione italiana all'Etiopia

Modifica degli equilibri europei

L'«asse Roma-Berlino»

Patto Anticomintern

Storia contemporanea

riarmo tedesco, ma anche alla forza militare sovietica e alle mire espan­ sionistiche di Giappone e Italia. L’aggressione italiana all’Etiopia nell’ottobre 1935 ebbe un ruolo de­ cisivo nel peggiorare il quadro delle relazioni europee, anche perché so­ lo qualche mese prima, in aprile, Mussolini aveva partecipato con Fran­ cia e Gran Bretagna alla Conferenza di Stresa, ribadendo la propria in­ tenzione a difendere i trattati del 1919 e a respingere qualsiasi minaccia alla pace europea. Già in quel momento, tuttavia, l’Italia fascista stava preparandosi all’aggressione dell’Etiopia, presentata all’opinione pub­ blica italiana come il glorioso riscatto della sconfitta di Adua del 1896. Francia e Gran Bretagna tentarono inutilmente la strada del compro­ messo, Mussolini attaccò l’Etiopia e riuscì in meno di un anno a piegare la resistenza delle truppe del negus Hailé Selassié (->-)• Si trattò di una vera e propria guerra totale, con un massiccio coinvolgimento della po­ polazione civile che fu bombardata, deportata in massa e attaccata con gas asfissianti. La Società delle Nazioni, di cui l’Etiopia faceva parte, re­ agì solamente con la condanna formale dell’aggressione e con l’adozione di sanzioni economiche nei confronti dell’Italia, che si rivelarono co­ munque di scarso impatto pratico. Mussolini potè così offrire, nel mag­ gio 1936, a Vittorio Emanuele III la corona di imperatore d’Etiopia e sfruttare, a livello propagandistico interno, la polemica contro le «ini­ que sanzioni» inflitte dalla comunità internazionale. La guerra d’Etiopia cambiò gli equilibri europei; Mussolini, infatti, ottenne l’immediata solidarietà della Germania e, in autunno, comin­ ciò a parlare di un «asse Roma-Berlino» che si stava profilando in Eu­ ropa. Anche di fronte alla rimilitarizzazione tedesca della Renania, nel 1936, la reazione anglo-francese fu assai blanda, soprattutto per impulso del governo di Londra che temeva il precipitare della situazio­ ne e sopravvalutava il grado di preparazione militare di Hitler. Men­ tre, quindi, si stava delineando una nuova alleanza tra Paesi aggressi­ vamente revisionisti, che ebbe il suo banco di prova nella guerra civile spagnola dove, come si è visto (cap. 6.11), Mussolini e Hitler appoggia­ rono la sedizione del generale Franco, le potenze garanti dell’ordine di Versailles proseguirono sulla linea deWappeasement, scegliendo anche in Spagna la strada del non intervento, che di fatto impedì una saldatu­ ra del fronte antifascista. Tra il 1936 e il 1937 la solidarietà tra i Paesi revisionisti venne ufficia­ lizzata, inglobando una nuova connotazione ideologica, quella della lotta al comuniSmo internazionale; nel novembre 1936, infatti, Germania e Giappone siglarono il Patto Anticomintern, a cui l’anno successivo aderì anche l’Italia che, sempre nel 1937, decretò la propria uscita dalla Società delle Nazioni. Sembrava dunque nascere nel 1935-37 una convergenza tra i revisionismi di segno autoritario e fascista, il «triangolo politico mon­ diale» tra Berlino, Roma e Tokyo di cui parlava il ministro degli Esteri tedesco Joachim von Ribbentrop (->-). Benché ancora privo di una stra­ tegia coerente e intese politico-militari efficaci, il sodalizio dei Paesi re­ visionisti appariva comunque più compatto di quello fra i diversi antifa­ scismi europei, assai differenti sul piano ideologico e segnati da forti so­ spetti reciproci, specie per quel che riguardava l’Unione Sovietica.

Politiche estere a confronto negli anni tra ie due guerre

La discriminante fascismi-antifascismi non era ancora, tuttavia, sta­ bile e definitiva, come apparve chiaramente nei tre anni successivi, quando l’ordine europeo fu definitivamente abbattuto da Hitler nell’in­ tento di annettere al Reich tutti i territori abitati da popolazioni tede­ sche. Nel marzo 1938 venne infatti portato a termine YAnschluss (an­ nessione) dell’Austria, dove Hitler, questa volta con l’avallo del duce, ri­ uscì a imporre un governo con la presenza determinante di esponenti nazisti, ottenendo poi che l’annessione fosse sanzionata da un plebiscito. LAnschluss, cui il governo conservatore inglese diede un tacito assenso per via dell’orientamento pacifista della maggioranza della popolazione britannica e dell’impreparazione militare del Paese, rappresentò un grosso successo per il nazismo, sia dal punto di vista propagandistico, sia in termini economici per via del ricco sistema bancario di Vienna. Nel settembre 1938 fu la volta della Cecoslovacchia, da cui Hitler pretendeva la cessione della regione dei Sudeti, abitata in maggioranza da tedeschi e dove, sostenuto dalla stessa Germania, era da tempo at­ tivo un movimento irredentista. Benché più complessa rispetto alla questione austriaca, in quanto la Francia era legata alla Cecoslovac­ chia da un’alleanza difensiva, anche la questione dei Sudeti vide alla fine prevalere la strategia delYappeasement. Per iniziativa del primo ministro inglese Chamberlain, sempre più convinto che senza gli Stati Uniti e i Paesi del Commonwealth non fosse possibile condurre una guerra alla Germania nazista, venne quindi convocata a Monaco una conferenza internazionale per decidere il destino dei Sudeti. Svoltasi il 29-30 settembre 1938, la Conferenza di Monaco vide la partecipazione di Hitler, Mussolini, Chamberlain e del presidente del Consiglio fran­ cese Daladier, mentre non furono convocati i rappresentati dell’URSS e della Cecoslovacchia, nonostante quest’ultimo fosse il Paese di cui si decidevano le sorti. A Monaco, vero e proprio culmine della politica di appeasement, si decise di consentire alla Germania l’annessione dei Sudeti, nella convinzione che questo provvedimento avrebbe appagato Hitler e preservato la pace in Europa. Fiduciosamente considerata, in quel momento, da tutti i partecipanti come un vero capolavoro dell’ar­ te diplomatica, la Conferenza di Monaco mostrò invece ben presto l’impossibilità di contenere politiche estere aggressive senza adeguati strumenti di deterrenza. Le decisioni di Monaco, infatti, spezzarono definitivamente i residui legami della «piccola intesa» tra la Francia e i Paesi dell’Europa orientale, misero in allarme l’URSS per l’eventua­ lità di una spinta tedesca verso est e soprattutto diedero a Hitler la convinzione di poter ottenere, dalle impaurite potenze occidentali, sempre nuove concessioni territoriali. Nel marzo 1939, infatti, il Fiihrer impose lo smembramento della parte residua di Cecoslovacchia, dividendola tra un protettorato di Boe­ mia e Moravia sotto il controllo tedesco e una Slovacchia formalmente indipendente, ma con un governo filonazista che ne fece immediata­ mente uno Stato satellite della Germania. Ad aprile l’Italia si annetté l’Albania e il mese successivo siglò con Hitler il Patto d’Acciaio, un’alle­ anza militare che impegnava le due potenze ad entrare in guerra l’una a fianco dell’altra non solo in caso di conflitto difensivo. Questi nuovi svi-

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L'annessione tedesca dell'Austria

Il tacito assenso inglese

La questone dei Sudeti

La Conferenza di Monaco e il culmine della strategia dell 'appeasement

Lo smembramento forzato della Cecoslovacchia

Il Patto d'Acciaio tra Roma e Berlino

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Le pretese tedesche sulla Polonia

La posizione di Stalin

Il patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop

L'invasione della Polonia e la dichiarazione di guerra alla Germania

Storia contemporanea

luppi irrigidirono progressivamente la politica della Gran Bretagna, che offrì infatti garanzie all’indipendenza (ma non all’integrità) della Polo­ nia, a cui Hitler chiedeva la cessione della città di Danzica e del suo «corridoio» che dal 1919 separava la Prussia orientale dal resto della Germania. Al contempo, Francia e Gran Bretagna intrapresero un pia­ no di riarmo e avviarono anche timide trattative per un accordo diplo­ matico e militare con l’URSS. Per risultare efficace, infatti, una strate­ gia antihitleriana avrebbe dovuto fondarsi sull’alleanza tra le liberal-democrazie occidentali e l’Unione Sovietica, creando un compatto fronte antifascista che lasciasse cadere le pregiudiziali ideologiche e le diffi­ denze reciproche. Stalin, che avrebbe sperato in un intervento di Fran­ cia e Gran Bretagna per convincere i polacchi a collaborare militarmen­ te con le truppe sovietiche in caso di aggressione tedesca, aveva reagito negativamente all’esclusione sovietica dalla Conferenza di Monaco. Te­ meva infatti che i governi occidentali volessero dirottare la pressione hitleriana contro l’URSS, per logorare i due regimi totalitari. Al tempo stesso ambiva ai vantaggi di posizione che l’Unione Sovietica avrebbe potuto eventualmente ottenere da uno scontro tra due gruppi di potenze capitalistiche, nel caso in cui un’aggressione tedesca alla Polonia avesse fatto scattare l’intervento militare di Francia e Gran Bretagna. Dal canto suo Hitler, deciso a portare l’attacco alla Polonia ma desi­ deroso altresì di evitare una guerra sui due fronti, offrì a Stalin l’oppor­ tunità di giungere a un accordo con la Germania, dopo anni di aperta contrapposizione propagandistica e diplomatica. Stalin, intenzionato a rompere il vecchio «cordone sanitario» nei confronti del suo Paese e a rilanciare l’eredità imperiale della «grande Russia», valutò positivamen­ te l’offerta, ritenendola poco più di una tregua tattica e momentanea nell’attesa della «guerra inevitabile» tra il Paese del socialismo e le po­ tenze imperialiste. Fu così che il 23 agosto 1939 venne siglato dai mini­ stri degli Esteri tedesco Ribbentrop e sovietico Vjaceslav M. Molotov (->-) un patto di non aggressione tra Germania e URSS. Un protocollo segreto aggiuntivo al patto configurava una vera spartizione dell’Euro­ pa orientale in sfere di influenza, fissando la linea di espansione della Germania alla frontiera settentrionale dalla Lituania e alla parte occi­ dentale della Polonia. All’Unione Sovietica garantiva l’occupazione di tutta la Polonia orientale fino alla Vistola, della Bessarabia romena e di poter estendere la propria egemonia sulla Finlandia e sugli altri Stati baltici. Di fronte a questo repentino mutamento del quadro delle allean­ ze, Londra e Parigi si affrettarono a firmare un accordo difensivo con la Polonia, nella convinzione che, giunti a quel punto, il costo del non in­ tervento sarebbe stato assai più alto di quello di una guerra. Il 1° settem­ bre 1939 Hitler diede ordine alla Wehrmacht di varcare il confine polac­ co; due giorni dopo Londra e Parigi dichiaravano guerra alla Germania.

Capitolo 8

La Seconda Guerra mondiale

8.1 L'invasione della Polonia e l'inizio della Seconda Guerra mondiale 8.2 La svolta del 1941: la guerra ideologica 8 .3 1regimi collaborazionisti e gli sviluppi della guerra 8.4 La Shoah 8 .5 1movimenti di Resistenza 8.6 Yalta e Potsdam: la nuova carta dell'Europa

8.1 L'invasione della Polonia e l'inizio della Seconda Guerra mondiale Nonostante la dichiarazione di guerra alla Germania del 3 settembre 1939, Francia e Gran Bretagna non poterono intervenire operativamen­ te per difendere la Polonia, che fu rapidamente invasa dalle truppe della Wehrmacht. In base alle clausole segrete del Patto Molotov-Ribbentrop, anche l’esercito sovietico invase la Polonia da est. La fulminea conqui­ sta del territorio polacco fu accompagnata da esecuzioni in massa da parte di entrambi gli eserciti invasori. I reparti di sicurezza delle SS, al seguito delle truppe naziste, iniziarono le deportazioni e le uccisioni di migliaia di civili di origine ebraica o appartenenti ai gruppi dirigenti po­ litici ed economici del Paese; anche i sovietici, attivando una vera e pro­ pria «pulizia di classe», passarono per le armi oltre 20.000 ufficiali po­ lacchi prigionieri, nei pressi della foresta di Katyn. Una volta smembrata la Polonia, l’Unione Sovietica occupò i tre Pae­ si baltici indipendenti e invase la Finlandia, riuscendo a piegarla solo nel marzo 1940 per via della strenua resistenza dell’esercito finlandese. Dal canto suo, Hitler decise di puntare sui Paesi scandinavi, la cui importan­ za strategica consisteva nel controllo del Mar Baltico e nella ricchezza di materie prime. Nell’aprile del 1940, la Wehrmacht attaccò fulminea­ mente Danimarca e Norvegia; la prima cadde subito, mentre la seconda resistette fino all’inizio di giugno, quando il re Haakon VII, che aveva guidato la resistenza, fu costretto a fuggire a Londra ricostituendovi il proprio governo. A Oslo invece si formò un regime filonazista che collaboro con gli occupanti. Mentre le operazioni belliche si concentravano quasi esclusivamen­ te sul fronte polacco e scandinavo, sul fronte occidentale i primi mesi del conflitto furono una sorta di «guerra farsa» in cui gli eserciti nemici si fronteggiavano senza andare oltre piccoli scontri di pattuglie. Lo sta-

L'invasione della Polonia da ovest e da est

Occupazione sovietica dei Paesi baltici

Occupazione tedesca di Danimarca e Norvegia

Il fronte occidentale

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La strategia della guerra-lampo

L'aggiramento della linea Maginot

La caduta di Parigi e l'armistizio

Nascita del regime di Vichy

L'entrata in guerra dell'Italia

Il nuovo governo inglese guidato da Churchill

I bombardamenti tedeschi sulla Gran Bretagna

Storia contemporanea

to maggiore francese, seguendo gli schemi strategici del primo conflitto mondiale, si era preparato per una lunga guerra di posizione, convinto che le truppe tedesche avrebbero portato un attacco frontale lungo le fortificazioni della linea Maginot. I tedeschi tuttavia, come già avevano fatto in Polonia, misero in atto una nuova strategia bellica, la guerra­ lampo, che si fondava sul massiccio e coordinato uso di forze corazzate e aeree da lanciare contro il punto meno difeso dello schieramento av­ versario, per sfondarne il fronte e penetrare nelle retrovie. L’offensiva tedesca, iniziata il 10 maggio 1940, non si diresse quindi contro la Ma­ ginot, ma colpì, invadendo Olanda e Belgio neutrali, la sguarnita ala si­ nistra dello schieramento avversario, riuscendo così ad aggirare il siste­ ma di fortificazioni francese. Il 20 maggio i tedeschi avevano già rag­ giunto la Manica e le truppe anglo-francesi, colte di sorpresa, furono costrette a una rapida ritirata verso il porto di Dunkerque, da cui quasi tutto il contingente britannico e oltre 100.000 soldati francesi furono trasferiti in Inghilterra. La Francia venne rapidamente conquistata e il 14 giugno cadde Pari­ gi. Le trattative per Farmistizio, siglato il 22 giugno, furono condotte dal nuovo capo del governo, il maresciallo Philippe Pétain (->-), eroe della battaglia di Verdun durante la Prima Guerra mondiale. Questi accettò che il territorio francese venisse diviso in due: la parte settentrionale, compresa Parigi, fu posta sotto il diretto controllo tedesco, mentre il sud della Francia e le colonie rimasero sotto la formale amministrazione francese, che assunse tuttavia la configurazione di un regime collabora­ zionista sottoposto alla tutela nazista. Con la nascita del regime di Vi­ chy, dal nome della località in cui il governo di Pétain stabilì la propria sede, ebbe fine la Terza Repubblica. Il 10 giugno Mussolini, che all’inizio del conflitto aveva scelto la li­ nea della «non belligeranza» a causa delle difficoltà dell’esercito italia­ no, appena uscito dal conflitto con l’Etiopia e fiaccato per il supporto dato a Franco in Spagna, si affrettò a dichiarare guerra a Francia e Gran Bretagna, nella convinzione che il conflitto fosse ormai sul punto di concludersi. In effetti, sul continente, la vittoria tedesca era pressoché completa; tuttavia Hitler, che a quel punto non avrebbe disdegnato un accordo con la Gran Bretagna, si trovò di fronte la ferma determinazio­ ne del nuovo governo inglese presieduto dal conservatore Winston Churchill. Fiero oppositore della politica dell 'appeasement, nella con­ vinzione che la Germania nazista rappresentasse una minaccia tanto per gli equilibri europei quanto per le posizioni imperiali britanniche, Churchill costituì un gabinetto di larga coalizione, a cui parteciparono anche i laburisti, e fece appello alla capacità di sacrificio e resistenza del popolo inglese per sconfiggere il nazionalsocialismo. Denunciò quindi l’alleanza con la Francia collaborazionista, chiese sostegno agli Stati Uniti, che dal giugno 1940 iniziarono a inviare armi e munizioni, e mise in atto un blocco navale nell’Atlantico e nel Mediterraneo. A questo punto Hitler, per poter realizzare la progettata invasione della Gran Bretagna (operazione «Leone Marino»), doveva assicurarsi il dominio sui cieli inglesi e cercò quindi di piegare la resistenza britan­ nica attraverso massicci bombardamenti aerei sia contro obiettivi mili­

La Seconda Guerra mondiale

tari sia verso le città. Le zone industriali del Paese vennero duramente colpite, la stessa Londra subì numerosi attacchi aerei e città come Co­ ventry furono rase al suolo. Nella sola capitale i morti, durante le incur­ sioni del 1940, furono circa 20.000. Ma ad ogni nuovo attacco i bombar­ dieri della Luftwaffe, l’aviazione tedesca, subivano consistenti perdite ad opera dell’inglese RoyalAir Force, che disponeva dell’aiuto dei radar e di validi aerei da caccia. Grazie anche alla strenua resistenza della po­ polazione britannica, la «battaglia d’Inghilterra», protrattasi sino alla fi­ ne del 1940, segnò la prima battuta d’arresto nell’avanzata tedesca e Hitler fu costretto ad abbandonare il piano di sbarco sul suolo inglese. Ripiegò quindi su un blocco navale nell’A tlantico per colpire la flotta in­ glese e soprattutto per impedire l’arrivo dei rifornimenti americani. Gli Stati Uniti infatti, pur mantenendosi neutrali, continuavano a sostenere lo sforzo bellico inglese e, dopo aver istituito la coscrizione obbligatoria, nel marzo 1941 vararono la legge «affitti e prestiti» che consentiva alla Gran Bretagna di acquistare materiali bellici e materie prime riman­ dando il pagamento alla fine del conflitto. L’intervento in guerra dell’Italia aveva, nel frattempo, allargato l’area dei combattimenti. Le intenzioni di Mussolini erano di condurre una «guerra parallela» rispetto a quella tedesca, che consentisse all’Ita­ lia di raggiungere obiettivi autonomi e non necessariamente coinciden­ ti con quelli della Germania. Dopo alcune offensive contro l’esercito francese, peraltro già sconfitto dai tedeschi, la «guerra parallela» mussoliniana si dispiegò nell’Africa settentrionale e nei Balcani. Nono­ stante alcuni iniziali successi, come l’occupazione della Somalia bri­ tannica nell’agosto 1940 e a settembre la penetrazione in Egitto, Mus­ solini non riuscì nell’intento di impadronirsi delle aree petrolifere del Medio Oriente e del canale di Suez. La controffensiva inglese in Libia, iniziata a dicembre, travolse un’intera armata italiana, spingendosi fin quasi a Tripoli, mentre nell’Africa orientale gli inglesi, tra febbraio e aprile 1941, occuparono Mogadiscio e, dopo aver superato l’accanita resistenza italiana nella battaglia di Keren, si aprirono le porte per la conquista dell’intera Eritrea. Fu comunque la campagna sul fronte greco a rivelare i gravi limiti della preparazione bellica italiana e a mettere a dura prova il consenso alla guerra dell’opinione pubblica. Iniziato il 28 ottobre 1940, attraver­ so le basi in Albania, l’attacco alla Grecia si rivelò immediatamente disastroso; l’esercito greco riuscì a respingere l’offensiva delle truppe italiane e a contrattaccare, mentre uno sbarco britannico a Salonicco, nel marzo 1941, mise fine ai sogni mussoliniani di autonomia rispetto all’alleato germanico. Fu solo grazie all’intervento tedesco infatti che fu possibile, nella primavera del 1941, arrestare la controffensiva e ot­ tenere la capitolazione della Grecia, la quale passò sotto un’ammini­ strazione militare italo-tedesca. Nel frattempo la Wehrmacht riuscì a ottenere il controllo dell’intera area balcanica. Mentre Bulgaria, Un­ gheria e Romania si erano schierate con la Germania, la Jugoslavia venne invasa dalle truppe italo-tedesche nell’aprile 1941, dopo che un colpo di stato militare aveva abbattuto il precedente governo alleatosi con le potenze dell’Asse. Costretta alla resa nel giro di pochi giorni, la

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La strenua resistenza britannica

Il blocco navale nell'Atlantico

La «guerra parallela» mussoliniana nell'Africa settentrionale en ei Balcani La controffensiva inglese

La disastrosa campagna italiana sul fronte greco

L'intervento tedesco

Invasione e smembramento della Jugoslavia

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La conclusione del sogno imperiale fascista

Il controllo della Germania sul continente europeo

Storia contemporanea

Jugoslavia fu smembrata: la Germania si annetté parte della Slovenia, mentre l’Italia occupò la provincia di Lubiana, parte della Dalmazia e le Bocche di Cattaro. L’Ungheria ottenne parte della Vojvodina. La Croazia fu invece eretta a Stato indipendente sotto la guida di Ante Pavelic (->-); in Serbia, infine, venne creato uno Stato fantoccio guida­ to dal generale Milan Nedic Anche sul fronte africano la «guerra parallela» dell’Italia finì nei pri­ mi mesi del 1941. Solo l’urgente invio di due divisioni tedesche, riunite nelVAfrikakorps comandata dal generale Erwin Rommel (—►) consentì, infatti, di arrestare l’offensiva inglese e di passare al contrattacco, grazie al quale gli italo-tedeschi poterono recuperare totalmente il controllo della Cirenaica. Nell’aprile 1941 si concludeva tuttavia l’effimero sogno imperiale del duce, con la conquista di Addis Abeba da parte degli in­ glesi che restaurarono la monarchia del negus Hailé Selassié. Nonostante il fallimento della «guerra parallela» dell’Italia, all’ini­ zio del 1941 il «nuovo ordine europeo» di Hitler sembrava stabilmente imposto su quasi tutta l’Europa continentale. A parte la penisola iberica e alcuni Paesi neutrali, come Svezia, Irlanda, Svizzera e Turchia, l’intero continente si trovava sotto il controllo diretto o indiretto della Germa­ nia nazista; laddove, infatti, le truppe dell’Asse non occupavano direttamente il territorio dei Paesi sconfitti, come nel caso della Francia meri­ dionale, Hitler poteva contare sull’appoggio di governi collaborazionisti e filonazisti. La strategia imperiale tedesca, tuttavia, non era ancora ar­ rivata a dare al conflitto una vera dimensione mondiale e anche il nuovo Patto tripartito siglato nel settembre 1940 tra Germania, Italia e Giap­ pone rimase un accordo di cooperazione piuttosto generico. La svolta verso la «mondializzazione» della guerra avvenne infatti solo nella se­ conda metà del 1941. 8.2 La svolta del 1941: la guerra ideologica

Nel giugno 1941 Hitler, convinto che le prospettive della guerra fos­ sero ormai favorevoli alle forze dell’Asse, decise di sferrare l’attacco all’Unione Sovietica nonostante l’accordo dell’agosto 1939. Nei piani hitleriani l’aggressione all’URSS rispondeva sia all’obiettivo ideologi­ co della lotta al bolscevismo, sia a quello nazionalistico della conqui­ sta dello «spazio vitale» verso est. Secondo Hitler, poi, una guerra con­ tro i sovietici avrebbe favorito, per il comune antibolscevismo, un com­ promesso con la Gran Bretagna e scoraggiato l’intervento americano. L’attacco, denominato in codice «operazione Barbarossa», ebbe inizio il 22 giugno quando 150 divisioni tedesche penetrarono oltre la fron­ tiera sovietica dirigendosi verso Mosca, Leningrado e l’Ucraina meri­ dionale; si trattava di oltre 3 milioni di soldati, ai quali si aggiunsero in seguito contingenti inviati da Finlandia, Ungheria, Romania, Slovac­ chia, un corpo di spedizione italiano e una divisione di volontari spa­ gnoli. L’Armata Rossa non resse all'urto e fu costretta alla ritirata. In L'avanzata poche settimane la Wehrmacht arrivò alle porte di Mosca e, dopo aver della Wehrmacht occupato Kiev, in Ucraina, e l’intera Crimea, cinse d’assedio la città

L'attacco tedesco all'URSS

La Seconda Guerra mondiale

simbolo della Rivoluzione del 1917, Leningrado. A dicembre, tuttavia, l’offensiva tedesca dovette arrestarsi. I rigori del clima invernale e la riorganizzata resistenza dei sovietici, galvanizzati dalla propaganda stalinista che chiamava il popolo alla difesa in nome della «sacra pa­ tria russa», fecero infatti fallire il piano hitleriano di concludere l’at­ tacco all’URSS entro la fine del 1941. Bloccata sul fronte russo, la guerra si allargò al Pacifico per iniziati­ va del Giappone. La classe militare giapponese già da tempo aveva deci­ so di sfidare il potere marittimo angloamericano e il governo nipponico mirava, non diversamente dalla Germania in Europa, a conquistarsi il proprio «spazio vitale» in Asia, liberandosi sia degli imperi coloniali eu­ ropei, sia della presenza americana nel Pacifico. Nel luglio 1941 occupò quindi l’Indocina francese, con un atto che segnava il punto di non ritor­ no di questa strategia aggressiva. Dopo aver stretto un accordo di reci­ proca neutralità con l’Unione Sovietica, che quest’ultima avrebbe poi violato alla vigilia della conclusione della guerra, il Giappone attaccò di sorpresa la base navale americana di Pearl Harbour, nelle Hawaii, il 7 dicembre. Il presidente americano Roosevelt, che già con la «legge affit­ ti e prestiti» aveva posto gli Stati Uniti nel ruolo di «arsenale delle de­ mocrazie» in funzione antinazista e nell’agosto 1941 aveva sottoscritto la Carta atlantica (—►) con Churchill, non esitò a dichiarare guerra al Giappone. Quando, l’l l dicembre, Germania e Italia dichiararono guer­ ra agli Stati Uniti, il conflitto assunse una vera dimensione mondiale e i due teatri di guerra, quello europeo e quello asiatico, finirono per legar­ si indissolubilmente. Subito dopo l’operazione di Pearl Harbour, i giap­ ponesi, approfittando dell’indebolimento della flotta americana, invase­ ro le Filippine, Guam, Hong Kong, la Malesia e Singapore. Se dunque furono le potenze del Patto anticomintern a dare un ca­ rattere mondiale alla guerra in corso, pur senza impostare un saldo coordinamento tra le rispettive strategie, l’attacco nazista all’URSS e quel­ lo giapponese agli Stati Uniti finirono per saldare una «strana alleanza» antifascista che si fondava sulla cooperazione tra Gran Bretagna, Stati Uniti e URSS. Percepita da diversi intellettuali e osservatori come la se­ conda tappa di una «guerra civile europea» iniziata nel 1914, la Seconda Guerra mondiale assunse, a partire dal 1941, una complessa dimensione ideologica. Un primo aspetto di tale confronto ideologico-politico era dato dallo scontro tra i due maggiori sistemi totalitari dell’epoca, il nazi­ smo e il comuniSmo staliniano che, per quanto legati da rapporti di imi­ tazione e dal comune rifiuto del sistema liberale, erano radicalmente contrapposti sul piano ideale e dei progetti politici. Ancor più importante dal punto di vista ideologico fu la saldatura in chiave antifascista che si venne a creare tra le liberal-democrazie occi­ dentali e l’Unione Sovietica. Prodotto sostanzialmente dalle mosse de­ gli avversari nazifascisti, il fronte antifascista rimase sempre assai varie­ gato e articolato, coniugando interessi nazionali e mete ideali più gene­ rali. Una solidarietà che si manifestava, nonostante la radicale diversità dei sistemi politici, sia nella comune opposizione alla reazione antimo­ derna insita nei regimi autoritari di estrema destra, sia nell’elaborazione di piani geopolitici non finalizzati solo alla conquista di territori come

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L'assedio di Leningrado

L'iniziativa del Giappone nel Pacifico

L'occupazione dell'Indocina francese

L'attacco di Pearl Harbour

L'entrata in guerra degli Stati Uniti

La «strana alleanza» antifascista

La complessa dimensione ideologica del conflitto

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La «guerra totale» e il coinvolgimento delle popolazioni civili

La Carta atlantica

La Dichiarazione delle Nazioni Unite

La fine della guerra-lampo

Lo sfruttamento delle risorse dei Paesi conquistati

La mancata mobilitazione delle minoranze russe contro Stalin

Storia contemporanea

era, invece, nelle prospettive dei totalitarismi di destra. L’ideologia di­ venne un aspetto dominante del conflitto in corso che, innestandosi sul­ la competizione militare, la radicalizzò fino a farle assumere una vera e propria dimensione «religiosa». Sempre meno negoziabile, quindi, la nuova «guerra totale» tra fascismi e antifascismi fu combattuta per an­ nientare completamente il nemico. Anche per il carattere ideologico e totalizzante dello scontro, quindi, oltre che per la dimensione di massa del conflitto e per la pratica dei bombardamenti a tappeto sulle città, le popolazioni civili furono massicciamente coinvolte e grande importan­ za assunsero la propaganda politica e tutte le varie forme di mobilitazio­ ne patriottica messe in atto dai governi. Nonostante le reciproche diffidenze e incomprensioni, la saldatura del fronte antifascista cominciò a prendere corpo all’indomani dell’in­ tervento in guerra degli USA. Questi, infatti, estesero la propria coope­ razione economica anche all’Unione Sovietica e Stalin accettò di sotto­ scrivere la Carta atlantica siglata in precedenza da Churchill e Roose­ velt. Essa disegnava i futuri assetti postbellici secondo la vecchia tradizione wilsoniana, prevedendo l’autodeterminazione dei popoli, la libertà dal bisogno, la libertà di commercio, la libera circolazione nei mari e il rifiuto delle annessioni territoriali. L’accettazione dei principi della Carta atlantica e il comune impegno politico e militare contro il nazifascismo vennero formalizzati il 1° gennaio 1942 nella Dichiarazio­ ne delle Nazioni Unite. Firmata congiuntamente da Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna e da altri Paesi, tra cui Canada, Cina, Belgio, Australia, la Dichiarazione sanciva la cooperazione di tutti gli aderenti nella lotta contro le «forze selvagge e brutali» del Patto tripartito e l’im­ pegno dei firmatari a rinunciare a qualsiasi armistizio o pace separati. Sul piano militare, mentre l’intervento degli Stati Uniti sancì la fine della guerra-lampo condotta fino a quel momento dalla Wehrmacht, il fronte antifascista decise di dare la priorità assoluta alla guerra contro i tedeschi e di mantenere una strategia prevalentemente difensiva nel Pa­ cifico. Gran Bretagna e Stati Uniti si disposero quindi a sostenere mas­ sicciamente, con armi e rifornimenti materiali che passavano attraverso il mare del Nord e l’Iran, la resistenza sovietica. Dal canto suo, la Ger­ mania mise in atto, soprattutto dal 1943 in poi, uno sfruttamento brutale e sistematico delle risorse dei Paesi conquistati, estorcendo alla Francia esosi «contributi di occupazione» e requisendo materie prime e mano­ dopera dai territori sovietici controllati. In tutti i Paesi occupati, infatti, venne organizzato un sistema produttivo pianificato che doveva essere funzionale alle necessità economiche e militari della Germania. All’in­ terno, poi, Hitler fece ampio uso del lavoro coatto dei prigionieri di guerra, civili e militari, che venivano deportati. A fronte di questo sfruttamento totale delle risorse economiche e del lavoro coatto per i propri fini militari, assai scarsa fu, invece, la capacità hitleriana di ottenere consensi presso i perseguitati politici e le mino­ ranze oppresse del regime sovietico. Non solo, infatti, i caratteri brutali dell’invasione, ma anche il mito della superiorità della razza ariana e dell’inferiorità di quella slava resero praticamente impossibile mobilita­ re la popolazione russa in funzione antistalinista. Analoghe difficoltà

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incontrarono italiani e tedeschi in Medio Oriente, dove cercarono, sen­ za riuscirvi, di spingere il nazionalismo arabo in chiave antibritannica. Da questo punto di vista ottennero miglior esito i giapponesi in Asia che, forti dei propri successi nella prima metà del 1942, lanciarono l’idea di una sfera di «co-prosperità» asiatica a guida giapponese, diretta sia contro l’imperialismo europeo sia contro gli americani. 8.3 i regimi collaborazionisti e gli sviluppi della guerra Nel 1942 il «nuovo ordine europeo» voluto da Hitler sembrava esser­ si realizzato quasi compiutamente in un’Europa dove vecchi e nuovi re­ gimi autoritari cercavano il proprio spazio attraverso la formale collaborazione col governo tedesco. Nella realtà, i cosiddetti regimi collabora­ zionisti, il primo dei quali si costituì in Norvegia ad opera dell’ufficiale filofascista Vidkun Quisling ( ^ - ) durante l’invasione tedesca del 1940, erano totalmente asserviti alle necessità belliche della Germania. I ca­ ratteri dei governi e dei movimenti collaborazionisti differivano, tutta­ via, da Paese a Paese, risentendo sia delle specifiche tradizioni politiche nazionali, sia delle modalità e dei tempi dell’occupazione tedesca. A n­ che per questo quindi, nonostante l’aspirazione hitleriana all’egemonia continentale, il governo nazista non riuscì a rendere stabile e pianificata la collaborazione coi diversi autoritarismi europei, accontentandosi semmai di imporre la superiorità del proprio esercito e di sfruttare al massimo le risorse umane ed economiche dei Paesi occupati. Mentre in Norvegia e Olanda i governi collaborazionisti si fondaro­ no sulla piena adesione all’ideologia hitleriana e su analoghi pregiudi­ zi razziali e antisemiti, in Slovacchia il governo del cattolico monsi­ gnor Jósef Tiso (— si caratterizzò per la mescolanza di ideali nazio­ nalisti e cattolici con aspetti dichiaratamente fascisti. Anche la Croazia, divenuta indipendente dopo l’invasione tedesca della Jugosla­ via, realizzò un singolare connubio tra nazionalismo, cattolicesimo, antisemitismo e fascismo. Al vertice del regime collaborazionista cro­ ato si pose Ante Pavelic, capo del movimento nazionalista di estrema destra degli ustascia (—>■), che fin dagli anni Trenta si era battuto per l’autonomia della Croazia dal regno di Jugoslavia. Aiutati da Mussoli­ ni anche prima della conquista del potere nel 1941, gli ustascia cerca­ rono di rendere il Paese partecipe dello sforzo bellico dell’Asse e al tempo stesso avviarono una politica di sistematica persecuzione di ebrei, serbi, comunisti e zingari, con l’obiettivo di rendere la Croazia omogenea dal punto di vista etnico e religioso. Furono di tipo collabo­ razionista anche i governi di Ungheria, Romania e Bulgaria, che tutta­ via si limitarono ad appoggiare militarmente le potenze dell’Asse. Un comportamento solo in parte analogo, benché non si possa parlare di vero e proprio collaborazionismo, fu quello assunto dal regime di Franco dopo lo scoppio della guerra mondiale. Benché formalmente neutrale, infatti, la Spagna fu solidale con lo sforzo bellico di Germa­ nia e Italia, da cui le forze nazionaliste avevano ricevuto cospicui aiuti durante la guerra civile. Franco infatti inviò materie prime e un corpo

I regimi collaborazionisti

Norvegia e Olanda Slovacchia

Croazia

Ungheria'Romania e Bulgaria Il regime di Franco in Spagna

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Il regime di Vichy

Occupazione militare tedesca della Francia meridionale Il Medio Oriente

Il golpe filonazista a Baghdad

Il graduale capovolgimento delle sorti del conflitto

La battaglia di El Alamein

La controffensiva sovietica a Stalingrado

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di volontari nella campagna di Russia, ma non si fece trascinare nel conflitto nonostante le pressioni di Hitler e Mussolini. Nel caso del regime di Vichy, il maresciallo Pétain avviò un esperi­ mento di governo autoritario che cercava di tenere assieme tutti i diversi elementi della destra conservatrice francese, dal cattolicesimo antide­ mocratico, al nazionalismo, alFantisemitismo. Cercando la propria legit­ timazione nei richiami a un mitico passato ruralista e nella popolarità acquisita durante la Grande Guerra, Pétain aspirava a presentarsi come il garante dell’ordine nazionale e a conservare per la Francia alcuni margini di autonomia rispetto al governo nazista. Quando, però, nel 1942 Pétain venne sostituito alla guida del governo da Pierre Lavai (—*■), gli spazi di autonomia cessarono del tutto: la legislazione antise­ mita varata fin dal 1940 fu inasprita e applicata con estremo rigore e alla fine dell’anno l’occupazione militare tedesca venne estesa anche alla Francia meridionale. Anche in Medio Oriente fascismo e soprattutto nazismo ebbero un particolare influsso sulle élite anticoloniali. Italia e Germania, oppo­ nendosi in toni retorico-populisti a Francia e Gran Bretagna, venivano considerate vicine alle popolazioni arabe ancora soggette al coloniali­ smo diretto o indiretto inglese e francese. Alfiere di queste posizioni fu Haji Amin al-Husseini (-»-), Gran Muftì di Gerusalemme che, già esi­ liato in Palestina nel corso della Grande Rivolta araba del 1936-39, ap­ prodò a Baghdad e ispirò il colpo di stato militare filonazista del leader nazionalista Rashid Alì al-Gaylani (—►). Il golpe venne rapidamente re­ presso dalla Gran Bretagna e Rashid Alì, insieme al Gran Muftì, trovò rifugio in Germania. Nella prima metà del 1942, dunque, le forze dell’Asse parevano in grado di vincere la guerra. Germania e Italia, insieme agli altri alleati minori, controllavano buona parte del continente europeo, mentre i giapponesi, che ormai dominavano il Pacifico, minacciavano di spin­ gersi verso India e Australia. Tuttavia, proprio al culmine dei successi militari dei Paesi del Patto tripartito, le sorti del conflitto cominciaro­ no gradualmente a cambiare di segno. A giugno, infatti, gli Stati Uniti, in una grande battaglia aeronavale al largo delle isole Midway, sconfis­ sero la flotta giapponese, mettendo così fine all’espansionismo nippo­ nico nel Pacifico. A ottobre le truppe italo-tedesche di Rommel subi­ rono la massiccia controffensiva britannica nella battaglia di El A la­ mein, nei pressi di Alessandria d’Egitto. Il mese successivo, dopo uno sbarco angloamericano in Marocco e Algeria, le forze dell’Asse si tro ­ varono circondate da due armate nemiche, quella americana del gene­ rale Dwight Eisenhower (—►) e quella inglese del generale Bernard Law Montgomery (—»-). Dopo aver abbandonato la Libia, gli italo-tedeschi si attestarono in Tunisia riuscendo a resistere alle soverchianti forze alleate fino al maggio 1943. Anche sul fronte orientale una svolta decisiva si ebbe durante l’autunno-inverno del 1942, quando iniziò la controffensiva dell’Armata Rossa nel settore di Stalingrado, che riuscì a intrappolare nella città un’intera armata tedesca. Costretta da Hitler a resistere a oltranza, l’ar­ mata del generale Friedrich von Paulus (—>-) si arrese solo il 2 febbraio

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1943; dei circa 250.000 soldati che la componevano solo 91.000 soprav­ vissero fino al termine della battaglia e di questi solamente 5.000 tor­ narono dalla prigionia. Anche maggiore, tuttavia, fu il sacrificio pagato dai sovietici, che solo a Stalingrado ebbero circa un milione di perdite, tra morti, feriti e prigionieri. Anche l’esercito italiano pagò un tributo elevato nella campagna di Russia. Il corpo d’armata inviato da Musso­ lini nel 1941, l’A RM IR, che contava circa 220.000 uomini, subì l’offen­ siva sovietica lungo il fiume Don nell’autunno-inverno 1943. Costretta a ripiegare in condizioni drammatiche, l’armata italiana perse oltre la metà dei suoi effettivi. Fin dall’inizio del 1943, quando cominciò a essere chiaro che le sorti della guerra stavano evolvendo a favore della coalizione antifascista, crebbe la necessità dei cosiddetti «tre grandi», Roosevelt, Churchill e Stalin, di definire con anticipo i futuri assetti del mondo liberato, so­ prattutto per non ripetere gli errori del 1918, quando si era giunti alla vittoria senza un preciso piano di cooperazione. Alla prima conferenza interalleata, che si svolse a Casablanca nel gennaio del 1943, prevalsero ancora, tuttavia, le discussioni sulla strategia da adottare per sconfigge­ re definitivamente le forze dell’Asse. Roosevelt e Churchill fissarono in quella sede il principio della resa incondizionata, con l’esclusione di qualsiasi patteggiamento separato con la Germania e i suoi alleati, e de­ cisero che il passo successivo sarebbe stata l’invasione della Sicilia. Lo sbarco delle truppe di Eisenhower sull’isola avvenne il 10 luglio 1943 e la sua conquista fu rapida. Il successivo 25 luglio, come vedremo, Mus­ solini, messo in minoranza dal Gran Consiglio del fascismo, fu costretto a dimettersi e venne fatto arrestare da Vittorio Emanuele III. L’armistizio siglato all’inizio di settembre tra il nuovo governo italia­ no e gli angloamericani privò i tedeschi del loro principale alleato sul continente europeo. Gli alleati, sbarcati a Salerno in concomitanza dell’annuncio della resa italiana, che avvenne l’8 settembre, iniziarono una sanguinosa e lenta risalita della penisola, che sarebbe durata ben 18 mesi e che trovò subito un difficile ostacolo nella linea Gustav, il sistema di fortificazioni allestito dai tedeschi tra Gaeta e Ortona. Da queste po­ sizioni i tedeschi riuscirono a fermare l’avanzata degli angloamericani verso Roma fino al giugno 1944. Anche sul fronte orientale l’esercito nazista, sebbene avesse iniziato a indietreggiare, controllava ancora enormi territori in Bielorussia e Ucraina; inoltre manteneva saldamente il controllo sulla Francia, sull’Europa nord-occidentale e sui Balcani. Proprio per la necessità di spezzare l’egemonia nazista nell’Europa occidentale, e soprattutto dietro le forti pressioni di Stalin, i «tre gran­ di», nella Conferenza di Teheran del novembre 1943, decisero di aprire un secondo fronte in Europa. In quell’occasione fu elaborata anche una prima traccia delle future zone d’influenza dei tre Paesi e si stabilì di porre l’Italia sotto il controllo degli eserciti che l’avevano liberata. Lo sbarco sulle coste della Normandia venne fissato per la primavera del 1944 e, dopo alcuni rinvìi per le avverse condizioni meteorologiche, all’alba del 6 giugno 1944 prese il via l’«operazione Overlord», dal nome in codice del piano, che coinvolse oltre 5.000 navi e circa 3 milioni di sol­ dati angloamericani. Nonostante l’accanita resistenza dell’esercito tede-

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Le gravissime perdite nella campagna di Russia

La prima conferenza interalleata

Lo sbarco degli alleati in Sicilia

L'armistizio tra italiani e angloamericani

La linea Gustav

I «tre grandi» alla Conferenza di Teheran

Lo sbarco in Normandia

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sco, gli alleati riuscirono in un paio di mesi a sfondare le linee difensive della Wehrmacht e a controllare l’intera zona nord della Francia. Ad agosto, come vedremo, gli angloamericani entrarono a Parigi, mentre nel frattempo i sovietici avevano lanciato una gigantesca offensiva in Bielorussia, arrivando ben presto alle porte di Varsavia. 8.4 La Shoah Il piano di «arianizzazione» della Germania nazista

La deportazione degli ebrei verso la Polonia

I campi di concentramento e di sterminio

La persecuzione degli ebrei e delle minoranze ritenute «asociali» accompagnò tutta la storia della Germania nazista (cap. 6.5). Soprat­ tutto dopo il 1938, il piano di «arianizzazione» e le conseguenti violen­ ze ai danni della popolazione ebraica subirono un crescendo continuo e, allo scoppio della guerra mondiale, il regime hitleriano elaborò pia­ ni di deportazione degli ebrei in Madagascar e altre zone dell’Africa. Resasi tuttavia impossibile la realizzazione di tale programma dopo il fallimento dell’invasione della Gran Bretagna, tra il giugno 1941 e l’estate dell’anno successivo Hitler progettò un «piano generale per l’est» che prevedeva, una volta conquistata l’Unione Sovietica, la de­ portazione in Siberia di oltre 30 milioni di persone «razzialmente in­ desiderabili». Negli stessi mesi, nelle regioni del Baltico, in Bielorus­ sia, Crimea e Ucraina furono uccisi oltre 560.000 civili ad opera delle SS. Anche alcuni reparti della normale polizia si resero responsabili di questi eccidi; per esempio, nella regione di Lublino, nell’inverno del 1941, un battaglione di polizia deportò e uccise circa 80.000 ebrei, in maggioranza donne, bambini e anziani. Le conquiste territoriali nei primi anni di guerra fecero però cade­ re nelle mani del regime hitleriano un numero elevato di ebrei, che do­ po l’invasione dell’URSS arrivarono a essere circa 8,5 milioni. Si fece quindi strada l’idea di deportare gli ebrei e gli altri «indesiderabili» in Polonia e, a partire dall’ottobre 1941, convogli carichi di ebrei prove­ nienti da Germania, Austria, Boemia e Lussemburgo presero a diri­ gersi nei ghetti polacchi, dove morirono a decine di migliaia a causa della scarsità di cibo e delle epidemie che esplodevano per l’alta densi­ tà abitativa. Negli stessi mesi, dopo che un decreto denominato «notte e nebbia» prevedeva la deportazione nei lager (—>) dei prigionieri di guerra e dei sospetti di resistenza al nazismo, fu avviata anche la liqui­ dazione di tutti gli ebrei polacchi. Alcuni campi di concentramento, concepiti inizialmente come luo­ ghi di detenzione e punizione per gli oppositori, furono in seguito im­ piegati come centri di sterminio della popolazione ebraica. Costruiti so­ prattutto in Polonia, in luoghi isolati ma ben serviti dalle linee ferrovia­ rie, questi campi attivarono, a partire dall’inverno del 1941-42, le camere a gas per consentire lo sterminio in massa dei detenuti in modo rapido ed efficiente. Le persone abili al lavoro, in media non più del 10% dei deportati, venivano inizialmente sfruttate nei lavori pesanti presso il campo o nelle industrie presenti nelle vicinanze dei lager, mentre anzia­ ni, bambini e malati erano destinati subito alla gassazione. La morte per stenti, fame e malattie era la sola alternativa allo sterminio industriale.

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Per l’eliminazione dei cadaveri i campi si dotarono di forni crematori. Di tutti i lager nazisti, tra cui Treblinka, Belzek, Sobibor e Chelmno, il maggiore fu il complesso concentrazionario di Auschwitz, in Slesia, co­ struito nel 1940 e composto di tre campi che potevano contenere com­ plessivamente 100.000 prigionieri. Tra il gennaio 1942 e il novembre 1944 trovarono la morte ad Auschwitz più di un milione di persone. La cosiddetta «soluzione finale del problema ebraico», come venne La pianificazione definita dalla burocrazia nazista la liquidazione in massa degli ebrei, fu della «soluzione finale» pianificata ufficialmente nella Conferenza di Wannsee, presso Berlino, che si svolse il 20 gennaio 1942 alla presenza di Reinhard Heydrich (->-), vice di Himmler e capo del servizio di sicurezza del Reich, Adolf Eichmann (—►), l’organizzatore pratico delle operazioni di sterminio, e di altri funzionari nazisti. Si stabilì che gli ebrei dovevano essere stermi­ nati tutti, in qualsiasi modo e ovunque, anche quelli presenti nei Paesi non ancora occupati dall’esercito tedesco; dapprima trasferiti nei ghetti polacchi e ai lavori forzati, sarebbero stati poi eliminati nei campi di concentramento prima della fine della guerra. Anche quando le sorti del conflitto cominciarono a volgere male per la Germania, a partire dal 1942-43, la sforzo di annientamento della po­ polazione ebraica continuò ad aumentare. Emblematico il caso degli ebrei ungheresi, deportati in massa ad Auschwitz alla fine del 1944, quando ormai gli alleati erano alle porte della Germania. Si calcola che alla fine del conflitto oltre 6 milioni di ebrei erano stati sterminati, di cui Oltre 6 milioni di ebrei quasi 3 milioni provenienti dalla Polonia e più di 2 milioni dall’URSS. uccisi Nonostante la massima segretezza con cui le autorità naziste avevano condotto l’operazione, alcune notizie sulla «soluzione finale» comincia­ rono a penetrare in Occidente già dal 1942, attraverso sia i nunzi aposto­ lici della Santa Sede, sia il governo polacco in esilio a Londra. Tuttavia le risposte del Vaticano e dei governi americano e britannico furono estremamente caute e reticenti; gli angloamericani, infatti, vollero dare La reticenza la priorità alle operazioni militari e alla conclusione della guerra, men­ del Vaticano tre papa Pio XII (—»•) preferì astenersi da una condanna pubblica del re­ e degli anglomericani gime tedesco. Anche in Germania, per quanto si sapesse delle deporta­ zioni in massa degli ebrei, non vi furono, salvo rare eccezioni, manife­ stazioni di aperta resistenza. Definito impropriamente «olocausto», che nel linguaggio ebraico in­ dicava il sacrificio di una vittima a Dio, e dagli ebrei invece Shoah, ov­ vero «catastrofe», lo sterminio della popolazione ebraica perpetrato dal regime hitleriano è stato oggetto di un lungo dibattito storiografico, che La Shoah: si è interrogato soprattutto sull’opportunità o meno di considerarlo un un unicum nella storia unicum nella storia di tutti i tempi. Evento assolutamente senza prece­ di tutti i tempi? denti nella storia dell’umanità, la liquidazione in massa degli ebrei sa­ rebbe tale, da questo punto di vista, non tanto per il numero delle vitti­ me o per l’efferatezza della loro uccisione, quanto per le modalità della sua realizzazione e i presupposti ideologici che ne erano alla base. Se­ condo la tesi dell’unicità della Shoah, infatti, lo sterminio degli ebrei sa­ rebbe il solo a essere stato condotto per motivi puramente ideologici, astratti e non pragmatici. Creato da miti e allucinazioni che nulla aveva­ no a che vedere con la realtà e con 1’esistenza di autentici «nemici» del

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regime, il genocidio degli ebrei fu il prodotto ultimo di un lungo percor­ so di irrazionalità privo di reali motivazioni utilitaristiche. In secondo luogo, solo la Shoah aveva, nelle intenzioni di Hitler, un carattere globa­ le e universale; a differenza infatti di altri genocidi, circoscritti a luoghi ben precisi, lo sterminio degli ebrei sarebbe stato perpetrato ovunque se la Germania avesse vinto la guerra. Il terzo elemento a sostegno dell’uni­ cità del genocidio ebraico sta nel fatto che fu il solo in cui era prevista l’eliminazione totale del gruppo vittima, bambini inclusi, vista la perico­ losità «biologica», e non culturale, politica o religiosa, del popolo ebrai­ co agli occhi di Hitler. In tutti gli altri genocidi, come quello dei kulaki attuato da Stalin o quello degli armeni ad opera dei turchi, era esistita invece la possibilità per i perseguitati di sopravvivere; i figli dei kulaki, opportunamente «rieducati» nei campi di lavoro, potevano infatti inte­ grarsi nel regime comunista e anche i bambini armeni non furono siste­ maticamente sterminati. Inoltre lo sterminio degli ebrei sarebbe unico per la sua dimensione moderna, industriale e burocratica. Da ultimo, poi, la Shoah sarebbe un evento senza precedenti nella storia per il fatto che tale crimine fu perpetrato nel cuore di quell’Europa in cui avevano preso forma i valori della modernità politico-culturale, attraverso l’uma­ nesimo dell’età rinascimentale e l’universalismo illuminista. Da questo punto di vista, quindi, lo sterminio degli ebrei sarebbe unico in virtù dell’unicità stessa del regime che lo realizzò; secondo l’ideologia e gli obiettivi di Hitler, infatti, il nazionalsocialismo doveva rappresentare il tentativo più radicale di sovvertire i principi di libertà ed eguaglianza affermatisi in Occidente nel corso del XIX e XX secolo. Anche per que­ sto, dunque, il genocidio ebraico è diventato, più di ogni altro crimine moderno, un problema che ha coinvolto tutto il mondo occidentale, e non solo il popolo tedesco; un avvenimento che ha inciso profondamen­ te nella modernità, chiamando in causa la responsabilità di tutti. D ’altro canto, una parte della storiografia respinge il dogma dell’unicità della Shoah, sostenendo che alcuni suoi aspetti furono pre­ senti anche in altri genocidi del XX secolo, ad esempio in quello degli armeni, e mettendo in relazione la brutalità dello sterminio degli ebrei con la lunga sequenza di violenze perpetrate in Europa dal 1914 al 1945. Da tale punto di vista, infatti, la Shoah rappresenterebbe la mani­ festazione più drammatica della crisi generale che investì l’Europa nel­ la prima metà del Novecento, dalla guerra totale del 1914-18 alla Rivo­ luzione bolscevica, fino alla Seconda Guerra mondiale. Inoltre, per gli storici contrari alla tesi dell’unicità del genocidio ebraico si corre il ri­ schio, trasformando la Shoah nell’avvenimento cruciale del XX secolo, di creare una nuova forma di «religione civile», una sorta di ideologia moraleggiante che finirebbe per offuscare la riflessione politica sull’evento in quanto tale. Un’altra conseguenza negativa sarebbe quel­ la di costituire un’implicita gerarchia tra le vittime delle azioni genocidiarie del Novecento, attribuendo indirettamente agli ebrei uno status superiore rispetto a tutte le altre vittime. Più che unica, quindi, la Shoah si potrebbe considerare come un ge­ nocidio «estremo», non tanto perché senza precedenti e senza possibili­ tà di paragone con altri stermini di massa, ma in quanto sintesi assoluta

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Uno sterminio ideologico, totale e potenzialmente universale

La dimensione moderna, industriale e burocratica dello sterminio degli ebrei

Gli altri genocidi del XX secolo

La Shoah: un genocidio «estremo»

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e «perfetta» di tutti gli elementi e i momenti che compongono il proces­ so finalizzato al genocidio. Elementi e momenti, come le procedure di esclusione giuridica prima, di lento annientamento con la ghettizzazio­ ne poi, fino alla liquidazione finale, che non furono presenti tutti insie­ me negli altri genocidi del Novecento. Da questo punto di vista, quindi, la Shoah costituirebbe una sorta di guida morale e metodologica per comprendere gli aspetti particolari e universali di ogni genocidio. 8.5 I movimenti di Resistenza

I movimenti di opposizione al nazifascismo

La dimensione politico-ideologica

La Resistenza francese

L'appello ai francesi del generale De Gaulle

Il ruolo del Partito comunista

Nel linguaggio storico-politico il termine Resistenza indica l’insieme dei movimenti di opposizione, sia politica che militare, sia attiva che passiva, sorti durante la Seconda Guerra mondiale contro l’occupazione delle potenze dell’Asse e i regimi da esse sostenuti. Si trattò di un feno­ meno generalizzato, esteso a tutti i Paesi del continente, anche se diver­ se furono le forme, l’ispirazione e le dimensioni stesse del fenomeno, che in taluni casi assunse un carattere capillare e di massa, in altri rimase circoscritto a minoranze e piccoli gruppi armati con obiettivi limitati. Nei movimenti di Resistenza al nazifascismo convissero quindi elementi comuni a tutti i Paesi come, per esempio, quello della «guerra patriotti­ ca» di liberazione nazionale contro l’esercito invasore, accanto a ele­ menti specifici legati alle singole esperienze dei Paesi coinvolti dall’oc­ cupazione tedesca. Un altro fattore comune fu la dimensione politicoideologica della guerra che, oltre a voler scacciare l’esercito occupante, mirava a ripristinare la libertà e la dignità degli individui negate dai re­ gimi totalitari. In alcuni Paesi la Resistenza assunse anche la forma di «guerra civile» in quanto vide confrontarsi, su fronti opposti, i sostenito­ ri del regime nazifascista o collaborazionista e i resistenti; talvolta, infi­ ne, fu concepita come «guerra di classe» soprattutto da parte dei gruppi comunisti che aspiravano, attraverso il movimento resistenziale, a crea­ re una società socialista al termine del conflitto. Se dunque molti furono i movimenti di Resistenza e diverse le loro storie, alcuni dei più significativi furono senza dubbio quelli francese, jugoslavo e italiano per la rilevanza che acquisirono nella storia suc­ cessiva di questi Paesi. In Francia la firma dell’armistizio con la Ger­ mania nel giugno 1940 diede avvio, sotto la guida del generale Pétain, alla costruzione del regime collaborazionista di Vichy (cap. 8.3). Il 18 giugno, da Londra dove era fuggito, il generale Charles De Gaulle (—>-) lanciò un appello ai francesi invitandoli a continuare la guerra contro i tedeschi in nome e per conto del governo della Francia Libera da lui presieduto; atto che gli valse, da parte del primo ministro Chur­ chill, il riconoscimento di «rappresentante della Francia Libera». Ini­ zialmente poco strutturata e segnata dalla divisione fra gli uomini di De Gaulle, che operavano dall’esilio londinese, e i gruppi antifascisti interni, la Resistenza francese divenne sempre più organizzata ed effi­ cace a partire dall’estate del 1941, soprattutto quando, dopo l’attacco tedesco all’URSS, il Partito comunista assunse un ruolo di primo pia­ no nel movimento.

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Sul territorio francese i resistenti, i cosiddetti maquis condu­ cevano una guerra per bande, mentre gli uomini della Francia Libera di De Gaulle, anche grazie al sostegno fornito da alcune colonie fran­ cesi in Africa che non avevano riconosciuto il regime di Vichy, parteci­ parono a diverse operazioni militari a fianco degli angloamericani nel­ la campagna d Africa. Alla vigilia dell’«operazione Overlord», la Resi­ stenza francese era quindi già ben strutturata e De Gaulle, nonostante le difficoltà e le riserve che suscitava la sua persona, era riuscito a le­ gittimarsi come capo politico del movimento anche presso i gruppi partigiani. Lo sbarco dei soldati angloamericani in Normandia del giu­ gno 1944 cambiò rapidamente le sorti della Francia e della Resistenza francese. Avvisati in codice dell’operazione, i partigiani avevano pre­ parato il terreno sabotando le vie di comunicazione. Il 25 agosto 1944, quando già da una settimana il popolo parigino era insorto, le truppe alleate insieme a De Gaulle e ai reparti della Francia Libera entravano trionfalmente a Parigi. Un mese dopo la Francia era ormai quasi com­ pletamente liberata. Diversa fu la vicenda resistenziale sul territorio jugoslavo. Più estesa dal punto di vista numerico e strutturata militarmente in articolazioni complesse (reparti, brigate, divisioni) che arrivarono a produrre vere forme di guerra manovrata, la Resistenza jugoslava si configurò come un’autentica guerra di popolo. Costituitasi fin dal giugno del 1941, l’Ar­ mata popolare di liberazione della Jugoslavia, guidata dal leader comu­ nista Josip Broz, più noto col nome di battaglia di Tito (—►), riuscì in breve tempo a imporsi sui gruppi nazionalisti e monarchici e il Partito comunista, anche grazie alla sua dimensione transnazionale e interetni­ ca, divenne il principale gruppo politico della Resistenza al nazifasci­ smo. L’Armata popolare, alle cui azioni di guerriglia gli occupanti italotedeschi risposero con feroci rappresaglie anche ai danni della popola­ zione civile, riuscì a espellere le truppe dell’Asse dal territorio jugoslavo tra l’inverno 1944 e la primavera 1945 e lo fece quasi senza l’ausilio dell’Armata Rossa. Nel maggio del 1945 le truppe di Tito occuparono Trieste e parte delle province meridionali dell’Austria, come la Carinzia e la Stiria dove viveva una minoranza slovena. A Trieste gli jugoslavi as­ sunsero immediatamente i pieni poteri e, dopo aver soppresso le libertà civili ed estromesso i partigiani italiani, la proclamarono città autono­ ma. Procedettero quindi a una durissima repressione che culminò nell’uccisione di migliaia di persone e nell’occultamento dei loro cadave­ ri all’interno delle foibe (—►), cavità carsiche di origine naturale presen­ ti nella zona dellTstria e della Venezia Giulia. Sollecitati dai triestini, ma soprattutto desiderosi di poter disporre del porto di Trieste, alla fine gli alleati imposero a Tito di ritirarsi e questi, constatato che Stalin non l’avrebbe appoggiato, il 9 giugno 1945 fece arretrare le proprie truppe lasciando la città sotto il controllo degli angloamericani. Anche in Germania si svilupparono piccoli gruppi di Resistenza composti per lo più da studenti, militari, aristocratici, intellettuali e sa­ cerdoti; il più importante fu quello della Rosa Bianca, costituito da stu­ denti dell’università di Monaco che invitavano i tedeschi alla resistenza passiva contro il regime hitleriano. Questi circoli di opposizione non as-

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Collaborazione con gli angloamericani

La liberazione di Parigi

La Resistenza jugoslava

L'Armata popolare di liberazione guidata da Tito

L'espulsione delle truppe dell'Asse

L'occupazione di Trieste e le foibe

I movimenti di opposizione in Germania

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L'attentato fallito a Hitler

La Resistenza italiana

La caduta di Mussolini e il governo Badoglio

L'armistizio con gli angloamericani

L'operazione Achse

La fuga del re Vittorio Emanuele III

La Repubblica sociale italiana con sede a Salò

L'Italia divisa

Storia contemporanea

sunsero mai, tuttavia, le dimensioni e l’organizzazione delle altre forma­ zioni della Resistenza europee. L’azione più eclatante messa in atto da­ gli oppositori del nazismo fu l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, orga­ nizzato da un gruppo di alti ufficiali della Wehrmacht. L’esplosione della bomba collocata dal colonnello Claus S. von Stauffenberg (—►) nel quartier generale del Fiihrer, per un caso fortuito, ferì solamente Hitler e subito dopo i congiurati furono tutti arrestati e giustiziati. In Italia la Resistenza assunse connotazioni particolari perché la nascita dei movimenti partigiani coincise con la caduta del regime fa­ scista, quando il re Vittorio Emanuele III, forte della messa in mino­ ranza del duce all’interno del Gran Consiglio nella seduta del 25 luglio 1943, pretese le dimissioni di Mussolini, lo pose agli arresti (cap. 8.3) e affidò il mandato per la formazione del nuovo governo al maresciallo Pietro Badoglio (-*-). Nonostante gli scioperi operai che, da marzo, imperversavano nelle città industriali del nord e l’attivismo dei partiti antifascisti in clandestinità, a determinare la caduta di Mussolini non fu la protesta popolare, bensì la disastrosa situazione militare dell’Ita­ lia e la conseguente decisione del re di liberarsi del capo del fascismo per cercare di garantire la sopravvivenza della monarchia. Il nuovo ca­ po del governo, Badoglio, iniziò immediatamente le trattative segrete col comando angloamericano per giungere all’armistizio (cap. 8.3). Condotti in modo incerto e confuso, i negoziati si conclusero il 3 set­ tembre con la firma, a Cassibile, presso Siracusa, dell’armistizio, ma so­ lo il giorno 8 Badoglio ne informò il Paese via radio, affermando che le forze armate italiane avrebbero dovuto reagire «a eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza». Mentre le istruzioni date in quel frangente all’esercito si rivelarono del tutto insufficienti, il Comando supremo tedesco aveva da tempo pre­ disposto la cosidetta operazione Achse che prevedeva, in caso di capito­ lazione italiana, il disarmo immediato di tutti i contingenti italiani di stanza nella penisola e nei Balcani. Tuttavia, nonostante l’importanza politica che avrebbe avuto la difesa di Roma, il re e Badoglio non attua­ rono nessuna misura per impedire l’occupazione della capitale da parte dell’esercito nazista, e anzi l’abbandonarono, insieme alla famiglia reale e a tutti i ministri, nella notte tra F8 e il 9 settembre 1943 per rifugiarsi a Brindisi. Intanto Mussolini, liberato da un commando tedesco dalla pri­ gione del Gran Sasso dov’era detenuto, costituì nel nord d’Italia la Re­ pubblica sociale italiana, un regime filotedesco e collaborazionista, nel quale furono ripresi alcuni temi sociali del fascismo delle origini. Il nuo­ vo governo fascista, la cui sede venne collocata a Salò sulle rive del lago di Garda, si caratterizzò fin dall’inizio per la totale dipendenza, econo­ mica, politica e militare, dal regime hitleriano. Nonostante, infatti, Mus­ solini cercasse di rivitalizzare le correnti radicali e nazional-sindacaliste del fascismo delle origini, la sua Repubblica non acquisì mai una vera le­ gittimità e fu, in tutto e per tutto, omologabile ai regimi collaborazioni­ sti sorti durante la guerra nei Paesi invasi dalla Wehrmacht. L’Italia si trovò così divisa: il centro e il nord della penisola erano controllati dai tedeschi e dai fascisti «repubblichini», mentre il sud era stato liberato dagli angloamericani e vi aveva sede il governo di Bado­

La Seconda Guerra mondiale

glio. Fu in questo drammatico contesto, caratterizzato anche dall’imme­ diato collasso delle forze armate italiane per mancanza di direttive su­ periori da parte del governo, che il fenomeno resistenziale assunse le sue connotazioni tipiche: guerra di liberazione contro il nemico tedesco, guerra civile tra gli italiani e, soprattutto per iniziativa di socialisti e co­ munisti, guerra di classe. Le prime forme di Resistenza attiva nacquero in quella parte dell’esercito che al momento dell’armistizio rifiutò l’inti­ mazione tedesca di cedere le armi; l’episodio più significativo sul terri­ torio nazionale fu quello della difesa di Roma messa in atto da alcuni reparti militari, nonostante la mancanza di ordini superiori, e da una parte consistente della popolazione civile per ostacolare l’avanzata delle divisioni tedesche. Altri episodi di Resistenza da parte delle forze arma­ te si ebbero in Sardegna e soprattutto nei Balcani, dove la Wehrmacht impiegò diverse settimane per avere la meglio sulle truppe italiane, con durissime rappresaglie e centinaia di fucilazioni. Fu a Cefalonia, isola greca del mar Ionio, che si consumò l’episodio più tragico della Resi­ stenza dei militari: la divisione Acqui, composta da circa 12.000 uomini, rifiutò di piegarsi all’ultimatum tedesco che intimava la cessione delle armi e la resa immediata. Dopo una decina di giorni di sanguinosi com­ battimenti, i tedeschi ebbero la meglio, anche grazie ai rinforzi prove­ nienti dalla Grecia continentale, mentre dal governo di Brindisi e dagli alleati nessun aiuto concreto fu portato alla divisione Acqui. Per ordine espresso di Hitler circa 6.500 prigionieri italiani furono fucilati come traditori dai loro ex alleati. Le prime formazioni armate della Resistenza italiana, costituite per lo più attorno a nuclei di ex militari e da nuclei di antifascisti già attivi nel Paese, sorsero spontaneamente nelle zone montagnose e collinari dell’Italia centro-settentrionale, assumendo nel corso del tempo un’or­ ganizzazione stabile e strutturata sulla base dell’orientamento politico prevalente fra i loro membri. Nacquero così i gruppi partigiani legati al Partito d’azione (Giustizia e Libertà), a quello comunista, le brigate Ga­ ribaldi (->-), al partito socialista, le brigate Matteotti (->-), e infine le Fiamme Verdi (—»-) e le Osoppo (—»-), legate al mondo cattolico e alla Democrazia Cristiana, partito che si era ricostituito dalle ceneri del Par­ tito popolare di Luigi Sturzo. Fin dall’inizio, quindi, le vicende della guerra di liberazione nazionale si intrecciarono con quelle dei partiti an­ tifascisti. Già il 9 settembre infatti i partiti antifascisti avevano dato vita al primo Comitato di liberazione nazionale (->-); esso risultava compo­ sto da esponenti del Partito comunista, del Partito socialista di unità proletaria, del Partito liberale, della Democrazia Cristiana, del Partito d’azione e della Democrazia del lavoro. Sorti anche a livello regionale nelle settimane successive, i CLN chiedevano in primo luogo la forma­ zione di un governo emanazione diretta dei partiti antifascisti e aspira­ vano a diventare gli autentici rappresentati dell’Italia democratica e del rinnovamento istituzionale. Nonostante le divisioni politiche interne e le riserve del governo regio e degli angloamericani (i quali avrebbero voluto un movimento partigiano sotto il loro totale controllo), le varie componenti dei CLN riuscirono ad attestarsi su un livello accettabile di compromesso. Questo lo si vide al I Congresso dei CLN, svoltosi a Bari

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Episodi di Resistenza da parte delle forze armate

La tragedia di Cefalonia

I gruppi partigiani di diverso orientamento politico

I Comitati di liberazione nazionale

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Il CLNAI

La «svolta di Salerno» promossa da Togliatti

La nascita del primo governo di unità nazionale

La liberazione di Roma

Il sostegno degli alleati

I Gruppi d'azione patriottica nelle città

Storia contemporanea

nel gennaio 1944, dove si decise di rinviare la scelta tra monarchia e re­ pubblica ad un referendum da tenersi alla fine della guerra; inoltre il CLN di Milano venne trasformato in Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (CLNAI) il quale, sotto la presidenza di Ferruccio Parri (—»■) e Luigi Longo (—>■), assunse la direzione politica e militare della Resi­ stenza nelle regioni settentrionali. A risolvere i contrasti tra le forze antifasciste in merito al futuro as­ setto istituzionale dell’Italia contribuì poi la proposta di Paimiro To­ gliatti, concordata con Stalin, di rimandare la questione istituzionale alla decisione di un’Assemblea Costituente da eleggersi, alla fine della guerra, a suffragio universale. Rientrato in patria il 27 marzo 1944 do­ po 18 anni d’esilio, Togliatti, parlando a Napoli al Consiglio nazionale del PCI, invitò tutti i partiti antifascisti a sospendere le polemiche con­ tro la Corona e ad aderire temporaneamente a un nuovo governo di unità nazionale. Le sue tesi, ricordate in seguito come «la svolta di Sa­ lerno» dalla città dove si era trasferito il governo Badoglio, furono ap­ provate dal partito e trovarono attuazione il 22 aprile con la nascita del primo governo di unità nazionale che, sempre sotto la presidenza di Ba­ doglio, vide la partecipazione dei rappresentanti di tutti i partiti antifa­ scisti. Anche il re Vittorio Emanuele, su sollecitazione di Benedetto Croce ed Enrico De Nicola (—>•), accettò il compromesso e comunicò l’intenzione di lasciare i pieni poteri al figlio Umberto (->-), in qualità di luogotenente generale del Regno, non appena fosse stata liberata Roma, cosa che avvenne nel giugno 1944. Dopo la liberazione della ca­ pitale, si insediò anche un nuovo governo di unità nazionale, espressio­ ne diretta del CLN, guidato dal socialista riformista, che era stato l’an­ no precedente tra i fondatori della Democrazia del lavoro, Ivanoe Bonomi. Nel corso dell’anno si giunse poi a un accordo formale tra il CLNAI e il comando alleato; gli angloamericani offrirono alle forze della Resistenza un cospicuo sostegno militare e finanziario in cambio dell’assicurazione del totale smantellamento delle formazioni partigiane a guerra finita e del pieno riconoscimento dell’autorità degli alleati e del governo da essi riconosciuto. Dal punto di vista militare, la Resistenza si concentrò inizialmente laddove la morfologia del territorio favoriva l’azione per bande: le valli alpine e appenniniche e le zone collinari lontane dalle principali vie di comunicazione. Fin dall’inverno del 1943, comunque, si costituirono i Gruppi d’azione patriottica (—*-) che operavano nelle città a supporto dell’attività partigiana, attraverso azioni di sabotaggio e agguati ad esponenti del fascismo repubblicano o dell’occupante tedesco. Furono proprio i GAP a scrivere alcune delle pagine più intrepide della guerra partigiana: dai numerosi assalti alle carceri per liberare detenuti politici, a quelli alle caserme per prendere armi e munizioni. Ma furono anche protagonisti di azioni controverse come l’uccisione del filosofo Giovan­ ni Gentile a Firenze, il 15 aprile 1944, e l’attentato a una colonna tede­ sca in via Rasella, a Roma, che fu all’origine della rappresaglia tedesca contro 335 civili alle Fosse Ardeatine Soprattutto nelle grandi città operavano anche le Squadre d’azione patriottica ( ^ - ) e i Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai

La Seconda Guerra mondiale

combattenti della libertà, che era un’organizzazione femminile fondata a Milano nel novembre 1943 da alcune esponenti dei partiti antifascisti. Tutti questi gruppi, formalmente riconosciuti dai CLN nell’estate del 1944, sostenevano l’azione partigiana in vari modi: operazioni di colle­ gamento e approvvigionamento delle bande armate, propaganda, tra­ sporto di armi, organizzazione sanitaria, fino a comprendere tutte le pratiche e i comportamenti della cosiddetta Resistenza civile. Un’espres­ sione quest’ultima usata per indicare le iniziative disarmate messe in at­ to dalle istituzioni, politiche, civili e religiose, e dalle popolazioni contro l’occupazione nazista. Nell’estate del 1944 alle azioni isolate di guerriglia cominciarono ad accompagnarsi operazioni militari di più largo respiro, che si conclusero con l’occupazione di ampie zone di territorio e piccoli centri urbani nel nord Italia. Lungo l’arco alpino, dalle vallate cuneesi a quelle friulane (Langhe, Val d’Ossola, Carnia), dall’Oltrepò pavese all’Appennino emi­ liano (Bobbio, Montefiorino), la Resistenza riuscì a creare delle vere e proprie «repubbliche partigiane», amministrate secondo modelli di au­ togoverno popolare, che tuttavia ebbero vita breve. Firenze fu la prima grande città dove l’arrivo degli alleati, nell’agosto del 1944, venne prece­ duto da un’insurrezione armata guidata dagli organismi unitari della Resistenza. NelFautunno-inverno 1944, tuttavia, il movimento resisten­ ziale subì una battuta d’arresto, anche a causa del rallentamento dell’avanzata angloamericana di fronte a una nuova linea difensiva tede­ sca, la linea Gotica (-*-), che correva lungo il contrafforte appenninico da Massa Carrara a Rimini. Il 13 novembre 1944 il generale inglese Harold R. Alexander (—►) annunciava infatti la sospensione delle opera­ zioni alleate in Italia e invitava le bande partigiane a cessare qualsiasi attività su vasta scala. Il proclama, che fu male accolto dalle formazioni partigiane e inasprì le operazioni di rastrellamento attuate dai tedeschi e dai soldati della Repubblica di Salò, contribuì a produrre una crisi temporanea nel movimento resistenziale. Dopo che nel corso della primavera del 1945 erano entrati nelle forze della Resistenza anche gruppi di combattimento del ricostituito esercito italiano, il 25 aprile oltre 200.000 combattenti inquadrati nelle brigate partigiane parteciparono nel nord d’Italia all’insurrezione generale pro­ clamata dal CLNAI. In tutti i centri urbani, con le forze tedesche e fa­ sciste ormai in fuga, i CLN assunsero i poteri civili e militari, insedian­ do gli organi per l’amministrazione civile e i tribunali di guerra per l’amministrazione della giustizia. Due giorni dopo, nei pressi di Dongo sul lago di Como, la 52Abrigata Garibaldi bloccò l’autocolonna tedesca diretta alla frontiera svizzera su cui viaggiava Mussolini insieme ad al­ cuni gerarchi e ministri della RSI. Furono tutti fucilati e i loro corpi vennero appesi a testa in giù in piazzale Loreto, a Milano, dove il 10 agosto 1944 una sorte analoga era toccata a 15 antifascisti ad opera di una milizia della Repubblica sociale. Il tragico epilogo cui andarono in­ contro il duce e i suoi compagni di fuga fu emblematico dell’esasperazio­ ne nei confronti del fascismo che, ritenuto responsabile del dramma del­ la guerra, aveva finito per perdere gran parte del consenso di cui aveva goduto nel corso degli anni Trenta.

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La Resistenza civile

La breve esperienza delle «repubbliche partigiane»

La difesa tedesca lungo la linea Gotica

Sospensione delle operazioni alleate e crisi temporanea del movimento

L'insurrezione generale nel nord Italia il 25 aprile 1945

Cattura e fucilazione di Mussolini

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Storia contemporanea

8.6 Yalta e Potsdam: la nuova carta dell'Europa Dopo la liberazione della Francia e l’avanzata sovietica a est, l’eserci­ to tedesco tentò un’ultima offensiva sul fronte occidentale nel dicembre 1944, attaccando di sorpresa le truppe statunitensi nella regione mon­ tuosa delle Ardenne in Belgio. Grazie però alla massiccia superiorità aerea degli alleati l’avanzata fu respinta e, a partire dal 1945, i tedeschi furono costretti ad abbandonare tutti i territori in loro possesso in Ita­ lia, Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia. Mentre la Germania veniva I bombardamenti sottoposta a incessanti bombardamenti da parte dell’aviazione angloa­ sulla Germania mericana, tra cui il più drammatico fu quello che rase al suolo la città di Dresda nel febbraio 1945, Hitler ordinò alle sue truppe la resistenza a oltranza. Tuttavia, tra aprile e maggio, dopo che erano state liberate Ita­ Il crollo del Reich lia e Austria e l’Armata Rossa aveva cinto d’assedio Berlino, il crollo del e il suicidio di Hitler Reich giunse a compimento. Hitler, rinchiuso da settimane nel bunker della cancelleria, si tolse la vita il 30 aprile. Il 7 maggio la resa incondi­ zionata della Germania, che sarebbe entrata in vigore il giorno dopo, venne firmata dall’ammiraglio Karl Dònitz (—>), designato da Hitler come proprio successore alla presidenza del Reich, di fronte al generale Eisenhower e al maresciallo sovietico Georgij K. Zukov (—>■). Vittorie Anche in Asia la guerra volgeva a favore degli angloamericani sin angloamericane dal 1943 e nell’inverno del 1944-45 fu portata a termine la riconquista in Asia delle Filippine, strategicamente importanti per minacciare il territorio giapponese. Nel corso della prima metà del 1945, tutti gli arcipelaghi del Pacifico centrale e meridionale, occupati dai giapponesi, furono liberati. La resistenza Restava tuttavia da piegare la resistenza del Giappone, la cui risolutezza giapponese a continuare la guerra spinse il nuovo presidente americano Harry S. Truman succeduto a Roosevelt morto il 12 aprile 1945, a impiega­ re sul Giappone la nuova arma a fissione nucleare che era stata messa a punto in quei mesi da un gruppo di scienziati di varie nazionalità, guida­ ti dal fisico italiano Enrico Fermi (->-), ed era stata sperimentata per la prima volta a luglio nel deserto di Alamogordo, nel Nuovo Messico. L'impiego della bomba Il 6 agosto 1945 la prima bomba atomica fu lanciata sulla città giap­ atomica su Hiroshima ponese di Hiroshima, radendola al suolo e provocando oltre 90.000 e Nagasaki morti. Il 9 agosto, dopo che il giorno precedente anche l’URSS era en­ trata in guerra contro il Giappone avanzando con sorprendente rapidi­ tà in Manciuria e Corea, un secondo ordigno fu sganciato su Nagasaki. Nel complesso le vittime di queste due esplosioni furono tra 130.000 e 160.000, mentre decine di migliaia di persone morirono negli anni suc­ cessivi per i postumi delle ferite e gli effetti delle radiazioni. Il 15 ago­ sto l’imperatore giapponese ordinò la cessazione delle ostilità e il 2 La fine della guerra settembre firmò la resa senza condizioni. Terminava così la Seconda Guerra mondiale che, con oltre 50 milioni di morti, di cui poco meno della metà (circa 20 milioni) sovietici, era stata la più grande e cruenta di tutti i tempi. Già prima della fine definitiva del conflitto, le potenze occidentali e l’URSS cercarono di definire di comune accordo il futuro destino dell’Europa e del mondo, anche se non mancarono dissidi soprattutto a causa della preoccupazione degli angloamericani per la straordinaria L'ultima offensiva tedesca

La Seconda Guerra mondiale

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avanzata sovietica nel cuore dell’Europa, necessaria, del resto, a Stalin per ampliare il più possibile la zona di sicurezza per i confini del suo Pa­ ese. Nell’autunno del 1944 fu Churchill a prendere l’iniziativa di con­ frontarsi con gli alleati sul futuro dell’Europa. A ottobre, quindi, nono­ stante Roosevelt non fosse pienamente d’accordo, il premier inglese e il suo ministro degli Esteri Anthony Eden (•—►) si recarono a Mosca per incontrare Stalin e Molotov, mentre per gli Stati Uniti, in assenza di Ro­ osevelt, presenziò l’ambasciatore William A. Harriman (-^-). Fin dai primi incontri, Stalin abbozzò sull’interesse della Gran Bretagna a otte­ nere nuovamente il controllo dell’area mediterranea e della Grecia, aspettandosi che i britannici dimostrassero un’analoga sensibilità verso gli interessi sovietici in Romania e Bulgaria. Alla fine arrivarono a trac­ ciare un accordo informale sulle potenziali sfere di influenza sovietica e angloamericana in Europa, accordo che tuttavia venne poi modificato dagli sviluppi successivi delle vicende belliche. I «tre grandi» si riunirono nuovamente, dopo la Conferenza di Tehe­ La conferenza di Yalta ran, nel febbraio 1945 a Yalta, in Crimea, dove discussero del futuro as­ e le decisioni sul futuro setto della Germania e del problema delle riparazioni di guerra, fissaro­ del mondo no le condizioni per l’entrata in guerra dell’URSS contro il Giappone e approvarono il riconoscimento del governo polacco nominato dai sovie­ tici a cui, però, si sarebbero dovuti aggiungere alcuni esponenti di quello in esilio a Londra. In merito alla Germania si stabilì, come vedremo, la divisione del territorio in quattro zone di occupazione, di cui una attri­ buita ai francesi, e la sua completa denazificazione. In conformità coi principi fissati dalla Carta atlantica del 1941, Roosevelt, Stalin e Chur­ chill approvarono anche una Dichiarazione dell’Europa liberata, che La Dichiarazione sanciva il diritto dei popoli europei di scegliere liberamente la propria dell'Europa liberata forma di governo mediante libere elezioni e di ripristinare il diritto alla sovranità per quei popoli che ne erano stati privati con la forza. Non fu­ rono invece fissate sfere di influenza in Europa, dove l’Armata Rossa occupava Polonia, Romania, Ungheria, Bulgaria e Cecoslovacchia, manteneva buoni rapporti col governo comunista jugoslavo e controlla­ va, insieme agli eserciti britannico e americano, Germania e Austria. Nonostante l’indeterminatezza in cui venne lasciata la questione del futuro assetto europeo, dove le sfere di influenza delle potenze vincitrici sarebbero state, di fatto, determinate dalle conquiste militari raggiunte al termine del conflitto, la collaborazione politica tra gli al­ leati occidentali e l’URSS proseguì nei mesi successivi. A Yalta, infat­ ti, si decise di portare avanti il programma già delineato nella Dichia­ razione delle Nazioni Unite del 1942 che, recuperando l’eredità wilsoniana della cooperazione internazionale per la pace, andava nella direzione di creare una nuova organizzazione sovranazionale simile alla Società delle Nazioni, ma senza quelle limitazioni che ne avevano inficiato l’opera. Nella Conferenza di San Francisco dell’aprile-giugno Nascita 1945 fu quindi siglata la Carta delle Nazioni Unite istitutiva dell’Orga­ dell'Organizzazione nizzazione delle Nazioni Unite (—►). delle Nazioni Unite Finalizzata ad assicurare la pace e la sicurezza internazionale sulla base del principio di autodeterminazione dei popoli, l’ONU venne strut­ turata in tre organismi principali. L’Assemblea generale degli Stati

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Gli organismi dell'ONU

I membri permanenti del Consiglio di sicurezza

La guestione delle aree di influenza in Europa e le sorti della Germania

La Conferenza di Potsdam

La divisione della Germania in guattro zone d'occupazione

Storia contemporanea

membri, originariamente 50, un Segretariato generale, presieduto da un segretario eletto ogni cinque anni dall’Assemblea, e un Consiglio di si­ curezza di 15 membri. Roosevelt, che fin dal 1943 aveva parlato di «quat­ tro poliziotti» della pace nel mondo, intendendo i tre Paesi principali della coalizione antifascista e la Cina, fece in modo che venissero rico­ nosciuti cinque membri permanenti con diritto di veto alFinterno del Consiglio di sicurezza. Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica, Francia e Cina entrarono quindi come membri permanenti del Consi­ glio, mentre gli altri 10 rappresentanti dovevano essere eletti ogni due anni, a rotazione, dall’Assemblea. Il riconoscimento di particolari pote­ ri e compiti ai Paesi membri permanenti del Consiglio dell’ONU costi­ tuiva un’implicita e informale garanzia che ciascuno di essi avesse una propria sfera di influenza in una particolare area geografica, sebbene in questa fase tale spartizione fosse ancora concepita in modo cooperativo e non antagonista. Tale meccanismo finiva tuttavia per vincolare gli Sta­ ti minori alle decisioni di quelli più importanti, in quanto il diritto di ve­ to dei membri permanenti avrebbe potuto bloccare in qualsiasi momen­ to Fazione del Consiglio. Rispetto alla vecchia Società delle Nazioni, l’ONU ottenne poteri e mezzi di intervento più ampi per agire in caso di minacce alla pace; avrebbe infatti dovuto disporre di una forza armata collettiva col compito di intervenire, sotto l’egida dell’organizzazione stessa, contro gli eventuali Paesi aggressori. All’indomani di Yalta e della Conferenza di San Francisco, tuttavia, le questioni spinose ancora irrisolte erano parecchie. La situazione mili­ tare lasciava, infatti, indefinito il problema delle aree di influenza in Eu­ ropa e delle sorti future della Germania, su cui le posizioni degli alleati occidentali e dell’URSS erano divergenti; Stalin temeva il ricostituirsi di una Germania forte e autonoma, mentre la Gran Bretagna e soprattutto gli Stati Uniti erano su questo punto assai più flessibili e possibilisti. Inoltre la decisione americana di usare la nuova arma nucleare sul Giap­ pone, sebbene ufficialmente presa per indurre il governo giapponese al­ la resa e impedire un’ulteriore, massiccia perdita di vite umane america­ ne in un attacco convenzionale, finì per acuire le tensioni con l’Unione Sovietica, squilibrando i rapporti tra i due Paesi. Fu subito evidente, in­ fatti, che il possesso dell’arma atomica rafforzava il primato tecnologico e militare, oltre che economico, degli USA. Nell’ultima conferenza interalleata, che si tenne a Potsdam nel lu­ glio-agosto 1945 mentre la guerra nel Pacifico era ancora in corso, era­ no presenti, oltre a Stalin, il nuovo presidente americano Truman e il leader laburista Clement Attlee (—>-), che era subentrato a Churchill sconfitto alle elezioni del 2 luglio. Quanto alla Germania, furono riba­ dite la smilitarizzazione e la divisione del Paese in quattro zone d’occu­ pazione, affermando nuovamente il principio della denazificazione che ciascuna potenza occupante avrebbe dovuto garantire sul territorio controllato. Venne inoltre riconosciuta definitivamente la supremazia sovietica nei Paesi dell’Europa centrale e orientale, dietro la promessa di far tenere in tempi brevi libere elezioni. All’URSS furono attribuite la Prussia orientale e le regioni orientali della Polonia, mentre il confi­ ne tedesco-polacco venne fissato sulla linea dell’Oder-Neisse. In segui-

La Seconda Guerra mondiale

to a tali decisioni fu accelerata l’espulsione coatta delle minoranze te­ desche da Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria, accompagnata ovunque da violenze e atrocità anche nei confronti di donne, bambini e anziani. Circa 2 milioni di tedeschi persero infatti la vita mentre erano in fuga dai territori dell’Europa orientale e la Germania dovette accogliere cir­ ca 11 milioni di profughi. A Potsdam, tuttavia, non fu raggiunto un ac­ cordo sulla delicata questione dei risarcimenti di guerra da imporre al­ la Germania e ci si limitò a stabilire che all’interno della propria zona di occupazione ciascuna potenza avrebbe gestito autonomamente l’en­ tità e la tipologia delle riparazioni. Come vedremo, proprio questo aspetto sarebbe stato all’origine dei primi gravi dissidi tra gli alleati oc­ cidentali e l’URSS, dal momento che Stalin rivendicava un risarcimen­ to elevatissimo per compensare le enormi distruzioni subite dal suo Paese durante la guerra con la Germania.

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Espulsione e massacro delle minoranze tedesche

La questione irrisolta dei risarcimenti di guerra

9.1 Da alleati a nemici: l'inizio della lunga Guerra Fredda 9.2 II ruolo degli accordi economici nella strategia della coesistenza internazionale 9.3 Tra Welfrne State e società del benessere 9.4 La divisione della Germania 9.5 La guerra di Corea 9.6 Le nuove alleanze: NATOeSEATO contro Patto di Varsavia

Capitolo 9

Il ritorno delle democrazie in un mondo bipolare

9.1 Da alleati a nemici: l'inizio della lunga Guerra Fredda

Le quattro potenze vincitrici

Francia e Gran Bretagna

Stati Uniti e Unione Sovietica

La fine della Seconda Guerra mondiale produsse una radicale ridefi­ nizione degli assetti di potere a livello globale. Delle quattro potenze vit­ toriose sul Reich hitleriano, la Francia, pur ammessa al tavolo dei vincito­ ri in virtù del riconoscimento che la Gran Bretagna aveva tributato a De Gaulle quale unico rappresentante della Francia Libera (cap. 8.5), viveva una condizione di palese inferiorità, essendo stata umiliata dalle truppe tedesche ed avendo subito cinque anni di dura occupazione militare. La Gran Bretagna poteva invece considerarsi la vincitrice morale del conflit­ to, ma lo stato di prostrazione economica causato dai duri anni di guerra e la difficoltà di gestire un impero coloniale ancora vastissimo le rendeva­ no impossibile mantenere il proprio tradizionale status di grande potenza. Grazie anche alla forte personalità di Winston Churchill, la reputazione internazionale della Gran Bretagna si trovava al suo acme, ma la vittoria era comunque stata garantita dall’intervento, prima economico e poi mi­ litare, degli Stati Uniti; e ciò aveva accelerato la subordinazione politica e finanziaria di Londra nei confronti di Washington. Viceversa Stati Uniti e Unione Sovietica si trovavano nell’inedita si­ tuazione di controllare politicamente e soprattutto militarmente la qua­ si totalità degli Stati europei continentali. Si trattava, però, di un duopo­ lio piuttosto asimmetrico: la potenza nordamericana usciva dalla guerra, costatale circa 400.000 caduti e un milione di feriti, con un potenziale economico e finanziario assolutmente inedito, dato che controllava buo­ na parte delle risorse aurifere del pianeta, metà della produzione indu­ striale globale e la gran parte dei capitali finanziari. Ma soprattutto van­ tava una chiara superiorità militare anche nei confronti dell’Unione So­ vietica, resa ancor più evidente dal possesso, allora esclusivo, dell’arma nucleare. Mosca, dal canto suo, era forte del più vasto esercito della sto­ ria, del controllo diretto di un’ampia porzione dell’Europa continentale

Il ritorno delle democrazie in un mondo bipolare

e soprattutto di una grande disponibilità di risorse naturali. Ma l’URSS era anche un Paese profondamente ferito e devastato, dove industria e agricoltura erano state completamente asservite alle necessità belliche. Inoltre era chiaro che, in questa fase, l’Unione Sovietica rappresentava solo una potenza continentale, mentre gli Stati Uniti operavano già dall’inizio del secolo su scala planetaria. Questo bipolarismo non si espresse immediatamente in un confron­ to diretto, e anzi le dirigenze dei due Paesi all’inizio pensarono di poter continuare quella collaborazione che aveva caratterizzato i loro rapporti durante il periodo bellico, confidando che ciò sarebbe tornato a vantag­ gio della mutua sicurezza. Ma ben presto divenne chiaro come ogni azione intrapresa da ciascuna delle due superpotenze generasse subito nell’altra una sensazione di sfiducia e insicurezza. I rapporti si fecero più tesi, infatti, già nelle settimane successive agli incontri di Yalta, quando i sovietici, sulla base del sostanziale riconoscimento da parte americana dell’Europa orientale come sfera d’interesse dell’URSS, attuarono alcu­ ni colpi di mano in Bulgaria e Romania al fine di assicurarsi un più am­ pio margine strategico e di controllo, mentre i comunisti jugoslavi di Ti­ to procedevano all’occupazione di Trieste e Pola. Di fronte alle proteste di Roosevelt e all’insistenza di Churchill affinché le truppe angloameri­ cane si spingessero senza indugio fino a Berlino, Praga e Vienna, Stalin dichiarò unilateralmente che i territori tedeschi a est dei fiumi Oder e Neisse venissero sottoposti all’amministrazione polacca, ossia sotto il sostanziale controllo sovietico. In assenza di un accordo quadro sul fu­ turo trattato di pace con la Germania, i Paesi vincitori, ai quali era stata associata la Francia di De Gaulle, procedettero alla spartizione del suo­ lo tedesco in quattro distinte aree d’occupazione, secondo quanto stabi­ lito alla Conferenza di Potsdam (cap. 8.6). Fra le potenze vincitrici della guerra era ormai diffusa la convinzio­ ne che fosse necessario rendere innocuo il latente ma sempre pericoloso militarismo tedesco. In particolare l’URSS, che aveva dovuto sopporta­ re i costi più alti sul piano umano ed economico, pretendeva precise ga­ ranzie sia per la sicurezza dei suoi confini occidentali, sia a proposito delle riparazioni a essa dovute. Mancando un accordo preciso con gli al­ leati su quest’ultimo punto, Stalin dette il via al trasferimento forzato di intere industrie e materie prime tedesche verso l’Unione Sovietica; provvedimento che risultò non gradito a Washington. Stalin procedette quindi ad affrontare un’altra questione che si era rivelata fondamentale durante gli anni di guerra per la sicurezza russa, ossia il regime di navi­ gabilità degli Stretti sul Mar Nero, fino a quel momento regolata dalla Convenzione di Montreux (—►). Fa Turchia infatti, tra il 1941 e il 1945, aveva proceduto alla loro chiusura, rendendo di fatto inutilizzabile la potente flotta sovietica di stanza nel Mar Nero. Questo elemento di ten­ sione, unito al perdurare di conflitti in Jugoslavia, Albania e Grecia ad opera dei rispettivi partiti comunisti, induceva a ritenere che le mire so­ vietiche nell’area del Mediterraneo non fossero sopite. Di fronte a questo rapido deteriorarsi della collaborazione dei tempi di guerra, il 5 marzo 1946 Churchill, in un discorso al Westminster Col­ lege di Fulton nel Missouri, tracciò un quadro a tinte fosche della situa­

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li colpo di mano dell'URSS nell'Europa dell'est

La spartizione della Germania in quattro aree d'occupazione

La questione dei risarcimenti di guerra

Le mire sovietiche nell'area del Mediterraneo

lensioni tra gli ex alleati

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NATO (istituita nel 1949) Patto di Varsavia (istituito nel 1955)

Oceano Atlantico

Alla N A TO aderiscono anche: Stati Uniti, Canada e Islanda. Al Patto di Varsavia aderisce anche la Repubblica Popolare di Mongolia. Tra parentesi Tanno di adesione.

Storia contemporanea

LE O R G A N IZZA ZIO N I MILITARI EUROPEE D O P O IL 1945

Il ritorno delle democrazie in un mondo bipolare

zione europea. Le parole di Churchill, a cui la presenza del presidente americano Truman conferiva un carattere di ufficialità anche se lo stati­ sta non era più primo ministro, furono molto dure: «da Stettino nel Bal­ tico a Trieste nell’Adriatico una cortina di ferro è scesa attraverso il con­ tinente. Dietro quella linea giacciono tutte le capitali dei vecchi stati dell’Europa Centrale e Orientale. Varsavia, Berlino, Praga, Vienna, Bu­ dapest, Belgrado, Bucarest e Sofia; tutte queste famose città e le popo­ lazioni attorno ad esse giacciono in quella che devo chiamare sfera so­ vietica, e sono tutte soggette, in un modo o nell’altro, non solo all’in­ fluenza sovietica ma anche a un’altissima e in alcuni casi crescente forma di controllo da Mosca». L’introduzione nel linguaggio politico del temine «cortina di ferro» palesò uno spettro che già da qualche tempo agitava le cancellerie di tutta Europa: ossia la nascita di uno stato per­ manente di tensione internazionale, una vera e propria Guerra Fredda, termine coniato nel 1947 dal giornalista Walter Lippmann (—*-), che si sarebbe presto materializzata nella divisione in blocchi dell’Europa. Questo famoso discorso, unito al preoccupato documento (il cosid­ detto «lungo telegramma») di un funzionario dell’ambasciata americana a Mosca, George F. Kennan (->-), fecero sviluppare all’amministrazio­ ne americana la strategia del containment, passata alla storia come «dot­ trina Truman». Basata sull’idea che l’asfissia porta all’indebolimento, tale tattica si fondava sul presupposto di «contenere» il comuniSmo all’interno dei suoi confini, appoggiando le nazioni non ancora comuni­ ste a resistere a tali possibili infiltrazioni. Essa prese corpo come reazio­ ne ad alcune crisi che stavano interessando l’area mediterranea e medio­ rientale: la guerra civile greca (1946-1949), dove forze comuniste stava­ no cercando di abbattere il monarca Giorgio II (—*-) ritornato sul trono nel 1944; le pressioni sempre più forti di Mosca sulla Turchia; la perma­ nenza delle truppe sovietiche nel nord dell’Iran, occupato nel 1941. In un intervento in cui delineò l’essenza del containment, Truman affermò che «la politica degli Stati Uniti deve essere quella di appoggiare i popo­ li liberi che resistono ai tentativi di assoggettarli compiuti da minoranze armate o da pressioni esterne». Si trattava di una sorta di dichiarazione formale dell’inizio della Guerra Fredda. Subito dopo, infatti, il Congres­ so americano dispose i finanziamenti per combattere i comunisti in Grecia e in Turchia. Le truppe sovietiche abbandonarono invece i terri­ tori dell’Iran in seguito alla promessa di ingenti concessioni petrolifere da parte di quel governo. Nel frattempo cadevano nelle mani dei partiti comunisti tutti i Paesi dell’Europa orientale. In Polonia, il Comitato polacco di liberazione na­ zionale, che aveva sede a Lublino, era stato appoggiato da Stalin fin dal 1944; quando i territori polacchi furono posti sotto il controllo sovietico, il Comitato di liberazione assunse la guida del governo e iniziò a lavora­ re in stretta collaborazione con Mosca. In Jugoslavia e Albania, dove erano presenti forti movimenti partigiani di ispirazione comunista, i partiti comunisti assunsero il potere senza l’aiuto dell’Armata Rossa. Diversa la situazione in Bulgaria e Romania: i partiti comunisti, inizial­ mente posti all’interno di coalizioni di governo più ampie, giunsero a conquistare il controllo di tutte le istituzioni e gli apparati dello Stato

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Il discorso di Churchill e la «cortina di ferro»

L'inizio della Guerra Fredda

La «dottrina Truman» per il «contenimento» del comuniSmo

Le crisi nell'area mediterranea e mediorientale

I comunisti al potere nell'Europa orientale

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Il colpo di stato a Praga

Contrapposizione ideologica tra Est e Ovest

Storia contemporanea

tra il 1947 e il 1948 grazie all’appoggio sovietico. In Ungheria i comuni­ sti, in occasione delle elezioni del 1947 in cui il governo filosovietico fe­ ce ampio uso di brogli e violenze, sconfissero definitivamente i partiti liberali. La «sovietizzazione» dell’Europa dell’est fu completata nel feb­ braio 1948 dal colpo di stato che ebbe luogo a Praga. Il partito comuni­ sta cecoslovacco, con la minaccia di uno sciopero generale e di un’insur­ rezione di massa che avrebbero paralizzato il Paese, costrinse il presi­ dente della Repubblica a eliminare dal governo tutti i ministri non comunisti. Nel giro di pochi mesi anche in Cecoslovacchia si costituiva un regime comunista filosovietico. Iniziava così la fase più radicale della Guerra Fredda, caratterizza­ ta da una contrapposizione ideologica e di modelli culturali: due visio­ ni del mondo e della giustizia irriducibilmente contrastanti. Est e Ovest apparivano ormai due concetti antitetici: Truman parlava di «mondi», i sovietici di «campi» contrapposti. In Europa le due aree di influenza divennero reciprocamente impermeabili; il violento antica­ pitalismo sovietico fungeva, infatti, da ovvio complemento all’antico­ munismo americano. 9.2 II ruolo degli accordi economici nella strategia della coesistenza internazionale

Mentre il conflitto era ancora in corso, si posero le basi dei rapporti economici e monetari che avrebbero caratterizzato il quadro internazio­ La conferenza nale del dopoguerra. Sotto l’impulso e la guida degli Stati Uniti, si tenne internazionale nel luglio del 1944 a Bretton Woods, cittadina del New Hampshire, di Bretton Woods un’importante conferenza internazionale che vide 45 Stati riunirsi per stabilire le regole delle nuove relazioni commerciali e finanziarie tra i principali Paesi industrializzati del mondo. L’idea di fondo era quella di Il mercato mondiale creare un mercato mondiale dominato dai principi della libera concor­ renza. Vennero così ridimensionate le norme protezionistiche e furono aperte al libero commercio quelle che, in precedenza, erano state le «aree preferenziali» riservate alle singole potenze, come per esempio l’Impero britannico. A Bretton Woods si istituì inoltre il Fondo monetario internazionale Il Fondo monetario internazionale (—►), un’istituzione finanziaria sovranazionale incaricata di costituire un’adeguata riserva valutaria mondiale, da cui gli Stati avrebbero potu­ to attingere in caso di necessità, nonché di assicurare la stabilità inter­ nazionale dei cambi valutari. Per fare ciò venne deciso di fissare la pa­ rità dell’oro al dollaro, al prezzo di 35 dollari americani per oncia. In Il gold dottarstandard pratica si introduceva una sorta di gold dollar standard internazionale, in cui la funzione d’intermediazione fra l’oro e tutte le altre monete era svolta dalla moneta americana. Dal momento che gli Stati Uniti, già a partire dagli anni Trenta, avevano dato il via a un ampio processo di concentrazione delle riserve auree mondiali, il sistema valutario sorto nel dopoguerra fu la diretta conseguenza della supremazia politica, economica e militare degli USA. A Bretton Woods furono create altre fondamentali istituzioni economiche, come l’Organizzazione interna­

Il ritorno delle democrazie in un mondo bipolare

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zionale del commercio e la Banca mondiale, nata quest’ultima allo sco­ Organizzazione po di concedere prestiti agli Stati per sostenerne la ricostruzione e lo internazionale sviluppo. Con il General Agreement on Tariffs and Trade (—►), stipula­ del commercio to a Ginevra nell’ottobre 1947, si stabiliva un generale abbassamento e Banca mondiale dei dazi doganali aprendo la strada all’affermazione di un sistema pie­ namente liberoscambista. Se questi interventi miravano a dare una nuova struttura alle relazio­ ni economiche tra i Paesi, all’indomani della guerra permaneva, tutta­ via, un grave problema congiunturale: il collasso economico in cui ver­ Il collasso economico sava l’intera Europa. La distribuzione alimentare era carente, le reti di dell'Europa collegamento in larga parte distrutte, l’inflazione in costante aumento con una grave ricaduta sulla bilancia dei pagamenti di tutti i Paesi. Di fronte a questo quadro il segretario di Stato americano George Mar­ shall (—►) mise a punto un piano straordinario di aiuti diretto ai Paesi europei. Ciò rientrava nella logica della strategia del containment enun­ Il piano straordinario ciata da Truman, ma fino a quel momento attuata solo nei confronti di di aiuti americani Turchia e Grecia. Secondo Marshall e l’amministrazione americana, in­ fatti, le difficoltà economiche e il conseguente rischio di un’impennata delle tensioni sociali avrebbero potuto contribuire a una crescente legit­ timazione dei partiti comunisti nei Paesi distrutti dalla guerra. L’European Recovery Program il piano proposto da Marshall Il «Piano Marshall» nel giugno 1947 e passato alla storia con il suo nome, fu un disegno poli­ tico ampio e organico. Prevedeva lo stanziamento di ingenti risorse in un lasso di tempo di quattro anni per finanziare progetti di ricostruzio­ ne e sviluppo autonomamente proposti dalle nazioni europee. Nell’otti­ ca americana ciò non solo avrebbe contribuito a ridurre il conflitto so­ ciale grazie all’espansione dei consumi e del benessere, favorendo con­ temporaneamente il consolidamento delle istituzioni democratiche, ma avrebbe avuto innegabili effetti positivi anche sulla riconversione dell’economia e del sistema produttivo degli Stati Uniti, per via dell’ine­ vitabile crescita delle esportazioni sostenuta dall’aumento della doman­ da di beni da parte dei Paesi europei. Il piano avrebbe inoltre dovuto fa­ vorire l’integrazione e il rafforzamento dell’intera Europa, motivo per cui negli ambienti governativi statunitensi si iniziò a parlare della neces­ sità di sostenere anche la ricostruzione economica della Germania. Benché inizialmente il Piano Marshall fosse rivolto a tutti i Paesi eu­ ropei, compresi quelli sottoposti al controllo sovietico e la stessa URSS, alla conferenza internazionale che si tenne a Parigi alla fine di giugno apparve evidente l’inconciliabilità fra le posizione dei ministri degli Il rifiuto da parte Esteri francese e britannico e quelle del ministro sovietico Molotov. dell'URSS Questi sostenne che il piano era un attacco diretto all’indipendenza de­ gli Stati europei, poiché prevedeva l’integrazione delle aree economiche e la compartecipazione americana alla gestione dei fondi; lo interpreta­ va, in sostanza, come un affondo diretto all’espansionismo sovietico. Fallito tale vertice, ne venne convocato un secondo a metà luglio 1947, cui aderirono 16 nazioni europee, tranne gli Stati dell’est e la Finlandia. I governi di Varsavia e Praga manifestarono un deciso interesse nei con­ fronti del piano americano, ma il niet di Molotov chiuse ogni spazio alle trattative. Dopo due mesi di lavori la conferenza produsse un documen-

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I piani Molotov di aiuti ai Paesi dell'est Nascita del Cominform

Profonda e asimmetrica divisione sotto il profilo economico

Storia contemporanea

to che prevedeva un impegno statunitense per 22 miliardi di dollari in 48 mesi, cifra ridotta da Truman a 17 miliardi (quelli effettivamente spe­ si furono in realtà 13). Fu creata un’Organizzazione per la cooperazione economica europea (—->•) che, pur rivelandosi nel tempo estremamente inefficiente, rappresentò un primo tentativo, sebbene non intenzionale, di integrazione europea. L’elaborazione del Piano Marshall e il suo rifiuto da parte delFURSS finirono così per confermare la definitiva divisione dell’Europa in due blocchi: quella che era una realtà già evidente andò oltre il punto di non ritorno con il varo dei piani Molotov, ossia un programma di aiuti alle economie dell’Europa dell’est al fine di integrarle in modo strutturale nel sistema sovietico. La divisione dell’Europa fu ulteriormente raffor­ zata dalla nascita del Cominform (—>-), l’Ufficio di informazione comu­ nista creato da Mosca nel settembre 1947 per strutturare in modo stabile il collegamento tra i partiti comunisti dei Paesi dell’est europeo e quelli presenti negli Stati dell’Europa occidentale, in particolare il PCI e il PCF che godevano di un ampio consenso nei rispettivi Paesi. La logica di antagonismo bipolare della Guerra Fredda portò, nel gi­ ro di poco tempo, a una profonda e asimmetrica divisione dell’Europa anche sotto il profilo economico. I Paesi dell’est conobbero, fino a metà degli anni Sessanta, una crescita vertiginosa dell’economia che tuttavia era legata alla pianificazione imposta da Mosca, all’industria pesante e a quella degli armamenti. Soprattutto, restarono un’area isolata e prona alle esigenze della superpotenza di riferimento. Al contrario, le nazioni dell’Europa occidentale conobbero fino al 1973 un vero boom economi­ co favorito, come vedremo, da un’alta disponibilità di manodopera, tassi d’inflazione contenuti e da un debito pubblico attestatosi su livelli accet­ tabili. Grazie a un deciso vantaggio tecnologico, la quota del commercio mondiale rappresentata da Stati Uniti, Europa occidentale e Giappone crebbe fino a raggiungere il 69% nel 1970, mentre l’Europa dell’ovest mostrava indici economici e un tenore di vita e prosperità paragonabili a quelli statunitensi. 9.3 Tra Welfare Sta te e società del benessere

Ripensamento del concetto di Stato

Lo Stato come erogatore di servizi

Il mondo era uscito dal secondo conflitto mondiale devastato mate­ rialmente e moralmente. Fu di fronte a tanta distruzione che presero consistenza le tesi volte a superare il concetto tradizionale dello Stato come espressione esclusiva di potenza, warfare, per ripensarlo invece in termini di welfare, ossia uno Stato che agisce in maniera positiva per concedere a tutti i suoi cittadini il più ampio grado di benessere materia­ le e morale. Se negli Stati Uniti il benessere era inteso più che altro co­ me accesso ai consumi dei beni di massa, in Europa si impose, con più forza rispetto al passato, una visione dello Stato come erogatore di ser­ vizi. Benché si trattasse di un dibattito che aveva una lunga storia alle spalle e misure di legislazione sociale fossero state adottate da vari go­ verni europei già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, la novità era rappresentata dalla formulazione di un nuovo tipo di diritti di citta­

Il ritorno delle democrazie in un mondo bipolare

dinanza, che, intesi complessivamente, assumevano la valenza di un ve­ ro e proprio «patto sociale». In tale ottica, quindi, lo Stato diventava «sociale», ossia uno strumento di promozione della dignità individuale inserita in un contesto collettivo. In una conferenza tenuta nel 1949, il sociologo Thomas H. Marshall (—>-) diede voce ai cambiamenti avvenuti distinguendo tre dimensioni della cittadinanza: quella giuridica, quella politica e quella sociale. Se­ condo Marshall, la dimensione della cittadinanza sociale è quella che permette il ricomponimento della grande frattura venutasi a creare ne­ gli Stati moderni con la rivoluzione industriale: la lotta di classe fra capi­ talismo e proletariato. Nello Stato sociale, infatti, la fabbrica dovrebbe diventare un elemento di unione fra le classi, in quanto strumento di creazione di una ricchezza redistribuita grazie all’opera dello Stato. A dimostrazione del cambiamento intervenuto sul piano concettuale, le nuove Carte costituzionali adottate dagli Stati europei nel secondo do­ poguerra furono molto spesso di tipo programmatico e prescrittivo. Ol­ tre ai diritti e ai valori su cui doveva fondarsi il rapporto fra le istituzio­ ni, esse contenevano infatti anche alcuni principi di ordine sociale e re­ distributivo che lo Stato si impegnava a perseguire. A determinare questo cambiamento di prospettiva circa il ruolo del­ lo Stato non fu, tuttavia, solo il conflitto. Ad esso aveva contribuito an­ che, nella prima metà del XX secolo, la drammatica crisi economica del 1929 (cap. 6.7 e 6.8), che aveva reso evidente come un sistema capitalista senza regole avrebbe potuto condurre alla sua implosione. Anche Keynes, discostandosi dalle teorie classiche dell’economia liberista, mise l’accento sui nuovi compiti di un moderno Stato interventista in ambito economico e sociale (cap. 1.5). Analizzando i fattori da cui dipende la formazione del reddito nazionale, come la domanda interna, gli investi­ menti e il risparmio, egli sottolineò che era compito dello Stato adottare politiche di sostegno ai consumi e alla domanda di beni al fine di garan­ tire la piena occupazione, la stabilità e il dinamismo della produzione industriale. Il concetto di Welfare State, all’indomani della Seconda Guerra mondiale, nacque quindi nella cornice delle teorie keynesiane a cui si aggiunse, nel 1942, l’importante contributo del pubblicista inglese William Beveridge. Uno dei Paesi europei nei quali l’edificazione dello Stato sociale di­ venne, come vedremo, una delle priorità dei governi del dopoguerra fu la Gran Bretagna. Tornati al potere i laburisti nel 1945, il governo trasfe­ rì via via nelle mani pubbliche alcuni importanti settori dell’economia ed attuò una serie di fondamentali provvedimenti di legislazione socia­ le, tra cui l’estensione del sistema di assicurazioni obbligatorie alla quasi totalità della popolazione, l’istituzione di un salario minimo nazionale, la concessione di assegni familiari e l’istituzione di un sistema di sanità gratuita per tutti i cittadini, non più legata al pagamento di un premio assicurativo, ovvero alla produzione di un reddito. Il modello di Welfare State britannico riscosse molto credito in tutta Europa e fu infatti imita­ to da numerosi Stati, quali Francia e Svizzera. Mentre in Italia l’esempio inglese contribuì solo a sviluppare un ampio dibattito sulla condizione dei lavoratori, Belgio e Olanda cercarono invece di estendere il settore

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Lo Stato «sociale»

Il ricomponimento della lotta di classe

I pericoli di un sistema capitalista senza regole

Le teorie keynesiane e il concetto di WelfareState

Il modello della Gran Bretagna

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Storia contemporanea

relativo ai sussidi di disoccupazione, visti come uno strumento di soste­ gno alla domanda di beni in periodi di crisi economica. Gli stessi Paesi scandinavi presero in considerazione l’introduzione I Paesi scandinavi di alcune originali soluzioni del modello inglese; ma in questo contesto gli importanti risultati raggiunti dipesero anche da una consolidata esperienza di Welfare State iniziata fin dai primi anni del Novecento. In particolare la Svezia, governata fin dagli anni Venti da una maggio­ ranza socialdemocratica, aveva realizzato un capillare sistema di ga­ ranzie sociali rivolto all’intera cittadinanza e finanziato attraverso una forte pressione fiscale; lo Stato svedese utilizzava, cioè, lo strumento dell’imposizione fiscale come meccanismo di redistribuzione non di capitali ma di servizi. La Repubblica federale tedesca, ovvero la parte della Germania che, La Repubblica federale tedesca dopo la divisione del 1949, aveva dato vita a un sistema politico di stam­ po liberal-democratico e gravitava nell’orbita statunitense, fu il Paese europeo dove lo sviluppo del benessere sociale divenne essenziale per la sua stessa esistenza politica. Infatti, il governo di Bonn si impegnò tena­ cemente per garantire ai propri cittadini un alto tenore di vita, di sicu­ rezza, di benessere e di libertà personale, con l’obiettivo non solo di fa­ vorire la ricostruzione e la ripresa economica, ma soprattutto di dimo­ strare ai tedeschi e al mondo intero la validità di un sistema basato sull’«economia sociale di mercato». Unita ad altri fattori, come la presenza di una vasta area di libero scambio, la piena libertà d’impresa e manodopera a basso costo, l’at­ tenzione dei governi al riequilibrio sociale e al sostegno della domanda Il vertiginoso boom interna contribuì a produrre, nel giro di alcuni anni, un vertiginoso bo­ economico om economico. Nel trentennio fra il 1950 ed il 1980 la produzione ma­ nifatturiera in Europa aumentò con tassi che variarono fra il 100% del­ la Gran Bretagna e il 450% dell’Italia, mentre il Giappone arrivò a re­ gistrare un prodigioso 1.200%. Ancor più stupefacente fu la dimensione di crescita del commercio internazionale, aumentato di 15 volte nel cor­ so di questi trent’anni. Questo fenomeno di impetuosa crescita econo­ Rivoluzione mica portò anche a una vera e propria rivoluzione dei consumi e degli dei consumi stili di vita. Beni di consumo non di prima necessità, come elettrodo­ e degli stili di vita mestici, automobili, radio e televisione, cominciarono a essere acqui­ stati da settori sempre più ampi di popolazione e l’avviarsi di questa nuova stagione di consumismo di massa - dinamica che coinvolse tutti i Paesi dell’Europa occidentale - non solo modificò il quadro sociale tra­ dizionale, ma finì anche per avvicinare sempre di più le società europee a queììAmerican way o f life che proprio in quegli anni cominciava a pe­ netrare nell’immaginario collettivo attraverso il cinema, l’editoria, le trasmissioni radiofoniche e televisive. Per definire questo generale ri­ La «democratizzazione» baltamento delle abitudini di consumo si è parlato addirittura di «de­ del benessere mocratizzazione» dei consumi e del benessere, poiché strati sempre più ampi di popolazione potevano permettersi beni fino a quel momento ri­ servati alle élite. Si fece interprete, in negativo, di questi cambiamenti l’economista canadese John Kenneth Galbraith (—>■) il quale, in un libro pubblicato nel 1958 sulla affluent society, indicò come nella società dell’epoca i cit-

Il ritorno delle democrazie in un mondo bipolare

tadini venissero considerati solamente in funzione della loro capacità di consumatori, piuttosto che nella loro veste di individui portatori di dirit­ ti e valori. Bollata immediatamente come antimoderna e di ispirazione socialista, la tesi di Galbraith tendeva piuttosto a sottolineare la nascita di un processo ormai inarrestabile, quello, appunto, della società dei consumi, sempre più dominata da processi aziendali complessi, dal con­ sumismo di massa e da un conseguente ridimensionamento della capaci­ tà normativa dello Stato.

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La critica di Galbraith

9.4 La divisione della Germania La divisione della Germania in zone da porsi sotto il controllo delle potenze vincitrici era stata definita già alla Conferenza di Yalta (cap. 8.6) . In base a quegli accordi, dopo la resa incondizionata dei tedeschi, il 5 giugno 1945 assunse tutti i poteri di governo il Comando supremo del­ le zone di occupazione, di cui facevano parte i rappresentanti di USA, URSS, Gran Bretagna e Francia. Costituita l’amministrazione quadripartita sulla città di Berlino, che risultò anch’essa divisa tra una zona est di competenza sovietica e una zona ovest sotto il comando delle truppe anglo-franco-americane, ciascun Paese assunse il controllo dei territori di propria competenza. Il controllo sovietico si estese sull’area orientale della Germania; facevano invece parte della zona americana le regioni meridionali e centro-occidentali; alla Gran Bretagna toccò la zona cen­ tro-settentrionale e alla Francia le aree sud-occidentali. Alla successiva Conferenza di Potsdam del luglio-agosto 1945 (cap. 8.6) si dettarono alcune linee guida circa il modo con cui le forze di oc­ cupazione avrebbero dovuto rapportarsi al popolo tedesco. Ebbe così origine quello che può essere definito il protocollo delle «Quattro D», cioè gli obiettivi che gli occupanti avrebbero dovuto perseguire all’inter­ no dei propri territori: democratizzazione, denazificazione, demilitariz­ zazione e decartellizzazione, a cui si aggiungeva anche un progetto di decentralizzazione. Erano questi i principi sui quali doveva basarsi l’operato dei vincitori per portare il popolo tedesco fuori dalla dramma­ tica esperienza del nazionalsocialismo. In realtà, le potenze alleate dimostrarono ben presto di leggere con lenti diverse i principi che esse stesse avevano fissato di comune accor­ do, fino ad arrivare, come vedremo, ad applicare politiche autonome all’interno delle proprie zone. Un chiaro esempio delle difficoltà di as­ sumere una linea interpretativa comune lo si ebbe fin dal processo di Norimberga (—►), che avrebbe dovuto essere l’esempio di come realiz­ zare, secondo una logica unitaria, il principio della denazificazione. Il processo si tenne sotto la presidenza di una corte paritetica interalleata. Già in quella sede, tuttavia, quando si arrivò alla sentenza finale, i sovie­ tici posero su questa una riserva di natura in parte politica, in parte giu­ ridica. Politica, poiché la sentenza riconobbe come organizzazioni cri­ minali naziste solo il Partito nazionalsocialista, le SS, le SA e la Gestapo, escludendo quindi il governo e lo stato maggiore militare; giuridica, per l’assoluzione riconosciuta a Hans Fritzsche (-*-), vice di Joseph

Divisione della Germania e di Berlino

Il protocollo delle «Quattro D»

Il processo di Norimberga

Le riserve sovietiche sulla sentenza

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La differenza tra le potenze occupanti nelle quattro zone

Inglesi e americani

L'unione della «Bizona» angloamericana

Progressivo avvicinamento francese: la «Trizona»

Adesione al Piano Marshall e impulso alla ricostruzione

Rottura con l'URSS

LaSED

Storia contemporanea

Goebbels, a Franz von Papen e a Hjalmar Schacht ministro dell’Economia dal 1934 al 1937. Ancor più drastica fu la differenza tra le potenze occupanti circa il modo in cui fu riavviata la ricostruzione nelle quattro zone. Memori de­ gli errori di Versailles nel 1919, gli inglesi non vollero fiaccare lo spirito già provato del popolo tedesco e, conseguentemente, promossero la for­ mazione di strutture embrionali di autogoverno per incoraggiare la ri­ presa del confronto politico e la formazione dei partiti. A loro volta gli americani sostennero la pubblicazione di diverse testate giornalistiche e si attivarono in vere e proprie attività di rieducazione politica, affidan­ dole in alcuni casi a quegli stessi tedeschi che avevano lasciato la Ger­ mania ed erano emigrati negli USA al momento dell’ascesa hitleriana. Più limitata, invece, fu l’opera di denazificazione della società, che pure gli americani avevano iniziato in maniera capillare ma che ben presto fu rallentata sia per esigenze di funzionamento del Paese, sia in funzione anticomunista. Gli intenti comuni sul versante politico ed economico, insieme alla necessità del governo britannico di gestire la difficile situa­ zione di fermento nell’area del Mediterraneo e nel Commonwealth, por­ tarono nel novembre 1946 alla ratifica di un accordo tra il ministro degli Esteri britannico Ernest Bevin (—►) e il segretario di Stato americano James Byrnes (-»-), secondo il quale le due rispettive zone venivano unite dando origine alla «Bizona». L’impulso alla ripresa economica fu da questo momento in poi l’obiettivo primario perseguito nell’area an­ gloamericana, dove gli interventi volti alla ricostruzione acquisirono l’assoluta priorità. Nonostante la Francia fosse più sensibile ai temi della sicurezza e delle riparazioni, rispetto ai quali poteva contare su un appoggio assolu­ to dell’Unione Sovietica, col passare dei mesi e con l’inasprirsi dei rap­ porti tra Est e Ovest, si assistette a un progressivo avvicinamento fran­ cese alla Deutschlandpolitik angloamericana. Il punto di arrivo di que­ sto processo, che avrebbe condotto alla formazione della «Trizona», lo si ebbe alla conferenza tenutasi a Londra nel febbraio 1948 fra le tre po­ tenze occupanti e i Paesi del Benelux (—►). In quella sede si approvò l’adesione delle zone occidentali della Germania al Piano Marshall e si arrivò a prefigurare la possibilità di un governo autonomo per la Ger­ mania occidentale. Posti di fronte all’unificazione territoriale delle zone occidentali, i sovietici accusarono gli angloamericani di essere venuti meno agli accordi di Potsdam e il 20 marzo 1948, a fronte delle scelte fatte a Londra, il maresciallo sovietico Vasilij D. Sokolovskij (—>) ab­ bandonò definitivamente il comando interalleato, ufficializzando la fine di un rapporto che si era già incrinato da tempo. Nonostante le accuse mosse agli alleati, fu per prima l’Unione Sovietica a contravvenire al principio, sanzionato proprio a Potsdam, secondo cui le potenze occu­ panti avrebbero dovuto operare al fine di preparare una «ricostruzione della vita politica tedesca su una base democratica, in vista di una colla­ borazione pacifica della Germania nel campo internazionale». Nella zo­ na orientale, infatti, fin dalla primavera del 1946 vi era stata l’imposizio­ ne dell’unificazione forzata tra socialdemocratici e comunisti che portò alla formazione del Sozialistische Einheitspartei Deutschlands, comu­

Il ritorno delle democrazie in un mondo bipolare

nemente noto con la sigla SED. Quest’operazione, condotta dal gruppo dirigente comunista rientrato in Germania al seguito dell’Armata Rossa e finalizzata a evitare che l’SPD prendesse il controllo del movimento operaio nella zona orientale, riuscì nell’intento, ma la forzatura con cui fu realizzata alzò il livello di allarme delle potenze occidentali e dello stesso popolo tedesco circa le mire sovietiche. La diversità degli orientamenti, in campo politico ed economico, fra le azioni degli anglo-franco-americani a ovest e quelle dei sovietici a est convinse sempre più gli Stati Uniti che, nonostante la questione dell’uni­ ficazione tedesca rimanesse un problema aperto, era ormai giunto il momento di dare una spinta acceleratrice all’economia della Germania occidentale. Fu così che si decise, in modo unilaterale, di procedere al cambio della moneta. La riforma monetaria, che riguardava solo la «Trizona», fu resa nota il 18 giugno 1948 e diventò operativa due giorni do­ po. Con la riforma si sostituivano i vecchi reichsmark con i deutsche mark. Inoltre si tolsero sia il controllo sui prezzi, fatto fino al quel mo­ mento, sia il blocco dei salari. Nessun ammortizzatore, richiesto dai sin­ dacati, venne applicato a favore delle fasce più deboli. Era questa la ba­ se di partenza di queH’«economia sociale di mercato» di cui sarebbe sta­ to promotore, negli anni Cinquanta, il ministro dell’Economia della Repubblica federale tedesca Ludwig Erhard (—►). All’inizio, tale pro­ spettiva diede luogo a dubbi e difficoltà, ma col tempo rappresentò la carta vincente dell’economia tedesco-occidentale. La reazione sovietica al cambio della moneta fu immediata. Il 23 giu­ gno venne annunciato il cambio della moneta anche nell’area orientale; le nuove banconote ebbero il nome di deutsche mark-ost. L’impatto del­ la nuova moneta sull’economia della Germania orientale fu tuttavia mi­ nimo e nella città di Berlino, dove inizialmente giravano entrambe le nuove monete anche se in modo non ufficiale, i due marchi si scambia­ vano con un rapporto 4 a 1 a favore della moneta dell’ovest; il che stava a indicare come fin da subito i berlinesi ponessero minor fiducia nelle banconote create dai sovietici. Al fine di impedire l’estendersi dell’eco­ nomia di mercato nella propria zona, a partire dal 24 giugno, giorno suc­ cessivo all’entrata in vigore del marco orientale, i sovietici bloccarono tutti gli accessi terrestri a Berlino ed estesero la validità della propria moneta nel settore ovest della città. Si cercava, in questo modo, di elimi­ nare di fatto quella piccola enclave occidentale all’interno dei territori tedeschi orientali, pensando così di poter anche impedire la formazione di uno Stato tedesco occidentale autonomo. La reazione angloamerica­ na fu immediata. A partire dalla notte tra il 24 e il 25 giugno furono bloccati i rifornimenti di carbone e acciaio provenienti dalla Ruhr verso la Germania orientale e allo stesso tempo si diede vita a un gigantesco ponte aereo che avrebbe costantemente rifornito i berlinesi. Si trattò di un’impresa titanica, in quanto occorreva rifornire con un enorme ponte aereo una città di oltre 2 milioni di abitanti che richiedeva giornalmente almeno 4.500 tonnellate di viveri, medicinali e combustibili. Inoltre gli USA, nel timore di un possibile conflitto, trasferirono in Gran Bretagna anche un certo numero di bombardieri dotati di armi atomiche, che rap­ presentavano una chiara minaccia nucleare per l’URSS.

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La riforma monetaria nella «Trizona» occidentale

L'«economia sociale di mercato»

La reazione sovietica

Il blocco degli accessi terrestri a Berlino

Il gigantesco ponte aereo degli angloamericani per rifornire Berlino

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La fine del blocco di Berlino

Storia contemporanea

Stati Uniti e Unione Sovietica si fronteggiarono con il blocco di Ber­ lino per circa un anno finché, senza che nulla mutasse nel controllo della città, il 12 maggio 1949 si arrivò a un accordo che garantiva la sospensio­ ne del blocco da parte sovietica in cambio della ripresa dei rifornimenti di carbone e acciaio dalla Ruhr. Ciò che apparve comunque evidente era l’impossibilità di arrivare a un’intesa sulla sistemazione definitiva della Germania e sul trattato di pace. Il tutto preludeva ormai alla for­ mazione di due Stati separati sul territorio tedesco. 9.5 La guerra di Corea

Gli esperimenti nucleari dell'URSS

La guerra civile in Cina

Vittoria dei comunisti e proclamazione della Repubblica popolare cinese La nuova dimensione mondiale del bipolarismo

Le tensioni nella penisola coreana

Corea del Nord e Corea del Sud

I mesi fra l’autunno del 1949 e la primavera del 1950 furono densi di avvenimenti cruciali per l’estensione del conflitto bipolare. Innanzitutto nell’agosto del 1949 l’Unione Sovietica portò a compimento il primo esperimento nucleare, scompaginando le previsioni americane che rite­ nevano i tecnici di Mosca ancora lontani dalFutilizzo della nuova tecno­ logia. Questo fatto annullò improvvisamente il vantaggio strategico de­ tenuto da Washington fin dal lancio delle due bombe atomiche sul Giap­ pone. Poche settimane più tardi, in Cina, gli scontri tra nazionalisti e comunisti, che avevano conosciuto una tregua durante il conflitto mon­ diale, ripresero vigore e ben presto assunsero le dimensioni di una vera e propria guerra civile. Le forze nazionaliste di Chiang Kai-shek (-—>-) non riuscirono a tenere testa ai comunisti di Mao Zedong (—>-) che il 1° ottobre 1949 entrarono a Pechino e proclamarono, come vedremo, la Repubblica Popolare cinese. Questo avvenimento, seguito nel febbraio del 1950 dalla firma del patto di amicizia fra Mosca e Pechino, alterò profondamente gli equilibri e i rapporti di forza fra i due blocchi, inau­ gurando una nuova dimensione mondiale del bipolarismo e riportando nell’agenda politica di Washington la questione della sicurezza america­ na nell’area del Pacifico. Un memorandum pubblicato nell’aprile del 1950 dal National Security Council (NSC-68) statunitense invocava in­ fatti l’estensione anche fuori dall’Europa della strategia del containment, aggiungendo agli strumenti economici, quali il Piano Marshall, un più ampio impegno militare nelle aree ritenute a rischio. Probabilmente la politica di rigore fiscale adottata dal presidente Truman avrebbe por­ tato al rigetto di tale strategia, se nel frattempo non fosse intervenuta la riacutizzazione delle tensioni nella penisola coreana. Fin dall’inizio del secolo la Corea era stata contesa fra Cina, Russia zarista e Giappone, le cui truppe l’avevano di fatto occupata nel 1910. Alla fine della Seconda Guerra mondiale il Paese era stato invaso dalle truppe sovietiche nella parte nord e da quelle americane a sud, le quali posero la linea di demarcazione sul 38° parallelo. Questa semplice linea di divisione geografica, però, divenne via via un confine decisivo sul pia­ no internazionale e politico, nel momento in cui nel 1948-49 russi e ame­ ricani si ritirarono lasciando un governo filocomunista nella parte nord, sotto la guida di Kim il Sung (—**), e il controllo della parte sud al nazio­ nalista, autocratico e filoamericano Syngman Rhee (—►). Nel comples­ so Washington considerava scarsa l’importanza della Corea nell’ipotesi

Il ritorno delle democrazie in un mondo bipolare

UN IO N E — SOVIETICA

CINA

217

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LA GUERRA DI COREA (1950-1953) ^ Attacco nord-coreano ^ (giugno 1950)

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__ Linea del fronte (settembre 1950)

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Linea del fronte (novembre 1950)

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Linea del fronte (gennaio 1951)

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Contrattacco ONU (gennaio 1951)

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Linea del fronte (aprile 1951)

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Linea dell’armistizio (luglio 1951-luglio 1953)

di un confronto globale con l’URSS, tracciando il proprio «perimetro difensivo» nell’arco che comprendeva le isole Aleutine, il Giappone, Formosa e le Filippine. La difesa di altre aree del Pacifico sarebbe stata affidata alle Nazioni Unite, anche se il segretario di Stato Dean Acheson (—►) si affrettò ad ammonire la Cina comunista su eventuali sortite oltre confine. La situazione, tuttavia, precipitò sul piano internazionale quando i governanti delle due Coree annunciarono che avrebbero proceduto alla riunificazione del Paese con qualunque mezzo. Ne seguì una guerra civile non dichiarata, ma che causò la morte di alcune migliaia di coreani, Se il regime di Rhee era troppo debole militarmente per procedere ad un’azione su larga scala contro la Corea del Nord, Kim il Sung non

La guerra tra le due Coree

218

Il nulla osta sovietico

L'offensiva della Corea del Nord

La risoluzione dell'ONU in favore delia Corea del Sud

L'avanzata verso nord delle truppe ONU

Intervento della Cina

Il rischio di una terza guerra mondiale

Storia contemporanea

avrebbe potuto attaccare le forze di Seul senza un avallo sovietico. Sta­ lin, inizialmente, dissuase il dittatore nordcoreano ma in seguito con­ cesse il nulla osta per due motivi distinti: da un lato, era sicuro del non intervento americano, confortato dalle dichiarazioni di Acheson sul «perimetro difensivo», dall’altro, non voleva rischiare che il piccolo alle­ ato si rivolgesse alla Cina di Mao, cedendo in tal modo a Pechino il con­ trollo del fronte comunista in Estremo Oriente. Il 25 giugno 1950 le truppe di Kim il Sung attraversarono in massa il 38° parallelo, spingendosi in profondità nel sud della penisola e arrivan­ do a minacciare da vicino Seul. Su pressione di Washington fu riunito il Consiglio di sicurezza delPONU al quale, tuttavia, l’URSS non parteci­ pò in segno di protesta contro le potenze occidentali che, dopo la scon­ fitta della Cina nazionalista, non avevano provveduto all’avvicendamento tra Cina nazionalista e Repubblica Popolare all’interno del Consiglio stesso. Il Consiglio di sicurezza riconobbe la Corea del Nord come stato aggressore e stabilì la necessità di un immediato ripristino del confine. Due giorni dopo, una seconda risoluzione faceva appello a tutti gli Stati membri dell’ONU affinché fornissero supporto alla Corea del Sud per favorire il ritorno dell’equilibrio. Il giorno stesso Truman ordinò il tra­ sferimento di uomini e armi sul territorio coreano e autorizzò il bom­ bardamento del territorio nordcoreano. Per quanto la guerra fosse su mandato dell’ONU, l’influenza americana fu decisiva. Gli Stati Uniti in­ fatti fornirono oltre la metà degli uomini, l’85% delle forze aeree e spe­ sero 15 miliardi di dollari, due in più rispetto all’intera somma che era stata erogata all’Europa occidentale tramite il Piano Marshall. A partire dalla metà di settembre, con lo sbarco delle truppe ONU riunite sotto il comando del generale Douglas MacArthur (->-), le sorti del conflitto furono completamente ribaltate e nel giro di poche setti­ mane la linea del fronte ritornò sul 38° parallelo. A quel punto MacAr­ thur pose la possibilità di oltrepassare a sua volta il confine con l’obietti­ vo di riunificare la Corea sotto un regime filoccidentale. Il 20 ottobre, quindi, le truppe USA superarono il confine spingendosi fino a pochi chilometri dal confine cinese. Nonostante la richiesta di aiuto di Kim il Sung, prudentemente Stalin preferì evitare un confronto diretto con le forze americane, pur riconoscendo le dimensioni oramai globali del conflitto. Fu invece Mao a inviare 200.000 volontari a fianco delle trup­ pe nordcoreane. Con l’intervento di Pechino le sorti del conflitto si ri­ baltarono ancora una volta: MacArthur venne sconfitto in numerose battaglie e i cinesi arrivarono fino all’occupazione di Seul nel gennaio del 1951. In quei momenti drammatici, e soprattutto in seguito alla di­ chiarazione di Truman sulla possibilità di utilizzare le armi nucleari, il rischio di un allargamento a macchia d’olio della guerra divenne inso­ stenibile anche per gli alleati più fidati degli USA, quali Gran Bretagna, Canada e Francia che iniziarono a criticare Funilateralismo statuniten­ se. Anche all’interno dell’amministrazione americana, poi, cominciava­ no a profilarsi idee diverse sulla strategia da attuare. Mentre MacAr­ thur sosteneva la necessità di estendere massicciamente l’attacco sul suolo cinese, Truman si rese conto che una simile iniziativa avrebbe fat­ to automaticamente scattare il patto d’alleanza sino-sovietico, rendendo

Il ritorno delle democrazie in un mondo bipolare

troppo alto il rischio di una terza guerra mondiale. Nell’aprile 1951 MacArthur venne quindi rimosso dal suo incarico e l’amministrazione Truman acconsentì al ripristino della situazione precedente lo scoppio della guerra, ovvero la divisione sul 38° parallelo. Nel luglio del 1951 si aprirono quindi i negoziati di Kaesong, una pic­ cola località sul 38° parallelo, che finirono per trascinarsi per oltre due anni a causa delle resistenze di entrambe le parti. L’elezione di Dwight Eisenhower alla Casa Bianca e la sua manifesta disponibilità all’utilizzo di armi nucleari nei confronti del mondo comunista sortirono l’effetto di ammorbidire il fronte sino-sovietico. Anche la morte di Stalin, nel mar­ zo 1953, accelerò la conclusione dei negoziati; nel luglio seguente venne infatti firmato l’armistizio a Panmujon. La guerra, pur lasciando la penisola divisa in due Stati sul medesi­ mo confine del 1950, non terminò con un nulla di fatto. Oltre alle per­ dite di vite umane (2,5-3 milioni di caduti tra morti e feriti) la guerra di Corea contribuì a portare alla ribalta i limiti della potenza america­ na e la complessità della rete dei rapporti con gli alleati. Ma anche per l’Unione Sovietica essa ebbe conseguenze negative; un conflitto poco più che locale si era trasformato in uno scontro internazionale e nella minaccia di un olocausto nucleare, cosa che metteva ulteriormente a rischio la sua sicurezza.

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Ripristino della divisione sul 38° parallelo

Conseguenze della guerra

9.6 Le nuove alleanze: NATO e SEATO contro Patto di Varsavia Dopo il fallimento della Conferenza di Parigi, che aveva visto i mini­ stri degli esteri russo, francese e inglese riuniti per la valutazione del Piano Marshall, all’interno del campo sovietico si cominciò a sottoline­ are la necessità di un maggior coordinamento dei partiti comunisti eu­ ropei al fine di creare un fronte più compatto per la contrapposizione agli Stati Uniti. Oltretutto nel 1947 l’Europa orientale non era ancora un blocco monolitico controllato in modo ferreo dall’Unione Sovietica e questo accresceva, nell’ottica di Stalin, il bisogno di «sicurezza». Se, in­ fatti, il controllo comunista non era ancora consolidato in Paesi come la Cecoslovacchia e la Polonia, la Jugoslavia manifestava già esigenze di autonomia, mentre Francia e Italia, Paesi con forti e radicati partiti co­ munisti, orbitavano ormai nell’area statunitense. Per favorire quest’esi­ genza di coordinamento venne creato da Mosca il Cominform, un orga­ nismo finalizzato allo scambio di informazioni fra i vari partiti comuni­ sti europei (cap. 9.2). La prima importante decisione presa in tale sede fu l’impegno da parte dei vari partiti a contestare in modo radicale la partecipazione dei rispettivi Paesi al Piano Marshall. Ciò inaugurò, so­ prattutto da parte dei comunisti francesi e italiani, un’opposizione par­ ticolarmente dura alle scelte dei rispettivi governi di accogliere gli aiuti americani; strategia che però si sarebbe rivelata controproducente in termini di consenso viste le drammatiche condizioni economiche del dopoguerra e l’urgenza, per la popolazione, di veder attuato un piano concreto di ricostruzione.

Consolidamento del controllo sovietico sui partiti comunisti europei

Creazione del Cominform

Opposizione al Piano Marshall

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Il Patto di Bruxelles

Il coinvolgimento degli Stati Uniti

Il Patto Atlantico e la creazione della NATO

La guestione del riarmo tedesco

Storia contemporanea

Dopo il colpo di stato comunista a Praga del 1948, Francia, Gran Bretagna e i Paesi del Benelux firmarono nel marzo 1948 a Bruxelles un patto difensivo antisovietico, con la speranza che vi aderissero an­ che gli Stati Uniti. Nonostante la tradizionale riluttanza americana ad assumere impegni militari vincolati, la consapevolezza che l’Atlantico non rappresentava più il confine di riferimento per la loro sicurezza, spostatosi ormai sulla linea dell’Elba (il fiume che divideva le due Ger­ manie), portò l’amministrazione Truman a considerare la necessità di una presenza americana diretta nel quadro della sicurezza dell’Europa occidentale. Era ormai chiaro infatti che protezione militare e ricostru­ zione europea, secondo le linee prospettate dal Piano Marshall, dove­ vano andare di pari passo. Fu così, dunque, che Truman iniziò i collo­ qui per definire il ruolo degli Stati Uniti nel Patto di Bruxelles. Le ulti­ me diffidenze americane furono superate definitivamente quando, su proposta britannica, il concetto di sicurezza venne allargato all’intera area nord-atlantica, includendovi il Canada, i Paesi scandinavi e quelli del Mediterraneo settentrionale. Il 4 aprile del 1949, mentre era ancora in corso la crisi del blocco di Berlino, venne dunque firmato a Washington il Patto Atlantico, un ac­ cordo difensivo che comprendeva i Paesi del Patto di Bruxelles, Stati Uniti, Canada, Islanda, Danimarca, Norvegia, Portogallo e Italia. Fu inoltre creata un’organizzazione militare integrata permanente con sede a Bruxelles, la NATO (North Atlantic Treaty Organization —►). Imme­ diatamente Mosca accusò Washington di voler indebolire le Nazioni Unite, ma Truman dichiarò che il Patto Atlantico, per il suo carattere difensivo, rientrava a pieno titolo in quegli accordi regionali di sicurezza conformi allo statuto dell’ONU. Nelle iniziali intenzioni americane l’alleanza sarebbe dovuta essere poco onerosa in termini militari e strategici per gli USA, dal momento che si sarebbe fondata sulle forze di terra messe a disposizione dai Paesi europei, forti della copertura, in termini di «deterrenza atomica», dell’arsenale nucleare statunitense. A modificare le cose intervenne pe­ rò, nell’agosto 1949, il primo esperimento nucleare condotto dall’Unio­ ne Sovietica, che segnava la fine del primato atomico di Washington (cap. 9.5). Paventando poi, soprattutto dopo lo scoppio del conflitto in Corea, l’ipotesi di un attacco sovietico sul suolo della neonata Repubbli­ ca federale tedesca, gli Stati Uniti optarono per un maggior coinvolgi­ mento diretto nella difesa europea e trasferirono di conseguenza a Pari­ gi il Supreme Headquarters Allied Powers Europe, ovvero il centro di coordinamento dei Paesi NATO. A questo punto divenne cruciale deci­ dere se la Germania Ovest, il Paese più esposto a potenziali attacchi, dovesse o meno partecipare attivamente alla propria difesa. Nonostante gli enormi passi compiuti sulla strada del consolidamento democratico e nonostante l’ingresso della Repubblica federale tedesca nella Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA —>-) nel 1951, la Francia era ancora titubante di fronte all’ipotesi del riarmo tedesco, memore di ben tre invasioni subite nel corso di settant’anni. A seguito della proposta del ministro francese René Pleven (—>-) di includere piccole unità tedesche nel sistema di difesa europeo, venne

Il ritorno delle democrazie in un mondo bipolare

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messo a punto un progetto per la formazione di un esercito unificato eu­ ropeo, al quale ogni Paese avrebbe fornito le truppe necessarie e che avrebbe dovuto includere anche contingenti tedeschi. Nel 1952 venne quindi firmato un primo accordo sulla CED (Comunità europea di dife­ sa —>-). Sempre nello stesso anno veniva rafforzata la presenza della Rafforzamento NATO nel Mediterraneo con l’ingresso nell’alleanza di Grecia e Tur­ della NATO chia, mentre i nuovi esperimenti sovietici sulla bomba H rendevano nel Mediterraneo quanto mai urgente la riorganizzazione della difesa nell’Europa occi­ dentale. Fallita per l’opposizione del Parlamento francese, come vedre­ mo, l’ipotesi di creare una Comunità europea di difesa, la soluzione ven­ ne trovata con la proposta da parte britannica di istituire un’Unione dell’Europa occidentale (—>■), in sostanza un allargamento del vecchio Patto di Bruxelles alla Repubblica federale tedesca e all’Italia. Nel qua­ dro di tale accordo Londra avrebbe trasferito sul continente altre quat­ tro divisioni, oltre a quelle già di stanza in Germania, mentre Bonn sa­ Ingresso nella NATO rebbe stata ammessa nella NATO con l’espressa rinuncia a dotarsi di un della Germania Ovest programma nucleare militare, cosa che avvenne nel 1955. La risposta sovietica alle ipotesi di riarmo tedesco fu inizialmente moderata: Mosca aveva la necessità di alleggerire il proprio dispositivo di terra nell’Europa centrale e pertanto offrì come contropartita della neutralità tedesca la riunificazione del Paese, impegnandosi conte­ stualmente a far rientrare in patria le truppe sovietiche ancora di stan­ za in Austria. Fallito questo negoziato, che trovò la netta opposizione del cancelliere federale Konrad Adenauer (—>-) timoroso di ciò che avrebbe potuto significare una Germania unita e neutrale ai confini tra i due blocchi, l’URSS cambiò strategia. Aumentò il numero degli effet­ tivi dell’Armata Rossa e convocò a Mosca, nel maggio del 1955, i rap­ presentanti di Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Germania Est, Polo­ nia, Romania e Ungheria per la firma di un trattato di amicizia, coope­ razione e mutua assistenza meglio noto come Patto di Varsavia (—>-), poiché la sede degli organi del Patto venne stabilita nella capitale po­ Il Patto di Varsavia lacca. Il trattato, richiamando in maniera esplicita la minaccia alla pace portata dalla NATO, prevedeva un impegno automatico e non condi­ zionato degli Stati membri alla difesa della sicurezza collettiva e la co­ stituzione di un comando unificato sotto il quale porre una parte delle forze armate. Per esprimere al meglio l’intento «pacifico e difensivo» del Patto, venne inserita una clausola che ne prevedeva l’automatica de­ cadenza qualora fosse stato stipulato un accordo per la costituzione di un sistema generale europeo di sicurezza. Il Patto di Varsavia formaliz­ zò di fatto, in maniera ancor più evidente e stabile, la divisione del vec­ chio continente in due blocchi. Proprio il sistema delle alleanze, grazie al dinamismo statunitense, Il sistema delle alleanze stava infatti ridisegnando le carte dei due blocchi. Secondo la logica del statunitensi «contenimento» dell’espansionismo sovietico, gli Stati Uniti firmarono infatti nel settembre 1951 un patto tripartito di sicurezza con l’Australia e la Nuova Zelanda (ANZUS —»•), col preciso scopo di accerchiare di­ plomaticamente l’Unione Sovietica. Il secondo importante passo venne compiuto nel settembre 1954 con la firma del trattato di Manila e la cre­ azione della SEATO, ovvero la South-East Asia Treaty Organization

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Storia contemporanea

Il ritorno delle democrazie in un mondo bipolare

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(—>■) che comprendeva, oltre agli USA, Francia, Regno Unito, Filippi­ ne, Pakistan, Thailandia, Australia e Nuova Zelanda. Scopo dell’allean­ za era quello di opporsi alla forte pressione politica e militare esercitata dai Paesi comunisti del sud-est asiatico, oltre a rafforzare il «cordone sa­ nitario» attorno al blocco sino-sovietico. La sua efficacia, tuttavia, si ri­ velò col tempo assai fragile, tanto che a metà degli anni Settanta venne disciolta. Ultimo ma sfortunato tassello del sistema di sicurezza statuni­ tense fu il Patto di Baghdad, stipulato nel febbraio 1955. Stretto inizial­ mente da Turchia e Iraq, il patto si allargò nel giro di poco a Gran Bre­ tagna, Iran e Pakistan e, seppur ispirato direttamente da Washington, fu l’unica alleanza che non ne vide la presenza diretta. Ebbe però vita bre­ ve e si sciolse dopo la denuncia del trattato da parte di Teheran nel 1959. Al di là, tuttavia, del sistema delle alleanze, un importante fattore di La «deterrenza stabilizzazione del bipolarismo postbellico fu il fattore della cosiddetta atomica» «deterrenza atomica». Appannaggio inizialmente solo degli Stati Uniti, la bomba atomica fatta scoppiare dai russi nel 1949 generò una corsa al­ lo sviluppo di armi sempre più sofisticate e distruttive, che entrarono a far parte integrante dei piani di difesa delle due superpotenze. La pro­ spettiva di un conflitto nucleare su larga scala introdusse quindi una sorta di «equilibrio del terrore», cioè un fattore di dissuasione a trasfor­ mare i contrasti in conflitti aperti che avrebbero rischiato di condurre alla distruzione totale del pianeta. Questa possibilità, ben rappresentata dall’acronimo della mutuai assured destruction (—>, MAD significa Il principio della «pazzo» in inglese) spinse tuttavia le due superpotenze a mantenere ben «non proliferazione» saldo nelle loro mani il controllo delle tecnologie nucleari, fissando con nucleare opportuni strumenti diplomatici il principio della «non proliferazione» nucleare a Paesi terzi.

10.1 Gli Stati Uniti di Truman e di Eisenhower 10.2 Repubblica federale e Repubblica democratica: la Germania divisa 10.3 La Spagna franchista 10.4 II consolidamento della Jugoslavia di Tito 10.5 Cina comunista e Cina nazionalista 10.6 II Giappone: il nuovo baluardo dell'Occidente in Asia 10.7 La fondazione dello Stato d'Israele e l'origine della crisi mediorientale 10.8 La difficile decolonizzazione: tra modello inglese, francese e portoghese 10.9 Unione Indiana e Pakistan: la difficile indipendenza dell'India 10.101 Paesi non allineati fra terzomondismo e sottosviluppo

Economia in continua crescita

Capitolo 10

Nuove egemonie e potenze emergenti

10.1 Gli Stati Uniti di Truman e di Eisenhower La fine della guerra venne accolta da molti, negli Stati Uniti, con un paradossale sentimento di preoccupazione, memori della grave crisi del 1929 che era stata letta come un effetto di lungo periodo del primo con­ flitto mondiale, ma consapevoli altresì che le dinamiche della guerra ap­ pena conclusa avevano risolto buona parte dei problemi lasciati dall’esperienza del New Deal. Alla fine degli anni Trenta, infatti, men­ tre crescevano i timori di un nuovo conflitto, si era assistito a un’impen­ nata delle spese militari le quali, a loro volta, avevano richiamato mas­ sicci investimenti. Questo «keynesismo di guerra», come fu chiamato, produsse nella prima metà degli anni Quaranta importanti effetti sull’economia statunitense: aumento dell’occupazione fino quasi alla piena occupazione, raddoppio degli indici di produzione industriale ri­ spetto a quelli del 1939 e crescita del 75% del reddito nazionale. I timori che avevano animato inizialmente i settori economici rientrarono ulte­ riormente quando la smobilitazione dell’esercito, pur rimettendo sul mercato nuova forza lavoro, non si tradusse nell’aumento della disoccu­ pazione, ma fu piuttosto riassorbita in breve tempo da un’economia in continua crescita. Ciononostante però, la riconversione economica al termine del conflitto, soprattutto dopo rallentamento dei controlli sul livello dei prezzi, fece aumentare rapidamente il tasso di inflazione, con­ trastato in modo poco efficace dalle altalenanti misure intraprese dall’amministrazione Truman. La crescita dei prezzi, unitamente agli scioperi e alla scarsità di derrate alimentari che essa causò, determinò alle elezioni per il Congresso del 1946 una pesante sconfitta elettorale per il Partito democratico. La nuova maggioranza repubblicana varò su­ bito, con l’approvazione del Taft-Hartley Act (—►), provvedimenti re­ strittivi delle libertà sindacali, ma non modificò nella sostanza le norme ancora vigenti del New Deal.

Nuove egemonie e potenze emergenti

Truman riuscì poi a farsi riconfermare alla presidenza nel 1948, gra­ zie soprattutto al sostegno della classe operaia, degli agricoltori e delle minoranze di colore. Legittimato questa volta da un’elezione diretta, mentre nel 1945 era salito alla presidenza in quanto vice di Roosevelt dopo la sua morte, Truman presentò al Congresso un progetto di rifor­ me sociali ed economiche che invano aveva cercato di far approvare nei due anni precedenti. Questo piano, che prese il nome di Fair Deal (->-), ovvero «patto onesto», era basato più sulla crescita economica che sulla regolamentazione sulla quale aveva invece insistito il New Deal rooseveltiano; esso venne tuttavia accolto solo in parte dalla maggioranza re­ pubblicana del Congresso. I provvedimenti approvati riguardavano, tra le altre cose, l’aumento dei minimi salariali e della previdenza sociale e stanziamenti per dare impulso all’edilizia popolare. Furono invece ri­ gettati sia alcuni interventi di politica sociale, come l’assicurazione na­ zionale contro le malattie e il piano di aiuti federali all’istruzione, sia i provvedimenti tesi a un maggior intervento dello Stato nell’economia, come la proposta di un nuovo sistema di sostegno ai prezzi agricoli. In­ contrò inoltre la netta opposizione sia della maggioranza repubblicana sia dei democratici degli Stati del sud la parte del progetto che riguarda­ va i diritti civili alle minoranze afroamericane e l’integrazione razziale, che pure era già iniziata all’interno dell’esercito. Lo scarso consenso registrato sul suo programma di politica sociale ed economica fu solo uno dei problemi che dovette affrontare Truman durante il secondo mandato. I temi di politica estera e la paura, diffusa in molti settori della classe politica ed economica americana, di un pos­ sibile radicamento dell’ideologia comunista all’interno del Paese finiro­ no infatti per monopolizzare l’attenzione dell’amministrazione demo­ cratica. Repubblicani e democratici, così come erano stati uniti nell’avversare i fascismi durante la guerra mondiale, si trovavano ora concordi nell’anticomunismo. Per un Paese che, fin dalla Dichiarazione d’indi­ pendenza, aveva riconosciuto ai governi il compito di salvaguardare i di­ ritti inalienabili di libertà dell’individuo, il comuniSmo, non meno di fa­ scismo e nazismo, era percepito come una forma di totalitarismo da combattere e sconfiggere. Tuttavia, mentre fascismo e nazismo erano stati eliminati con il crollo dei regimi di Mussolini ed Hitler, il comuni­ Smo, la cui patria sovietica era tra i Paesi vincitori della guerra, stava di­ mostrando una straordinaria capacità di penetrazione sociale anche nei Paesi dove la fine della guerra aveva aperto la strada al ritorno del plu­ ralismo politico e della democrazia. Fu dunque nel contesto della Guerra Fredda che si diffuse, soprat­ tutto a partire dal 1949, una vera e propria fobia per un potenziale «ne­ mico interno» rappresentato indistintamente da socialismo e comuni­ Smo. Espressione di questo sentimento fu il senatore repubblicano Jo­ seph McCarthy (—►) il quale, presidente di una commissione del Congresso per reprimere le «attività antiamericane», fece varare nel 1950 l’Internai Security A ct che forniva strumenti giuridici per l’epura­ zione di quanti potevano essere sospettati di simpatie o attività filoco­ muniste. Il maccartismo (—►), come fu chiamata la vera e propria cac­ cia alle streghe che si scatenò fino al 1955, mise sotto accusa per spio-

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Successo elettorale di Truman

Il Fair Deal per la crescita

Bocciatura del programma di politica sociale e dei provvedimenti per l'integrazione razziale negli Stati del sud

La paura della diffusione del comuniSmo

La fobia per la minaccia del «nemico interno»

Il maccartismo

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Conseguenze della guerra di Corea

La presidenza Eisenhower

Crescita economica senza precedenti

MAmericanwayoflife

Contraddizioni interne

Le condizioni delle minoranze di colore

Storia contemporanea

naggio a favore dell’Unione Sovietica numerosi personaggi politici, scienziati, funzionari pubblici, artisti. Gli eccessi del senatore McCarthy si spinsero fino ad accusare alcuni vertici delle forze armate; fu solo a quel punto che iniziarono a levarsi forti voci di protesta nei confronti della sua azione e alla fine il senatore fu costretto a dimettersi. Benché si sia trattato solo di una parentesi nella storia americana, il maccarti­ smo segnò a lungo la cultura degli Stati Uniti come una macchia sulla coscienza democratica del Paese. Quest’ondata di paura per il «pericolo rosso» fu senz’altro determi­ nata e ingigantita dallo scoppio della guerra di Corea (cap. 9.5), la prima in cui gli Stati Uniti si trovarono a svolgere, di fatto, il ruolo di baluardo anticomunista sul fronte asiatico. La crisi coreana agì, quindi, come mo­ nito all’amministrazione Truman affinché non abbassasse la guardia nei confronti della minaccia comunista, ma fu proprio facendo leva sulla necessità di una maggior determinazione nella conduzione di quel con­ flitto che il Partito democratico perse, nelle elezioni del 1952, la presi­ denza degli Stati Uniti. Il ritorno al potere dei repubblicani, con il gene­ rale Dwight Eisenhower, segnò la fine del conflitto in Corea, ma anche una rinnovata coscienza dell’irriducibilità della divisione del mondo in sfere di influenza contrapposte, con la conseguente necessità di raffor­ zare il proprio dispositivo strategico. Ripresero così in maniera massic­ cia le commesse statali nel settore degli armamenti e i finanziamenti per la ricerca tecnologica in ambito militare, soprattutto alla luce del fatto che anche i sovietici disponevano ormai degli ordigni nucleari. I costanti investimenti richiesti dall’industria bellica e da quella pe­ sante non andarono tuttavia a discapito, come invece succedeva in URSS, del potenziamento dell’industria leggera e della produzione dei beni di consumo. Gli anni Cinquanta registrarono infatti negli USA una crescita economica senza precedenti, con importanti conseguenze sull’assetto della società. L’aumento medio dei salari reali, ossia ancora­ ti al potere d’acquisto effettivo, fu del 3,3% annuo e la generalizzata di­ sponibilità economica si tradusse in una forte espansione dei consumi. Case, automobili, elettrodomestici, abiti e tutti i beni tradizionalmente considerati appannaggio delle classi alte diventavano ora accessibili a strati sempre più ampi della società, mentre il rinnovato impulso del set­ tore cinematografico, televisivo e dell’editoria fece di questi mezzi di co­ municazione i principali veicoli di trasmissione del «sogno americano» e delVAmerican way o f life. L’immagine di questa «società opulenta» e tendenzialmente omogenea nella condivisione dei consumi e degli stili di vita nascondeva tuttavia le contraddizioni di una crescita economica troppo repentina e tutt’altro che equilibrata. La stessa distribuzione del­ la ricchezza, infatti, non era uniforme e le regioni del sud erano ancora prevalentemente agricole e molto distanti, economicamente e cultural­ mente, dalle grandi città industrializzate del nord. Inoltre un quarto del­ la popolazione continuava a vivere ai limiti della soglia di povertà, con un livello medio di assistenza sanitaria decisamente inferiore a quello che contemporaneamente veniva garantito nell’Europa occidentale. Le sacche di malessere e indigenza aumentavano soprattutto nelle minoranze di colore, che la segregazione razziale negli Stati del sud pri-

Nuove egemonie e potenze emergenti

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vava anche dei diritti civili e politici. In quasi tutti questi Stati, infatti, vigevano leggi severissime che separavano con precisione gli afroameri­ La segregazione cani dalla popolazione bianca anche nelle normali attività della vita razziale quotidiana; bianchi e neri acquistavano in supermercati e negozi diversi, abitavano in quartieri distinti, frequentavano scuole diverse e persino gli autobus avevano spazi separati per i neri. Si trattava, insomma, di una discriminazione capillare che strideva terribilmente con l’impegno per la difesa della patria a cui la popolazione di colore era stata chiama­ ta durante il conflitto mondiale. Fu proprio a partire da questa spere­ quazione tra doveri e diritti che si consolidò, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, il movimento della popolazione afroamericana per Il movimento mettere fine al regime di segregazione razziale. Nel 1954 i neri ottenne­ per i diritti ro un primo risultato significativo quando il presidente della Corte Su­ degli afroamericani prema federale, il giudice Earl Warren ( ^ - ) , emise una sentenza che di­ chiarava incostituzionale la segregazione scolastica dal momento che «le istituzioni educative per i neri sono intrinsecamente inferiori». La concreta applicazione di questi provvedimenti si scontrò tuttavia con re­ sistenze e ostilità in numerosi Stati, tanto che lo stesso Eisenhower, nel La fine 1957, fu costretto a inviare l’esercito in Arkansas per scortare i bambini della segregazione afroamericani a scuola. In questo clima tutt’altro che pacificato comin­ razziale nelle scuole ciò a diffondersi tra la popolazione nera la strategia della lotta non vio­ lenta contro la segregazione, ma accanto a essa cresceva anche il movi­ mento dei fautori di una ribellione radicale ispirata al cosiddetto «pote­ re nero». Come vedremo, fu con questi problemi che la politica interna americana dovette confrontarsi negli anni Sessanta. 10.2 Repubblica federale e Repubblica democratica: la Germania divisa La tensione che aveva segnato i rapporti Est-Ovest durante la crisi del blocco di Berlino accelerò nella Germania occidentale gli impulsi alla creazione di uno Stato nazionale autonomo, che trovarono il pieno appoggio delle potenze vincitrici occidentali. Fu così che l’8 maggio 1949, prima ancora dell’accordo che avrebbe messo fine alla crisi di Berlino, venne approvato da un Consiglio parlamentare appositamente eletto il Grundgesetz, ovvero la Legge fondamentale che segnava la for­ male costituzione della Repubblica federale tedesca (Bundesrepublik Deutschland - BRD). Si evitava volutamente il termine Costituzione perché, come recitava l’art. 146, il popolo tedesco si sarebbe dato una vera Costituzione solo dopo l’effettiva riunificazione della Germania. Secondo quanto previsto dal Grundgesetz, il presidente della Repubbli­ ca sarebbe stato eletto in modo indiretto da un’Assemblea federale, mentre il Parlamento era diviso in due Camere, di cui una elettiva, il Bundestag, e l’altra, il Bundesrat, espressione dei differenti Lànder, gli Stati federati che costituivano la Repubblica. Entrambe le Camere par­ tecipavano al processo legislativo, mentre solo quella elettiva aveva il potere di far cadere l’esecutivo secondo un peculiare sistema di «sfidu­ cia costruttiva» (^ -).

La Repubblica federale tedesca

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Storia contemporanea

Immediata fu la reazione nella parte sovietica dove, dopo soli sette giorni, venne formalizzata la costituzione della Repubblica democratica tedesca (Deutsche Demokratische Republik - DDR). L’assetto istituzio­ nale della DDR prevedeva una Camera del popolo con funzioni legisla­ tive e una Camera rappresentativa delle regioni con funzioni di control­ Regime monopartitico lo della prima. Seguendo il modello dell’URSS, la DDR assunse tutte le comunista strutture tipiche di un regime monopartitico comunista. Furono abolite le autonomie locali, lasciando così alla dirigenza del Partito comunista la guida effettiva dello Stato. Nell’ottobre del 1949 la Germania Est fu riconosciuta da tutte le nazioni comuniste, che invece non riconobbero la Repubblica federale dell’Ovest; analogamente fecero i Paesi dell’area occidentale che negarono il formale riconoscimento della DDR. Nel maggio del 1949, mentre cessava il controllo alleato sui territori Le elezioni del 1949 tedeschi, la Repubblica federale tenne le elezioni che diedero vita al suo primo Parlamento. Fin da quelle elezioni apparve chiaro che erano tre i partiti principali attorno a cui sarebbe ruotata la vita politica della Germania Ovest per i decenni successivi: la CDU, Unione cristiano­ democratica, con il 31% dei voti, risultò il partito di maggioranza rela­ tiva; i socialdemocratici dell’SPD ottennero il 29% delle preferenze; e la FDP, il Partito liberale, ebbe circa l’ll% dei voti e, col tempo, sareb­ be diventato l’ago della bilancia del sistema politico tedesco. Di assolu­ ta minoranza risultò invece la KPD, il Partito comunista, poi messo fuori legge nel 1956. Il 14 settembre successivo le due Camere, unite nell’Assemblea federale, elessero alla presidenza della Repubblica il li­ Nomina a cancelliere berale Theodore Heuss (—►), mentre il 15 il Bundestag nominò cancel­ di Adenauer liere Konrad Adenauer, un esponente del vecchio Zentrum cattolico che era stato tra i fondatori del nuovo partito della CDU. Nonostante parte della CDU fosse favorevole alla creazione di una grande coalizio­ ne coi socialdemocratici, Adenauer scelse di formare il governo insie­ me ai liberali e delineò immediatamente i due obiettivi principali di po­ litica interna: la creazione di una democrazia stabile e un forte rilancio L'integrazione economico. Sul piano internazionale, invece, operò subito per arrivare nell'alleanza alla piena riconciliazione con la Francia e per inserire la Repubblica fe­ occidentale derale nel quadro dell’alleanza occidentale; una strada, secondo Ade­ nauer, necessaria a garantire l’indipendenza e la sovranità del nuovo Stato. Su quest’altare la «vecchia volpe», come veniva chiamato, rinun­ ciò a ogni ipotesi di rapida riunificazione con la parte orientale, nel ti­ more che potesse avvenire all’insegna di una vittoria comunista e, dun­ que, a vantaggio dei sovietici. Con la sua difesa a oltranza dei confini della BRD, Adenauer inten­ deva mettere in evidenza di fronte al mondo intero i vantaggi di una Germania libera, ricca e sovrana, pienamente integrata su un piano pa­ ritario nel mondo delle liberal-democrazie. Ciò avrebbe provato anche I benefici della agli occhi dei tedeschi i benefici di una politica di amicizia verso la Westpolitik Francia e l’Occidente, una Westpolitik (—>-) che avrebbe dovuto portare protezione, libertà e benessere diffuso. Già nel 1951, quindi, la Germa­ nia Ovest firmò con Francia, Italia e i Paesi del Benelux il trattato della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Integrazione europea e at­ lantismo divennero così i due pilastri della politica estera di Adenauer. La Repubblica democratica tedesca

Nuove egemonie e potenze emergenti

Nel 1955 venne creata l’Unione europea occidentale, preludio dell’inserimento della Repubblica federale nella NATO e contemporaneamente della fine definitiva dello stato di occupazione delle regioni occidentali. A distanza di due anni, nel 1957, la Germania Ovest fu tra i Paesi fonda­ tori della CEE, la Comunità economica europea (—►) e della Comunità europea per l’energia atomica (—>■), l’EURATOM. Anche la politica interna del cancelliere si mantenne costante e coe­ rente, orientata alla totale chiusura nei confronti della sinistra; Adenauer scelse infatti di formare una coalizione stabile con i cattolici bavaresi dell’Unione cristiano-sociale (CSU) e di cercare l’appoggio dei liberali e dei partiti minori. Il suo rivale socialdemocratico, Kurt Schumacher (—>-), lo definì per questo il «cancelliere degli alleati». Alle elezioni del 1953, in coincidenza con lo scoppio di forti polemiche pacifiste sulla questione del riarmo della Germania, la coalizione CDU-CSU superò il 45% dei voti; nel 1957, in coincidenza con la nascita della CEE, la coali­ zione di centro oltrepassò addirittura il 50% dei suffragi. Questi alti consensi furono dovuti anche alle accorte politiche economiche che il ministro delle Finanze Erhard seppe dispiegare. Il suo disegno, volto a costruire una vera «economia sociale di mercato», univa un impianto capitalistico a moderati elementi di welfare e ad alcuni dei principi deri­ vanti dalla tradizione sociale cattolica. Durante gli anni Cinquanta, la Germania Ovest riuscì quindi a triplicare la propria produzione indu­ striale e raggiunse la quota del 10% del totale delle esportazioni mon­ diali, mentre il PIL crebbe mediamente del 7,9% annuo. Adenauer fu però anche criticato per aver sacrificato al consolida­ mento della Germania Ovest qualsiasi possibilità di riunificazione del popolo tedesco soprattutto quando, nel 1952, rifiutò la proposta di Sta­ lin di acconsentire all’unione dei due Stati in cambio della loro neutrali­ tà e smilitarizzazione. Questo rifiuto chiuse ogni possibile spazio di dia­ logo con i Paesi dell’Europa dell’Est, e in particolare proprio coi «fratel­ li tedeschi». Nel 1963 Adenauer si dimise, dopo 14 anni di cancellierato: un lungo periodo durante il quale si era costruito l’immagine di padre fondatore dell’Europa unita e di artefice del «miracolo economico» che aveva portato la Germania occidentale dallo stato di devastazione del dopoguerra a uno straordinario sviluppo economico e sociale. Che poli­ ticamente i tempi fossero mutati lo si era già visto nel 1959, quando, con il Congresso straordinario dell’SPD tenutosi a Bad Godesberg, l’ala più giovane della socialdemocrazia tedesca aveva promosso una drastica re­ visione della dottrina marxista per cercare una linea di dialogo con le forze liberali, nel presupposto della comune accettazione dei capisaldi dell’economia di mercato. Molto diverse erano le condizioni della DDR, dove si era consolidata la leadership di Walter Ulbricht (—>■), segretario del Partito socialista unificato, la SED, il quale nel 1960 aveva assunto anche la carica di pre­ sidente della Repubblica. Ulbricht rispose al liberalismo economico dell’Ovest rafforzando la costruzione del socialismo e i vincoli economi­ ci di dipendenza dall’URSS. Il divario economico e sociale fra le due parti della Germania fu subito evidente e risultò una delle cause princi­ pali del flusso costante e crescente di tedeschi orientali verso la Germa-

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Integrazione europea

Totale chiusura nei confronti della sinistra

Il successo dell'«economia sociale di mercato»

La rinuncia alle possibilità di riunificazione

L'SPD e la svolta di Bad Godesberg

Le condizioni della DDR

Divario economico e sociale

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Le fughe verso Ovest

La politica di chiusura e repressione

La ferita aperta di Berlino

La costruzione del muro di divisione

Il sostegno americano a Berlino Ovest

Storia contemporanea

nia Ovest, attratti dalla libertà e dal benessere diffuso. Le fughe, anche definite «il voto con i piedi» per indicare il dissenso dei tedeschi orienta­ li verso il regime antidemocratico della DDR, all’inizio del 1953 aveva­ no già raggiunto le 225.000 unità. In netta controtendenza con quanto avveniva negli altri Paesi della sfera sovietica dove, in seguito alla morte di Stalin, sembravano aprirsi timidi segnali di riforme, Ulbricht raffor­ zò, proprio a partire dal 1953, le misure di centralizzazione e controllo su tutte le attività della vita economica e sociale. Contro questa linea politica di netta chiusura, nel giugno 1953 una vasta manifestazione di protesta degli operai di Berlino Est si tramutò in aperta rivolta, allar­ gandosi a buona parte del Paese. Temendo che la protesta degenerasse in una vera rivolta nazionale contro il regime, 600 carri armati sovietici fecero il loro ingresso a Berlino soffocando nel sangue qualunque ipote­ si di cambiamento. Proprio Berlino, la città divisa in cui il contrasto tra il benessere dell’Ovest e la forzata socializzazione dell’Est si poteva toccare con ma­ no, rimaneva una ferita aperta nel cuore della Repubblica democratica, dal momento che la mancata separazione fisica tra la zona occidentale e quella orientale della città favoriva la fuga dei tedeschi orientali in cerca di libertà e prosperità. Fino al 1961, 2,6 milioni di persone, soprattutto giovani, riuscirono a trasferirsi all’Ovest, in gran parte proprio attraver­ so Berlino. Nell’agosto del 1961 il presidente sovietico Nikita Chruscèv ( ^ - ) autorizzò Ulbricht a procedere con la chiusura del confine tra la zona est e quella ovest di Berlino. La polizia di frontiera della DDR pro­ cedette così, nel giro di pochi giorni, alla costruzione di un muro di divi­ sione fra le due parti della città, che divenne ben presto il simbolo più tangibile della divisione della Germania e, in generale, degli steccati che dividevano l’intera Europa. Di fronte a questo atto di forza gli Stati Uni­ ti non risposero militarmente, a conferma del tacito riconoscimento del­ la separazione dell’Europa in sfere d’influenza, ma il presidente John Fitzgerald Kennedy (—►) volle dare ugualmente un segno della parteci­ pazione degli americani e del mondo intero al dramma dei berlinesi. In visita nel giugno 1963 a Berlino Ovest, Kennedy richiamò la vicinanza ideale di tutto il «mondo libero» con la sofferenza del popolo di Berlino. Con la frase «Ich bin ein Berliner», «io sono berlinese», Kennedy intese lanciare un messaggio di sfida all’Unione Sovietica circa l’intoccabilità di Berlino Ovest, ma al contempo riconobbe, di fatto, l’assetto definitivo della città e della Germania intera. 10.3 La Spagna franchista

La costruzione del regime franchista

Alla fine del settembre 1936, a pochi mesi dal golpe contro la Re­ pubblica guidata dalla coalizione di Fronte Popolare, il generale Fran­ co ricevette l’investitura di capo dello Stato, generalissimo di tutte le forze armate e capo del governo spagnolo. Proprio da quel momento ebbe inizio, nonostante la guerra civile in corso, la sua opera di costru­ zione del nuovo regime. Primo atto fu, nel 1937, il decreto con cui si sopprimevano tutti i partiti e si unificavano le due organizzazioni che

Nuove egemonie e potenze emergenti

10 stavano sostenendo nella guerra: la Falange (cap. 6.11) e Comunione Tradizionalista, un gruppo monarchico-carlista di stampo ultracattoli­ co. La nuova formazione, posta sotto la guida di Franco, assunse il no­ me di Falange Espahola Tradicionalista y de las Juntas de Ofensiva Na­ tional Sindacalista. La Spagna sembrava dunque avviarsi sulla strada percorsa dagli al­ tri Paesi che tra gli anni Venti e Trenta avevano creato un sistema auto­ ritario a partito unico. La specificità spagnola, rispetto al fascismo mussoliniano e al regime di Hitler, stava tuttavia nel modo con cui Franco arrivò al potere e nel suo stesso profilo: era, infatti, un uomo dell’establishment, un generale proveniente dagli alti ranghi dell’eserci­ to e non un outsider come Mussolini ed Hitler. Il suo regime, poi, non nacque da un movimento di massa giunto al potere in modo più o meno legale, ma da un vero e proprio atto di forza. Fondata dunque dall’alto e priva di quella aspirazione [ivoluzionaria che aveva caratterizzato ini­ zialmente i fascismi italiano e tedesco, la dittatura di Franco cercò sem­ pre la propria legittimazione su tre grandi centri di potere: la nuova Fa­ lange, l’esercito e la Chiesa. Quest’ultima, fin dal luglio 1937, aveva be­ nedetto l’impresa franchista con la Carta colectiva del episcopado espanol, documento redatto dal primate di Spagna Cardinal Isidoro Gomà (—►), in cui si diceva che i vescovi spagnoli vedevano nell’insur­ rezione delle truppe di Franco «una radice patriottica e religiosa» per la salvaguardia dell’identità della nazione. Nel marzo 1939 l’entrata dell’esercito franchista a Madrid decretò la fine della giovane Repubblica spagnola. Contemporaneamente fu ap­ provata, con effetto retroattivo, la Legge sulle responsabilità politiche che permetteva al regime di perseguire, risalendo fino al 1934, i deputa­ ti repubblicani, la classe politica del «fronte popolare» e tutti coloro che si erano opposti alVAlzamiento di Franco. Allo scoppio del conflitto mondiale la Spagna era ancora alle prese con gli strascichi della guerra civile e Franco scelse pertanto di non intervenire a fianco delle potenze dell’Asse (cap. 8.3), impegnandosi piuttosto nel consolidamento del re­ gime e nelle epurazioni interne. Quando poi cominciò a profilarsi la sconfitta dei Paesi dell’alleanza nazifascista, si affrettò a dichiarare che 11suo regime non era né fascista né nazista, ma esclusivamente spagnolo. Le principali leggi che consentirono l’istituzionalizzazione della dit­ tatura furono approvate tra il 1938 ed il 1947. Sulla falsariga della Carta del lavoro varata da Mussolini, nel 1938 Franco fece approvare il Fuero del lavoro (->-), dove lo Stato veniva definito «strumento totalitario al servizio dell’integrità della patria» e si istituiva il sindacato unico gestito dalla Falange. Nel luglio 1942 fu promulgata la legge sulle Cortes, che toglieva al Parlamento spagnolo il carattere di rappresentanza della so­ vranità popolare e il potere legislativo; definite genericamente un orga­ no per consentire al popolo di partecipare alla vita dello Stato, le Cortes diventavano di fatto un istituto composto da membri designati dal capo dello Stato: ministri, esponenti della Falange, rettori, sindaci, alcuni ve­ scovi. Nella stessa legge si riconosceva al caudillo il potere di emanare leggi. Nel 1945 veniva approvato il Fuero degli spagnoli, dove i diritti dei cittadini erano declinati secondo i principi della «democrazia organica»,

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La nuova Falange

Spedfidtà del regime spagnolo

Il colpo di stato militare

L'appoggio della Chiesa

La persecuzione degli oppositori

La scelta di non intervenire nel conflitto mondiale

L'istituzionalizzazione della dittatura

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Il concetto di «democrazia organica»

Il ritorno della monarchia

L'isolamento diplomatico

Fine dell'isolamento e accordo con gli USA

Ingresso nelle Nazioni Unite

Storia contemporanea

con un’ambigua formula che riconosceva la libertà di espressione delle idee «purché non attentassero ai principi fondamentali dello Stato». Il concetto di «democrazia organica» rimandava anche a un modello di nazione cattolica che Franco rivendicava come quintessenza della tradi­ zione spagnola; un modello fondato sull’identificazione tra patria e cat­ tolicesimo e sulla rappresentanza corporativa, opposta a quella indivi­ duale delle democrazie liberali. Nell’ottobre 1945 un’altra legge attribuiva al capo dello Stato il po­ tere di indire referendum. La prima consultazione fu fatta due anni do­ po, quando gli spagnoli furono chiamati ad approvare la legge di suc­ cessione. Con essa si istituiva nuovamente il Regno di Spagna e Franco, che esercitava la funzione di capo dello Stato, assumeva il titolo di «Caudillo di Spagna e Generalissimo degli Eserciti» e, congelando di fatto l’istituzione monarchica, si attribuiva il potere di designare il futu­ ro re, come pure quello di destituirlo. In questo modo nessuno avrebbe potuto rivendicare dirette successioni, poiché solo a Franco era riserva­ to il potere della scelta; le uniche condizioni poste dalla legge erano che il designato fosse principe di Casa reale, maschio di almeno trent’anni, spagnolo e cattolico. Con questo provvedimento si chiuse il ciclo nor­ mativo volto a definire la struttura istituzionale della Spagna uscita dalla guerra civile. Se Franco aveva cercato, con questi provvedimenti, di dare all’ester­ no l’immagine di uno Stato del tutto «defascistizzato», le potenze che avevano combattuto la guerra contro il nazifascismo non potevano non vedere nella Spagna franchista un regime i cui tratti fondamentali resta­ vano, al di là delle apparenze, fortemente ispirati al regime mussoliniano. Fu questa la motivazione che spinse, nel dicembre 1946, le Nazioni Unite ad approvare un provvedimento che, riconoscendo nella Spagna un regime non democratico, raccomandava di non ammetterla negli or­ ganismi internazionali e invitava tutti i Paesi a sospendere le relazioni diplomatiche con essa. L’isolamento della Spagna non durò comunque a lungo. Il progressi­ vo deterioramento dei rapporti tra Est e Ovest e la chiara posizione as­ sunta dagli Stati Uniti con la «dottrina del contenimento» facevano del­ la Spagna, nonostante tutto, un utile baluardo contro il comuniSmo. Già a partire dal 1948 l’ostracismo decretato dall’ONU al regime franchista fu progressivamente attenuato. La guerra di Corea, che all’inizio sem­ brò sul punto di far esplodere un nuovo conflitto mondiale, costituì il punto di svolta decisivo per mettere fine all’isolamento internazionale della Spagna. Per gli Stati Uniti, infatti, la Spagna andava inserita nel proprio sistema di sicurezza, anche senza includerla immediatamente a pieno titolo nell’alleanza occidentale. Nel settembre 1953, infatti, fu ra­ tificato un accordo con cui la Spagna riceveva dagli USA un riconosci­ mento ufficiale e aiuti economici in cambio della concessione di basi mi­ litari sul proprio territorio. Nello stesso anno il Vaticano firmò con la Spagna un Concordato che consacrò Franco come governante cattolico, attribuendogli una particolare onorificenza vaticana. L’accreditamento del regime sulla scena internazionale venne completato due anni dopo, nel 1955, con l’ingresso del Paese nelle Nazioni Unite.

Nuove egemonie e potenze emergenti

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A metà degli anni Cinquanta, dunque, la Spagna franchista aveva or­ mai consolidato le proprie strutture istituzionali e ottenuto un pieno ri­ conoscimento a livello internazionale. L’opposizione interna, che aveva rialzato la testa dopo il 1943 quando il corso della guerra aveva virato a favore delle potenze alleate, era stata stroncata da una violenta repres­ sione. Restavano, tuttavia, ancora molti problemi, soprattutto sul fronte economico dove il decollo stentava a partire nonostante l’ingente afflus­ Il fallimento so di capitali americani. La politica economica autarchica e il rigido in­ della politica terventismo statale adottati nei primi anni del regime si erano rivelati un autarchica fallimento e Franco, anche di fronte ai primi segnali di malessere della classe operaia, preferì non mettere a repentaglio il proprio potere osti­ nandosi su quella strada. A dirigere il nuovo indirizzo economico venne chiamata una classe Il nuovo indirizzo di tecnici cresciuti alla scuola àeWOpus Dei ( ^ - ) , l’istituto secolare economico cattolico fondato dal sacerdote José Maria Escrivà de Balaguer (—>•) dei «tecnocrati» nel 1928. Definiti «tecnocrati» per le loro conoscenze in campo giuri­ dico, economico e finanziario, questi funzionari, che a partire dal 1957 cominciarono a occupare i ministeri e le più alte cariche dell’am­ ministrazione, misero mano a una vasta opera di razionalizzazione amministrativa e stabilizzazione economica. Attuarono misure di ri­ sanamento del bilancio e provvedimenti di liberalizzazione, in linea con le raccomandazioni della Banca mondiale. Il governo varò piani di sviluppo che prevedevano agevolazioni fiscali e incentivi per le aziende più produttive, aumentò alcune imposte, modificò la legisla­ zione sugli investimenti stranieri in Spagna e, con un nuovo cambio della peseta in rapporto al dollaro, fece in modo di incentivare le esportazioni. Con la fine degli anni Cinquanta, chiusasi definitiva­ Il decollo dell'economia mente la politica autarchica dei primi tempi, cominciava una fase di spagnola intensa crescita dell’economia spagnola. Il desarrollo, cioè «lo sviluppo», come fu chiamato il boom economi­ co che la Spagna visse tra il 1960 e il 1974, attestò la crescita a un tasso medio annuo del 7% e fu particolarmente intenso nel settore industriale. Il basso costo della manodopera, dovuto all’ampio afflusso di forza lavo­ ro dalle campagne, e la scarsa pressione fiscale furono gli ingredienti che accompagnarono la crescita economica e l’espansione del mercato, alli­ neando così il sistema economico-sociale della Spagna a quello degli al­ tri Paesi occidentali. A fronte di questo sviluppo restavano, però, molti problemi legati a una crescita convulsa e spesso disordinata e alla natura dittatoriale del regime; il tasso di emigrazione verso l’estero rimase co­ stante, il tenore di vita della popolazione era mediamente tra i più bassi dell’Europa occidentale, il malessere sociale nelle zone periferiche delle Malessere diffuso città, abitate dalla nuova classe operaia, crebbe lungo tutti gli anni Ses­ e rivendicazioni sociali santa. Scioperi e rivendicazioni economiche, manifestazioni studente­ sche, istanze autonomistiche soprattutto nei Paesi Baschi, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, cominciarono a confondersi con contestazioni e proteste rivolte espressamente contro il regime. Di fronte a queste tensioni, a cui si aggiungeva la dissidenza di intellettuali e scrit­ tori, la risposta della classe dirigente spagnola fu inizialmente la repres­ sione, seguita, a partire dal 1966, da un timido «aperturismo». Fu, per

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Timido «aperturismo» del regime

La crisi del regime

Storia contemporanea

esempio, promulgata una nuova legge sulla stampa che eliminava alcuni aspetti della censura preventiva e una legge del 1967 riconobbe la libertà di culto. Anche da parte di alcuni settori del mondo cattolico, infatti, co­ minciarono a levarsi voci di dissenso che evidenziavano le contraddizioni tra i principi cristiani e i metodi dittatoriali del regime. All’inizio degli anni Settanta quindi, nonostante la campagna propa­ gandistica sui «25 anni di pace» e sui grandi successi economici, Franco si trovò a dover far fronte alla crescente scollatura tra una società in tra­ sformazione e il sostanziale immobilismo politico del regime. Oltre a questo, la classe politica del regime era divisa tra i sostenitori di una gra­ duale apertura che allargasse le basi della partecipazione politica e quanti invece propendevano per l’immobilismo e il mantenimento delle strutture autoritarie preparando però, con il generalissimo ancora in vi­ ta, il ritorno della monarchia. Il 22 luglio 1969 la designazione da parte di Franco del principe Juan Carlos di Borbone (—»-) come successore del caudillo, approvata anche dalle Cortes, dimostrò che la strada scelta dal regime per uscire dalla crisi era la seconda. Ma, da un lato, l’intensi­ ficarsi della protesta operaia, della mobilitazione studentesca e delle pressioni dei nazionalismi basco e catalano e, dall’altro, l’adozione di misure sempre più repressive da parte della dittatura accentuarono, an­ ziché diminuire, la crisi del regime, sempre più delegittimato all’interno e inviso alla comunità internazionale. 10.4 II consolidamento della Jugoslavia di Tito

L'affermazione di Tito e del comuniSmo

Una Federazione di sei repubbliche

Sul territorio jugoslavo la Seconda Guerra mondiale si chiuse uffi­ cialmente il 15 maggio 1945. Il regime di occupazione a cui il Paese era stato sottoposto fin dal 1941 e lo smembramento del territorio seguito alle annessioni operate da Italia, Bulgaria e Ungheria avevano fatto cre­ scere una forte tensione popolare che aveva dato alla Resistenza jugo­ slava contro il nazifascismo il carattere di un vero movimento di massa (cap. 8.5). La lotta contro il nemico aveva poi assunto i tratti della guer­ ra civile laddove nel Paese si erano costituiti governi di chiara ispirazio­ ne fascista, come era avvenuto in Croazia dove gli ustascio proclamaro­ no uno Stato indipendente nel 1941 (cap. 8.3). All’interno della Resi­ stenza erano emerse due correnti, quella dei cetnici serbi (—>-), con un’impronta marcatamente nazionalista, e quella comunista di Tito; fu quest’ultima ad affermarsi e Tito, dopo il 1945, si pose alla guida della ricostruzione del Paese. Nelle elezioni per l’Assemblea Costituente, che si svolsero ITI no­ vembre 1945, venne riconfermata la leadership comunista e a distanza di pochi giorni fu scelta la forma-stato repubblicana. Il 31 gennaio 1946 fu approvata la Costituzione, ricalcata sul modello di quella sovietica del 1936, che faceva della Jugoslavia una federazione di sei repubbliche: Croazia, Serbia, Slovenia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Macedo­ nia; all’interno della Serbia, il Kosovo veniva costituito come provincia autonoma, assieme alla Vojvodina. In questa prima fase, la Federazione manteneva un assetto fortemente centralizzato. Al governo centrale

Nuove egemonie e potenze emergenti

erano riconosciuti ampi poteri, mentre si lasciavano ai governi delle sin­ gole entità federali alcune forme di autonomia amministrativa e cultu­ rale. Nel corso del 1946 Tito procedette all’epurazione di coloro che egli riconosceva come interpreti dei nazionalismi che avevano insanguinato la Jugoslavia durante il secondo conflitto mondiale: i processi più ecla­ tanti furono condotti contro il leader cetnico dei serbi Draza Mihailovic (—>), condannato a morte, e contro l’arcivescovo cattolico di Zagabria Alojzije Stepinac (->-), che aveva apertamente sostenuto gli ustascio e fu condannato a 16 anni di reclusione. La fine della guerra e la costruzione del regime comunista posero subito nell’agenda politica della Jugoslavia la questione del controllo di Trieste (cap. 8.5). La città, infatti, il 1° maggio del 1945 era stata occu­ pata militarmente dalle forze partigiane che vi insediarono, senza il consenso degli angloamericani, un governo civile e vi rimasero per 40 giorni, fino a quando, anche grazie alle pressioni sovietiche, Tito ritirò le proprie truppe. Dopo una lunga trattativa diplomatica, diretta dagli angloamericani, nel 1954 il Territorio libero di Trieste (—>) fu diviso in due zone: la città di Trieste, nuovamente assegnata all’Italia, e il terri­ torio a sud della città che rimase soggetto alla Jugoslavia. Con il tratta­ to di Osimo del 1975 furono sanciti i confini fra Italia e Jugoslavia, ri­ conosciuti in seguito anche dagli Stati sorti dopo la dissoluzione del Paese nel 1991. Nell’assumere la guida della Federazione, Tito concentrò in una pri­ ma fase tutto il potere nel Fronte Popolare, al cui interno il Partito co­ munista esercitava il ruolo guida, allontanando ed emarginando i rap­ presentanti delle forze politiche prebelliche. Secondo i dettami imposti da Mosca nell’ambito delle politiche economico-sociali, e anche grazie alla presenza di centinaia di consiglieri sovietici, la Jugoslavia procedet­ te rapidamente all’introduzione di un sistema socialista attraverso la na­ zionalizzazione delle imprese e un’ampia riforma agraria. Tuttavia, il protagonismo politico di Tito nel nascente blocco socialista europeo­ orientale e soprattutto l’eccessiva autonomia manifestata dal leader ju­ goslavo nelle relazioni internazionali, per esempio con il coinvolgimento nella guerra civile greca e con il progetto di una Confederazione balca­ nica che avrebbe potuto riunire in un unico sistema Jugoslavia, Bulgaria e Albania (ed eventualmente la Grecia divenuta comunista), irritarono fortemente Stalin, preoccupato per il rapido deteriorarsi degli equilibri internazionali postbellici anche a causa delle scelte titine. I contrasti tra i due leader vennero ricondotti all’interno del Cominform, dove nel 1948 Stalin fece avanzare un’accusa formale di «deviazionismo ideologi­ co» nei confronti di Tito e ordinò di procedere all’espulsione del Partito comunista jugoslavo. Se Stalin sperava che la reazione dei comunisti ju­ goslavi sfociasse in un avvicendamento dei quadri dirigenti, dovette ri­ credersi. Lo scisma con Mosca non solo non indebolì il potere interno di Tito, ma portò i Paesi occidentali a schierarsi col leader jugoslavo che vi­ de così la propria scelta di autonomia dall’URSS premiata sia con aiuti economici, attraverso il Piano Marshall, e assistenza militare, sia con l’appoggio alla causa jugoslava nelle questioni geopolitiche internazio­ nali, come nel caso di Trieste.

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Epurazioni ed esecuzioni

L'occupazione di Trieste

I nuovi confini tra Italia e Jugoslavia

Introduzione di un sistema socialista

I contrasti tra Tito e Stalin

Lo scisma con Mosca

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La parziale collettivizzazione delle campagne

Il decentramento del potere nel Partito comunista

Politica estera di Tito

La scelta del non allineamento

Ripresa dei rapporti con Mosca e nuova rottura

Storia contemporanea

La prima mossa di Tito dopo la rottura con Stalin fu una radicale epurazione all’interno del partito dei cosiddetti «cominformisti», in modo da garantirsi una struttura fedele. Tuttavia, volendo dimostrare la propria lealtà verso i principi del socialismo sovietico, Tito diede av­ vio alla piena collettivizzazione delle campagne, che gli alienò molte delle simpatie dei contadini beneficiari della precedente riforma agra­ ria. Di fatto, per recuperare consensi verso il partito nelle campagne, che ancora raccoglievano più dell’80% della popolazione jugoslava, già nel 1953 circa l’80% dei terreni agricoli era tornata a essere gestita se­ condo logiche diverse da quelle delle collettivizzazione. Se da un lato questa fu una sconfitta per l’originario progetto titino, dall’altro costi­ tuì la premessa che avrebbe inserito, col tempo, l’economia jugoslava nel mercato internazionale. Sul piano politico e istituzionale il modello jugoslavo si andò caratte­ rizzando, a partire dagli anni Cinquanta, per uno spiccato decentramen­ to nella gestione del potere all’interno del Partito comunista, pur senza metterne in discussione il ruolo nella vita economica e politica del Pae­ se. La strada del decentramento fu resa più evidente con il cambio del nome deciso nel 1952, quando il partito assunse la denominazione di Lega dei comunisti di Jugoslavia. Nel 1963, poi, furono varati degli emendamenti alla Costituzione che accentuarono il decentramento am­ ministrativo ed economico, per esempio stabilendo la rotazione delle cariche negli altri vertici della Federazione; nello stesso anno, però, la carica di Tito alla presidenza dello Stato divenne a vita. Nel corso degli anni Cinquanta Tito giocò con abilità, sul fronte in­ ternazionale, la sua rottura con Mosca. Dopo che nel 1955 si era svolta la Conferenza di Bandung (—>-), dedicata, come vedremo, ai problemi del­ la decolonizzazione, Tito fu tra i promotori del movimento dei Paesi non allineati (->-), organizzando nel 1961, a Belgrado, il primo incontro uf­ ficiale. Portavoce di un’alternativa di non allineamento al conflitto tra Est e Ovest e sensibile alle questioni della decolonizzazione, Tito otten­ ne una grande visibilità sul piano internazionale, soprattutto fra i Paesi dell’Africa e dell’Asia che avevano da poco raggiunto l’indipendenza. Con la morte di Stalin nel 1953 e il graduale avvio di una nuova fase nel comuniSmo sovietico, ripresero anche i rapporti tra Belgrado e Mosca. Il nuovo leader sovietico Chruscèv si recò personalmente a Belgrado nel maggio 1955 per incontrare Tito e ricucire lo strappo di sette anni pri­ ma. I rapporti tra i due Paesi videro una breve stagione di riconciliazio­ ne ma, sebbene Tito avesse acconsentito all’invasione sovietica dell’Un­ gheria nel frangente della crisi del 1956, fu proprio la vicenda ungherese a determinare una nuova e drammatica rottura fra Jugoslavia e URSS che sarebbe durata fino agli anni Ottanta. Gli anni Sessanta videro una progressiva sperimentazione del cosid­ detto modello jugoslavo, rafforzata dall’avvio di ulteriori provvedimenti di liberalizzazione economica. Anche sul fronte internazionale, poi, Ti­ to continuò a mantenersi in linea con le sue iniziali posizioni di autono­ mia rispetto a blocchi della Guerra Fredda. Nel 1968 condannò dura­ mente la decisione dell’URSS di intervenire in Cecoslovacchia per met­ tere fine all’esperimento riformatore della leadership comunista locale.

Nuove egemonie e potenze emergenti

A differenza di quanto accadde in Ungheria nel 1956, infatti, la Ceco­ slovacchia non minacciò di uscire dal Patto di Varsavia e, per Tito, l’in­ tromissione di Mosca andava drasticamente condannata. Mentre le scelte di autonomia in politica estera rafforzarono la posi­ zione di Tito nello scenario internazionale, in politica interna comincia­ rono a emergere i primi segnali di crisi durante la seconda metà degli anni Sessanta. Nonostante la decisione di rispondere alla frammenta­ zione dell’area balcanica attraverso un decentramento in qualche modo rispettoso dei diversi sentimenti nazionali, il ruolo egemone svolto dal partito finì comunque per cozzare coi fermenti autonomistici di alcuni gruppi etnici. Nel 1968 a sollevarsi furono gli albanesi del Kosovo, che rivendicavano maggiori autonomie per la loro provincia, autonomie poi riconosciute loro come anche alla Vojvodina. Nel 1971 furono i musul­ mani di Bosnia che ottennero di essere riconosciuti come gruppo nazio­ nale autonomo; successivamente ci furono manifestazioni di chiaro stampo nazionalista in Croazia, Slovenia e Serbia. Tito cercò far fronte a queste tensioni ricorrendo non alla repres­ sione ma agli strumenti di quella «via jugoslava al socialismo» che lui stesso aveva inaugurato. Nel 1974 promosse la redazione di una nuova Carta costituzionale che portava a compimento l’idea federalista già in parte manifestatasi nella Costituzione del 1946. I poteri delle singole repubbliche venivano ampliati e approfonditi; ugualmente, pur non ac­ quisendo lo status di repubbliche, le autonomie delle province della Vojvodina e del Kosovo furono sensibilmente estese. Restava tuttavia irrisolto il problema di fondo, ovvero la rivalità tra le diverse compo­ nenti della Federazione, che sarebbe esploso, come vedremo, dopo la morte di Tito.

237

I fermenti autonomistid dei diversi gruppi etnia

Concessione di maggiori poteri alle singole repubbliche

10.5 Cina comunista e Cina nazionalista La Repubblica cinese, fondata nel 1912 da Sun Yat-sen, ebbe vita breve a causa dei contrasti tra le forze riunite nel Partito nazionale, il Guomindang, e i gruppi conservatori che facevano capo al generale Yuan Shi-kai. Questi, nel 1913, con un colpo di mano inaugurò una dit­ tatura personale, che tuttavia non riuscì a riportare l’ordine nel Paese, né a contrastare le mire espansionistiche del Giappone. Scesa in campo durante la Prima Guerra mondiale a fianco dell’Intesa, la Cina diede in realtà un contributo minimo al conflitto e alla Conferenza di Versailles, pur sedendo dalla parte dei vincitori, vide riconosciuto al Giappone il controllo economico sulla regione cinese dello Shandong, in precedenza amministrata dalla Germania. Tale umiliazione favorì il riaccendersi del nazionalismo interno e di un ampio movimento di protesta che a partire dal 1919, dopo il rientro di Sun Yat-sen dall’esilio, si coagulò nuovamente attorno al Guomin­ dang. Forte di una base di massa che comprendeva tanto la gioventù in­ tellettuale, quanto la borghesia industriale e i primi nuclei di classe ope­ raia, il Guomindang intraprese una lotta diretta contro il governo cen­ trale, i signori della guerra e Fimperialismo straniero. Nel 1921 formò un

Il contrasto col Giappone e la Prima Guerra mondiale

Riaccendersi del nazionalismo interno

L'iniziativa del Guomindang

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Il governo autoritario di Chiang Kai-shek

L'aggressione giapponese alla Manciuria

La reazione del Partito comunista di Mao

La campagna militare governativa e la «lunga marcia» dei comunisti

Temporaneo accordo tra Chiang e Mao per opporsi all'invasione giapponese

Crisi di consenso del regime

Storia contemporanea

governo autonomo a Canton, raccogliendo anche l’appoggio del Partito comunista cinese, fondato in quello stesso anno a Shanghai da un grup­ po di intellettuali tra cui si mise in luce il giovane Mao Zedong. L’intesa tra Guomindang e PCC era destinata, tuttavia, a dissolversi presto; nel 1925, infatti, alla morte di Sun Yat-sen, il suo successore alla guida del Guomindang fu il generale Chiang Kai-shek, che modificò radicalmen­ te l’azione e gli obiettivi del partito. Sordo alle istanze di riforma sociale e diffidente nei confronti del socialismo, nel 1927 Chiang Kai-shek at­ taccò e sconfisse le forze comuniste arroccate a Shanghai. L’anno se­ guente entrò con le sue truppe a Pechino e istituì un governo di stampo autoritario. Il Partito comunista fu messo fuorilegge e iniziò a riorganiz­ zarsi nelle aree più interne della Cina, non controllate dal Guomindang, e soprattutto fra le masse contadine. L’aggressione giapponese alla regione cinese della Manciuria nel 1931, che portò le truppe del Sol Levante a instaurare il governo-fantoccio del Manchukuo, diede nuova luce al Partito comunista; si erse infatti a ba­ luardo dell’indipendenza nazionale contro l’invasione giapponese, mentre scarsa fu la reazione del governo cinese e della stessa comunità interna­ zionale. Assunta la leadership del partito, Mao avviò una capillare opera di proselitismo presso i contadini, che individuava come la sola vera base del partito e della rivoluzione socialista nel contesto cinese, e al contempo intensificò la lotta armata contro il governo di Chiang Kai-shek. Questi reagì, a partire dal 1931, dando vita a una dura campagna militare contro i comunisti in tutte le zone da essi controllate; tre anni dopo le truppe go­ vernative riuscirono a mettere in scacco le forze comuniste accerchiando­ le nella regione meridionale dello Jangxi. Presa la decisione di evacuare il sud per dirigersi nella più sicura e meglio difendibile zona settentrionale dello Shaanxi, i comunisti di Mao iniziarono così, nel 1934, la cosiddetta «lunga marcia» (—►). Anche se, dopo un tragitto di circa 10.000 chilome­ tri nelle regioni più interne della Cina, solo una piccola parte dei comuni­ sti giunse effettivamente a destinazione, l’episodio assunse un significato epico di riscossa nei confronti del potere centrale. Nel 1937, di fronte all’intensificarsi dell’aggressione giapponese, le forze nazionaliste di Chiang e quelle comuniste di Mao arrivarono, pur tra molte incertezze, alla firma di un accordo allo scopo di evitare la guerra civile e opporre un fronte unito all’imperialismo straniero. L’in­ tesa, in realtà, fu solo temporanea e non produsse gli effetti sperati: due anni dopo, infatti, il Giappone controllava ormai la quasi totalità delle coste cinesi e le principali regioni industriali. Ciononostante l’accordo del 1937 e la lotta comune contro l’invasore assunsero i caratteri della vera e propria guerra di liberazione nazionale, accompagnata da pro­ messe di riforme sociali e politiche. Nel 1941 Chiang Kai-shek, approfittando dell’attacco giapponese agli Stati Uniti che aveva distolto una notevole quantità di truppe nipponiche dalla Cina, riprese l’offensiva contro i comunisti con l’intento di arrivare alla resa dei conti definitiva. Il discredito del regime agli occhi della po­ polazione non fece, però, che aumentare sia a causa delle dure repressio­ ni attuate contro gli oppositori, sia per le cocenti sconfitti militari subite ad opera dell’esercito giapponese. Nel 1945, proprio nella consapevolez­

Nuove egemonie e potenze emergenti

za della crisi in cui versava il regime, gli Stati Uniti si fecero promotori di un accordo fra comunisti e nazionalisti; Chiang tuttavia, che sperava di continuare a ricevere aiuti da Washington nella lotta interna contro i co­ munisti di Mao, respinse qualsiasi trattativa e intensificò ulteriormente le operazioni militari. In effetti Chiang Kai-shek, convertitosi al cristia­ nesimo e sposato con una donna cresciuta negli Stati Uniti, era visto dalFamministrazione Truman come il possibile artefice di un regime de­ mocratico e pluralista in Cina, a cui gli USA avrebbero affidato il compi­ to di essere parte attiva nella politica del contaìnment. Fallita tuttavia la mediazione, nel 1947 il governo americano fece ritirare i circa 50.000 sol­ dati precedentemente inviati in Cina. Un anno prima anche l’Unione So­ vietica aveva ordinato il ritiro delle truppe dell’Armata Rossa dalla Manciuria occidentale, strappata al Giappone negli ultimi giorni di guerra. Nel biennio 1946-47 i nazionalisti sembrarono prendere il sopravvento e riuscirono a dilagare in vaste zone precedentemente controllate dai co­ munisti. Questi, che continuavano a contare sul radicato appoggio della po­ polazione contadina e su un ampio uso delle tecniche di guerriglia, non eb­ bero invece il sostegno dell’Unione Sovietica, che continuò fino all’ultimo a tentare una mediazione tra le due parti. Fu nel corso del 1948 che l’anda­ mento del conflitto conobbe una svolta improvvisa; le truppe del governo centrale di Chiang iniziarono a sbandarsi e l’A rmata popolare di liberazio­ ne, che contava ormai più di un milione e mezzo di uomini, riuscì a prende­ re il sopravvento, occupando le principali città e vie di comunicazione. Nel febbraio del 1949 le truppe di Mao poterono quindi entrare a Pechino e i nazionalisti furono costretti alla resa; con quel che restava del proprio eser­ cito Chiang Kai-shek si ritirò nell’Isola di Formosa (Taiwan), protetto dalle navi statunitensi. Nonostante la sconfitta, Chiang continuò a reclamare la legittimità del suo governo sull’intera Cina continentale e, di fatto, potè conservare fino al 1971 il seggio della rappresentanza cinese all’ONU. Il re­ gime di Mao, la Repubblica Popolare cinese proclamata ufficialmente il 1° ottobre 1949, ricevette subito il riconoscimento da buona parte della comu­ nità internazionale, tra cui l’URSS, ma non dagli Stati Uniti. Mao non ebbe grosse difficoltà a completare quella che è stata defi­ nita una delle poche «rivoluzioni totali» della storia, avvenuta cioè con­ temporaneamente in tutti gli ambiti: politico, socio-economico e nazio­ nale. Fu infatti varata la socializzazione di tutti i settori economici e la collettivizzazione delle terre; quest’ultima venne attuata attraverso un’ampia riforma agraria che negli anni successivi portò il 90% dei contadini a essere inquadrato nel nuovo sistema delle cooperative agri­ cole. Nel 1953, dopo la fine della guerra in Corea (cap. 9.5), fu imposta­ to il primo piano economico quinquennale che, pur garantendo un ruo­ lo privilegiato all’agricoltura, consentì un graduale avvio dello sviluppo industriale, sostenuto sempre dal settore agricolo. Di fronte alle tensio­ ni e ai forti squilibri sociali prodotti da questa radicale trasformazione del sistema economico, il governo di Mao rispose sia con la repressione (si calcola che il regime maoista abbia provocato la morte di circa 50 milioni di cinesi), sia con misure forzate di razionalizzazione produtti­ va che puntavano sull’intensificazione del lavoro e dell’impegno delle comunità locali.

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Fallimento della mediazione americana

Sopravvento dell'Armata popolare di Mao e resa dei nazionalisti La ritirata di Chiang a Formosa

Proclamazione della Repubblica Popolare cinese

Socializzazione di tutti i settori economici

Repressione e razionalizzazione produttiva

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La «campagna di rieducazione popolare» e il «grande balzo in avanti»

Sviluppo industriale a tappe forzate

I rapporti con l'Unione Sovietica

La rottura con Mosca

Storia contemporanea

Con la «campagna di rieducazione popolare», tutte le componenti della società, il partito, i contadini, gli operai e gli intellettuali erano in­ fatti chiamati a collaborare per far compiere al Paese un «grande balzo in avanti» (-^-) verso la realizzazione del «socialismo reale». Basato su un drastico innalzamento degli obiettivi produttivi sia dell’agricoltura sia delFindustria, il «grande balzo in avanti» portò alFaccorpamento delle cooperative agricole in unità maggiori, le «comuni popolari», ciascuna delle quali avrebbe dovuto raggiungere la piena autosufficienza econo­ mica. Alla produzione industriale furono posti obiettivi ancora più alti e tra il 1957 e il 1960 il numero di operai nelle industrie, dove erano co­ stretti a ritmi di lavoro incessanti, raddoppiò raggiungendo i 50 milioni. In politica estera la Cina di Mao, nonostante l’affinità ideologica con l’Unione Sovietica, non entrò a far parte della sfera d’influenza diretta di Mosca. Come nel caso di Tito, infatti, Mao era giunto al potere senza un significativo sostegno da parte di Stalin; inoltre tra i due Paesi, divisi da una frontiera lunghissima, continuavano a permanere antichi dissidi di confine che la comunanza ideologica tra i due regimi e la Guerra Fredda solo in parte attenuarono. In un primo momento, quindi, di fronte al ri­ schio che gli Stati Uniti intervenissero per riportare al potere i nazionali­ sti, Mao dovette servirsi della copertura e degli aiuti militari e tecnologici dell’URSS. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, parallelamente ai primi segnali di coesistenza pacifica tra Washington e Mosca, i rapporti tra Cina e URSS diventarono sempre più difficili. Da un lato, infatti, l’Unione Sovietica continuava a rivendicare il ruolo di potenza egemone sull’intero mondo comunista e a porsi come garante di una stabilizzazione dell’equilibrio bipolare che escludeva l’affermazione di altre potenze. Dall’altro, Mao cominciò ad appoggiare i movimenti rivoluzionari pre­ senti nei Paesi dell’Africa e dell’Asia di recente decolonizzazione e a farsi paladino della lotta mondiale contro quello che lui definiva «imperiali­ smo», tanto statunitense quanto sovietico. I rapporti tra i due Paesi si de­ teriorano definitivamente tra il 1959 e i primi anni Sessanta. Nel 1959, in­ fatti, Mosca decise di bloccare la prevista vendita di armi nucleari alla Ci­ na, sospese l’invio di aiuti economici e ritirò i propri tecnici, infliggendo così un ulteriore danno alle già gravi condizioni dell’economia cinese. Pur senza l’appoggio dell’URSS, nel 1964 la Cina riuscì a far esplo­ dere la sua prima bomba atomica; questo fatto si aggiunse al continuo crescendo di polemiche fra i due regimi, che si accusavano reciproca­ mente di aver tradito i dettami dell’ideologia comunista. La rivalità ini­ ziale tra Cina e URSS si era ormai trasformata in aperta ostilità; a con­ ferma di ciò alla fine degli anni Sessanta ci furono anche scontri armati tra le truppe dei due Paesi lungo il confine tra la Siberia e la Manciuria. 10.6 II Giappone: il nuovo baluardo dell'Occidente in Asia

Le conseguenze della guerra

La fine del lungo conflitto mondiale, segnata dall’immane disastro della distruzione di Hiroshima e Nagasaki (cap. 8.6), lasciò il Giappone in condizioni di totale prostrazione: aveva perduto i due terzi delle indu­ strie, il 70% della flotta mercantile, indispensabile per un arcipelago di

Nuove egemonie e potenze emergenti

centinaia di isole, contava 8 milioni di senzatetto scampati ai bombardamenti, 5 milioni di disoccupati e oltre 6 milioni di militari smobilitati dai fronti. Come nel caso della Germania, gli originari piani statunitensi prevedevano l’imposizione di condizioni di pace estremamente dure; si pensava, cioè, di ridurre il Giappone a uno stato di completa inferiorità, con il potenziale militare azzerato e quello economico radicalmente ri­ dimensionato, in modo da impedirgli ulteriori aggressioni. Ma, esatta­ mente come in Europa, le esigenze della nascente Guerra Fredda e la sconfitta del regime nazionalista di Chiang Kai-shek da parte di Mao in Cina imposero, nel breve periodo, una drastica inversione di tendenza rispetto ai progetti originari. L’amministrazione dell’occupazione americana, affidata al generale MacArthur, mise dunque in atto una prima epurazione contro i respon­ sabili dei crimini di guerra, ma non destituì l’imperatore Hirohito (—►), imponendogli invece la rinuncia al tradizionale status divino del sovra­ no e l’adozione di un regime costituzionale democratico. La decisione fu dettata dal timore che la rimozione dell’imperatore potesse causare un vuoto politico e amministrativo troppo ampio, oltre al rischio di solleva­ zioni o sbandamenti da parte di una popolazione che venerava come una divinità la figura del sovrano. Dal canto suo, Hirohito ripagò la scel­ ta degli alleati facendo un lungo viaggio nell’interno del Paese per invi­ tare tutti i giapponesi a «sopportare l’insopportabile» e a collaborare con gli occupanti. Nel 1946, sotto l’egida americana, fu varata la nuova Costituzione che trasformava la vecchia autocrazia imperiale in una monarchia costituzionale con un Parlamento rappresentativo, espressio­ ne della sovranità popolare. Furono inoltre introdotti il principio della libertà religiosa e tutti i principali diritti politici. Uno dei primi provvedimenti realizzati dal nuovo Parlamento, in ac­ cordo con l’amministrazione statunitense, fu la riforma agraria che servì a consolidare la piccola proprietà terriera. Sul versante dell’istruzione, vennero sancite la libertà d’insegnamento e la gratuità della scuola fino a tredici anni. Furono inoltre varate alcune misure di rigore fiscale per contrastare un’inflazione galoppante che nel 1946 aveva già raggiunto un tasso del 400%. Tuttavia gli occupanti non si spinsero troppo sulla via delle riforme e degli interventi per non indebolire eccessivamente il notabilato conservatore e la borghesia industriale, ossia i ceti sociali che si riteneva fossero in grado di garantire una ricostruzione del Paese su basi capitalistiche e liberali. Il consolidamento dei rapporti fra Stati Uniti e Giappone, pur essen­ do in atto già dai primi anni del dopoguerra, divenne ancor più evidente al momento dello scoppio della guerra di Corea, che avrebbe infatti mo­ dificato il modello di sviluppo giapponese e la strategia occidentale nell’area del Pacifico. Il Giappone divenne una sorta di «portaerei» americana al largo della Corea, nonché uno dei pilastri fondamentali del cosiddetto «perimetro difensivo» teorizzato dal segretario di Stato ame­ ricano Dean Acheson. Tale «perimetro» comprendeva tutti i territori dell’area del Pacifico ritenuti indispensabili per la sicurezza degli USA in funzione antisovietica. Anche lo sviluppo industriale del Sol Levante ricevette indirettamente un grosso impulso dalla guerra di Corea e

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I piani statunitensi perii Giappone

L'occupazione americana

Il ruolo dell'imperatore Hirohito

La nuova Costituzione

La guerra di Corea

Il «perimetro difensivo» nel Pacifico per la sicurezza degli USA

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Lo sviluppo industriale ed economico

La fine dell'occupazione militare e il trattato di pace

Il pieno inserimento nel sistema delle alleanze occidentali e il legame con gli USA

L'affermazione del Partito liberal-democratico

Il formidabile progresso economico

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dall’accresciuta preoccupazione degli USA per la minaccia comunista nell’area del Pacifico. Le grandi concentrazioni industriali giapponesi non vennero infatti smembrate, come prevedevano invece i piani inizia­ li, e poterono così trasformarsi nel principale motore del boom econo­ mico che il Paese visse a partire dalla metà degli anni Cinquanta. Malgrado l’opposizione sovietica, nel settembre del 1951 venne firmato a San Francisco il trattato di pace fra le potenze alleate e Tokyo, che sancì la fine dell’occupazione militare del Giappone. La firma del trattato acuì tuttavia le tensioni della Guerra Fredda. Mo­ sca, infatti, si astenne dal partecipare alla conferenza, mentre la Cina comunista, il Paese che più di ogni altro aveva subito l’occupazione nipponica durante la guerra, non fu neppure interpellata poiché non riconosciuta dall’ONU. Per il Giappone, al contrario, il trattato non risultò affatto punitivo e, tra le altre cose, gli fu riconosciuta la possi­ bilità di sostituire il pagamento delle riparazioni di guerra con accor­ di bilaterali commerciali. Proprio mentre gli Stati Unti stavano completando il sistema difensi­ vo nelle aree del sud-est asiatico con la creazione della SEATO nel 1954 (cap. 9.6), i governi di Tokyo e Washington firmarono un trattato di sicu­ rezza che permetteva agli Stati Uniti di mantenere truppe in Giappone e di installarvi alcune basi militari per scopi difensivi. Nel 1953, inoltre, Tokyo fu ammessa al Fondo monetario internazionale, nel 1955 fu inclu­ sa nell’Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio e l’anno successi­ vo fece il suo ingresso all’ONU. Il Giappone rientrava così sulla scena della politica internazionale inserendosi a pieno titolo nel sistema di al­ leanze occidentali e vincolando strettamente le proprie scelte alla stra­ tegia americana. Già nelle prime elezioni tenutesi dopo il varo della Costituzione, che si svolsero nell’aprile 1946, emersero i tratti del futuro assetto politico del Giappone, con l’affermazione, assai duratura negli anni a venire, del Partito liberale e del suo leader Yoshida Shigeru (—>), protagonista in­ discusso della ricostruzione del Paese, definito il De Gasperi (—►) o l’Adenauer del Sol Levante. Nel 1954, dall’unione dei liberali con i de­ mocratici di Ichiro Hatoyama (—►) nacque il Partito liberal-democrati­ co, che avrebbe controllato la politica giapponese fino alla fine del XX secolo. Composto principalmente da esponenti dell’alta burocrazia, po­ litici di professione, medi e piccoli imprenditori, docenti universitari e professionisti, questo partito fu il vero regista del formidabile progresso economico del Giappone nel ventennio dal 1950 al 1970. Grazie all’efficienza della burocrazia e alla prassi del governo di ap­ provare i programmi economici quinquennali in accordo con le potenti associazioni imprenditoriali, già verso la metà degli anni Cinquanta il Paese era tornato ai livelli produttivi dell’anteguerra. Dalla metà degli anni Sessanta, poi, la crescita era proseguita senza sosta: la produzione manifatturiera si moltiplicò di dodici volte e il PIL registrò un’impres­ sionante crescita media annua. Favorito inoltre dall’istituzione di appo­ site società commerciali internazionali, il Giappone divenne uno dei principali esportatori di beni di consumo, conquistando la leadership mondiale in settori come l’elettronica, la cantieristica e la produzione di

Nuove egemonie e potenze emergenti

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auto e motocicli, il che gli permise già negli anni Sessanta di riportare in attivo la bilancia dei pagamenti. 10.7 La fondazione dello Stato d'Israele e l'origine della crisi mediorientale Il sionismo, ossia il sentimento politico nazionalista che tendeva alla Nascita del sionismo costruzione di un autonomo Stato ebraico, nacque e si diffuse nell’Euro­ nell'Europa pa centro-orientale negli ultimi anni del XIX secolo, alimentato dalle centro-orientale dure condizioni di vita delle minoranze ebraiche, sovente sottoposte a discriminazioni e a vere e proprie persecuzioni, come i pogrom (—►) nella Russia zarista. Si trattava di un ideale politico laico, di stampo na­ zionalista, nato in ambienti spesso atei e socialisteggianti e non rispon­ deva quindi ad esigenze di carattere religioso o profetico. Sull’onda della «risalita al monte di Sion» (—►), da cui ebbe origine il termine sionismo, iniziò nel 1881-82 la prima ondata migratoria di ebrei provenienti dai territori russi e dall’Europa orientale, di cui però solo una minima parte prese la strada della «terra promessa» ossia la Palesti­ na ottomana. A distanza di qualche anno, nel 1896, Theodor Herzl (—►), corrispondente da Parigi per un giornale viennese, seguendo le vi­ cende deìVaffaire Dreyfus (cap. 4.1) e toccando con mano il diffuso anti­ semitismo presente anche nella Francia patria dei diritti dell’uomo e del cittadino, pubblicò un libro dal titolo emblematico Lo stato ebraico. Con quest’opera intendeva fornire una prospettiva politica concreta al sionismo, individuando i mezzi e le strategie per ridare al popolo ebrai­ Il progetto di costruire co una patria. Alla base di tutto, per Herzl, doveva esserci la presa di co­ uno Stato ebraico scienza da parte degli ebrei della necessità di costruire un proprio Stato in Palestina in Palestina. Nel 1897 la fondazione dell’Organizzazione sionista mondiale (->-) fu il primo passo nel cammino verso la costruzione di uno Stato ebraico. Alcuni pionieri acquistarono, infatti, le terre dagli arabi grazie ai finan­ L'Organizzazione ziamenti dell’Organizzazione sionista e impiantarono fattorie collettive, sionista mondiale fondando soprattutto lungo la costa della Palestina i primi insediamenti e i primi insediamenti ebraici. Tuttavia, le dure condizioni del territorio impedirono a questa prima immigrazione di mettere le radici e spinsero spesso i coloni a tra­ sferirsi in regioni meno aride. Fu solo dopo una nuova ondata di perse­ cuzioni, all’inizio del Novecento, che il flusso migratorio verso la Pale­ Le persecuzioni stina, proveniente soprattutto da Russia e Polonia, si fece più intenso. A degli ebrei e il flusso emigrare erano prevalentemente i giovani, molti dei quali animati da migratorio verso ideali socialisti e da un nazionalismo coerente e molto sentito. Questi la Palestina giovani cercavano nella «Terra Promessa» il luogo dove costruire una società egualitaria e moderna. Durante la Prima Guerra mondiale numerosi ebrei immigrati in Pa­ lestina, arruolati nella Legione ebraica, combatterono a fianco degli in­ glesi contro gli ottomani. Proprio prima del conflitto, l’Organizzazione sionista aveva deciso di affiancare al «sionismo pratico», ossia l’insedia­ mento nelle regioni della Palestina, anche il «sionismo politico», ossia pressioni alla comunità internazionale per ottenere il riconoscimento

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La Dichiarazione Balfour

Le prime strutture stabili e i primi conflitti con gli arabi

Il mandato britannico sulla Palestina

Le nuove ondate migratorie da Polonia, Germania e Austria

La difficile convivenza tra ebrei e arabi

La ripresa dell'immigrazione clandestina

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delLe aspirazioni ebraiche in quell’area. Il principale successo di questa strategia fu la pubblicazione, nel 1917, della Dichiarazione Balfour (—>), in cui il ministro degli Esteri britannico dichiarava di guardare con fa­ vore alla creazione in Palestina di un «focolare nazionale ebraico» (Jewish National Home). Le aspettative alimentate dalla Dichiarazione fecero sì che tra il 1919 e i primi anni Venti riprendesse il movimento mi­ gratorio verso la Palestina da parte soprattutto degli ebrei provenienti dall’Europa orientale e dalla Russia, in fuga dal regime bolscevico. In questa fase cominciarono a radicarsi nella comunità ebraica di Palestina le prime strutture stabili che miravano a sottolineare la pre­ cisa volontà di insediarsi sul territorio; come, per esempio, le organiz­ zazioni sindacali e soprattutto i reparti militari per l’autodifesa. Con­ testualmente iniziarono, però, anche i primi conflitti con gli arabi che abitavano quelle terre e temevano che il progetto Balfour e il movi­ mento migratorio mettessero in discussione la prospettiva di uno Stato arabo indipendente in Palestina. Per sedare le tensioni, nel momento in cui la Società delle Nazioni assegnò formalmente il mandato sulla Palestina alla Gran Bretagna, si pensò di dichiarare esplicitamente che non si mirava la costituzione di uno Stato ebraico; la Società delle Nazioni affermava, cioè, che l’idea di un «focolare ebraico» non ri­ guardava tutta la Palestina e soprattutto che esso non avrebbe avuto giurisdizione sugli arabi. Per la Gran Bretagna tale prospettiva com­ portò l’adozione di provvedimenti restrittivi per limitare l’immigrazio­ ne ebraica in Palestina. Ciononostante nel 1924 ci fu una nuova massiccia ondata migratoria composta prevalentemente da ebrei polacchi che andarono a stabilirsi nelle città, impiantandovi piccole fabbriche, negozi e attività di servizio; questo nuovo flusso era stato determinato da diversi fattori, tra cui una crisi economica che aveva colpito la Polonia e l’introduzione di limiti all’immigrazione negli Stati Uniti. L’avvento del nazismo in Germania, all’inizio degli anni Trenta, fu poi la causa di una nuova emigrazione di ebrei in Palestina. Questa volta erano soprattutto ebrei tedeschi e au­ striaci, generalmente ben istruiti e benestanti, che si portarono dietro tutto il loro bagaglio culturale, tecnico e scientifico e andarono a costi­ tuire il nucleo principale della borghesia del futuro Stato di Israele. A causa di queste diverse ondate migratorie negli anni Venti e Tren­ ta, la convivenza tra ebrei e arabi in Palestina divenne sempre più diffi­ cile. Infatti, anche se erano i notabili e i proprietari terrieri palestinesi a vendere le terre ai nuovi coloni, le rigide regole della comunità ebrai­ ca, che permettevano solo ai loro membri il lavoro sulle terre «reden­ te», ebbero come effetto l’aumento della disoccupazione tra la popola­ zione araba, alimentando così le tensioni e i conflitti tra le due comuni­ tà. A partire dalla fine del 1938, quando nella cosiddetta «notte dei cristalli» (cap. 6.5) la Germania fu attraversata dalla prima tragica on­ data di odio e violenze antisemite, l’emigrazione clandestina riprese vorticosamente. Gli ebrei, che arrivarono in Palestina sfidando i con­ trolli dell’autorità mandataria britannica, raggiunsero alla fine degli anni Trenta il mezzo milione di persone, ovvero circa il 35% della po­ polazione insediata nella regione.

Nuove egemonie e potenze emergenti

Le difficoltà della convivenza e il timore di perdere il controllo della loro terra condussero gli arabi a compiere atti ostili sempre più violenti sia verso la comunità ebraica, sia contro le autorità inglesi. Il conflitto crebbe di intensità nel corso degli anni Trenta fino a dar vita, nel 1936, alla Grande Rivolta araba che proseguì con alterne vicende fino al mar­ zo del 1939. Le forze britanniche in Palestina cercarono di reprimere con la forza le proteste degli arabi, ma al tempo stesso cominciarono a considerare l’eventualità di creare, in futuro, due comunità nazionali se­ parate. Nel 1939 fu dato alle stampe in Gran Bretagna un Libro Bianco nel quale si prospettava un’ipotesi sostenuta anche dalla popolazione araba. Vi si proponeva infatti di costruire in Palestina uno Stato bi-nazionale, la cui responsabilità avrebbe dovuto essere condivisa da arabi ed ebrei; si fissavano inoltre limiti precisi all’immigrazione, che non do­ veva superare le 15.000 persone all’anno per cinque anni, mentre ogni immigrazione successiva doveva essere autorizzata dagli arabi. Si stabi­ livano infine norme chiare in merito al possesso della terra. Alla fine della Seconda Guerra mondiale, l’orrore della «soluzione finale» perpetrata dal regime nazista contro gli ebrei legittimò l’aspira­ zione del popolo ebraico alla costruzione di un «focolare nazionale» ma al tempo stesso alimentò nuove tensioni e violenze con gli arabi. Di fronte alla crescente radicalizzazione degli scontri, la Gran Bretagna, già in difficoltà nella gestione del suo vasto impero coloniale, nell’aprile del 1947 annunciò che entro un anno avrebbe rimesso il proprio il man­ dato sulla Palestina in seno all’ONU. Spettò, dunque, alle Nazioni Unite il compito di risolvere il già intricato problema palestinese. Con la riso­ luzione 181 del novembre 1947 l’ONU abbracciò la proposta di dividere la Palestina in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo, ponendo l’area di Gerusalemme sotto amministrazione internazionale. Nelle intenzioni della comunità internazionale, i due Stati avrebbero dovuto aderire a una Unione economica palestinese col compito di gestire in un clima di parità e amicizia la moneta unica, le risorse del territorio e le infrastrut­ ture. Pur con molte perplessità, la proposta venne accettata dalla comu­ nità ebraica, disponibile a procedere alla dichiarazione di indipendenza al momento della definitiva partenza dei britannici; fu invece totalmen­ te rigettata dagli arabi. Immediatamente dopo l’adozione della risoluzione ONU 181 si eb­ bero ovunque scontri e manifestazioni di protesta. Il livello delle violen­ ze fu altissimo da ambo le parti, con vere e proprie incursioni nei villag­ gi e atti terroristici, mentre entrambi i popoli si preparavano allo scontro militare. La Lega dei Paesi arabi (—>) iniziò a inviare alcune formazioni volontarie e ad arruolare le prime milizie palestinesi. Gli arabi riusciro­ no a tagliare le vie di comunicazione ebraiche fra le città di Tel Aviv e Gerusalemme, ma le forze ebraiche dimostrarono fin da subito di essere militarmente più forti. Il 13 maggio 1948, alla formale scadenza del mandato britannico, la Lega Araba concordò l’invio di truppe regolari, nominando comandan­ te in capo delle armate re Abd Allah (—>) di Transgiordania. Il giorno seguente i comandi ebraici dichiararono l’indipendenza dello Stato di Israele, mentre il 15 gli ultimi reparti inglesi completarono il ritiro. Lo

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La Grande Rivolta araba

L'ipotesi britannica dello Stato bi-nazionale

L'orrore della «soluzione finale» e la legittimazione delle aspirazioni ebraiche La fine del mandato britannico

La risoluzione ONU 181

Lo scoppio delle violenze

La dichiarazione d'indipendenza dello Stato di Israele

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Storia contemporanea

Nuove egemonie e potenze emergenti

Stato di Israele venne immediatamente riconosciuto dall’Unione So­ vietica, dagli Stati Uniti e da quasi tutti i Paesi membri dell’ONU. Nei giorni successivi, gli eserciti dei Paesi arabi limitrofi attaccarono Israe­ le con l’intento di procedere alla creazione di uno Stato arabo unitario in Palestina. Le forze arabe erano preponderanti, per numero e poten­ ziale militare, ma a differenza della milizia israeliana erano profonda­ mente divise e male organizzate. La reazione deìYIsraeli Defense Force fu assai rapida e, dispiegando un esercito molto più coeso e forte di quello arabo, riuscì in breve tempo a ribaltare le sorti del conflitto; già a dicembre, infatti, gli eserciti arabi furono cacciati fuori dei confini previsti dall’ONU. Al momento della firma dell’armistizio, definitiva­ mente chiuso nel luglio 1949, i confini di Israele racchiudevano una porzione di territorio palestinese più estesa rispetto al piano di riparti­ zione previsto dell’ONU. Di quanto restava del previsto Stato palestinese, la Striscia di Gaza fu annessa dall’Egitto e la Cisgiordania fu incorporata dalla Transgiordania, che assunse il nome di Giordania. Il sogno di uno Stato palesti­ nese per il momento svaniva. Oltre 700.000 palestinesi, circa la metà della popolazione araba locale, lasciarono i territori del nuovo Stato d’Israele, aprendo così l’annosa questione del «diritto al ritorno» sanci­ to dall’ONU con la risoluzione 194 (—>-) del dicembre 1948, ma mai ap­ plicato. Anche 800.000 ebrei che risiedevano nei Paesi arabi furono co­ stretti a fuggire e a riparare in Israele. La guerra del 1948 viene ancora oggi ricordata dagli arabi come al-Naqba, la «catastrofe», una sconfitta che negli anni a venire avrebbe causato una crescente e drammatica radicalizzazione degli scontri. Dal canto suo, lo Stato d’Israele mostrò immediatamente grandi ca­ pacità di ripresa. Costruitosi secondo il modello delle democrazie occi­ dentali, il Paese riuscì a dotarsi di strutture politiche e sociali molto avanzate anche grazie a una classe politica preparata e intraprendente, tra cui spiccava il socialista David Ben Gurion (—*-) che per oltre dieci anni fu primo ministro. In ambito economico, Israele si caratterizzò per la peculiare commistione fra il capitalismo di Stato del settore industria­ le e l’esperimento cooperativo delle comunità agricole dei kibbutzim (^ -), create dai primi coloni ebrei emigrati in Palestina all’inizio del Novecento. A dispetto delle sue piccole dimensioni e della scarsità di ri­ sorse naturali, Israele conobbe fin dagli anni Cinquanta uno strepitoso sviluppo economico e industriale, favorito anche dal sostegno delle co­ munità ebraiche europee e soprattutto di quella americana.

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L'attacco dei Paesi arabi: la prima guerra arabo-israeliana

La vittoria di Israele

Fine del sogno di uno Stato palestinese

Lo Stato d'Israele

10.8 La difficile decolonizzazione: tra modello inglese, francese e portoghese Già negli anni tra Otto e Novecento il primato delle nazioni euro­ pee sul resto del mondo era stato messo in discussione da tre pesanti sconfitte: quella italiana ad Adua nel 1896, quella spagnola del 1898 ad opera dell’esercito americano e quella russa del 1905 da parte del Giap­ pone. La conclusione della Prima Guerra mondiale, con il crollo degli

Crisi del primato mondiale delle nazioni europee

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Il principio dell'autodeterminazione dei popoli

Fermenti indipendentisti nei Paesi colonizzati

L'istituto del «mandato»

I diversi atteggiamenti di Francia e Gran Bretagna

Storia contemporanea

Imperi tedesco e austro-ungarico, aveva reso ancor più evidente la fra­ gilità dell’egemonia europea. A questi elementi si aggiungevano poi le conseguenze economiche del conflitto, che aveva prostrato le economie dei Paesi vinti non meno di quelle dei vincitori. Inoltre il principio dell’autodeterminazione dei popoli, a cui da più parti ci si era appellati durante la guerra, aveva fatto sperare che ad esso ci si sarebbe ispirati per regolare gli assetti geopolitici del futuro. L’autodeterminazione dei popoli era stata infatti il cavallo di battaglia delle conferenze di Zimmerwald e Kienthal del 1915 e 1916, dove l’Internazionale socialista si era espressa a favore di una pace senza indennità e senza annessioni, appoggiando in questo modo le tesi radicali dei bolscevichi e degli spartachisti tedeschi (cap. 5.2). Anche il presidente americano Wilson, fin dal momento dell’entrata in guerra degli Stati Uniti, aveva sostenuto il principio dell’autodeterminazione e aveva continuato a farlo anche di fronte alle recalcitranti nazioni europee in occasione della Conferenza di pace del 1919 (cap. 5.5). Fu proprio a questo complesso bagaglio intellettuale che si rifecero le élite dei Paesi colonizzati all’indomani del primo conflitto mondiale, tanto più che l’esperienza della guerra combattuta al fianco delle rispet­ tive potenze coloniali sembrava legittimare ulteriormente le richieste di indipendenza. Tuttavia, i fermenti indipendentisti dei popoli dell’Africa e dell’Asia non trovarono, in genere, terreno fertile. Non solo, infatti, i Paesi europei opposero una netta resistenza alle richieste di indipen­ denza, ma nella maggior parte dei casi scelsero di fiaccarle con una dura repressione. D ’altronde, il fatto che le nazioni della vecchia Europa fos­ sero rimaste sorde alle istanze in favore deH’autodeterminazione dei po­ poli era già apparso evidente alla Conferenza di pace; di fronte al crollo dellTmpero ottomano, infatti, Francia e Gran Bretagna se ne spartirono i territori ottenendo, la prima, Siria e Libano, la seconda, Mesopotamia e Palestina. Il possesso di questi territori fu regolato dall’istituto, forte­ mente voluto dagli Stati Uniti, del mandato; l’esercizio del mandato im­ plicava, da parte di Francia e Gran Bretagna, una funzione di tutela in vista di una futura autonomia di gestione di quelle popolazioni (cap. 5.5). Si trattava, in sostanza, del riconoscimento, seppure indiretto, che il punto di arrivo per le popolazioni del Medio Oriente avrebbe dovuto essere l’indipendenza. In Africa, invece, il sistema del mandato fu appli­ cato alle colonie tedesche. Negli anni tra le due guerre, quindi, le nazioni europee continuarono a ritenere legittimo e opportuno l’esercizio del potere all’interno delle colonie; tuttavia cominciò già a delinearsi un diverso modo di rappor­ tarsi coi territori d’oltremare da parte delle due maggiori potenze colo­ niali, Francia e Gran Bretagna. Mentre entrambe avviarono politiche di sviluppo economico nelle colonie, la Francia continuò a mantenere una posizione di chiusura rispetto alle richieste di autonomia dei popoli co­ lonizzati, al contrario della Gran Bretagna che assunse, invece, un at­ teggiamento più aperto e conciliante. Un primo segnale di questo si vide nei territori mediorientali dove, nell’area dell’antica Mesopotamia, fu­ rono creati nel 1921 gli Stati dell’Iraq e della Transgiordania; sebbene all’inizio gli inglesi avessero continuato a esercitare una sorta di protet­

Nuove egemonie e potenze emergenti

torato, l’Iraq divenne pienamente indipendente nel 1932 e la Giordania nel 1946. Nel 1922 anche l’Egitto, già protettorato britannico, imboccò la strada dell’indipendenza che raggiunse pienamente nel 1936. Nel 1926 la Conferenza imperiale svoltasi a Londra riconobbe, attraverso la costi­ tuzione del Commonwealth, lo status di «comunità autonome ed eguali in seno all’Impero» a Canada, Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica; tutti Paesi che avevano già ottenuto in precedenza lo statuto di domi­ nion e che quindi godevano di una relativa autonomia. L’unica nazione che, negli anni fra le due guerre, aveva lottato dura­ mente per conquistare l’indipendenza dalla Gran Bretagna, senza riu­ scirvi, era l’India. Amministrata dagli inglesi fin dalla metà del XIX secolo, l’India rappresentava non solo il fiore all’occhiello del vasto im­ pero coloniale britannico, ma una regione chiave per l’economia della madrepatria. Fu proprio per questo che, all’indomani della Prima Guerra mondiale, il governo britannico, tenendo conto del contributo dato dai soldati indiani, fece importanti passi in avanti sulla strada dell’autogoverno. Il Government o f India A ct del 1919 istituiva un regi­ me diarchico nelle province, affidando larghi settori dell’amministra­ zione a nativi. Questi poteri furono estesi ulteriormente nel 1935, con un successivo Government o f India Act che configurava un regime di autonomia quasi completa. A sua volta, proprio in conseguenza del conflitto, il movimento indipendentista indiano si era radicalizzato, per cui queste concessioni furono giudicate insufficienti. Rispetto ad esse, tuttavia, non ci fu un atteggiamento di chiusura totale e in più occasioni i leader indiani non mancarono di utilizzare gli spazi di autonomia con­ cessi dagli inglesi. Alla guida del movimento indipendentista dell’India si pose fin dal 1919 Mohandas Karamchand Gandhi (->-), il Mahatma (grande anima) che, con la sua predicazione fondata sulla non violenza e sulla pratica della resistenza passiva nei confronti degli inglesi, ottenne un largo se­ guito soprattutto fra la popolazione di religione induista. Il messaggio e la battaglia politica di Gandhi erano rivolti non solo al conseguimento dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, ma anche a combattere l’estre­ mismo religioso, il sistema dell’intoccabilità (—>) e tutti gli aspetti più arcaici dei costumi e della vita sociale. Gandhi, ucciso in un attentato ad opera di un fanatico indù nel gennaio del 1948, riuscì però a vedere la conquista dell’indipendenza da parte del suo Paese, sancita à&WIndian Independence Act (-*-) del 1947. Se, da un lato, questo provvedimento rappresentava il punto di arrivo di un lungo e travagliato cammino, la decisione della Gran Bretagna di acconsentire alle pressioni della popo­ lazione musulmana favorevole alla costruzione di due Stati indipenden­ ti, uno di musulmani e uno di indù, metteva fine al sogno di Gandhi di creare uno Stato unitario, laico, patria di tutti gli indiani senza distin­ zioni di religione. Nel 1947, nei territori dell’ex colonia britannica dell’India si costituirono il Pakistan musulmano e l’India a maggioranza induista, che ottennero entrambi la configurazione di dominion ed en­ trarono a far parte del Commonwealth. La Seconda Guerra mondiale, oltre a segnare la fine definitiva del primato dell’Europa sulla scena internazionale, impresse una svolta de-

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La costituzione del Commonwealth

La lotta per l'indipendenza dell'India

Le concessioni del governo britannico

La battaglia politica non violenta di Gandhi

Lindian Independence /Icfdel 1947

La costruzione di due Stati indipendenti: il Pakistan musulmano e l'India induista

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La Seconda Guerra mondiale e la svolta nei processi di decolonizzazione

Il modello gradualista britannico

La pratica francese dell'«assimilazione»

La vicenda dell'Indocina

La guerra e la sconfitta francese

Storia contemporanea

cisiva nei processi di decolonizzazione. Questi furono il risultato della combinazione tra le decisioni prese a livello internazionale, durante e dopo il conflitto, e le rivendicazioni autonomistiche di movimenti già presenti all’interno delle colonie a cui la guerra aveva dato un’evidente accelerazione. Mentre la Carta atlantica, firmata da Churchill e Roose­ velt nel 1941 (cap. 8.2), aveva ripreso il vecchio principio dell’autodeter­ minazione dei popoli in vista della creazione di un sistema internaziona­ le pacifico e ordinato, nel 1945, con la Carta delle Nazioni Unite, si pre­ ferì invece tornare all’istituto del mandato, riconoscendo la presenza di territori non-self-governing da assegnare in amministrazione tempora­ nea ai governi coloniali. Tale decisione fu però in molti casi superata dal precipitare degli eventi. Da un lato, infatti, le maggiori potenze colonia­ li europee come Francia e Gran Bretagna, uscite prostrate militarmente ed economicamente dalla guerra, furono costrette ad allentare i vincoli di controllo sulle colonie; dall’altro, soprattutto fra le popolazioni dell’Asia che avevano subito l’invasione giapponese, i sentimenti di emancipazione politica e sociale crebbero al punto da rendere impossi­ bile l’effettiva applicazione del sistema mandatario proposto dall’ONU. I processi di decolonizzazione in Africa e Asia seguirono modalità e tempi diversi, in parte dovuti alle differenti condizioni economico-sociali in cui versavano i vari popoli, in parte perché gli stessi colonizzatori si rapportarono in modo diverso alle istanze indipendentiste delle ri­ spettive colonie. La Gran Bretagna, come dimostrò la conclusione della vicenda indiana, aveva già da tempo scelto un modello gradualista teso a portare i popoli colonizzati verso una sempre maggiore autonomia, fi­ no ad arrivare alla piena indipendenza. La costruzione del Common­ wealth le permise inoltre di mantenere con le ex colonie un rapporto pri­ vilegiato, soprattutto a livello economico. In Francia, invece, la questione della decolonizzazione si impose in modo repentino e drammatico all’indomani della guerra mondiale. A differenza, infatti, del modello gradualista abbracciato dalla Gran Bre­ tagna, la Francia non aveva saputo né voluto impostare una politica di progressiva integrazione delle élite locali neH’amministrazione dei terri­ tori d’oltremare, preferendo invece la pratica dell’«assimilazione», in cui le autorità francesi continuavano a mantenere saldamente il potere poli­ tico nelle colonie. Emblematica a questo proposito fu la complessa vi­ cenda indocinese. Avendo perso, durante la guerra mondiale, il control­ lo dellTndocina, la Francia non accettò che alla fine del conflitto venisse proclamata, nella penisola composta da Cocincina, Annam e Tonchino, la Repubblica democratica del Vietnam. Ne scaturì quindi, a partire dal 1946, un sanguinoso conflitto che la Francia non fu in grado di control­ lare, nonostante avesse ricevuto un forte sostegno economico dagli ame­ ricani, i quali temevano che l’indipendenza vietnamita potesse favorire l’espansionismo sovietico nell’area vista la prevalenza delle forze comu­ niste all’interno del movimento indipendentista. Dopo una serie prolun­ gata di scontri, i francesi furono definitivamente sconfitti nella battaglia di Dien Bien Phu nel maggio 1954. La conclusione della guerra in Indo­ cina non solo segnò la fine della presenza francese nella penisola, dal momento che la Francia fu costretta ad abbandonare anche il Laos e la

Nuove egemonie e potenze emergenti

C ao 'B a n g Q

CINA

VIETNAM

Hanoi

'GOLFO DEL TONCHINO

LouangJ’rabang

\Vienciane

^Tornane

THAILANDIA

Bangkok

CAMBOGIA

Nha T rang1 Kampong Cham

GOLFO DEL SLAM LA G U E R R A D ’IN D O C I N A (1945-1954) __j In d o c in a francese

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T erritori so tto controllo V ie tm in h (1 9 46-1950)

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Battaglie

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Phnom Penh

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L'indipendenza di Marocco e Tunisia

Il caso dell'Algeria

La guerra e il pericolo di un golpe militare

Il progetto di De Gaulle per le altre colonie africane

1960: l'«anno dell'Africa»

Il caso dell'ex Congo belga

Storia contemporanea

Cambogia, ma mostrò il fallimento della rigida politica assimilazionista condotta per lungo tempo dai governi francesi. Nonostante questa grave sconfitta, la Francia sembrò non aver fatto tesoro della lezione ricevuta in Vietnam quando, all’inizio degli anni Cinquanta, furono le colonie nordafricane dell’Algeria, del Marocco e della Tunisia a chiedere l’indipendenza. Tuttavia, Marocco e Tunisia arrivarono nel 1956, dopo dure lotte e repressioni, a ottenere la piena indipendenza, sotto la guida di leader filoccidentali. Molto diverso fu invece il caso dell’Algeria, che la Francia considerava una sorta di pro­ lungamento del proprio territorio e dove, nel corso degli anni, si era in­ sediata una cospicua comunità di coloni francesi. Le posizioni sempre più radicali del Fronte di liberazione nazionale (—*-), determinato a raggiungere l’indipendenza a qualsiasi costo, dovettero fare i conti con i governi francesi altrettanto decisi a mantenere il controllo sull’Alge­ ria. Lo scontro assunse fin da subito proporzioni drammatiche. Culmi­ nato con la battaglia di Algeri del 1957, che durò ben nove mesi durante i quali anche i militari francesi, fecero ampio uso della tortura, la guer­ ra divise profondamente l’opinione pubblica francese e, come vedremo, portò al tracollo definitivo delle istituzioni della Quarta Repubblica sorta nel 1946. Dinanzi al pericolo di un golpe militare da parte dei ge­ nerali di stanza in Algeria, solo il ritorno al potere, nel 1958, del gene­ rale De Gaulle, eroe della Resistenza francese e uomo chiave della ricostruzione postbellica, condusse all’avvio dei negoziati con gli algeri­ ni. Non senza tensioni, soprattutto coi generali della colonia, l’Algeria ottenne la piena indipendenza nel 1962, dopo una guerra che era costa­ ta circa mezzo milione di morti. Non volendo che quanto stava accadendo in Algeria si replicasse al­ trove, De Gaulle, fin dal 1958, mise le rimanenti colonie francesi dell’Africa dinanzi alla scelta se restare o meno all’interno della nuova Communauté Franqaise, pensata come una sorta di federazione fra i territori d’oltremare e Parigi. In questo caso le ex colonie avrebbero continuato a ricevere aiuti economici e militari dalla Francia. Sottopo­ sto a referendum in tutti i territori africani, il progetto di De Gaulle fu accettato da tutti i Paesi, con la sola eccezione della Guinea-Conakry. Il cammino verso l’indipendenza dei Paesi dell’Africa conobbe una svolta decisiva nel 1960, definito non a caso «l’anno dell’Africa». Nel 1960, infatti, ottennero l’indipendenza ben 17 Paesi. Il processo venne pilotato dalle potenze europee secondo criteri non sempre coerenti. Nei Paesi dove gli interessi dei bianchi erano prioritari, come per esem­ pio in Kenya, che divenne indipendente nel 1963, gli europei furono re­ stii a concedere l’indipendenza. In altri casi, come il Sudafrica e la Rhodesia (attuale Zimbabwe), rimasero al potere le comunità di coloni europei che instaurarono ferrei regimi di segregazione ai danni della popolazione nera, come il sistema di apartheid in Sudafrica. Il caso di decolonizzazione più drammatico di tutta l’Africa subsahariana fu, tut­ tavia, quello dell’ex Congo belga, emancipato alPimprovviso nel 1960. Le gravi condizioni economiche e l’arretratezza strutturale del Paese fecero precipitare il Congo in una sanguinosa guerra civile, aggravata dall’intervento di mercenari europei che rispondevano agli interessi

Nuove egemonie e potenze emergenti

delle compagnie di sfruttamento minerario interessate alle immense ricchezze del Paese. L’ultimo Paese europeo a rinunciare alle proprie colonie fu il Porto­ gallo che, con i suoi possedimenti dell’Angola e del Mozambico, contri­ buì a creare nell’Africa australe il cosiddetto «bastione bianco», ovvero un’area dove il primato politico e il controllo delle attività economiche rimasero saldamente nelle mani dei bianchi residenti. L’indipendenza di questi Paesi, come pure quella della Guinea Bissau e di Capo Verde, av­ venne tra il 1974 ed il 1975. Angola e Mozambico si unirono ad altri Pa­ esi africani nella scelta di un modello di economia socialista. Tuttavia, a prescindere dal modello di sviluppo prescelto, tutti i Paesi africani ebbe­ ro difficoltà ad avviarsi verso la crescita economica.

Le ex colonie portoghesi

10.9 Unione Indiana e Pakistan: la difficile indipendenza dell'India Durante la Seconda Guerra mondiale la necessità di venire incontro alle richieste indiane, nel tentativo di sostenere lo sforzo bellico, aveva eroso quasi tutti i margini di manovra dell’amministrazione britannica. Al termine del conflitto, quindi, la concessione dell’indipendenza appa­ riva quasi inevitabile e fu questa la strada scelta dal governo britannico presieduto dal leader laburista Attlee. Con YIndian Independence Act L'Indiar Independence del 1947 si stabilì la divisione del territorio indiano nei due Stati Act dell’Unione Indiana, a maggioranza indù, e del Pakistan musulmano (cap. 10.8). Il territorio dello Stato pakistano, tuttavia, non era continuo ma risultava diviso in due tronconi posti a nord-ovest e a nord-est del confine con l’Unione Indiana e all’inizio le questioni dei confini tra i La divisione in due Stati due Paesi, in corrispondenza delle regioni del Bengala e del Punjab alle e la questione opposte estremità della penisola indiana, rimasero irrisolte. dei confini La divisione in due Stati non fece tuttavia calare la tensione fra indù e musulmani e agli scontri tra le due popolazioni si aggiunse il difficile Le tensioni fra indù esodo della minoranza induista dalle terre assegnate al Pakistan e dei e musulmani musulmani dai territori dell’Unione; si trattò di un trasferimento che coinvolse, nel giro di alcuni anni, circa 17 milioni di persone. Non si era­ no ancora definiti gli impianti istituzionali dei due Stati che, nel 1948, iniziò un conflitto, destinato a generare tensioni crescenti tra i due Paesi negli anni a venire, per il controllo del Kashmir, una regione posta Il conflitto all’estremo nord-ovest della penisola indiana e confinante con l’Unione per la regione e con il Pakistan occidentale. La regione era governata da un sovrano del Kashmir indù, ma F80% della popolazione era di religione musulmana. Nel 1949 l’ONU ordinò la sospensione delle ostilità e divise il territorio del Kashmir assegnandone due terzi all’Unione e la parte settentrionale ri­ manente al Pakistan. Per il momento gli scontri cessarono, ma le tensio­ ni per il controllo del Kashmir ripresero di nuovo a metà degli anni Cin­ quanta e negli anni Sessanta. Nel 1949 l’Unione Indiana definì il suo assetto istituzionale, costi­ L'assetto istituzionale tuendosi come Repubblica federale con un forte accentramento di pote­ dell'Unione Indiana ri nelle mani del governo centrale. Al presidente della Repubblica veni-

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Il Partito del congresso e la leadership di Nehru

La politica estera neutralista e anticolonialista

I tentativi di espansione

Storia contemporanea

vano inoltre riservati alcuni poteri d’emergenza a cui avrebbe potuto ri­ correre nei casi di crisi. Dalle esperienze costituzionali occidentali furono mutuati istituti come la Corte Suprema federale, il sistema di go­ verno parlamentare e il principio dell’uguaglianza giuridica dei cittadi­ ni; fu inoltre introdotto il suffragio universale, nonostante l’alto tasso di analfabetismo presente nel Paese. Nel 1950, con la promulgazione della Costituzione, si chiuse definitivamente il periodo di transizione. Il Par­ tito del congresso si confermò il partito di maggioranza all’interno del Paese, la cui leadership era stata assunta già nel 1941 da Jawaharlal Nehru (-*-), che fu primo ministro dell’Unione Indiana dal 1947 fino al­ la sua morte, avvenuta nel 1964. Complessa fu, per Nehru, la gestione della politica interna, dove l’in­ tervento del governo doveva innanzitutto rompere con le tradizioni ar­ caiche profondamente sedimentate nel Paese prima di poter avviare un processo di modernizzazione sia sociale che economica. Pur tra le diffi­ coltà, comunque, si mise su questa strada abolendo, per esempio, il siste­ ma delle caste (->-), promovendo la parità tra i sessi e una maggiore giu­ stizia sociale. Ebbe quindi un ruolo fondamentale nel consolidare la de­ mocrazia indiana; pur disponendo di un prestigio grandissimo, che gli avrebbe consentito di instaurare una dittatura, impose scrupolosamente il rispetto delle forme parlamentari e garantì la più ampia libertà d’espressione. Dal punto di vista economico tentò di conciliare gli ideali di un socialismo gradualista con la libertà d’impresa. Senza, dunque, mettere in discussione la proprietà privata, attuò la nazionalizzazione dei servizi pubblici e dei settori economici strategici, quali quello side­ rurgico ed energetico e, a partire dal 1951, avviò una programmazione dello sviluppo articolata su piani quinquennali. Queste misure, insieme a una riforma agraria che riduceva parzialmente la proprietà terriera, dovevano servire a contrastare la drammatica povertà delle campagne e l’enorme sovraccarico demografico del Paese. Grazie agli ampi poteri concessi dalla Costituzione al primo mini­ stro in materia di politica estera, Nehru riuscì a garantire all’India un ruolo di primo piano sulla scena politica internazionale. Promosse infat­ ti una politica neutralista e anticolonialista che lo portò a opporsi, tra il 1954 e il 1955, sia alla SEATO sia al Patto di Baghdad, che rientravano nel sistema di sicurezza americano (cap. 9.6) e Nehru considerava lesivi di quella posizione di non allineamento tra i due blocchi che rivendicava per il suo Paese. Nel 1955, infatti, prese parte alla Conferenza di Bandung e fu tra i promotori del movimento dei Paesi non allineati. La sua scelta di non schierarsi a fianco di una delle due superpotenze e l’invito ai Paesi dell’Asia e dell’A frica a fare altrettanto permisero a Nehru di avvalersi di molti aiuti sia da parte degli Stati Uniti, che attribuivano all’India una grande importanza geopolitica nell’area asiatica, sia dall’URSS. Tuttavia i principi di cui l’Unione Indiana si era fatta portatrice a li­ vello internazionale non sempre Nehru li praticò nella politica di vicina­ to con i Paesi confinanti. Infatti, già a partire dal 1949, cercò di estende­ re i confini dell’India a nord-est in direzione del Bhutan e dello Sikkim e accentuò successivamente la sua influenza sul Nepal. Dopo l’occupa-

Nuove egemonie e potenze emergenti

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zione cinese del Tibet, nel 1950, Nehru prese posizione a favore del Da­ lai Lama (—►), massima autorità religiosa della corrente buddista tibe­ tana, in quanto temeva la presenza cinese al confine settentrionale dell’India. Fu proprio la questione dei confini tra il Tibet occupato dalle La questione del Tibet truppe cinesi e l’India all’origine del conflitto sino-indiano lungo la e il conflitto frontiera himalaiana che scoppiò alla fine del 1962. sino-indiano Alla sua morte, nel 1964, gli successe Lai Bahadur Shastri (—*■) che rimase però al governo solo due anni. Nel 1966 la direzione del Partito del congresso e la guida del Paese furono assunte dalla figlia di Nehru, Indirà Gandhi (—>) che governò, salvo un breve intervallo alla fine de­ gli anni Settanta, fino al 1984, quando rimase vittima di un attentato ad opera di militanti del gruppo terrorista sikh (—►), il movimento separa­ tista radicale presente nella regione del Punjab. Indirà Gandhi, pur ac­ centuando alcuni tratti autoritari e personalistici che avevano caratte­ rizzato anche la politica del padre, cercò comunque di modernizzare le strutture politiche del Paese e di promuoverne lo sviluppo industriale. Ben più lunga e complessa fu la strada percorsa dal Pakistan all’in- L'instabilità politica domani dell’indipendenza. Il Paese impiegò infatti diversi anni per arri­ del Pakistan vare a dotarsi di un impianto costituzionale. La costituzione, che faceva del Pakistan una Repubblica islamica, fu prodotta solo nel 1956, ma la messa a punto di un quadro normativo definito non garantì, tuttavia, la stabilità del Paese. Le drammatiche condizioni economiche e una classe politica corrotta e debole lasciarono spazio all’esercito che ciclicamente, a partire dal 1958, avrebbe assunto la guida del Paese. Alla difficile si­ tuazione politica si aggiungeva poi la precarietà geografica determinata dalla discontinuità del territorio pakistano. Il conflitto sempre più radi­ cale che contrapponeva i bengalesi, residenti nel Pakistan orientale, al Il conflitto governo centrale accentrato con sede nella capitale Islamabad, situata tra bengalesi nel Pakistan occidentale, causò un'escalation di tensioni nazionaliste e e governo di Islamabad indipendentiste da parte del popolo bengalese. Nel 1971 il Pakistan orientale si ribellò definitivamente e, nella guerra mossa contro il gover­ no centrale di Islamabad, ottenne l’appoggio dell’Unione Indiana di In­ dirà Gandhi. Il conflitto si concluse con la separazione dal resto del Pa­ La separazione kistan della regione orientale, che si costituì in Stato indipendente col della regione orientale nome di Bangladesh. e la nascita del Bangladesh

10.10 I Paesi non allineati fra terzomondismo e sottosviluppo Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, pur controllando attraverso le ri­ spettive sfere d’influenza quasi l’intero contesto mondiale, erano d’ac­ cordo su un punto: quello di non essere potenze coloniali. Gli Stati Uni­ ti, per la loro origine di ex colonia britannica affrancatasi dalla madre­ patria, non avevano condiviso la corsa imperialistica dei Paesi europei alla fine dell’Ottocento; lo stesso presidente americano Wilson aveva in­ dicato tra i passaggi necessari per «rendere il mondo sicuro per la demo­ crazia» il principio dell’autodeterminazione dei popoli (cap. 5.5). Lo stesso aveva fatto Lenin al momento della Rivoluzione bolscevica, con-

L'anticolonialismo di USA e URSS

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Il progetto della decolonizzazione

La Guerra Fredda e il delicato equilibrio bipolare

Il divampare delle lotte di liberazione

Le strategie geopolitiche di USA e URSS

La Conferenza afroasiatica di Bandung

Storia contemporanea

dannando duramente l’imperialismo giudicato come l’ultima e più grave degenerazione del sistema capitalistico. In forza di questo bagaglio ideologico USA e URSS, già durante la guerra mondiale, avevano respinto nettamente l’eventualità di mantene­ re in vita il sistema delle colonie. Ritenevano che i Paesi colonizzati sa­ rebbero dovuti passare sotto l’amministrazione di mandati internazio­ nali temporanei oppure ottenere subito l’indipendenza; una prospettiva che non era condivisa dalle grandi potenze coloniali europee e soprat­ tutto dalla Gran Bretagna. Come disse in modo lapidario Churchill: «giù le mani dalFImpero britannico, questa è la nostra massima». Quan­ do, tuttavia, cominciò ad allentarsi l’alleanza tra i Paesi che avevano combattuto e vinto il nazifascismo, fino a tramutarsi in aperta ostilità con l’inizio della Guerra Fredda, il quadro si fece più complesso. In gio­ co, infatti, non c’era più solo la decolonizzazione, ma la necessità di co­ struire reti di alleanze che, a livello geopolitico, non alterassero le ri­ spettive sfere di influenza e non compromettessero il delicato equilibrio bipolare che si stava delineando. La questione dell’indipendenza delle colonie passò, quindi, in secondo ordine. Fu però il rapido divampare delle lotte di liberazione presso i popoli delle colonie che rese, molto presto, la decolonizzazione un percorso ob­ bligato, indipendentemente dagli interessi delle due superpotenze. In al­ cuni casi tale processo avvenne in modo graduale e sostanzialmente pa­ cifico; in altri, come Algeria e Indocina, al prezzo di sanguinosi conflitti (cap. 10.8). Ciò che accomunava tutti questi popoli, al di là delle diverse condizioni socio-economiche e delle differenti culture, erano la forza e la determinazione con cui avevano condotto la lotta per l’indipendenza. Da un lato, quindi, l’esperienza della decolonizzazione e la ferma riven­ dicazione di futuro comune e autonomo impressero a questi popoli un dinamismo internazionale inaspettato. Dall’altro, poi, le due superpo­ tenze non poterono non modificare le proprie strategie geopolitiche di fronte al nuovo scenario apertosi con la decolonizzazione. Allargandosi, di fatto, a nuove aree del mondo lo scontro bipolare, USA e URSS fini­ rono in molti casi per intervenire, direttamente o indirettamente, nei Pa­ esi di recente indipendenza e lo fecero secondo i tradizionali schemi del­ la politica di potenza. Già all’interno dell’ONU la posizione delle ex colonie crebbe costan­ temente fino a portare, nel 1962, alla segreteria generale il birmano Sithu U Thant (—►), il cui Paese aveva ottenuto il riconoscimento dell’in­ dipendenza dalla Gran Bretagna solo nel 1947. Ma un momento di svol­ ta decisivo si era avuto già prima. Nel 1954, infatti, i cinque Stati del gruppo di Colombo, dal nome della capitale del Ceylon (attuale Sri Lan­ ka), ovvero India, Pakistan, Ceylon, Birmania e Indonesia, decisero di invitare a una conferenza afroasiatica, da tenersi l’anno successivo a Bandung, i Paesi che avevano in comune il passato di ex colonie e i po­ poli che stavano ancora lottando per l’indipendenza. L’obiettivo era quello di discutere, nel quadro del sistema geopolitico della Guerra Fredda, la propria condizione di Paesi ancora arretrati dal punto di vista economico, con una bassa alfabetizzazione e lontanissimi dal livello di sviluppo complessivo dei Paesi industrializzati. Risposero all’invito 29

Nuove egemonie e potenze emergenti

Stati di Africa e Asia, a cui si aggiungevano le rappresentanze dei movi­ menti di liberazione dell’Algeria, del Marocco e della Tunisia. Nel saluto iniziale, all’apertura della Conferenza di Bandung, il lea­ der indonesiano Ahmed Sukarno (—*-) disse che a unire tutti i convenu­ ti era la «comune avversione al colonialismo». Nonostante questo comu­ ne denominatore, tuttavia, c’era il rischio che fra i presenti si delineasse­ ro posizioni filoccidentali, come nel caso di Ceylon, Pakistan, Turchia e Iraq, e tendenze filosovietiche, per esempio da parte di Cina e Vietnam. Nel complesso, comunque, prevalsero toni di moderazione, che si tra­ dussero nell’invito del leader cinese Zhou En-lai (—►) a non permettere che fosse l’ideologia a indicare la strada poiché l’obiettivo era far risuo­ nare di fronte al mondo intero, in modo chiaro e netto, la fine del colo­ nialismo. Nella dichiarazione conclusiva della Conferenza si esprimeva un aperto sostegno a tutti i Paesi in lotta per l’indipendenza e si indivi­ duavano nel riconoscimento dell’eguaglianza di tutte le razze, nel rispet­ to di tutte le nazioni, della loro sovranità e della loro integrità territoria­ le i principi basilari su cui costruire la pace mondiale. Proprio in riferimento alla Conferenza del 1955, il demografo e an­ tropologo Alfred Sauvy (—»-) coniò l’espressione «Terzo Mondo», da cui è derivato poi il termine «terzomondismo». Sauvy applicava ai Paesi riu­ niti a Bandung la definizione data nel 1789, alla vigilia della Rivoluzione francese, dall’abate Emmanuel Sieyès (—>-) al «Terzo Stato». Nel con­ cetto di Sieyès il «Terzo Stato» era la borghesia ed egli la invitava ad as­ sumere, negli ordinamenti politici francesi, quel peso che le spettava in virtù della sua forza economica. Analogamente il Terzo Mondo diventa­ va, nelle parole di Sauvy, l’insieme di quelle nazioni che, non essendo parte né dell’Europa né dell’America, non avevano mai avuto un ruolo politico e economico di primo piano, pur avendo al loro interno risorse materiali ed umane. L’espressione Terzo Mondo, quindi, è stata usata da allora per indicare quei Paesi che, resisi indipendenti dopo la Seconda Guerra mondiale, chiedevano un riconoscimento del proprio ruolo poli­ tico ed economico in ambito internazionale. Sul piano economico, infat­ ti, molti di questi Paesi cercarono di impostare le proprie economie e strutture sociali secondo modelli autonomi, distinti tanto dal sistema ca­ pitalistico dell’economia di mercato, quanto dalla collettivizzazione di stampo comunista. Diretta conseguenza di queste premesse fu l’iniziativa che prese Tito nel 1956; anche se non era il leader di una ex colonia, bensì il presidente della Repubblica jugoslava, Tito aveva sempre cercato di seguire una strategia politica di equidistanza tra Est e Ovest. Nel luglio 1956 invitò quindi Nehru e il leader egiziano Gamal Abd al-Nasser (—>) per pro­ porre loro un ambizioso progetto di ristrutturazione complessiva dello scacchiere internazionale: quello del non allineamento, ovvero l’adozio­ ne di una chiara politica di neutralità rispetto ai blocchi della Guerra Fredda. Nel settembre del 1961 si svolse a Belgrado la prima Conferenza dei Paesi non allineati. Vi parteciparono 25 Stati, in maggioranza africa­ ni e asiatici; la presenza di Cuba sembrò aprire all’eventualità di esten­ dere il neutralismo anche l’America Latina, mentre la Jugoslavia fu l’unico Paese europeo a prendervi parte.

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La «comune avversione al colonialismo»

Il «Terzo Mondo»

La rivendicazione di un ruolo politico ed economico

Tito, Nehru e Nasser: la politica del non allineamento

La prima Conferenza dei Paesi non allineati

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Il rifiuto della Guerra Fredda

Il concetto di sottosviluppo

L'aumento della forbice tra Paesi ricchi e poveri

Storia contemporanea

La risoluzione finale della conferenza espresse un netto rifiuto della politica di Guerra Fredda, fece propria la logica della coesistenza pacifi­ ca e ribadì il diritto aH'autodeterminazione dei popoli. Col tempo il mo­ vimento dei Paesi non allineati, pur mantenendo sempre fermo l’impe­ gno per favorire l’indipendenza di tutti i popoli, si orientò soprattutto a stimolare la cooperazione economica. L’obiettivo non era solo quello di aiutare i Paesi che si trovavano in condizioni di evidente sottosviluppo, ma soprattutto di produrre un nuovo assetto mondiale che superasse le differenze tra Paesi ricchi e Paesi poveri. Sul piano politico, nonostante l’emergere di diversi orientamenti e strategie fra i Paesi membri e la rei­ terata sollecitazione del leader cubano Fidel Castro (—>-) a declinare il non allineamento in chiave di «alleanza naturale» col mondo socialista, il movimento dei non allineati riuscì sempre a mantenersi fedele all’ori­ ginaria impostazione di un neutralismo equidistante. I temi del terzomondismo e del non allineamento furono al centro di una crescente attenzione negli anni Sessanta e Settanta, così come il concetto di sottosviluppo. Quest’ultimo, che cominciò a essere inteso non più come condizione statica di povertà ma come realtà dinamica di ritardo rispetto ai Paesi più avanzati, fu modificato nell’ottimistica espressione «in via di sviluppo». Al di là, tuttavia, dei progetti e delle aspirazioni, quasi tutti i Paesi del Terzo Mondo, con la rilevante eccezio­ ne di alcuni Paesi asiatici, videro negli anni aumentare progressivamen­ te la forbice che li separava da quelli ricchi, rendendo sempre più incol­ mabile il divario prodotto dalle loro intrinseche arretratezze e dal tardo inserimento nel sistema economico mondiale.

Capitolo 11

Il 1956

11.1 II XX Congresso del PCUS: prove di disgelo 11.2 Speranze di libertà: Polonia e Ungheria 11.3 DaH'affermazione dello Stato nasseriano alla crisi di Suez 11.4 II Concilio Vaticano II come momento di svolta

11.1 II XX Congresso del PCUS: prove di disgelo Apertisi con la guerra di Corea che sembrava dover condurre il mon­ do verso un terzo conflitto mondiale, gli anni Cinquanta segnarono in­ vece un primo passo verso la distensione dei rapporti fra le due superpo­ tenze. A favorire questa inversione fu, nel marzo del 1953, la morte di Stalin, con cui veniva meno non solo l’uomo che aveva gettato le basi del La morte di Stalin regime sovietico negli anni Venti e Trenta, ma anche l’ideatore della sfe­ ra di influenza dell’URSS in Europa dopo la Seconda Guerra mondiale. Con la scomparsa di Stalin e, l’anno precedente, l’avvicendamento alla presidenza degli Stati Uniti fra Truman ed Eisenhower, il mondo bipo­ lare uscito dalla guerra perdeva i suoi artefici. Nel corso delle dure lotte di successione che seguirono alla morte di Le dure lotte Stalin, Lavrentij Berija che aveva a lungo guidato il ministero re­ per la successione sponsabile della sicurezza di Stato e della polizia politica, fu giustiziato alla fine del 1953. Georgij Malenkov (—>), che sembrava inizialmente il candidato più forte, nel corso del 1954 fu costretto a cedere il passo a Nikita Chruscev, che sin dal settembre 1953 era stato nominato segretario del partito e si presentava come colui che, dopo anni di accentramento monocratico del potere, avrebbe ridato voce al partito nella sua colle­ gialità. Chruscev volle sottolineare la cesura col passato anche in econo­ L'affermazione mia: convinto che andasse rivitalizzata l’agricoltura, applicandovi le più di Chruscev moderne tecnologie, si batté per continuare a potenziare l’industria pe­ sante, in modo però che venisse indirizzata non più solo verso il settore bellico, ma anche verso la produzione di nuovi macchinari che avrebbe­ ro dovuto svecchiare i sistemi di produzione agricola. Fu tuttavia in politica estera che Chruscev diede la miglior prova di cambiamento. Fin dal 1955 promosse un riavvicinamento con la demo­ Il riavvicinamento crazia popolare di Tito in Jugoslavia e lui stesso si recò a Belgrado per a lito incontrarlo (cap. 10.4). Nello stesso anno diede un altro chiaro segnale

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Il ritiro delle truppe sovietiche dall'Austria

Il XX Congresso del Partito comunista

La condanna di Stalin e dello stalinismo

Il riferimento a Lenin

La divulgazione del rapporto di Chruscèv

Il processo di destalinizzazione

Lo scioglimento del Cominform

Storia contemporanea

di distensione ritirando le truppe di occupazione sovietiche dall’Austria, in cambio dell’assicurazione da parte occidentale della neutralità del Pa­ ese. La delegazione sovietica partecipò poi, a luglio, alla Conferenza di Ginevra e, anche se in quella sede non si raggiunse alcun accordo sull’eventuale riunificazione della Germania, emerse chiaramente da tutti i partecipanti che la sistemazione geopolitica dell’Europa era or­ mai definitiva. In vista del XX Congresso del Partito comunista, che doveva tenersi nel febbraio del 1956, Chruscèv preparò un dettagliato rapporto in cui condannava la gestione accentrata del potere da parte di Stalin, il siste­ ma di delazione e sospetto che aveva segnato per anni i rapporti all’in­ terno del partito, i processi-farsa, gli arresti, le esecuzioni e da ultimo, ma non per importanza, il culto della personalità cresciuto intorno alla figura di Stalin e da lui stesso alimentato. Le accuse allo stalinismo rap­ presentarono una drastica virata in direzione del cambiamento, anche se le critiche alla gestione staliniana del potere non costituivano una condanna del sistema sovietico nel suo complesso, così come si era svi­ luppato nel corso degli anni, con la collettivizzazione delle campagne e la programmazione forzata della produzione industriale, con la sovrap­ posizione fra partito e Stato e tutti gli elementi politico-istituzionali che avevano fatto dell’URSS un regime totalitario. Chruscèv stesso lesse il rapporto al termine del Congresso, in una ri­ unione a porte chiuse riservata ai soli delegati che si svolse nella notte tra il 24 e il 25 febbraio. Tuttavia, prima di leggere la sua condanna a Stalin, cercò in Lenin una legittimazione dell’operazione che stava per compiere; fece riferimento, infatti, al cosiddetto testamento politico di Lenin (cap. 6.6), già reso noto a metà degli anni Venti, sottolineando co­ me il padre della Rivoluzione bolscevica ritenesse che nessuno dei qua­ dri dirigenti di allora possedeva le qualità per succedergli alla guida del partito e che tanto meno tali qualità potevano essere riconosciute nella persona di Stalin. Benché il rapporto, nelle iniziali intenzioni di Chruscèv, dovesse rimanere segreto, già a marzo il leader sovietico deci­ se di portarlo a conoscenza di tutti i cittadini e lo fece divulgare all’in­ terno del Paese. A quel punto il contenuto del rapporto giunse anche in Occidente e il 16 marzo sul «New York Times» uscì un articolo che rife­ riva di un «quadro sensazionale» del potere staliniano fatto da Chruscèv; a giugno, lo stesso quotidiano pubblicò una versione del discorso di Chruscèv suscitando un grande clamore in tutto il mondo. Il processo di destalinizzazione, avviatosi in seguito a quest’opera­ zione, aprì all’interno dell’Unione Sovietica speranze di cambiamento che in parte trovarono risposta. Già nel 1956, infatti, con una serie di amnistie furono liberati molti prigionieri politici detenuti nei gulag-, molti ex condannati vennero riabilitati; i campi di concentramento furo­ no aboliti e al loro posto creati i «campi di rieducazione attraverso il la­ voro». Nell’aprile dello stesso anno la dirigenza sovietica decise lo scio­ glimento del Cominform, allentando così le pressioni sui partiti comuni­ sti dell’Europa occidentale. Le stesse speranze di rinnovamento furono invece drasticamente bloccate, come vedremo, quando a rivendicarle furono i Paesi satelliti dell’URSS.

Il 1 9 5 6

In politica estera, il superamento della tesi staliniana della «guerra inevitabile» con l’Occidente permise a Chruscèv di aprire nuovi oriz­ zonti nello scenario della Guerra Fredda. Fu lui, infatti, a sostenere per primo, incontrando su questo fronte il favore statunitense, il prin­ cipio secondo cui sarebbe stato possibile imboccare la strada di una «coesistenza pacifica» se il mondo fosse rimasto diviso in due sfere di influenza ben precise ed entrambe le superpotenze avessero potuto di­ sporre di un potenziale militare non troppo dissimile. Il decennio apertosi all’insegna della «guerra in vista» sembrava quindi chiudersi improntato al «disgelo». In realtà nuovi momenti di crisi si sarebbero ripresentati e, mentre in Europa si poteva assistere alla definitiva sta­ bilizzazione delle sfere di influenza, nel resto del mondo la coesistenza pacifica assunse molto presto i connotati della «coesistenza competiti­ va». Di fronte, infatti, ai processi di decolonizzazione in atto nelle re­ gioni del Sud del mondo, il ferreo antagonismo tra le due superpotenze tornò a farsi sentire.

261

II principio della «coesistenza pacifica»

11.2 Speranze di libertà: Polonia e Ungheria Il processo di destalinizzazione avviato da Chruscèv al XX Con­ gresso del PCUS e l’inizio di una timida politica riformatrice in Unione Sovietica alimentarono anche all’interno dei Paesi del blocco comuni­ sta la speranza di poter allentare, se non abbattere del tutto, il ferreo controllo che li legava a Mosca. Polonia e Ungheria furono i due Paesi dove queste speranze si manifestarono con maggior evidenza, assu­ mendo la forma di veri e propri movimenti di insurrezione in cui, alle istanze di libertà e progresso, si mescolavano i mai sopiti desideri di piena indipendenza nazionale. Nel giugno 1956 furono gli operai e i contadini polacchi a dare avvio alle manifestazioni contro il regime; i primi insoddisfatti dal deludente Le manifestazioni esito del primo piano quinquennale, i secondi per protestare contro la in Polonia politica vessatoria a cui veniva sottoposto il settore agricolo a favore dell’industria pesante. L’apice della protesta si toccò con lo sciopero del 28 giugno nella città di Poznari quando, tra le fila dei manifestanti, ap­ parvero slogan come «via la borghesia rossa, basta col partito, basta con i bolscevichi». Era un chiaro segnale dell’insofferenza diffusa verso un regime oppressivo e basato sul dominio del partito e del sindacato. Lo sciopero dei lavoratori di Poznanfu represso dalla polizia e dalle truppe sovietiche di stanza nel Paese, ma le manifestazioni continuarono in modo saltuario fino al mese di ottobre quando una nuova ondata di pro­ teste si spinse a chiedere libere elezioni e il ritiro delle truppe di Mosca dal territorio nazionale. Mentre alcuni settori del partito, quelli più tradizionalisti e legati al vecchio modello stalinista, avrebbero voluto una severa repressione, i dirigenti più giovani erano convinti che per uscire dalla crisi si dovesse promuovere una «via polacca» al socialismo senza, però, mettere in di­ La leadership scussione l’alleanza con l’URSS. Alla guida del partito fu dunque nomi­ di Gomulka nato Wìadislaw Gomulka (—►), un vecchio comunista finito in carcere

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Il ritiro dell'Annata Rossa dai territori polacchi

L'insofferenza ungherese per la sottomissione a Mosca

Il programma di riforme di Nagy

La politica di chiusura di Rakosi

Storia contemporanea

durante il periodo staliniano con l’accusa di simpatizzare per la scelta autonomista di Tito, e successivamente uscito e reintegrato nel partito dopo la svolta impressa da Chruscev. La leadership di Gomulka trovò seguito sia nella dirigenza comunista, per il suo passato di uomo fedele al partito, sia tra i lavoratori polacchi e quanti, nel Paese, non rinnegava­ no il sistema socialista ma rivendicavano una maggiore autonomia da Mosca. Gli stessi leader sovietici, tra cui Chruscev che si recò a Varsavia nel pieno della rivolta, aderirono a questa soluzione e acconsentirono all’elezione di Gomulka alla segreteria del Partito comunista polacco. Questi, nell’assumere il mandato, riconobbe immediatamente la neces­ sità per la Polonia di rimanere unita all’URSS all’interno del Patto di Varsavia, ma ottenne in cambio da Mosca che fosse dato seguito a una delle richieste emerse con maggior forza dalle manifestazioni dei mesi precedenti: il definitivo abbandono dei territori polacchi da parte dell’Armata Rossa. Potendo dunque contare su una legittimazione che gli veniva sia dal partito che dal Paese, Gomulka intraprese una serie di riforme che avrebbero dato un certo respiro all’economia polacca nei primi anni Sessanta. Mentre Gomulka riuscì a imboccare, pur parzialmente e in modo contraddittorio, la strada del riformismo senza compromettere la colla­ borazione con Mosca e la presenza della Polonia all’interno del sistema sovietico, molto diversi furono invece i caratteri e l’esito dell’insurrezio­ ne in Ungheria. Gli ungheresi, infatti, non avevano mai metabolizzato completamente la forzata sottomissione al regime di Mosca e il mono­ polio esercitato nel Paese dal Partito comunista. L’insofferenza era cre­ sciuta, alla fine degli anni Quaranta, sia per la condanna espressa dal re­ gime nei confronti del cardinale Jozef Mindszenty (—►), che aveva tena­ cemente avversato la riforma agraria imposta dal partito; sia per le drastiche epurazioni condotte dal partito contro i sospetti titoisti, che arrivarono fino a condannare a morte Làszló Rajk (—►), già segretario politico nonché ministro degli Interni fino al 1948. Con l’avvento del nuovo corso impresso dalla dirigenza sovietica do­ po la morte di Stalin, questa insofferenza, più o meno latente, trovò il modo di esprimersi compiutamente a livello politico con la nomina di Imre Nagy (—»-) alla guida del governo nel luglio 1953. Questi cercò di interpretare i sentimenti diffusi nel Paese e i segnali di svolta promossi dall’URSS di Chruscev avviando un programma di riforme e promuo­ vendo un’amnistia per i detenuti politici. La ferrea opposizione del se­ gretario del Partito comunista ungherese, Màtyàs Rakosi (—>), lo co­ strinse però ad abbandonare la guida del governo. La politica di Rakosi, tesa a ignorare ogni segno di possibile apertura indicata da Mosca e to­ talmente sorda al processo di destalinizzazione promosso da Chruscev, non fece che alimentare il risentimento degli ungheresi. Nell’estate del 1956, in concomitanza con le prime manifestazioni polacche, le strade di Budapest cominciarono a riempirsi di manifestanti, inizialmente so­ prattutto studenti e uomini di cultura, ma in seguito anche operai e lavo­ ratori. In luglio, quindi, fu lo stesso Chruscev a imporre a Rakosi le di­ missioni dalla segreteria del partito, facendo nominare al suo posto Ernò Gero (—►) col compito di riportare il Paese all’ordine e alla

Il 1956

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normalità. Le notizie provenienti dalla Polonia, tuttavia, continuarono a tenere vivo il fermento e, soprattutto tra gli studenti, le manifestazioni crebbero di intensità fino a che, il 23 ottobre, la decisione di Gero di re­ Gero e la repressione primere brutalmente un’imponente manifestazione studentesca accese delle manifestazioni la scintilla della vera e propria insurrezione. Su pressione dei manifestanti, la direzione del governo fu di nuovo affidata a Nagy. Si venne così a creare un insanabile dualismo tra Gero, leader del partito, e Nagy, che non solo guidava il governo ma era diven­ tato il punto di riferimento di una popolazione in rivolta che avanzava richieste di vera democratizzazione della vita del Paese. Fu in questa contrapposizione che Nagy si trovò ad aderire alle pressioni degli insor­ La svolta radicale ti, i quali arrivarono a chiedere non solo la fine del sistema monopartiti­ di Nagy e la scelta co e il ritorno alle libere elezioni, ma anche di porre il destino dell’Un­ di uscire dal Patto gheria fuori dal controllo sovietico mediante l’uscita dal Patto di Varsa­ di Varsavia via e la formale richiesta alle Nazioni Unite di riconoscere all’Ungheria lo status di Paese neutrale. Di fronte a questa decisione e all’incalzare degli eventi in tutto il Paese, le truppe sovietiche, chiamate dallo stesso Partito comunista un­ gherese contrario alla svolta radicale di Nagy, all’inizio del novembre 1956 occuparono la capitale e repressero nel sangue la rivolta. Su pres­ L'occupazione sovietica sione sovietica fu poi costituito un nuovo governo, fedele a Mosca, sotto e la repressione la guida di Jànos Kàdàr (->-), mentre Nagy venne arrestato e condanna­ della rivolta to a morte. Fu di 25.000 morti e 160.000 ungheresi in fuga verso l’Ovest il tragi­ co bilancio del 1956 in Ungheria. I Paesi del blocco occidentale, pronti ad accogliere i rifugiati, si erano tuttavia astenuti dall’intervenire nei fatti d’Ungheria, benché quelle insurrezioni fossero avvenute nel nome della libertà e del pluralismo politico. Era un segnale inequivocabile che la divisione dell’Europa si era ormai consolidata in modo definitivo e che la coesistenza pacifica implicava il reciproco riconoscimento, da parte di entrambe le superpotenze, dell’altrui sfera di influenza col con­ seguente corollario di non operarvi alcun tipo di ingerenza. 11.3 Dall'affermazione dello Stato nasseriano alla crisi di Suez A causa della crescente corruzione, della cattiva amministrazione del regno e della sconfitta nella guerra del 1948, nel luglio 1952 un comi­ tato di Liberi Ufficiali egiziani depose il re dell’Egitto Faruk I (->-), proclamando la Repubblica, di cui diventò presidente e primo ministro il generale Muhammad Neghib (-*-). Nel 1954 lo sostituì nella carica di capo del governo il suo vice, colonnello Gamal Abd al-Nasser, che inau­ gurò un’epoca di riforme politiche ed economiche. In politica interna Nasser varò una riforma agraria con l’obiettivo di eliminare le proprietà di tipo latifondistico e al contempo aumentare la superficie coltivabile. Per realizzare ciò il governo pensò a un gigantesco progetto di ampliamento della diga di Assuan, nei pressi della prima ca­ teratta del fiume Nilo. Sul piano internazionale, invece, il regime nasse-

La proclamazione della Repubblica in Egitto

Nasser

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Il progetto della diga di Assuan

L'accordo commerciale con l'URSS

I piani di nazionalizzazione del canale di Suez

Le reazioni di Gran Bretagna, Francia e Israele

Il piano per l'attacco militare all'Egitto

Storia contemporanea

riano si orientò verso un deciso rigetto del colonialismo, appoggiando il movimento di liberazione algerino e facendosi promotore, in Africa e Medio Oriente, del movimento dei Paesi non allineati, emerso in occa­ sione della Conferenza di Bandung del 1955 (cap. 10.10). Gli Stati Uniti, ansiosi di estendere la propria influenza strategica nell’area mediorientale, si proposero di finanziare il progetto della di­ ga di Assuan con un prestito di circa 270 milioni di dollari. Ma quan­ do Nasser propose ai Paesi del Patto di Varsavia un accordo per ope­ rare uno scambio fra cotone egiziano e armi, la posizione di Washing­ ton si raffreddò notevolmente. Il rais egiziano iniziò subito le trattative per un analogo accordo con l’Unione Sovietica, arrivando alla commessa di una partita di armi per il tramite della Cecoslovac­ chia. Il successo diplomatico di Nasser e il rischio di un suo definitivo allineamento all’URSS smontarono del tutto l’interesse americano a finanziare la diga di Assuan; cosa che venne ufficializzata definitiva­ mente dopo il riconoscimento da parte egiziana della Cina comunista nel maggio 1956. Come ritorsione dinanzi al mancato finanziamento americano, Nasser annunciò l’intenzione di nazionalizzare la Compa­ gnia del canale di Suez allo scopo di aumentare i guadagni destinati alla costruzione della diga. Tale prospettiva, però, confliggeva diret­ tamente con gli interessi della Gran Bretagna, che vedeva messo in discussione il suo tradizionale primato sul Mediterraneo e soprattutto la possibilità di controllare l’im portante via commerciale sul Mar Rosso. Visto che la Compagnie universelle du canal maritime de Suez che amministrava il canale era, dal 1875, una comproprietà anglo­ francese, anche la Francia si schierò subito contro l’iniziativa di Nas­ ser, tanto più che l’esercito egiziano stava da tempo appoggiando il movimento di resistenza algerino. A questi fattori si aggiungevano anche la dipendenza delle due potenze europee dal petrolio medio­ rientale, nonché il timore di Israele di veder compromesso il traffico marittimo verso il suo nuovo porto di Eilat nel golfo di Aqaba. Su consiglio del segretario di Stato americano John Foster Dulles (—>■), preoccupato di non far cadere l’Egitto nelle braccia dell’Unione So­ vietica, fu convocata una conferenza internazionale a Londra, la qua­ le propose un nuovo sistema per la libera navigazione attraverso il ca­ nale, che Nasser tuttavia respinse con forza. Nonostante il parere contrario degli Stati Uniti, secondo cui l’uso della forza avrebbe fatto esplodere le tensioni latenti nell’area medio­ rientale, Francia e Gran Bretagna iniziarono a pianificare l’attacco mili­ tare. Alle due potenze europee si aggiunse Israele, sotto pressione per l’avvenuta firma, nell’ottobre 1956, di un patto militare fra Egitto, Gior­ dania e Siria ed esasperato dai continui attacchi dei fedayyin (—>•), guer­ riglieri palestinesi che dall’Egitto lanciavano frequenti incursioni nel territorio israeliano. Secondo il piano concordato dai tre governi, Israe­ le doveva muovere l’attacco all’Egitto il 29 ottobre e il giorno successivo Londra e Parigi avrebbero ingiunto alle due parti di ritirarsi a non meno di 16 chilometri dalle rive del canale, in caso contrario gli anglo-francesi sarebbero intervenuti militarmente. Iniziato l’attacco e respinto l’ulti­ matum, il 31 ottobre le aviazioni francese e britannica iniziarono a bom-

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bardare le basi militari in territorio egiziano e cinque giorni dopo trup­ pe anglo-francesi venivano paracadutate su Port Said in Egitto. L’offensiva di Francia, Gran Bretagna e Israele si concluse rapida­ mente con un brillante successo dal punto di vista militare; sul piano po­ litico, però, fu un disastro soprattutto per le due nazioni europee. L’at­ tacco anglo-francese mise in grave imbarazzo diplomatico, infatti, l’am­ ministrazione americana sia nei confronti di Mosca sia verso i Paesi di recente indipendenza. L’Unione Sovietica intimò subito agli USA di ri­ chiamare gli alleati, minacciando un intervento a fianco dell’Egitto. Persino l’Assemblea delle Nazioni Unite aveva stigmatizzato l’azione di Francia e Gran Bretagna e approvato una mozione statunitense di con­ danna con 64 voti a favore e solo 5 contrari. La reazione americana non si fece attendere. Il presidente Eisenhower minacciò Francia e Gran Bretagna di pesanti ritorsioni economiche per quello che considerava «un terribile errore». Di fronte alla velata minaccia di vendere tutte le riserve americane di valuta britannica, cosa che avrebbe affossato la sterlina, Gran Bretagna e Francia iniziarono pertanto le operazioni di ritiro da Suez all’inizio di dicembre, senza porre condizioni. Fu in quell’occasione che l’ONU istituì per la prima volta una Forza di emer­ genza delle Nazioni Unite (UNEF), sperimentando il moderno concetto di peacekeeping (—►). Sconfitto militarmente, Nasser divenne però una sorta di eroe agli occhi di tutte le popolazioni arabe, ma non solo: sfidando le due princi­ pali ex potenze coloniali dell’Europa, il rais aveva definitivamente mes­ so fine al loro primato internazionale, aveva dato speranza di riscatto al­ le nazioni emergenti del Sud del mondo e aveva creato una spaccatura in seno all’alleanza occidentale. L’Unione Sovietica, dal canto suo, promi­ se i finanziamenti per la costruzione della diga di Assuan, quale segno visibile dei nuovi buoni rapporti tra i due Paesi. Il successo diplomatico di Nasser scatenò in tutte le regioni mediorientali un’ondata di furore panarabo, un nazionalismo esasperato che riconosceva nel leader egi­ ziano il solo uomo in grado di realizzare il sogno dell’unità di tutti gli Stati arabi. Nel 1958 Egitto e Siria arrivarono addirittura a fondersi nel­ la Repubblica araba unita, esperimento che sarebbe tuttavia naufragato dopo soli tre anni; e sempre nel 1958 i nazionalisti arabi guidati dal ge­ nerale Abd al-Karim Qassem (— rovesciarono la monarchia irachena. A ll’interno dell’Egitto, tuttavia, Nasser si trovò a fare i conti col gruppo islamista radicale della Fratellanza musulmana (->-), nato nel 1928 ad opera di Hassan al Banna (—►), che già nel 1954 attentò alla sua vita, scatenando così la prima delle grandi persecuzioni cui i Fra­ telli musulmani erano destinati ad andare incontro in tutte le repub­ bliche mediorientali. Proprio nei campi di concentramento creati da Nasser per piegare la Fratellanza, fu elaborata da Sayyid Qutb (-V ) l’ideologia dell’islamismo radicale contemporaneo, che sarebbe giun­ ta fino a oggi. Qutb non solo condannava la barbarie insita nei model­ li tanto occidentali quanto sovietici, ma rigettava soprattutto l’involu­ zione e l’idolatria che a suo avviso prosperavano dentro lo stesso islam. Sopravvissuto a un secondo attentato, Nasser lo fece condan­ nare a morte nel 1966.

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La condanna dell'ONU e degli Stati Uniti e il ritiro anglofrancese da Suez

Successo diplomatico di Nasser

L'ondata di furore panarabo

Il gruppo islamista radicale della Fratellanza musulmana

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La «dottrina Eisenhower»

Storia contemporanea

Gli Stati Uniti, in quella che diventò celebre come la «dottrina Eisen­ hower», dichiararono di sostenere «senza riserve la piena sovranità e l’indipendenza di ciascuna nazione del Medio Oriente», rendendosi di­ sponibili all’utilizzo delle forze armate per assistere i Paesi che avessero richiesto aiuto «contro un’aperta aggressione armata da parte di qual­ siasi nazione controllata dal comuniSmo internazionale». Fu in questo ambito quindi che nel 1958, per impedire che l’ondata panarabista speri­ mentata con la nascita della Repubblica araba unita potesse coinvolgere altri Paesi arabi, Stati Uniti e Gran Bretagna inviarono le proprie trup­ pe rispettivamente in Libano e Giordania per soffocare i nascenti movi­ menti di ribellione delFestremismo arabo. Il 1956, iniziato in Europa coi venti della destalinizzazione, si chiuse dunque con la grave crisi mediorientale. Superata la fase più acuta dello scontro, quest’ultima lasciò tuttavia sul terreno la definitiva estromissio­ ne di Francia e Gran Bretagna dal rango di grandi potenze mondiali e l’ingresso sulla scena internazionale di un nuovo importante soggetto, l’Egitto nasseriano, simbolo del non allineamento e catalizzatore delle aspirazioni panarabe. 11.4 II Concilio Vaticano II come momento di svolta

La Chiesa cattolica di fronte alle nuove sfide dell'età contemporanea

Il senso di rivalsa verso la società moderna

La minaccia dell'Est comunista

Negli anni Cinquanta la Chiesa cattolica visse una stagione per molti versi contraddittoria. Da una parte, essa si presentava come una organizzazione solida, compatta, riunita intorno a papa Pio XII che fa­ ceva del confronto/scontro con le trasformazioni dell’età contempora­ nea un elemento essenziale della propria identità. Dall’altra, però, non poteva ignorare le nuove sfide che provenivano dalla crescente secola­ rizzazione delle società, dall’abbandono della pratica religiosa soprat­ tutto nelle aree più industrializzate, dall’affermazione del materiali­ smo e del socialismo. La Chiesa cattolica, infatti, non aveva ancora assimilato fino in fon­ do l’eredità della Rivoluzione francese, che aveva messo definitivamen­ te in crisi quell’idea dell’alleanza inscindibile tra trono e altare che ave­ va retto per secoli la storia europea (cap. 1.1). Sebbene all’indomani della Seconda Guerra mondiale la Chiesa avesse ormai superato le po­ sizioni di rigida intransigenza verso le teorie del moderno liberalismo, espresse a suo tempo da Pio IX nel Sillabo (—►), la sconfitta del nazifa­ scismo alimentò nel mondo cattolico un forte senso di rivalsa verso la società moderna. In sostanza, la Chiesa si faceva forte della denuncia della crisi del mondo contemporaneo che, proprio perché aveva abban­ donato quella «saggia» alleanza tra trono e altare si era trovato, nell’ar­ co di nemmeno quarant’anni, a dover affrontare due guerre di dimen­ sioni inedite e l’avvento dei regimi totalitari. Inoltre, dinanzi alla divi­ sione del mondo prodotta dalla Guerra Fredda, il cattolicesimo si trovava a dover fare i conti con la minaccia costante proveniente dall’Est comunista. Tutto, insomma, concorreva a far sì che la Chiesa e il mondo cattoli­ co si rapportassero alla realtà circostante come a un nemico da combat-

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tere e sconfiggere. Già all’inizio del secolo, d’altronde, papa Pio X aveva condannato i fermenti di rinnovamento all’interno del cattolicesimo, bollati col termine di «modernismo» (—>-) e negli anni Quaranta e Cin­ quanta nuove censure avevano colpito tutti quei teologi che stavano cer­ cando faticosamente di innovare il modo in cui la Chiesa doveva porsi di fronte alle sfide dell’età contemporanea. Secondo i tutori della posizio­ ne tradizionale, la Chiesa era una «società perfetta» e come tale non aveva bisogno di tendere la mano ad alcuno; era semmai il mondo ester­ no a dover prendere atto dei propri errori e adeguarsi agli insegnamenti ecclesiastici. Se, dunque, apparentemente la Chiesa cattolica presentava un volto trionfante, forte, orgoglioso di sé, d’altra parte non si potevano ignorare le sfide dei nuovi tempi, né eliminare le perplessità di coloro che vedevano proprio in questa ostentazione di forza della Chiesa un at­ teggiamento che ne tradiva il compito più autentico, quello di annuncia­ re il Vangelo e di declinare tale annuncio secondo i mutamenti in atto. L’elezione al soglio pontificio, nel 1958, del cardinale Angelo Giu­ seppe Roncalli che assunse il nome di Giovanni XXIII (—»-) mise a nu­ do molte di queste contraddizioni e rappresentò una svolta decisiva nel­ la storia della Chiesa contemporanea. Considerato un tradizionalista dal punto di vista dottrinario, il Cardinal Roncalli venne eletto in tarda età, a 77 anni, facendo presumere un papato di transizione che, dopo il lungo pontificato di Pio XII, preparasse la Chiesa ai necessari, lenti cambiamenti. Tuttavia il nuovo vescovo di Roma iniziò un intenso dialo­ go ecumenico, anche con le realtà esterne e persino ostili alla Chiesa, fa­ vorito in ciò dal suo indubbio carisma personale e dal suo stile fatto di mitezza, semplicità e gesti inaspettati; tutti elementi che contrastavano con l’immagine del suo predecessore, il quale era stato un fine diploma­ tico, sempre attento alla riaffermazione dei dogmi tradizionali, ma più distante dal dialogo e dal contatto coi fedeli. I due documenti principali di Giovanni XXIII furono le encicliche Mater et Magistra e Pacem in Terris. Nella prima, pubblicata nel 1961, il papa si richiamava alla Rerum Novarum di Leone XIII (cap. 1.5); rilan­ ciava infatti il pensiero sociale cattolico, con la condanna dell’egoismo mostrato dai popoli ricchi nello sfruttamento delle colonie e con l’invito a promuovere misure di riformismo economico e politico. Pur non es­ sendovi spazio per una riabilitazione del comuniSmo, scomunicato da Pio XII, il Pontefice sostenne che lo sviluppo economico doveva essere orientato a un principio di equità. Nell’enciclica vennero affrontati an­ che i nuovi problemi della decolonizzazione e del sottosviluppo, verso cui il papa sollecitava la creazione di uno spirito solidaristico internazio­ nale. Nella seconda enciclica, pubblicata nell’aprile 1963, Giovanni X XIII invitava i potenti della terra al dialogo e alla collaborazione reci­ proca, invocava la fattiva apertura del sistema internazionale alle nazio­ ni di più recente indipendenza e apriva una porta al confronto con le al­ tre religioni e con i non credenti. Questo documento e i suoi ripetuti in­ terventi per favorire la distensione nel conflitto bipolare fecero di papa Roncalli, assieme ai presidenti Kennedy e Chruscev, un’icona della ri­ cerca del dialogo e della pace in un’epoca che stava faticosamente tro­ vando la strada della coesistenza pacifica tra le due superpotenze.

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La condanna del «modernismo»

Papa Giovanni XXIII

L'enciclica Mater et Magistra e il rilancio del pensiero sociale cattolico

L'enciclica Pacemin Terris

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Il Concilio Vaticano II

Il Concilio sotto il nuovo pontefice Paolo VI

Storia contemporanea

Ancora più rilevante delle encicliche fu la decisione del papa, pro­ prio pochi mesi dopo la sua elezione, di convocare un concilio, ossia una riunione di tutti i vescovi del mondo. La scelta fu sorprendente, soprat­ tutto perché in molti non vedevano la necessità di riunire i vescovi dal momento che la Chiesa non stava affrontando, almeno in apparenza, al­ cuna crisi: in passato, infatti, i concili erano stati celebrati per discutere gravi questioni legate alla dottrina cristiana o per sanare i contrasti in ambito ecclesiale. In un momento storico come quello, poi, con la divi­ sione del mondo operata dalla Guerra Fredda, un concilio sembrava an­ dare contro questa logica di contrapposizione e scontro. Quando, nel 1962, il Concilio Vaticano II ebbe finalmente inizio si definirono meglio i punti programmatici di Giovanni XXIII; il Papa chiarì subito che non si dovevano infliggere nuove condanne, nemmeno del comuniSmo, peraltro già pesantemente censurato dai papi preceden­ ti, ma ci si sarebbe dovuti preoccupare di procedere aH’«aggiornamento» della missione della Chiesa nel mondo. Si doveva quindi trovare un modo nuovo con cui rapportare la Chiesa alla società contemporanea: positivo, aperto, accogliente. Il Papa volle inoltre affrontare il delicato problema delle relazioni tra il cristianesimo e le altre religioni e quello del diritto alla libertà religiosa. Sul versante interno i vescovi cattolici avrebbero dovuto poi dibattere una gamma di questioni davvero ampia: la riforma degli ordini religiosi, la definizione del ruolo dei vescovi, dei preti e dei laici all’interno della Chiesa, i rapporti con la Chiesa ortodos­ sa e con le Chiese cristiane riformate, la revisione della liturgia cattoli­ ca, ovvero delle modalità con cui venivano celebrati i riti religiosi. Dopo la morte di Giovanni XXIII, nel giugno 1963, fu il nuovo papa Paolo VI (—>-) ad assumere la guida del Concilio. Paolo VI si trovò im­ pegnato soprattutto nella faticosa mediazione tra le varie correnti che componevano il Concilio; i temi all’ordine del giorno richiedevano in­ fatti di innovare profondamente l’atteggiamento mantenuto dalla Chie­ sa sino a quel momento, cosa che non tutti i vescovi erano pronti o di­ sposti a fare. Le novità più importanti si videro sul versante del dialogo interreligioso e su quello dei rapporti con le trasformazioni del mondo moderno. I vescovi cattolici compresero infatti l’importanza di iniziare il confronto con le religioni non cristiane, in particolare l’ebraismo e l’islam alle quali il cristianesimo era unito dalla comune discendenza dal patriarca Abramo. Altrettanto rilevanti furono le dichiarazioni di apertura verso la società contemporanea, non più oggetto di condanna bensì qualificata come teatro della storia del genere umano e luogo dove i cristiani avrebbero dovuto scorgere i «segni dei tempi». Il Concilio Vaticano II stabilì poi di accantonare l’uso del latino nella liturgia a favore delle lingue nazionali, più comprensibili alla maggio­ ranza dei fedeli, e affermò l’importanza del ruolo e del coinvolgimento dei laici nella vita di una Chiesa che si voleva presentare nella nuova ve­ ste di «popolo di Dio». Fu ribadito l’impegno di tutti i cattolici ad ado­ perarsi per la soluzione dei problemi sociali e nella costruzione della pa­ ce, mentre la religione perse parte del suo aspetto giuridico-dottrinario per essere proposta soprattutto come esperienza di vita. Venne inoltre riformata la struttura interna della Chiesa, in particolare con l’istituzio-

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ne delle Conferenze Episcopali nazionali, che meglio valorizzavano la collegialità dei vescovi a discapito della centralità del Collegio cardina­ lizio e della Curia romana. Quest’apertura alle istanze di un mondo che cambiava portò una parte dei cattolici a interpretare il proprio ruolo anche oltre quelle che erano le originarie intenzioni dei padri conciliari. Nacquero così le Co­ munità cristiane di base (—►) che si prefiggevano di unire alla riflessio­ ne del Vangelo un nuovo modo di essere «comunità» eliminando le dif­ ferenze tra sacerdoti e laici, e tra uomini e donne. Diffusesi soprattutto in Francia e Italia, si connotarono per un impegno politico sempre più netto; alcuni di questi gruppi di «cattolici del dissenso» confluirono, nel giro di alcuni anni, nei partiti di sinistra oppure andarono a ingrossare i ranghi del movimento studentesco del 1968. Si consolidò, soprattutto in Francia, il fenomeno dei preti-operai, caratterizzato dall’azione di sa­ cerdoti che vivevano il loro ruolo pastorale a stretto contatto coi lavora­ tori condividendo le condizioni di miseria ed emarginazione proprie delle periferie industriali. Il nuovo ruolo dei laici nella Chiesa mutò anche il rapporto fra le po­ polazioni indigene dei Paesi in via di sviluppo e i missionari. Con un percorso analogo a quello europeo, nacquero in America Latina le Co­ munità ecclesiali di base, guidate per lo più da esponenti del basso clero e finalizzate a diffondere soprattutto tra i lavoratori e le fasce più indi­ genti della società la coscienza dei propri diritti e la spinta verso l’orga­ nizzazione. Guardate con estrema diffidenza dalla Santa Sede, le Co­ munità ecclesiali furono invece appoggiate dalla Conferenza episcopale latinoamericana di Medellln del 1968, dove venne teorizzato un nuovo approccio alle lotte dei diseredati del subcontinente americano noto co­ me Teologia della Liberazione (—*-). Affermando che non si sarebbe ot­ tenuta la salvezza cristiana senza la liberazione economica, politica e so­ ciale, i teologi della liberazione sollecitavano le masse all’emancipazio­ ne e, in taluni casi, anche alla lotta contro i regimi dittatoriali. La Chiesa di Roma condannò gli accenti più radicali della Teologia della Libera­ zione, sia perché nelle sue forme più estreme essa tendeva a trasformare il cattolicesimo da religione a ideologia politica del tutto secolarizzata, sia perché metteva in discussione le tradizionali strutture gerarchiche della Chiesa stessa.

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Le Comunità cristiane di base

Il fenomeno dei preti-operai

Le Comunità ecclesiali di base in America Latina

La Teologia della Liberazione

12.1 La Francia dalla Quarta alla Quinta Repubblica: l'affermazione del gollismo 12.2 L'Italia dal referendum istituzionale al centro-sinistra 12.3 La Gran Bretagna: dai laburisti ai conservatori e ritorno 12.4 L'America Latina: dai populismi ai regimi militari 12.5 Gli Stati Uniti e la crisi del consenso liberale: da Kennedy a Johnson 12.6 Alle origini dell'Unione europea

La figura del generale De Gaulle

L'inclusione della Francia tra le potenze vincitrici

Le elezioni per l'Assemblea Costituente

Le dimissioni di De Gaulle

Capitolo 12

Lo scontro Est-Ovest e la sua ricaduta nelle politiche nazionali

12.1 La Francia dalla Quarta alla Quinta Repubblica: l'affermazione del gollismo Alla fine della Seconda Guerra mondiale il generale Charles De Gaulle era l’eroe nazionale francese, il simbolo della Resistenza e gode­ va altresì di un grande prestigio internazionale. Il suo contributo nella lotta al nazifascismo e il riconoscimento, da parte degli alleati, del go­ verno della Francia Libera gli consentirono, già nell’agosto del 1944 do­ po la liberazione di Parigi, di dichiarare la «non esistenza» del regime di Vichy, in quanto pura emanazione della Germania nazista, e di porsi co­ me il legittimo rappresentante della continuità repubblicana della Fran­ cia. L’inclusione della Francia tra le potenze vincitrici della guerra, seb­ bene con uno statuto particolare dal momento che De Gaulle non fu chiamato a partecipare alle conferenze interalleate del 1945, si tradusse nella conservazione delle sue colonie, nell’assegnazione di una zona d’occupazione in Germania e nell’attribuzione di un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’ONU. Nominato capo del governo provvisorio, il generale indisse un refe­ rendum, nell’ottobre 1945, sulla possibilità di dotare il Paese di una nuova costituzione e la proposta fu accolta dalla stragrande maggio­ ranza dei francesi. Contestualmente si tennero le elezioni per l’Assem­ blea Costituente che videro trionfare il Partito comunista (26%), la SFIO (24%) e il Mouvement républicain populaire, MRP (24%), un nuovo partito di ispirazione cattolica nato clandestinamente nel 1944. Spiazzato dal successo delle sinistre e soprattutto dall’impossibilità di trovare una piattaforma programmatica comune tra i partiti vincitori delle elezioni, De Gaulle si dimise nel gennaio 1946, confidando che il Paese avrebbe di nuovo invocato il suo aiuto per la ricostruzione e gli avrebbe permesso di creare un sistema basato su un esecutivo forte e non, come quello che si stava profilando, su un «regime dei partiti».

Lo scontro Est-Ovest e la sua ricaduta nelle politiche nazionali

Ma non fu così. L’Assemblea Costituente varò un testo improntato su un principio di parlamentarismo assoluto e su un sistema parlamenta­ re monocamerale, così come volevano le sinistre, che fu però respinto in sede di referendum. Nel giugno 1946 venne quindi eletta una secon­ da Assemblea Costituente che redasse un nuovo testo, approvato dall’elettorato, sebbene di stretta misura, il 13 ottobre 1946. Nasceva così la Q uarta Repubblica. Fondata su un Parlamento bicamerale che deteneva il monopolio dell’iniziativa legislativa, con un presidente eletto ogni sette anni dalle Camere riunite e dotato solo di poteri di rappresentanza e con un governo che doveva avere la fiducia della maggioranza del Parlamento, la nuova Repubblica francese avrebbe ripresentato le stesse caratteristiche di instabilità governativa che ave­ vano accompagnato la Terza Repubblica. Già nel 1947, infatti, con l’approvazione del Piano Marshall e i pri­ mi segnali di Guerra Fredda, il patto tripartito di collaborazione tra PCF, SFIO ed MRP si sciolse e, proprio come in Italia negli stessi me­ si, la solidarietà nazionale fondata sul comune sentimento antifascista venne meno. Iniziò così una lunga fase di instabilità politica dove i maggiori partiti, divisi sul piano ideologico, non seppero produrre ag­ gregazioni stabili e governi duraturi. Nel 1947, poi, De Gaulle fondava a Strasburgo il Rassemblement du peuple frangais (RPF), partito che proponeva una riforma costituzionale dello Stato e sperava di sottrar­ re all’M RP i voti dell’elettorato moderato e conservatore. Di fronte al­ la frammentazione del quadro politico, non ebbe grande sbocco nem­ meno la proposta del segretario del Partito socialista Guy Mollet ( ^ - ) di creare un’alleanza tra socialismo e cattolicesimo progressista basata sulla formula della «terza forza», ovvero un’alternativa sia al comuni­ Smo sia al capitalismo. Nonostante la forte conflittualità tra partiti, importanti risultati si ebbero nel settore della ricostruzione economica, soprattutto grazie al piano riformatore varato da Jean Monnet (—►) all’indomani della Libe­ razione. Attraverso il Commissariat général du pian (—*-) fu attuato un ampio programma di nazionalizzazioni e innovazioni tecnologiche che ridiedero slancio all’economia francese anche se, unite alla nuova legi­ slazione sociale, costituirono un grave peso per il bilancio statale. Fu lo stesso Monnet poi, insieme al ministro degli Esteri Robert Schuman (—>) a proporre, come vedremo, il superamento delle rivalità storiche tra Francia e Germania, gettando le basi del processo di unificazione economica dell’Europa occidentale. Il rilancio dell’economia e l’avvio della costruzione dell’Europa unita non bastarono, tuttavia, a dare cre­ dibilità alla Quarta Repubblica, tanto più che nella gestione delle colo­ nie i francesi subirono in quegli anni una serie di gravi insuccessi. Alla sconfitta in Indocina nel 1954 si accompagnò lo scoppio dell’in­ surrezione nazionalista in Algeria che, nel corso della seconda metà de­ gli anni Cinquanta, assunse accenti sempre più radicali. La dura guerri­ glia condotta dal Fronte di liberazione nazionale algerino, le resistenze del milione circa di residenti francesi, i cosiddetti pied-noirs che non vo­ levano abbandonare il territorio africano, e le drastiche misure di con­ troterrorismo attuate dall’esercito francese soprattutto dopo la battaglia

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Seconda Assemblea Costituente e nascita della Quarta Repubblica

Lunga fase di instabilità politica

Frammentazione del quadro politico

La ricostruzione economica

Il superamento della rivalità storica con la Germania

Gravi insuccessi nella gestione delle colonie

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La guerra in Algeria

Il ritorno di De Gaulie e il governo d'emergenza

La riforma della Costituzione e la nascita della Quinta Repubblica

L'indipendenza dell'Algeria

Il veto all'ingresso della Gran Bretagna nella CEE

Il progetto di una grande Europa fondata sull'asse franco-tedesco

Storia contemporanea

di Algeri del 1957 resero la situazione insostenibile (cap. 10.8); tanto più che le violenze della guerra stavano suscitando sdegno in tutto il mondo, non meno che presso l’opinione pubblica francese. Quando ad Algeri si installò, nel maggio 1958, una giunta militare di stampo secessionista di cui si temevano anche le possibili tentazioni golpiste, la crisi sempre più profonda delle istituzioni e della classe politica della Quarta Repubblica favorì il ritorno al potere del generale De Gaulie. Questi fu infatti chia­ mato dal presidente della Repubblica a formare un governo d’emergen­ za, a cui l’Assemblea nazionale votò i pieni poteri per riformare la Costi­ tuzione. Dopo aver cercato di sedare momentaneamente le tensioni in Algeria, recandovisi personalmente, De Gaulie si mise al lavoro con al­ cuni giuristi per varare un nuovo testo costituzionale. La Costituzione, approvata da un referendum il 28 settembre 1958 col 79,25% dei voti, inaugurava ufficialmente la Quinta Repubblica. Dal punto di vista isti­ tuzionale, la centralità del presidente della Repubblica era garantita dal suo potere di indire referendum, sciogliere il Parlamento e nominare i ministri, dietro parere del primo ministro. Il sistema, infatti, era di tipo semi-presidenziale e il governo dipendeva dal presidente della Repub­ blica. Una riforma costituzionale del 1962 stabilì poi che il presidente fosse eletto a suffragio universale diretto. Terminata l’esperienza del RPF e riunite le forze golliste nell’Union pour la nouvelle République (UNR), De Gaulie fu eletto presidente della Repubblica nel dicembre 1958 da un collegio elettorale composto dai parlamentari e dai rappresentanti degli organi locali. Nei quattro anni successivi si dedicò al consolidamento del proprio potere e a ri­ solvere le questioni in sospeso, in primo luogo quella algerina. Nel marzo 1962, nonostante le resistenze dei generali di stanza in Algeria, sottoscrisse gli accordi di Evian con il Fronte di liberazione nazionale grazie ai quali l’Algeria divenne indipendente. Il referendum sulla ri­ forma costituzionale e la nomina a primo ministro di un suo stretto collaboratore, Georges Pompidou (—»-), completarono il quadro di un sistema imperniato sulla figura del presidente della Repubblica e, di fatto, su De Gaulie. In politica estera i sogni di grandeur del generale si indirizzarono, da un lato, a garantire alla Francia un potenziale nucleare autonomo, cosa che fu raggiunta nel 1960 con la costruzione della prima bomba atomica francese, e dall’altro a fare del suo Paese il perno di una gran­ de Europa il più possibile sganciata dalla tutela americana. Fu per que­ sto che nel 1963 De Gaulie pose il veto all’ingresso della Gran Breta­ gna nella CEE, in quanto legata a una «relazione speciale» con gli Stati Uniti e potenziale minaccia al tentativo di predominio francese sul continente. Il presidente, intenzionato a lanciare un nuovo asse franco­ tedesco, cercò piuttosto l’appoggio del cancelliere tedesco Adenauer, il quale inizialmente si mostrò disponibile verso i progetti gollisti, con­ vinto che il rafforzamento dell’integrazione europea potesse costituire un vantaggio, sia politico che economico, anche per la Germania. Ma quando De Gaulie, nel 1966, decise di ritirare il contingente francese dal comando militare integrato della NATO per sottolineare la propria intenzione di fare della Francia il perno di un sistema alternativo a

Lo scontro Est-Ovest e la sua ricaduta nelle politiche nazionali

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quello dei blocchi tradizionali, la Germania Ovest non potè seguirlo su questa strada. Anche se nel 1967 De Gaulle reiterò il voto contrario all’ingresso di Londra nella CEE, la sua aspirazione a una grande Eu­ ropa fondata sull’asse franco-tedesco e libera dall’egemonia statuniten­ se rimase di fatto irrealizzata. Questo non gli impedì, tuttavia, di pren­ dere le distanze dagli Stati Uniti in diverse occasioni; nel 1964 la Fran­ La presa di distanza cia riconobbe la Cina comunista; nel 1966, oltre a ritirare le truppe dagli USA francesi dalla NATO, De Gaulle si recò in visita a Mosca e condannò l’intervento americano in Vietnam. Revocò poi la concessione d’uso di 30 basi militari francesi agli Stati Uniti e nel 1967 condannò, come ve­ dremo, l’attacco israeliano nella guerra dei Sei Giorni, schierandosi all’ONU a fianco dell’URSS. Sul piano interno, nonostante il forte impulso dato all’economia e la ritrovata stabilità politica, a metà degli anni Sessanta si cominciarono a vedere i primi segnali di indebolimento del potere del presidente. In un contesto di grande fermento intellettuale e di ripresa dei partiti di sini­ stra, le elezioni presidenziali del dicembre 1965 costrinsero De Gaulle La ripresa dei partiti ad andare al ballottaggio contro il socialista Francois Mitterrand (—►), di sinistra candidato unico delle sinistre. Alla fine il generale fu riconfermato, ma gli oltre 10 milioni di voti ottenuti dal suo avversario al ballottaggio con­ fermavano che il quadro politico stava marciando verso una sempre più netta polarizzazione. De Gaulle ebbe comunque un’ultima occasione di dimostrare fer­ mezza e capacità di affrontare situazioni complesse: fu in occasione del cosiddetto «maggio francese» (—>■), l’ondata di proteste studentesche e Il «maggio francese» operaie che paralizzarono la Francia nella primavera del 1968. Scoppia­ del 1968 te nelle università parigine per contestare un progetto governativo di ri­ strutturare il sistema universitario, le manifestazioni dei giovani france­ si furono il detonatore di un’ampia e a tratti violenta protesta che coin­ volse anche i sindacati e la classe operaia. La Francia rimase praticamente paralizzata dagli scioperi, col rischio che la situazione pre­ cipitasse in una vera e propria rivolta sociale. De Gaulle, dopo aver affi­ dato al primo ministro Pompidou le trattative coi sindacati, che si con­ clusero positivamente con gli accordi di Grenelle (->-), sciolse le Came­ re e indisse nuove elezioni, facendo appello ai francesi affinché si esprimessero a favore dell’ordine e della stabilità. E fu così, perché il partito gollista ottenne uno straordinario 43,6% di voti, mentre le sini­ stre, specie le nuove formazioni più estremiste, persero consensi. L’anziano presidente era riuscito a tener testa al movimento studen­ tesco, che difatti scemò quasi subito; ma si trattò del suo canto del cigno. Nell’aprile del 1969, indetto un referendum per approvare un piano di ri­ forma del sistema regionale preparato dal suo governo, De Gaulle fu sconfitto; il progetto venne bocciato dal 52,4% dei francesi. La sera stes­ sa il generale annunciò le dimissioni e si ritirò definitivamente dalla vita politica. Pompidou, diventato presidente della Repubblica, nel comuni­ Il ritiro definitivo care al Paese la morte di De Gaulle, il 9 novembre 1970, disse che da eia morte di De Gaulle quel momento la Francia era «vedova».

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Storia contemporanea

12.2 L'Italia dal referendum istituzionale al centro-sinistra

Il governo di transizione di Parri

Il nuovo esecutivo di De Gasperi

L'amnistia

Il suffragio femminile

L'abdicazione di Vittorio Emanuele III

Il referendum istituzionale e la vittoria della repubblica

Le elezioni per l'Assemblea Costituente

Nel giugno del 1945 a guidare il governo che avrebbe dovuto avviare la ricostruzione di un Paese uscito quasi completamente distrutto dalla guerra e preparare la convocazione dell’Assemblea Costituente fu chia­ mato Ferruccio Parri, uno dei leader del Partito d’azione e vice-coman­ dante del Corpo volontari della libertà per l’Alta Italia durante l’occu­ pazione tedesca. Benché il suo fosse concepito come un governo di tran­ sizione, Parri volle subito dare forti segnali di rottura col passato fascista. Pose quindi l’accento, non senza contrasti all’interno dell’ampia coalizione governativa, su due temi particolarmente spinosi: l’epurazio­ ne diretta dei quadri della pubblica amministrazione e di tutti i dirigenti pubblici e privati compromessi con la dittatura e una forte tassazione sulle grandi imprese e sui profitti di guerra. Entrambi questi provvedi­ menti incontrarono però l’opposizione delle forze moderate che, nel di­ cembre 1945, costrinsero Parri alle dimissioni. Il nuovo esecutivo, anco­ ra composto dai sei partiti della coalizione antifascista, ovvero PCI, PSIUP, DC, PLI, Democrazia del Lavoro e Partito d’azione, venne affi­ dato al leader della Democrazia Cristiana Alcide De Gasperi. Il nuovo governo accantonò le temute riforme economico-finanziarie, mentre l’epurazione venne fortemente ridimensionata in virtù di un provvedimento di amnistia varato nel giugno 1946 dal ministro della Giustizia Paimiro Togliatti, leader del Partito comunista. Nel frattempo De Gasperi fece approvare un decreto luogotenenziale che, da un lato, fissava i compiti dellAssemblea Costituente, limitandoli alla redazione del testo costituzionale, all’approvazione dei trattati di pace e alla defi­ nizione della legge elettorale, e dall’altro stabiliva di trasferire la scelta istituzionale dall’Assemblea all’elettorato, mediante un referendum che si sarebbe svolto nello stesso giorno delle elezioni per l’Assemblea Co­ stituente. Con il successivo decreto che convocava i comizi elettorali per il 2 giugno 1946, si estendeva anche alle donne il suffragio passivo, ovve­ ro il diritto di essere elette, mentre un precedente decreto del febbraio 1945 aveva già concesso loro il diritto di voto. Intanto, il 9 maggio, il re Vittorio Emanuele III abdicò in favore del figlio Umberto, che dal 1944 ricopriva la carica di luogotenente del Re­ gno (cap. 8.5); si trattava di un estremo tentativo di salvaguardare l’isti­ tuto monarchico lasciando la Corona nelle mani di un Savoia che non si era compromesso direttamente col regime fascista. L’operazione, criti­ cata da tutte le forze politiche, non servì comunque a riscattare il presti­ gio della monarchia sabauda. Nel referendum del 2 giugno 1946, sul cui risultato aleggiò per un certo periodo l’accusa di brogli, la repubblica ot­ tenne infatti circa 2 milioni di voti in più rispetto alla monarchia e Um­ berto II dovette lasciare lTtalia per l’esilio. Mentre il risultato del refe­ rendum evidenziò la presenza di una netta spaccatura tra un’Italia cen­ tro-settentrionale decisamente repubblicana e un sud filomonarchico, le elezioni per l’Assemblea Costituente videro l’affermazione di tre grandi partiti di massa. La Democrazia Cristiana ottenne infatti il 35,2% delle preferenze, risultando di gran lunga il partito più forte, il Partito sociali­ sta di unità proletaria ebbe il 20,7% dei voti e il Partito comunista il

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18,9%. Nell’insieme delle altre forze politiche, che avevano raccolto L'affermazione dei tre complessivamente circa il 20% dei suffragi, spiccava il successo del grandi partiti di massa: Fronte dell’uomo qualunque, un partito fondato da Guglielmo Giannini DC, PSIUP e PCI (—►) alla fine del 1945 che, facendo leva sulle paure della piccola e me­ dia borghesia soprattutto meridionale per l’avanzata delle sinistre, ot­ tenne il 5,3% dei voti. Al contrario il Partito d’azione, l’espressione più originale dell’antifascismo italiano, ebbe solo l’l,5% delle preferenze. I lavori dell’Assemblea Costituente durarono circa un anno e mezzo e la nuova Costituzione repubblicana entrò in vigore il 1° gennaio 1948. La nuova Costituzione Punto d’incontro tra le diverse culture politiche della tradizione italia­ repubblicana na, quella cattolica, quella liberale e quella marxista, l’Assemblea Costi­ tuente riuscì a raccogliere, attraverso un costante lavoro di mediazione che sfociò in un vero e proprio «compromesso costituzionale», le princi­ pali istanze culturali e ideologiche dei maggiori partiti: dal personali­ smo della tradizione cristiana al garantismo della cultura liberale, con un forte accento sui principi di eguaglianza e solidarietà propri del pen­ siero socialista. Dal punto di vista istituzionale, la Costituente elaborò un sistema di tipo pienamente parlamentare, con un governo responsa­ Sistema pienamente bile di fronte alle due Camere, titolari del potere legislativo e della fa­ parlamentare coltà di eleggere ogni sette anni, unitamente ai rappresentanti delle re­ gioni, il presidente della Repubblica. Camera dei deputati e Senato, do­ tati di identiche funzioni legislative, si differenziavano solo per i diversi requisiti dell’elettorato attivo e passivo e per le modalità di elezione. La Costituzione prevedeva inoltre un Consiglio superiore della magistratu­ ra, che avrebbe dovuto garantire la piena autonomia e indipendenza del corpo giudiziario, una Corte Costituzionale, per verificare la conformi­ tà delle leggi alle disposizioni costituzionali, un forte decentramento amministrativo mediante l’istituzione delle regioni e l’istituzione del re­ ferendum abrogativo (—►). Questi ultimi provvedimenti, tuttavia, non furono attuati subito, anche perché la Costituente non disponeva dei po­ teri legislativi ordinari, rimasti affidati provvisoriamente al governo, e quindi non fu in grado di dare immediata applicazione a tutte le norme del dettato costituzionale. Mentre in seno all’Assemblea i diversi partiti riuscirono a lavorare in modo abbastanza concorde, soprattutto per produrre un sistema di ga­ ranzie istituzionali che mettesse il Paese al riparo da qualsiasi rigurgito autoritario, molto maggiori furono le difficoltà politiche che incontrò, nel corso del 1946, il nuovo governo De Gasperi. Questi infatti, dimes­ Le difficoltà politiche sosi nel luglio del 1946, ottenne nuovamente l’incarico da parte del capo del governo De Gasperi provvisorio dello Stato Enrico De Nicola e costituì un nuovo esecutivo formato da DC, PSIUP e PCI, i tre maggiori partiti affermatisi nelle ele­ zioni del 2 giugno. Se comunisti e socialisti si muovevano in piena sinto­ nia, sia cercando di spingere il governo sulla strada di un ampio pro­ gramma riformatore, sia appoggiando le rivendicazioni economiche delle classi lavoratrici, la cui mobilitazione era andata crescendo dalla fine della guerra in poi, la DC, unica rappresentante delle forze modera­ te, si proponeva come garante dell’ordine sociale e della stabilità politi­ ca. Schiacciata tra la richiesta di riforme che le veniva degli alleati di go­ verno e i timori dell’elettorato moderato verso la coalizione tripartita

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Il movimento dell'Uomo Qualunque

Il Movimento sociale italiano

Il terzo esecutivo De Gasperi sostenuto da DC, PCI e PSI

La Guerra Fredda e la crisi dell'alleanza governativa

Le elezioni in Sicilia

Storia contemporanea

con comunisti e socialisti, la Democrazia Cristiana vide anche ridimen­ sionato il proprio consenso a favore della destra del movimento dell’Uo­ mo Qualunque in occasione delle elezioni amministrative del novembre 1946. Fu proprio in forza di questi risultati che nel dicembre dello stesso anno, per iniziativa di esponenti del passato regime fascista, Giorgio Almirante (-*-), Arturo Michelini (—>) e Pino Romualdi (—>•), venne fon­ dato il Movimento sociale italiano (MSI), partito collocato all’estrema destra dello schieramento politico. Un ulteriore segnale del progressivo scollamento dell’alleanza gover­ nativa lo si ebbe all’inizio del 1947, quando si operò la frattura tra l’area cosiddetta «fusionista» del PSIUP, determinata a mantenere l’unione col PCI e rappresentata da Pietro Nenni (—>•), e l’area «autonomista» e riformista di Giuseppe Saragat (—>). In occasione del XXV Congresso socialista, infatti, il gruppo di Saragat abbandonò il partito e, riunitosi a Palazzo Barberini, fondò il Partito socialista dei lavoratori italiani (PSLI), che successivamente avrebbe assunto la denominazione di Par­ tito socialdemocratico italiano (PSDI), mentre l’ala «fusionista» ripren­ deva il nome storico di Partito socialista italiano. Nell’immediato la scis­ sione di Palazzo Barberini produsse l’uscita dei rappresentanti del PSLI di Saragat dal governo; il 2 febbraio 1947, quindi, De Gasperi diede vita al suo terzo esecutivo che vedeva la presenza di DC, PCI e PSI. Sempre nel corso del 1947 i quadri del Partito d’azione, di fronte allo scarso con­ senso ottenuto dal partito nelle elezioni del 1946, decisero di confluire in parte nell’area socialista, in parte nel Partito repubblicano che, pur avendo partecipato attivamente alla lotta al fascismo, non era entrato nei governi del CLN per l’imprescindibile pregiudiziale antimonarchica. Anche il nuovo scenario della Guerra Fredda, che si venne a deline­ are proprio tra il 1946 e il 1947, contribuì a mettere in forte crisi la coa­ bitazione fra i tre partiti della compagine governativa. Se infatti la divi­ sione dell’Europa lungo la «cortina di ferro» implicava che i partiti dei Paesi del blocco occidentale ideologicamente riconducibili al comuni­ Smo sovietico dovevano essere tenuti ai margini dei rispettivi sistemi po­ litici, il caso dell’Italia risultava particolarmente complesso dal momen­ to che il patto di «unità d’azione» tra PCI e PSI dava alla sinistra una le­ gittimazione popolare molto ampia. Convinto della necessità di collocare l’Italia nel campo occidentale, nel gennaio 1947 De Gasperi si era recato in visita ufficiale negli Stati Uniti, rendendosi ben presto con­ to che per instaurare un solido rapporto di fiducia con l’amministrazio­ ne americana sarebbe stato indispensabile estromettere le sinistre dal governo. Nell’aprile successivo, poi, le elezioni per la prima assemblea regionale della Sicilia, regione a statuto speciale (-^-), come Sardegna, Valle d’Aosta e Trentino Alto-Adige, evidenziarono un forte mutamen­ to negli orientamenti dell’elettorato in quella zona: le sinistre ottennero infatti un 9% di voti in più rispetto alle elezioni del 1946, mentre la De­ mocrazia Cristiana perdeva oltre il 10%. Per De Gasperi il segnale definitivo che era necessario rompere la coalizione tripartita venne alcuni giorni dopo la strage perpetrata dagli uomini del bandito mafioso Salvatore Giuliano (— a Portella della Gi­ nestra in occasione della festa dei lavoratori del 1° maggio. La CGIL, il

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sindacato unitario dei lavoratori costituitosi fin dal 1944, proclamò in­ fatti uno sciopero generale di chiaro segno politico che intendeva mette­ re sotto accusa i latifondisti siciliani, la mafia (—►) e gli stessi esponenti conservatori dell’isola per aver risposto con un bagno di sangue all’esito delle elezioni amministrative regionali. Di fronte alle crescenti tensioni del clima politico interno e internazionale, De Gasperi decise quindi di mettere fine al suo terzo esecutivo e di cercare altrove le forze per costi­ tuire una maggioranza di governo in linea con le istanze moderate del Paese e con le sollecitazioni che provenivano dagli Stati Uniti. Dopo dieci giorni carichi di tensione, il 24 maggio De Gasperi otten­ ne un nuovo incarico e formò un esecutivo composto solo da democri­ stiani e da esponenti del Partito liberale, come Luigi Einaudi (—>-) al ministero delle Finanze, e del Partito repubblicano, come Carlo Sforza (—>-) a quello degli Esteri. Si chiudeva così definitivamente quell’allean­ za sorta durante la Resistenza al nazifascismoche, al di là delle divisioni ideologiche fra i partiti, aveva avuto nell’antifascismo il proprio collante. Da questo momento in poi, infatti, la vera discriminante negli equilibri del sistema politico italiano sarebbe diventata quella tra comuniSmo e anticomunismo; il che non significava, soprattutto per De Gasperi, veni­ re meno ai principi dell’antifascismo che avevano condotto l’Italia fuori dalla dittatura e verso il consolidamento delle istituzioni democratiche, ma implicava l’esclusione dai governi della Repubblica degli esponenti sia della destra missina sia della sinistra socialcomunista. Tale scelta produsse, però, un’anomalia destinata a diventare strutturale nel siste­ ma politico italiano. Per una regola non scritta, ma desunta dai rapporti di potere che si andarono progressivamente a delineare e sintetizzata nella formula della conventio ad excludendum (—*■), la destra del Movi­ mento sociale e la sinistra marxista avrebbero avuto accesso all’area della rappresentanza ma non a quella di governo. Se questo, da un lato, produceva un restringimento dell’area politica entro cui contrarre alle­ anze di governo, la presenza di due grandi partiti di massa, come la D e­ mocrazia Cristiana e il Partito comunista, all’interno del Parlamento configurava un sistema tendenzialmente bipartitico e polarizzato dove, però, non vi sarebbe stata possibilità di alternanza tra maggioranza e opposizione. In tale contesto, pertanto, De Gasperi inaugurò una nuova formula governativa, quella del cosiddetto centrismo, che era fondata sull’alleanza tra la DC e i partiti minori di centro e si sarebbe prolungata lungo tutti gli anni Cinquanta. Il 18 aprile 1948 si tennero le elezioni per la prima legislatura repub­ blicana. La durissima campagna elettorale, tutta giocata dalle forze moderate sul rischio dell’Italia di entrare sotto la sfera d’influenza so­ vietica e sulla promessa di benessere derivante dagli aiuti del Piano Marshall, vide schierati a fianco della DC sia il Vaticano sia l’ammini­ strazione americana. PCI e PSI si presentarono invece con una lista elettorale unitaria denominata Fronte Popolare (—»-) che, facendo leva sugli schieramenti della Guerra Fredda, sosteneva apertamente la poli­ tica sovietica. I risultati delle elezioni premiarono le forze moderate, evidenziando al tempo stesso i timori dell’elettorato per un possibile «salto» dell’Italia nell’orbita sovietica; la Democrazia Cristiana ottenne

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La fine dell'alleanza antifascista

La regola non scritta della conventio ad excludendum

La formula governativa del centrismo

Le elezioni del 1948

La vittoria delle forze moderate

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Proteste dei lavoratori e mobilitazione del PCI

L'attentato a Togliatti e la reazione della base

La rottura del sindacato unitario

La politica economica di De Gasperi

La riforma agraria

La Cassa perii Mezzogiorno

Storia contemporanea

infatti oltre il 48% dei voti, mentre il Fronte Popolare arrivò solo al 31%. Confermato dal successo di queste elezioni, il disegno politico di De Gasperi fondato sulla coalizione centrista si protrasse lungo tutta la prima legislatura; il leader democristiano varò infatti tra il 1948 e il 1953 tre governi tutti incentrati sull’alleanza tra la DC e i partiti laici di centro, ovvero PLI, PSDI e PRI. Questa formula, se da un lato permise una certa stabilità politica, non riuscì tuttavia a impedire la radicalizzazione delle proteste dei la­ voratori e la massiccia mobilitazione dei militanti del Partito comuni­ sta. Questi infatti vedevano nella stabilizzazione moderata dei governi centristi la fine definitiva del progetto di «democrazia progressiva» su cui Togliatti aveva costruito la propria linea politica fin dagli anni del­ la Resistenza. Un progetto che, alternando in modo talvolta ambiva­ lente la collaborazione governativa con le forze moderate e le istanze della lotta sociale e politica, portate avanti soprattutto dalla base del partito, cominciò a essere messo in discussione da alcuni settori della stessa dirigenza del PCI, guidati da Pietro Secchia (—»-) e convinti del­ la necessità di opporre una più ferma resistenza alla politica governati­ va sia in Parlamento che nelle piazze. Il punto più alto e drammatico di queste tensioni fu toccato nel luglio 1948, quando Togliatti rimase gra­ vemente ferito in un attentato ad opera di un estremista di destra. Mi­ lioni di lavoratori scesero in piazza e per alcuni giorni il Paese sembrò sull’orlo di un’insurrezione generale contro lo Stato e le sue istituzioni. L’ordine fu, tuttavia, ristabilito quasi subito grazie all’attenta vigilanza delle forze di polizia e soprattutto al comportamento responsabile dei dirigenti comunisti e sindacali (il convalescente Togliatti per primo), che cercarono di contenere il più possibile le proteste spontanee della base. Sul piano politico la crisi del luglio 1948 produsse la rottura del sindacato unitario, da cui uscì la corrente cattolica. Si costituì infatti, ad opera degli esponenti democristiani della CGIL, la Libera CIGL, che due anni dopo si trasformò nella Confederazione italiana sindaca­ ti lavoratori (—■>■). Nel 1950 anche le minoranze repubblicane e socialdemocratiche diedero vita a un sindacato autonomo, l’Unione italiana del lavoro (-*-). In ambito economico il governo continuò a portare avanti una politi­ ca di stampo liberista e deflativa finalizzata a combattere l’inflazione, garantire la stabilità monetaria e risanare il bilancio dello Stato. Tale manovra, se da un lato favorì il recupero del potere d’acquisto della lira e avvantaggiò il risparmio, dall’altro colpì i salari dei lavoratori e non contrastò nel breve periodo l’aumento della disoccupazione. I costi so­ ciali della ricostruzione finirono anche per accentuare il dualismo tra il nord e il sud del Paese, rimasto ancorato quest’ultimo alla tradizionale economia agricola incentrata sui grandi latifondi. Proprio per far fronte alla cronica arretratezza socio-economica del Mezzogiorno, De Gasperi varò nel 1950 una riforma agraria (—►) che prevedeva l’esproprio e il frazionamento di parte delle terre dei latifondisti da distribuire ai brac­ cianti agricoli, in modo da creare un ceto di piccoli proprietari contadini autonomi e indipendenti. Nello stesso anno fu anche costituita la Cassa per il Mezzogiorno (-+ ), un ente pubblico che avrebbe dovuto promuo-

Lo scontro Est-Ovest e la sua ricaduta nelle politiche nazionali

vere lo sviluppo economico del sud finanziando la costruzione di impre­ se e infrastrutture. Nonostante questi provvedimenti, tuttavia, le tensioni politiche e so­ ciali si mantennero alte. Da un lato, infatti, i partiti di sinistra e la CGIL continuarono a opporre una ferma resistenza ai governi centristi e a so­ stenere gli scioperi e le rivendicazioni delle classi lavoratrici, che chiede­ vano migliori condizioni di lavoro, aumento dei salari e misure per com­ battere la disoccupazione. Dall’altro, il governo decise di rispondere alla mobilitazione delle piazze intensificando i poteri del corpo di polizia e le misure repressive. Inoltre la Chiesa, le cui pressioni per spostare ulte­ riormente a destra l’asse di governo si mantennero costanti lungo tutta la legislatura, emanò nel 1949 un decreto di scomunica per tutti coloro che mostravano simpatie o tendenze comuniste. Nel 1952 poi, dopo che era stato già varato un provvedimento per vietare la ricostituzione del disciolto Partito fascista, il governo presentò un progetto di legge defini­ to «polivalente», volto a colpire quei partiti che avessero assunto o legit­ timato comportamenti antidemocratici e che, di fatto, doveva servire a contenere gli scioperi, le occupazioni di fabbriche e tutte le forme di protesta organizzate dai sindacati e dalle sinistre. Le difficoltà della coalizione centrista e della DC si videro chiara­ mente all’inizio del 1949 in occasione dell’aspro scontro parlamentare circa l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, poi approvata dal Parla­ mento a marzo, e soprattutto dai risultati delle due elezioni amministra­ tive del 1951 e 1952. Essi evidenziarono infatti un chiaro ridimensiona­ mento dei consensi della DC a fronte della tenuta delle sinistre e della crescita, nelle amministrazioni del sud, del Partito nazionale monarchi­ co e del Movimento sociale. Di fronte, quindi, all’eventualità di non riu­ scire a esprimere una solida maggioranza all’interno del Parlamento, che rischiava di uscire fortemente polarizzato tra l’estrema destra e l’estrema sinistra alle imminenti elezioni politiche del 1953, la DC pre­ sentò un progetto di modifica della legge elettorale. Introducendo nel si­ stema proporzionale adottato per le elezioni del 1948 una correzione di tipo maggioritario, il progetto stabiliva che il partito o i partiti apparen­ tati che avessero ottenuto la maggioranza e comunque non meno del 50% più uno dei voti alle elezioni avrebbero avuto un premio in base al quale sarebbero stati riconosciuti loro circa il 65% dei seggi. La propo­ sta, che fu presentata dal ministro degli Interni Mario Sceiba (—>), rap­ presentava il più compiuto tentativo degasperiano di «blindare» la for­ mula politica centrista adottata fino a quel momento. Il progetto di legge, immediatamente bollato dalle sinistre come «legge truffa», non fece che accrescere ulteriormente, sia in Parlamento che nel Paese, le tensioni e la conflittualità politica presenti da tempo. La legge fu comunque approvata nel marzo 1953, appena in tempo per essere applicata nelle successive elezioni di inizio giugno, grazie ai voti della DC e dei partiti laici della coalizione centrista, dopo che il governo aveva posto su di essa, sia alla Camera che al Senato, il voto di fiducia. Tuttavia, per uno scarto di poche migliaia di voti, l’alleanza elettorale si­ glata tra la DC e i partiti minori di centro non raggiunse la soglia della maggioranza assoluta e di conseguenza il premio di correzione maggio-

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Tensioni politiche esodali

Le pressioni della Chiesa e la scomunica dei comunisti

L'adesione dell'Italia al Patto Atlantico

Il calo di consesi della DC

La riforma elettorale

La «legge truffa» e le elezioni del 1953

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La morte di De Gasperi e la crisi della formula di governo centrista

I fatti d'Ungheria e il distacco del PSI di Nenni dai comunisti

Le numerose correnti interne alla DC

Storia contemporanea

ritaria non scattò. La DC tornava quindi in Parlamento come partito di maggioranza relativa, ma con circa otto punti percentuali in meno ri­ spetto al 1948; le sinistre, che avevano presentato liste separate, ottenne­ ro complessivamente il 4% di voti in pii! (il PCI ebbe il 22,6% dei voti e il PSI il 12,7%). Furono invece penalizzati i partiti minori di centro, mentre la destra monarchica e l’MSI, pur non registrando gli stessi risul­ tati delle elezioni amministrative, si aggiudicavano complessivamente poco meno del 13%. Il tentativo di De Gasperi di riproporre ugualmente la formula cen­ trista per il nuovo governo fu rifiutato dai partiti minori e la proposta di un esecutivo monocolore guidato dalla DC venne bocciata alla Ca­ mera per l’opposizione congiunta di sinistra e destra e per l’astensione dei partiti laici di centro. Divenne quindi chiaro fin da subito quanto sarebbe stato complesso dare vita a governi stabili in un quadro di frammentazione politica dove l’alleanza centrista appariva ormai ob­ soleta, ma al tempo stesso non si profilavano formule alternative capa­ ci di coniugare pluralismo politico e stabilità delle maggioranze. De Gasperi morì nell’estate dell’anno successivo e con lui venne meno del tutto anche la solidità della strategia centrista, anche se sul piano poli­ tico sarebbe sopravvissuta ancora per alcuni anni. Nel corso della se­ conda legislatura, infatti, la DC fu alla guida di diversi governi, alcuni monocolore, altri di tipo centrista. Privi della salda leadership degasperiana e incapaci di interpretare in senso riformatore le spinte che provenivano dalla società, questi governi apparivano una sorta di tran­ sizione in attesa che il quadro politico fosse in grado di produrre nuovi scenari e nuove possibili alleanze. Questa prospettiva cominciò a profilarsi a metà degli anni Cinquan­ ta sulla scia di alcuni eventi internazionali. La morte di Stalin nel 1953, il nuovo corso avviato da Chruscev ma soprattutto la tragica repressione sovietica in Ungheria nel 1956 produssero infatti degli effetti sia all’in­ terno del PCI, dove alcuni dirigenti e intellettuali uscirono dal partito non condividendo la scelta di Togliatti di approvare l’intervento dell’URSS a Budapest, sia nell’alleanza tra socialisti e comunisti. Dopo i fatti d’Ungheria, il partito di Nenni denunciò definitivamente il patto d’unione col PCI e, rivendicando la propria completa autonomia, creò di fatto i presupposti per la possibile riunificazione dei due partiti sociali­ sti. Se tuttavia quest’ultima non ebbe grande fortuna, il distacco del PSI dai comunisti e la disponibilità di Nenni a collaborare con la DC per un vasto piano di riforme politiche, economiche e sociali aprirono lenta­ mente la strada a nuovi equilibri dell’asse governativo. Negli stessi anni anche all’interno della DC si produssero dei cam­ biamenti significativi. Amintore Fanfani (—>), esponente della sinistra democristiana, eletto alla segreteria del partito nel luglio 1954, cercò di rafforzarne le strutture del partito a livello periferico e di renderne più attiva la presenza nelle leve del potere economico. Il suo obiettivo era infatti quello di mantenere l’unità del partito a fronte delle numerose correnti interne rafforzatesi dopo la morte di De Gasperi. Al tempo stesso intendeva garantire alla DC un controllo più incisivo sugli enti pubblici e sugli apparati amministrativi ed economici del Paese. Pro-

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prio dal punto di vista economico, la metà degli anni Cinquanta rap­ presentò un’importante svolta nella storia italiana. Nel 1955 il ministro del Bilancio Ezio Vanoni (—>-) presentò un piano di programmazione economica decennale con tre obiettivi: il riassorbimento della disoccu­ li piano pazione, l’attenuazione del divario tra nord e sud e il pareggio di bilan­ di programmazione cio. L’anno successivo fu istituito il Ministero delle Partecipazioni sta­ economica decennale tali che avrebbe dovuto coordinare le aziende pubbliche, segno di una progressiva estensione del ruolo dello Stato in economia. Già dal 1953, infatti, esisteva l’Ente nazionale idrocarburi per la gestione e lo sfrutta­ mento del petrolio e dei gas naturali, che fin dall’inizio, sotto la guida di Enrico Mattei (—>-) aveva mostrato una forte capacità di attirare ri­ sorse. Anche se il piano Vanoni rimase sostanzialmente inattuato a causa della forte vocazione liberista del capitalismo italiano, tutti que­ sti provvedimenti stavano a dimostrare che la DC era faticosamente al­ la ricerca di una maggiore autonomia dalle forze moderate che ne ave­ vano condizionato le scelte economiche durante la prima legislatura. Anche dal punto di vista politico, poi, la metà degli anni Cinquanta produsse alcune importanti novità: nel 1956 nacque la Corte Costitu­ zionale e due anni dopo il Consiglio superiore della magistratura; sem­ pre nel 1956 prese avvio un piano di revisione della legislazione fascista ancora in vigore in quel momento. Tuttavia, affinché i dibattiti e le trattative per la cosiddetta «apertura a sinistra», ovvero per l’inclusione del Partito socialista nella compagine Il dibattito di governo, prendessero sostanza si dovette aspettare fino al biennio sull'«apertura 1958-60. Tre furono i principali fattori che accelerarono questo proces­ a sinistra» so: i risultati delle elezioni politiche italiane del 1958, il pontificato di Giovanni XXIII e l’elezione del democratico John Kennedy alla presi­ denza degli Stati Uniti nel 1960. Mentre il pontificato giovanneo mostrò una particolare sensibilità verso i problemi del mondo del lavoro e una cauta apertura alle possibili collaborazioni tra credenti e non credenti (cap. 11.4), la nuova amministrazione Kennedy si rese conto che solo la fattiva collaborazione tra DC e PSI avrebbe potuto sbloccare lo stallo della situazione politica italiana, e pertanto non la ostacolò. Le elezioni del 1958 confermarono sostanzialmente il quadro politi­ co precedente, con una lieve avanzata della DC e delle sinistre, la tenuta dei partiti laici e un certo arretramento delle destre. Sembrava dunque che la strada obbligata fosse ancora quella dei governi centristi, ma nel 1960 l’uscita del PLI dalla coalizione governativa parve costringere la DC a una resa dei conti definitiva fra le correnti al suo interno circa l’apertura o meno all’accordo coi socialisti. La successiva formazione di un esecutivo monocolore democristiano guidato da Fernando Tambroni Lo spostamento (->-), che ottenne in Parlamento il voto di fiducia del Movimento socia­ a destra del governo le, rese evidente e concreta la possibilità di uno spostamento a destra de­ Tambroni gli equilibri di governo. La mobilitazione dei partiti di sinistra e dei sin­ dacati fu immediata e divenne ancor più forte dopo che Tambroni auto­ rizzò lo svolgimento del Congresso dell’MSI a Genova, dove era previsto che a presiederlo fosse Carlo Emanuele Basile (—»►), già prefetto della città durante la Repubblica sociale italiana. La decisione, interpretata come il prezzo pagato dal presidente del Consiglio per il sostegno parla­

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Il governo Fanfani: la «restaurazione democratica» e le «convergenze parallele»

L'ingresso dei socialisti nel governo Moro

Il «miracolo economico»

Le riforme di centro-sinistra

Storia contemporanea

meritare dei missini, scatenò numerose manifestazioni di piazza in tutto il Paese e negli scontri tra manifestanti e polizia si ebbero diversi morti e feriti. Alla fine, nonostante Tambroni in Parlamento avesse accusato il PCI di sobillare le proteste popolari, il governo cedette e il Congresso missino fu rinviato. Alcuni intellettuali cattolici sottoscrissero inoltre un appello contro qualsiasi tentazione autoritaria, sconfessando quindi la collaborazione con esponenti politici che si definivano neofascisti. La crisi del governo Tambroni, che pure era nato dall’impossibilità di dare vita a maggioranze stabili secondo la vecchia formula centrista, di­ mostrò altresì che la DC non aveva spazio per cercare equilibri alterna­ tivi aperti alla destra. L’esecutivo che ne seguì fu un monocolore democristiano guidato da Fanfani che, al momento dell’insediamento in Par­ lamento, ebbe il voto di repubblicani e socialdemocratici, ma anche l’astensione del Partito socialista e dei monarchici. Definito dallo stesso Fanfani il governo della «restaurazione democratica», dopo l’infausta parentesi di Tambroni, e dal segretario della DC Aldo Moro (—>) il go­ verno delle «convergenze parallele», il nuovo esecutivo dimostrò che or­ mai anche la DC, superate le numerose resistenze interne, era disponi­ bile a quell’apertura a sinistra che Nenni, dal 1956 in poi, aveva spesso caldeggiato. La strada che doveva condurre alla formazione dei governi di centro-sinistra organico, ovvero con la partecipazione diretta del PSI nella compagine governativa, fu tuttavia lunga e solo il governo formato da Moro nel dicembre 1963 vide l’ingresso dei socialisti nell’esecutivo. Fu però proprio nei tre anni precedenti, tra il 1960 e il 1963, che si defi­ nirono gli accordi tra democristiani e socialisti per mettere mano a un ampio programma di riforme sociali ed economiche. L’Italia stava infatti attraversando una fase di accelerata moderniz­ zazione economica che, in linea con quanto si stava verificando nella maggior parte dei Paesi dell’Europa occidentale, produsse una forte crescita del settore industriale e delle esportazioni e un significativo mi­ glioramento delle condizioni di vita di buona parte della popolazione. Il «miracolo economico» italiano, che culminò fra il 1958 e il 1964, se da un lato determinò un’eccezionale crescita della produzione e dei consu­ mi, dall’altro non eliminò molti degli squilibri sociali preesistenti e so­ prattutto lasciò gli immigrati delle regioni meridionali, affluiti in gran numero nei centri industriali del nord, in condizioni di grave disagio, po­ vertà ed emarginazione. Proprio i caratteri di questo sviluppo, rapido ma anche disordinato, rendevano più urgenti le misure di intervento dei governi che, sulla base del programma di centro-sinistra, dovevano ten­ dere sia a orientare il corso del boom economico in atto, sia a correggere gli squilibri più evidenti. Nei primi anni dell’alleanza di centro-sinistra, quando ancora l’apertura al PSI si reggeva solo sulla sua astensione in Parlamento, fu­ rono realizzate le più importanti riforme dell’intera stagione di centrosinistra: la nazionalizzazione dell’energia elettrica nel 1962, con la cre­ azione dell’ENEL, e la riforma della scuola con l’istituzione della scuo­ la media unificata. Al contrario, le altre riforme previste dall’accordo programmatico, come quella urbanistica e la creazione delle regioni a statuto ordinario, furono bloccate dall’opposizione sia di alcuni settori

Lo scontro Est-Ovest e la sua ricaduta nelle politiche nazionali

della DC, sia dai partiti del centro-destra. Le elezioni del marzo 1963 confermarono, d’altra parte, la forte ostilità dei gruppi moderati e dei grandi centri del potere economico verso la spinta riformatrice e inter­ ventista del programma di centro-sinistra. Il calo del consenso alla DC e il successo del Partito liberale, che arrivò a toccare il 7% delle prefe­ renze, fecero dunque capire che la sola possibilità di proseguire sull’al­ leanza di centro-sinistra era quella di svuotarla della sua carica rifor­ matrice iniziale. Già dunque col governo Moro del 1963 lo slancio rifor­ matore fu abbandonato, nonostante la presenza diretta dei socialisti all’interno dell’esecutivo. Tanto più che nel corso dell’anno successivo il rallentamento nello sviluppo economico ridusse le risorse necessarie per l’attuazione delle riforme, mentre si andò rafforzando considere­ volmente l’opposizione conservatrice. Il tentativo di bloccare il programma di riforme del centro-sinistra ebbe anche aspetti preoccupanti, che videro il coinvolgimento, in attivi­ tà illegali, di alcuni apparati dello Stato. Nel 1964 venne infatti predi­ sposto dal generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo (—>-) il cosid­ detto Piano Solo (—>), che prevedeva, in caso di disordini e grave crisi politica, un intervento dell’Arma per arrestare gli oppositori ed occupa­ re i centri nevralgici dello Stato. Benché non attuato, il Piano Solo, la cui esistenza venne poi confermata nel 1968 da una commissione parlamen­ tare, dimostrò che l’Italia non era ancora del tutto immune dal rischio di un’involuzione autoritaria. Ma oltre a rendere evidente l’indebolimento delle istituzioni della democrazia italiana, al cui interno alcuni settori sembravano disposti a operare fuori della legalità per perseguire obiet­ tivi politici propri, la vicenda del Piano Solo fece capire a Moro e Nenni che la sola condizione per continuare sulla strada del centro-sinistra era quella di privare l’alleanza dei suoi principali contenuti programmatici.

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Le resistenze al programma del centro-sinistra e la fine dello slancio riformatore

Il Piano Solo e il rischio di un'involuzione autoritaria

12.3 La Gran Bretagna: dai laburisti ai conservatori e ritorno I vent’anni che seguirono la fine della Seconda Guerra mondiale fu­ rono caratterizzati in Gran Bretagna da un’intensa attività riformatrice e dalla presenza di una piattaforma di comune consenso politico fra i due maggiori partiti, conservatore e laburista. La cosiddetta consensus policy, pur non eliminando le controversie partitiche, segnalava comun­ que la condivisione ideale di alcuni basilari punti programmatici e trae­ va origine dal clima di unità e solidarietà nato durante la lotta contro la Germania. Tale piattaforma programmatica comprendeva l’accettazio­ ne dell’economia mista, la costruzione del Welfare State (cap. 9.3) e il perseguimento della piena occupazione; in politica estera, invece, i pun­ ti sostanzialmente condivisi erano il principio della decolonizzazione, l’appoggio al Commonwealth, l’appartenenza della Gran Bretagna alla NATO e la dotazione di un deterrente nucleare autonomo. Tale programma generale cominciò a vedere la luce col governo pre­ sieduto da Clement Attlee che si formò dopo le elezioni del luglio 1945, vinte a sorpresa dal Partito laburista. Nonostante, infatti, i conservatori potessero vantare la straordinaria leadership di Churchill, vincitore del-

La consensus policy

La vittoria elettorale del Partito laburista

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Storia contemporanea

la guerra e anima della resistenza contro Hitler, la voglia di cambiamen­ to degli elettori inglesi prevalse, dando al Partito laburista una maggio­ ranza schiacciante. Il nuovo primo ministro, più legato alla tradizione del new liberalism di inizio secolo (cap. 4.4) che al socialismo radicale, Il vasto progetto mise mano immediatamente a un vasto progetto riformatore, in gran riformatore parte ispirato al piano predisposto, a guerra ancora in corso, dal liberale del governo Attlee William Beveridge, con cui avrebbe rivoluzionato il sistema socio-eco­ nomico britannico e lasciato un’impronta indelebile nei decenni succes­ sivi. Tra il 1946 e il 1949 furono nazionalizzati la Banca d’Inghilterra, il settore carbonifero, l’elettricità e il gas, i trasporti statali, il sistema fer­ roviario, il settore del ferro e dell’acciaio. Nel complesso circa il 20% dell’industria britannica divenne pubblica. Nell’ambito della legislazio­ ne sociale il governo laburista decise di elevare i sussidi settimanali di disoccupazione e malattia e di estendere tutte le politiche di tutela pre­ videnziale. La riforma più importante in questo settore, vero e proprio simbolo del nuovo Welfare State britannico, fu la nazionalizzazione del La nazionalizzazione servizio sanitario che, nonostante le iniziali opposizioni delle associa­ del servizio sanitario zioni dei medici, divenne operativa nel luglio 1948 con la nascita del Na­ e il nuovo Welfare State tional Health Service. Il servizio ospedaliero passava sotto la gestione pubblica e veniva istituito il «medico di famiglia» in modo da garantire l’assistenza medica gratuita a tutti i cittadini. Infine, il governo laburista estese fino a 15 anni il termine dell’obbligo scolastico e diede un grosso impulso all’edilizia pubblica, tanto che tra il 1945 e la fine del 1951 ven­ nero creati 1.350.000 nuovi alloggi. Questo vasto programma riformatore, teso a garantire l’«assistenza dalla culla alla tomba», servì a ridurre le sperequazioni in ambito sociale e fu ritenuto il presupposto per una società più equilibrata e solidale. Le difficoltà, all’inizio, furono dovute anche agli immensi La difficile rinascita problemi legati alla rinascita postbellica: il Paese era uscito dalla postbellica guerra con un debito pari a 3.500 milioni di sterline e con un grave de­ ficit nella bilancia dei pagamenti, inoltre l’inverno del 1947 fu dram­ matico per la crisi dei rifornimenti sia nel settore alimentare sia in quello dei combustibili. Il governo impose quindi una dura stretta economica (congelamento dei salari, severi controlli per contenere l’inflazione, aumento delle tas­ La politica se) e una politica di «austerità» che coinvolse l’intera popolazione; nel di «austerità» settembre 1949 arrivò anche alla difficile decisione di svalutare la sterli­ na, il cui cambio passava da 4 a 2,8 dollari. Tuttavia questi provvedimen­ ti, pur pagati dagli inglesi con enormi sacrifici, contribuirono, assieme agli aiuti del Piano Marshall, a far superare la crisi della ricostruzione postbellica in tempi relativamente brevi. Alle elezioni del 1951 il Partito conservatore, che nel frattempo ave­ va riorganizzato le proprie strutture interne e rinnovato il proprio pro­ Il ritorno al governo gramma, tornò a vincere e Churchill, all’età di 77 anni, tornò a essere di Churchill primo ministro. Il suo governo non modificò le scelte dell’esecutivo la­ burista; il Welfare State venne potenziato e fu avviata una politica di pa­ cificazione sociale mediante la concessione di più ampie libertà ai sinda­ cati. La disoccupazione si attestò attorno al 2% e i salari mediamente raddoppiarono in termini monetari durante gli anni Cinquanta. La me-

Lo scontro Est-Ovest e la sua ricaduta nelle politiche nazionali

tà di quel decennio rappresentò una svolta per la Gran Bretagna da di­ versi punti di vista: nel febbraio 1952 fu incoronata la nuova regina Eli­ sabetta II (—►), nel 1954 furono tolte le ultime misure di razionamento alimentare e nell’aprile 1955 Churchill, ormai molto anziano, si dimise lasciando il posto al suo delfino Anthony Eden. Questi, il mese succes­ sivo, convocò le elezioni generali dove i conservatori ottennero una maggioranza di 70 seggi. Il momento di più alto successo e consenso per il Partito conservatore venne, però, alla fine degli anni Cinquanta, dopo che, per la cattiva gestione della crisi di Suez, Eden si era dimesso (1957) ed era stato sosti­ tuito da Harold Macmillan (—»■). In politica estera questi riuscì, sfrut­ tando anche la sua vecchia amicizia con Eisenhower, a rafforzare l’alle­ anza con gli Stati Uniti, accelerò il processo di decolonizzazione e nel 1961 presentò per la prima volta la domanda di ingresso della Gran Bre­ tagna alla Comunità economica europea. Ma fu nella politica interna che Macmillan ottenne i maggiori successi, puntando a un più alto teno­ re di vita materiale per tutti: salari migliori, crediti agevolati, crescita delle industrie di beni di consumo. Il sintomo più evidente di questa nuova affluent society britannica fu la rapida moltiplicazione delle case di proprietà, che nel ventennio 1951-71 passarono dal 31% del totale del­ le abitazioni in Inghilterra e Galles al 50%. Forte dello slogan «non vi è mai andata così bene», Macmillan si presentò alle elezioni generali del 1959 con un forte credito di popolarità e credibilità e i conservatori ot­ tennero un centinaio di seggi in più dei laburisti. Tuttavia le difficoltà non tardarono a venire, soprattutto sul fronte della finanza pubblica visto che il boom dei consumi aveva favorito l’in­ flazione e fatto peggiorare la bilancia dei pagamenti. Se con un tasso medio di crescita annua del 2,2%, l’economia britannica sembrava aver fatto passi da gigante rispetto al periodo prebellico, nel contesto inter­ nazionale quel tasso appariva modesto. Fra gli investitori stranieri co­ minciò a circolare l’immagine del declino britannico in analogia con quello delFImpero ottomano nel XIX secolo. All’inizio degli anni Ses­ santa, poi, tutta la società era in fermento e le risposte della consensus policy dei partiti tradizionali non sembravano più sufficienti a una so­ cietà sempre più esigente ma anche estroversa e permissiva. I due mag­ giori partiti cominciarono così a perdere consensi a vantaggio di posi­ zioni per molti aspetti «alternative»: dal risorgente Partito liberale ai partiti nazionalisti del Galles e della Scozia, dalle organizzazioni di estrema sinistra a quelle di estrema destra in lotta contro l’immigrazio­ ne degli afroamericani. Il colpo di grazia per il governo conservatore venne, nel corso del 1963, dal veto del presidente francese De Gaulle all’ingresso della Gran Bretagna nella CEE. Alle elezioni dell’ottobre 1964, il Partito laburista, dopo tre sconfitte consecutive, tornò a vincere e divenne primo ministro Harold Wilson (—►), un economista che riuscì nella difficile impresa di infondere tranquillità e ottimismo a un’opinione pubblica profonda­ mente scossa dalle recenti turbolenze. Wilson aveva infatti una radicata convinzione della necessità di modernizzare le istituzioni economiche e politiche britanniche e si circondò di intellettuali e professionisti che

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La nuova regina Elisabetta II

Il riavvicinamento agli USA dopo la crisi di Suez

La nuova affluent society britannica

Difficoltà finanziarie e fermenti sociali

Ritorno al governo dei laburisti

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La prolungata crisi economica

L'impennata di rivendicazioni e tensioni sociali

L'esaurimento della «politica del consenso»

L'ingresso della Gran Bretagna nella CEE

Storia contemporanea

cercarono di dare un respiro più ampio alle politiche del governo. Nono­ stante le grandi attese iniziali, però, il governo laburista dovette affron­ tare, nella seconda metà degli anni Sessanta, una gravissima crisi econo­ mica che costrinse al passo l’economia britannica; con una crescita della produzione del 2,7% all’anno, la Gran Bretagna diventava così il fanali­ no di coda dell’Europa occidentale. La prolungata crisi economica e le difficoltà del governo non fecero che amplificare il malessere e le riven­ dicazioni sociali. La seconda metà degli anni Sessanta vide infatti un’im­ pennata delle proteste nazionalistiche in Galles e in Scozia, raggravarsi delle tensioni per la presenza di oltre un milione di immigrati da India, Pakistan e Africa occidentale e un forte incremento delle rivendicazioni sindacali, specie nel settore marittimo e minerario. Sempre più gravi, poi, erano i rapporti con il Nord Irlanda dove era ripresa l’attività terro­ ristica dell’IRA, mentre la politica estera di Wilson, tesa a sostenere il governo americano nella guerra in Vietnam, produsse una profonda frattura con l’ala sinistra del Partito laburista e l’inasprimento delle campagne per il disarmo nucleare e contro la guerra. Nel 1967 il nuovo veto francese all’ingresso inglese nel mercato euro­ peo, il cosiddetto «veto di velluto» ( ^ - ) , e l’incapacità del governo labu­ rista di portare a termine le riforme istituzionali inizialmente program­ mate, come quella della Camera dei Lord, segnarono il fallimento defi­ nitivo dell’amministrazione laburista. Il partito venne infatti seccamente battuto dai conservatori alle elezioni del 1970, aprendo un quinquennio di governo tory presieduto da Edward Heath (—>). Ma anche quando i laburisti tornarono al potere nel 1974 era ormai chiaro che la «politica del consenso» era esaurita. Nel complesso la Gran Bretagna stava pren­ dendo atto che la prolungata crisi economica, la perdita di prestigio in­ ternazionale, dovuta al ritiro dalle colonie nei due decenni precedenti, e l’impossibilità di competere con USA e URSS avevano messo fine al suo primato anche a livello continentale. Sul piano internazionale un importante successo arrivò grazie al governo filoeuropeo di Heath, ov­ vero l’ingresso della Gran Bretagna nella CEE, ratificato nel 1973 e confermato due anni dopo da un referendum popolare in cui il 67% de­ gli inglesi votò a favore dell’appartenenza alla CEE. 12.4 L'America Latina: dai populismi ai regimi militari

Debolezze strutturali dei sistemi politici sudamericani e delle economie locali

In America Latina la crisi economica mondiale del 1929 aveva mes­ so a nudo le debolezze strutturali dei sistemi politici e delle economie locali. Caratterizzati da un’economia prevalentemente orientata alle esportazioni, anche se con differenze molto nette al loro interno, i Pae­ si sudamericani erano stati travolti dalla drastica contrazione dei prezzi delle materie prime e delle esportazioni che aveva fatto seguito al crol­ lo della borsa di Wall Street. Sul piano politico, la crisi economica ave­ va messo fine alla lunga stagione liberale apertasi nella seconda metà del XIX secolo e portato alla nascita di regimi di stampo autoritario che, in ambito economico, avevano promosso un crescente interventi­ smo dello Stato in economia, con l’adozione di misure protezionistiche

Lo scontro Est-Ovest e la sua ricaduta nelle politiche nazionali

e una vasta opera di nazionalizzazioni. Il nuovo modello economico, affermatosi nel corso degli anni Trenta e Quaranta, sarebbe stato in se­ guito definito «industrializzazione per sostituzione delle importazio­ ni»; in sostanza, i governi puntavano a favorire la crescita dell’industria nazionale e fabbricare localmente la maggior parte dei prodotti in pre­ cedenza acquistati dall’estero. Improntata a uno spirito di fervente nazionalismo, che ben si sposava con l'ideologia dei regimi autoritari, questa politica economica conobbe un impulso ulteriore dopo la Seconda Guerra mondiale, quando si al­ lentarono ancor di più i vincoli economici e commerciali con l’Europa. Al tempo stesso, tuttavia, tale politica protezionista e tendenzialmente autarchica finì in molti casi per scontrarsi con gli interessi delle grandi corporations americane e dello stesso governo di Washington che, fin dagli anni Venti, si erano legati profondamente alle economie dei Paesi del Centro e del Sud America. Dopo il 1945, poi, agli interessi economi­ ci si aggiunsero da parte degli Stati Uniti quelli politico-strategici, fina­ lizzati a mantenere l’area latinoamericana fuori dall’influenza sovietica. Rilanciando la tradizione del «panamericanismo», che doveva garantire l’egemonia statunitense sull’intero continente, gli Stati Uniti promosse­ ro quindi, nel 1948, l’istituzione dell’Organizzazione degli Stati ameri­ cani (^>) al fine di incentivare la cooperazione economica e politica fra i Paesi latinoamericani e impedire la penetrazione comunista. Dal punto di vista ideologico, i regimi politici che si instaurarono in America Latina fra gli anni Trenta e Quaranta, definiti «populisti» dal­ la storiografia e caratterizzati da una concezione sociale antiliberale e organicista, percorsero la via della nazionalizzazione delle masse e della loro integrazione aU’interno di un nuovo ordine di natura corporativa. Chiesa ed esercito diventarono, nella maggior parte dei casi, le istituzio­ ni tutelari dell’identità nazionale e i regimi populisti, respingendo gli or­ dinamenti del sistema liberale, si costruirono sul legame diretto e indivi­ sibile tra il leader e le masse. Nel complesso si trattò di regimi che gode­ vano di una base sociale piuttosto ampia, in taluni casi tra i lavoratori delfindustria, in altri tra le masse contadine. Promuovendo il mito di una comunità organica e omogenea minacciata dalle forze esterne o in­ terne che attentavano alla sua coesione, i populismi latinoamericani tendevano a imporre una logica manichea, di tipo amico/nemico, a tutti gli eventuali conflitti politici o ideologici. Se il regime e il suo leader, in­ fatti, rappresentavano il «popolo» nella sua totalità e nella sua indivisi­ bile identità, i conflitti politici erano fatti apparire come vere e proprie guerre di religione, manifestazioni tangibili della lotta secolare tra «na­ zione» e «antinazione», tra «popolo» e «antipopolo». Tra questi regimi forse il più importante e meglio strutturato fu quel­ lo instaurato in Argentina nel 1946 dal colonnello Juan Domingo Perón (—>-) che governò il Paese fino al 1955, quando venne rovesciato dalla co­ siddetta revolution libertadora (—>-) e fu costretto ad abbandonare il Pa­ ese. Ritornatovi da trionfatore nel 1973, rimase al potere fino all’anno successivo, quando morì. Complesso e articolato al suo interno, il regime peronista si fece espressione di una particolare via d’accesso alla moder­ nizzazione, antiborghese e antiliberale, fondata su nazionalismo e antim-

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Il nuovo modello economico autarchico e protezionista

Lo scontro con gli interessi statunitensi

Il rilancio del «panamericanismo» e l'Organizzazione degli Stati americani

Legame diretto tra leader e masse e concezione organicistica della società

Il caso dell'Argentina

Il regime peronista

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Il sostegno della Chiesa, dell'esercito e dei ceti meno abbienti

L'utopia della «terza posizione» nell'ordine mondiale

Il Brasile

\!Estado Novo à\ Vargas

Il colpo di stato militare

Storia contemporanea

perialismo, su un’ampia distribuzione della ricchezza e sulla dottrina so­ ciale cattolica; il tutto plasmato dal mito di un’armonia sociale e politica che aveva il proprio fondamento nell’identità latina e cattolica della na­ zione argentina. Perón governò a lungo col sostegno della Chiesa e dei militari, ma soprattutto delle classi lavoratrici e dei ceti meno abbienti, grazie anche al carisma e alPattivismo politico della moglie Èva Duarte (->-), che coi sindacati e le masse dei descamisados (—>) creò un legame quasi mistico. Come sul piano ideologico, così anche in economia Perón perseguì, con successo fino all’inizio degli anni Cinquanta, la ricerca di una «terza via» fra socialismo e capitalismo: nazionalizzò importanti set­ tori dell’economia, adottò piani quinquennali di sviluppo per favorire l’industrializzazione e rendere l’Argentina autosufficiente. Al tempo stesso varò una vasta legislazione sociale e utilizzò la ricchezza prodotta dalle esportazioni agricole per fare lievitare i salari dei lavoratori, la cui produttività tese però a diminuire drasticamente, e accrescerne i consu­ mi, alimentando al tempo stesso l’inflazione. In campo internazionale, la politica di Perón fu rivolta a dare lustro al ruolo dell’Argentina nel nuovo ordine mondiale, presentandola come una nazione forte, volitiva e indipendente dalle logiche degli schieramenti bipolari; in sostanza, con la dottrina della «terza posizione», Perón contava di fare del suo Paese il polo di attrazione per tutte le na­ zioni ispaniche e cattoliche, latinoamericane e possibilmente anche eu­ ropee, creando così un blocco indipendente e autonomo dagli Stati Uni­ ti e dall’Unione Sovietica. Tale tentativo, tuttavia, si rivelò ben presto un’utopia, soprattutto nel momento in cui, all’inizio degli anni Cinquan­ ta, le tensioni della Guerra Fredda raggiunsero il culmine. La stessa Santa Sede, tra l’altro, sulla cui benevolenza contava Perón, cominciò a vedere con perplessità la «terza posizione» peronista, temendo che rom­ pesse l’unità e la compattezza dell’Occidente cristiano dinanzi al comu­ niSmo sovietico. Per certi aspetti analoghe a quelle dell’Argentina furono le vicende che caratterizzarono la storia del Brasile fra gli anni Trenta e Cinquan­ ta. Nel 1930, infatti, i militari avevano portato al potere Getulio Vargas (—►), che nel 1937 impose una dittatura dai tratti populisti chiamata Estado Novo, duramente oppressiva nei confronti delle opposizioni e al contempo attenta a integrare i lavoratori urbani attraverso l’introduzio­ ne di primi provvedimenti di legislazione sociale. Deposto nel 1945, Vargas tornò al potere cinque anni dopo attraverso libere elezioni, ri­ proponendo una politica antiliberale e nazionalista. Schiacciato dagli scandali e dalle pressioni di militari e oppositori, si suicidò nel 1954, la­ sciando un’eredità politica di cui nel 1961 si fece carico Joào Goulart (—»•), anch’egli fautore di una «terza via» fra Stati Uniti e Unione So­ vietica. Nel 1964, tuttavia, temendo gli effetti delle sue politiche popu­ liste sullo sviluppo nazionale e la radicalizzazione dei ceti popolari, i militari ripresero il potere e imposero un duro regime repressivo. Da allora, e per il successivo ventennio, cercarono di prevenire le tensioni sociali e la diffusione del socialismo tenendo sotto rigido controllo la vita politica e incoraggiando lo sviluppo economico attraverso l’afflus­ so di capitali stranieri.

Lo scontro Est-Ovest e la sua ricaduta nelle politiche nazionali

Già in precedenza, comunque, i principali elementi ideologici, politi­ ci, sociali ed economici del populismo latinoamericano avevano trovato espressione in Messico durante la presidenza di Làzaro Càrdenas tra il 1934 e il 1940 (cap. 3.2). Durante il suo governo venne infatti varata una radicale riforma agraria, furono nazionalizzate le compagnie petrolifere statunitensi e fu creato il Partito rivoluzionario istituzionale, destinato a fungere da collettore e organizzatore dei più importanti settori sociali e delle maggiori corporazioni del Paese, al punto da trasformarsi per il re­ sto del secolo nel perno di un sistema politico a partito unico o quasi. Nel corso degli anni Sessanta il panorama politico-economico si mo­ dificò in tutta l’America Latina. Se da un lato, infatti, l’autarchia dei re­ gimi populisti rivelò tutti i suoi limiti strutturali, causando un aumento vertiginoso dell’inflazione e l’inasprimento dei conflitti sindacali, dall’altro cominciarono a diffondersi in molti punti del continente, sulla scorta dell’esempio cubano, guerriglie di ispirazione marxista e antim­ perialista, che nelle grandi disuguaglianze politiche e sociali dell’area trovarono la loro base e forza. La rivoluzione cubana rappresentò, infat­ ti, uno spartiacque nella storia dei Paesi latinoamericani. A Cuba la dit­ tatura reazionaria di Fulgencio Batista (—»-) fu abbattuta nel 1959, dopo tre anni di aspra guerriglia, dal movimento rivoluzionario guidato da Fidei Castro, al cui interno un ruolo di primo piano fu svolto dal guerri­ gliero ed ex medico argentino Ernesto «Che» Guevara (—►). Giunto al potere, Castro procedette immediatamente alla nazionalizzazione dei principali settori produttivi e a una radicale riforma agraria, colpendo tra l’altro i cospicui interessi maturati dalle compagnie statunitensi nell’economia cubana. Come risposta gli Stati Uniti, che pure non avevano ostacolato la ri­ voluzione castrista ma ora ne temevano un’evoluzione in senso sociali­ sta, imposero all’isola numerose sanzioni, fino a un completo embargo commerciale. Castro intanto s’era rivolto all’Unione Sovietica, dove Chruscev si impegnò a diventare il principale acquirente dello zucchero cubano a prezzi superiori a quelli del mercato internazionale e a fornir­ gli sostegno politico e militare. L’avvicinamento del regime cubano a Mosca, che rischiava di compromettere la tradizionale egemonia statu­ nitense nell’area latinoamericana e, soprattutto, di allargare a questa re­ gione il conflitto bipolare, indusse gli Stati Uniti a concepire e finanzia­ re un intervento militare di esuli anticastristi a Cuba. La spedizione de­ gli esuli, che nell’aprile del 1961 sbarcarono presso la baia dei Porci, si risolse però in un totale fallimento. Male organizzata e fronteggiata dal­ le truppe cubane, la spedizione degli esuli non soltanto non portò al ro­ vesciamento di Castro, ma costituì un grave smacco per l’amministra­ zione americana. Mentre i legami tra l’Unione Sovietica e il regime castrista si intensi­ ficarono ulteriormente negli anni successivi causando, come vedremo (cap.12.5), un grave crisi internazionale nel 1962, Cuba divenne in poco tempo il principale punto di riferimento e modello per i movimenti rivo­ luzionari latinoamericani. Lo stesso Guevara, dopo essere stato mini­ stro e stretto collaboratore di Castro, lasciò Cuba per accendere «fuo­ chi» di guerriglia rivoluzionaria, dapprima in Africa, poi in America

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Il Messico

Un sistema a partito unico

La rivoluzione cubana guidata da Castro

L'avvicinamento di Cuba all'URSS

Il fallimento della spedizione degli esuli anticastristi

Il modello cubano e i movimenti rivoluzionari latinoamericani

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L'instaurazione dei regimi militari in molti Paesi

L'egemonia degli USA in America Latina

I militari al potere in Uruguay e Cile

Storia contemporanea

Latina. Anche se altrove questi movimenti non riuscirono a prendere il potere, sia per le dure repressioni militari sia per l’impossibilità di repli­ care la peculiare esperienza cubana, l’esperimento di Cuba, fondato sull’incontro tra nazionalismo populista e socialismo e condito dal cari­ sma di Castro e del «Che», attrasse numerosi studenti, intellettuali e sa­ cerdoti. Proprio in America Latina, infatti, nacque alla fine degli anni Sessanta la Teologia della Liberazione, attraverso la quale un vasto set­ tore del clero si impegnò nell’organizzazione di movimenti sociali e po­ polari, in taluni casi perfino rivoluzionari, per l’emancipazione delle masse (cap. 11.4). Gli anni Sessanta videro, in un clima di crescente instabilità politica, agitazione sociale e polarizzazione ideologica, l’instaurazione di regimi militari in numerosi Paesi dell’America Latina. Tali regimi sorsero per lo più sul modello di quello imposto in Brasile dal golpe del 1964 e sono spesso definiti regimi burocratico-autoritari. Le forze armate vi mono­ polizzarono il potere politico, lasciando la gestione economica a tecno­ crati civili. Antipopulisti e anticomunisti, tali regimi rilanciarono l’accu­ mulazione del capitale, imputando alle politiche distributive dei populi­ sti di avere bloccato lo sviluppo, e denunciarono la diffusione del comuniSmo nella regione aderendo all’alleanza occidentale. Al cospetto del malessere economico e del disordine sociale, i militari costruirono la propria legittimazione sulla promessa di garantire ordine e sviluppo economico. Sostenuti nella maggior parte dei casi da un nutrito fronte di élite economiche e ceti medi, acuirono la tradizionale lotta contro i co­ siddetti «nemici interni» della nazione e la repressione, contro le sini­ stre, i sindacati e gli intellettuali fu delle più dure. Ispirate alla «dottrina della sicurezza nazionale», che faceva deH’anticomunismo e del decollo economico le proprie bandiere, queste dittature contribuirono per molti aspetti a rinsaldare l’egemonia degli Stati Uniti in America Latina. Tra i maggiori Paesi solo il Messico evitò di cadere sotto il dominio dei militari, benché non vi mancassero violenti conflitti sociali e misure di repressione politica. D’altro canto, quella messicana non era ancora una vera democrazia di stampo parlamentare visto l’indiscusso domi­ nio esercitato dal Partito rivoluzionario istituzionale, erede della Rivo­ luzione del 1910. All’inizio degli anni Settanta, infatti, i militari assun­ sero il potere anche in due nazioni dove la stabilità degli ordinamenti democratici sembrava consolidata e garantita da una lunga tradizione, ovvero Uruguay e Cile. In Uruguay nel giugno 1973, sull’onda di una gravissima crisi economica e delle tensioni sociali e politiche culminate nella diffusione del movimento rivoluzionario dei Tupamaros (—>■), un intervento militare rovesciò le istituzioni democratiche, instaurando una dittatura violenta e repressiva che colpì soprattutto i sindacati e i partiti di sinistra. In Cile le elezioni del 1970 avevano portato alla presidenza il socia­ lista Salvador Allende (—>) a capo della coalizione di Unidad Popular, di cui era parte anche il Partito comunista. Benché guidasse una coalizione litigiosa e un governo privo di maggioranza parlamentare, e nonostante la viscerale ostilità degli Stati Uniti e della borghesia cile­ na, Allende imboccò la strada della costruzione del socialismo per via

Lo scontro Est-Ovest e la sua ricaduta nelle politiche nazionali

democratica, con l’effetto però di esacerbare i conflitti sociali e ideolo­ gici che attraversavano la società cilena. Avversato dai militari e dalle élite economiche, sottoposto al boicottaggio degli USA e inviso a una parte del suo stesso partito, Allende fu rovesciato nel settembre del 1973 da un violento golpe guidato dal generale Augusto Pinochet (—>-); il golpe venne appoggiato dal governo di Washington, assai favo­ revole a mettere fine ad un’esperienza che ne minacciava la leadership sull’intera regione. La fine dei regimi democratici di Uruguay e Cile, sostituiti entrambi da dittature militari sanguinarie, sembrò confermare la cronica difficol­ tà dell’America Latina a imboccare la strada della modernizzazione economica e sociale senza il pesante fardello deH’autoritarismo politico e della repressione militare. Se, infatti, dopo la Seconda Guerra mon­ diale, molti Paesi latinoamericani avevano conosciuto un discreto am­ modernamento delle loro strutture economico-sociali, fatto di indu­ strializzazione, inurbamento, crescita dei consumi e della scolarizzazio­ ne, tale progresso non era riuscito a sposarsi al consolidamento della democrazia politica. Le fratture sociali tra le ricche borghesie, per lo più bianche, e le grandi masse di poveri, spesso indiane o afroamericane, avevano favorito, nel processo di nazionalizzazione della politica, l’at­ tecchimento di ideologie più o meno radicali e rivoluzionarie: dalla pro­ messa di redenzione sociale che si fece gradualmente strada in molti am­ bienti del clero cattolico, ai numerosi e variegati gruppi di ispirazione marxista. Unite allo straordinario radicamento di un immaginario so­ ciale che concepiva la società come un organismo armonico e omoge­ neo, tali circostanze ostacolarono per molto tempo l’accettazione dei parametri e delle forme politiche della democrazia rappresentativa, fat­ ta inevitabilmente di pluralismo e conflittualità.

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li golpe del generale Pinochet appoggiato dagli USA

12.5 Gli Stati Uniti e la crisi del consenso liberale: da Kennedy a Johnson Le elezioni presidenziali del 1960 furono vinte dal giovane candidato democratico, già senatore del Massachussets, John Fitzgerald Kennedy. Grazie a una campagna elettorale ben orchestrata e alla sua straordina­ ria capacità di utilizzare il mezzo televisivo, Kennedy riuscì a sconfigge­ re, sebbene di misura, il candidato repubblicano Richard M. Nixon (—*■). Il nuovo presidente presentò un programma di rinnovamento di ampio respiro improntato a proseguire, in politica interna, sulla strada tracciata dal New Deal rooseveltiano degli anni Trenta (cap. 6.7) e, in politica estera, a ribadire la centralità statunitense ma con un’attenzione particolare ai problemi della povertà e del sottosviluppo. Proponeva, in­ somma, agli americani di indirizzarsi verso una «nuova frontiera» di progresso economico, culturale, civile. Sul fronte della politica internazionale Kennedy si impegnò subito per colmare le lacune del sistema difensivo americano rispetto a quello sovietico; accrebbe gli investimenti per lo sviluppo del sistema missilistico e delle forze convenzionali e potenziò a tutti i livelli la ricerca tecno-

L'elezione di Kennedy

La «nuova frontiera»

Gli investimenti militari e la ricerca tecnologica

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La coesistenza pacifica con l'URSS

La coesistenza «competitiva» nelle aree del Terzo Mondo

La crisi di Cuba

Le basi missilistiche sovietiche a Cuba

Il blocco navale americano

Il superamento della crisi

Storia contemporanea

logica, con l’ambizioso progetto, poi effettivamente realizzato, di porta­ re entro il decennio l’uomo sulla Luna. Rispetto all’amministrazione Eisenhower, che aveva ridotto le spese sugli armamenti e puntato a rendere l’Europa occidentale il più possibile autonoma sul piano milita­ re, Kennedy era convinto che gli Stati Uniti dovessero disporre di un consistente potenziale strategico con cui rispondere a qualsiasi poten­ ziale minaccia. D ’altro canto, il suo atteggiamento nei confronti dello scontro bipolare con l’URSS volle essere più dinamico e flessibile ri­ spetto a quello delle amministrazioni precedenti. Il mancato intervento americano al momento della costruzione del Muro di Berlino, accompa­ gnato però dalla ferma decisione di voler difendere a qualunque costo Berlino Ovest, fu la prova che Kennedy intendeva accettare lo status quo in Germania e, di fatto, in tutta Europa (cap. 10.2). La coesistenza pacifica, così come l’aveva proposta il leader sovietico Chruscev, fu dunque fatta propria da Kennedy che nel 1963 siglò un ac­ cordo con Mosca che prevedeva l’impegno comune a evitare che Cina e Germania si dotassero di armi nucleari. Laddove, invece, la coesistenza tra le due superpotenze divenne «competitiva» fu nelle aree del Terzo Mondo, verso cui la politica estera sovietica mostrava un crescente in­ terventismo già dalla seconda metà degli anni Cinquanta. La crisi più grave scoppiò a Cuba dove il regime di Castro, come abbiamo visto, si era progressivamente avvicinato all’URSS. Fallita nel 1961 l’operazione di sbarco degli esuli cubani presso la baia dei Porci per abbattere il regi­ me castrista (cap. 12.4), Kennedy decise di cambiare tattica e attraverso l’Alleanza per il Progresso, da cui Cuba fu esclusa, stanziò diversi milio­ ni di dollari per finanziare un piano di aiuti economici ai Paesi latinoa­ mericani, sull’esempio del Piano Marshall del 1947. Nel 1962, tuttavia, i problemi con Cuba si ripresentarono e in una forma che sembrò portare il mondo sull’orlo di una guerra nucleare. Chruscev, infatti, aveva deciso di rafforzare l’alleanza con Castro anche sul piano militare e stava installando a Cuba delle basi per missili nucle­ ari a raggio intermedio; un atto che serviva sia a Cuba, nel caso di un’eventuale aggressione americana, sia all’URSS per modificare l’equi­ librio strategico ancora a vantaggio degli Stati Uniti. Quando, in autun­ no, i servizi americani scoprirono le installazioni missilistiche, Kennedy si trovò nella difficile situazione di dover scegliere il tipo di risposta da dare; mentre alcuni settori dell’amministrazione americana erano favo­ revoli al bombardamento delle basi, Kennedy optò per una soluzione meno aggressiva e pose un blocco navale attorno all’isola, cosa che avrebbe impedito alle navi sovietiche che trasportavano altri missili di arrivare a Cuba. Chruscev non si spinse fino a ordinare il forzamento del blocco e dopo alcuni giorni di grande tensione la crisi rientrò. L’Unione Sovietica accettò di ritirare i missili da Cuba in cambio della promessa americana di non violare il regime di Castro; in virtù poi di un accordo segreto con Chruscev, il presidente americano si impegnava a ritirare i missili nucleari della NATO dalla Turchia. Proprio come nel caso del Muro di Berlino, anche a Cuba la crisi fu superata attraverso una soluzione di compromesso fra i leader delle due maggiori potenze che, in questo modo, finivano per riconoscersi una reciproca legittimità

Lo scontro Est-Ovest e la sua ricaduta nelle politiche nazionali

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e per accettare lo status quo delle sfere di influenza. Pur non venendo meno, l’antagonismo tra USA e URSS cominciava a perdere i caratteri aggressivi e la dimensione fortemente ideologica dei primi anni. Anche in politica interna Kennedy cercò di proporre un programma innovativo di riforme sociali in linea con il progetto della «nuova fron­ tiera» e a tal fine aumentò notevolmente la spesa pubblica. Tuttavia, no­ nostante lo straordinario consenso di cui godeva nel Paese, incontrò enormi difficoltà a far approvare le sue proposte dal Congresso. Anche se vi era una solida maggioranza democratica, l’ala più moderata dei de­ putati democratici spesso votava assieme ai repubblicani e molti punti del programma presidenziale non furono approvati (come l’assicurazio­ L'opposizione ne contro le malattie per gli anziani, un fondo per l’istruzione, leggi del Congresso alle riforme sociali sull’immigrazione e un ministero per lo sviluppo del territorio). Kennedy si trovò anche a dover far fronte alla forte crescita dei mo­ di Kennedy vimenti antisegregazionisti, attivi soprattutto negli Stati del sud e volti a mettere fine a tutte le forme di discriminazione di cui erano vittime La crescita gli afroamericani nel lavoro, nelle scuole, sui mezzi di trasporti e nei dei movimenti luoghi pubblici. Il problema della segregazione dei neri non era nuovo, antisegregazionisti ma fino alla metà degli anni Cinquanta i leader dei movimenti per i di­ ritti degli afroamericani si erano sempre valsi dell’aiuto deWestablishment politico tradizionale, ovvero della classe dirigente bianca. Le cose cominciarono a cambiare tra il 1955 e il 1956, quando a Montgo­ mery, in Alabama, gli attivisti locali per i diritti degli afroamericani e in particolare il Women’s Politicai Council (—»-) organizzarono il boi­ cottaggio pacifico dei mezzi pubblici, che coinvolse tutta la popolazio­ Il boicottaggio pacifico ne di colore e durò per molti mesi. Alla fine del 1956 la Corte Suprema dei mezzi pubblici degli Stati Uniti decretò che la segregazione razziale sugli autobus di li­ nea urbana era anticostituzionale. Questo successo spinse il movimen­ to afroamericano, con la nuova leadership del pastore battista Martin Luther King (->-), a continuare sulla strada delle manifestazioni pacifi­ che, organizzando boicottaggi, dimostrazioni, marce, veglie e sit-in che La leadership di King assumevano i caratteri di veri atti politici di protesta e vedevano la par­ e le manifestazioni tecipazione anche di giovani bianchi. Molte volte, però, questi «viaggi pacifiche della libertà» (freedom rides), con cui gruppi di giovani facevano pro­ paganda non violenta per i diritti civili negli Stati del sud, si scontrava­ no con la reazione razzista della popolazione bianca e delle stesse am­ ministrazioni, tanto che in più di un caso l’autorità federale dovette in­ viare l’esercito a protezione dei dimostranti. Sensibile alle richieste dei neri e spinto dal movimento sempre più vasto che si era raccolto attorno a King, il presidente Kennedy, nell’aprile 1963, chiese al Congresso di emanare leggi per garantire a tutti i cittadini uguale accesso ai servizi e alle strutture pubbliche e pri­ vate, vietare la discriminazione nelle assunzioni e impedire al governo federale di fornire aiuti finanziari a programmi o attività che contem­ plassero forme di discriminazione razziale. Sempre nel 1963 King or­ ganizzò una spettacolare marcia a Washington, che vide la partecipa­ La marcia zione di 250.000 persone e si concluse con un discorso sul sogno («/ ba­ a Washington ve a dream») di libertà e uguaglianza da realizzare per tutti gli americani. L’anno successivo il Senato varò il Civil Rights Act, la più

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La legge sui diritti civili

L'assassinio di Kennedy

Le violenze dei bianchi razzisti e xenofobi

Le riforme della presidenza Johnson

Storia contemporanea

completa legge sui diritti civili mai approvata negli Stati Uniti, con la quale il sistema della segregazione legalizzata crollava e il principio co­ stituzionale di uguaglianza otteneva una decisa estensione. Kennedy, tuttavia, non potè assistere a questo importante provvedimento perché fu ucciso a Dallas il 22 novembre 1963, in un attentato sul quale non è stata ancora fatta piena chiarezza. Il movimento per l’emancipazione dei neri continuò, tuttavia, anche dopo la promulgazione del Civil Rights Act. Accanto al gruppo non vio­ lento di King, che puntava alla piena integrazione fra bianchi e afroame­ ricani, esisteva infatti un movimento separatista che si batteva per la Ri­ voluzione Nera e l’affermazione della superiorità razziale dei neri. Fon­ data sul black pride, la corrente separatista valorizzava le qualità insite nell’«africanità» e non escludeva l’uso della violenza come forma di lot­ ta e di autodifesa. Leader del movimento fu Malcolm X (—►) che, con­ vertitosi all’islam, si era avvicinato al gruppo dei Black Muslims (—►) i quali, nel nome della religione islamica, aspiravano a unire tutti i neri americani per la conquista del potere. Le violenze di questi gruppi inte­ ressavano soprattutto i ghetti urbani del nord del Paese, dove i problemi riguardanti la povertà, l’emarginazione sociale e il razzismo venivano letti come la prova che la semplice estensione o reintegrazione dei diritti non era sufficiente alla piena emancipazione degli afroamericani. Negli Stati del sud continuavano inoltre a essere presenti organizzazioni di bianchi razzisti e xenofobi, quali il Ku Klux Klan, contrarie al processo di de-segregazione, che furono all’origine di un continuo crescendo di disordini e violenze per tutta la seconda metà degli anni Sessanta. Il vicepresidente di Kennedy, Lyndon B. Johnson (—►), che gli su­ bentrò alla presidenza dopo l’attentato di Dallas, favorito anche dal grande boom economico che stavano attraversando gli USA, nel giro di un anno riuscì a far approvare dal Congresso le principali riforme previ­ ste dalla «nuova frontiera» del suo predecessore. Confermato alla presi­ denza nelle elezioni del 1964, Johnson fece stanziare un miliardo di dol­ lari per una «guerra totale contro la povertà»; il suo obiettivo, come dis­ se, era di creare una «grande società» più equa e più libera. Venne quindi varato un ampio sistema di assicurazioni sanitarie gratuite per gli anziani e i poveri, furono incrementati i sussidi di disoccupazione, fu ri­ formato il sistema scolastico, soprattutto per favorire la scolarizzazione dei neri, e si revisionarono le leggi sull’immigrazione. Per combattere la discriminazione verso gli afroamericani, Johnson istituì commissioni ministeriali che dovevano agevolare il processo di integrazione e fu va­ rata una riforma della legge elettorale che aboliva tutti quei meccanismi volti, di fatto, a disincentivare la partecipazione politica dei neri. Anche se, in generale, la fascia della povertà restava molto estesa fra la popola­ zione di colore, durante l’amministrazione Johnson il reddito medio del­ le famiglie nere crebbe di circa il 33%, mentre il numero dei rappresen­ tati afroamericani eletti nei vari enti, pur rimanendo sempre molto bas­ so, aumentò di cinque volte. La legislazione assistenziale e il forte incremento delle spese sociali, che raggiunsero il 30% del PIL, non diedero vita, tuttavia, a un modello di Welfare State analogo a quello europeo. Non venne creato infatti un

Lo scontro Est-Ovest e la sua ricaduta nelle politiche nazionali

sistema sanitario nazionale, né un unico sistema di assistenza sociale per le famiglie bisognose; questo sia per l’opposizione di grossi centri di potere economico, sia per la diversa impronta culturale che, tradizional­ mente, aveva plasmato il rapporto tra Stato e società negli Stati Uniti. Gli anni tra il 1965 e il 1968 videro un aumento del malessere e delle tensioni nei ghetti neri delle città del nord e i prodromi di un movimento di contestazione giovanile che, iniziato nel 1964 all’università di Berkley in California, sarebbe esploso in modo radicale nel 1968. Il movimento di protesta dei giovani era indirizzato sia contro la società americana, vista come un sistema di potere antidemocratico e autoritario maschera­ to sotto il velo del benessere e del conformismo, sia contro il crescente impegno americano nella guerra del Vietnam che, come vedremo, avrebbe impegnato le truppe americane nel teatro indocinese per quasi dieci anni. Fu lo stesso Johnson, infatti, a incrementare progressivamen­ te la presenza militare americana nella guerra tra Vietnam del Nord e Vietnam del Sud e a portare le spese militari dai 53 miliardi di dollari del 1964 ai 70 miliardi del 1967. Sopraffatto dalle violente manifestazio­ ni di protesta che accompagnarono la campagna presidenziale del 1968 e da una strepitosa offensiva dei vietcong (—>-), che convinse l’opinione pubblica americana deH’impossibilità di vincere la guerra, Johnson si ri­ tirò dalla corsa per il rinnovo del mandato presidenziale.

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Il movimento di contestazione giovanile

Il crescente impegno militare americano nella guerra del Vietnam

12.6 Alle origini dell'Unione europea L’ideale dell’integrazione europea, che affondava le radici nella ri­ flessione degli intellettuali e dei politici liberali, socialisti e democrati­ co-cristiani di fronte alla crisi delle liberal-democrazie negli anni tra le due guerre mondiali, ricevette un impulso fondamentale dai vari movi­ menti nazionali di resistenza al nazifascismo. Alla fine degli anni Quaranta, dinanzi al crescere della tensione tra Est e Ovest, l’idea di un’Europa unita prese forma in modo più concreto per far fronte soprattutto a due necessità. Da un lato, quella di scongiurare in futuro un altro bagno di sangue causato dal conflitto dei nazionalismi e garantire una forte crescita economica dei Paesi del vecchio continente; dall’altro, per l’esi­ genza dei Paesi dell’Europa occidentale di creare un forte nucleo di Sta­ ti democratici a economia liberale da contrapporre al gigante sovietico e al blocco dei suoi Paesi satelliti. Il primo concreto impulso alla creazione di un’Europa unita si eb­ be il 9 maggio 1950 e fu il frutto dell’intesa franco-tedesca. Con un intervento di fronte alla stampa estera, diventato in seguito noto come Dichiarazione Schuman (->-), il ministro degli Esteri francese Schuman, riprendendo le linee del piano elaborato dal suo stretto collabo­ ratore Jean Monnet, proponeva alla Germania Ovest di mettere in co­ mune la produzione e il commercio di carbone e acciaio, le due mate­ rie prime alla base dello sviluppo industriale e militare europeo. L’immediata risposta positiva del cancelliere tedesco Adenauer, oltre alle importanti ricadute di matrice economica, ebbe un notevole im­ patto simbolico: le due nazioni europee che negli ultimi ottant’anni si

L'idea di un'Europa unita

L'intesa franco-tedesca

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La Comunità europea del carbone e dell'acciaio

Il progetto di istituzione della Comunità europea di difesa

Il trattato di Roma e l'istituzione della CEE e deM'EURATOM

Storia contemporanea

erano più volte scontrate militarmente decidevano non solo di abban­ donare qualsiasi contenzioso bellico, ma addirittura di integrare uno dei settori industriali di maggior importanza strategica e causa, in pas­ sato, di aspre rivalità. Pochi mesi più tardi la proposta di condividere la produzione di carbone e acciaio venne allargata ad altri Stati euro­ pei e nell’aprile del 1951 si giunse alla firma, a Parigi, del trattato della CECA, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, sottoscritto da Francia, Repubblica federale tedesca, Italia, Belgio, Olanda e Lussem­ burgo (cap. 9.6). Favorevoli a potenziare la ripresa economica della Germania Ovest, i Paesi europei si scontrarono invece quando, al momento dello scoppio della guerra di Corea, il timore che il conflitto Est-Ovest potesse esten­ dersi all’Europa pose il problema del riarmo della Germania. Alle pressioni inglesi e americane in questa direzione si opponeva infatti il diffuso scetticismo della Francia, per nulla disposta ad accettare una Germania nuovamente forte dal punto di vista militare. Una possibile soluzione fu avanzata dalla Francia stessa che, con il piano Pleven (->-), propose la creazione di un sistema di difesa integrato tra i Paesi della CECA. Fu pertanto firmato, nel maggio 1952, il trattato per l’istituzio­ ne della Comunità europea di difesa, che al suo interno prevedeva an­ che la creazione di una vera e propria Comunità politica europea (CPE), clausola questa fortemente voluta dal presidente del Consiglio italiano De Gasperi. Il lento iter di ratifica (l’Italia non giunse mai al voto parlamentare) confermò l’impressione che la strada verso una vera e propria unità politica fosse ancora irta di ostacoli. Nel frattempo, la morte di Stalin attenuò le apprensioni dei governi europei per un possi­ bile nuovo conflitto. Anche per questo, oltre che per le mutate condi­ zioni politiche interne, il Parlamento francese respinse nell’agosto del 1954 il progetto per la creazione della CED, partito proprio dalla Fran­ cia. Terminava così il primo tentativo di creare un embrione di difesa comune e dunque di unità politica dell’Europa. Nonostante il fallimento della CED, gli ottimi risultati ottenuti dalla CECA spinsero i governi firmatari a proseguire sulla strada di un accor­ do che non riguardasse solo la produzione di acciaio e carbone, ma che coinvolgesse più in generale le politiche economiche nazionali e la pos­ sibilità di creare un’area comune di libero scambio. La ripresa del pro­ getto europeista fu dovuta, in questa nuova fase, soprattutto all’opera di mediazione politico-diplomatica del primo ministro belga Paul-Henry Spaak (•—»-). Grazie all’appoggio italiano e tedesco, egli giunse a convo­ care nel giugno 1955 la Conferenza di Messina, dove i sei Paesi della CECA posero le basi per la creazione di un mercato economico comune e di una comunità europea per la gestione dell’energia atomica. Tale progetto si realizzò compiutamente due anni dopo, con la firma, il 25 marzo 1957, del trattato di Roma fra Italia, Francia, Germania Ovest, Belgio, Olanda e Lussemburgo che istituiva la Comunità economica eu­ ropea e l’EURATOM (cap. 10.2). L’accordo prevedeva la formazione di una vera e propria unione doganale per i prodotti agricoli e industriali, attraverso una graduale riduzione delle tariffe e una progressiva libera­ lizzazione dei movimenti delle persone e dei capitali.

Lo scontro Est-Ovest e la sua ricaduta nelle politiche nazionali

Tra gli organi principali della CEE vi erano la Commissione, con compiti di natura tecnica e di attuazione, il Consiglio dei ministri, for­ mato dagli Stati membri rappresentati dal ministro competente sull’ar­ gomento in agenda, la Corte di giustizia e il Parlamento europeo. Quest’ultimo, che inizialmente aveva funzioni solo consultive ed era composto da rappresentanti nominati dai singoli governi nazionali, dal 1979 viene eletto a suffragio universale dai cittadini dei Paesi membri e possiede maggiori prerogative, soprattutto nell’ambito del controllo e dell’iniziativa legislativa. Se gli anni Cinquanta furono quelli della nascita dell’Europa eco­ nomica, il decennio successivo fu caratterizzato dall’idea di Europa formulata dal presidente francese De Gaulle. La Francia era stata certamente il motore della nascita della CECA prima e della CEE poi. Tornato al potere nel 1958, De Gaulle mostrò fin da subito di vo­ ler accentuare il protagonismo francese in Europa, pensando all’inte­ grazione europea come strumento attraverso cui recuperare la centra­ lità di Parigi nel contesto europeo e internazionale (cap. 12.1). L’Eu­ ropa im m aginata da De Gaulle non prevedeva una stru ttu ra comunitaria e sovranazionale, ma si presentava piuttosto come un’as­ sociazione di Stati sovrani uniti da una direzione collegiale sostan­ zialmente guidata da Parigi. In questi term ini il progetto gollista ven­ ne formulato esplicitamente dal piano Fouchet (—>) del 1961, che mi­ rava ad accentuare la personalità e l’autonomia dei singoli Stati a discapito del carattere sovranazionale delle istituzioni comunitarie, ma fu respinto dagli altri Paesi. Se l’idea di De Gaulle era quella di rendere il nuovo soggetto europeo completamente autonomo rispetto alla contrapposizione USA-URSS, inaugurando una sorta di «terza via» nel quadro delle relazioni internazionali, il suo progetto necessi­ tava di due condizioni. Innanzitutto l’esclusione della Gran Bretagna, troppo vicina alle posizioni statunitensi e in grado di contendere a Pa­ rigi la leadership in Europa; e in secondo luogo un legame sempre più saldo tra Francia e Germania, sancito infatti dalla firma del trattato dell’Eliseo del 22 gennaio 1963. L’opposizione francese all’ingresso della Gran Bretagna nella CEE, che per ben due volte si era vista negare la richiesta per il veto di De Gaulle, potè essere superata solo dopo l’uscita di scena del generale dal­ la vita politica francese. La Gran Bretagna fu quindi ammessa nella CEE nel 1973 e quello fu il primo significativo allargamento dell’edifi­ cio europeo dal momento che, con Londra, entrarono anche Irlanda e Danimarca. L’ingresso della Gran Bretagna contribuì a sottrarre la CEE da una dimensione meramente continentale e ne incrementò il po­ tenziale economico-finanziario e la rilevanza diplomatica. Allo stesso modo Londra costituì, da questo momento in poi, uno dei principali ostacoli all’integrazione politica dell’Europa. Gli anni Settanta e Ottanta furono fondamentali per lo sviluppo della dimensione economica dell’Europa unita, grazie soprattutto al Si­ stema monetario europeo (1978), primo atto di un percorso che avreb­ be poi condotto all’introduzione della moneta unica il 1° gennaio 2002. Nel 1986, con la firma dell’Atto unico europeo, venne riformato il trat-

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L'idea di Europa di De Gaulle

l'opposizione francese all'ingresso della Gran Bretagna nella CEE

L'ammissione nella CEE di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca

Il Sistema monetario europeo e l'introduzione della moneta unica

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L'adesione di Grecia, Spagna e Portogallo

Storia contemporanea

tato di Roma ampliando i poteri e l’efficienza funzionale degli organi comunitari. La CEE dimostrò anche di influenzare la spinta verso la democrazia nei Paesi sottoposti a regimi dittatoriali, come Grecia, Spa­ gna e Portogallo che, una volta ripristinate le libere istituzioni parla­ mentari, aderirono alla Comunità europea tra il 1981 (Grecia) e il 1986 (Spagna e Portogallo).

Capitolo 13

I nuovi conflitti

13.1 II Vietnam 13.2 II conflitto israelo-palestinese 13.3 Lo scenario africano: il Corno d'Africa e l'Africa australe

13.1 II Vietnam La sconfitta delle truppe francesi a Dien Bien Phu nel maggio 1954 ad opera delle truppe nazionaliste e anticolonialiste del Vietminh (-+ ), l’Unione per l’indipendenza del Vietnam costituitasi nel 1941, segnò la fine della presenza coloniale francese in Indocina (cap. 10.8), che fu ra­ La fine della presenza tificata ufficialmente dalla Conferenza internazionale di Ginevra già francese in Indocina apertasi alla fine di aprile. Già nel corso del conflitto era però apparso evidente che la situazione dell’Indocina si era ormai inserita del tutto nelle dinamiche della Guerra Fredda, andando ben oltre il problema del La «teoria del domino» colonialismo francese. Proprio all’Indocina aveva fatto riferimento il di Eisenhower presidente americano Eisenhower il 7 aprile 1954 quando, in una confe­ renza stampa, aveva detto: «ci sono alcune considerazioni complessive che si potrebbero riassumere nel concetto di effetto domino. Se si di­ spongono di seguito le tessere del domino e si imprime un colpo alla pri­ ma, cadranno sicuramente anche tutte le altre». Fin dal 1949, poi, con la Rivoluzione comunista in Cina, gli americani avevano dato un significa­ to nuovo alla guerra di liberazione del Vietnam, vedendola come un ri­ flesso dell’influenza del comuniSmo cinese in Asia. Pur sostenendo lo sforzo francese di conservare il controllo dell’area, l’amministrazione Eisenhower si era comunque limitata, a differenza di quanto sarebbe avvenuto nel decennio successivo, a fornire aiuti militari senza inviare truppe combattenti o aerei propri in quel teatro. Gli Stati Uniti si appre­ stavano ora a partecipare ai negoziati di Ginevra col presupposto che l’Indocina non rappresentasse solo una questione locale e circoscritta al contesto della decolonizzazione, bensì la nuova frontiera americana contro l’avanzata del comuniSmo. Nel corso della Conferenza di Ginevra, i viet minh che si erano costi­ La Repubblica tuiti nella Repubblica democratica del Vietnam guidata dal leader co­ democratica munista Ho Chi-minh (—►), pur auspicando di vedersi riconosciuto an- del Vietnam

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Storia contemporanea

che a livello politico e territoriale la supremazia ottenuta sul campo di battaglia, furono spinti dalla Cina a cercare una mediazione con la Il regime fantoccio Francia. Fin dal 1949, infatti, i francesi avevano appoggiato il ritorno al del Vietnam del Sud potere, nella parte meridionale del Vietnam, dell’ex imperatore dell’Annam, una regione storica del Vietnam, utilizzandolo nella guerra contro le forze indipendentiste di Ho Chi-minh. Adesso, quindi, la Cina teme­ va che gli americani potessero subentrare ai francesi nel controllo del regime fantoccio del Vietnam del Sud. Di fatto, comunque, gli accordi di Ginevra, siglati il 21 luglio 1954, Gli accordi di Ginevra lasciarono in sospeso la questione dell’unificazione del Vietnam, divi­ dendone temporaneamente il territorio lungo il 17° parallelo: le zone settentrionali restavano sotto il controllo della Repubblica democratica del Vietnam guidata da Ho Chi-minh, con capitale Hanoi, mentre le re­ gioni meridionali rimanevano sotto controllo francese, in attesa che suc­ cessive elezioni avessero portato all’unificazione del Paese. Gli accordi sancirono invece l’indipendenza di Laos e Cambogia. Nel Vietnam del Nord, che cominciò subito a ricevere cospicui aiuti Gli aiuti cinesi e sovietici al Vietnam da Cina e Unione Sovietica, i viet minh accelerarono dopo il 1954 il pia­ del Nord no di nazionalizzazione delle terre e il programma di riforme volto a creare un impianto socio-economico di stampo socialista. I costi di quest’operazione furono disastrosi; l’esproprio delle terre e l’invio nei «campi di rieducazione» dei proprietari reticenti avvennero infatti al prezzo di violenze e repressioni che videro spesso affiancati i quadri del­ le sezioni locali del partito agli strati più poveri del ceto contadino. Sul piano politico la Repubblica democratica del Vietnam fece proprio il modello statuale sovietico a partito unico e Ho Chi-minh, pur rifuggen­ do dal culto della personalità proprio di altri leader comunisti, prese su di sé la dirigenza del partito e la guida dello Stato. Gli Stati Uniti, che non avevano firmato gli accordi di Ginevra per L'iniziativa degli USA contro l'avanzata non riconoscere come controparte la Cina di Mao, capirono ben presto del comuniSmo che il regime del Sud poteva trasformarsi in uno Stato-barriera contro l’espansione del comuniSmo e, già all’indomani della Conferenza del 1954, si mossero in due direzioni. Da un lato cercarono, in accordo con la Francia, di trovare per la guida del Paese un leader di sicura fede na­ zionalista, anticolonialista e anticomunista; dall’altro, si attivarono per Il governo di Saigon costruire nell’area asiatica una solida alleanza difensiva simile al Patto Atlantico. Il leader lo trovarono nel cattolico Ngo-dinh-Diem (—►), che nell’agosto 1955 assunse la guida del governo con sede a Saigon. L’accor­ La nascita della SEATO do per la formazione della SEATO fu invece siglato nel settembre 1954 tra Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda, Francia, Fi­ lippine, Thailandia e Pakistan (cap. 9.6); un protocollo separato la esten­ deva a Laos e Cambogia e al territorio del Vietnam non controllato da Hanoi. L’intera operazione rischiava tuttavia di essere vanificata se, co­ me aveva stabilito la Conferenza di Ginevra, si fosse arrivati nel 1956 a libere elezioni per determinare l’unificazione delle due parti del Vie­ tnam. Mentre gli Stati Uniti, che temevano un possibile successo delle forze comuniste anche al Sud, ritennero di non essere tenuti a far rispet­ tare gli accordi di Ginevra, Cina e Unione Sovietica non si opposero alla mancata convocazione delle elezioni.

I nuovi conflitti

Di fronte, quindi, alPormai chiara divisione del Paese, Diem si volse a rendere più solida la base del proprio potere attraverso una sistematica repressione sia dei viet minh ancora presenti al Sud, sia di qualsiasi mo­ vimento e gruppo non perfettamente allineato alla sua leadership. Inol­ tre, nonostante gli Stati Uniti avessero investito oltre un miliardo di dol­ lari per finanziare una serie di riforme economiche e sociali, Diem la­ sciò praticamente inattuato questo programma e, anziché incentivare la ripresa economica, finì per appoggiarsi sempre di più ai finanziamenti americani. Mentre il dispotismo, la capillare repressione anticomunista e l’intransigente cattolicesimo di Diem allargarono progressivamente il fronte interno del dissenso, il regime nordvietnamita cominciò a inviare ai dissidenti del Sud una serie di aiuti, anche militari, che filtravano at­ traverso il cosiddetto «sentiero di Ho Chi-minh», una rete di passaggi lungo la foresta che, attraversando il Laos, arrivavano fino alle regioni meridionali del Vietnam. Alla fine del 1960, con la nascita del Fronte nazionale di liberazione che riuniva tutti i vari oppositori al regime di Diem, dai comunisti ai buddisti, compresi i membri delle sette religiose perseguitate negli anni precedenti, il conflitto cessò di essere limitato allo scontro fra i dissiden­ ti e le forze del regime sudvietnamita per assumere proporzioni più va­ ste e tragiche. Definite erroneamente e in modo generico col termine vietcong, letteralmente «comunista vietnamita», le forze che compone­ vano il Fronte di liberazione erano in realtà assai più eterogenee. Tra i punti salienti del loro programma vi erano infatti l’impegno di rivitaliz­ zare l’economia, la riduzione dei canoni per i contadini affittuari, la re­ distribuzione delle terre, la parità tra uomini e donne, la libertà religio­ sa, la neutralità del Paese nel contesto internazionale e il rientro in pa­ tria dei consiglieri americani. Il Fronte di liberazione nazionale, che traeva legittimazione e popolarità dal fatto di porsi come erede dei viet minh vittoriosi sulla dominazione francese, si batteva inoltre per la riu­ nificazione della nazione vietnamita. Dinanzi quindi alle crescenti resistenze che incontrava il regime di Diem e soprattutto di fronte alle numerose minacce che sembravano mettere a repentaglio la sicurezza del «mondo libero», dalla crisi di Cu­ ba alla costruzione del Muro di Berlino, dalla rivolta algerina ai movi­ menti filocomunisti che si facevano sempre più radicali in Cambogia e Laos, Famministrazione Kennedy, all’inizio degli anni Sessanta, aumen­ tò gli aiuti e la presenza di consiglieri americani nel Vietnam del Sud. Questi ultimi, che nel 1961 erano solo alcune centinaia, raggiunsero nel 1963 le 15.000 unità, mentre un comando militare americano venne in­ sediato formalmente a Saigon. Quando tuttavia, tra il 1962 e il 1963, l’opposizione contro Diem si fece sempre più incontenibile e diversi bonzi, monaci di religione buddista, si tolsero la vita in segno di prote­ sta, anche Washington decise di abbandonare l’ultraconservatore Diem, che fu rovesciato da un colpo di stato militare nel novembre 1963. Nonostante la presenza americana si facesse sempre più massiccia sotto la presidenza Johnson, le difficoltà politiche e militari di Saigon non cessarono e il regime non riusciva ad avere la meglio sulla guerriglia dei vietcong, forti dei crescenti aiuti militari provenienti dalla Cina e

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Allargamento del dissenso nel Vietnam del Sud

Nasuta del Fronte nazionale di liberazione

Il termine vietcong

Gli aiuti e l'influenza degli USA nel Vietnam del Sud

Il colpo di stato militare

La guerriglia dei vietcong sostenuta da Cina e URSS

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L'intervento diretto degli USA

Le difficoltà dell'esercito americano

L'opposizione dell'opinione pubblica americana

L'offensiva del Tet

La presidenza Nixon e la «vietnamizzazione» del conflitto

Storia contemporanea

dall’URSS, del sostegno diretto delle truppe nordvietnamite e dell’ap­ poggio delle popolazioni contadine. Il governo americano quindi, dopo aver inutilmente tentato di limitare gli aiuti di Hanoi ai resistenti del Sud, arrivò, con la cosiddetta risoluzione di Tonchino del 1964 che pren­ deva a pretesto uno scontro navale avvenuto nel golfo del Tonchino tra navi americane e imbarcazioni nordvietnamite, a decidere di bombarda­ re direttamente i territori a nord del 17° parallelo. Il presidente Johnson fece infatti votare dal Congresso una risoluzione che lo autorizzava a «prendere tutti i passi necessari, incluso l’uso delle forze armate» per di­ fendere i Paesi asiatici dal comuniSmo. Pur senza tramutarsi in una vera dichiarazione di guerra, l’intervento americano si fece sempre più este­ so: con la cosiddetta operazione Rolling Thunder gli USA lanciarono infatti una massiccia campagna di bombardamenti aerei sul Vietnam del Nord che si intensificò progressivamente nei tre anni successivi. Al tem­ po stesso vennero inviati contingenti sempre più numerosi di uomini e mezzi, fino a toccare il culmine alla fine del 1968 con oltre mezzo milio­ ne di soldati americani impegnati in Vietnam. Il conflitto, che secondo le previsioni statunitensi avrebbe dovuto essere breve e non costare più di 2 miliardi di dollari l’anno, si rivelò in­ vece assai lungo, drammatico e difficoltoso. Nonostante, infatti, l’im­ piego massiccio dell’aviazione e dei più recenti e sofisticati strumenti bellici, gli Stati Uniti non riuscirono a piegare la resistenza dei vietcong. I bombardamenti indiscriminati al napalm, seppur altamente distrutti­ vi, si rivelarono infatti poco efficaci per stanare i guerriglieri nella giun­ gla. Alle difficoltà militari dell’esercito, causate dalle tecniche di guer­ riglia messe in atto dai vietcong e dal fatto che la loro strenua lotta era sostenuta da parti consistenti della popolazione sudvietnamita, si ag­ giunse ben presto anche l’opposizione di gran parte dell’opinione pub­ blica americana, che per la prima volta poteva seguire la guerra quasi in diretta attraverso la televisione e cominciò a ritenerla politicamente ingiusta e inutile. L’opposizione al conflitto in Vietnam, che spesso si intrecciava alle mobilitazioni in favore dei diritti dei neri e alle proteste del movimento giovanile e studentesco, culminò nel 1968, proprio quando le operazioni conobbero un’importante svolta dal punto di vista militare. Fra il 30 e il 31 gennaio 1968 infatti, in coincidenza col Capodanno buddista, i viet­ cong lanciarono inaspettatamente una grande offensiva, la cosiddetta of­ fensiva del Tet (—►), in tutto il Sud. Se dal punto di vista prettamente mi­ litare l’operazione fu una sconfitta per i vietcong e costò loro ingenti per­ dite, si rivelò tuttavia un grande successo simbolico perché dimostrò la capacità dei guerriglieri di andare a colpire in massa la stessa capitale del Sud, Saigon. A marzo Johnson, anche sull’onda delle proteste dell’opi­ nione pubblica americana e mondiale, ordinò quindi la parziale cessazio­ ne dei bombardamenti sul Vietnam del Nord e decise di non ricandidarsi alla presidenza (cap. 12.5). A Parigi, nel maggio successivo, si aprirono i negoziati di pace, anche se in Vietnam gli scontri non cessarono. Il nuovo presidente americano, il repubblicano Nixon, convinto che occorresse rafforzare l’esercito sudvietnamita per metterlo nelle condi­ zioni di reggere da solo la guerra contro i vietcong, lanciò quindi la co-

I nuovi conflitti

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siddetta strategia della «vietnamizzazione» del conflitto che avrebbe portato al progressivo disimpegno statunitense nella regione. Alla fine del 1971, infatti, il contingente americano si era ridotto a 140.000 uomi­ ni. Tuttavia, temendo che i vietcong prendessero la «vietnamizzazione» come un segno della debolezza americana e di fronte all’estendersi del conflitto nelle regioni limitrofe, tra il 1970 e il 1972 Nixon fece riprende­ La ripresa re i bombardamenti, dirigendoli anche contro le basi militari in Laos e dei bombardamenti Cambogia che venivano utilizzate a sostegno della guerriglia vietcong. Tra fasi alterne e contraddittorie, quindi, solo nel gennaio 1973 arrivaro­ Gli accordi di Parigi no a conclusione i negoziati di pace. Gli accordi di Parigi, siglati dal se­ sul ritiro americano gretario di Stato americano Henry Kissinger (—>■) e dal delegato nord­ dal Vietnam vietnamita Le Due Tho (—►), prevedevano l’immediato cessate il fuoco e il ritiro americano dal Vietnam entro i due mesi successivi. La guerra si protrasse tuttavia per altri due anni ma, privo del sup­ Il ritiro americano porto americano, l’esercito sudvietnamita non fu in grado di reggere e l'unificazione all’offensiva congiunta dei nordvietnamiti e dei vietcong. Conquistata del Vietnam sotto Saigon nell’aprile 1975, il regime comunista di Hanoi potè estendere il il regime comunista proprio controllo all’intero Paese e l’anno successivo fu eletta un’Assem­ di Hanoi blea nazionale unica per il Nord e il Sud. Il Paese venne quindi unificato nella Repubblica socialista del Vietnam, proclamata ufficialmente il 2 luglio 1976. L’anno successivo il Vietnam entrò a far parte dell’ONU. Il Laos, che dopo l’indipendenza non aveva mai conosciuto una vera pacificazione interna ed era stato anch’esso attraversato da gravi conflit­ La guerra civile ti tra la fazione comunista e il governo filoccidentale, precipitò in una nel Laos vera e propria guerra civile fra il 1974 e il 1975. Alla fine ebbero la me­ e l'affermazione glio le forze del Partito comunista locale, il Pathet Lao (-*-), che nel di­ dei comunisti cembre 1975 instaurarono la Repubblica popolare del Laos, un regime di stampo socialista a partito unico. Anche la Cambogia, dopo una lunga fase di instabilità politica e il crescente coinvolgimento nella guerra del Vietnam, vide trionfare, Le forze comuniste nell’aprile 1975, le forze comuniste dei khmer rossi ( ^ -), da anni impe­ dei khmerrossi gnati in una guerriglia contro il regime autoritario filoamericano di Lon in Cambogia Noi (->-). Fu quindi proclamata la Repubblica democratica di Kampuchea, che nel gennaio 1976 si diede una nuova Costituzione; nello stesso anno divenne capo del governo Poi Pot (-»-), che dominò incontrastato la politica cambogiana fino al 1979, quando il suo regime fu rovesciato Il regime di Poi Pot dagli oppositori interni grazie anche all’aiuto del Vietnam. Sullo sfondo di una gravissima crisi economica, di un’alta conflittualità interna e di una situazione internazionale molto tesa, il regime di Poi Pot perseguì un modello di socialismo di stampo agrario, per molti versi ispirato all’esperienza cinese. I costi umani e sociali di questa operazione, che aveva comportato una rigida pianificazione, la nazionalizzazione di tutte le terre e il tra­ sferimento coatto di intere masse urbane verso le campagne, furono ter­ ribili. Infatti, oltre alle deportazioni degli oppositori e al lavoro massa­ crante cui la popolazione era stata costretta nelle comuni popolari, la dittatura di Poi Pot mise in atto un vero e proprio sterminio pianificato Il genocidio di tutti coloro - intellettuali, borghesi, quadri dirigenti dell’amministra­ zione, membri di particolari gruppi etnici e religiosi - che si riteneva po-

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Storia contemporanea

tessero macchiare la «purezza» della società khmer. Si calcola che i mas­ sacri di massa perpetrati dai khmer rossi abbiano causato la scomparsa di un quarto della popolazione cambogiana, con stime che vanno da un milione a oltre 3 milioni di vittime. Alla fine del 1997, quasi 19 anni do­ po la caduta del regime di Poi Pot, l’ONU riconobbe come «atti di geno­ cidio» i crimini commessi dai khmer rossi. ft 13.2 II conflitto israelo-palestinese Il conflitto tra Israele ed Egitto

La guerra di Suez del 1956 e le conquiste territoriali di Israele

Nascita dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina

Il clima di tensione tra Israele e Paesi arabi

L'attacco israeliano e la guerra dei Sei Giorni

Fin dalla guerra del 1948 il principale e più temibile nemico di Israe­ le si era rivelato essere l’Egitto, il più grande e popoloso fra gli Stati ara­ bi. Dall’Egitto, infatti, fin dal 1949 cominciarono a partire ripetuti at­ tacchi di guerriglieri arabi contro il territorio israeliano; a questi colpi di mano Israele rispose sempre con violente rappresaglie, che culminarono nel raid compiuto a Gaza nel febbraio 1955. Anche la guerra di Suez del 1956, per quanto fosse apparsa come l’ultimo colpo di coda del colonia­ lismo europeo, si era fondata sull’acerrima rivalità fra Tel Aviv ed il Cai­ ro (cap. 11.3). In quell’occasione, il giovane Stato ebraico riuscì in bre­ vissimo tempo a conquistare Gaza e tutta la penisola del Sinai, compre­ sa la città di Sharm el-Sheik, punto di controllo strategico di tutto il traffico del Mar Rosso e del golfo di Aqaba. All’inizio del 1957, Israele si ritirò dal Sinai lasciando posto alla forza di interposizione dei Caschi blu (-^-) dell’ONU. Il leader egiziano Nasser, per quanto galvanizzato dalla vittoria diplomatica ottenuta sulle potenze europee, capì che sul piano militare e geopolitico la guerra aveva avuto un esito disastroso e quindi, in attesa del riscatto su Israele, si concentrò sulle riforme interne del Paese. Rafforzò anche il proprio dispositivo militare, grazie anche all’intesa con l’Unione Sovietica che, per quanto non formalizzata in una vera e propria alleanza, garantiva all’Egitto un considerevole afflus­ so di armamenti ed informazioni. Nel frattempo, la vittoria in Siria della sinistra nazionalista del parti­ to Ba’ath (->-), favorevole alla prosecuzione della lotta contro Israele, la nascita nel 1964 dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP —>), primo segnale della rinascita politica dei palestinesi, nonché le prime operazioni dell’organizzazione palestinese al-Fatah (—>-) sem­ brarono modificare l’assetto assunto dalla regione dopo il conflitto di Suez. Lo stato di tensione crescente portò Israele, nel 1966, a compiere una serie di attacchi aerei su Siria e Cisgiordania. Come reazione a ciò l’Egitto volle ripristinare il pieno controllo militare sul Sinai e lo fece nel maggio 1967, dopo aver chiesto e ottenuto il ritiro del personale ONU. Tale provvedimento, assieme all’ennesima chiusura del golfo di Aqaba, fece ulteriormente lievitare la crisi e re Flussein di Giordania (->-), nella convinzione che la guerra fosse imminente, firmò un patto di difesa con l’Egitto. La strategia della tensione israeliana, unita all’at­ teggiamento sempre più minaccioso dei Paesi arabi, finì quindi per in­ nescare un clima da «guerra in vista» su entrambi i versanti. Il 5 giugno 1967 la crisi esplose nuovamente in guerra aperta; l’avia­ zione israeliana attaccò infatti a sorpresa le basi aeree egiziane e il gior-

I nuovi conflitti

no successivo le forze di terra guidate dal capo di stato maggiore Yitzhak Rabin (—>) avanzarono con fulminea rapidità nel Sinai, raggiun­ gendo in pochi giorni la sponda orientale del canale. Nel frattempo la Giordania, vedendo occupate aH’improvviso Gerusalemme e l’intera Cisgiordania, accettò, il 7 giugno, il cessate il fuoco proposto dalle Na­ zioni Unite, seguita subito dall’Egitto. Bloccate le difese arabe a sud e ad est, Israele potè quindi muoversi contro la Siria, invadendo le alture del Golan, al confine nordorientale, e costringendola alla capitolazione il 10 giugno. Questo conflitto, ricordato come la guerra dei Sei Giorni, ribaltò completamente gli assetti territoriali della regione: Israele otten­ ne infatti il controllo sia dell’intera Palestina, cosa che causò un flusso di 200.000 profughi, sia del Sinai e di parte della Siria, ricavandone un vantaggio strategico preziosissimo in vista dei futuri negoziati. Il breve conflitto del 1967 fu combattuto sullo sfondo della Guerra Fredda. Sebbene, infatti, le superpotenze non avessero avuto il tempo di intervenire direttamente, tutto il mondo occidentale si era schierato a sostegno di Israele, con l’eccezione di De Gaulle che, come l’Unione So­ vietica, volle ammonire le mire egemoniche degli israeliani, benché all’epoca la Francia fosse la principale fornitrice di armi a Israele. Al termine della guerra, come rappresaglia, tutti i cittadini britannici e sta­ tunitensi residenti in Egitto furono espulsi, mentre Nasser, che iniziò fin da subito a nutrire un forte sentimento di rivincita, accettava l’invio di armi e consiglieri dall’URSS. Secondo il leader egiziano, infatti, «ciò che era stato preso con la forza doveva essere ripristinato con la forza». Questa inclinazione revanchista, insieme alla presenza di circa 1.500 consiglieri militari sovietici finirono per mantenere alto il livello della tensione sia a livello locale sia nel contesto bipolare, consolidando al tempo stesso l’alleanza fra Stati Uniti e Israele. Anche sul fronte palesti­ nese l’esito del conflitto portò a una radicalizzazione dello scontro; l’OLP giunse infatti a limitare il ruolo dei Paesi arabi nella lotta contro Israele e al-Fatah riuscì a imporre alla presidenza dell’organizzazione il proprio portavoce Yasser Arafat (->-). Fu in questo contesto che nel set­ tembre 1970, il cosiddetto «settembre nero», re Hussein di Giordania, esposto alle continue rappresaglie di Israele e volendo limitare il peso delle organizzazioni palestinesi presenti nel suo Paese, sferrò un duro attacco contro i fedayyin e i profughi palestinesi. Già nel giugno 1968 ripresero i cannoneggiamenti da una riva all’al­ tra del canale, con incursioni da ambo le parti. L’anno successivo gli scontri aumentarono di intensità e frequenza e, da luglio a settembre, gli aerei israeliani iniziarono a distruggere in modo sistematico le dife­ se antiaeree egiziane nel settore nord del canale di Suez. Si trattava or­ mai di una vera e propria guerra d’attrito che produsse un alto numero di perdite umane e materiali da entrambe le parti. Solo alla fine del 1970, dopo la morte di Nasser, il suo successore Anwar al-Sadat (-+ ) concluse con Israele l’accordo per il cessate il fuoco; le frontiere rima­ nevano tuttavia quelle fissate all’indomani della guerra dei Sei Giorni. Soprattutto per l’Egitto, comunque, la partita non era affatto chiusa e Sadat, di fronte al rifiuto sovietico di ulteriori forniture di armi, arrivò alla decisione di espellere tutti i consiglieri militari inviati da Mosca,

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Il nuovo assetto territoriale della regione

Il sostegno a Israele del mondo occidentale

Il revanchismo di Nasser e gli aiuti sovietici

Il fronte palestinese

L'attacco giordano contro i profughi palestinesi

La successione di Sadat a Nasser

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L'offensiva dello Yom Kippur di Egitto e Siria

La controffensiva israeliana

Il cessate II fuoco imposto dall'ONU

L'apertura dei negoziati di pace

Storia contemporanea

che avevano oramai raggiunto le 15.000 unità. Questa misura, pur fa­ cendogli recuperare un enorme credito presso l’opinione pubblica del suo Paese, non gli garantì una reale alternativa all’alleanza con l’URSS; benché progressivamente migliorate, infatti, le relazioni con l’Occiden­ te non gli assicuravano armamenti e sostegno logistico sufficienti a por­ tare l’attacco al di là del canale. Convinto, tuttavia, che in quel momen­ to sarebbe bastato un conflitto dagli obiettivi limitati, Sadat si accon­ tentò di trovare nella Siria un partner militare e nell’Arabia Saudita un importante finanziatore. Il 6 ottobre 1973, in coincidenza con la festività ebraica dello Yom Kippur ma anche con l’inizio del mese di digiuno del Ramadan, quan­ do cioè i vertici militari israeliani non si sarebbero aspettati un’incur­ sione, gli eserciti siriano ed egiziano, all’improvviso, attaccarono ri­ spettivamente le alture del Golan e il Sinai. L’effetto sorpresa riuscì: l’esercito siriano penetrò infatti le difese israeliane sul Golan, mentre l’Egitto riuscì a trasferire 90.000 uomini sulla sponda orientale del ca­ nale. Anche altri Paesi arabi e musulmani inviarono dei contingenti mi­ litari, compresi Pakistan e Marocco, e persino Cuba mandò uomini e armamenti. Inoltre gli Stati mediorientali produttori di petrolio taglia­ rono immediatamente la produzione e la vendita del greggio ai Paesi schieratisi con Israele, innescando, come vedremo, uno dei più gravi shock petroliferi della storia. La controffensiva israeliana non fu rapida come i successi militari del 1956 e del 1967 lasciavano supporre e fu resa possibile dall’interven­ to americano, che attuò un grande ponte aereo per spezzare l’attacco a tenaglia siro-egiziano. Proprio questo intervento ufficializzò l’alleanza USA-Israele destinata a divenire strategica negli anni successivi. Il 12 ottobre le forze siriane furono respinte e costrette a retrocedere sulle posizioni di partenza. Potendosi quindi concentrare sul Sinai, l’esercito israeliano sferrò un contrattacco fra il 13 e il 15 ottobre e alcuni reparti riuscirono ad attraversare il canale di Suez e penetrare in territorio egi­ ziano. Dopo un lungo negoziato tra USA e URSS, il 22 ottobre le Nazio­ ni Unite imposero il cessate il fuoco, mentre gli israeliani si trovavano a solo un centinaio di chilometri dal Cairo. Pur senza entusiasmo da parte di Israele, convinto di aver ormai in mano le sorti della guerra e di poter raggiungere in breve tempo la capitale egiziana, l’armistizio venne alla fine accettato da tutte le potenze belligeranti. Se praticamente nulli furono i risultati della guerra dal punto di vista territoriale, per l’Egitto si trattò di un relativo successo sul piano politi­ co e diplomatico. Anche senza aver riconquistato il Sinai, gli egiziani si sentirono infatti appagati dalla prime vittorie, che avevano infranto la supposta invincibilità militare di Israele, e soprattutto erano riusciti a cancellare l’onta della sconfitta del 1967. Sul piano diplomatico, poi, Sa­ dat aveva ottenuto di sbloccare lo stallo che si era creato dopo la vittoria israeliana di sei anni prima, coinvolgendo le superpotenze e l’ONU nel­ la questione mediorientale. Queste condizioni permisero quindi l’apertura dei negoziati per il processo di pace. Dopo una lunga e complessa fase diplomatica, il presi­ dente egiziano Sadat, con un’iniziativa del tutto personale e unilaterale,

I nuovi conflitti

nel novembre 1977 si recò in visita in Israele dove, parlando dinanzi al Parlamento, fece capire di patrocinare una soluzione pacifica dei pro­ blemi dell’area mediorientale. L’anno successivo, grazie alla mediazione del presidente americano James Earl (Jimmy) Carter (—>*), Sadat e il primo ministro israeliano Menachem Begin (—>-) si incontrarono nuo­ vamente negli Stati Uniti, ospiti nella residenza presidenziale di Camp David. In quell’occasione furono poste le basi per il trattato di pace fra Egitto e Israele, che venne poi firmato a Washington nel marzo 1979. L’Egitto otteneva nuovamente il controllo sulla penisola del Sinai, al prezzo però della definitiva rottura dell’alleanza con Siria e URSS e dell’espulsione dalla Lega Araba. In cambio Israele si garantiva una pa­ ce stabile lungo la sua frontiera meridionale.

II trattato di Washington tra Egitto e Israele

13.3 Lo scenario africano: il Corno d'Africa e l'Africa australe Dopo il processo di decolonizzazione, gli Stati africani si trovarono alFinterno di un sistema bipolare che esercitava forti pressioni sui Paesi politicamente più fragili e su quelli che dipendevano economicamente dall’esportazione di poche materie prime e dall’assistenza finanziaria erogata dai Paesi industrializzati. La fragilità dei governi africani nel si­ La fragilità dei governi stema internazionale venne messa drammaticamente in luce dal conflit­ africani to civile scoppiato in Congo subito dopo il conseguimento dell’indipen­ denza, il 30 giugno del 1960. L’uccisione del primo ministro Patrice Lumumba (—*-) nel gennaio 1961 per mano dell’esercito secessionista del Katanga, le difficoltà incontrate dalla missione di pace dell’ONU, il cui Il conflitto civile segretario generale Dag Hammarskjòld (—>) morì nel settembre 1961 in in Congo e il colpo un incidente aereo mentre era impegnato nella mediazione del conflitto, di stato militare e il coinvolgimento politico di Belgio e Stati Uniti caratterizzarono una di Mobutu lunga crisi politica e militare che si protrasse fino al 1965. In quell’anno, infatti, il colpo di stato militare di Joseph Désiré Mobutu (—*■) instaurò un regime autoritario politicamente alleato al blocco occidentale. Mentre i legami politici, militari ed economici tra la Francia e le sue Negami tra la Francia ex colonie svolsero un ruolo determinante nel mantenere i Paesi franco­ e le sue ex colonie foni dell’Africa occidentale e centrale nell’orbita atlantica, con l’eccezio­ ne della Guinea Conakry, le aree dove la Guerra Fredda si intrecciò più direttamente alle dinamiche regionali e nazionali furono il Corno d’Africa e l’Africa australe. Il Corno d’Africa fu teatro di una guerra tra La guerra tra Etiopia Etiopia e Somalia che esplose a due riprese: la prima volta nel 1964 e la e Somalia nel Corno seconda, ben più grave, nel 1977. Il conflitto tra Etiopia e Somalia, che d'Africa affondava le radici nel rifiuto somalo di accettare la decisione della Gran Bretagna, dopo la Seconda Guerra mondiale, di assegnare la re­ gione dell’Ogaden all’Etiopia, aprì la regione all’influenza delle due su­ L'influenza delle due perpotenze, a cui entrambi i Paesi si rivolsero alla ricerca di sostegno superpotenze politico e aiuti militari. Nel 1964 l’invasione somala dell’Ogaden spinse gli Stati Uniti a rafforzare le forniture di aiuti militari all’Etiopia. In se­ guito la Somalia, che fu teatro nel 1969 del colpo di stato militare di Siad Barre (^*), concluse un’alleanza con l’URSS concedendole l’utilizzo della base militare di Berbera.

308

Storia contemporanea

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3 Regione Equatoriale (Sp. )

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L’AFRICA NEL 1965 Colonie

il nuovo regime comunista in Etiopia

La fine della Guerra Fredda

Stati indipendenti

^ Stati aderenti all’Organizzazione w per t Uniti Africana

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Stati aderenti alla Lega A raba

Il rovesciamento del governo etiope dell’imperatore Hailé Selassié nel 1974, per mano del Consiglio militare amministrativo provvisorio (—>-), il DERG, avviò l’avvicinamento del nuovo regime comunista dell’Etiopia all’Unione Sovietica. Quando la Somalia, nell’estate del 1977, lanciò una nuova invasione dell’Ogaden, Mosca si schierò a dife­ sa dell’Etiopia, fornendo aiuti e istruttori militari e facilitando il tra­ sporto di truppe cubane. Priva del sostegno militare sovietico, la So­ malia si vide costretta a sospendere le operazioni militari nell’Ogaden nel marzo 1978. In seguito si sarebbe avvicinata allo schieramento oc­ cidentale, stringendo un accordo con gli Stati Uniti per l’utilizzo della base di Berbera. La fine della Guerra Fredda e soprattutto la cessazione della fornitu­ ra di aiuti militari da parte dei due blocchi ebbero un profondo impatto

1nuovi conflitti

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sulle vicende politiche nel Corno d’Africa. Il governo del DERG cadde sotto i colpi della guerra civile nel 1991. Nel 1993 l’Eritrea ottenne uffi­ L'indipendenza cialmente l’indipendenza dall’Etiopia. La cacciata del governo di Siad dell'Eritrea Barre da Mogadiscio nel gennaio 1991 fece invece precipitare la Soma­ lia in un periodo di grave instabilità politica e militare, per la quale non sembra esserci ancora una soluzione. In Africa australe le dinamiche globali della Guerra Fredda si in­ La regione dell'Africa trecciarono con i violenti processi di decolonizzazione e con la lotta australe contro il regime razzista deWapartheid in Sudafrica. La decisione por­ toghese di procedere alla decolonizzazione fece precipitare la situazio­ ne in Angola, dove fin dagli anni Sessanta tre differenti movimenti di liberazione nazionalisti avevano imbracciato le armi contro la presenza La decolonizzazione coloniale portoghese. Le divisioni tra i movimenti di liberazione provo­ dell'Angola carono lo scoppio di una sanguinosa guerra civile all’approssimarsi e ia sanguinosa guerra dell’indipendenza, fissata per PII novembre 1975. A tale data fu il M o­ civile vimento popular de libertagào de Angola (MPLA — di ispirazione marxista, a prendere le redini del governo indipendente e a fare fronte all’invasione militare sudafricana che sosteneva invece il movimento L'invasione militare dell’Uniào nacional para a indipendéncia total de Angola (UNITA sudafricana —>). Il governo del presidente Agostinho Neto (—»-) chiese quindi il so­ stegno dei Paesi del blocco socialista. Mentre l’Unione Sovietica inviò Gli aiuti dell'URSS aiuti e istruttori militari, il governo di Cuba mandò l’esercito a respin­ e di Cuba gere le truppe sudafricane. L’invio, e successivamente il permanere, delle truppe cubane in A n­ gola segnò una svolta cruciale nella storia dell’Africa australe. Mentre il Sudafrica giustificò il mantenimento del suo controllo sulla Namibia, nonostante la revoca del mandato da parte delle Nazioni Unite, come una necessità imposta dall’insicurezza provocata dalla presenza cubana, Stati Uniti, Gran Bretagna, Sudafrica e i governi indipendenti dell’Afri­ ca australe cercarono di mediare una soluzione politica del conflitto in Il conflitto in Rhodesia Rhodesia. Qui infatti il governo razzista guidato da Ian Smith (—>), che nel 1965 aveva adottato la Unilateral Declaration o f Independence, non riconosciuta dalla comunità internazionale, affrontava la lotta armata dei nazionalisti neri. Tuttavia, a causa delle esitazioni della diplomazia occidentale e della determinazione di Smith a mantenere il potere, la so­ luzione del conflitto avrebbe dovuto attendere il dicembre 1979, quando la firma dell’accordo di Lancaster House aprì la strada alle prime elezio­ Il nuovo Zimbabwe ni democratiche in quello che avrebbe assunto il nome di Zimbabwe. L’elezione del repubblicano Ronald Reagan (—>-) alla presidenza de­ gli Stati Uniti nel 1980 segnò l’avvio di una nuova fase nei conflitti di Angola e Namibia. Mentre a livello diplomatico l’amministrazione sta­ tunitense legò l’indipendenza della Namibia al ritiro delle truppe cuba­ ne dall’Angola, sul piano politico-militare continuò a sostenere PUNI­ TA. Di questa politica riuscì a trarre vantaggio il governo sudafricano, il cui fine rimaneva la difesa del sistema di apartheid, sempre più in crisi a Il sistema di apartheid causa delle proteste interne e delle difficoltà che incontrava nel rispon­ in Sudafrica dere alle trasformazioni economiche del contesto nazionale e interna­ e la destabilizzazione zionale, attraverso la repressione interna e la destabilizzazione dei Paesi della regione deh’Africa australe. A subire i costi più gravi di questa politica furono

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L'accordo tripartito tra Angola, Cuba e Sudafrica

Storia contemporanea

non solo Namibia e Angola che, oltre a subire ripetute invasioni militari dal Sudafrica, videro anche Pretoria, capitale amministrativa del Suda­ frica, fornire aiuti militari all’UNITA, ma pure il Mozambico. In quest’ultimo Paese il governo del Frente de libertagào de Mogambique (—>-) dovette affrontare la distruzione umana e materiale provocata dai ribelli della Resistència nacional mogambicana sostenuta inizial­ mente dal governo rhodesiano di Ian Smith e, dopo l’indipendenza dello Zimbabwe, dal Sudafrica. La parziale sconfitta subita nel 1988 dall’esercito sudafricano nella battaglia di Cuito Cuanavale, in Angola, ad opera dell’esercito angolano massicciamente rafforzato da contingenti cubani, segnò un punto di svolta nel conflitto. Complici anche il nuovo clima nelle relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica e la grave crisi interna del regime dell’apartheid, i negoziati tra Angola, Cuba e Sudafrica giunsero a con­ clusione nel dicembre 1988 con la firma dell’Accordo tripartito di New York. Questo accordo aprì la strada al graduale ritiro delle truppe cuba­ ne dall’Angola e all’indipendenza della Namibia, che fu raggiunta il 21 marzo 1990. La firma del trattato di pace tra Angola e Sudafrica non si­ gnificò tuttavia la fine del conflitto civile in Angola, che si sarebbe pro­ tratto fino al 2002.

Capitolo 14

Gli anni Settanta come svolta

14.1 II 1968: la rivolta di una generazione

14.1 II 1968: la rivolta di una generazione 14.2 II «nuovo femminismo» e l'affermazione dei diritti delle donne 14.3 La crisi petrolifera e il crollo del sistema di Bretton Woods 14.4 Le difficoltà statunitensi e l'avvio della distensione 14.5 L'Italia negli «anni di piombo» 14.6 Dalla crisi dei modelli di welfare al neoliberismo di Margaret Thatcher e Ronald Reagan 14.7 Le «tigri asiatiche»

Il movimento di protesta giovanile, che ebbe il suo culmine nel 1968 toccando simultaneamente moltissimi Paesi compresi alcuni del blocco comunista, fu una fiammata improvvisa e violenta che, in alcuni casi, ar­ Il movimento rivò persino a far vacillare governi e sistemi politici in nome di una tra­ di protesta giovanile sformazione radicale della società. All’origine di tale fenomeno, che as­ sunse caratteri e forme diverse nei vari Paesi, vi era una serie di fattori di tipo sociale, demografico e politico. Gli anni della ricostruzione post­ Cause sociali, bellica e del boom economico erano stati caratterizzati, infatti, da un demografiche notevole sviluppo demografico con un tasso medio di crescita all’anno e politiche del 1,3%. Alla fine degli anni Sessanta, quindi, aveva raggiunto l’età adulta una generazione, la cosiddetta baby boom generation, che aveva vissuto gli anni del benessere e dell’opulenza senza conoscere il dram­ La baby boom ma della guerra e della scarsità alimentare che avevano invece accompa­ generation gnato la vita dei loro genitori. Si trattava, dunque, di una generazione entrata nell’adolescenza all’inizio degli anni Sessanta, quando avevano cominciato a diffondersi i consumi di massa e si era verificato un gene­ rale miglioramento delle condizioni di vita in tutti i Paesi industrializza­ ti. In una società dove i giovani rappresentavano una fascia demografica più estesa rispetto al passato, e dove la diffusione della scolarizzazione stava progressivamente posticipando l’inserimento dei giovani nel mon­ do del lavoro, i modelli di comportamento fra genitori e figli tendevano a differenziarsi in modo sempre più evidente. Animati da un forte senso di partecipazione politica e di protagonismo nella vita sociale, i giovani entravano nell’età adulta con un atteggiamento molto diverso rispetto a quello dei loro genitori. Influenzati dallo studio delle scienze umane, dalle scienze politiche alla sociologia e psicologia, fondamentali per comprendere la realtà cir­ costante, i giovani cominciarono a rifiutare la società dei consumi e il

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La «controcultura»

Stile di vita, abbigliamento e musica

La contestazione dell'autorità gerarchica

La dimensione transnazionale della protesta

I miti di Mao e di «Che» Guevara

L'ideale della «democrazia partecipativa»

Storia contemporanea

modello di sviluppo che la generava, proponendo una «controcultura» fortemente critica verso la generazione dei padri e il sistema di potere delle élite politiche e sociali dominanti. Venivano proposti stili di vita sempre più incentrati sul comunitarismo e sull’egualitarismo, che tradu­ cevano nella vita quotidiana il rifiuto del puritanesimo e del conformi­ smo «borghese» identificati come propri delle generazioni precedenti. L’abbigliamento e la musica diventarono i mezzi principali con cui i gio­ vani rendevano palese questa rottura col passato; soprattutto le canzoni, proponendo testi sempre più introspettivi e di impegno politico e socia­ le, furono il maggior veicolo di diffusione dell’anticonformismo cultura­ le delle nuove generazioni. Il tratto dominante che caratterizzò il movimento di protesta giova­ nile alla fine degli anni Sessanta fu la contestazione di ogni forma di au­ torità gerarchica, da quella dei genitori a quella esercitata nella scuola o sul posto di lavoro, fino a coinvolgere anche la Chiesa. AH’interno del movimento di protesta giovanile si inserì poi la lotta delle femministe diretta, come vedremo, contro il sistema di potere tradizionalmente esercitato dagli uomini nella vita pubblica e privata. In tutti i Paesi occi­ dentali venivano messi in discussione le strutture del sistema politico tradizionale e le discriminazioni dovute alla razza, al sesso, alla classe sociale, all’ideologia. Anche gli aspetti e gli stili di vita della società del benessere venivano fortemente contestati dai giovani, che affermavano di voler rifiutare il denaro e il perseguimento della ricchezza come obiettivo primo della loro realizzazione personale. Anche le tensioni della Guerra Fredda svolsero un ruolo importante nella radicalizzazione della contestazione giovanile. La costruzione del Muro di Berlino, l’avvento di regimi autoritari in America Latina e so­ prattutto la tragica spirale della guerra in Vietnam non solo fecero da ca­ talizzatori della protesta studentesca, ma diedero al movimento del Ses­ santotto una vera dimensione transnazionale. La creazione di un sistema internazionale pacificato, la lotta contro tutte le ingiustizie e le discrimi­ nazioni, la sensibilità e l’attenzione per le condizioni dei Paesi del Terzo Mondo furono, infatti, i tratti caratterizzanti di una protesta che, sul pia­ no politico, condannava sia il sistema capitalistico occidentale sia l’op­ pressione e la mancanza di libertà del regime sovietico. Grande fascino esercitavano, al contrario, la Teologia della Liberazione, vista come una forma di riscatto ed emancipazione dei popoli del sud del mondo, la figu­ ra di Mao e quella di Ernesto «Che» Guevara, che entrò nell’immagina­ rio collettivo come il mitico combattente delle guerriglie sudamericane. I giovani della contestazione sessantottina rigettavano non solo l’au­ torità tradizionale, il sistema capitalistico-borghese e la contrapposizio­ ne bipolare, ma anche i metodi della politica parlamentare e le leader­ ship dei partiti, comprese quelle dei partiti che si richiamavano al mar­ xismo. Ad essi infatti il movimento del cosiddetto Sessantotto imputava il tradimento della lotta di classe, l’imborghesimento, il depotenziamen­ to di tutte le forme di democrazia diretta e l’adeguamento ai meccani­ smi del sistema rappresentativo. Convinti che la politica si dovesse rin­ novare dalle fondamenta, si battevano per un sistema dove fosse garan­ tito il confronto fra tutti nel prendere le decisioni, per una «democrazia

Gli anni Settanta come svolta

partecipativa» fondata sull’assemblearismo e sul confronto diretto, an­ ziché sui tradizionali metodi della rappresentanza elettiva. Nacquero anche, nel contesto della mobilitazione studentesca, forze politiche che si ponevano come alternative rispetto ai partiti tradizionali della sini­ stra, senza tuttavia mai affermarsi presso l’opinione pubblica. I prodromi del movimento di contestazione che esplose in gran parte del mondo nel 1968 si verificarono alcuni anni prima negli Stati Uniti. L’occupazione dell’Università di Berkeley in California nel 1964, oltre a segnare il trait d ’union tra le rivendicazioni studentesche e la protesta pacifista per il Vietnam, sperimentò per la prima volta tecniche di autogestione dell’istituzione universitaria che si diffusero poi in tutto il mon­ do. All’interesse per le analisi sociali, spesso maturate dallo studio dei lavori di Herbert Marcuse (->-), si cercò di avvicinare un nuovo modo di vivere in comunità da parte dei gruppi dei cosiddetti hippies ( ^ -), i qua­ li impostarono una nuova filosofia di vita che spaziava dalla spiritualità di stampo orientale all’uso di droghe e alla pratica di costumi sessuali li­ beri. Dalla California la protesta giovanile si estese rapidamente a tutte le principali università del nord. Negli Stati Uniti, dove mantenne complessivamente un carattere me­ no violento sul piano politico di quello che assunse in Europa, il movi­ mento di contestazione era rivolto soprattutto contro la guerra del Vie­ tnam e a favore della difesa dei diritti civili dei neri e delle minoranze. Prendeva di mira, insomma, quelle che si ritenevano le mancate promes­ se di eguaglianza e giustizia della Costituzione americana, contraddette sia dalle pratiche di discriminazione verso gli afroamericani, sia da una politica estera giudicata aggressiva e di stampo neocoloniale, come veni­ va denunciato soprattutto dal leader radicale Malcolm X (cap. 12.5). La protesta toccò il suo apice con l’assassinio di Martin Luther King a Mem­ phis, il 4 aprile 1968; questo tragico evento scatenò infatti una violenta ri­ bellione nei ghetti neri delle città americane e l’attivismo dei giovani con­ tro la guerra in Vietnam arrivò al punto di dividere l’opinione pubblica americana. All’inizio di giugno dello stesso anno fu poi l’assassinio di Robert Kennedy ( -^ ), durante la campagna per le elezioni presidenziali, a mettere a nudo le profonde fratture della società americana. Dagli Stati Uniti la protesta studentesca si spostò rapidamente in Eu­ ropa, dove assunse un carattere di maggiore politicizzazione coinvol­ gendo, in molti casi, anche la classe operaia. Fu così per esempio nel co­ siddetto «maggio francese», dove alla ribellione dei giovani delle uni­ versità, che contestavano la cultura accademica tradizionale e un piano di riforma scolastica varato dal governo, si unirono milioni di lavoratori proclamando uno sciopero generale che paralizzò il Paese. Di fronte al­ la decisione del rettore di chiudere la Sorbona, la più prestigiosa delle università francesi, la protesta si spostò nelle piazze dove causò numero­ si e violenti scontri tra studenti e forze di polizia. De Gaulle reagì alle dimostrazioni in modo fermo e deciso, da un lato trattando coi sindacati per cercare di spezzare il fronte della ribellione, dall’altro chiamando i francesi a nuove elezioni con un appello all’ordine e alla moderazione (cap. 12.1). Il successo del partito gollista e la sconfitta delle sinistre se­ gnarono, di fatto, la fine del Sessantotto in Francia.

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l'occupazione dell'Università di Berkeley nel 1964

Gli hippies

la contestazione della guerra del Vietnam e la difesa dei diritti civili delle minoranze

l'assassinio di Martin luther King e di Robert Kennedy

Il «maggio francese» nel 1968

Lo sciopero generale

La risposta di De Gaulle

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La protesta in Italia

Marcata connotazione ideologica maoista e leninista

I gruppi della sinistra extraparlamentare

L'«autunno caldo»

Lo Statuto dei lavoratori del 1970

La ribellione di Praga

Il «socialismo dal volto umano» di Dubcek

Storia contemporanea

In Italia la protesta, partita inizialmente dalle università, in partico­ lare quelle di Trento, Torino, Milano e Roma, coinvolse ben presto, co­ me vedremo, anche la classe operaia e raggiunse momenti di acuta vio­ lenza. Uno degli episodi più gravi fu quello che si svolse nel marzo 1968 presso la facoltà di Architettura dell’Università di Roma a Valle Giulia dove gli studenti, che avevano occupato la facoltà, si scontrarono dura­ mente con le forze dell’ordine chiamate a sbloccare la situazione. Pur presentando gli stessi caratteri generali della contestazione dei giovani francesi o americani, in Italia il Sessantotto assunse una più marcata connotazione ideologica, riconducibile alla sinistra maoista e leninista. Numerosi furono i gruppi che, influenzati dalla vulgata maoista, presero le distanze dal comuniSmo sovietico e dallo stesso Partito comunista, accusandolo di connivenza con la DC e con la sua politica. Tra i vari gruppi, quelli che negli anni successivi ebbero un certo seguito, e riusci­ rono a incanalare la protesta verso obiettivi fatti propri anche dalle lotte operaie, furono Lotta continua (—>), Potere operaio (—►), Avanguardia operaia (—►). Alla protesta studentesca seguì, infatti, nel corso del 1969 quella degli operai, impegnati nel rinnovo dei contratti collettivi di lavo­ ro. Culminati nel cosiddetto «autunno caldo» (—►), gli scioperi e le ri­ vendicazioni dei lavoratori finirono per aprire un dialogo tra le tre prin­ cipali confederazioni sindacali, che assunsero un importante ruolo di ri­ ferimento nei confronti del governo. Già alla fine del 1969, infatti, gli operai ottennero il rinnovo dei contratti di lavoro con aumenti salariali compresi mediamente tra il 15 ed il 20%, la riduzione della settimana la­ vorativa a 40 ore e il diritto di tenere assemblee in fabbrica per ragioni sindacali. Nella primavera del 1970 venne poi varato lo Statuto dei lavo­ ratori (—»■), un insieme organico di norme sui rapporti tra dipendenti e datori di lavoro a tutela della libertà sindacale all’interno delle aziende. Da Berlino alla California, da Bilbao a Trento, dal Messico a Parigi, il movimento del Sessantotto attraversò, con aspetti simili ma pure pro­ fonde differenze, tutto il mondo occidentale. Ma esso coinvolse anche i Paesi del blocco sovietico, dove assunse il carattere della protesta contro la mancanza di libertà e pluralismo politico imposta dai partiti comuni­ sti al potere. L’epicentro di questa ribellione fu Praga, nella primavera del 1968. In Cecoslovacchia, infatti, fin dalla metà degli anni Sessanta era cresciuto un fermento di cui si era fatto interprete il leader dello stesso Partito comunista cecoslovacco Alexander Dubcek (->-), appar­ tenente all’ala moderata e fautore di una serie di riforme politiche che avevano incontrato il favore della popolazione e dei lavoratori. Il suo programma di «socialismo dal volto umano» prevedeva, da un lato, il mantenimento del modello di sviluppo collettivista e dall’altro consi­ stenti riforme politiche, tra cui l’abolizione della censura sui mezzi di co­ municazione, la fine del sistema a partito unico e l’allargamento della partecipazione politica dei cittadini. Ma a differenza di quanto era avve­ nuto nel 1956 in Ungheria con Nagy, Dubcek non proponeva l’uscita del­ la Cecoslovacchia dal Patto di Varsavia, restando leale all’URSS. Nono­ stante questo però, le riforme del «socialismo dal volto umano» appar­ vero a Mosca come una grave minaccia all’egemonia sovietica, in quanto il riformismo cecoslovacco avrebbe certamente incontrato il favore de-

Gli anni Settanta come svolta

gli altri Paesi dell’Europa orientale e questo rischiava di mettere in crisi il ruolo dell’URSS nel sistema degli equilibri internazionali. Il leader sovietico Leonid Breznev (—>■), succeduto a Chruscev alla guida del Paese nel 1964, ritenne pertanto che l’esperimento cecoslovac­ co, la cosiddetta «primavera di Praga» (->-), andasse immediatamente fermato, anche perché le riforme di Dubcek avevano suscitato l’entusia­ smo dei giovani che avevano iniziato a manifestare a favore del nuovo corso. Il 21 agosto 1968, pertanto, le truppe sovietiche e dei Paesi del Patto di Varsavia, tranne la Romania, occuparono in poche ore la Ceco­ slovacchia. I dirigenti cechi rinunciarono a contrastare con le armi l’in­ vasione, ma promossero una resistenza passiva che coinvolse gran parte della popolazione. Dubcek e gli altri dirigenti riformisti furono emargi­ nati e progressivamente allontanati dagli incarichi, mentre la nuova diri­ genza imposta da Mosca riportava il Paese sui binari dell’ortodossia so­ vietica. Il 16 gennaio 1969 le drammatiche immagini del giovane studen­ te cecoslovacco Jan Palach (->-), che si diede fuoco nella piazza di San Venceslao per protestare contro l’invasione, misero il mondo, ancora una volta, di fronte alla tragedia del «socialismo reale» imposto dalFURSS. Gli Stati Uniti e i Paesi dell’Europa occidentale, come già nel 1956 di fronte all’invasione sovietica dell’Ungheria (cap. 11.2), pur esprimendo grande sdegno per l’accaduto, non intervennero. Lo shock dell’invasione colpì invece i partiti comunisti occidentali che, come ve­ dremo, presero le distanze dall’intervento sovietico a differenza di quan­ to avevano fatto 12 anni prima nella vicenda ungherese. Uno dei punti di riferimento simbolico di una parte del movimento studentesco fu la cosiddetta «rivoluzione culturale» cinese (—►) di cui, tuttavia, non si conosceva la vera natura. Nel 1966 era stata orchestrata in Cina una campagna contro la burocratizzazione del partito e la svolta in senso conservatore impressa dalla leadership comunista alla rivolu­ zione del 1949. Tali contestazioni furono promosse da Mao e dal suo en­ tourage, che le indirizzarono in modo da rafforzare il potere dello stesso Mao anche mediante il culto della sua personalità. Rimasero vittime di questa violenta protesta non solo i vecchi quadri dirigenti del partito, ma anche intellettuali, artisti, contadini benestanti e chiunque fosse considerato un «esponente camuffato» della borghesia. La maggior par­ te di costoro finiva rinchiusa nei «campi di rieducazione», dove il prezzo della sopravvivenza era l’ossequio all’unica verità politica ammessa, quella del pensiero di Mao. In nome della necessità di una ulteriore on­ data rivoluzionaria migliaia di Guardie rosse (—►) furono spinte a «bombardare il quartier generale della borghesia», ovvero i dirigenti che all’interno del partito erano ritenuti responsabili di sostenere i gruppi borghesi. La «rivoluzione culturale» si esaurì nel 1969 con il rafforza­ mento del gruppo dirigente maoista e la sconfitta di Lin Biào (—*-), prin­ cipale ispiratore del movimento delle Guardie rosse. Il movimento sessantottino, sorto come una fiammata improvvisa tra il 1967 e il 1968, in molti Paesi si spense altrettanto in fretta nel giro di alcuni mesi. Nonostante questo carattere inatteso e repentino, ebbe il merito di portare al centro dell’attenzione, soprattutto in Occidente, va­ lori che fino a poco tempo prima erano rimasti nell’ombra: dal pacifi-

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La reazione dell'URSS di Breznev

L'invasione militare

Lo shock dei partiti comunisti occidentali

La «rivoluzione culturale» cinese

I «campi di rieducazione» e il pensiero unico di Mao

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Storia contemporanea

smo all’antirazzismo, dalla contestazione del potere come forma di do­ minio all’emancipazione delle donne. La sua più grande eredità fu tutta­ via il carattere transnazionale che assunse e che evidenziò per la prima volta tutta la fragilità dei confini geopolitici tradizionali e la necessità di affrontare in modo diverso dal passato la realtà di un mondo ormai di­ ventato «villaggio globale» (->-). 14.2 II «nuovo femminismo» e l'affermazione dei diritti delle donne Il diritto di voto alle donne

Il ruolo tradizionale della donna

La «mistica della femminilità»

La tesi della Friedan

Progressivo inserimento delle donne nel mondo del lavoro

Il pensiero di de Beauvoir

Anche se alla fine della Seconda Guerra mondiale le donne aveva­ no ottenuto il diritto di voto nella quasi totalità dell’Europa occidenta­ le (in Francia nel 1944, in Italia nel 1945, in Belgio nel 1948, in Grecia nel 1952), gli anni Cinquanta non rappresentarono una svolta nei pro­ cessi di emancipazione femminile. In molte legislazioni infatti, come per esempio quelle di Francia e Italia, continuava a esistere la potestà maritale e alle donne non venivano riconosciuti gli stessi diritti civili degli uomini. Anche il «modello» femminile che si era diffuso, sia ne­ gli Stati Uniti sia in Europa, dopo la guerra relegava ancora le donne entro lo spazio domestico, in virtù dell’idea tradizionale che il solo ruolo della donna, in sintonia con la natura femminile, fosse quello di moglie-madre-casalinga. Questo ideale della «domesticità», ampiamente diffuso anche dai mezzi di comunicazione, fu il primo, grande bersaglio polemico delle femministe, soprattutto americane, negli anni Sessanta. Definito pole­ micamente dalla studiosa Betty Friedan (->-), in un libro del 1963, come «mistica della femminilità», questo ideale veniva veicolato dai mass me­ dia e da una cultura tradizionalmente maschilista che riduceva la com­ plessa identità della donna a un unico valore, quello appunto della «fem­ minilità». La Friedan intendeva denunciare l’ipocrisia che circondava la condizione delle donne americane, da un lato valorizzate in quanto «madri della nazione», ma dall’altro relegate in un ambito circoscritto, quello della famiglia, e culturalmente emarginate da un sistema sociale di stampo patriarcale. Le sue tesi diedero dunque inizio negli Stati Uni­ ti a una nuova fase di attivismo femminista, che ben presto si estese a tutto il mondo occidentale, favorito anche dal progressivo inserimento delle donne nel mondo del lavoro a partire dagli anni Cinquanta. Que­ sto fatto, unito alla loro maggior istruzione, contraddiceva apertamente il modello della «mistica della femminilità», un modello rassicurante dove le donne erano rispettose del proprio ruolo, dell’autorità maschile e delle tradizionali norme sessuali. Alla nascita del cosiddetto «nuovo femminismo» contribuì anche il pensiero dell’intellettuale francese Simone de Beauvoir (—*-) che nel 1949 aveva pubblicato un testo che sarebbe diventato fondamentale per lo sviluppo del femminismo negli anni Sessanta. Ne II secondo sesso, De Beauvoir affermava che la donna aveva sempre rappresentato l’al­ tro, il polo negativo di un binomio in cui il positivo era rappresentato dall’uomo. Per combattere questa individualità negata, che non costitu-

Gli anni Settanta comé svolta

iva un dato naturale ma era il frutto di determinati processi economico-sociali e della cultura tradizionale, De Beauvoir sosteneva che la «li­ berazione» della donna dallo stato di subordinazione all’uomo dovesse avvenire in modo collettivo, attraverso un processo che doveva coinvol­ gere tutte le donne in quanto accomunate dalla stessa condizione di op­ pressione e «negazione». Il contributo di Simone de Beauvoir condizionò fortemente le azio­ ni e le strategie delle femministe della «seconda ondata», soprattutto perché metteva in luce in modo chiaro il concetto di «cittadinanza im­ perfetta» delle donne, ovvero la fragilità della cittadinanza femminile anche nei sistemi liberal-democratici, nonostante le donne avessero formalmente conquistato i diritti politici. Proprio in seguito all’ondata di mobilitazione femminile, a partire dalla metà degli anni Sessanta, in molti Paesi furono modificate le norme del diritto di famiglia e del diritto civile per accogliere le istanze di uguaglianza giuridica e socia­ le per le quali si erano battute le femministe. In Francia l’emancipazio­ ne delle donne dalla tutela maritale arrivò a tappe fino a giungere a compimento nel 1985, quando furono riconosciuti il divorzio consen­ suale, la depenalizzazione dell’adulterio e la parità completa dei co­ niugi nella gestione del patrimonio. Leggi analoghe furono approvate alla fine degli anni Settanta anche in Spagna, Portogallo, Grecia e Ita­ lia, dove nel 1970 fu introdotto il divorzio (poi confermato dal succes­ sivo referendum del 1974). Il movimento femminista, sviluppatosi con varie fasi e caratteristi­ che in tutto il mondo occidentale tra gli anni Sessanta e Settanta, non si batteva, tuttavia, solo per l’emancipazione giuridica, politica e sociale delle donne. Combattendo l’immagine della donna come «angelo del fo­ colare», le femministe avevano per obiettivo l’eliminazione di tutti gli stereotipi tradizionali che condizionavano la vita della donna soprattut­ to nella vita privata e familiare. Lo slogan «il personale è politico», adottato dai gruppi più radicali, rappresentò per molte donne la sintesi efficace di una lotta che mirava non solo all’eguaglianza dei diritti, ma alla rivendicazione di un’identità autonoma del soggetto femminile e al­ la valorizzazione delle sue specificità rispetto all’uomo. Negli Stati Uniti il movimento femminista coinvolse sia le donne bianche di classe media, sia le operaie che si vedevano discriminate an­ che all’interno dei sindacati, sia le donne afroamericane e delle altre mi­ noranze etniche. A volte, dunque, la lotta per i diritti e l’emancipazione delle donne si sovrappose a quella per i diritti civili dei neri; in alcuni ca­ si furono proprio le donne afroamericane a svolgere un ruolo di raccor­ do e di leadership nella protesta contro il regime di segregazione razzia­ le negli Stati del sud. Negli anni della contestazione giovanile le battaglie delle femmini­ ste europee e americane presero ancor più vigore e talvolta si interseca­ rono coi gruppi di protesta studenteschi. Non sempre, tuttavia, i due mo­ vimenti operarono in completa sinergia; anzi, il femminismo cosiddetto «radicale» nacque sulla scia della denuncia, da parte delle donne, di for­ me di emarginazione e discriminazione che si perpetravano anche all’in­ terno dei gruppi di contestazione. Proprio l’esperienza e le contraddi-

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La «liberazione» della donna

Il femminismo della «seconda ondata»

Modifiche del diritto di famiglia e del diritto civile in molti Paesi

Lo slogan «il personale è politico»

Il movimento femminista negli Stati Uniti

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La riappropriazione del corpo e della sessualità

Il riconoscimento di una «specificità femminile»

Il «decennio della donna» lanciato dall'ONU

Storia contemporanea

zioni rilevate nei movimenti giovanili del Sessantotto spinsero le don­ ne a ripensare in modo critico i modelli culturali alla base del rapporto uomo-donna che constatarono essere radicati anche negli ambienti in­ tellettuali più preparati. Questo le portò a rivendicare la riappropria­ zione del loro corpo e della loro sessualità, considerandola una tappa fondamentale per rompere l’ordine patriarcale aH’interno della fami­ glia e della società. Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Set­ tanta, il femminismo europeo ed americano assunse quindi accenti più radicali, battendosi non solo per la «sepoltura della femminilità tradi­ zionale» - come dicevano le femministe - ma anche per un progetto di società completamente diversa, più attenta ai ritmi e alla sensibilità delle donne. Le lotte per la depenalizzazione dell’interruzione volon­ taria della gravidanza e per una corretta informazione sull’uso dei contraccettivi, l’organizzazione di centri di accoglienza per le vittime degli stupri e di consultori autogestiti per l’educazione sessuale furono tutti atti che miravano ad affermare l’autonomia e l’identità, indivi­ duale e collettiva, delle donne. Da allora il femminismo ha intrapreso numerosi percorsi, spesso anche conflittuali, ma sempre finalizzati al riconoscimento di una «specificità femminile», di una differenza sessuale e di genere che do­ veva servire a comprendere e gestire la società attraverso la distinzio­ ne dei vari soggetti che la compongono. Il concetto di «differenza ses­ suale» è stato dunque lo strumento teorico a cui le femministe hanno attinto per rielaborare il linguaggio e le categorie politiche tradiziona­ li, mettendo in luce, come già avevano fatto le suffragiste tra Otto e Novecento, le contraddizioni insite nell’universalismo dei diritti pro­ prio della tradizione liberale. Accentuando l’aspetto del «separatismo» e delle «differenze», le femministe hanno così contribuito ad affermare il riconoscimento di differenze - di classe, religione, etnia, preferenze sessuali - sempre più presenti nelle società contemporanee. Proprio alle teoriche del femmi­ nismo, quindi, si possono in parte far risalire le riflessioni su uno dei no­ di problematici del mondo odierno: come conciliare l’universalismo dei diritti con le tante differenze presenti all’interno di società complesse. Il cosiddetto «decennio della donna», lanciato dall’ONU nel 1975 con la Conferenza di Città del Messico (-*-) fu ricco di iniziative, ri­ volte soprattutto alle donne dei Paesi in via di sviluppo. Nel 1979 fu approvata la Carta dei diritti delle donne (poi entrata in vigore nel 1981), dove si promuoveva la lotta contro tutte le forme di violenza e discriminazione nei confronti delle donne in ambito sia economico sia culturale; le successive Conferenze di Copenaghen (1980), Nairobi (1985), Vienna (1993), Pechino (1995), che videro la partecipazione di migliaia di donne, misero sotto accusa le condizioni di sfruttamento lavorativo, gli abusi sessuali, gli stupri, gli infanticidi e le mutilazioni sessuali di cui le donne erano - e in alcuni casi sono ancora - vittime nei Paesi in via di sviluppo. Affermando il principio della difesa dei diritti delle donne all’inter­ no della più ampia sfera dei diritti umani (—>■), le battaglie delle femmi­ niste del Nord e del Sud del mondo si sono indirizzate, negli ultimi

Gli anni Settanta come svolta

trentanni, a denunciare e sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale circa la persistenza delle discriminazioni e delle violenze nei confronti delle donne, come pure le conseguenze sulle loro vite dei processi di tra­ sformazione economica globali. Anche se risultati positivi si sono rag­ giunti, in alcuni contesti nazionali, sul fronte della scolarizzazione fem­ minile e delFallungamento della vita media delle donne, le condizioni delle donne nei Paesi del Sud del mondo restano ancora molto difficili. Soprattutto il riemergere di diversi fondamentalismi e un’interpretazio­ ne rigida della difesa dei diritti culturali o collettivi in nome del multi­ culturalismo (-*-) hanno avuto come conseguenza quella di sfidare di nuovo il principio del rispetto dei diritti individuali delle donne. Ed è proprio la difesa del concetto di individualità femminile che oggi sem­ bra costituire il terreno di lotta più significativo per i movimenti femmi­ nisti del Nord e del Sud del mondo.

le difficili condizioni delle donne nei Paesi del Sud del mondo

14.3 La crisi petrolifera e il crollo del sistema di Bretton Woods Alla fine degli anni Sessanta iniziarono a manifestarsi le prime crepe nel sistema economico e finanziario dei Paesi del blocco occi­ dentale, che si fondava ancora sugli accordi di Bretton Woods del 1944. Gli accordi di Bretton Essi stabilivano un sistema di cambi che legava le singole monete al Woods del 1944 dollaro; stabilivano cioè che il dollaro americano fosse l’unica valuta convertibile in oro, secondo un rapporto di 35 dollari per un’oncia d’oro (circa 31 grammi). Il dollaro diventava così la valuta di riferi­ mento per gli scambi. Negli anni Cinquanta investimenti e prestiti americani accrebbero la massa di moneta circolante, facendo al tempo stesso da volano per l’economia statunitense. Nel decennio successivo, tuttavia, diversi elementi cominciarono a mettere in crisi questo siste­ Le prime crepe ma economico e finanziario. Nel 1967 la Gran Bretagna infatti, per far nel sistema economico fronte alla crisi economica che stava attraversando e sostenere le pro­ e finanziario basato prie esportazioni, violò l’accordo sui cambi svalutando la sterlina in sul cambio dollari/oro rapporto al dollaro di oltre 14 punti percentuali. Anche il primato del dollaro cominciò a vacillare sia per le continue risorse assorbite dal settore strategico e degli armamenti, sia perché le economie dei Paesi dell’Europa occidentale e del Giappone erano cresciute al punto da fa­ re concorrenza alla capacità produttiva americana. All’inizio degli an­ ni Settanta, infatti, il primo esportatore mondiale di prodotti indu­ striali era ormai la Germania Ovest, mentre gli Stati Uniti passavano al secondo posto seguiti dal Giappone. Nel corso degli anni Sessanta, poi, l’Unione Sovietica, temendo che gli USA potessero congelare i depositi di dollari russi nelle loro banche, iniziarono ad accumulare le proprie riserve valutarie su banche europee Le riserve valutarie (i cosiddetti «euro-dollari»), creando così una massa monetaria che dell'URSS sfuggiva al diretto controllo americano e di cui non poteva essere garan­ tita la convertibilità in oro. Analogamente fecero i Paesi produttori di petrolio, che inflazionarono l’offerta di dollari sul mercato attraverso i «petrodollari»; con questo termine si indicavano i depositi, prevalente-

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Progressivo deprezzamento del dollaro

La sospensione delia convertibilità dollari/oro

Il costante aumento del prezzo del petrolio

Il potere di ricatto dell'OPEC La guerra dello Yom Kippur e la ritorsione dell'OPEC

Lo shock petrolifero

Storia contemporanea

mente in dollari, che i Paesi esportatori di petrolio accumulavano grazie ai forti avanzi della loro bilancia dei pagamenti. Tali Paesi utilizzavano i petrodollari non investendoli nelle loro economie bensì nell’acquisto di titoli e valuta esteri, destabilizzando l’intero sistema economico basato sul cambio dollari/oro. La massiccia circolazione di dollari all’estero, di cui la stessa banca di Stato americana, la Federai Reserve, ignorava allo­ cazione e volume, produssero il progressivo deprezzamento della mone­ ta americana per via della diminuzione del rapporto di cambio tra dolla­ ri e oro. Mentre nel 1948 gli Stati Uniti possedevano più del 73% delle riserve auree del pianeta e i Paesi della futura Comunità economica eu­ ropea solo il 4,3, nel 1970 le riserve americane erano scese al 28,8% a fronte di un grosso aumento di quelle europee che raggiunsero il 36,7%. Il presidente Nixon, di fronte al rischio di una grave crisi di insolvenza, nell’agosto 1971 annunciò la sospensione della convertibilità del dollaro in oro e decise di introdurre forti dazi protezionistici sui beni d’importa­ zione. Entrambi questi provvedimenti segnarono la fine del sistema di Bretton Woods e al tempo stesso ridimensionarono sensibilmente il ruo­ lo dell’economia americana nel mondo. Il principale fattore che aveva messo in crisi il sistema economicofinanziario creato alla fine della Seconda Guerra mondiale fu il costan­ te aumento del prezzo del petrolio, ormai diventato la principale fonte energetica dei Paesi industrializzati al posto del carbone. Già nel 1960 era nata YOrganization o f thè Petroleum Exporting Countries (OPEC —►), che riuniva un gruppo di Paesi produttori di petrolio con l’obietti­ vo di arginare lo strapotere delle cosiddette «sette sorelle» (—>), ovve­ ro le principali compagnie petrolifere occidentali. Nel 1967 poi, dopo la guerra arabo-israeliana dei Sei Giorni, i Paesi produttori di petrolio tentarono un embargo per colpire le economie occidentali che, pur riu­ scendo solo in parte a causa dello scarso coordinamento all’interno dell’OPEC, fu comunque il primo campanello d’allarme circa il potere di ricatto detenuto dai Paesi produttori di petrolio, collocati in larga parte nell’area mediorientale. Lo scoppio della guerra dello Yom Kippur, nell'ottobre 1973 (cap. 13.2), fece precipitare la situazione in modo drammatico. I sei Paesi dell’OPEC (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait, Iraq, Iran e Qa­ tar) annunciarono una drastica riduzione della produzione e il con­ temporaneo aumento del prezzo del petrolio fino a che Israele non si fosse ritirata da tutti i territori occupati nel 1967. Fu deciso inoltre l’embargo totale nei confronti di Stati Uniti e Olanda. In soli due mesi, da ottobre a dicembre, il prezzo del greggio salì da 5,12 a 11,6 dollari al barile, mentre nel 1970 costava solo 1,7 dollari. Lo shock petrolifero colpì immediatamente la produzione industriale, soprattutto quella dei Paesi, come Italia e Giappone, che dipendevano quasi esclusivamente dall’estero per il proprio fabbisogno energetico. L’aumento del prezzo del petrolio si riversò a sua volta sui prezzi dei beni di consumo, producendo un drastico aumento del tasso d’inflazione in tutti i Paesi industrializzati. Ne conseguì un netto calo dei consumi, soprattutto in alcuni settori, e una conseguente contrazione degli investimenti e del­ la produzione. Fra il 1975 e il 1976 la produzione industriale diminuì

Gli anni Settanta come svolta

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drasticamente sia nell’Europa occidentale sia in Giappone e Stati Uni­ Il crollo ti. In Giappone il calo fu deH’11,3%, negli Stati Uniti del 10,6%. L’im­ della produzione provvisa e vertiginosa disponibilità finanziaria dei Paesi arabi produt­ industriale occidentale tori di petrolio fu impiegata negli investimenti interni per i servizi, in investimenti industriali all’estero e nell’importazione di beni dall’este­ ro; la domanda di beni e prodotti da parte dei Paesi mediorientali die­ de una boccata d’ossigeno alle economie occidentali che videro così una parziale ripresa delle esportazioni. La recessione delle economie occidentali innescata dallo shock pe­ trolifero ebbe, nel medio periodo, risultati diversi rispetto ad analoghe crisi del passato; in nessun Paese, infatti, si registrò un processo deflati­ vo a fronte del calo di produzione. Al contrario, la recessione fu accom­ pagnata da una spinta inflazionistica che produsse un aumento dei prez­ zi con percentuali comprese tra il 10% e il 20% annui. Questo fenome­ no, definito «stagflazione» per evidenziare la drammatica concomitanza La «stagflazione» tra stagnazione produttiva e inflazione, fu determinato da diversi fatto­ ri. Da un lato, se l’inflazione era stata originata da un aumento a catena dei prezzi, il suo livello si era mantenuto in costante crescita per il siste­ ma di tutela dei salari, che venivano progressivamente adeguati all’au­ mento dei prezzi per mantenerne il reale potere d’acquisto; un meccani­ smo questo che in Italia aveva preso il nome di «scala mobile». Dall’altro lato, visto che la domanda di alcuni beni era elastica, ovvero inversa­ mente proporzionale al loro prezzo, ne conseguiva che, a fronte di un calo della domanda, la produzione di determinati beni rallentasse pro­ ducendo stagnazione in quei settori. Fu per la combinazione di questi fattori che le economie dei Paesi industrializzati, nella seconda metà de­ gli anni Settanta, furono attraversate da fenomeni tendenzialmente con­ trastanti, l’inflazione e la stagnazione. La crisi produsse numerosi effetti anche sul piano sociale, primi fra Gli effetti sul piano tutti il vertiginoso aumento della disoccupazione e un calo del tenore di sociale vita generale. In ambito economico, invece, si assistette, nei dieci anni successivi, a un’accelerata «terziarizzazione» delle economie dei Paesi a sviluppo avanzato che, attraverso la progressiva espansione del settore L'espansione terziario, riuscirono in parte ad assorbire la disoccupazione prodotta del settore terziario dalla crisi delle industrie. Tuttavia, come vedremo, non fu solo attraver­ so il potenziamento del terziario che i Paesi industrializzati cercarono di far fronte alla disoccupazione. In sintonia, infatti, con le teorie proposte dalle scuole di pensiero economico liberista e monetarista, facenti capo all’austriaco Friedrich von Hayek (—>-) ed all’americano Milton Friedman (->-), alcuni Paesi intrapresero politiche di riduzione della spesa pubblica allo scopo di contrastare l’inflazione e favorire la stabilizzazio­ ne monetaria e il rigore economico. 14.4 Le difficoltà statunitensi e l'avvio della distensione La campagna elettorale del 1968, dopo l’annuncio di Johnson di non ricandidarsi alla presidenza, si svolse in un clima di grandi tensioni e fu completamente monopolizzata dal problema del Vietnam. Problema

La questione del Vietnam

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L'assassinio di Robert Kennedy

L'elezione del repubblicano Nixon

La strategia di Nixon e Kissinger perii Vietnam

Politica interna conservatrice

Svolta nella politica estera: la fase della «distensione»

Storia contemporanea

che, come si è visto, da tempo aveva prodotto una spaccatura nell’opinione pubblica americana (cap. 13.1). Lo stesso Partito democratico era oramai diviso tra quanti erano favorevoli a continuare la guerra e chi, più realisticamente, propendeva per un graduale ritiro delle truppe. Tra questi il senatore Robert Kennedy, fratello del presidente assassinato a Dallas, e candidato alla presidenza per il Partito democratico; lui stes­ so, però, cadde vittima di un attentato il 5 giugno 1968 a Los Angeles. Due mesi prima era stato assassinato il leader del movimento antise­ gregazionista Martin Luther King. Fu in questo clima, percorso da pre­ occupanti segnali di violenza, che si svolsero le elezioni presidenziali del 1968, vinte dal candidato repubblicano Richard Nixon. Questi si era presentato con un programma all’insegna della pace, dell’armonia nazionale e del rigore economico. La strategia che Nixon e il suo principale collaboratore per gli affari internazionali Henry Kissinger decisero di adottare in Vietnam (cap. 13.1) era articolata su tre punti: il ritiro graduale delle truppe di terra, l’intensificazione dei bombardamenti sul Vietnam del Nord e la cosid­ detta «vietnamizzazione» del conflitto, tesa a rendere il regime del Sud progressivamente autosufficiente e in grado di reggere lo scontro coi vietcong senza il sostegno americano. Convinto della scarsa rilevanza strategica del teatro vietnamita nel contesto dello scontro bipolare, ma altresì desideroso di una «pace con onore», Nixon iniziò a ridurre il nu­ mero dei soldati americani e nel contempo fece aumentare i bombardamenti sul Nord, che culminarono nel Natale del 1972. Cercò anche di estendere il conflitto alle regioni confinanti del Laos e della Cambogia, dove era in atto una guerriglia di matrice comunista e transitavano i rifornimenti inviati ai vietcong dal regime nordvietnamita. Il cambio di rotta in Vietnam da parte dell’amministrazione Nixon, che comunque non aveva placato del tutto le proteste contro la guerra, fu accompagnato in politica interna da un orientamento conservatore. Nixon mise in atto, infatti, una dura battaglia giudiziaria e repressiva contro i gruppi pacifisti radicali e i movimenti di protesta; inoltre, in no­ me delle sue teorie sull’«autosufficienza» e sul «controllo locale», iniziò a smantellare molti dei provvedimenti di previdenza sociale varati da Johnson. Proprio per realizzare questi obiettivi presentò un progetto de­ finito new federalism, con cui si proponeva di ridurre le competenze del governo centrale cedendole ai singoli Stati. Al tempo stesso, consapevo­ le che la formale uguaglianza dei cittadini sancita dal Civil Rights Act del 1964 non aveva prodotto un’effettiva parità di diritti e possibilità fra bianchi e neri, Nixon promosse lo strumento àeìYafformative action (—►), un pacchetto di norme di anti-discriminazione a sostegno delle minoranze etniche. L’esito della questione vietnamita impresse una svolta decisiva alla politica estera americana di Nixon e Kissinger, il quale proprio nel set­ tembre 1973 assunse la carica di segretario di Stato. Il conflitto in Vie­ tnam e la corsa agli armamenti si erano rivelati estremamente costosi per gli Stati Uniti. Si aprì dunque, alla fine degli anni Sessanta, una nuo­ va fase nella storia della Guerra Fredda comunemente definita «disten­ sione», che sarebbe durata all’incirca un decennio. Anche il leader so­

Gli anni Settanta come svolta

vietico Breznev, d’altra parte, aveva numerosi motivi per volere la di­ stensione. Essa infatti non solo avrebbe significato un sostanziale riconoscimento della forza del blocco sovietico da parte degli Stati Uni­ ti, ma avrebbe anche comportato per l’URSS l’accesso alle tecnologie e al commercio occidentale e le avrebbe consentito, analogamente agli USA, di ridurre i costi della corsa agli armamenti. Inoltre la distensione con Washington poteva permettere a Mosca di affrontare con più deci­ sione le sempre più gravi tensioni con la Cina, iniziate negli anni Sessan­ ta e cresciute di intensità fino a produrre veri e propri scontri militari lungo la linea di confine tra i due Paesi (cap. 10.5). Anche dall’Europa, in quegli anni, vennero importanti segnali di di­ stensione. Willy Brandt (—>), leader della SPD nominato cancelliere della Repubblica federale nel 1969, da tempo era fautore di una politica di graduale apertura verso Est, volta soprattutto a riallacciare i rapporti con la DDR. Diventato cancelliere, pose la cosiddetta Ostpolitik (—►) al centro del suo programma di governo; a differenza di Adenauer, infatti, era convinto che bisognasse accettare lo status quo della divisione della Germania e, nonostante le iniziali resistenze del leader della DDR Ulbricht, alla fine la sua linea si impose. Grazie anche alla buona disposi­ zione di Breznev, la Repubblica federale siglò un accordo con l’URSS nel 1970, in cui entrambi i Paesi si impegnavano a rispettare la divisione della Germania. Nel dicembre 1972, poi, Brandt firmò un trattato coi tedeschi orientali che sanciva l’inviolabilità dei confini tra i due Stati te­ deschi, ma soprattutto ne riconosceva reciprocamente 1’esistenza. Nella strategia di distensione portata avanti dagli Stati Uniti si era nel frattempo cominciata a profilare la possibilità dell’apertura verso la Cina comunista. Iniziata con l’invio a Pechino di una squadra ame­ ricana di giocatori di tennis da tavolo nella primavera 1971, da cui il nome ping pong diplomacy, era poi proseguita con l’ammissione della Repubblica Popolare cinese nel Consiglio di sicurezza dell’ONU al posto della Cina nazionalista (Taiwan). La distensione tra Washington e Pechino culminò con lo storico viaggio di Nixon in Cina, nel febbraio 1972, dove il presidente americano incontrò il leader cinese Mao. Il dialogo tra i due Paesi, che sembrava riprendere dopo una contrappo­ sizione netta e radicale durata più di vent’anni, se da un lato rientrava nel programma americano di chiusura del conflitto vietnamita, dall’al­ tro rappresentava una delle tappe principali del processo di attenua­ zione della Guerra Fredda. La reazione di Mosca al riavvicinamento tra Stati Uniti e Cina fu di accelerare il dialogo con gii americani sul problema cruciale della ridu­ zione degli armamenti strategici. Iniziate già nel 1969, le trattative si in­ tensificarono infatti a partire dal 1972. Nel maggio di quell’anno Breznev e Nixon siglarono l’accordo SALT I (Strategie Arm s Limitation Talks —>-), che limitava il numero di missili balistici intercontinentali e fissava una soglia alle armi strategiche offensive di entrambi i Paesi. La firma del primo trattato sul controllo degli armamenti e la stabilizzazio­ ne definitiva delle sfere di influenza in Europa, prodotta anche grazie alla Ostpolitik di Brandt, non implicarono tuttavia il venir meno dell’an­ tagonismo nelle aree periferiche. Mosca, infatti, mantenne inalterato il

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Segnali di distensione anche in Europa

L'apertura verso Est della Germania federale di Brandt

La ping pong diplomacy e la distensione tra Washington e Pechino

Lo storico viaggio in Cina di Nixon

Il primo trattato sul controllo degli armamenti

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Storia contemporanea

suo sostegno alle forze rivoluzionarie nei Paesi del Terzo Mondo e Wa­ shington continuò a contrastare energicamente la possibile formazione di regimi filocomunisti in America Latina, come già era avvenuto nel 1973 in Cile (cap. 12.4). Le scelte di politica internazionale di Nixon furono in parte determi­ La recessione economica USA nate anche dalla situazione interna; l’economia americana aveva infatti imboccato la strada della recessione e nel 1971 Nixon era stato costretto a porre fine alla convertibilità del dollaro (cap. 14.3). Lo stato di crisi e prostrazione in cui versava il Paese peggiorò ulteriormente, soprattutto agli occhi dell’opinione pubblica americana, tra il 1973 e il 1974 quando Lo scandalo Watergate il presidente fu travolto dallo scandalo Watergate (—*■) in seguito a e le dimissioni di Nixon un’inchiesta giornalistica che lo accusava di aver coperto attività illecite di spionaggio da parte di suoi stretti collaboratori ai danni del Partito democratico. Di fronte all’eventualità che il Congresso ricorresse alla procedura di impeachment (-* ), Nixon si dimise. Il vicepresidente Ge­ rald R. Ford (—►), che gli subentrò alla presidenza, dopo un mese gli concesse la grazia. 14.5 L'Italia negli «anni di piombo» La stagione delle riforme

Un sistema bloccato

Le organizzazioni eversive di destra

I gruppi armati della sinistra estrema

Sull’onda della mobilitazione studentesca e operaia del ’68-’69, la classe politica italiana avviò una stagione di riforme in numerosi settori che si sarebbe protratta per tutti gli anni Settanta. Nel 1969 fu riformato il sistema pensionistico e nel 1971 l’ordinamento fiscale; nel 1970 venne attuato concretamente l’istituto delle regioni, già previsto dalla Costitu­ zione, e tra il 1974 e il 1978 si gettarono le basi del servizio sanitario na­ zionale gratuito per tutti i cittadini. Nel 1970, inoltre, il Parlamento ap­ provò, nonostante l’opposizione della Democrazia Cristiana, la legge sul divorzio, una delle principali battaglie condotte in quegli anni dal Parti­ to radicale di Marco Pannella (-^-), che venne poi confermata da un re­ ferendum nel 1974. Negli stessi anni fu varato il nuovo diritto di famiglia e nel 1978 il Parlamento approvò la legge sulla legalizzazione dell’inter­ ruzione volontaria della gravidanza. Nonostante, i primi adeguamenti legislativi alle pressioni sociali e culturali in atto, la riproposizione della tradizionale alleanza governati­ va di centro-sinistra svelò ben presto tutte le fragilità di un sistema poli­ tico bloccato, dove l’impossibilità dell’alternanza fra i principali schieramenti in campo non solo impediva di far fronte con interventi struttura­ li al malessere economico-sociale del Paese, ma soprattutto rischiava di lasciare spazio a frange politiche estremiste cresciute fuori dagli schie­ ramenti costituzionali sia a destra sia a sinistra. Proprio a cavallo degli anni Settanta, infatti, si cominciarono a formare organizzazioni eversive di destra, come Ordine nuovo (—*-) e Avanguardia nazionale (->-), che intendevano dare, attraverso la lotta armata, un esito autoritario alla crisi politico-sociale in corso. Sul fronte opposto, da alcune frange mi­ noritarie della cosiddetta sinistra extraparlamentare (—►) formatasi ne­ gli anni della contestazione studentesca (cap. 14.1), nacquero gruppi ar­ mati clandestini, come le Brigate Rosse (—>-), Prima linea ( ^ - ) e i

Gli anni Settanta come svolta

Gruppi comunisti combattenti (—»-), desiderosi di intraprendente una lotta frontale contro lo Stato e le sue istituzioni. Questa situazione di grande instabilità esplose nel dicembre del 1969, inaugurando una fase drammatica della storia italiana che ha por­ tato a definire gli anni Settanta come «anni di piombo»; fra il 1969 e il 1980, infatti, il terrorismo eversivo di destra e sinistra provocò la morte di 415 persone e ne ferì circa un migliaio. Durante questi anni, per la prima volta dalla fine della guerra, lo Stato si trovò a dover far fronte a un «nemico interno» di cui faceva fatica a mettere a fuoco le caratteristi­ che e il radicamento nel Paese. Il primo di questa serie di avvenimenti che insanguinarono l’Italia avvenne il 12 dicembre 1969, quando fu fatta scoppiare una bomba nella sede della banca nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano. Si contarono 17 morti e numerosi feriti. La polizia seguì inizialmente la pista degli anarchici, arrestando alcuni esponenti del movimento anarchico che poi si rivelarono completamen­ te estranei ai fatti. Uno di essi, Giuseppe Pinelli (—*-) durante l’interro­ gatorio nella sede della polizia cadde dalla finestra e morì, alimentando così nelle frange della sinistra extraparlamentare un clima di sospetto e odio nei confronti delle istituzioni che avrebbe lasciato un’ulteriore scia di sangue. Accusato dall’estrema sinistra di essere implicato nella morte di Pinelli, il commissario di polizia Luigi Calabresi (-—►), che una suc­ cessiva inchiesta ha dimostrato essere estraneo ai fatti, venne ucciso nel maggio 1972 e un lunghissimo iter giudiziario ne ha alla fine attribuito la responsabilità a un commando di Lotta continua. Ben presto si comprese che la strage di piazza Fontana era il primo atto di un disegno eversivo dell’estrema destra promosso con la collaborazione di alcuni settori dei servizi segreti e delle forze armate italiane. In questo modo, facendo leva sulle paure dell’opinione pubblica, si in­ tendeva dar vita a una «strategia della tensione» volta a spostare a de­ stra gli equilibri politici del Paese, fino ad arrivare ad una vera e propria involuzione in senso autoritario delle istituzioni dello Stato. Nonostante l’alone di mistero che, ancora oggi, continua a circondare molti dei drammatici eventi degli anni Settanta, appare confermata, anche in se­ guito a diverse sentenze dei tribunali, la collusione tra il terrorismo neo­ fascista e alcuni settori deviati dei servizi segreti italiani anche per le successive stragi che insanguinarono il Paese. Nel 1974 esplosero due bombe, una in piazza della Loggia a Brescia, durante un comizio sinda­ cale, e un’altra sul treno Italicus nel tratto fra Firenze e Bologna, provo­ cando complessivamente 20 morti. Il 2 agosto 1980 una bomba alla sta­ zione di Bologna causò 85 morti e oltre 200 feriti e quattro anni dopo un ordigno esplose sul treno 904 Roma-Milano, sempre lungo la tratta ap­ penninica tra Firenze e Bologna; benché di quest’ultimo episodio sia stata individuata un’origine mafiosa, la strage del treno 904, nella quale si evidenziarono rapporti incrociati tra mafia, servizi segreti, criminali­ tà politica e comune, si può considerare l’ultima delle grandi stragi che insanguinarono il quindicennio 1969-1984. In parte come reazione agli attentati dei primi anni Settanta, che parevano confermare la presenza di un piano autoritario volto ad ab­ battere le istituzioni della democrazia italiana, in parte per rilanciare la

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Gli «anni di piombo»

La strage di piazza Fontana a Milano

Il disegno eversivo dell'estrema destra

La «strategia della tensione»

I settori deviati dei servizi segreti

Le grandi stragi degli anni 1969-1984

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L'azione delle Brigate Rosse

La «propaganda armata» La gravissima recessione economica

La ricerca di «equilibri più avanzati» rispetto all'alleanza tradizionale di centro-sinistra

L'eurocomunismo

Berlinguer e il «compromesso storico»

Il sostegno di Moro

Storia contemporanea

prospettiva rivoluzionaria abbandonata dal Partito comunista, ritenuto troppo compromesso con il sistema di potere tradizionale, i gruppi ar­ mati della sinistra estrema, soprattutto quello delle Brigate Rosse, co­ minciarono a colpire i presunti simboli dello «Stato capitalista». Gior­ nalisti, magistrati, dirigenti industriali, funzionari pubblici entrarono quindi nel mirino delle Brigate Rosse e tra il 1974, quando fu rapito, e poi rilasciato, il giudice genovese Mario Sossi (->-), e il 1978 quando, come vedremo, le Brigate Rosse portarono il loro «attacco al cuore del­ lo Stato», la cosiddetta «propaganda armata» dei brigatisti dispiegò la massima violenza. La drammatica stagione del terrorismo si sovrappose a una fase di recessione economica gravissima che, a partire dal 1973, mise in ginoc­ chio l’economia italiana e riacutizzò i conflitti sociali e le rivendicazioni operaie. L’aumento del prezzo del petrolio aveva provocato infatti un drastico aumento dei prezzi in tutti i settori, mentre il tasso di inflazione era cresciuto costantemente con una media del 16% annuo, toccando nel 1974 addirittura il 24,1%. Di fronte a questa miscela esplosiva di re­ cessione economica, disoccupazione e terrorismo, una parte della classe politica capì che la sola strada per dare più solidità e incisività all’azione dei governi, in modo da poter tenere testa alle numerose emergenze del Paese, era quella di cercare «equilibri più avanzati» rispetto all’alleanza tradizionale dei partiti di centro-sinistra. Si trattò di un percorso lungo e sofferto che coinvolse sia il Partito socialista e alcuni settori della sini­ stra DC, disponibili ad attuare una «strategia dell’attenzione» nei con­ fronti del gruppo parlamentare comunista, sia lo stesso Partito comuni­ sta. Il suo segretario Enrico Berlinguer (—V), infatti, pur tra molte diffi­ coltà e contraddizioni e senza rinunciare ad un’identità che aveva le proprie radici nel leninismo, stava cercando di coniugarla con le trasfor­ mazioni sociali, politiche, economiche in corso. Già dal 1968 i comunisti italiani, francesi e spagnoli, denunciando l’intervento sovietico a Praga, avevano elaborato una «via al socialismo» alternativa a quella proposta da Mosca, che prese il nome di eurocomu­ nismo (—►) proprio per sottolineare l’accresciuta distanza dal modello sovietico e la volontà di trovare una strada comune fra i partiti comuni­ sti dei Paesi dell’Europa occidentale, aperta alla collaborazione con le socialdemocrazie e coi partiti liberal-democratici. La scelta di Berlin­ guer di procedere verso un «compromesso storico» (—►) tra comunisti, socialisti e democristiani, per superare la crisi economica e politica del Paese, subì un’accelerazione dopo che, nel 1973, il governo del socialista Salvador Allende era stato abbattuto in Cile dal golpe del generale Pinochet (12.4). L’esperienza cilena aveva convinto Berlinguer della ne­ cessità di trovare un patto di solidarietà nazionale che, allargando la ba­ se di consenso del governo, fosse in grado di tutelare le istituzioni della democrazia italiana da analoghi colpi di coda reazionari. In realtà questo progetto, che pure ebbe il sostegno dell’allora presi­ dente della DC Aldo Moro, si scontrò con la tenace resistenza di ampi settori della Democrazia Cristiana e di alcuni dei partiti suoi tradiziona­ li alleati. Le elezioni politiche del 1976 fecero capire chiaramente, tutta­ via, che non si poteva prescindere da alleanze di tipo nuovo. A fronte di

Gli anni Settanta come svolta

un 38,7% ottenuto dalla DC, il Partito comunista era arrivato a toccare il 34,4% dei voti alla Camera e il 33,8% al Senato dimostrando, con la sconfitta dei partiti minori e dello stesso PSI, un’evidente accentuazione nel processo di polarizzazione in atto nell’elettorato italiano. Ci si ap­ prestò dunque a formare governi che, per l’ampia maggioranza su cui potevano contare, furono chiamati di «solidarietà nazionale». Tale linea politica intendeva comprendere sia la strategia del «compromesso stori­ co» di Berlinguer sia quella definita da Moro «terza fase», ovvero una formula politica che, dopo il centrismo e il centro-sinistra, doveva indi­ viduare i nuovi equilibri che si erano creati nel Paese. A guidare il primo esecutivo di «solidarietà nazionale» fu chiamato Giulio Andreotti (—>-), il quale costituì un governo monocolore democristiano che poteva contare, al momento del voto in aula, sulle astensio­ ni concordate di PCI, PSI, PSDI, PLI e degli Indipendenti di sinistra e che per questo viene ricordato come il «governo delle astensioni». Si trattava di un esito diverso rispetto all’idea di Berlinguer di portare i co­ munisti al governo insieme alla DC, ma apparve in quel momento la sola strada percorribile di fronte alle resistenze di ampi settori della Demo­ crazia Cristiana e alle perplessità della stessa amministrazione america­ na verso il pieno inserimento dei comunisti nell’area governativa. Tale strategia, che sembrava parzialmente riproporre il modello dell’unità nazionale antifascista del periodo resistenziale, proseguì nei due anni successivi, quando si aggravò l’emergenza del terrorismo di si­ nistra e nel 1977 si ebbe una nuova fiammata di contestazione studente­ sca. Più circoscritta di quella sessantottina, la protesta dei giovani torna­ va a denunciare, anche in modo violento, il disagio giovanile verso una società avara di prospettive e verso una classe politica che sembrava aver perso la capacità di dialogare coi cittadini. Emblematica di questa nuova contestazione fu la protesta degli studenti che impedì al segreta­ rio della CGIL Luciano Lama (->-) di tenere un comizio all’interno dell’Università La Sapienza di Roma. Pu nel quadro di queste crescenti tensioni, dove la stessa strategia della «solidarietà nazionale» rischiava di esacerbare ancor di più il ra­ dicalismo di una parte dei m ilitanti della sinistra, che si consumò l’azione più eclatante delle Brigate Rosse. Il 16 marzo 1978 un com­ mando delle BR rapì il presidente della DC Moro, dopo aver massa­ crato, con un’operazione di efferata precisione, i cinque uomini della sua scorta. L’obiettivo era quello di colpire uno dei simboli di trent’anni di potere democristiano in Italia. La maggior parte delle forze po­ litiche, pur nel tragico dilemma se scegliere la strada della fermezza oppure quella della trattativa, patrocinata con forza dal Partito socia­ lista, optò per la linea del rifiuto di qualsiasi accordo coi brigatisti che, in cambio del rilascio dell’ostaggio, chiedevano la liberazione di alcuni loro militanti detenuti in carcere. Lo stesso PCI fece subito quadrato con gli altri partiti per la difesa dello Stato, condannando senza mezzi termini l’azione dei terroristi e respingendo qualsiasi ipo­ tesi di compromesso, nonostante fosse chiaro che ormai la posta in gioco era la stessa vita di Moro. Le indagini, come ha messo in luce il lavoro della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e

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I governi di «solidarietà nazionale»

La contestazione studentesca del 1977

Il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse

La strategia della fermezza dinanzi alle richieste delle BR

328

L'assassinio di Moro

L'alleanza governativa del pentapartito

La lotta al terrorismo del generale Dalla Chiesa

Gli omicidi delle BR nel ventennio successivo

Storia contemporanea

le stragi diretta dal senatore Giovanni Pellegrino (—►), furono mal condotte dalle forze dell’ordine e dai reparti di intelligence. Il tragico epilogo si consumò il 9 maggio 1978, quando il cadavere di Aldo Mo­ ro venne fatto ritrovare nel bagagliaio di un’auto parcheggiata in via Caetani, a Roma; luogo niente affatto casuale perché la strada si trova tra piazza del Gesù, sede della Democrazia Cristiana, e via delle Bot­ teghe Oscure, sede del Partito comunista. Il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro rappresentarono un punto di svolta nella storia italiana dei drammatici «anni di piombo». La li­ nea della «solidarietà nazionale», già entrata in crisi all’inizio dell’an­ no di fronte all’ultimatum del PCI che chiedeva di entrare direttamen­ te al governo pena un suo ritorno all’opposizione, si esaurì compietamente nel corso del 1979, profilando già all’orizzonte un’alleanza governativa, il cosiddetto pentapartito, che avrebbe cercato di ripro­ porre negli anni successivi i vecchi equilibri allargati del centro-sini­ stra sperimentato negli anni Sessanta. Al tempo stesso, però, la capaci­ tà di tenuta delle istituzioni democratiche dinanzi al caso Moro e l’on­ data di indignazione che la vicenda aveva suscitato nell’opinione pubblica italiana esaurirono progressivamente la spinta delle Brigate Rosse, sempre più isolate anche all’interno dei gruppi della sinistra ra­ dicale. Inoltre, già all’indomani dell’assassinio di Moro, il governo si impegnò a lanciare una sfida definitiva al terrorismo, affidando poteri speciali di intervento al generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa (—»-). Per quanto la concessione di poteri illimitati a un milita­ re contrastasse col bagaglio culturale della sinistra, comunisti e socia­ listi non si opposero al provvedimento, facendo fronte comune col re­ sto della classe politica per la salvaguardia delle istituzioni. Dalla Chiesa, grazie all’abilità investigativa dei suoi uomini, all’utilizzo della figura giuridica del pentito (—>) e sfruttando anche le divisioni inter­ ne alle BR, riuscì nel giro di pochi anni a smantellare molte cellule ter­ roristiche e a ridurne drasticamente la capacità operativa. Nel 1981, tuttavia, le Brigate Rosse tornarono all’azione con il rapi­ mento del generale americano della NATO James L. Dozier (—►), in servizio a Verona. Il rapimento, che negli intenti dei brigatisti ne avreb­ be dovuto rilanciare l’azione, si concluse però con un’operazione di po­ lizia che portò alla liberazione dell’ostaggio e all’arresto dei brigatisti, segnando una crisi irreversibile della loro organizzazione. Nonostante questo, nei vent’anni successivi il Paese fu ancora colpito da omicidi ri­ vendicati dalle Brigate Rosse: nel febbraio 1980 venne assassinato il giurista Vittorio Bachelet (—►), nell’aprile 1988 il senatore democri­ stiano Roberto Ruffilli (—>), nel 1999 e nel 2002 furono assassinati i giuslavoristi Massimo D ’Antona (—>) e Marco Biagi (—>-). Benché, quindi, all’inizio degli anni Ottanta la lunga e drammatica stagione de­ gli «anni di piombo» fosse da considerarsi ormai chiusa, gli ultimi colpi di coda delle Brigate Rosse dimostrarono la presenza di nuclei isolati ancora operativi.

Gli anni Settanta come svolta

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14.6 Dalla crisi dei modelli di w elfare al neoliberismo di Margaret Thatcher e Ronald Reagan Apertosi con le proteste giovanili in tutto il mondo e con l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche, il decennio 19701980 ha rappresentato per molti versi una cesura nella storia del Nove­ cento, sia in relazione all’assetto internazionale e agli equilibri della Guerra Fredda, sia in merito all’andamento delle economie dei Paesi in­ dustrializzati. Dal punto di vista delle relazioni internazionali, la sem­ plificazione del quadro geopolitico imposta dalla Guerra Fredda e dallo scontro diretto fra le due superpotenze era parzialmente venuta meno, nel corso degli anni Sessanta, con la decolonizzazione in Asia e Africa e la conseguente comparsa di nuovi Stati-nazione in aree tradizionalmen­ te considerate periferiche. Al tempo stesso la rottura fra la Cina comu­ nista e l’URSS, così come il progressivo disgelo tra Mosca e Washington avviato dall’amministrazione Nixon e dal leader sovietico Breznev, ave­ vano prodotto una relativa distensione nei rapporti tra le due superpo­ tenze tradizionali (cap. 14.4). In Europa, poi, la strategia di Ostpolitik del cancelliere Brandt aveva rappresentato il tentativo più concreto di vivere in modo non conflittuale le divisioni della Guerra Fredda, pro­ prio nell’area dove essa aveva avuto origine all’indomani della Seconda Guerra mondiale. A coronamento di questa politica, nell’agosto del 1975 si conclusero a Helsinki i lavori, apertisi due anni prima, della Conferenza sulla sicu­ rezza e la cooperazione in Europa (—►) con un Atto finale che patroci­ nava il «miglioramento delle relazioni reciproche tra gli Stati» per «assi­ curare condizioni nelle quali i loro popoli ponessero] godere di una pa­ ce vera e duratura, liberi da ogni minaccia o attentato alla loro sicurezza». Sottoscritto da tutti i Paesi europei, compresa l’Unione So­ vietica, e da Stati Uniti e Canada, l’Atto finale della Conferenza di Hel­ sinki sancì la volontà comune di stabilizzare l’assetto europeo e pro­ muovere le relazioni economico-commerciali fra gli Stati. La nuova amministrazione americana, quella del democratico Jimmy Carter eletto nel 1976, sembrò proseguire nella linea della distensio­ ne inaugurata da Nixon e Kissinger. Carter infatti, favorevole ad accele­ rare il processo di riduzione degli armamenti, arrivò dopo lunghi e tri­ bolati negoziati, nel giugno del 1979, a siglare con Mosca il SALT II (Strategie Arm s Limitation Talks —>-) che, sebbene meno ambizioso di quello voluto inizialmente dal presidente, fissava un limite massimo al numero dei missili intercontinentali e di quelli dotati di testate nucleari multiple. In quella data, tuttavia, i rapporti tra USA e URSS stavano tornando a essere fortemente antagonisti. Carter, infatti, pose al centro della propria presidenza la questione della difesa dei diritti umani nel mondo e questo, nonostante i propositi di distensione con Mosca, finì per raffreddare le relazioni bilaterali tra i due Paesi soprattutto dopo il coinvolgimento, a metà degli anni Settanta, dell’URSS e di Cuba nella guerra civile in corso in Angola e a sostegno dell’Etiopia nel conflitto che opponeva quest’ultimo Paese alla Somalia. Anche l’importante suc­ cesso ottenuto dall’amministrazione Carter in Medio Oriente, nel 1978,

Il decennio 1970-1980

La Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa

L'amministrazione Carter

Nuovo raffreddamento dei rapporti tra USA e URSS

330

Le conseguenze dei negoziati di Camp David

Crescente interventismo di Mosca nel Terzo Mondo

Svolta neoliberista della politica economica

Stati Uniti e Gran Bretagna

La leadership della Thatcher

Storia contemporanea

finì indirettamente per compromettere le relazioni con l’URSS. I nego­ ziati di Camp David tra il leader egiziano Sadat e quello israeliano Begin, avvenuti grazie alla mediazione americana, non solo costarono l’espulsione dell’Egitto dalla Lega Araba (cap. 13.2) e la vita allo stesso Sadat, vittima nel 1981 di un attentato ad opera del jihad (—►) islamico egiziano, ma contribuirono anche a raffreddare i rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Quest’ultima, infatti, perse il proprio tradizionale alleato in Medio Oriente e rimase completamente estranea ai negoziati di pace fra Egitto e Israele. Alla fine degli anni Settanta, dunque, il processo di distensione tra USA e URS sembrava compromesso. Da un lato, la politica internazio­ nale di Carter si era rivelata ambigua, muovendosi tra il tentativo di su­ perare gli antagonismi tradizionali della Guerra Fredda e la volontà di portare avanti gli interessi americani secondo il vecchio schema del «contenimento». Dall’altro, il crescente interventismo di Mosca in di­ verse aree del Terzo Mondo mostrava il desiderio dei sovietici di esten­ dere la propria influenza ai Paesi in via di sviluppo, sostenendo militar­ mente i governi di quelle regioni. Nel 1979, come vedremo, l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa e il rovesciamento del regi­ me dello scià in Iran, che privò gli Stati Uniti del suo principale alleato in quella zona, chiusero definitivamente la fase della distensione. Pro­ prio a causa di questo nuovo stallo, Viter di ratifica del SALT II fu molto più lungo del previsto. Ma gli anni Settanta rappresentarono una svolta anche dal punto di vista economico e politico, soprattutto per gli Stati Uniti e i Paesi dell’Europa occidentale. La grave crisi economico-finanziaria che, ag­ gravata dallo shock petrolifero del 1973, aveva portato al completo smantellamento del sistema di Bretton Woods mise in luce, per la prima volta dopo il 1945, limiti e difficoltà presenti nello sviluppo economico occidentale (cap. 14.3). Alcuni governi decisero quindi di imprimere un drastico cambiamento alla propria politica economica: un cambiamento in senso neoliberista che, finalizzato a contenere l’inflazione e a diminu­ ire il debito pubblico, nel medio periodo avrebbe portato, ad una contra­ zione delle spese per finanziare lo Stato sociale. Questa strategia, in li­ nea con le teorie del monetarismo di Friedman, avrebbe da un lato pro­ dotto una diminuzione dei consumi, ma dall’altro limitato la crescita dei prezzi attraverso un rigido controllo sull’inflazione. La minor tassazio­ ne inoltre, conseguenza della riduzione della spesa pubblica, avrebbe dovuto lasciare maggior disponibilità finanziaria ai privati, la cui inizia­ tiva doveva essere sostenuta anche mediante la graduale privatizzazione delle aziende pubbliche. Tanto negli Stati Uniti, quanto in Gran Breta­ gna - i due Paesi che sperimentarono per primi questa accelerazione neoliberista - si registrò quindi, nel corso degli anni Ottanta, una netta inversione di tendenza rispetto alla politica economica di stampo keynesiano che aveva guidato l’azione dei governi americani fin dall’epoca del New Deal ed era stata alla base della costruzione del Welfare State bri­ tannico da parte del governo Attlee. In Gran Bretagna l’artefice di questa svolta fu Margaret Thatcher (->-), leader del Partito conservatore che vinse le elezioni nel maggio

Gli anni Settanta come svolta

1979 e prima donna alla guida di un governo britannico. Allo scopo poi di incentivare la ripresa del settore privato, la Thatcher ridusse la pres­ sione fiscale diretta, mentre un contestuale aumento dell’imposta sul va­ lore aggiunto (IVA) e l’introduzione della poli tax, una sorta di imposta di famiglia, dovevano servire a compensare queste riduzioni, andando però indirettamente a colpire le fasce sociali più deboli. A completare il quadro dei provvedimenti, tesi ad arrestare l’inflazione e a incentivare l’iniziativa privata per rimettere in moto l’economia, il governo della Thatcher abolì i controlli sui prezzi e sui salari e operò tagli alla spesa pubblica per 1,4 miliardi di sterline. I servizi più colpiti furono il sistema pensionistico e i sussidi di disoccupazione e povertà; nel complesso, tut­ tavia, i pilastri del Welfare State inglese come l’istruzione pubblica e il servizio sanitario nazionale non furono smantellati e, nel decennio 1979-89, le spese per l’assistenza sanitaria e per l’istruzione aumentaro­ no rispettivamente del 34% e del 9%. I tagli alla spesa pubblica e la ri­ duzione delle tasse per i redditi superiori, da un lato, contribuirono ad allargare la forbice tra i redditi delle classi abbienti e quelli delle altre fa­ sce sociali e, dall’altro, avvantaggiarono il sud del Paese che si sviluppò meglio e in modo più uniforme rispetto alle regioni settentrionali. Il governo della Thatcher, dopo un primo triennio difficile in cui il conflitto sociale crebbe in proporzione inversa al declino del prodotto interno lordo, trovò nel 1982, in occasione della guerra contro il regime militare argentino che aveva occupato l’arcipelago britannico delle Falkland-Malvinas, il modo per recuperare in parte i consensi perduti, solleticando l’orgoglio nazionale dell’opinione pubblica inglese. Nei suc­ cessivi due mandati la «lady di ferro», come venne chiamata la Thatcher dopo che sfuggì nel 1984 a un attentato delFIRA, mise in atto la sua ri­ cetta economica tutta incentrata sul recupero della competitività dell’in­ dustria e sulla drastica riduzione di ogni forma di protezionismo statale e di qualsiasi sostegno pubblico all’economia. Tale programma passò at­ traverso un aspro conflitto con le Trade Unions, in particolare col sinda­ cato dei minatori e con quelli dei settori tradizionalmente più protetti, per arrivare ad imporre il primo e più vasto progetto, in Europa, di pri­ vatizzazione dei settori pubblici (furono infatti venduti, tra gli altri, British Telecom, British Gas e British Airways). L’altro grande modello neoliberista affermatosi negli anni Ottanta fu quello americano del presidente repubblicano Ronald Reagan. Co­ me la Thatcher, anche Reagan puntò decisamente sulla leva dell’orgo­ glio nazionale e sulla fiducia nella capacità d’iniziativa economica indi­ viduale. Reagan, già governatore della California, vinse infatti le ele­ zioni del 1980 con un programma incentrato sulla politica estera in chiave fortemente patriottica e anticomunista. Convinto di dover ripor­ tare gli Stati Uniti al centro dello scenario internazionale, e rigettando quindi sia le ambivalenze della politica carteriana sia il forte pragmati­ smo dell’amministrazione Nixon, Reagan ripristinò tutto il vecchio vo­ cabolario della Guerra Fredda. Avviò una massiccia campagna contro l’URSS, definendola l’«impero del male», e diede la priorità al riarmo americano, soprattutto tramite il progetto Strategie Defence Initiative (—>-) che, violando di fatto gli accordi SALT, prevedeva un sistema di-

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La politica fiscale

I tagli alla spesa pubblica

La guerra delle Falkland-Malvinas

L'aspro conflitto con le Trade Unions e le privatizzazioni

La presidenza Reagan negli USA

La ripresa della Guerra Fredda e del riarmo

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Politica estera interventista

Drastici tagli alla spesa sociale

«Deregolamentazione» del sistema economico

Aumento del divario tra le classi sociali

Storia contemporanea

fensivo in grado di distruggere dallo spazio i missili sovietici eventual­ mente lanciati verso gli USA. Al tempo stesso, la sua politica estera si fece più aggressiva e interventista non solo in zone come Afghanistan e Iraq che dal 1979 erano al centro del nuovo confronto bipolare, ma an­ che neH’America Centrale e in Angola dove, attraverso interventi più o meno diretti, gli Stati Uniti appoggiarono movimenti e governi antico­ munisti, anche quando questi ultimi avevano un carattere autoritario e non democratico. Grande comunicatore e leader carismatico, Reagan ottenne un forte consenso interno e, proprio per questa sua politica internazionale nuo­ vamente assertiva e determinata, non solo da parte dell’elettorato tradi­ zionalmente moderato e conservatore. Facendo appello ai valori del pa­ triottismo americano, la sua politica si sposava con una strategia econo­ mica anch’essa finalizzata a stimolare l’orgoglio e lo spirito di compe­ tizione. Ancor più netta di quella della Thatcher, la sua ricetta, il cosiddetto reaganomics, per arginare l’inflazione e una grave recessione economica che colpì il Paese nel 1981-82 consistette in una politica mo­ netarista fondata sul più alto costo del denaro e su drastici tagli alla spe­ sa sociale. Ribaltando, dunque, la politica economica della tradizione americana del New Deal, Reagan puntò a ridimensionare in modo mas­ siccio il ruolo dello Stato in economia e cercò di favorire la ripresa dell’iniziativa privata attraverso la riduzione delle tasse sui redditi d’im­ presa e una vasta opera di «deregolamentazione» del sistema economi­ co, ovvero la diminuzione, quando non l’eliminazione completa, dei vin­ coli sindacali e amministrativi che gravavano sulle imprese. Come in Gran Bretagna, le misure liberiste di Reagan raggiunsero solo in parte gli obiettivi sperati, anche se nel complesso la capacità di reazione dell’economia americana alla politica liberista fu migliore di quella inglese. A fronte, infatti, di una consistente ripresa economica, operata grazie al contenimento dell’inflazione e al riassorbimento di parte dei disoccupati nei settori trainanti e innovativi della produzione che rilanciarono l’economia americana, la reaganomics non potè eli­ minare il disavanzo pubblico, alimentato soprattutto dall’aumento del­ le spese per il riarmo e per la ricerca tecnologica, e non riuscì a impe­ dire che i settori economici più obsoleti entrassero in crisi. Inoltre la riduzione delle tasse alle fasce più alte di reddito e la parziale privatiz­ zazione dei settori dell’assistenza sociale e dell’istruzione accrebbero il divario fra le classi sociali, mentre la disoccupazione, pur conoscen­ do un sensibile calo rispetto al decennio precedente, si attestò al 6,7% fra il 1984 e il 1993. Nonostante questi limiti e il fatto che la politica liberista americana tenesse costantemente sopravvalutato il dollaro, rendendo così meno competitive le esportazioni americane, la popolarità di Reagan, con­ fermato in modo netto alle elezioni presidenziali del 1984, rimase sem­ pre piuttosto alta. Attorno al suo modello di cittadino americano in­ traprendente e volitivo, si costruì, tra l’altro, una nuova generazione di laureati nelle migliori università americane, attirati dai centri finan­ ziari e industriali del Paese con stipendi molto alti. L’autosufficienza economica, la diffidenza nei confronti degli interventi dello Stato, la

Gli anni Settanta come svolta

competizione spietata, l’ostentazione dei simboli del benessere, diven­ tarono i modelli culturali di una generazione, quella degli yuppies (-»-), che negli stessi anni sarebbe comparsa anche in Europa propo­ nendo l’«edonismo reaganiano» come contro-mito rispetto ai valori e ai miti della generazione del Sessantotto.

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la generazione degli yuppies e l'«edonismo reaganiano»

14.7 Le «tigri asiatiche» Sino alla fine anni Sessanta quasi tutti i Paesi dell’Asia orientale, ad eccezione del Giappone, rimasero esclusi dai grandi circuiti dell’economia mondiale; eredi di culture antichissime, ma spesso at­ traversati da conflitti locali e instabilità politica, questi Paesi non co­ nobbero l’impetuoso sviluppo economico che invece, tra il 1950 e il 1973, caratterizzò il cosiddetto «miracolo giapponese». Già protagoni­ sta della rivoluzione industriale dei Paesi second comers alla fine del XIX secolo, il Giappone, negli stessi anni della grande espansione produttiva delle economie occidentali, vide il suo PIL aumentare con una media annua del 9,3%, mentre i suoi prodotti industriali conqui­ stavano i mercati di tutto il mondo. La crescita dell’economia giapponese, a dispetto delle scarse risorse naturali del Paese e di un’altissima densità di popolazione, fu legata sia alla forte espansione dell’industria e del settore terziario, come nei Paesi dell’Europa occidentale, sia alla stabilità politica garantita dalla presen­ za di un sistema tendenzialmente bipartitico e dalla lunghissima perma­ nenza al governo del Partito liberal-democratico. Oltre a questo, il boom del Giappone venne favorito dal grande investimento nei settori dell’istruzione pubblica e dal particolare spirito di collaborazione e sa­ crificio individuale che, in parte derivato dagli insegnamenti dello scin­ toismo e dell’etica dei samurai, si era trasferito nei luoghi di lavoro cre­ ando un fortissimo legame di solidarietà fra i lavoratori e l’impresa stes­ sa. Abitudine alla disciplina, ricerca della perfezione, spirito di cooperazione e forte coesione nazionale furono, in sostanza, gli ingre­ dienti di uno sviluppo che solo in parte seguiva gli stessi canali di quello europeo e americano. Nel corso degli anni Settanta e Ottanta lo svilup­ po economico del Giappone proseguì, anche se a ritmi meno intensi, e il Paese continuò a occupare i primi posti fra le nazioni più industrializza­ te del mondo, grazie all’alto tasso di esportazioni e alla piena occupazio­ ne. Gli stessi Paesi occidentali cominciarono a guardare con interesse al «modello giapponese» di capitalismo, fatto di attaccamento dei lavora­ tori alle aziende, di coordinamento fra i lavoratori per il raggiungimento di determinati obiettivi produttivi e soprattutto di una sapiente raziona­ lizzazione dell’intero ciclo di produzione. Grazie a questi livelli di sviluppo, la prospera economia giapponese cominciò a fare da traino a quelle di alcuni Paesi asiatici della costa del Pacifico, come la Corea del Sud, Hong Kong, Singapore e Taiwan che fra il 1973 e il 1990 si resero protagonisti della seconda ondata di sviluppo economico dell’Asia. Questi Paesi, le quattro «tigri asiatiche» come li definirono ben presto gli economisti, si concentrarono sulla

L'eccezione del «miracolo giapponese»

Il «modello giapponese» di capitalismo

La seconda ondata disviluppo economico dell'Asia

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Le quattro «tigri asiatiche»

Il modello di «capitalismo senza democrazia»

Il boom degli anni Settanta

I Paesi dell'ASEAN

Storia contemporanea

produzione industriale e sulla crescita delle esportazioni, favoriti in questo dalla presenza di una numerosa manodopera a basso costo che rendeva competitivi i loro prodotti sul mercato internazionale. Tale strategia, unita alla presenza di misure protezionistiche per tutelare la produzione interna e al deciso impegno dei governi a favore dell’istru­ zione e della ricerca, riuscì quindi a compensare efficacemente i limiti strutturali di questi Paesi, in parte simili a quelli del Giappone: un’alta densità demografica, una superficie coltivabile ridotta, pochissime materie prime e una limitata disponibilità finanziaria. L’afflusso di ca­ pitali esteri, soprattutto americani, e le misure adottate dai governi per sostenere le esportazioni, ma anche per ridurre il ruolo dei sinda­ cati, colmarono in gran parte queste lacune e soprattutto favorirono la nascita di banche e istituti di credito asiatici che diventarono il princi­ pale motore dell’industrializzazione. Le logiche della Guerra Fredda facilitarono l’accesso di questi Paesi ai circuiti della grande finanza americana dal momento che gli Stati Uniti vedevano nello sviluppo economico dell’Asia uno dei mezzi più ef­ ficaci per contenere l’espansionismo sovietico e cinese. E questo avven­ ne nonostante le quattro «tigri» non avessero ancora sviluppato una pie­ na democrazia parlamentare e i loro governi si avvalessero di forti misu­ re restrittive all’esercizio delle libertà civili, politiche e sindacali. Se, dunque, si poteva parlare di un modello di «capitalismo senza democra­ zia» (—>-) fondamentalmente diverso da quello giapponese e americano, la triangolazione fra le economie delle «tigri» asiatiche, il mercato degli Stati Uniti, affamato di merci a costi ridotti, e il Giappone, esportatore di macchinari e know-how tecnologico, fu all’origine del circuito virtuo­ so che portò queste regioni verso il boom economico. Negli anni Settanta la crescita media annua del PIL delle quattro «tigri» fu del 9,5%, mentre quella degli altri Paesi industrializzati si at­ testò al 3,4%. Di fronte al rallentamento dell’economia globale a metà di quel decennio, questi Paesi e il Giappone si volsero con massicci in­ vestimenti verso l’area meridionale del continente asiatico, in particola­ re verso l’Indonesia, la Malesia, le Filippine e la Thailandia. Paesi ric­ chi di materie prime e prodotti agricoli, avevano fondato nel 1967, as­ sieme a Singapore, 1’A ssociation o f South-East Asian Nations (—>■), un’organizzazione nata per favorire lo sviluppo economico e la stabiliz­ zazione politica della regione. Fra le «tigri» e i Paesi dell’ASEAN si venne a creare una sorta di complementarietà economica; dal momen­ to che Corea del Sud, Hong Kong, Singapore e Taiwan producevano beni di alta qualità ad alto prezzo, le regioni dell’ASEAN si specializ­ zarono in beni di consumo a basso costo per il mercato asiatico e statu­ nitense. Attraverso un ampio sistema di trattati commerciali e di coo­ perazione, nel corso degli anni Ottanta e Novanta quasi l’intera area del sud-est asiatico divenne un polo economico di straordinario dina­ mismo. Al tempo stesso questo grande boom dimostrò la capacità di te­ nuta del modello del «capitalismo senza democrazia». Avviatosi sulla scia della «locomotiva» giapponese e della strategia americana di contenimento del comuniSmo, il boom economico delle regioni del sud-est dell’Asia era in parte dovuto agli stessi motivi che

Gli anni Settanta come svolta

erano stati all’origine del «miracolo» giapponese degli anni Cinquanta e Sessanta: la presenza di manodopera a basso costo, un forte spirito di sacrificio dei lavoratori e il rispetto per le gerarchie, accompagnati da un tasso di associazionismo sindacale decisamente inferiore a quello dei Paesi industrializzati occidentali. A questo si aggiungevano la scelta dei governi di investire meno nel sistema di welfare e più nel campo dell’istruzione e della ricerca tecnologica e, a partire dagli anni Novan­ ta, la crescente globalizzazione (—>) dei commerci e della finanza che favorì le esportazioni garantendo così il pieno inserimento di questi Pae­ si nel mercato internazionale.

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15.1 Spagna, Portogallo e Grecia verso la democrazia 15.2 L'URSS e i Paesi del Patto di Varsavia: una convivenza difficile 15.3 II 1979 in Medio Oriente: Afghanistan, Iran e Iraq 15.4 La politica riformatrice di Gorbacev e la dissoluzione dell'URSS 15.5 La caduta del Muro di Berlino 15.5 Piazza Tiananmen: il vento della libertà non soffia in Cina 15.7 I partiti comunisti dei Paesi occidentali di fronte al crollo del «mito» sovietico 15.8 L'Unione europea guarda ad Est: gli allargamenti

La guerra civile in Grecia

Il riconoscimento e gli aiuti degli USA

Capitolo 15

La crisi delle dittature

15.1 Spagna, Portogallo e Grecia verso la democrazia Alla fine degli anni Sessanta, in un’Europa attraversata dai fer­ menti del Sessantotto, Spagna, Portogallo e Grecia erano ancora retti da regimi autoritari che gravitavano nella sfera d’influenza occidenta­ le. Benché al loro interno il crollo delle istituzioni democratiche risa­ lisse a tempi diversi e differenti fossero state le dinamiche di consoli­ damento delle rispettive dittature, comune a tutti e tre i Paesi fu l’epo­ ca in cui si avviarono processi di democratizzazione che li avrebbero portati, nel giro di pochi anni, a integrarsi saldamente nello scacchiere delle democrazie occidentali. La Seconda Guerra mondiale aveva lasciato in Grecia il tragico epilo­ go della guerra civile, che aveva visto fronteggiarsi tra il 1946 e il 1949 il Partito comunista e il governo monarchico di re Giorgio II, il cui ritorno in patria venne sancito da un plebiscito nel settembre 1946. All’inizio della guerra civile i comunisti ottennero il sostegno sia della Jugoslavia di Tito (cap. 10.4) sia dell’Unione Sovietica, mentre le forze governative ri­ cevevano aiuti dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti. La rottura fra Ti­ to e Stalin ebbe tuttavia l’effetto di bloccare i rifornimenti jugoslavi e nel 1949 i comunisti furono costretti ad arrendersi. La tragedia della guerra civile, che aveva prodotto circa 80.000 morti e un numero elevatissimo di profughi, lasciò una pesante eredità nella vita politica del Paese, che ri­ mase profondamente instabile nonostante i massicci aiuti che gli Stati Uniti continuarono ad inviare ai governi conservatori al potere. Gli USA infatti, ritenendo che la Grecia avesse svolto un’importante funzione di barriera contro l’avanzata del comuniSmo, nel 1952 ammise­ ro il Paese nell’alleanza atlantica e dirottarono parecchie risorse verso il governo e soprattutto verso l’esercito, considerato il vero artefice della vittoria sui comunisti. Tale riconoscimento finì per legittimare l’idea au­ toritaria che l’esercito costituisse la sola garanzia per la stabilità del Pa­

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ese e indirettamente aprì la strada al crescente impegno dei militari nel­ la vita politica. Negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, l’Unio­ ne radicale nazionale, un partito di destra guidato prima dal maresciallo Alexandros Papagos (-^-) e poi da Konstantinos Karamanlis (—>•), vin­ se le elezioni, con mezzi non sempre leciti, e rimase alla guida del gover­ no col beneplacito dei militari. Nonostante una relativa stabilità politi­ ca, i governi conservatori non riuscirono ad assicurare il decollo econo­ mico del Paese e fu proprio lo scontento dei ceti medi a dare la vittoria, nel 1964, a Geórgios Papandréu (—>*), leader del partito riformista de­ nominato Unione di centro. La sua gestione, volta al rinnovamento de­ mocratico delle strutture del Paese e ad epurare l’esercito dagli elementi più reazionari, non incontrò tuttavia il consenso del nuovo sovrano Co­ stantino II (—>•), di tendenze conservatrici, che costrinse Papandréu a dimettersi, aprendo una nuova fase di grave instabilità politica. Il 21 aprile 1967 un gruppo di ufficiali guidati dal colonnello Geór­ gios Papadopulos (—»-) prese il potere con un colpo di stato, giustifican­ do la propria azione col pericolo di un’imminente presa del potere da parte dei comunisti che non fu mai, però, documentata. Il sovrano, dopo una debole resistenza, alla fine dell’anno lasciò la Grecia. La cosiddetta «dittatura dei colonnelli», di stampo autoritario, nazionalista e violente­ mente anticomunista, cercò di acquisire il consenso soprattutto tra i contadini, avviando una politica di sviluppo delle aree rurali. Sostenuta sia dal turismo, che mantenne inalterati i suoi flussi, sia dagli investi­ menti stranieri, i cui profitti erano garantiti dal basso costo del lavoro e dalla repressione della conflittualità sociale, l’economia conobbe alcuni progressi negli anni della dittatura. Sul piano internazionale, il regime ebbe il tacito appoggio degli Stati Uniti che, dopo un iniziale blocco del­ le forniture militari, nel 1970 ripresero i normali rapporti con la Grecia. Nel dicembre 1969, invece, poco prima che fosse decisa una misura di esclusione da parte del Consiglio d’Europa (-*-), il regime dei colonnel­ li denunciò la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e si ritirò dall’organismo, con la conseguenza che in breve tempo cessarono i rap­ porti economici tra la Grecia e la CEE. Nel 1973, senza un reale piano militare, il generale Dimitrios Ioannides ( ^ - ) , subentrato a Papadopulos alla guida del regime, decise, an­ che per distogliere l’attenzione dalle rivolte studentesche che avevano incominciato a manifestarsi ad Atene, di attaccare l’isola di Cipro per il cui dominio esisteva da tempo un contenzioso con la Turchia. Il gover­ no turco rispose occupando la parte settentrionale dell’isola in difesa della minoranza turco-cipriota e l’esercito turco ebbe la meglio su quel­ lo greco. L’umiliazione della sconfitta e la crescente opposizione al re­ gime, che coinvolgeva anche alcuni ufficiali, costrinsero Ioannides a ri­ chiamare in patria Karamanlis, che dalla metà degli anni Sessanta ri­ siedeva a Parigi. Alle elezioni del novembre 1974, dopo un breve governo provvisorio, vinse la Nuova democrazia, il partito fondato da Karamanlis, e questi fu confermato primo ministro. Nel 1975, con l’ap­ provazione di un nuovo testo costituzionale, la Grecia scelse ufficial­ mente la forma-stato repubblicana e nel giro di pochi anni fu portata a termine la transizione verso la democrazia, con il consolidamento di un

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Crescente impegno dei militari nella vita politica

La vittoria di Papandréu e l'opposizione del re

Il colpo di stato militare

La «dittatura dei colonnelli»

Tacito appoggio degli USA

Rottura dei rapporti con la CEE

Il contenzioso con la Turchia per l'isola di Cipro

Il ritorno di Karamanlis

La scelta della forma repubblicana e la transizione verso la democrazia

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Il colpo di stato diSalazarin Portogallo

La neutralità nel conflitto mondiale Ammissione al Piano Marshall e alla Nato

Le guerre nelle colonie

Il colpo di stato del generale Spinola

La «rivoluzione dei garofani»

La vittoria dei socialisti di Soares

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sistema di alternanza tra due forze politiche principali: la Nuova demo­ crazia, partito di centro-destra, e il Movimento socialista panellenico di Andreas Papandréu (->-). Risaliva invece al 1926 il colpo di stato militare guidato da Antonio de Oliveira Salazar che aveva posto fine alla giovane democrazia porto­ ghese, avviando la costruzione di una dittatura di stampo corporativo cattolico (cap. 6.10). Grazie ai forti vincoli della censura e al ferreo con­ trollo della polizia politica, Salazar aveva istituito uno Stato impermea­ bile alle interferenze economiche e politiche straniere (salvo la tradizio­ nale dipendenza dalla Gran Bretagna), fondato economicamente sull’in­ tenso sfruttamento delle colonie e politicamente su una fitta rete di relazioni personali che facevano capo a lui stesso. Il Portogallo, che non aveva partecipato al conflitto mondiale ma s’era astenuto dalla collaborazione con lAsse aprendosi presto a quella con le potenze anglosasso­ ni, nel dopoguerra fu ammesso al Piano Marshall e alla NATO. Sul piano internazionale, il governo di Lisbona si dovette confron­ tare, a partire dall’inizio degli anni Sessanta, con la grave crisi prodot­ ta dai movimenti indipendentisti in Africa, che riguardarono soprat­ tutto Angola, Mozambico e Guinea (cap. 10.8). Proprio gli alti costi delle guerre nelle colonie costrinsero Salazar ad aprire l’economia agli investimenti stranieri e al turismo, dando avvio a quel primo boom economico che rese tuttavia evidente l’arretratezza del Paese rispetto al resto dell’Europa occidentale e accrebbe le richieste interne di ri­ forme politiche e istituzionali. Dopo l’uscita di scena di Salazar nel 1968, in seguito a un infarto invalidante da cui non si riprese più, il potere fu assunto dal suo prin­ cipale collaboratore Marcelo Caetano (-—>-), il quale decise di prose­ guire le guerre coloniali senza tenere in considerazione che proprio l’esercito cominciava a essere fortemente critico nei confronti della po­ litica repressiva attuata sia nelle colonie sia all’interno del Paese. Pro­ prio da un gruppo di ufficiali, nell’aprile 1974, fu organizzato un colpo di stato che, messo da parte Caetano, pose alla guida del Paese il gene­ rale Antonio Spinola (-*-). Questi sciolse la polizia politica, eliminò la censura, concesse l’amnistia ai prigionieri politici e manifestò fin da subito l’intenzione di favorire il processo di decolonizzazione nei pos­ sedimenti africani. Vedendo tuttavia che il suo progetto politico di stampo moderato ri­ schiava di essere scavalcato da programmi socialisteggianti sostenuti da­ gli ufficiali più giovani, nel settembre 1974 Spinola, dopo aver tentato un colpo di stato, si dimise. Fu a questo punto che la cosiddetta «rivoluzio­ ne dei garofani», come venne definito il movimento che aveva condotto al cambio di regime in Portogallo, assunse un carattere decisamente ra­ dicale. Essa fu infatti caratterizzata dalla nazionalizzazione delle indu­ strie e da una estesa riforma agraria che, accolta favorevolmente nelle regioni meridionali, incontrò invece la forte opposizione degli agrari del nord. Alle elezioni dell’anno successivo la vittoria andò al Partito socia­ lista di Mario Soares (-*-), mentre i comunisti ottennero una secca sconfitta. La contrapposizione tra la base sindacale e ampi settori dell’esercito filocomunisti e la maggioranza del Paese attestata, invece,

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su posizioni più moderate tenne in scacco il Portogallo per diversi mesi. Tuttavia quando, nel novembre 1975, un gruppo di militari tentò di rea­ lizzare nuovamente un colpo di stato, la maggioranza del Movimento das Forgas Armadas (->-), quello stesso che aveva dato inizio alla tran­ sizione, ne impedì la riuscita. Nell’aprile 1976 le elezioni politiche confermarono il risultato dell’anno precedente, assicurando ai socialisti la maggioranza relativa nell’Assemblea legislativa. Al leader socialista Soares venne quindi affi­ dato il mandato di formare il governo dal nuovo presidente della Repub­ blica Antonio Ramalho Eanes (->-). Sostenuto dagli aiuti economici degli Stati Uniti, del FMI e della CEE, il Portogallo si avviò lentamente fuori dalla crisi e rimpianto presidenziale-parlamentare del suo nuovo testo costituzionale, caratterizzato da un sistema di contrappesi per scongiurare eccessive concentrazioni di potere, garantì il consolidamen­ to delle forze di centro, che avviarono negli anni successivi una graduale ripresa economica. In Spagna fu lo stesso Franco che, designando nel 1969 Juan Carlos di Borbone come futuro re e suo successore, indicò la strada che il Paese avrebbe dovuto intraprendere dopo la sua morte (cap. 10.3). Il 22 no­ vembre 1975, due giorni dopo la morte del caudillo, Juan Carlos fu inco­ ronato re e, in segno di continuità, confermò Carlos Arias Navarro (->-), alla guida del governo. Quando tuttavia, nell’aprile dell’anno suc­ cessivo, Navarro entrò in conflitto con la monarchia e si dimise, il sovra­ no chiamò al governo Adolfo Suàrez (—►), un moderato che godeva del­ la fiducia del vecchio apparato del regime e che intraprese fin da subito un programma di riforme. Nel dicembre 1976 si svolse un referendum per approvare una riforma istituzionale che reintroduceva il suffragio universale e istituiva un Parlamento bicamerale. Con un consenso del 94%, il Paese diede il proprio/assenso alla proposta, a conferma che il processo di transizione alfa democrazia era accettato dalla stragrande maggioranza degli spagnoli. Nel giro di pochi mesi vennero legalizzati tutti i partiti, le diverse'associazioni sindacali e fu concessa un’ampia amnistia ai detenuti politici. / Nel giugno 1977 si tennero le/elezioni per l’Assemblea Costituente e il partito di Suàrez, l'Union de dentro!Democratico, ottenne il 34% dei voti, mentre il Partito socialista arrivò al 28%, lasciando l’estrema de­ stra e il Partito comunista fermi sotto al 10%. Nell’ottobre dello stesso anno Suàrez sottoscrisse con tutte le forze politiche i «patti della Moncloa» (—►), una sorta di concertazione politica e sociale che favorì una svolta nell’economia del Paese e nel giro di un anno riuscì a far scendere l’inflazione grazie a un’attenta politica dei redditi e al contenimento del­ la spesa pubblica. La nuova Costituzione, che entrò in vigore nell’otto­ bre 1978, manteneva una forma-stato monarchica, ma segnava altresì una rottura rispetto al passato. Il cattolicesimo cessava di essere religio­ ne di Stato, la pena di morte fu abrogata e furono riconosciute ampie au­ tonomie alle province, andando quindi incontro alle tradizionali aspira­ zioni dei Paesi Baschi e della Catalogna. Nel 1979, mentre le elezioni po­ litiche confermarono la leadership di Suàrez, quelle amministrative diedero la vittoria a socialisti e comunisti in diverse grandi città.

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Il nuovo testo costituzionale

L'indicazione del successore di Franco

Il referendum istituzionale e la transizione verso la democrazia

Le elezioni per l'Assemblea Costituente

La svolta nell'economia La nuova Costituzione

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Il malcontento nell'esercito

Il consolidamento della democrazia

Storia contemporanea

Proprio la nascita di giunte amministrative di sinistra, come pure il riconoscimento delle autonomie locali, causarono una crescente insoffe­ renza nelle file dell’esercito e a cavallo degli anni Ottanta ci furono ben tre occasioni in cui parve che alcuni settori delle forze armate potessero mostrare concretamente il loro malcontento. La crisi più grave si verifi­ cò nel febbraio 1981, quando un gruppo di militari guidati da Antonio Tejero Molina (—>-), colonnello della guardia civil, occupò il Parlamen­ to. In ogni frangente, tuttavia, Juan Carlos fu irremovibile di fronte alle pretese dei militari golpisti e anzi, verificata la fedeltà dei vertici delle forze armate, condannò pubblicamente i rivoltosi. Questi eventi dimo­ strarono la capacità di tenuta del sistema politico e la ferma volontà del sovrano di consolidare la democrazia. In seguito alla vittoria elettorale dell’ottobre 1982, il leader del Partito socialista Felipe Gonzàlez Màrquez (—>■) divenne capo del governo e nel 1986 ottenne che la Spagna fosse ammessa nella Comunità economica europea (cap. 12.6). A metà degli anni Ottanta, anche in Spagna la transizione alla democrazia pote­ va quindi ritenersi conclusa. 15.2 L'URSS e i Paesi del Patto di Varsavia: una convivenza difficile

anni della dirigenza di Chruscèv

La destituzione di Chruscèv Breznev segretario del PCUS

Gli anni della dirigenza di Chruscèv, pur con tutti i limiti di un siste­ ma totalitario, rappresentarono per l’Unione Sovietica una fase di cam­ biamento. In ambito sociale furono abrogate le leggi staliniane che limi­ tavano la mobilità nel mondo del lavoro, venne ridotto l’orario di lavoro giornaliero, introdotto il congedo per maternità, furono fissati i minimi salariali e varato un sistema pensionistico. Si trattava di un insieme di norme che definivano un primo abbozzo di Welfare State. In campo cul­ turale la stagione del disgelo si caratterizzò per un’inedita libertà espres­ siva e artistica, che consentì a molte importanti opere di vedere la luce: all’inizio degli anni Sessanta, per esempio, la rivista «Novyi Mir» potè pubblicare a puntate Una giornata di Ivan Denisovic di Aleksandr Solzenicyn (-^-), romanzo che conteneva una profonda critica al regi­ me. Sul piano economico, invece, la vasta campagna di dissodamento delle terre vergini e le ardite sperimentazioni in campo agricolo pro­ mosse da Chruscèv non riuscirono a incrementare la produzione fino ai livelli sperati, evidenziando piuttosto i limiti strutturali dell’agricoltura sovietica. Proprio il basso livello del raccolto del 1963 costrinse l’URSS, l’anno successivo, a importare grano dai Paesi occidentali. Le difficoltà economiche e le conseguenze della crisi cubana, che nel 1962 aveva por­ tato le due superpotenze sulla soglia di uno scontro diretto, furono all’origine, unitamente ad un fallito tentativo di riforma dell’organizza­ zione del partito, della destituzione di Chruscèv nel 1964. Alla segrete­ ria del partito venne chiamato Leonid Breznev, mentre il governo fu af­ fidato ad Aleksej Kosygin (->-). Breznev, che volle immediatamente chiudere quegli spazi di apertu­ ra che negli anni precedenti sembravano aver indirizzato il partito su una linea di riformismo, dovette affrontare alcune gravi crisi all’interno

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del mondo comunista. Oltre al deterioramento dei rapporti con la Cina nel corso degli anni Sessanta (cap. 10.5 e cap. 14.4), l’Albania di Enver Hoxha (—»-) iniziò a stringere una forte partnership con Pechino e deci­ se di uscire dal Patto di Varsavia. Anche le relazioni con la Romania erano fonte di preoccupazioni per Mosca. Forti della solida credibilità acquisita agli occhi dei sovietici fin dal 1956, quando l’esercito rumeno aveva affiancato l’Armata Rossa nella repressione ungherese, e soprat­ tutto del fatto che proprio da quella data le truppe sovietiche avevano abbandonato la Romania, Gheorghe Gheorghiu-Dej (—>-) prima e Nicolae Ceau§escu (->-) poi scelsero di consolidare il comuniSmo all’inter­ no declinandolo in termini di acceso nazionalismo. Assumendo atteg­ giamenti sempre più indipendenti da Mosca, i leader rumeni ottennero una certa fiducia presso i Paesi della sfera d’influenza americana, tanto che la Romania fu il primo, tra i Paesi del blocco comunista, a entrare nelle istituzioni economiche dell’Occidente quali la Banca mondiale e il FMI. La Romania cominciò anche a ricevere aiuti economici dagli Stati Finiti e nel 1969 venne scelta da Nixon per la prima visita ufficiale di un presidente americano in un Paese oltrecortina. Negli stessi anni un vivace fermento attraversò tutti gli altri Paesi del blocco sovietico, registrando le punte più alte in Polonia e Cecoslovac­ chia. Quest’ultima, secondo la Costituzione varata nel 1960, aveva rag­ giunto un «socialismo completo» dove il livello di egualitarismo era massimo. Ma i costi che l’economia aveva pagato per permettere una di­ stribuzione egualitaria del reddito erano stati talmente alti che, per far ripartire la produzione, fu necessario intraprendere un coraggioso pia­ no di riforme. Queste furono accelerate quando, nel 1968, alla segrete­ ria del Partito comunista arrivò Alexander Dubcek. Il suo «socialismo dal volto umano» prevedeva una serie di aperture che destarono allar­ me tanto a Mosca, quanto a Varsavia e Berlino Est. Il Partito comuni­ sta, infatti, tolse la censura, avviò un rinnovamento al suo interno, riabi­ litò numerosi esponenti caduti in disgrazia negli anni passati, fece i pri­ mi passi sulla strada della liberalizzazione a livello economico e politico. Paradossalmente, tuttavia, non furono tanto queste riforme, quanto la preoccupazione che, sulla scia della «primavera di Praga», Mosca potes­ se perdere il controllo su tutti gli altri Stati satellite che spinsero Breznev, il 3 agosto 1968, a esprimere la linea di condotta sovietica di fronte alle eventuali iniziative dei partiti comunisti nazionali: «ogni partito comu­ nista è libero di applicare i principi del marxismo-leninismo e del socia­ lismo nel proprio Paese, ma non di deviare da questi principi se vuole continuare ad essere un partito comunista». Partendo dall’assunto che l’indebolimento di un singolo legame all’interno del sistema socialista influiva negativamente su tutti i Paesi del blocco, la «dottrina della so­ vranità limitata», o «dottrina Breznev», sconfessò Dubcek e l’esperi­ mento riformista della «primavera di Praga» fu represso dall’esercito del Patto di Varsavia (cap. 14.1). Parzialmente diversa fu l’esperienza polacca. Il regime di Gomulka, che nel 1956 era stato acclamato dalla popolazione perché aveva tenuto testa all’URSS, mostrava ormai molti segni di debolezza. Retto da una élite chiusa e incapace di cogliere le spinte al rinnovamento provenienti

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Crisi del mondo comunista Le relazioni con la Romania

Vivace fermento nei Paesi del blocco sovietico

La Cecoslovacchia di Dubcek

L'esperienza polacca

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Vintelligencija critica

Le proteste degli operai

Il Comitato per la difesa degli operai

L'influenza sociale della Chiesa cattolica e il papa polacco

Nascita del primo sindacato libero: Solidarnosc

Proclamazione della legge marziale

Storia contemporanea

dal Paese, il partito mise a tacere duramente le critiche che, nella secon­ da metà degli anni Sessanta, cominciarono a provenire da un'intelligencija composta perlopiù di studenti e docenti universitari. Al tempo stes­ so, la leadership del partito cercò di dividere l’opinione pubblica ripor­ tando alla memoria vecchi pregiudizi antisemiti e sottolineando con forza l’origine ebraica di molti esponenti di tale intelligencija critica. Nel 1970 usò la mano dura anche contro gli operai di Danzica e Stettino in protesta contro l’aumento del prezzo delle derrate alimentari, che ridu­ ceva pesantemente il potere d’acquisto dei salari. Il timore che i diversi segnali di malcontento e contestazione potessero acuire le tensioni in­ terne fino a portarle a livelli incontrollati portò, nel 1971, alla sostituzio­ ne di Gomulka con Edward Gierek (—►). Il nuovo leader polacco rispose alle richieste operaie con misure congiunturali, volte ad aumentare i salari e a contenere i prezzi. Tali correttivi, tuttavia, non risolsero i problemi strutturali dell’economia del Paese che per tutti gli anni Settanta vide aumentare in modo esponen­ ziale il proprio debito con l’estero. La grave recessione economica costi­ tuì il terreno fertile per mantenere alta l’opposizione al regime. Alla fi­ ne degli anni Settanta, grazie all’opera del Comitato per la difesa degli operai (-*-), composto sia di lavoratori sia di intellettuali, furono poste all’attenzione del partito due importanti richieste: il diritto di costituire sindacati liberi e il diritto di sciopero. La forza crescente di questo mo­ vimento derivava non solo dal malcontento degli operai, ma anche dall’influenza sociale che continuava ad esercitare la Chiesa cattolica. Nel 1978 fu eletto al soglio pontificio il cardinale polacco Karol Wojtyla, il quale assunse il nome di Giovanni Paolo II (—>). Quando nel giugno dell’anno successivo si recò in visita proprio a Varsavia, i polacchi si re­ sero conto che gli avvenimenti del loro Paese si sarebbero posti all’atten­ zione di tutto il mondo. Anche per questo motivo, il partito alla fine decise di aprire le trat­ tative coi leader del movimento e nel settembre 1980 si giunse alla sto­ rica decisione di concedere ai lavoratori polacchi il diritto di fondare organizzazioni sindacali libere. Il 10 novembre fu costituito il primo sindacato libero, Solidarnos'c (—►), fra le cui file si distinse subito co­ lui che sarebbe diventato il principale leader dell’opposizione al regi­ me comunista, Lech Walesa (-^-). Nonostante l’importante vittoria, il gruppo di Solidarnos'c volle procedere con cautela nella richiesta di ri­ forme, memore di quanto era successo in precedenza a Budapest e Praga. Per scongiurare, quindi, un intervento sovietico, ci si limitò a pressioni in ambito socio-economico, puntando sui diritti sociali e sull’autogestione nel posto di lavoro, senza affrontare temi strettamen­ te politici o questioni riguardanti i rapporti all’interno del Patto di Varsavia. La via dello scontro limitato scelto dal movimento riforma­ tore non fu però sufficiente a rassicurare Mosca e il regime polacco decise quindi, nel febbraio 1981, di sostituire Gierek col generale Wojciech Jaruzelski (—►) al quale fu affidata la carica di primo mini­ stro e, nell’ottobre, anche quella di segretario del partito. Dopo poco più di un mese gli effetti di questo accentramento si fecero sentire. Il 13 dicembre 1981 venne proclamata la legge marziale, nel tentativo di

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risolvere internamente il problema rappresentato da Solidarnos'c e di Solidarnosc messo fuori impedire un intervento dell’A rmata Rossa: il sindacato fu messo fuori legge legge e i suoi capi arrestati. Era la palese dimostrazione della consape­ volezza dei dirigenti comunisti che il vero pericolo per il sistema sovie­ tico era rappresentato dal riformismo. Si temeva infatti che proprio le riforme, radicalizzando la contrapposizione tra i vertici del partito e la società civile, avrebbero minato le fondamenta del sistema. A ll’inizio degli anni O ttanta, quindi, i problemi all’interno del blocco sovietico erano numerosi e sempre più pressanti. L’URSS, si­ mile a un gigante assediato da più parti, si trovava infatti a dover af­ frontare, da un lato, le opposizioni che stavano emergendo nei Paesi satellite, e dall’altro i propri problemi interni, anche se di tipo parzial­ mente diverso da quelli degli altri Paesi comunisti. Un segno evidente di questa fragilità apparve in occasione dell’invasione dell’Afghani­ L'invasione sovietica stan nel dicembre 1979. L’operazione, come vedremo, doveva garantire dell'Afghanistan all’URSS la presenza di uno stabile regime filosovietico lungo la sua frontiera mediorientale, un’area in costante fibrillazione soprattutto dopo che, all’inizio dell’anno, la rivoluzione iraniana aveva fatto dell’Iran una repubblica islamica sotto la guida delPayatollah Ruhollah Mosavi Khomeini (—►). Il fermento nel mondo arabo-musulmano rappresentava per l’Unio­ La minaccia del mondo ne Sovietica un pericolo più interno che esterno, esacerbando il proble­ arabo-musulmano ma delle nazionalità. Nei territori dell’Asia centrale che facevano parte dell’URSS, ossia le repubbliche sovietiche confinanti con l’Afghani­ stan, infatti, la natalità continuava a crescere in modo vertiginoso, so­ prattutto se confrontata con i tassi degli altri territori dell’Unione, fa­ cendo aumentare in modo esponenziale la percentuale degli islamici tra la popolazione. Vincere a Kabul, quindi, significava per Mosca al­ lontanare lo spettro di rivendicazioni secessioniste che si temeva fosse­ ro presenti nelle nuove generazioni musulmane di Tagikistan, Uzbeki­ stan e Turkmenistan. L’invasione dell’Afghanistan, interpretata in Oc­ cidente come una nuova fase della Guerra Fredda innescata dalle mai sopite mire espansioniste di Mosca, era in realtà la spia della crescente fragilità del regime sovietico, il quale continuava a nascondere con l’ag­ gressività le crisi che lo attraversavano. 15.3 II 1979 in Medio Oriente: Afghanistan, Iran e Iraq Il 1979 fu un anno cruciale sia nelle dinamiche generali della Guerra Fredda, in quanto una serie di eventi contribuì al peggioramento dei rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica, sia per la definizione degli assetti di un’area strategica come quella mediorientale. Da un lato, in­ fatti, la rivoluzione teocratica in Iran mise in allerta gli americani per le conseguenze che una possibile destabilizzazione della regione avrebbe potuto produrre nell’accesso ai giacimenti di petrolio. Dall’altro, l’inva­ sione sovietica dell’A fghanistan suscitò i timori americani che si trattas­ se di un’operazione volta a favorire la penetrazione dell’URSS nell’inte­ ra zona del Golfo Persico.

1979: un anno cruciale

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La rivoluzione iraniana

Il regime monarchico assolutista di Reza Pahlavi

Il ruolo dell'ayatollah Khomeini

Khomeini al potere: la costruzione dello Stato islamico

La repubblica teocratica

L'assalto aH'ambasciata USA a Teheran e la crisi degli ostaggi americani

Storia contemporanea

La rivoluzione iraniana, che abbatté il regime monarchico dello scià Mohammad Reza Pahlavi (->-), fu il risultato di un ampio movimento di massa che coinvolse quasi tutti gli strati della popolazione, configu­ randosi come una vera e propria «rivoluzione di popolo» con caratteri assolutamente unici nello scenario del Medio Oriente contemporaneo. Il regime assolutista e repressivo di Reza Pahlavi, in costante contrasto sia con l’opposizione democratica sia con le gerarchie religiose, non aveva portato a miglioramenti rilevanti nelle condizioni di vita degli iraniani, nonostante il boom petrolifero avesse arricchito il Paese e fos­ se stato avviato un programma di riforme economiche e sociali ispirate a criteri paternalistici. Inoltre il clima di terrore, alimentato dall’effi­ cientissima e spietata polizia politica del regime, aveva per molti anni soffocato qualsiasi manifestazione di dissenso. Le proteste, guidate da una parte dei capi religiosi degli sciiti (->-), dai mercanti e dagli intel­ lettuali, esplosero tuttavia nel biennio rivoluzionario 1977-79, durante il quale le manifestazioni contro lo scià si estesero a tutto il Paese. De­ terminante nel far precipitare gli eventi fu il ruolo svolto dall’ayatollah Khomeini, che già nel 1963 aveva organizzato la protesta contro Reza Pahlavi e che ora, dal suo esilio a Parigi, riuscì a porre all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale la causa del popolo iraniano e a diven­ tare la guida morale e spirituale della rivoluzione islamica. Nel gennaio 1979 si svolse a Teheran una manifestazione di circa 2 milioni di perso­ ne che reclamò a gran voce il ritorno dell’ayatollah; il 16 gennaio, lo scià, incapace di far fronte alla rivolta, lasciò l’Iran e il successivo 1° febbraio Khomeini potè far ritorno in patria. Una violenta repressione colpì i collaboratori del deposto scià: ai più fortunati fu concesso di prendere la via dell’esilio, mentre altri, in diver­ se migliaia, furono arrestati e condannati a morte dopo processi som­ mari. Khomeini, una volta assunto il potere e liquidata la vecchia classe dirigente, si dedicò alla costruzione di un vero e proprio Stato islamico: una teocrazia fondata sulla legge del Corano e sorvegliata dagli ayatol­ lah, i dottori della legge islamica. Il 30 marzo 1979 circa il 98% degli ira­ niani espresse il proprio assenso alla nascita di una «repubblica islami­ ca» e un’Assemblea di Esperti fu incaricata di redigere la nuova Costitu­ zione. Identificata con l’autorità morale di Khomeini, la Costituzione creava a tutti gli effetti una repubblica teocratica che, eliminando com­ pletamente gli aspetti sociali ed economici che erano stati all’origine delle manifestazioni contro lo scià, trovava la propria legittimazione nell’esaltazione della fede religiosa e nel progetto di una progressiva dif­ fusione del fondamentalismo sciita. Tra la fine del 1979 e l’inizio del 1981, mentre era ancora in corso la fase rivoluzionaria di assestamento del nuovo regime, si consumò una grave crisi con gli Stati Uniti. Il 4 novembre 1979, infatti, un gruppo di studenti islamici prese d’assalto l’ambasciata americana a Teheran, per costringere gli Stati Uniti a estradare Reza Pahlavi, e tenne in ostag­ gio per 14 mesi una cinquantina di cittadini americani. Il drammatico avvenimento, che alimentò le paure e il senso di insicurezza dell’opi­ nione pubblica statunitense soprattutto dopo il fallimento dell’opera­ zione di salvataggio voluta dal presidente Carter, ebbe anche l’effetto

La crisi delle dittature

di radicalizzare le posizioni di Khomeini e accentuare l’isolamento in­ ternazionale dell’Iran. Se da allora, infatti, il regime iraniano divenne per gli USA il principale avversario della regione, la repubblica islami­ ca assunse connotati sempre più marcatamente antioccidentali, oltre che antisovietici. Diversa, invece, era la situazione creatasi in Iraq a partire dall’inizio degli anni Settanta. Un colpo di stato militare aveva infatti portato al potere nel 1968 il partito Ba’ath, ovvero «rinascita», un movimento di ispirazione nazionalista panaraba, laico e socialisteggiante. Presidente della Repubblica e primo ministro era divenuto il generale Ahmad Hasan al-Bakr (— coadiuvato da Saddam Hussein (—>*), capo dei servizi di sicurezza del Paese e della guardia presidenziale. Il funzionamento tradizionale delle dinamiche sociali interne spinse al-Bakr a porre l’ac­ cento sulle solidarietà tribali e di clan e in questo modo, sforzandosi anche di avviare migliori rapporti con la minoranza costituita dal po­ polo curdo e coi comunisti, riuscì a fare del partito Ba’ath una vera e propria estensione del suo potere personale, in cui prevalevano inte­ ressi più materiali che ideologici. Soprattutto nei confronti della mino­ ranza curda fu adottata un’inedita politica di concessioni e repressio­ ne. Da un lato, infatti, venne lanciato un vasto programma di lavori pubblici e infrastrutture nella regione del Kurdistan e furono introdot­ te riforme che parevano concedere un certo grado di autonomia alla regione, dall’altro, però, il regime iniziò il trasferimento coatto di fa­ miglie arabe nel nord dell’Iraq allo scopo di riequilibrare l’assetto de­ mografico della zona. Con l’avvento al potere del partito Ba’ath si deteriorarono i sempre delicati rapporti con Teheran per motivi sia ideologici, sia politici. Lo scià iraniano, infatti, era un fedele alleato degli Stati Uniti e costituiva un ostacolo alle ambizioni espansionistiche del nuovo regime di Bagh­ dad. Iran e Iraq, inoltre, erano divisi da annose tensioni di confine e da rivalità per il controllo dei giacimenti petroliferi, mentre le differenze etniche e religiose, essendo l’Iran quasi completamente sciita e il regi­ me baathista dominato invece dai sunniti (—►) non fecero che acuire la conflittualità. Le tensioni con il vicino Iran finirono poi per accendere un altro focolaio di crisi interna, ovvero la presenza di una maggioran­ za sciita nel sud del Paese, che nel corso degli anni Settanta fu sottopo­ sta a deportazioni forzate e a sistematiche violazioni dei diritti politici e delle libertà individuali. Nel tentativo di pacificare il fronte interno e di ottenere l’appoggio del potente Partito comunista iracheno, oltre che per la necessità di uscire dall’isolamento internazionale, nel 1972 l’Iraq strinse un’alleanza militare ed economica con l’Unione Sovietica. Dopo la fine della guerra dello Yom Kippur tra Israele e Paesi arabi (cap. 13.2), anche l’Iraq par­ tecipò al boicottaggio del petrolio contro le nazioni che avevano soste­ nuto il governo di Tel Aviv ed entrò, assieme agli altri Paesi produttori, nella fase del grande boom petrolifero. Dall’ottobre 1973 al dicembre 1975, infatti, le entrate petrolifere registrarono un incremento del 700%, passando da uno a 7 miliardi di dollari, la maggior parte dei quali furo­ no spesi per gli armamenti. Il massiccio arricchimento dovuto al petro­

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li colpo di stato militare in Iraq

Il partito Ba'ath al potere La minoranza curda

Deterioramento dei rapporti tra Iran e Iraq

La massiccia presenza degli sciiti nel sud dell'Iraq

L'alleanza irachena con l'URSS

La fase del boom petrolifero

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Il potere personale di Saddam

Il progetto di egemonia irachena sul Golfo Persico

L'invasione dell'Iran

Una sanguinosa guerra di logoramento

L'alleanza tra USA e Iraq

Esiti della guerra

L'Arabia Saudita

Storia contemporanea

Ho consentì quindi al governo iracheno di rendersi più indipendente da­ gli aiuti sovietici e ciò indusse Saddam a sbarazzarsi del Partito comuni­ sta e a rafforzare ulteriormente la natura ba’athista del regime, facendo del suo partito il principale strumento di potere e controllo nelle mani della classe dirigente. Nel settembre 1977 Saddam fu posto a capo dell’intero settore petrolifero e da questa posizione, godendo tra l’altro della piena fiducia del presidente al-Bakr, gettò le basi della costruzione del proprio potere personale. Quando infatti, nel luglio 1979, al-Bakr, anziano e malato, lasciò la presidenza, Saddam Hussein gli successe im­ mediatamente. Dopo una fase di violente epurazioni nel partito, Sad­ dam si dedicò al potenziamento dell’esercito e al progetto di realizzare l’egemonia irachena sul Golfo Persico. Nel settembre 1980, prendendo a pretesto una vecchia disputa sulla frontiera dello Shatt el-Arab, l’esercito iracheno invase l’Iran. Pesarono sulla decisione di Saddam anche l’ambizione di impadronirsi dei campi petroliferi del sud dell’Iran e soprattutto le pressioni degli altri Paesi arabi, Arabia Saudita in testa, spaventati dal potenziale dirompente in­ nescato dalla rivoluzione islamica di Khomeini. Inoltre Saddam, rite­ nendo ormai esaurita l’alleanza con l’URSS, sperava in questo modo di attirarsi l’appoggio degli Stati Uniti, oramai acerrimi nemici del regime di Teheran. Quello che doveva essere un conflitto rapido e breve si tra­ sformò ben presto in una sanguinosa guerra di logoramento, soprattut­ to a causa dell’accanita e imprevista resistenza dell’esercito iraniano. Nonostante il ricorso iracheno alle armi chimiche e il reclutamento da parte di Khomeini persino di adolescenti all’interno della Guardia ri­ voluzionaria il conflitto si immobilizzo lungo la frontiera tra i due Paesi. Nemmeno gli aiuti militari e finanziari di numerosi Paesi arabi e occidentali all’Iraq furono sufficienti a piegare la resistenza ira­ niana, anche perché il regime degli ayatollah dispiegò nel conflitto tut­ ta la propria forza allo scopo di dimostrare al mondo la superiorità mo­ rale della rivoluzione islamica e la volontà di esportarla, in caso di vit­ toria, in tutti i Paesi musulmani. Di fronte al rischio di un 'escalation del conflitto, non solo le poten­ ze occidentali intervennero sempre più spesso con proprie missioni na­ vali per garantire la libera circolazione delle petroliere nel Golfo Persi­ co, ma gli Stati Uniti fecero dell’Iraq di Saddam Hussein il proprio principale alleato nella regione contro il «terrorismo» iraniano. Il 20 lu­ glio 1987 una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU impose il cessate il fuoco, che tuttavia Khomeini, il quale pretendeva una con­ danna formale dell’aggressione irachena di sette anni prima, accettò solo nell’agosto dell’anno successivo, quando ormai il Paese era allo stremo. Dopo otto anni di ostilità e oltre un milione di morti, la guerra tra Iran e Iraq lasciava entrambi i Paesi devastati nel loro potenziale economico e industriale e, nel caso dell’Iraq, di fronte a un indebita­ mento estero praticamente insanabile che di lì poco divenne causa di ulteriori tensioni. Se l’Iran della rivoluzione khomeinista era diventato il tempio dell’islam sciita, il resto del mondo musulmano, a maggioranza sunnita, guardava all’Arabia Saudita e alla sua dinastia Saud (—►), custode dei

La crisi delle dittature

luoghi santi della Mecca e Medina. Durante la guerra con l’Iran, infat­ ti, Khomeini aveva spesso invocato la sollevazione di tutto il mondo islamico contro i governi «empi» e secolarizzati, sottintendendo in pri­ mo luogo proprio quello saudita a causa della sua alleanza strategica ed economica col «grande satana», come lo stesso Khomeini aveva defini­ to gli Stati Uniti. Se la guerra scatenata nel 1980 da Saddam era in par­ te, quindi, espressione delle tensioni fra Iran e Arabia Saudita, il vero terreno di scontro fra le due teocrazie si giocò in Afghanistan. Nel 1979, infatti, il Paese era stato invaso dall’esercito dell’Unione Sovieti­ ca che sperava, con questa operazione, di riportare ordine nella com­ plessa situazione politica afghana e consolidare il potere del regime co­ munista. Al governo dal 1978, infatti, il Partito comunista, lacerato al proprio interno, aveva dovuto affrontare la dura resistenza del movi­ mento nazionalista islamico. Mentre per Mosca l’impegno militare in Afghanistan aveva l’obietti­ vo prettamente difensivo di contenere il fondamentalismo islamico, che rischiava di estendersi alle repubbliche a maggioranza musulmana dell’URSS, gli Stati Uniti interpretarono l’iniziativa sovietica come un tentativo espansionistico in direzione della ricca regione del Golfo Per­ sico. Anche per i Paesi mediorientali le vicende afghane avevano un si­ gnificato che andava ben oltre la situazione interna di quel Paese. L’A ra­ bia Saudita, infatti, vide nel jihad, ovvero la lotta morale e materiale condotta dagli islamici afghani contro il Partito comunista locale e con­ tro i sovietici, una concreta possibilità di riprendere il proprio ruolo di guida spirituale e politica dell’islam, anche perché la presenza di una grossa comunità sciita nella zona di Herat, nell’Afghanistan occidentale, poteva fornire il pretesto all’Iran per tentare di esportarvi il suo model­ lo di regime teocratico. La tenace resistenza dei mujaheddìn (—>-) af­ ghani e l’invio di volontari e aiuti da parte del governo saudita fecero quindi della guerra civile in Afghanistan uno scontro strategico e ideo­ logico fra iraniani e sauditi, che si consumò sullo sfondo della coeva guerra nel Golfo Persico tra Iran e Iraq. Il ritiro delle truppe sovietiche dall’A fghanistan avvenne nel corso del 1988 e fu portato a termine nel febbraio 1989. Se, sul piano interna­ zionale, l’operazione in Afghanistan si rivelò un completo fallimento per Mosca, che si era infatti alienata le residue simpatie del mondo isla­ mico e aveva dato l’occasione alla destra americana di lanciare una du­ ra campagna contro l’amministrazione Carter, essa non servì nemmeno a mettere fine alla guerra civile nel Paese. Caduta, nel 1992, la Repub­ blica democratica dell’Afghanistan che era sorta nel 1973, nel Paese si affermarono gradualmente i taliban, letteralmente «studenti di religio­ ne», un movimento politico e militare islamico di stampo fondamenta­ lista. Grazie soprattutto al sostegno del Pakistan, essi riuscirono ad estendere il territorio sotto il proprio controllo fino a conquistare, nel 1996, la capitale Kabul. Dal canto loro gli Stati Uniti, una volta crollato il regime sovietico, non interferirono più su quanto stava avvenendo nel quadrante afghano.

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Tensioni tra Iran sdita e Arabia Saudita sunnita

L'Impegno sovietico in Afghanistan per sostenere il regime comunista

Il significato religioso delle vicende afghane

La resistenza dei mujaheddìn

Il fallimento dell'operazione sovietica Prosecuzione della guerra civile e ascesa dei taliban

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Storia contemporanea

15.4 La politica riformatrice di Gorbacèv e la dissoluzione dell'URSS La crisi dell'URSS all'inizio degli anni Ottanta

I successori di Breznev: Andropov e Cernenko

Il tramondo della vecchia leadership del PCUS

Il nuovo segretario Gorbacèv

Il progetto politico della perestrojka

All’inizio degli anni Ottanta l’Unione Sovietica si trovava in una si­ tuazione di crisi. Le spese militari, che per anni avevano assorbito fino al 40% del PIL, avevano col tempo prostrato la capacità produttiva del Paese, i cui tassi di crescita, al di fuori dei settori militare e aerospaziale, erano praticamente azzerati. L’industria aveva una produttività pari alla metà di quella statunitense, mentre l’agricoltura era ferma a un decimo di quella americana, tanto che nel 1981 l’URSS fu costretta a importare 40 milioni di tonnellate di grano dagli Stati Uniti. La mancanza di liber­ tà, benessere e giustizia, d’altro canto, aveva alimentato un’insofferenza che solo il ferreo sistema di polizia riusciva a contenere. Le tensioni et­ niche e religiose, sempre represse ma mai domate del tutto all’interno del variegato impero sovietico, tornavano periodicamente alla ribalta, mantenendo tesi i rapporti fra Mosca e molte delle sue repubbliche. No­ nostante questo difficile quadro, aggravato dalla guerra in Afghanistan che si stava rivelando un vero e proprio «Vietnam sovietico», per l’URSS l’opzione dell’incremento delle spese militari continuava ad apparire senza alternative. Si trovava infatti a dover rispondere alla sfida lanciata dal presidente americano Reagan con il suo programma di «scudo spa­ ziale» e con l’intenzione di portare avanti, in Europa occidentale, il pia­ no di schieramento degli «euromissili» contrapposti ad analoghi sistemi d’arma già piazzati dai sovietici nell’Europa dell’Est. Era dunque questa la difficile eredità che Breznev, morto nel no­ vembre del 1982, consegnò al suo successore, un uomo della vecchia nomenklatura (-*-), Jurij Andropov (->-). Anziano e malato, A ndro­ pov non fece in tempo a mettere mano ad alcun programma perché morì due anni dopo il suo insediamento. Il successore Kostantin Cernenko (—►), anch’egli gravemente malato, fece appena in tempo a boicottare, assieme agli alleati del blocco comunista, le Olimpiadi di Los Angeles del 1984, restituendo lo sgarbo a Reagan che nel 1980 non aveva mandato gli atleti americani a gareggiare ai giochi olimpici di Mosca. Con la morte di Cernenko, nel maggio 1985, si chiudeva un’era nella storia sovietica: la vecchia leadership del partito, che conservava ancora la memoria della rivoluzione leninista, era giunta al tramonto. Delfino di Andropov, Michail Gorbacèv (—►) fu chiamato alla segre­ teria del partito l’ì l marzo 1985. Era cresciuto all’interno dell’appara­ to del regime ma, coi suoi 54 anni, apparteneva alla nuova generazione che non aveva visto la rivoluzione bolscevica e si era formata politicamente dopo la morte di Stalin. Intervenendo nel 1984 al Congresso del PCUS, parlò in modo ine­ quivocabile della necessità di riforme per rinnovare strutturalmente l’economia del Paese; fu in quella sede che usò per la prima volta il ter­ mine perestrojka (—>■), ovvero «ristrutturazione», destinato a rimanere a lungo legato al suo progetto politico. I principali obiettivi delle riforme erano due: garantire migliori condizioni di vita alla popolazione e au­ mentare sensibilmente il tasso di produttività. Tale impulso riformista, secondo Gorbacèv, avrebbe condotto il Paese fuori dalla crisi. Il suo

La crisi delle dittature

modello era Lenin e - come aveva fatto il leader della Rivoluzione bol­ scevica prima nel 1917 e di nuovo nel 1921 rielaborando il pensiero mar­ xista per adattarlo alla realtà russa di quel momento - anche Gorbacev si avviò a cercare la via delle riforme senza tuttavia smantellare i capi­ saldi del sistema socialista. Conscio che il primo nodo da sciogliere era quello degli enormi costi militari, impresse una decisa svolta alla politica estera. Insieme al presi­ dente americano Reagan con cui, dopo la diffidenza iniziale, si stabilì un buon rapporto diplomatico, discussero della cosiddetta «opzione ze­ ro», ossia l’eliminazione totale dei missili nucleari dall’Europa in cam­ bio della rinuncia statunitense allo «scudo spaziale», senza tuttavia rag­ giungere, in un primo tempo, un accordo definitivo. Solo nel 1987 in un incontro a Washington, Gorbacev e Reagan arrivarono a concordare lo smantellamento degli «euromissili»: era la prima volta che le due superpotenze non si limitavano a ridurre la produzione di armi, ma decideva­ no di procedere alla parziale distruzione di quelle esistenti. Nel frattem­ po, Gorbacev annunciò l’inizio del ritiro dell’esercito sovietico dall’Af­ ghanistan (cap. 15.3) e la riduzione del 10% dell’Armata Rossa. Il contenimento dei costi destinati all’industria bellica era una misu­ ra funzionale a mettere mano alla completa ristrutturazione dell’econo­ mia, la cui stagnazione, che durava ormai da un decennio, era la causa principale della crisi del regime. Su questa strada Gorbacev si mosse fin dal 1986, quando, varando il dodicesimo piano quinquennale di svilup­ po, cercò di recuperare un parziale equilibrio tra pianificazione ed esi­ genze di mercato, imprimendo un’accelerazione (uskorenje —►) a tutto il sistema produttivo. Fu liberalizzata l’iniziativa privata, inizialmente solo per le piccole attività commerciali e artigianali, e venne introdotto anche per le aziende il meccanismo dell’autofinanziamento: le imprese in difficoltà non sarebbero state più salvate dallo Stato, a prescindere dai loro risultati produttivi. Per la prima volta dopo settant’anni si reintroduceva nell’economia sovietica il concetto di «profitto». Venne con­ cessa la possibilità di creare società miste con imprese straniere, mentre le fattorie collettive potevano cedere in affitto i terreni a famiglie o coo­ perative di braccianti. Tuttavia, dopo una prima fase di crescita modera­ ta, nel 1988-90 l’economia sovietica entrò nuovamente in un periodo di recessione. Apparve allora chiara l’impossibilità di imprimere uno svi­ luppo economico generale solo attraverso modifiche settoriali. Accanto a perestrojka, che doveva comportare una sempre maggiore responsabilità e autonomia nei singoli settori produttivi per favorire la nascita di un mercato libero e dinamico, si aggiunse una nuova parola d’ordine: glasnost (—>■), ossia «trasparenza». L’avvio della glasnost por­ tò alla progressiva soppressione della censura, alla de-ideologizzazione del sistema informativo e alla graduale apertura di uno spazio politico di partecipazione e critica. Se, da un lato, la glasnost trovò immediata­ mente un’accoglienza favorevole presso intellettuali, giornalisti, scritto­ ri e scienziati, dall’altro essa finì per mettere in discussione l’apparato burocratico del partito, e dunque la credibilità stessa dei suoi leader. Contro questo nuovo fervore critico si levarono, quindi, le resistenze dell’ala conservatrice del partito e nel marzo 1988, sul quotidiano «So-

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l'impulso riformista

Il nodo dei costi militari

Il ritiro dall'Afghanistan

La ristrutturazione completa dell'economia

La reintroduzione del concetto di «profitto»

L'avvio della glasnost

Le resistenze dell'ala conservatrice

LA DISSOLUZIONE DELL UNIO NE SOVIETICA (1991) _Confini sovietici fino al 1991

Stati indipendenti ex-sovietici

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350 Storia contemporanea

M O N G O L IA

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La crisi delle dittature

vetskaja Rossjja», fu pubblicata una lettera di aperta condanna del pro­ cesso in atto, considerato il frutto di interferenze occidentali che avreb­ bero consegnato il Paese in mano al sistema capitalista. La sua autrice, Nina Andreeva (->-), ebbe subito il sostegno dello stesso vice di Gorbacev all’interno del PCUS, Egor Ligacev (^ -). La loro lettura polemica delle trasformazioni in corso si scontrò tut­ tavia con l’analisi di Gorbacev. Egli rimaneva infatti convinto che il processo di riforme, compresa la glasnost, non avrebbe danneggiato il sistema sovietico ma lo avrebbe anzi riformato positivamente dall’interno. Forte di questa sicurezza, accelerò i tempi e nel giugno 1988 fece approvare un progetto di riforma costituzionale che istituiva un sistema rappresentativo a due livelli e ampliava notevolmente i poteri del presi­ dente. Al Congresso dei deputati del popolo, la cui formazione sarebbe avvenuta per due terzi a suffragio universale e per un terzo su designa­ zione dal partito e dei sindacati, venivano attribuiti il potere decisiona­ le ultimo sulle riforme e il diritto di eleggere il Soviet Supremo e il pre­ sidente. Quest’ultimo assumeva la direzione della politica estera e di difesa, nonché la facoltà di designare il primo ministro. Non si trattava di una semplice ristrutturazione istituzionale, ma di una riforma di am­ pio rilievo che avrebbe dovuto modificare le basi stesse della legittima­ zione del sistema. Nelle elezioni per il Congresso del 1989, che diversamente dal perio­ do precedente si svolsero con una pluralità di candidature, l’ala conser­ vatrice del partito riuscì a imporre i propri candidati nella designazione diretta dei membri, mentre il voto premiò con una schiacciante maggio­ ranza gli appartenenti alla corrente riformatrice. Tra questi entrarono, nonostante la ferma opposizione della vecchia nomenklatura del parti­ to, il fisico Andrei Sacharov (•—>-), da tempo sostenitore dei diritti civili e di una maggior libertà per il popolo russo, e Boris Eltsin (->-), che era segretario della sezione del partito di Mosca. Quando, nel marzo dell’an­ no successivo, Gorbacev venne eletto presidente dell’URSS dal Con­ gresso dei deputati del popolo, il percorso del cambiamento sembrava definitivamente avviato. Anche se il piano riformatore di Gorbacev stentava a produrre i risultati auspicati in campo economico, dove i provvedimenti di liberalizzazione erano stati condotti in modo non sem­ pre chiaro e organico, furono in realtà le istanze secessioniste e i conflit­ ti nazionali, oltre agli effetti della caduta del Muro di Berlino, a impri­ mere un’inaspettata accelerazione alla dissoluzione dell’URSS, che non era certo nei disegni del presidente. Le tre repubbliche baltiche, la cui inclusione nell’Unione Sovietica era stata ratificata alla fine della Seconda Guerra mondiale e che van­ tavano ora una situazione economica relativamente favorevole, aveva­ no cominciato a manifestare forti rivendicazioni autonomistiche sin dal 1988. Nell’estate dell’anno successivo, dopo che le elezioni avevano premiato le forze separatiste, Lituania e Lettonia proclamarono la lo­ ro sovranità all’interno dell’Unione, affrettandosi a emendare le ri­ spettive costituzioni col chiaro obiettivo di raggiungere la piena indipendenza. Iniziative analoghe erano state assunte da altre repubbliche dell’Unione, come la Georgia, che dovevano al tempo stesso fare i con-

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II progetto di riforma costituzionale

Le elezioni per il Congresso del 1989 e il successo della corrente riformista

le istanze secessioniste all'interno dell'URSS

Le rivendicazioni delle repubbliche baltiche

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Le dichiarazioni d'indipendenza e l'intervento delle truppe sovietiche

Lo scontro interno tra Gorbacèv ed Eltsin

Il rimpasto ministeriale e il blocco alia spinta riformatrice

Il tentativo di colpo di stato dell'ala conservatrice

L'ascesa di Eltsin

Storia contemporanea

ti con i movimenti separatisti delle minoranze nazionali al proprio in­ terno. Il primo a dichiarare l’indipendenza fu il Parlamento della Li­ tuania nel marzo 1990, seguito a breve da quelli di Estonia e Lettonia. Gorbacèv, temendo che questi atti avviassero un processo di dissolu­ zione inarrestabile dell’URSS, dapprima reagì con un blocco econo­ mico nei confronti dei Paesi baltici poi, spinto dalle forze conservatrici del partito e dell’esercito, decise di far intervenire le truppe, sebbene con l’ordine di non sparare. Nel frattempo si era accentuato lo scontro interno tra Gorbacèv ed Eltsin, il quale avrebbe voluto imprimere una svolta più radicale al pro­ gramma di riforme economiche, e la crisi si aggravò nell’estate del 1990, quando Eltsin, eletto presidente del Praesidium del Soviet Supremo rus­ so, manifestò l’intenzione di separare la Russia dal resto dell’Unione. Ben consapevole, come avevano dimostrato le repubbliche baltiche, che tale atto avrebbe costituito l’anticamera dell’indipendenza, Gorbacèv avviò un rimpasto governativo chiamando nei posti di maggior respon­ sabilità uomini dell’apparato del partito contrari al processo di riforma. L’intento di Gorbacèv era duplice: da un lato, voleva coinvolgere a livel­ lo istituzionale i conservatori per evitare che imboccassero la strada di un possibile colpo di stato e, dall’altro, sperava così di tenere a freno co­ loro che, come Eltsin, spingevano per accelerare le riforme. Gli effetti del rimpasto ministeriale furono tuttavia disastrosi. A livello governati­ vo, infatti, Gorbacèv finì per alienarsi completamente l’appoggio dei ri­ formatori, che lo avevano accompagnato nel difficile progetto di rinno­ vamento, senza tuttavia garantirsi il sostegno completo dell’ala conser­ vatrice del partito. Al tempo stesso, la virata del governo produsse immediatamente degli effetti nelle repubbliche separatiste; nel gennaio 1991 a Vilnius, capitale della Lituania, i carri armati sovietici aprirono il fuoco sui nazionalisti. Nonostante la gravità della situazione e il proprio crescente isola­ mento politico, nell’estate del 1991 Gorbacèv tentò di mettere mano ra­ dicalmente all’impianto federale dello Stato e rese noto un nuovo tratta­ to dell’Unione che concedeva larghe autonomie alle singole repubbli­ che, liquidando di fatto rimpianto della vecchia URSS. Il trattato, però, non venne accettato dall’ala conservatrice del partito che, con pervicace spirito di autoconservazione, tentò il colpo di stato approfittando dell’as­ senza del presidente da Mosca. A impedire che il golpe andasse a buon fine concorsero soprattutto tre fattori: la popolazione moscovita che si radunò nella piazza del Parlamento per manifestare contro il tentato colpo di stato, Boris Eltsin che assunse la guida dei manifestanti e infine l’esercito che, pur diviso al suo interno, rifiutò di obbedire all’ordine dei golpisti di sparare sulla folla. Gli ultimi eventi resero evidente che il solo sbocco del processo rifor­ matore avviato da Gorbacèv nel 1985 non poteva essere che la fine del sistema sovietico, così come si era strutturato dal 1917 in poi. A racco­ gliere i frutti dei cambiamenti avviati nei sei anni precedenti fu Eltsin, che agli occhi della popolazione russa rappresentava colui che aveva sal­ vato le conquiste raggiunte fino a quel momento. In forza di questa legit­ timazione e del ruolo ricoperto all’interno della repubblica russa, Eltsin

La crisi delle dittature

sciolse il PCUS e smantellò il KGB (—►), il Comitato per la sicurezza dello Stato che dalla metà degli anni Cinquanta raccoglieva i servizi se­ greti e la polizia politica deU’URSS. All’inizio del dicembre 1991, men­ tre nel frattempo altre repubbliche si erano proclamate indipendenti, Eltsin costituì coi presidenti di Ucraina e Bielorussia una nuova struttu­ ra federale, la Comunità di Stati indipendenti (—►), che il 21 dicembre fu allargata a tutte le ex repubbliche sovietiche, con l’esclusione della Georgia (entrata nel 1993) e dei tre Paesi baltici. Il 25 dicembre Gorbacèv si dimise da capo dello Stato e la bandiera dell’URSS, che fin dalla sua nascita sventolava sul Cremlino, venne ammainata: l’Unione Sovietica non esisteva più.

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Scioglimento del PCUS e del KGB

la nascita della Comunità di Stati indipendenti e la fine dell'URSS

15.5 La caduta del Muro di Berlino Il nuovo corso avviato da Gorbacèv in Unione Sovietica fu all’origi­ ne del crollo dei regimi comunisti nel resto dell’Europa. Se in passato, nel 1953 a Berlino (cap. 10.2), nel 1956 a Budapest (cap. 11.2) e nel 1968 a Praga (cap. 14.1), era stato il potere sovietico a intervenire per riporta­ re sotto controllo una situazione che stava sfuggendo di mano ai governi nazionali, nel 1989 fu, all’opposto, proprio la scelta sovietica del non in­ tervento ad aprire la strada alle rivoluzioni che nel giro di pochi mesi fe­ cero crollare i regimi comunisti. Gorbacèv stesso infatti affermò più vol­ te la fine della dottrina della «sovranità limitata», che Breznev aveva ri­ vendicato per i Paesi del blocco orientale. Nel luglio 1989, davanti al Consiglio d’Europa, assicurò ufficialmente la non interferenza russa nei processi di riforma in atto nei Paesi dell’Est e lo ribadì poco dopo agli stessi leader di questi Paesi, sottolineando il loro diritto a cercare una «via nazionale» allo sviluppo politico ed economico. Alla fine dell’anno, in un colloquio con il presidente americano George Herbert W. Bush (—►), Gorbacèv confermò che nessun regime comunista dell’Est sareb­ be stato mantenuto da Mosca con la forza. Tale scelta finì quindi per al­ largare progressivamente gli spazi di autonomia dei Paesi satellite e le trasformazioni interne ai regimi dell’Est, già avviatesi a metà degli anni Ottanta, si accelerarono alla fine del decennio. L’Ungheria era già il Paese più «occidentalizzato» tra quelli del Patto di Varsavia: la proprietà privata e l’apertura ai mercati internazionali erano state concesse già negli anni Settanta e nel 1982 il Paese aveva avu­ to l’accesso al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale. La contestazione nei confronti di Kàdàr, il vecchio leader alla guida dell’Ungheria dal 1956, fu condotta da un gruppo di comunisti di nuova generazione favorevoli al nuovo corso di Gorbacèv e nel maggio 1988 Kàdàr venne sostituito da un esponente dell’ala riformista, Kàroly Grosz (—>■). Questi allentò la censura, permise la formazione di sindacati auto­ nomi e di organizzazioni politiche non comuniste e, a conferma del cam­ biamento in atto, nel 1989 la nuova leadership ungherese decise di riabi­ litare Nagy e tutte le vittime della repressione del 1956 (cap. 11.2). Nell’ottobre dello stesso anno fu attuata una revisione costituzionale e la Repubblica popolare ungherese venne ribattezzata Repubblica di

Il crollo dei regimi comunisti nell'Europa dell'Est

La scelta sovietica del non intervento

L'Ungheria

354

Le prime elezioni pluripartitiche La Polonia

Il Nobel per la pace a Walgsa

L'uso della forza per mantenere l'ordine

La legalizzazione di Solidarnosc e l'apertura di un tavolo di trattative Le prime elezioni libere

Il primo governo non comunista

Storia contemporanea

Ungheria, mentre il Partito comunista assunse il nome di Partito socia­ lista. Nella primavera del 1990 si tennero le prime elezioni pluripartiti­ che che segnarono la vittoria del Forum democratico ungherese (-—►) e la fine definitiva del dominio comunista. In Polonia, il giro di vite imposto dal governo all’inizio degli anni Ottanta non aveva fiaccato l’opposizione che, in clandestinità, continua­ va ad operare: il sindacato libero di Solidarnosc, anche se ufficialmente sciolto, rimaneva il principale punto di riferimento degli avversari del regime. Jaruzelski, del resto, sapeva che la Polonia continuava ad essere sotto il costante controllo dell’opinione pubblica mondiale: l’assegnazio­ ne del premio Nobel per la pace, nel 1982, al leader di Solidarnosc Lech Walesa ne fu il segnale più evidente. Nonostante alcuni tentativi di Jaru­ zelski di normalizzare la situazione, allentando la censura e mettendo fine alla legge marziale, si continuò comunque a usare la forza come mezzo principale per mantenere l’ordine. Nel 1984, per esempio, fu rapi­ to e ucciso il sacerdote Jerzy Popieluszko (-*-), uno dei più attivi oppo­ sitori del regime, molto vicino a Solidarnosc; la folla immensa che parte­ cipò alle sue esequie rese evidente a tutto il mondo che la maggioranza dei polacchi aveva ormai preso le distanze dal governo comunista. La sempre maggiore fragilità interna del regime e la via delle rifor­ me intrapresa da Gorbacèv costrinsero Jaruzelski a concedere alcune aperture. Nel 1986 fu costituito un ministero per le riforme economi­ che che mise a punto un primo pacchetto di interventi; contemporane­ amente alcuni giovani economisti di Varsavia stilarono un progetto volto ad affiancare all’economia pianificata un sistema di libero mer­ cato. Tuttavia, il rialzo incontrollato dei prezzi dei generi di consumo innescò una spirale di scioperi e manifestazioni di protesta che con­ vinsero Jaruzelski ad aprire un tavolo di trattative con Solidarnosc. In occasione di questa tavola rotonda, che si svolse nel febbraio 1989, Solidarnosc venne legalizzato, inoltre fu riconosciuto il diritto di costi­ tuire sindacati autonomi e ci si accordò per riformare il Parlamento e i poteri del capo dello Stato. A giugno, quindi, si tennero le prime libere elezioni e Solidarnosc ottenne 99 dei 100 seggi disponibili al Senato; mentre alla Camera, dove solo il 35% dei seggi era riservato a candida­ ti eletti e il resto ai rappresentanti del governo, l’opposizione conqui­ stò tutti posti aperti alla competizione elettorale. Il voto popolare esprimeva dunque, in modo chiarissimo, il rifiuto del regime da parte dei polacchi e a fine agosto, col beneplacito di Gorbacèv, si insediò in Polonia il primo governo non comunista di tutta la storia delle demo­ crazie popolari dell’Est Europa. Mentre alla guida dell’esecutivo andò l’intellettuale cattolico Tadeusz Mazowiecki (->-), già collaboratore di Walesa, per favorire la transizione e farvi entrare anche i comunisti ri­ formisti, Jaruzelski venne scelto come capo dello Stato. Il Partito co­ munista si sciolse, trasformandosi in Partito socialdemocratico, e nac­ quero nuove formazioni politiche. Sul piano economico, invece, Ma­ zowiecki volle accelerare i piani di liberalizzazione per risollevare il Paese dalla disastrosa recessione. Alle elezioni presidenziali del 1990 pagò tuttavia il prezzo delle misure impopolari adottate per risolvere la crisi economica e fu battuto da Walqsa.

La crisi delle dittature

Sembravano invece più tenaci i regimi comunisti della Germania Est, Cecoslovacchia, Bulgaria e Romania. La DDR, anche grazie ai vantaggi conseguiti in seguito alla Ostpolitik di Brandt, riteneva di ave­ re l’economia più solida di tutto il blocco orientale; in realtà, le statisti­ che reali sull’economia mettevano in luce un quadro diverso e sostan­ zialmente fallimentare. I contatti con la Repubblica federale, dove il cancelliere cristiano-democratico Helmut Kohl in carica dal 1982, si era mostrato favorevole a mantenere il dialogo coi tedeschi dell’Est, se da un lato rimandavano all’interno l’immagine di un solido Paese comu­ nista, dall’altro finirono per accrescere la percezione delle differenze tra i due Stati. Erich Honecker (—►), alla segreteria del partito dai primi anni Settanta, era convinto che la perestrojka non avesse futuro nella DDR. Le dimostrazioni contro il regime erano, del resto, contenute: il controllo totale sulla vita pubblica e privata dei cittadini effettuato dalla Stasi (—>), la polizia politica del regime, funzionava come antidoto e prevenzione di ogni potenziale dissenso. La debolezza di questa inter­ pretazione dei dirigenti comunisti apparve in tutta evidenza quando, nel maggio 1989, l’Ungheria, pur mantenendo formalmente la chiusura dei confini, cessò di pattugliare le frontiere che la separavano dall’Austria. In estate ci fu infatti un anomalo passaggio di tedeschi orientali verso l’Ungheria e a settembre erano ormai a migliaia i tedeschi orientali che stazionavano in territorio ungherese; quando fu chiaro che nessuno li avrebbe bloccati, attraversarono in massa il confine con l’Austria per passare in Occidente. Le proteste di Honecker e di tutta la vecchia guardia comunista e la decisione di vietare i viaggi dei tedeschi orientali anche nei Paesi «fra­ telli» riaccesero le contestazioni in tutta la Germania Est. Nacquero nuovi gruppi d’opposizione, come Nuovo Forum, più cauto nella propo­ sta di riforme politiche, e Democrazia Adesso, che arrivò a denunciare esplicitamente la «crisi» del socialismo di Stato. La visita di Gorbacev a Berlino, il 6 e 7 ottobre 1989, diede il colpo di grazia al regime; una folla immensa di giovani militanti del partito iniziò a intonare cori in onore del leader sovietico e della sua perestrojka e le manifestazioni continua­ rono anche nei giorni successivi. Nel tentativo ultimo di salvare il regime, Honecker venne sostituito da Egon Krenz (->-), uno dei più giovani dirigenti del partito che subi­ to affermò di voler aprire un dialogo coi cittadini. Concesse aperture alla libertà di informazione, permise la continuazione delle proteste, epurò il partito dai membri più intransigenti e conservatori e promise di allentare i limiti per i viaggi all’estero dei cittadini della DDR. Quando, però, la sera del 9 novembre fu annunciata l’approvazione di una legge che avrebbe autorizzato, senza più necessità di visto e preav­ viso, i viaggi nella Germania Ovest, la popolazione berlinese si recò in massa presso il Muro cercando di oltrepassare i checkpoints disposti lungo la frontiera. Nella stessa notte, lungo entrambi i lati del Muro, i berlinesi comin­ ciarono ad abbattere quella barriera che era stata per quasi trentanni il simbolo della Guerra Fredda e causa di separazione, sofferenza e morte per i cittadini tedesco-orientali.

355

La Germania Est

Il dialogo con la Germania Ovest

Il controllo totale della Stasi sulla vita pubblica e privata

Il passaggio dei tedeschi orientali attraverso il confine ungherese

La visita di Gorbacev a Berlino e le manifestazioni di massa

La legge sui viaggi nella Germania Ovest

I berlinesi abbattono il Muro

356

Storia contemporanea

La crisi delle dittature

La caduta del Muro portò immediatamente al crollo del regime tede­ sco-orientale, ma la DDR restava in una posizione diversa rispetto agli altri Paesi satelliti dell’URSS. Si ripropose infatti il problema che le po­ tenze vincitrici della Seconda Guerra mondiale avevano accantonato al la fine degli anni Cinquanta, quello della possibile riunificazione tede­ sca. Per l’Unione Sovietica consentire la riunificazione della Germania significava ammettere che un Paese del Patto di Varsavia potesse cessa­ re di esistere; tuttavia, con una buona dose di realismo politico, non vi si oppose. Da parte loro le potenze occidentali, e soprattutto Francia e Gran Bretagna, temevano il potenziale economico, demografico e geo­ politico di una Germania riunificata, che rischiava di compromettere il delicato equilibrio del processo di unificazione europea. La determinazione del cancelliere federale Kohl, forte anche del so­ stegno del presidente americano Bush senior e dell’appoggio dell’opi­ nione pubblica di entrambe le Germanie, riuscì comunque, nel giro di pochi mesi, a portare a termine l’unificazione, prima economica, poi an­ che politica e istituzionale. Il trattato di unificazione venne firmato il 31 agosto 1990 e successivamente ratificato dai parlamenti delle due Ger­ manie. Il 3 ottobre la DDR cessava di esistere in quanto la Repubblica federale l’aveva assorbita al suo interno e il Grundgesetz (cap. 10.2) fu esteso ai Lander orientali. Dopo 45 anni i tedeschi raggiungevano così il grande obiettivo dell’unità e della sovranità. La caduta del Muro di Berlino ebbe forti ripercussioni negli altri Pae­ si del Patto di Varsavia. In Cecoslovacchia il nuovo corso di Gorbacèv aveva avuto l’effetto di costringere alle dimissioni il segretario del parti­ to Gustav Husàk (—►), soprattutto perché il leader sovietico, durante la sua visita ufficiale a Praga nell’aprile 1987, aveva duramente criticato la mancata liberalizzazione del regime. L’opposizione al governo comuni­ sta, stroncata nel 1968, era, del resto, riapparsa nuovamente nel 1977, quando un gruppo di intellettuali guidati dallo scrittore Vàclav Havel (—>) aveva chiesto il rispetto dei diritti umani. Il movimento, con il no­ me di Charta ’77 (—►), era rimasto attivo negli anni successivi ed erano sorti anche altri gruppi d’opposizione che, tuttavia, non erano riusciti a creare un’efficace rete di collegamento, consentendo quindi al regime la repressione di ogni tentativo di protesta e di tutte le manifestazioni or­ ganizzate in occasione degli anniversari degli eventi del 1968. A innescare la crisi definitiva fu, nel novembre 1989, la brutalità con cui la polizia represse una manifestazione autorizzata degli studenti; fu indetto immediatamente uno sciopero generale e un movimento di pro­ testa di proporzioni inimmaginabili travolse nel giro di pochi giorni tut­ ta la dirigenza comunista. Due gruppi, il ceco Forum civico (—>■) e lo slovacco Pubblico contro la violenza ( ^ - ) , si misero alla testa degli op­ positori e Husàk, che era rimasto alla presidenza dello Stato, si dimise il 10 novembre. Costituitosi quindi un governo di unità nazionale a mag­ gioranza non comunista, alla fine di dicembre Havel fu eletto all’unani­ mità presidente della repubblica e il vecchio leader della «primavera di Praga» Dubcek ottenne la guida del Parlamento. Rapida e gestita interamente dal partito fu la transizione in Bulgaria. A farne le spese fu il vecchio leader Todor Zivkov (—►), che guidava il

357

La prospettiva della riunificazione

Il trattato di unificazione e la fine della DDR

La Cecoslovacchia

I movimenti di opposizione

La crisi definitiva nel 1989

Il governo di unità nazionale

358

Storia contemporanea

Partito comunista dal 1954. Negli anni Ottanta aveva cercato di incana­ lare il dissenso interno verso un comune, potenziale nemico: la mino­ ranza turca, che riportava alla memoria gli antichi soprusi della domi­ nazione ottomana. I provvedimenti varati contro i bulgari-turchi, tutta­ via, avevano avuto l’effetto di isolare il Paese all’interno della stessa area sovietica, attirando inoltre la condanna dell’ONU e della Comuni­ tà europea. L’insofferenza nei confronti del regime, d’altro canto, non era venuta meno e il 10 novembre 1989, il giorno dopo la caduta del Mu­ ro di Berlino, cogliendo l’occasione di una brutale repressione della po­ lizia contro un gruppo ambientalista, l’area riformista del partito sollevò La transizione gestita Zivkov e lo fece arrestare. Fu lo stesso partito, quindi, a dare il via ai dall'area riformista provvedimenti di riforma e all’inizio del 1990 cambiò il nome in Partito del partito socialista bulgaro. A giugno si tennero libere elezioni per la nomina di un nuovo Parlamento e, a differenza di altri Paesi del blocco sovietico, a vincere furono gli stessi ex comunisti che tuttavia, pur mantenendo il potere, accettarono la nascita di un’opposizione organizzata e si predi­ Le libere elezioni sposero a governare secondo i principi del pluralismo politico. Un se­ e la vittoria gnale evidente di questo nuovo corso si ebbe nel dicembre 1990 quando, degli ex comunisti contro il parere dei nazionalisti più radicali, furono riconosciuti alle mi­ noranze turche e musulmane gli stessi diritti dei cittadini bulgari. La Romania Assai diversa da quella cecoslovacca e bulgara fu la fuoriuscita dal comuniSmo della Romania, che avvenne al prezzo di violenze e spargi­ menti di sangue e si concluse col drammatico epilogo della condanna a morte del leader Ceaugescu e della moglie. Ceaugescu pagò con la vita la La gestione dissennata dissennata gestione dell’economia del Paese, una megalomania che lo del despota Ceau§escu aveva reso un despota coperto d’oro in un Paese ridotto ai limiti della so­ pravvivenza e soprattutto la sistematica politica di oppressione nei con­ fronti di qualsiasi forma di dissenso e delle minoranze etniche. Il «genio dei Carpazi», come si era fatto chiamare in qualche occasione, fu rieletto alla guida del partito nel novembre 1989 con la promessa che in Romania non ci sarebbe mai stata alcuna perestrojka e sicuro che il popolo rumeno non avrebbe osato sfidare la Securitate (—►), la temibile polizia politica. L'effetto boomerang Il 17 dicembre 1989, invece, gli oppositori organizzarono una dimostra­ della repressione zione di protesta a Timisoara e Ceaugescu diede ordine alla polizia di violenta delle proteste sparare. Quella volta, però, la repressione ebbe un effetto boomerang per il regime; le proteste e le rivolte si estesero a tutto il Paese e raggiunsero anche Bucarest. Quando, il 21 dicembre, il dittatore convocò i cittadini della capitale per mettere alla berlina i dimostranti che avevano disobbe­ dito agli ordini, al posto della solita folla che applaudiva secondo lo sche­ ma tradizionale, si trovò di fronte una moltitudine di persone che lo con­ Il tentativo di fuga testò duramente. Intimorito dagli eventi tentò la fuga, ma venne cattura­ e la condanna a morte to, processato in modo sommario e giustiziato il 25 dicembre 1989. di Ceau$escu Alla guida del nuovo governo fu posto Ion Iliescu (->-), capo di un sedicente Fronte di salvezza nazionale composto da ex funzionari co­ munisti che si erano da poco distaccati dalla dittatura di Ceau§escu. A n­ che se Iliescu cercò di indirizzare il Paese verso un’apparente liberaliz­ zazione, in realtà il colpo di stato che aveva abbattuto la dittatura costi­ tuì una pesante ipoteca anche per gli anni successivi. Gli aspetti più deliranti del regime di Ceaugescu furono definitivamente cancellati, ma

La crisi delle dittature

la Romania rimase a lungo intrappolata in una transizione che aveva tutti i caratteri di una restaurazione sotto nuove spoglie.

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La lunga e difficile transizione

15.6 Piazza Tiananmen: il vento della libertà non soffia in Cina Mao Zedong morì il 9 settembre 1976. L’ala più radicale del partito, favorevole a continuare nel solco della «rivoluzione culturale» (cap. 14.1), era rappresentata da Jang Qing (—►), Zhang Chunqiao (—►), Yao Wenyuan (—►) e Wang Hongwen (->-), soprannominati la «banda dei quattro», i quali intendevano guidare la Cina dopo la morte di Mao. Nel giro di pochi anni, invece, furono tutti arrestati e condannati e la guida del Paese venne assunta nel 1978 da Deng Xiaoping (—►), già epurato durante la «rivoluzione culturale» perché accusato di sostenere idee «moderate» e riabilitato nel 1973. Disposto a riconoscere gli errori del suo predecessore, volle porsi in netta discontinuità rispetto alla «rivolu­ zione culturale» e alla politica maoista. Impostò il proprio programma sulle cosiddette «quattro modernizzazioni», già formulate nel 1975 da Zhou En-lai, riguardanti il settore agricolo, l’industria, la difesa e il set­ tore scientifico-teconologico. Nel campo dell’agricoltura, quello che più di ogni altro risentì degli effetti positivi dell’impostazione economica di Deng Xiaoping, l’obiettivo a lungo termine era di abbandonare progres­ sivamente il sistema collettivistico e favorire il graduale ripristino dell’economia di mercato. Il primo intervento fu volto a stimolare la massima produzione negli appezzamenti privati, lasciando poi i contadi­ ni liberi di vendere sul mercato i loro prodotti. Nel giro di tre anni il ri­ cavato da queste vendite rappresentava quasi il 40% del reddito delle fa­ miglie contadine. Il secondo intervento, denominato «sistema di respon­ sabilità produttiva», prevedeva che gli agricoltori ottenessero lotti di terra per la coltivazione di prodotti specificatamente assegnati, da cui una quantità prestabilita di raccolto andava consegnata alle autorità competenti, mentre le eccedenze rimanevano a contadini. Già nella prima metà degli anni Ottanta, l’incremento nella produ­ zione di cereali raggiunse la percentuale insperata del 5% annuo. Se i ri­ sultati nel settore agricolo potevano considerarsi soddisfacenti, era tut­ tavia evidente che non bastavano per modificare il tenore di vita della maggioranza della popolazione. Erano quindi necessari interventi in campo tecnologico, incentivi alla produzione industriale e soprattutto misure per consentire una prima diffusione dei beni di consumo. Si de­ cise pertanto di indirizzare una parte degli investimenti verso l’industria leggera e fu messo a punto un piano generale di intervento che modificò il sistema produttivo industriale grazie all’importazione di tecnologie dall’estero e a sempre più massicci investimenti stranieri. Nel 1980, in­ fatti, la Cina entrò nella Banca mondiale e nel Fondo monetario inter­ nazionale. Per facilitare gli investimenti stranieri furono create quattro «zone economiche speciali» coincidenti coi principali porti di ingresso alla terraferma in quanto più facilmente raggiungibili dagli investitori stranieri, che in esse potevano infatti contare su condizioni particolar-

La morte di Mao

L'ascesa di Deng

Il programma delle «quattro modernizzazioni»

Il settore agricolo

I risultati positivi ma insufficienti

Gli interventi nel settore industriale

La facilitazione degli investimenti stranieri

360

Gli effetti del progresso economico

La richiesta di apertura democratica

La reazione di Deng eia condanna del Movimento per la democrazia

Fermento nel Partito e proteste studentesche

La dura repressione

Storia contemporanea

mente vantaggiose e avvalersi di manodopera a basso costo. L’obiettivo fu pienamente centrato; i capitali stranieri arrivarono copiosi e con essi anche le più moderne tecnologie. Al progresso economico, che produsse anche molteplici fenomeni negativi come il crescente divario tra regioni ricche e zone povere, il massiccio spostamento dei giovani dalle campagne alle città, la forte evasione fiscale dei gruppi sociali arricchitisi in modo rapido e incon­ trollato, non corrispose comunque un’eguale apertura in ambito politico e istituzionale. AlPindomani della riabilitazione di Deng Xiaoping pre­ se forma il Movimento per la democrazia (—>■), appoggiato opportuni­ sticamente, all’inizio, dallo stesso Deng. A Pechino nacque il «muro per la democrazia» dove si affiggevano giornali murali, i dazibao (—►), con interventi a favore delle riforme oppure critiche nei confronti della diri­ genza del Partito comunista. In direzione della richiesta di democratiz­ zare il sistema andava anche il manifesto di Wei Jingsheng ( ^ - ) che, ri­ chiamandosi alle «quattro modernizzazioni» di Deng, sosteneva la loro sostanziale inutilità se non fossero state accompagnate da una quinta modernizzazione, ovvero la democrazia. Convinto che le «quattro mo­ dernizzazioni» sarebbero state sufficienti al rilancio del Paese, nel 1979 Deng condannò il Movimento per la democrazia fissando la sua linea politica nei cosiddetti «quattro principi cardinali»: il socialismo sarebbe rimasto alla base della vita politica in Cina e, di conseguenza, si riaffer­ mavano la dittatura del proletariato, l’autorità del Partito comunista e la dottrina marxista-leninista affiancata dal pensiero di Mao. Contestual­ mente furono cancellate dalla Costituzione le «quattro libertà»: di paro­ la, di espressione, di tenere dibattiti e di scrivere giornali murali. Era il segnale più esplicito che le riforme politiche non erano contemplate nell’agenda di Deng. Le proteste non cessarono del tutto, ma il Movi­ mento per la democrazia subì un durissimo colpo; i suoi esponenti prin­ cipali furono arrestati e condannati. All’inizio degli anni Ottanta, tuttavia, un certo fermento cominciò a circolare anche all’interno del partito. I crescenti contatti economici coi Paesi occidentali finirono infatti per introdurre in Cina usanze e com­ portamenti assai lontani da quelli tradizionali: dall’abbigliamento alla musica, ai divertimenti. Sembrò allora che un’aria di apertura si affac­ ciasse nuovamente anche nell’orizzonte politico. Critiche al partito furo­ no espresse da intellettuali e persino da alcuni esponenti della leadership comunista: si disse che lo stesso segretario del partito, Hu Yaobang (—►), avesse espresso giudizi positivi sull’Occidente e non altrettanto nei con­ fronti della dottrina marxista. Nel dicembre 1986 una protesta di studen­ ti contro presunte manipolazioni nelle elezioni dilagò da una città all’al­ tra e, di nuovo, si tornò a parlare con insistenza di democrazia. La repres­ sione del partito non si fece attendere: colpì studenti e intellettuali, mentre lo stesso Hu Yaobang dovette fare autocritica e dimettersi dalla segreteria. Al momento della sua morte, nell’aprile 1989, gli studenti vol­ lero commemorarlo con una grande manifestazione che divenne l’occa­ sione per criticare nuovamente il governo e il suo autoritarismo. Pochi giorni dopo, in occasione dell’anniversario della nascita del «movimento del 4 maggio», un movimento studentesco anti-imperialista

La crisi delie dittature

e riformatore che era sorto nel 1919 per protestare contro le decisioni delle potenze vincitrici della guerra mondiale, gli studenti tornarono a manifestare in molte città cinesi. La grande ondata di protesta dei gio­ vani, influenzata in parte anche dalle coeve vicende sovietiche, culminò a Pechino in piazza Tiananmen; quando gli studenti decisero di non ab­ bandonare la piazza, come ordinato dalle forze dell’ordine, e di comin­ ciare uno sciopero della fame per ottenere le necessarie riforme, la ten­ sione crebbe vertiginosamente. Ad aggravare la situazione vi era anche la visita ufficiale di Gorbacèv in Cina prevista per il 15 maggio, che era la prima di un rappresentante dell’URSS dopo la rottura dei rapporti fra i due Paesi. Il segretario del partito Zhao Ziyang (—>-) incontrò gli studenti il 19 maggio e sembrò prendere in considerazione le loro richie­ ste. Tuttavia, dopo lunghe discussioni tra gli organi di governo e la diri­ genza del partito, il primo ministro Li Peng ( ^ - ) , d’accordo con Deng, scelse la linea della repressione. Il 29 maggio, mentre unità dell’esercito venivano fatte confluire verso piazza Tiananmen, gli studenti vi eressero una statua dedicata alla dea della democrazia. Il 3-4 giugno l’esercito entrò in azione provocando una strage: mentre le fonti ufficiali cinesi fornirono un bilancio di poche cen­ tinaia di morti, i dati degli osservatori esteri indicavano un numero di vit­ time compreso tra 3.000 e 7.000. La tragedia di piazza Tiananmen, tra­ smessa in diretta dalle televisioni di tutto il mondo, segnò pesantemente, almeno in un primo tempo, i rapporti fra la Cina e i Paesi occidentali. Le relazioni economiche furono interrotte, gli Stati Uniti e altri Paesi intro­ dussero sanzioni contro il governo cinese. Tali misure, tuttavia, furono temporanee e ben presto la Cina potè riprendere la strada dello sviluppo economico e dei rapporti commerciali con l’Occidente. All’interno del Paese i tragici eventi di piazza Tiananmen fecero ca­ dere qualche testa. Deng Xiaoping accusò il segretario del partito e il primo ministro di non aver saputo mantenere sotto controllo la situazio­ ne. Per Deng, tuttavia, le priorità rimanevano comunque quelle econo­ miche, convinto che lo sviluppo economico e il miglioramento delle con­ dizioni di vita dei lavoratori avrebbero tolto consenso a tutti i movimen­ ti che protestavano contro il regime. In linea con tale determinazione, riconfermò i «quattro principi cardinali» e ribadì la più assoluta inflessi­ bilità verso le manifestazioni politiche.

361

La manifestazione di piazza Tiananmen

La repressione militare

15.7 I partiti comunisti dei Paesi occidentali di fronte al crollo del «mito» sovietico La caduta del Muro di Berlino e la successiva dissoluzione dei regimi comunisti nei Paesi dell’Est europeo ebbero conseguenze politiche assai rilevanti anche in Occidente. Misero infatti in discussione, nelle dinami­ che interne ai diversi contesti nazionali, il ruolo tradizionalmente svolto dai partiti comunisti, privati ormai del «mito», per quanto da tempo sbiadito, della «patria del socialismo» e orfani del ruolo di riferimento esercitato per decenni da Mosca. Tra le democrazie occidentali quella che, fin dall’immediato dopoguerra, disponeva del più solido Partito co-

La fine del «mito» sovietico

362

Il Partito Comunista Italiano

Berlinguer e la presa di distanza da Mosca

Il dibattito aH'interno del partito e le sconfitte elettorali

Occhetto e il cambio del nome: nascita del PDS

Progressivo ridimensionamento del Partito comunista in Francia

La disfatta elettorale del 1989

Storia contemporanea

munista era l’Italia dove, dal 1948 in poi, il PCI aveva rappresentato la principale forza d’opposizione arrivando, alle elezioni del 1976, a poca distanza dal «sorpasso» nei confronti della Democrazia Cristiana. Già nel corso degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta, comunque, il suo segretario Berlinguer aveva in più occasioni preso le distanze da Mosca e lanciato il progetto di un «società socialista» compatibile con le istitu­ zioni democratiche; una sorta di «via occidentale» al comuniSmo, il co­ siddetto eurocomunismo (cap. 14.5), che avrebbe dovuto coinvolgere in un programma e in un’azione comuni tutti i partiti comunisti dei Paesi dell’Europa occidentale. Nel 1981, dopo l’introduzione della legge mar­ ziale da parte di Jaruzelski in Polonia, Berlinguer arrivò in un’intervista a parlare anche di esaurimento della «spinta propulsiva» della matrice storica del «socialismo reale», ovvero la Rivoluzione bolscevica. Se da un lato, quindi, l’azione di Berlinguer aveva progressivamente modificato la linea politica del PCI, dall’altro tuttavia la «patria del so­ cialismo», l’Unione Sovietica, restava nell’immaginario collettivo di gran parte dei vecchi militanti. Ciononostante dopo la morte di Berlin­ guer, nel giugno 1984, il nuovo segretario Alessandro Natta ( ^ - ) , in sin­ tonia con quanto stava accadendo nell’URSS di Gorbacév, avviò un am­ pio dibattito all’interno del partito che riguardò anche il possibile cam­ bio del nome. La vera svolta si ebbe tuttavia solo a partire dal 1988 quando, a fronte di una serie di sconfitte elettorali subite dal PCI nelle elezioni sia politiche sia amministrative, la sua guida fu assunta da una nuova generazione di dirigenti che riuscirono a far eleggere alla segrete­ ria Achille Occhetto (—>). L’ipotesi di revisione del partito caldeggiata da Occhetto subì una forte accelerazione dopo la caduta del Muro di Berlino. Il 12 novembre 1989, infatti, in un intervento tenuto a Bologna, Occhetto annunciò la creazione di un nuovo soggetto politico che sareb­ be dovuto diventare il punto di riferimento principale di tutte le forze della sinistra. Il cambio del nome venne formalizzato, dopo un acceso dibattito interno, al Congresso del 1991: il PCI cessava di esistere e al suo posto nasceva il Partito democratico della sinistra (PDS). Sorto con l’obiettivo di aggregare l’elettorato di sinistra in una nuova forza politica socialista e democratica, il PDS causò l’immediata uscita delle correnti ancora legate all’esperienza del vecchio Partito comunista e all’ideolo­ gia marxista-leninista, che andarono a costituire il partito di Rifonda­ zione comunista. Alle elezioni del 1992 il PDS raccoglieva il 17% dei vo­ ti, mentre Rifondazione comunista il 6%. In Francia, dalla nascita della Quinta Repubblica in poi, il PCF ave­ va conosciuto un progressivo ridimensionamento del proprio elettorato che lo costrinse ad avvicinarsi sempre di più ai socialisti. Infatti quan­ do, nel corso degli anni Ottanta, riprese le distanze dal Partito sociali­ sta (sorto nel 1969 dalla fusione di diverse formazioni politiche tra cui la SFIO), i suoi consensi calarono in modo drastico fino a scendere al di sotto del 10%. Analoghi segnali di crisi vennero anche dalle elezioni presidenziali del 1988, dove il candidato comunista ottenne appena il 6,8% delle preferenze. La disfatta più grave, tuttavia, si registrò in oc­ casione delle elezioni amministrative del 1989, quando il PCF perse quasi la totalità dei sindaci delle principali città e vide anche modificar-

La crisi delle dittature

si radicalmente la distribuzione del proprio elettorato, ormai concen­ trato solo in alcuni distretti. Nello strenuo tentativo di risollevare il partito da questa crisi, i dirigenti comunisti cercarono di puntare sulla riaffermazione dell’identità storica del comuniSmo, criticando la radi­ calità di alcune riforme effettuate da Gorbacév e chiudendosi nel culto di Cuba e del Vietnam, considerati gli ultimi santuari del comuniSmo internazionale. Tali scelte, tuttavia, provocarono l’allontanamento di una parte dei militanti e produssero contrasti e tensioni anche all’inter­ no della dirigenza; alle elezioni politiche del 1993, infatti, il PCF arrivò a fatica a raggiungere il 9% dei voti. Il Partito comunista spagnolo, sotto la direzione di Santiago C ardi­ lo nel corso degli anni Settanta si era avvicinato al progetto eurocomunista promosso da Berlinguer, ma al prezzo di numerosi e aspri contrasti interni. Le sue ali estreme infatti fondarono prima, nel 1973, il Partido Comunista Obrero Espanol e in seguito il Partido Comunista de los trabajadores. Nonostante queste scissioni, però, nelle prime ele­ zioni dopo la fine della dittatura franchista, il partito si stabilizzò intor­ no al 10% dei consensi e la sua linea moderata e riformista ebbe un ruolo decisivo nel processo di democratizzazione della Spagna. La sec­ ca sconfitta alle elezioni del 1982 portò invece alle dimissioni di C ardi­ lo, accusato di eccessivo moderatismo ed espulso dal PCE nel 1985. L’anno seguente i comunisti formarono, assieme ad altri gruppi di sini­ stra, l’Izquierda Unida, un nuovo raggruppamento che, pur senza supe­ rare mai la soglia del 10% dei consensi alle elezioni, sarebbe rimasto anche dopo la fine del regime sovietico a rappresentare le forze della si­ nistra radicale in Spagna. La SED, ovvero il Partito socialista unificato della Germania Est, cambiò il proprio nome dopo il crollo del Muro di Berlino, affiancando alla denominazione originaria la sigla PDS, cioè Partito della sinistra. Il vecchio nome fu abbandonato definitivamente nel febbraio 1991. Unito­ si con vari piccoli gruppi e movimenti di sinistra, il PDS raccolse fin dai primi anni Novanta risultati soddisfacenti ma solo nelle regioni orienta­ li, scegliendo di non presentarsi alle elezioni nei Lànder che avevano fatto parte della Germania Ovest. Dopo il fallito golpe della vecchia guardia comunista a Mosca, nel 1991, ebbe inizio, pur tra contrasti e ambiguità, un vero processo di revisione interna nell’ex partito comuni­ sta tedesco, che imboccò una strada riformista e pluralista. Al tempo stesso il diffuso malcontento della popolazione dei Lànder orientali, do­ vuto alle difficoltà economiche seguite alla riunificazione, garantì nel tempo al PDS un discreto serbatoio di voti. Il Partito comunista portoghese aveva conseguito numerosi consensi presso gli intellettuali e maturato, nel corso degli anni Ottanta, posizioni vicine all’eurocomunismo, pur senza entrarvi ufficialmente. Alleatosi col Partito socialista, riuscì anche a vincere le elezioni per la municipalità di Lisbona. Nel 1990 il PCP, dopo aver preso le distanze dalle politiche adottate dai governi comunisti nei Paesi dell’Europa orientale, arrivò ad­ dirittura a superare la soglia del 13% alle elezioni presidenziali. Già a partire dall’anno successivo tuttavia, dopo il crollo dell’URSS, iniziò la fase di declino che si sarebbe protratta per tutti gli anni Novanta.

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Il Partito comunista spagnolo

Il contributo alla democratizzazione della Spagna

La Germania Est

Il cambio di nome del partito

Il serbatoio di voti nei tó/rcfer orientali Il Partito comunista portoghese

364

Il Partito comunista greco

La scissione dell'ala di estrema sinistra

Il declino dei partiti comunisti nel Nord Europa

Storia contemporanea

In Grecia, il Partito comunista (Kommounistiko Komma Elladas) già nel 1986 aveva accettato di entrare in una coalizione denominata Si­ nistra ellenica che doveva rappresentare i gruppi della sinistra radicale in alternativa ai socialisti. La scelta della coalizione di formare un go­ verno assieme ai moderati allo scopo di stabilizzare il Paese ed elimina­ re la corruzione politica portò, tuttavia, a una scissione alFinterno del KKE. L’ala separatista di estrema sinistra assunse posizioni sempre più radicali e nel 1991 appoggiò il tentato colpo di stato di Mosca, col quale i gruppi conservatori della dirigenza sovietica tentarono l’ultima strenua difesa del «socialismo reale» (cap. 15.4). Nei Paesi del Nord Europa il declino dei partiti comunisti era in mol­ ti casi già iniziato nella prima metà degli anni Ottanta. Si avviarono in­ fatti processi di ridefinizione identitaria che li portarono a moderare gli accenti ideologici più radicali e a confluire, molto spesso, in ampie coa­ lizioni con socialisti, pacifisti ed ecologisti. In tale operazione, pur rima­ nendo i riferimenti ai valori tradizionali della sinistra, come giustizia so­ ciale, solidarietà, eguaglianza, furono eliminati tutti i richiami all’ideo­ logia marxista-leninista. 15.8 L'Unione europea guarda ad Est: gli allargamenti

La realizzazione dell'unione monetaria L'apertura ai Paesi dell'Europa centrale e orientale

Il dibattito sull'unificazione politica

La questione della riunificazione tedesca

Per la CEE gli anni Novanta si aprirono all’insegna di due importan­ ti sfide: da una parte la realizzazione dell’unione monetaria, che fu la grande scommessa del presidente della Commissione europea Jacques Delors (—»-), in carica dal 1985 al dicembre 1994, e dall’altra l’apertura ai Paesi dell’Europa centrale e orientale usciti dai regimi comunisti. Sorta, infatti, nel pieno della Guerra Fredda, la CEE era rimasta fino al 1973 un «club» ristretto di cui facevano parte solo i Paesi fondatori; nel corso degli anni Settanta e Ottanta se ne erano aggiunti altri sei, tra cui Grecia, Spagna e Portogallo dopo il ritorno alla democrazia. Al mo­ mento del crollo del Muro di Berlino, quindi, la Comunità europea era un organismo di 12 Paesi in procinto di completare in modo organico il cammino di unificazione economica iniziato trent’anni prima. Proprio la prospettiva dell’unione monetaria aveva già da tempo aperto un di­ battito interno ai Paesi membri sull’eventualità di consolidare e appro­ fondire anche l’unificazione politica, su cui si impegnò soprattutto De­ lors, convinto federalista. Il crollo dei regimi comunisti ebbe l’effetto di accelerare queste riflessioni. All’inizio fu l’eventualità della riunificazione della Germania che, suscitando forti perplessità nel governo francese, rese evidente la neces­ sità per la CEE di adottare una linea politica coerente circa i nuovi as­ setti che si stavano profilando in Europa. Al Consiglio europeo di Stra­ sburgo del dicembre 1989, a un mese dalla caduta del Muro di Berlino, ci si limitò tuttavia ad auspicare che il popolo tedesco potesse ritrovare la propria «unità tramite una libera autodeterminazione» e ad approvare la creazione di una Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS —►) che avrebbe dovuto favorire la transizione verso un’econo­ mia di mercato nei Paesi dell’Europa centro-orientale, purché si impe­

La crisi delle dittature

gnassero a rispettare i principi della democrazia, del pluralismo e della libertà economica. Alla fine dell’anno l’iniziativa di proporre soluzioni nuove per la riforma della Comunità venne dal presidente francese Mit­ terrand, il quale propose la creazione di una confederazione europea che avrebbe dovuto associare tutti gli Stati del continente per garantire un futuro di pace, sicurezza e proficue relazioni economiche. Mitter­ rand, considerando l’approfondimento dell’integrazione europea come un modo per continuare la tradizionale politica francese di contenimen­ to del gigante tedesco, sottolineò anche che proprio la Comunità euro­ pea, diventata un punto di riferimento e di attrazione per i popoli dell’Est, stava contribuendo alle trasformazioni in atto nell’Europa orientale. Il presidente francese riprendeva in questo modo la cosiddetta «teoria del magnete» elaborata nell’immediato dopoguerra dal leader socialdemocratico tedesco Kurt Schumacher, secondo la quale il model­ lo socio-economico dell’Europa occidentale avrebbe esercitato un fasci­ no talmente forte sui Paesi sottoposti al controllo sovietico da attirarli, come una sorta di magnete, nella propria orbita. Dal canto suo, anche il cancelliere tedesco Kohl, favorevole non solo all’unificazione monetaria della Comunità ma anche all’estensione dei suoi poteri e al rafforzamento dell’esecutivo europeo, era convinto che una maggiore integrazione dei Paesi della CEE avrebbe dissipato le ul­ time riserve francesi e inglesi in merito al possibile predominio europeo della Germania. Affermando che «la casa tedesca dev’essere costruita sotto un tetto europeo», il cancelliere ribadì più volte, anche in seguito, che il suo obiettivo non era un’Europa tedesca ma una Germania euro­ pea. Ottenuto il consenso di Gorbacèv affinché la Germania unificata entrasse a far parte della NATO, tra l’agosto e il settembre 1990 furono siglati i trattati che sancivano la riunificazione tedesca (cap. 15.5) e il 3 ottobre 16 milioni di tedeschi orientali entrarono ufficialmente nella CEE. La Comunità assumeva quindi una nuova dimensione, non solo in termini quantitativi ma anche qualitativi, dal momento che era in corso il processo di unificazione monetaria e si facevano sempre più forti le pressioni, soprattutto tedesche, per una riforma istituzionale che la ren­ desse un vero e proprio soggetto politico. Per Kohl, infatti, la spinta ver­ so un’unione politica con connotati federali era dettata dalla necessità di dotare la Germania e il resto dell’Europa di un solido ancoraggio re­ ciproco dinanzi all’ormai evidente disintegrazione del blocco sovietico. Al tempo stesso tale processo avrebbe fornito all’unificazione moneta­ ria un indispensabile supporto politico e istituzionale. Nonostante la recessione economica del 1992-93, il progetto europeo non si arenò e al Consiglio europeo di Maastricht del dicembre 1991 fu approvato il nuovo trattato, firmato ufficialmente il 7 febbraio 1992, che istituiva l’Unione europea. Andando nella direzione di approfondire l’unione politica fra i Paesi membri, il trattato di Maastricht (—>-) ag­ giungeva alla cooperazione economica elementi di carattere politico in materia di giustizia, difesa, ricerca e sviluppo tecnologico, politiche so­ ciali e ambientali; fissava inoltre le regole e le prescrizioni di tipo econo­ mico che avrebbero dovuto consentire, nel giro di un decennio, l’intro­ duzione della moneta unica. Inferiori alle aspettative furono invece le

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La proposta di Mitterrand

La «teoria del magnete»

La posizione europeista di Kohl

Il trattato di Maastricht e l'istituzione dell'Unione europea

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Il problema dell'ammissione di nuovi Paesi

I dubbi sulle condizioni economiche

I criteri di ammissione e l'Europa «a più velocità»

Storia contemporanea

disposizioni in tema di politica estera e di sicurezza comune (—►), so­ prattutto a causa della forte opposizione del governo inglese. Venne co­ munque ribadita la volontà di coordinamento delle politiche estere na­ zionali e di ricerca di posizioni comuni in seno agli organismi interna­ zionali e fu riconosciuta, in prospettiva futura, l’eventualità di una politica di difesa comune. Venne inoltre inquadrata nell’ambito comuni­ tario la tradizionale cooperazione intergovernativa in materia di circo­ lazione delle persone, diritto d’asilo, accesso al lavoro, lotta all’immigrazione illegale e, con la creazione dell’Ufficio europeo di polizia (EUROPOL), si cercò di razionalizzare la collaborazione fra le forze di polizia in rapporto alla lotta contro il terrorismo, il traffico di droga e la grande criminalità. Se la firma del trattato di Maastricht avviava il processo di appro­ fondimento economico e politico dell’unificazione europea, reso evi­ dente dal cambiamento di denominazione (da Comunità a Unione) e dall’introduzione della cittadinanza europea, restava da risolvere il problema deh’ammissione dei nuovi Paesi che facevano richiesta di in­ gresso. Nel caso di quelli dell’ex blocco sovietico, i dubbi maggiori ri­ guardavano le loro condizioni economiche. La privatizzazione delle economie socialiste procedeva infatti a rilento e l’ingresso dei Paesi dell’Europa orientale, che già gravitavano nell’area economica comuni­ taria, avrebbe richiesto alle casse dell’Unione un enorme sforzo mone­ tario per sovvenzioni e aiuti allo sviluppo. Il programma di sostegno economico della UE, finanziato attraverso la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo e diretto inizialmente solo a Ungheria e Polo­ nia, fu allargato progressivamente a ben undici Paesi dell’Europa cen­ tro-orientale e balcanica. Tuttavia, l’ingresso di Paesi più poveri della media europea - uno studio del 1998 avrebbe dimostrato che solamente Slovenia, Repubblica Ceca e Cipro raggiungevano un reddito medio pari al 60% di quello dei cittadini della UE - rischiava di sconvolgere gli assetti economici interni. Alla fine però, pur nella consapevolezza delle difficoltà che avrebbero comportato le fragili economie di questi Paesi, prevalse una logica di tipo politico, che considerava l’inclusione delle neonate democrazie centro-orientali nella UE un modo per favo­ rirne la stabilità politica e istituzionale. Rimase comunque aperto l’interrogativo sui criteri di ammissione per i nuovi Paesi e su come l’Unione li avrebbe dovuti accogliere. Si co­ minciò quindi a parlare di un’Europa «a più velocità» dove, a fronte di un itinerario comune di integrazione, sarebbero stati messi a punto di­ versi livelli di adesione e partecipazione, come nel caso della moneta unica, che nel 2002 sarebbe stata adottata solo da dodici dei quindici Pa­ esi membri. Altre ipotesi prevedevano l’inclusione dei nuovi Stati a sin­ goli programmi d’integrazione; altri proposero invece un’Europa a «ge­ ometria variabile», che prevedesse uno zoccolo duro di Paesi economi­ camente omogenei e favorevoli ad approfondire ulteriorm ente l’unificazione politica. Mentre molte di queste proposte sono all’ordine del giorno ancora oggi in prospettiva di futuri, nuovi allargamenti, la questione dei criteri di accesso fu affrontata nel Consiglio europeo di Copenaghen del 1993, che fissò esplicitamente alcune norme a cui tutti i

La crisi delle dittature

Paesi candidati avrebbero dovuto rispondere. Tali obblighi comprende­ vano la presenza di un sistema istituzionale solido che garantisse la de­ mocrazia, il principio di legalità, i diritti umani e il rispetto delle mino­ ranze; 1’esistenza di un’economia di mercato efficiente e capace di ri­ spondere alle pressioni concorrenziali degli altri Paesi delFUnione; e infine la disponibilità dei Paesi candidati ad assumersi gli obblighi di ta­ le appartenenza, compresi gli obiettivi di un’unione politica, economica e monetaria sempre più profonda. Nel marzo 1998, dopo che, tre anni prima, anche Austria, Svezia e Finlandia erano entrate nell’Unione, si aprirono ufficialmente le tratta­ tive per l’ingresso di Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovenia, Estonia e Cipro. Benché soprattutto per i primi quattro Paesi, con le economie più sviluppate dell’Europa orientale e istituzioni politiche sta­ bili, non vi fossero problemi circa l’adesione ai criteri fissati a Copena­ ghen, i negoziati furono lunghi e complessi. Uno dei problemi principali, infatti, veniva dal settore agricolo. Mentre nell’Europa occidentale solo il 5% circa della forza lavoro era impiegata nell’agricoltura, in Polonia, ad esempio, il settore agricolo assorbiva il 27% della manodopera. Si de­ cise pertanto che i sistemi agricoli dei nuovi Paesi avrebbero ricevuto inizialmente solo un quarto delle sovvenzioni concesse ai Paesi occiden­ tali, nella prospettiva di riequilibrare questi trasferimenti finanziari nel giro di dieci anni. La contestuale introduzione di quote-limite di produ­ zione fece tuttavia nascere il sospetto nei Paesi candidati che si trattasse di un tentativo per allargare i mercati di sbocco delle riccamente sov­ venzionate agricolture occidentali. Un altro problema era costituito dalla libera circolazione di manodo­ pera e soprattutto la Germania temeva un incontrollato afflusso di lavo­ ratori dai Paesi confinanti, attratti dal livello più elevato dei salari. Nel caso specifico della Repubblica Ceca, poi, gli ostacoli erano anche di natura giuridica, dal momento che l’amministrazione pubblica e la ma­ gistratura non erano state sufficientemente riformate e il governo non aveva disposto adeguate misure a tutela delle minoranze. Per Cipro, in­ fine, la cui candidatura venne promossa dalla Grecia, si inseriva anche un delicato problema politico, poiché circa il 40% dell’isola era control­ lato dal governo turco, il quale non riconosceva 1’esistenza della Repub­ blica cipriota. Furono la dissoluzione della Jugoslavia e la guerra del Kosovo, come vedremo, ad accelerare il processo di allargamento della UE verso Est, nella consapevolezza che l’integrazione europea avrebbe costituito un decisivo fattore di pace e stabilità per l’intero continente. Nel febbraio 2000, quindi, l’Unione diede avvio alle trattative di ingresso con altri sei Paesi: Bulgaria, Romania, Slovacchia, Lettonia, Lituania e Malta. No­ nostante alcuni di essi, come Bulgaria e Romania, non possedessero un’economia di mercato pienamente funzionante e un sistema giuridico in grado di salvaguardare del tutto i diritti delle minoranze, i negoziati furono portati avanti lo stesso, mentre nel frattempo l’UE si disponeva a riformare le proprie istituzioni in modo da incrementare il livello di in­ tegrazione politica. Tra il febbraio 2002 e il luglio 2003, infatti, la Con­ venzione europea (—»-), un organo formato dai rappresentanti degli Sta-

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I criteri fissati a Copenaghen

Le trattative per l'ingresso dei Paesi dell'Europa dell'Est

La questione del settore agricolo

La libera circolazione della manodopera

L'accelerazione del processo di allargamento della UE dopo le guerre nell'ex Jugoslavia

368

Il progetto di una Costituzione della UÈ

La nascita della nuova Europa a 25 nel 2004

L'ingresso di Romania e Bulgaria

Storia contemporanea

ti membri, del Parlamento europeo, dei parlamenti nazionali e della Commissione, sotto la presidenza di Valéry Giscard d’Estaing (-*-), elaborò un progetto di trattato istitutivo di una Costituzione dell’Unio­ ne europea ( ^ -). Il 1° maggio 2004, conformemente a quanto stabilito al Consiglio eu­ ropeo di Copenaghen del 2002, ben dieci nuovi Paesi entrarono a far parte della UE: Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia, Malta e Cipro. Tale allargamento non fu solo il più consistente dal 1957, ma anche quello storicamente più signifi­ cativo dal momento che includeva molti paesi dell’ex blocco comunista. Fu, dunque, un momento chiave nella storia europea, carico di una va­ lenza politica comprensibile solo alla luce degli sconvolgimenti che ave­ vano dilaniato il continente durante il XX secolo. Assurta quasi a simbo­ lo del dissolvimento della «cortina di ferro» e della fine della Guerra Fredda, la nascita della nuova Europa a 25, coi suoi 454 milioni di cittadi­ ni, rappresentò uno dei momenti di massima forza propulsiva dell’Unio­ ne, realizzando, secondo il disegno dei padri fondatori, il ricongiungi­ mento con la famiglia democratica europea di Paesi a lungo «esclusi». Nell’ottobre dello stesso anno i capi di Stato e di governo degli Sta­ ti membri firmarono il trattato istitutivo della Costituzione europea, che sarebbe dovuto entrare in vigore solo dopo la ratifica, per via par­ lamentare e/o referendaria, da parte di ciascuno dei Paesi firmatari. La bocciatura del testo costituzionale nei referendum del maggio e giugno 2005 in Francia e Paesi Bassi segnò una battuta di arresto nel processo di «costituzionalizzazione» della UE; tuttavia il percorso de­ gli allargamenti non si arrestò e il 1° gennaio 2007 Romania e Bulgaria entrarono nell’Unione.

Capitolo 16

Unilateralismo e crisi

16.1 II sistema politico italiano tra proporzionale e maggioritario 16.2 La divisione della Jugoslavia: il problema dei micro-nazionalismi 16.3 La fine àeWapartheid in Sudafrica e il genocidio in Rwanda 16.4 Nazionalisti e unionisti: il Nord Irlanda a un punto di svolta 16.5 II «pantano» mediorientale

16.1 II sistema politico italiano tra proporzionale e maggioritario Lo stesso giorno del rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, il 16 marzo 1978, un Parlamento sotto shock per quanto stava ac­ cadendo si affrettò a votare la fiducia al governo Andreotti, un monoco­ lore democristiano che si appoggiava su una larga maggioranza costitui­ ta da comunisti, socialisti, socialdemocratici e repubblicani. Si trattò dell’ultimo esecutivo del periodo della «solidarietà nazionale» (cap. 14.5); ancora uniti nei mesi successivi, più a causa della pressione terro­ rista che per un reale progetto comune, i partiti abbandonarono defini­ tivamente la strada della «solidarietà nazionale» già all’inizio dell’anno successivo. Si entrò così in una lunga fase di transizione in cui l’asse di governo, sempre ancorato al centro, avrebbe oscillato tra sinistra e de­ stra a seconda di quali tra i partiti laici minori entravano a far parte del­ la coalizione governativa. La DC, chiudendo il Congresso del febbraio 1980, inserì come pre­ messa alle risoluzioni finali un preambolo dove si denunciava definitiva­ mente l’alleanza col Partito comunista, preferendo ad essa la ripresa del consolidato rapporto con il PSI, già sperimentato negli anni del centrosinistra. Dal canto suo Berlinguer, nel novembre dello stesso anno, illu­ strò la nuova linea politica del PCI, ispirata all’alternativa democratica che avrebbe dovuto segnare la fine della strategia del «compromesso storico». Con essa, inoltre, Berlinguer volle lanciare la cosiddetta «que­ stione morale», rivendicando al suo partito una diversità che, a suo dire, lo distingueva dalle altre forze politiche italiane. Mentre tutti i partiti erano impegnati a trovare una linea politica nuova dopo la fine della «solidarietà nazionale», il Paese fu di nuovo insanguinato da un attentato terroristico: infatti, il 2 agosto 1980, alle 10.25 del mattino, nella stazione di Bologna esplose una bomba che

La fine del periodo della «solidarietà nazionale»

La nuova linea politica di DC e PCI

Berlinguer e la «questione morale»

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La strage di Bologna

Lo scandalo della loggia massonica P2

Crisi di credibilità della classe dirigente Il primo esecutivo non guidato dalla DC

Il governo Spadolini

La questione della riforma elettorale

Le mancate riforme istituzionali

Storia contemporanea

causò 85 morti e circa 200 feriti (cap. 14.5). Dopo un lungo processo, gli esecutori materiali dell’attentato furono individuati in Valerio Fio­ ravanti (—>-) e Francesca Mambro (-—►), due militanti dell’estrema de­ stra che, tuttavia, si sono sempre dichiarati estranei a questa tragica vi­ cenda. A mettere in crisi i fragili equilibri fu, però, soprattutto il terre­ moto politico che investì la classe dirigente e l’opinione pubblica nei primi mesi del 1981. Perquisendo la villa di Licio Gelli (—►), capo del­ la loggia massonica P2 (->-), e la sede della massoneria a Palazzo Giu­ stiniani, furono infatti trovati gli elenchi dei membri della loggia e, a maggio, il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani (—>) fu costretto a renderli noti. In essi risultavano iscritti alla P2, tra gli altri, deputati e senatori, magistrati, alti ufficiali delle forze armate, quadri direttivi di diversi partiti e uomini di governo. La loggia P2 aveva un progetto di ristrutturazione dell’impianto istituzionale dello Stato, noto come «piano di rinascita democratica», che prevedeva, attraverso l’indeboli­ mento dei sindacati, il controllo sulla stampa, la fine del monopolio te­ levisivo statale, di modificare in senso presidenziale la struttura sta­ tuale allo scopo di emarginare definitivamente la sinistra dalla scena politica. Di fronte alla grave crisi di credibilità che investì la classe di­ rigente italiana il governo Forlani si dimise e il presidente della R e­ pubblica Sandro Pertini (—►•) affidò al leader del Partito repubblicano Giovanni Spadolini (—>■) il mandato di formare il nuovo governo. Era la prima volta nella storia della Repubblica che l’esecutivo non era in mano a un esponente della DC; il solo uomo politico infatti che, pur non appartenendo al partito di maggioranza relativa, aveva ricoperto il ruolo di presidente del Consiglio era stato l’azionista Ferruccio Parri nel lontano 1945. Spadolini ebbe il merito di porre nell’agenda governativa la questio­ ne delle riforme istituzionali, tema già avviato a metà degli anni Set­ tanta dal Partito socialista. Fu così che, mentre a livello governativo va­ rò la nuova formula del pentapartito, una riedizione del centro-sinistra in cui però rientrava anche il Partito liberale, sul piano istituzionale av­ viò, nel 1983, i lavori di una Commissione bicamerale, composta da de­ putati e senatori di tutte le forze politiche e guidata dal liberale Aldo Bozzi (-^-); la Commissione doveva definire un progetto di riforma co­ stituzionale condiviso dall’intero arco parlamentare. I lavori si protras­ sero per oltre un anno, ma alla fine si arenarono sulla spinosa questione della riforma elettorale: si imputava infatti al sistema proporzionale, che pur garantiva la rappresentatività di tutti i gruppi politici, la re­ sponsabilità di non assicurare la governabilità del Paese, ma al tempo stesso ciascun partito temeva le conseguenze elettorali che avrebbe po­ tuto produrre il cambio del sistema. Nonostante il fallimento dei lavori della Commissione, rimase evidente che il nodo dell’impasse politico del Paese era dato dalle mancate riforme istituzionali. Un problema che divenne sempre più sentito nel corso degli anni Ottanta quando, anche a causa della sempre più elevata spesa pubblica e delle conse­ guenze di lungo periodo dello scandalo della loggia P2, la classe politi­ ca italiana fu sottoposta a critiche serrate da parte di un’opinione pub­ blica che contestava ai partiti quello che veniva percepito come un defi­

Unilateralismo e crisi

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cit di partecipazione democratica. Inoltre il dilagare della malavita organizzata, soprattutto mafia e camorra, oltre a minacciare la convi­ li dilagare venza civile e il ruolo delle istituzioni dello Stato, diffuse un crescente della criminalità senso di insicurezza nel Paese. L’episodio più drammatico fu, nel set­ organizzata tembre 1982, l’attentato mafioso che uccise, assieme a sua moglie, il ge­ nerale Carlo Alberto Dalla Chiesa, inviato a Palermo in qualità di pre­ L'omicidio del generale fetto per combattere le organizzazioni di mafia. Dalla Chiesa I governi del pentapartito che, dopo la presidenza Spadolini, erano stati guidati ininterrottamente dal 1983 al 1987 dal leader del Partito so­ cialista Bettino Craxi (—>-) passarono nell’estate del 1987 nelle mani della Democrazia Cristiana. Nonostante l’ampia maggioranza che li so­ La fragilità dei governi steneva all’interno del Parlamento, tali esecutivi continuarono a eviden­ del pentapartito ziare una sempre più ridotta legittimazione a causa soprattutto della liti­ giosità fra i leader dei diversi partiti della coalizione. La fragilità dei go­ verni e la nascita di formazioni nuove, come il movimento ambientalista dei Verdi (—>-) e le leghe regionali presenti perlopiù in Lombardia e Ve­ neto, accentuarono, nel corso della seconda metà degli anni Ottanta, il malcontento dell’opinione pubblica e la sfiducia dei cittadini nei con­ fronti della classe politica. Per troppo tempo, infatti, la domanda di ri­ forme era stata disattesa e tutti i partiti sembravano impegnati soprat­ tutto nella difesa dei rapporti di potere tradizionali. Fu in questo contesto, quindi, che alcuni leader politici tentarono di indirizzare l’opinione pubblica sul problema del sistema elettorale, attri­ buendo al meccanismo proporzionale la causa prima dell’ingovernabili­ tà del Paese. Promosso da Mario Segni (—*•), si costituì quindi un movi­ Il movimento mento che volle sottoporre a referendum alcune norme della legge elet­ referendario torale politica volte a limitare, in sede di elezioni, il numero delle preferenze, dal momento che proprio il sistema delle preferenze aveva generato una rete clientelare alimentata dal «voto di scambio» (—►). Nonostante l’invito di alcuni politici, tra cui Craxi, a disertare le urne, fu altissimo il numero degli italiani che il 9 giugno 1991 si recò a votare per approvare il correttivo proposto. Alle prime elezioni svoltesi dopo la Il correttivo alla legge modifica che riduceva il numero delle preferenze, nell’aprile 1992, si re­ elettorale gistrarono alcune importanti novità. A fronte infatti della sconfitta del­ la DC e del PDS, il partito che era sorto dalla dissoluzione del vecchio PCI (cap. 15.7), ottenne un clamoroso e inaspettato successo, quasi esclusivamente nelle regioni settentrionali,la Lega Nord, una formazio­ Le elezioni del 1992 ne politica di stampo autonomista e federalista guidata da Umberto e il successo Bossi (—>). Un buon risultato lo ottennero anche i Verdi e la Rete, un della Lega Nord nuovo raggruppamento politico fondato dall’ex sindaco democristiano di Palermo Leoluca Orlando (—►) e attestato polemicamente contro il tradizionale sistema dei partiti. La perdita di credibilità della classe politica e la spaccatura tra il «Paese reale» e l’opinione pubblica culminarono nella primavera del 1992, quando una serie di inchieste avviate dalla magistratura milanese Le inchieste rivelarono la presenza di un capillare e radicato sistema di finanzia­ della magistratura menti illeciti ai partiti. Lo scandalo di «tangentopoli» (—►), che dimo­ milanese strò, a livello nazionale, il coinvolgimento nella pratica delle tangenti di sul finanziamento numerosi uomini politici e imprenditori, colpì in prima persona perso­ illecito ai partiti

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Lo scandalo di «tangentopoli»

Gli attacchi della mafia allo Stato

La proposta di legge elettorale Mattarella

La rivoluzione nell'assetto generale dei partiti

Storia contemporanea

naggi di spicco della vita politica italiana, dal democristiano Forlani al socialista Craxi, dal liberale Renato Altissimo (—»-) al repubblicano Giorgio La Malfa (—►). Non fu direttamente coinvolta, invece, la lea­ dership dell’ormai disciolto Partito comunista, la cui esclusione dalla sfera governativa aveva impedito che entrasse direttamene nel giro del­ le tangenti. La vicenda di «tangentopoli» portò alla ribalta pubblica an­ che alcuni settori della magistratura che assunsero, più o meno consa­ pevolmente, un ruolo politico. Tra i numerosi magistrati impegnati nel­ le inchieste sulla corruzione nei partiti si distinse Antonio Di Pietro (->-). A questa situazione di estrema difficoltà, dove lo scandalo delle tangenti aveva finito per mettere a soqquadro l’intera classe politica, si andarono ad aggiungere, nella primavera-estate del 1992, due nuovi at­ tacchi della mafia. Il 23 maggio un attentato dinamitardo lungo l’auto­ strada tra l’aeroporto di Palermo e la città uccise il magistrato Giovan­ ni Falcone (->-), la moglie e i tre agenti della scorta. Il successivo 19 lu­ glio un altro attentato, sempre a Palermo, colpì il giudice Paolo Borsellino (—»•), anch’egli come Falcone impegnato nella lotta alla ma­ fia, e i cinque uomini della sua scorta. Fu sull’onda di questa profonda crisi, dove alla perdita di credibilità dei partiti tradizionali si sommava l’offensiva della criminalità organiz­ zata, che prese nuovamente piede il movimento referendario per le ri­ forme, proponendo un referendum per modificare la legge elettorale per il Senato e un altro volto ad abolire il finanziamento pubblico ai partiti. Questa volta l’obiettivo era di porre nell’agenda politica il cambio del si­ stema elettorale. Entrambi i referendum furono approvati a larghissima maggioranza nell’aprile 1993 e tale risultato sembrò sancire la sconfitta definitiva del vecchio sistema partitico. Nell’agosto successivo il Parla­ mento approvò quindi la proposta di riforma elettorale presentata dal democristiano Sergio Mattarella (->-). Essa prevedeva un sistema misto con elezione diretta al primo turno mediante il sistema maggioritario del 75% dei deputati e dei senatori, mentre, per non azzerare la presenza dei partiti minori, il 25% dei seggi di entrambe le Camere sarebbe stato assegnato col sistema proporzionale. Il cambio della legge elettorale coincise con una vera e propria rivo­ luzione nell’assetto generale dei partiti. Mentre il PCI aveva già abban­ donato nel 1991 la vecchia denominazione, la DC si sciolse nel corso del 1994 e dalle sue file nacquero due distinti partiti: il Partito popolare ita­ liano, che si richiamava nel nome al vecchio partito fondato da Sturzo e raccoglieva gli esponenti della sinistra DC, e il Centro cristiano demo­ cratico (CCD), di tendenze più moderate. L’anno seguente uscì dal Par­ tito popolare un altro gruppo di democristiani moderati che formarono il partito dei Cristiani democratici uniti (CDU). Anche i partiti laici di centro non ressero all’impatto delle trasformazioni in corso e degli effet­ ti dello scandalo di «tangentopoli» e si dispersero in diversi raggruppa­ menti dai confini politici incerti. Ultimo a riformarsi fu il Movimento sociale italiano, che nel Congresso di Fiuggi del gennaio 1995, per im­ pulso del suo leader Gianfranco Fini (-»-), si trasformò nel nuovo parti­ to di Alleanza nazionale, riconoscendo come definitivamente chiusa l’esperienza del fascismo.

Unilateralismo e crisi

Lo scioglimento anticipato delle Camere e la convocazione delle elezioni per il marzo 1994, le prime in cui l’introduzione del nuovo si­ stema elettorale avrebbe reso decisive le candidature personali, pro­ dussero la discesa nell’arena politica dell’imprenditore milanese Silvio Berlusconi (^ -). Proprietario delle tre principali reti televisive private italiane, Berlusconi aveva consolidato il suo patrimonio anche nel campo delle assicurazioni, dell’editoria, dell’edilizia e del calcio. Defi­ nendosi un imprenditore prestato alla politica, intendeva con la sua «discesa in campo» rafforzare lo schieramento politico moderato per fare argine contro la possibile affermazione delle sinistre. Berlusconi si presentò quindi alle elezioni del 1994 con un partito nuovo, Forza Italia, alleandosi nelle regioni del nord con la Lega di Umberto Bossi a formare il Polo delle libertà e, nel centro-sud, con Alleanza nazionale, costituendo il Polo del buon governo. Si aggregarono a Berlusconi an­ che il CCD e i radicali di Marco Pannella, sempre impegnati nella loro battaglia per il riconoscimento dei diritti civili. Sul versante di sinistra, il PDS coagulò intorno a sé tutti i diversi gruppi della sinistra, dai so­ cialisti a Rifondazione comunista, dando origine al cartello dei Pro­ gressisti. Al centro si raggrupparono attorno al Partito popolare le di­ verse formazioni centriste. Nella competizione elettorale fu netta la vittoria dello schieramento di centro-destra e nel maggio 1994 Berlu­ sconi varò il suo primo governo con gli alleati della Lega, di Alleanza nazionale e del CCD. Già a dicembre, tuttavia, fu costretto a dimetter­ si a causa delle divergenze interne alla coalizione e all’uscita da essa della Lega Nord. Dopo una nuova chiusura anticipata della legislatura, nell’aprile 1996 si tornò alle urne. Questa volta nell’alleanza di centro-destra, sempre guidata da Berlusconi, entrò anche il CDU, assieme a CCD, Alleanza nazionale e radicali, mentre la Lega si presentò da sola nei collegi del nord. Lo schieramento di centro-sinistra, che prese il nome di Ulivo e scelse come proprio leader l’economista Romano Prodi (—>■), un esponente dell’ala sinistra della DC già presidente dell’IRI, riunì invece PDS, PPI, Verdi e altri gruppi minori. Rifondazione co­ munista promise il suo appoggio all’Ulivo in cambio del sostegno ai propri candidati in alcuni collegi uninominali. Le elezioni misero in evidenza un sostanziale equilibrio tra le due coalizioni e solo di misu­ ra le urne premiarono l’Ulivo. Anche in questo caso, tuttavia, il go­ verno presieduto da Prodi ebbe vita breve perché nell’ottobre 1998, dopo una serie di contrasti sulla politica economica, Rifondazione co­ munista negò la fiducia all’esecutivo e Prodi dovette dimettersi. Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro (->-), come già ave­ va fatto nel 1994 alla caduta del governo Berlusconi, decise di non procedere a un nuovo scioglimento delle Camere e di affidare il man­ dato di formare il governo a un altro esponente della coalizione di maggioranza. Si costituì quindi un esecutivo presieduto da Massimo D ’Alema (—>■), leader dei Democratici di sinistra, la nuova denomina­ zione assunta dal PDS.

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L'impegno in politica di Berlusconi

Le elezioni del 1994

La netta vittoria dello schieramento di centro-destra

Le nuove elezioni nel 1996

La vittoria di misura del centro-sinistra guidato da Prodi

374

Storia contemporanea

16.2 La divisione della Jugoslavia: il problema dei micro-nazionalismi La morte di Tito

Crescenti spinte nazionalistiche nelle varie repubbliche

Il progetto «grande serbo» di Milosevic'

Le libere elezioni in Slovenia e Croazia e la proclamazione dell'indipendenza

Il breve conflitto tra Slovenia ed esercito federale

Dopo la morte di Tito nel maggio 1980, le difficoltà economiche della Jugoslavia fecero esplodere le divisioni interetniche del Paese e il sistema della presidenza della Federazione a rotazione non fu più sufficiente a contenere le crescenti spinte nazionaliste all’interno delle varie repubbli­ che. Il primo a lanciare un progetto politico «grande serbo», in occasione delle celebrazioni dell’anniversario dell’epica battaglia della resistenza serba contro i turchi del 1389, fu Slobodan Milosevic (->-), un funziona­ rio del Partito comunista messosi in luce per il suo accentuato nazionali­ smo e arrivato alla presidenza della Repubblica serba alla fine del 1989. Con la caduta del Muro di Berlino, Milosevicpensò di rilanciare il comu­ niSmo in chiave populista ed etno-nazionalista, secondo un disegno che avrebbe dovuto consentire alla Serbia di allargare i suoi confini nella lo­ gica che «dove c’è un serbo, là è la Serbia». Anche il risveglio delle Chie­ se ortodosse, storicamente legate a una forte accentuazione delle identità nazionali, finì per favorire la ripresa degli orgogli etnici. Nonostante le ambizioni di Milosevic, fu tuttavia la Slovenia la pri­ ma delle repubbliche jugoslave a porre seriamente il problema della se­ cessione. Posta a nord della Federazione, al confine con Italia, Austria ed Ungheria, la repubblica slovena aveva da tempo avviato una politica di contatti sempre più stretti con le democrazie dell’Europa occidentale. Nel settembre 1989, timorosa delle mire espansionistiche serbe, chiese garanzie costituzionali volte ad assicurarle la possibilità di uscire dalla Federazione se fossero stati messi in pericolo i suoi diritti. Nel gennaio dell’anno seguente la delegazione slovena abbandonò i lavori del Con­ gresso del Partito comunista federale, la Lega dei comunisti, in aperta polemica col centralismo serbo. L’appoggio dato alla Slovenia dalla Croa­ zia portò alla decisione di sciogliere la struttura federale del partito. In aperta contrapposizione con la Serbia, Slovenia e Croazia tennero nella primavera del 1990 libere elezioni, a cui parteciparono diversi partiti. Nella prima si affermarono forze democratiche, mentre in Croazia pre­ valsero gruppi nazionalisti. Nel dicembre dello stesso anno, la Slovenia indisse un referendum in cui oltre l’88% dei cittadini si espresse a favore dell’indipendenza. Anche la Croazia si proclamò indipendente, ma la presenza di una nutrita comunità serba nella regione orientale della Krajina fece precipitare la situazione. Immediatamente dopo la proclamazione dell’indipendenza da parte di Slovenia e Croazia, nel giugno 1991, l’esercito federale iniziò a scon­ trarsi con gli uomini delle neocostituite «difese territoriali» slovene, mentre la popolazione dava l’assalto alle caserme. Già all’inizio di lu­ glio, tuttavia, il contrasto fra la Slovenia e l’autorità federale venne ri­ composto e l’esercito jugoslavo abbandonò le proprie posizioni. L’8 lu­ glio il governo jugoslavo e quello sloveno firmarono, con la supervisione della Comunità europea, un accordo che sanciva l’indipendenza della Slovenia. Il conflitto, definito per la sua brevità la «guerra del week­ end», ebbe in effetti un carattere quasi esclusivamente dimostrativo per l’assenza di minoranze serbe nei territori sloveni.

Unilateralismo e crisi

375

AUSTRIA UNGHERIA Maribor Udine

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I G R U P P I E T N IC I D E L L A JU G O S L A V IA

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Ben diversa era invece la situazione della Croazia. La vittoria eletto­ rale dell’Unione democratica croata guidata da Franjo Tudjman (—►), che nonostante i trascorsi resistenziali si richiamava al ferreo nazionali­ smo degli ustascia, aveva messo subito in allarme la minoranza serba. Fu così che, ancor prima della proclamazione della secessione croata, all’interno del Paese cominciarono a scontrarsi le forze del governo cro­ ato e la minoranza serba. Quest’ultima, protetta dall’esercito federale agli ordini della Serbia, dimostrò subito una maggiore capacità offensiva rispetto ai croati e, al tempo stesso, apparve chiara fin da subito la vera intenzione di Milosevic, il quale si affrettò a dire che l’esercito federale stava difendendo l’unità del Paese dinanzi al secessionismo croato. In realtà, il suo disegno era quello di costituire una «grande Serbia» che comprendesse anche tutti i territori croati a maggioranza serba. Ebbe così inizio un conflitto che vide l’annientamento fisico e psicologico del-

Scontri tra il governo croato e la minoranza serba

L'esercito federale agli ordini della Serbia

376

L'annientamento della popolazione croata

La Bosnia multietnica

La secessione dei serbi di Bosnia

Nascita della Repubblica serba della Bosnia-Erzegovina

La pulizia etnica condotta dai serbi

Lo scontro tra croati e musulmani

L'intervento non armato deH'ONU

Storia contemporanea

la popolazione croata nei territori a maggioranza serba. Nell’autunno 1991 i serbi controllavano già un terzo della Croazia e solo a quel punto Milosevic accettò il piano di cessate il fuoco promosso dalle Nazioni Unite. Nel gennaio 1992 la CEE, per insistenza della Germania, rico­ nobbe ufficialmente l’indipendenza di Slovenia e Croazia. Questo rico­ noscimento tardivo, tuttavia, apriva un nuovo problema all’interno di quello che rimaneva della Federazione jugoslava, ossia cosa avrebbe fat­ to la Bosnia-Erzegovina. La Bosnia era la più frammentata delle repubbliche jugoslave dal punto di vista della popolazione, a maggioranza musulmana ma con i vari gruppi etnici sparsi sul territorio a macchia di leopardo. Una realtà che aveva sempre reso oltremodo difficile la creazione di comunità au­ tonome e distinte. Già nell’autunno del 1991 erano emerse le prime ten­ sioni. I serbi di Bosnia guidati da Radovan Karadzic (-»-), forti di quan­ to stava avvenendo in Croazia, proclamarono la costituzione di un Par­ lamento e di un governo serbi, affermando in questo modo la volontà di secessione delle regioni serbe dalla Bosnia. A difendere la secessione serbo-bosniaca Milosevic inviò reparti dell’esercito jugoslavo; era il pri­ mo passo per l’apertura delle ostilità. Per rispondere alla volontà seces­ sionista dei serbo-bosniaci, il presidente della Bosnia Alija Izetbegovic (—*■) promosse nel marzo 1992 un referendum sull’indipendenza della repubblica che, disertato dalla minoranza serba, vide invece la parteci­ pazione di tutti gli altri gruppi etnici. Il 65% dell’elettorato si pronunciò a favore dell’indipendenza e l’immediata reazione dei serbi fu di procla­ mare la nascita della Repubblica serba della Bosnia-Erzegovina. Fu la scintilla che avviò il conflitto: i bosniaci, nella pluralità delle lo­ ro etnie, combattevano per garantire l’indipendenza della Bosnia e la sopravvivenza del loro Paese, mentre la minoranza serba si batteva per la propria autonomia, che era funzionale a far rientrare i serbo-bosniaci nella «grande Serbia» voluta da Milosevic. Nel giro di poche settimane i serbo-bosniaci riuscirono a occupare quasi il 60% del territorio della Bosnia. Condotta da Milosevic con estrema ferocia, la guerra assunse i caratteri di una vera e propria pulizia etnica che preservava nei territori occupati dall’esercito serbo solo la popolazione serba. Ben presto, inol­ tre, si ruppe la tregua tra croati e musulmani e si assistette anche allo scontro tra queste due comunità, particolarmente cruento nel caso di Mostar. Il tragico bilancio della guerra bosniaca fu di circa 250.000 vit­ time, in grande maggioranza civili, e di 2,8 milioni rifugiati e profughi. La comunità internazionale, tuttavia, non prese le misure necessarie per fermare un massacro simile a un autentico genocidio. Nel settembre 1992 il Consiglio di sicurezza dell’ONU estese alla Bosnia il mandato della forza di protezione delle Nazioni Unite, l’UNPROFOR (->-) dispiegata dal febbraio in Croazia. La forza aveva un mandato di mera interposizione e assistenza alla distribuzione degli aiu­ ti umanitari, senza prevedere l’utilizzo di armi. La debolezza del contin­ gente multinazionale e il principio dell’imparzialità che lo guidava la­ sciarono quindi, indirettamente, mano libera ai serbo-bosniaci, che at­ taccarono aree prima dichiarate «protette» dall’ONU e presero in ostaggio soldati dell’UNPROFOR. Sulla scia di questi tragici eventi la

Unilateralismo e crisi

comunità internazionale si mosse più attivamente. Apparve a quel pun­ to chiaro, infatti, che per chiudere il conflitto, era necessario separare la Serbia dai serbo-bosniaci e in questa direzione si mossero sia gli Stati Uniti sia l’Unione europea, che chiesero un intervento concreto di Milosevic per convincere i serbi di Bosjnia ad accettare un accordo di pace, dietro la minaccia di un impiego militare attivo delle forze ONU nel conflitto. Inizialmente Milosevic accettò l’accordo, ma quando si propose un piano di pace che prevedeva l’attribuzione ai serbi di un’area inferiore a quella già controllata dall’esercito serbo, il leader serbo-bo­ sniaco Karadzic sfidò Europa, Stati Uniti e lo stesso Milosevic, che gli ritirò il suo appoggio. Rimasti soli, i serbi di Bosnia attaccarono i territori non ancora sotto il loro controllo e su cui ritenevano di avanzare diritti. Nel luglio 1995 i serbo-bosniaci misero in atto uno dei più sanguinosi stermini di massa avvenuti in Europa dopo la fine della Seconda Guerra mondiale: nella città di Srebrenica, che pure si trovava in quel momento sotto la tutela delle Nazioni Unite, furono uccisi tra gli 8.000 e i 10.000 musulmani. Lo sterminio della popolazione musulmana ebbe termine solo quando, nel corso del 1995, anche la Croazia si inserì nel conflitto. Fu a questo punto che le potenze occidentali decisero di scendere in campo sotto la ban­ diera della NATO per realizzare l’operazione militare più significativa che l’alleanza atlantica avesse mai compiuto. Mentre i serbo-bosniaci furono costretti a retrocedere, Slobodan Milosevic, colui che col dise­ gno della «grande Serbia» era stato di fatto l’artefice di questi conflitti, si offrì come mediatore di pace. Il 5 ottobre 1995 i serbo-bosniaci accet­ tarono le trattative; rincontro si svolse negli Stati Uniti, presso la base militare di Daytona in Ohio. La Bosnia venne divisa tra una Repubblica dei serbi di Bosnia, la Repubblica Srpska, e una federazione musulma­ no-croata, la Repubblica di Bosnia-Erzegovina. Fu poi inviato un con­ tingente militare NATO, il Multinational Military Implementation For­ ce, per vigilare sul rispetto degli accordi. Il Kosovo, provincia serba a maggioranza albanese, era stato inizial­ mente ignorato dal governo di Belgrado, nonostante le reiterate richie­ ste di indipendenza. Di fronte al silenzio serbo, la popolazione kosovara si era dotata di una sorta di «Stato ombra» e nel 1996 i separatisti alba­ nesi delFUC’.K (Ushtria Qlirimtare e Kosovès —►) dichiararono guerra alla Serbia che reagì con una dura repressione. Nell’ottobre 1997 Stati Uniti e Unione europea invitarono le parti al dialogo e, di fronte all’in­ tensificazione degli attacchi dell’UQK, anche il Consiglio di Sicurezza ONU arrivò a prendere posizione. Mentre si profilava l’ipotesi di un in­ tervento militare della NATO, nel febbraio del 1998 si avviarono una se­ rie di colloqui a Rambouillet, in Francia. Belgrado tuttavia, nonostante si fosse quasi giunti ad un accordo di pace, abbandonò le trattative, rite­ nendo che alcune delle condizioni poste, come la libera circolazione del­ le truppe NATO su tutto il territorio serbo, fossero lesive della sua so­ vranità. Riprese quindi l’offensiva militare serba nella regione kosovara, che provocò circa 20.000 profughi. Senza una precisa risoluzione dell’ONU, a causa del veto russo, i Paesi dell’alleanza atlantica fissarono un ultimatum al governo di Bei-

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La sfida di Karadzic

Lo sterminio di massa dei musulmani

La discesa in campo della NATO

Le trattative di pace

La provincia del Kosovo e la guerra alla Serbia

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I bombardamenti della NATO

Le condizioni di pace

Storia contemporanea

grado, alla cui scadenza, nel marzo 1999, fecero seguire pesanti bombar­ damenti sulle città e sui centri industriali serbi, mentre le truppe dell’UQK tornavano all’offensiva. Dopo oltre due mesi di operazioni, segnati anche da una serie di errori che portarono e al bombardamento di colonne di civili in fuga e alla distruzione dell’ambasciata cinese a Belgrado, il Parlamento serbo accettò le nuove condizioni di pace pro­ poste da una delegazione europea, che non prevedevano più la libertà di movimento delle truppe NATO in Serbia. Vennero quindi ritirate le truppe serbe e furono dispiegati 50.000 uomini di una forza multilatera­ le formata dai Paesi NATO e dalla Russia, mentre il Kosovo veniva sot­ toposto ad una amministrazione internazionale. I profughi albanesi po­ terono quindi tornare in patria, mentre iniziò il controesodo della mino­ ranza serba dal Kosovo. ■ 16.3 La fine óe\Y a p a rth e id \n Sudafrica e ii genocidio in Rwanda

Il 1994 fu un anno memorabile e al tempo stesso tragico per il conti­ nente africano. Se da una parte, infatti, il Sudafrica conquistò finalmen­ te la democrazia, mettendo fine al sistema di apartheid, dall’altra il Rwanda sprofondò nelle violenze del genocidio. Intorno alla metà degli anni Settanta il Sudafrica entrò in una profonda Il sistema di apartheid in Sudafrica crisi economica e sociale e il sistema di apartheid, edificato a partire dal 1948 per salvaguardare la supremazia della razza bianca di fronte alla maggioranza nera e meticcia, si rivelò assai difficile da riformare. Sotto la pressione della recessione economica, degli scioperi e delle sommosse ur­ bane, il governo guidato da Pieter W. Botha (—>-) reagì, da una parte, con la repressione e dall’altra avviando una serie di riforme che miravano a ga­ rantire la sopravvivenza del sistema di apartheid. Nel tentativo di impedire che i Paesi confinanti venissero usati come basi per le azioni di guerriglia dei militanti neri fuoriusciti e di ridimensionare le pressioni politiche ester­ ne, durante gli anni Ottanta, il governo sudafricano intraprese un’aggressi­ La politica va politica di destabilizzazione dei Paesi dell’Africa australe. Gli effetti più di destabilizzazione gravi si registrarono in Angola e Mozambico, dove il Sudafrica armò i dei Paesi confinanti guerriglieri locali contro le classi politiche al potere (cap. 13.3). L’opposizione del partito della maggioranza nera, African National Congress (-—►), al regime di apartheid, insieme alla crescente instabilità L'opposizione interna, alla sconfitta subita nel 1988 dall’esercito sudafricano nella bat­ dell ’African National taglia di Cuito Cuanavale in Angola e al graduale disgelo tra USA e Congress URSS posero le premesse per la risoluzione dei conflitti in Africa au­ strale. Con la firma dell’A ccordo tripartito di New York, nel dicembre 1988, tra Angola, Sudafrica e Cuba, il governo sudafricano rinunciava all’occupazione della Namibia e l’esercito cubano avviava il ritiro dall’Angola. Il 2 febbraio 1990 il nuovo presidente sudafricano Frederik La liberazione De Klerk (—>-) annunciò la legalizzazione delYAfrican National Con­ di Mandela gress e delle altre principali organizzazioni politiche dei neri. Questo consentì la liberazione di Nelson Mandela ( ^ - ) , storico leader dell’ANC in carcere dal 1962. Prese così avvio un difficile processo di transizione,

Unilateralismo e crisi

accompagnato da episodi di grave violenza politica che provocarono mi­ gliaia di vittime. La strada del progressivo superamento deìVapartheid era stata comunque imboccata e nell’aprile del 1994 si svolsero le prime elezioni democratiche della storia del Sudafrica, alle quali furono am­ messi anche i neri. UAfrican National Congress ottenne il 62,6% dei vo­ ti e oltre 250 seggi in Parlamento e Nelson Mandela divenne il primo presidente nero del Paese. Nello stesso anno in cui ebbe fine il regime di apartheid in Sudafrica, si consumò in Rwanda uno dei più efferati genocidi del XX secolo. Nel Paese la violenza affondava le sue radici nella politica coloniale dei go­ verni tedesco prima e belga poi. L’amministrazione coloniale introdus­ se, infatti, una rigida separazione tra le due etnie presenti sul territorio, gli hutu e i tutsi, ponendo le premesse dei conflitti razziali che avrebbe­ ro costantemente caratterizzato la storia del Rwanda una volta conse­ guita l’indipendenza nel 1962. Per quanto le origini e le caratteristiche di hutu e tutsi rimangano ancora oggi oggetto di un intenso dibattito fra storici e antropologi, in epoca precoloniale questi termini individuava­ no categorie socio-politiche in stretto rapporto tra loro. Le interazioni tra clan hutu e tutsi erano infatti intense a livello non solo economico, ma anche culturale, religioso e matrimoniale. Applicando ad essi i crite­ ri dell’etnologia europea, gli amministratori coloniali crearono invece delle rigide distinzioni etniche, riservando ai membri dei clan tutsi l’ac­ cesso alle funzioni amministrative e all’istruzione e finendo così per cri­ stallizzare le differenze tra i due gruppi. Quando il Rwanda e il confinante Burundi ottennero l’indipendenza dal Belgio nel 1962, il criterio etnico venne esasperato dalle nuove élite, in lotta per la conquista del potere. Le premesse per una violenta transi­ zione vennero in realtà poste dalle autorità belghe che, dopo aver co­ stantemente favorito il predominio dell’aristocrazia tutsi, all’avvicinarsi dell’indipendenza avviarono un processo di ridefinizione delle relazioni di potere attraverso un sempre maggior coinvolgimento dell 'élite hutu nell’amministrazione del Paese. Fu proprio in un clima di crescenti ten­ sioni interne che, nel 1961, un referendum decise l’abolizione della mo­ narchia e la creazione della repubblica, forma-stato con cui il Rwanda conseguì l’indipendenza. I presidenti Gregoire Kayibanda ( ^ - ) e, dopo il colpo di stato del 1973, Juvénal Habyarimana (—»-) avviarono una po­ litica autoritaria di sopraffazione della maggioranza hutu, di cui si erse­ ro a rappresentanti, sulla minoranza tutsi. I massacri del 1963 e le vio­ lenze perpetrate tra il 1972 e il 1973 spinsero molti tutsi a cercare rifugio in Burundi, dove gravi ondate di violenza da parte dell’élite politica tut­ si sulla maggioranza della popolazione che si riconosceva come hutu si registrarono nel 1969 e nel 1972. La fine della Guerra Fredda, il sostegno occidentale all’avvio di processi di democratizzazione in Africa e la guerriglia nel nord del Pa­ ese spinsero il generale Habyarimana a introdurre, nel 1991, una serie di riforme politiche e il multipartitismo, senza tuttavia riuscire a rista­ bilire la pace in Rwanda. Nel 1993 i guerriglieri del Fronte patriottico rwandese (—>), che aveva la propria base in Uganda tra gli esiliati tutsi, riuscirono a negoziare un accordo di spartizione del potere, grazie an-

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Le prime elezioni democratiche

L'efferato genocidio in Rwanda

La separazione tra le etnie hutu e tutsi

I danni dell'amministrazione coloniale L'indipendenza dal Belgio

Le violenze degli ht/fu

La fuga dei tutsi in Burundi

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Storia contemporanea

che all’intervento dell’ONU che inviò una forza di monitoraggio per ve­ rificare l’attuazione delle clausole dell’accordo. Il 6 aprile 1994, l’aereo del presidente Habyarimana, sul quale viaggiava anche il presidente del Burundi Cyprien Ntaryamira (-»-), venne abbattuto da un missile ter­ ra-aria in circostanze mai chiarite, mentre rientrava dalla Tanzania do­ ve si erano svolti dei colloqui di pace. Alla diffusione della notizia La reazione dell’attentato, l’esercito rwandese, coadiuvato da esponenti politici e dell'esercito rwandese dalle milizie del partito del presidente, avviò un massacro sistematico della popolazione tutsi e degli hutu accusati di sostenere il processo di democratizzazione. Nell’indifferenza della comunità internazionale, nell’arco di circa tre Il massacro sistematico mesi fu portato a termine il massacro sistematico dell’intera comunità dei tutsi tutsi, dove parte integrante del rituale di sterminio era lo stupro delle donne tutsi. Anche se l’esatto numero delle vittime non è mai stato sta­ bilito con certezza, la maggior parte degli studiosi concorda su una sti­ ma che oscilla tra 800.000 e un milione di morti. Nonostante la presenza di un piccolo contingente di Caschi blu, le Nazioni Unite non interven­ nero a fermare lo sterminio e il governo statunitense, reduce dall’insuc­ cesso dell’intervento in Somalia, rifiutò di definire «genocidio» quanto stava accadendo in Rwanda. Dal canto loro i governi di Francia e Bel­ gio, pesantemente coinvolti col precedente regime, si limitarono all’eva­ cuazione dei propri concittadini. Nel novembre 1994 fu istituito un Tri­ bunale penale internazionale per il Rwanda, che tuttavia non è ancora riuscito a terminare il proprio lavoro, anche a causa dell’indisponibilità di numerosi ricercati protetti dall’assenza di trattati di estradizione. La fine del genocidio La fine del genocidio coincise con la presa del potere da parte del e la fuga di un milione Fronte patriottico rwandese nel luglio 1994. Con il timore delle rappre­ di profughi nello Zaire saglie, in pochi giorni un milione di rifugiati si ammassò alle frontiere con lo Zaire (ex Congo). Il governo francese intraprese unilateralmente la cosiddetta Operation Turquoise al fine di aprire un corridoio umani­ tario verso lo Zaire, che in realtà finì per consentire la fuga anche ad al­ cuni responsabili del genocidio. Vennero in questo modo poste le pre­ messe per la propagazione dell’instabilità militare nelle regioni orientali dello Zaire, già attraversate da complessi conflitti politici ed economici. Per contrastare le incursioni delle milizie di hutu, fuoriuscite dal confi­ ne orientale zairese e consolidare la sicurezza interna, il governo del Rwanda sostenne la ribellione armata che Laurent-Désiré Kabila (—»-) avviò nel 1996 contro il regime autoritario e corrotto di Mobutu nello Zaire (dal 1997 Repubblica democratica del Congo). Lo Zaire diventa La vittoria dei ribelli di Kabila e la scomparsa dalla scena politica di Repubblica Mobutu, nel 1997, non significarono tuttavia la pacificazione nella re­ democratica del Congo gione dei Grandi Laghi. Nel 1998 un nuovo conflitto divampò all’inter­ no della Repubblica democratica del Congo, che vide questa volta gli eserciti di Uganda e Rwanda combattere contro l’ex alleato Kabila, so­ stenuto dagli eserciti di Angola, Zimbabwe e Namibia. Gli accordi di pace firmati a partire dal 2002 da Joseph Kabila (—►), succeduto al pa­ dre dopo che questi era morto in un attentato l’anno precedente, avvia­ rono un fragile processo di transizione democratica nella Repubblica democratica del Congo. L'attentato al presidente Habyarimana

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16.4 Nazionalisti e unionisti: il Nord Irlanda a un punto di svolta All’indomani della Seconda Guerra mondiale la Repubblica d’Irlanda, uscendo dal Commonwealth, prese definitivamente le distanze dalla Gran Bretagna (cap. 7.1). Tuttavia, la divisione del Nord Irlanda dal re­ sto dell’isola non mise fine alle tensioni nelle province del Nord, dove la Le tensioni nel Nord minoranza cattolica fu, sin dall’inizio, emarginata economicamente e Irlanda sottoposta a varie forme di discriminazione, non ultima quella istituzio­ nale con un Parlamento che, fin dal 1921, assunse i caratteri di «un par­ lamento protestante per un popolo protestante». Ne conseguì una situa­ zione di acuti contrasti, che si protrassero negli anni successivi la Secon­ da Guerra mondiale e dai quali il movimento terroristico dellTRA trasse ancora maggior forza. Nella seconda metà degli anni Sessanta, lo scontro fra il movimento dei diritti civili e la resistenza de\Vestablishment unionista, unito alle violenze del contro-movimento lealista guidato dal reverendo Ian Paisley (-—>-) non fece che radicalizzare il conflitto semi-dormiente fra le La radicalizzazione due comunità in Nord Irlanda. Dal 1969 in poi lo scenario nordirlande­ del conflitto se fu dominato da violenze su larga scala e dal settarismo, con poco spazio per i temi dei diritti civili e della giustizia sociale. Nell’agosto del 1969, a fronte di aspre e talvolta letali scontri, Londra decise d’in­ L'invio delle truppe viare nella strade della regione truppe speciali per sedare i disordini. britanniche Accusando la leadership dellTRA di non aver saputo difendere i quar­ tieri cattolici delle principali città del Nord Irlanda durante gli scontri, tra il 1969 e il 1970 alcuni elementi dellTRA fondarono la Provisionai IRA, che negli anni successivi si dedicò all’addestramento di nuove re­ clute e diede inizio a una vera e propria guerriglia contro le truppe bri­ La guerriglia tanniche, attaccate sia nelle aree urbane sia nelle zone rurali. Un nu­ della Provisionai IRA mero elevato di giovani nazionalisti provenienti dai quartieri operai decise in quegli anni di abbracciare l’uso della lotta armata sostenuta dalla Provisionai IRA. Il 30 gennaio 1972 una dimostrazione non autorizzata per i diritti ci­ vili a Londonderry provocò la morte di 13 cattolici negli scontri con l’esercito britannico e l’episodio, passato alla storia come bloody sunday La bloodysunday (—>), produsse un'escalation di violenze da entrambe le parti. Il gover­ e l’escalation no inglese, nel tentativo di arrivare a una mediazione tra i moderati dei delle violenze due fronti, sospese temporaneamente l’autogoverno del Nord Irlanda, ma anche questo provvedimento fallì perché nel 1974 l’ala estremista dei protestanti unionisti prese decisamente il sopravvento. La risposta degli estremisti cattolici fu il crescente ricorso al terrorismo, che arrivò a col­ pire nuovamente anche il suolo inglese, mentre il governo di Londra re­ agì intensificando le azioni repressive. Nel corso degli anni Ottanta la capacità militare dellTRA aumentò notevolmente e, a fronte della situazione di stallo che si venne a creare tra i gruppi armati dell’estremismo cattolico e le truppe inglesi, falliro­ no anche i vari tentativi di mediazione promossi dal governo britannico e da quello della Repubblica d’Irlanda. Solo nel 1998, grazie al Good Friday Agreement (—*■) siglato il 10 aprile, si fece un importante passo

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Storia contemporanea

sulla strada della pacificazione, concedendo un’ampia autonomia al go­ verno del Nord Irlanda ma riconoscendo altresì come legittimo il desi­ Il GoodFriday derio dei nazionalisti di un’Irlanda unita. Il Good Friday Agreement fu Agreement ratificato da un referendum popolare che ottenne il 71% dei consensi in Nord Irlanda, mentre nella Repubblica d’Irlanda la quasi totalità dei votanti (95%) si espresse a favore dell’accordo. L’accordo prevedeva in­ Governo misto fatti la costituzione di un governo misto tra protestanti e cattolici in tra protestanti proporzione ai risultati elettorali e la liberazione entro tre anni di tutti e cattolici i detenuti appartenenti alle organizzazioni che avevano sottoscritto l’intesa. Il rifiuto dell’IR A di deporre le armi e un nuovo attentato dell’agosto 1998, rivendicato dalle sue frange estreme, rallentarono tut­ tavia il processo di pace e solo nel maggio 2000 TIRA accettò di conse­ gnare le armi. A partire dall’anno successivo fu permesso a una com­ missione internazionale di ispezionare periodicamente i suoi depositi di armi e nel 2005 i membri della Provisionai IRA annunciarono di vo­ La fine della lotta ler mettere fine alla lotta armata, pur affermando di non voler scioglie­ armata re l’organizzazione, il cui obiettivo finale rimane tuttora la riunificazio­ ne delle sei contee del Nord Irlanda con la Repubblica d’Irlanda. Le elezioni del 2007 Una svolta nella complessa questione irlandese si ebbe con le ele­ zioni del marzo 2007. La maggioranza relativa fu infatti conquistata dal Democratic Unionist Party del leader protestante Ian Paisley, il Sinn Féin si affermò come secondo partito, mentre YUlster Unionist Party ottenne solo il 14% di voti. Dopo numerosi incontri e discussio­ ni, l’8 maggio si insediò il nuovo Parlamento e si costituì un governo che, per la prima volta, vedeva la coabitazione dei due gruppi di mag­ gioranza: la guida dell’esecutivo fu infatti assunta da Paisley, mentre M artin McGuinness (—►), leader storico dei repubblicani cattolici, di­ venne vice primo ministro. Il 9 maggio il nuovo governo giurò alla pre­ senza dei capi di governo di Gran Bretagna e Repubblica d’Irlanda, rappresentando un primo passo tangibile verso la risoluzione del pro­ blema irlandese. 16.5 II «pantano» mediorientale La svolta del 1979

In seguito agli eventi del 1979, le dinamiche della Guerra Fredda in Medio Oriente subirono un repentino cambiamento (cap. 15.3). Con la rivoluzione islamica in Iran, infatti, gli Stati Uniti perdevano un prezio­ so alleato nella regione, ma ottenevano negli stessi anni la pacificazione tra Israele ed Egitto. L’Unione Sovietica non trovò più nell’Iraq di Sad­ dam Hussein l’intesa degli anni passati, mentre la Siria rimase in condi­ zioni di crescente isolamento, aggravata dalla sua alleanza strategica con l’Iran rivoluzionario. L’invasione sovietica dell’Afghanistan, del re­ sto, aveva assunto per il mondo musulmano due significati principali: quello di jihad contro gli invasori e di fitna (—►), uno scontro politico­ teologico all’interno dell’islam tra le sue diverse componenti, il radicali­ smo sunnita e quello sciita. Come la guerra fra Iran ed Iraq non aveva seguito le logiche dello scontro bipolare, fu completamente estraneo ad esso anche il conflitto

Unilateralismo e crisi

che insanguinò il Libano per tutti gli anni Ottanta. Già nel 1975 era esplosa una guerra civile fra le differenti comunità della composita so­ cietà libanese, di cui facevano parte sciiti, sunniti, palestinesi, drusi (—►), cristiani maroniti (->-), e quasi subito intervennero militarmente sia la Siria, che mirava a espandere il suo controllo sul «Paese dei cedri», sia Israele, mosso dalla volontà di contrastare il nemico siriano e di ga­ rantire la sicurezza dei sui confini settentrionali. La continua serie di at­ tentati e incursioni ad opera dei palestinesi dell’OLP spinse Israele, nel 1982, a compiere una seconda sanguinosa invasione, arrivando fino a cingere d’assedio la capitale Beirut e costringendo i militanti dell’OLP a fuggire in Tunisia. La durezza dell’occupazione siriana e israeliana, sommata alla radicalizzazione dello scontro interreligioso interno al Li­ bano, aveva indotto anche l’ONU a intervenire disponendo la missione di una forza multinazionale di pace, che tuttavia si dimostrò inefficace. La forza multinazionale venne ritirata nel 1984 e, mentre la società liba­ nese era ormai sull’orlo del collasso, la minoranza sciita del sud del Pae­ se, sull’esempio iraniano, fondò una nuova organizzazione combattente, VHezbollah (-—>-), ovvero il Partito di Dio. Mentre in Libano i palestinesi rimanevano confinati nei campi pro­ fughi, nei territori di Cisgiordania e Gaza il rovescio subito dall’OLP in Libano contribuì allo scoppio, nel 1987, di una vasta rivolta popolare, Vintifada (—►), per iniziativa dei giovani palestinesi i quali, muniti solo di sassi e pietre, si scagliavano contro l’esercito israeliano che occupava quelle regioni dal 1967. La dura repressione di Israele, condannata dal mondo intero, e la tenacia dei palestinesi indussero la Giordania a riti­ rarsi dalla Cisgiordania, concedendo così un ampio spazio politico all’OLP che nel novembre 1988 dichiarò di accettare le risoluzioni 242 e 338 delle Nazioni Unite, il che equivaleva al riconoscimento indiretto dello Stato di Israele. Nell’estate del 1990 un altro avvenimento, causato sia dalla crisi dell’economia irachena a causa del forte indebitamento contratto verso i Paesi arabi, sia dalle tensioni scatenate dalla sovrapproduzione di pe­ trolio da parte dei Paesi del Golfo Persico, sconvolse l’instabile equili­ brio mediorientale. In questo contesto, infatti, il dittatore Saddam Hus­ sein assunse un atteggiamento via via più minaccioso, soprattutto nei confronti di Arabia Saudita e Kuwait, arrivando, nell’agosto 1990, a de­ cidere di invadere il piccolo emirato confinante. Saddam, che sperava di forzare con un rapido colpo di mano una conclusione favorevole del­ le trattative sul pagamento dei debiti, si trovò invece di fronte la dura condanna dell’ONU e della comunità internazionale. Dopo aver decre­ tato l’embargo commerciale nei confronti dell’Iraq, si costituì nel giro di pochissimi mesi la più grande coalizione militare mai formatasi dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, composta da 35 Paesi e circa 800.000 uomini sotto l’egida dell’ONU. Di fronte ai reiterati rifiuti di Saddam di ritirarsi dal Kuwait, il 17 gennaio 1991 la forza multinazio­ nale scatenò un massiccio attacco aereo contro obiettivi militari in Iraq e nel Kuwait occupato, mentre alla fine di febbraio iniziò l’invasione di terra che nel giro di poche settimane costrinse l’esercito iracheno a riti­ rarsi dall’emirato.

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La guerra del Libano

Gli interventi della Siria e di Israele nella guerra ovile libanese

Il ritiro della forza di pace ONU

La rivolta popolare palestinese in Cisgiordania e Gaza

L'invasione irachena del Kuwait

La coalizione militare internazionale

384

Storia contemporanea

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A ttacchi delle forze di terra alleate

La liberazione del Kuwait

I colloqui di pace tra Israele e OLP e i negoziati di Washington

Dopo la liberazione del Kuwait, mentre si stava consumando la crisi definitiva delFUnione Sovietica (cap. 15.4), il presidente americano Bush senior cercò di approfittare della situazione favorevole per rilan­ ciare un piano di pace per tutto il Medio Oriente. Nell’ottobre 1991 si tenne quindi a Madrid una conferenza che vide per la prima volta la presenza dei rappresentanti del governo israeliano insieme a quelli dei Paesi arabi confinanti e alle delegazioni palestinesi dei territori occu­ pati. Grazie anche alla vittoria del Partito laburista in Israele nel giu­ gno 1992, che portò alla guida del governo Yitzhak Rabin, i colloqui di pace poterono proseguire e culminarono l’anno successivo quando Ra­ bin e il suo ministro degli Esteri Simon Peres (—>) decisero di trattare direttamente con l’OLP. I negoziati, dapprima segreti e fondati sul reci­ proco riconoscimento, furono firmati solennemente a Washington il 13 settembre 1993 da Rabin e dal leader dell’OLP Arafat alla presenza del presidente americano William Jefferson (Bill) Clinton (—>). In cambio del riconoscimento di Israele, l’OLP ottenne il diritto di autogoverno in una parte dei territori occupati, a partire dalla città di Gerico in Ci-

Unilateralismo e crisi

sgiordania e nella striscia di Gaza. Tuttavia, i temi più spinosi della questione israelo-palestinese, come la permanenza degli insediamenti ebraici nei territori occupati, il ritorno dei rifugiati palestinesi, il con­ tenzioso idrico e lo status della parte araba di Gerusalemme furono ri­ mandati a successivi colloqui. Nonostante le speranze suscitate dagli accordi del 1993, la presenza di numerose questioni ancora aperte ebbe l’effetto di accentuare le resi­ stenze da parte della destra nazionalista di Israele e dei gruppi più in­ transigenti delFOLP. Fu in questo contesto che, sul fronte palestinese, cominciò a intensificarsi l'attività terroristica delle fazioni integraliste, la più importante delle quali era Hamas (->-), fondata nel 1987 e contra­ ria non solo al riconoscimento di Israele ma anche a qualsiasi prospetti­ va negoziale. In questo crescendo di violenze e fanatismo, maturò l’at­ tentato che, per mano di un estremista israeliano, il 4 novembre 1995 uc­ cise il premier Rabin. Nella seconda metà degli anni Novanta, anche a seguito della scon­ fitta laburista alle elezioni israeliane del 1996, le trattative di pace su­ birono una battuta d’arresto. Il nuovo governo guidato dal leader con­ servatore Benjamin Netanyahu (—*-) costruì infatti la propria maggio­ ranza sui gruppi che si erano opposti ai negoziati di Rabin con l’OLR Al rallentamento del processo di pace sul fronte israeliano corrispose poi una radicalizzazione delle rivendicazioni e dei metodi di lotta da parte dei palestinesi che, oltre a portare avanti la loro guerra fatta di attentati, incursioni e azioni di disturbo nei territori israeliani, conti­ nuarono la loro azione politica dal basso volta a rafforzarne il radica­ mento nella società attraverso la costruzione di ospedali, scuole, ban­ che, associazioni e servizi. Un processo analogo di radicalizzazione religiosa si verificò negli stessi anni in diversi altri Paesi islamici. Infatti, con la fine del boom pe­ trolifero degli anni Settanta e Ottanta e col progressivo venir meno dei generosi fondi concessi dalle superpotenze nel quadro della Guerra Fredda, molti Paesi arabi cominciarono a incontrare difficoltà economi­ che crescenti e si trovarono ben presto nell’impossibilità di garantire, come era avvenuto in passato, una discreta qualità di vita ai propri citta­ dini in cambio dell’assenza di libertà politiche. Si videro così costretti a chiedere l’aiuto delle agenzie di credito internazionali (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale) che per erogare prestiti e aiuti esigeva­ no, però, la progressiva privatizzazione dell’economia, una drastica ri­ duzione della spesa pubblica e soprattutto l’avvio di processi di demo­ cratizzazione, sollecitati anche dall’unica superpotenza rimasta sullo scenario internazionale, gli Stati Uniti. I programmi di aggiustamento strutturale causarono rivolte e proteste soprattutto nelle repubbliche, mentre nei Rentier States, ovvero gli Stati che vivevano di rendita petro­ lifera, in gran parte monarchie o emirati, la situazione sociale rimase so­ stanzialmente calma, ad eccezione dell’Algeria. Un caso a parte, tra i Rentier States, era rappresentato dalla Libia che, dopo il colpo di Stato militare del 1969 di Muammar Gheddafi (-V ), era stata ribattezzata Jamahiriya (regime delle masse) socialista araba libica. Il colonnello aveva abolito tutte le istituzioni statuali poi-

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Le questioni ancora aperte

L'attività terroristica delle fazioni integraliste palestinesi L'assassinio di Rabin

Battuta d'arresto del processo di pace

Le difficoltà economiche e la radicalizzazione religiosa dei Paesi islamici

Il caso della Libia

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Il regime del colonnello Gheddafi

La dittatura

Le enormi entrate petrolifere Il finanziamento del terrorismo internazionale

La nascita di movimenti islamici

La guerra civile algerina: la vittoria del FIS e il colpo di stato militare

Profonda distorsione della democrazia

Storia contemporanea

ché era convinto che il sistema di rappresentanza tipico delle democra­ zie occidentali non fosse altro che «una frode». Lo Stato doveva essere «posseduto dal popolo libico» che vi avrebbe espresso la propria idea di cosa pubblica senza alcun intermediario. In altre parole il popolo si sarebbe governato direttamente attraverso un sistema di Congressi po­ polari e Comitati rivoluzionari. In breve, però, la Jamahiriya si trasfor­ mò in un regime dittatoriale e soprattutto non radicò tra i libici un vero senso dello Stato. Vennero moltiplicate le forze paramilitari e i servizi di sicurezza controllati dal colonnello che ne coordinava i collegamenti con i Comitati rivoluzionari e le confederazioni tribali sue alleate. Questo gli garantì una certa stabilità interna che gli permise di coltiva­ re l’ambizione di divenire un leader di spicco nel panorama arabo e africano. Le enormi entrate petrolifere gli consentirono anche di lan­ ciarsi in una politica estera avventurosa: dal 1975 al 1987 la guerra di conquista (fallita) della Striscia di Azou in Ciad e il finanziamento del terrorismo internazionale e di quello palestinese, in particolare in fun­ zione anti-israeliana e anti-statunitense. Per l’amministrazione ameri­ cana il colonnello Gheddafi era responsabile di attentati in almeno 52 Paesi e nel 1986 Reagan ordinò il bombardamento di Tripoli, senza pe­ rò che si interrompesse la catena degli atti terroristici. A partire dal 1992 e fino al 1999, la comunità internazionale punì la Jamahiriya con pesanti sanzioni petrolifere. Negli anni Novanta, accanto alle cosiddette «rivolte del pane», nella maggioranza dei Paesi arabi si registrò la nascita di movimenti islamici, terroristi e non, che capitalizzarono lo scontento della popolazione per presentarsi come unica alternativa possibile ai regimi esistenti. Il rien­ tro in patria dei guerriglieri arabi che avevano combattuto il jihad in Afghanistan contro l’Unione Sovietica, raffermarsi nello stesso Afgha­ nistan dei talebani a partire dal 1994 (cap. 15.3), il consolidamento in Turchia del partito islamico, le vittorie elettorali nel 1990 e nel 1991 del Fronte islamico di salvezza (—*■) in Algeria, cui seguirono cinque anni di drammatica guerra civile, furono le espressioni più evidenti dell’am­ pio risveglio religioso che stava attraversando i Paesi a maggioranza islamica e della sempre più stretta connessione tra la sfera religiosa e quella sociale e politica. La guerra civile algerina (1992-1997) suscitò, inoltre, un inquietante interrogativo sul rapporto tra islam e democrazia. La vittoria del Fron­ te islamico di salvezza (FIS) alle elezioni municipali nel 1990 e al primo turno delle legislative nel 1991 aveva spaventato non solo Vestablishment legato al vecchio partito unico, il Fronte di liberazione nazionale, ma soprattutto i militari, che nel 1992 attuarono un colpo di Stato per impedire la vittoria del FIS anche nel secondo turno delle legislative che lo avrebbero portato al governo. Questo rappresentò un duro colpo al processo di democratizzazione in Algeria, che era stato inaugurato nel 1989 con il varo della prima Costituzione multipartitica. Senza arrivare al golpe, anche negli altri Stati in cui era stata avvia­ ta, la democratizzazione venne profondamente distorta. Fu introdotto il multipartitismo, vennero organizzati ovunque turni elettorali sia per il legislativo che per la scelta del presidente a cadenze regolari, ma die­

Unilateralismo e crisi

tro la facciata le vecchie oligarchie riuscirono a mantenere intatto il proprio potere. La contemporanea liberalizzazione economica consen­ tì loro di acquisire il controllo diretto dei settori produttivi più impor­ tanti, con due risultati profondamente negativi: l’aumento esponenziale della corruzione e un preoccupante allargamento della forbice tra ric­ chi e poveri. Tutti fattori che nel 2011 avrebbero portato allo scoppio delle cosiddette primavere arabe. Nel settembre 2000, dopo il fallimento di una nuova tornata di collo­ qui di pace fra Israele e l’Autorità nazionale palestinese (->-), esplose nuovamente la violenza nei territori occupati. Fu la cosiddetta seconda intifada che, assai più cruenta della prima, coinvolse non solo Gaza e la Cisgiordania ma anche le stesse città israeliane. Dopo alcuni mesi di ri­ volta spontanea da parte della popolazione palestinese, l’iniziativa pas­ sò nelle mani dei gruppi terroristici professionisti come Hamas, Jihad Islamico (—>-) e le Brigate dei martiri di al-Aqsa (-*-), che furono re­ sponsabili di numerosi attentati, spesso suicidi, contro i civili israeliani. Il governo di Israele, guidato dal marzo 2001 dal leader della destra Ariel Sharon (—»-), reagì agli attacchi con crescente durezza, radendo al suolo le case dei familiari degli attentatori, minando le strutture dell’ANP e arrivando a contestare l’autorità dello stesso Arafat, che non appariva in grado di bloccare le azioni terroristiche. A peggiorare ulteriormente il clima di violenze scoppiò anche una sorta di guerra non dichiarata fra le organizzazioni palestinesi, una intrafada tra i movimenti islamisti e quelli laici che facevano capo ad al-Fatah. I negoziati tra il governo israeliano e i palestinesi sembrarono ripren­ dere slancio nel 2003, anche se, come vedremo, nel frattempo gli atten­ tati terroristici del 2001 negli Stati Uniti e le campagne militari america­ ne contro l’Afghanistan e l’Iraq di Saddam Hussein avevano ulterior­ mente complicato la situazione mediorientale. Nella primavera del 2003, comunque, l’avvio di una riforma politica all’interno dell’Autorità na­ zionale palestinese e l’elaborazione di una road map sulla questione israelo-palestinese da parte del presidente americano George Walker Bush jr. (—>-) posero le condizioni per un graduale superamento delle ostilità. La road map, presentata al premier israeliano Sharon, al nuovo leader palestinese Abu Mazen (—>) e all’ONU, prevedeva la fine delle violenze terroristiche da parte degli estremisti palestinesi, lo smantella­ mento degli insediamenti israeliani costruiti dal 2001 in poi e l’avvio di un piano per la costruzione di uno Stato palestinese autonomo. Tuttavia l’obiettivo finale della road map del 2003, ovvero la creazione di due Stati sovrani, Israele e Palestina, che si riconoscono reciprocamente, non è stato ancora raggiunto.

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Aumento della corruzione e del divario sodale

L'esplosione della seconda intifada

La dura reazione di Israele

La roadmap del 2003 sulla questione israelo-palestinese

17.1 L'avvio del nuovo secolo nel segno della crisi 17.2 L'11 settembre e i nuovi equilibri internazionali 17.3 Gli Stati Uniti da George W. Bush jr. a Barack Obama 17.4 Le potenze emergenti 17.5 La Russia di Putin 17.6 L'Europa, un continente «vecchio» in difficoltà 17.7 La grave turbolenza del Medio Oriente 17.8 II dramma delle primavere arabe 17.9 L'Africa subsahariana: conflitti, crescita economica e processi di democratizzazione 17.10 I flussi migratori 17.11 La politica italiana tra continuità e rotture

La perdita del primato mondiale dell'Europa

Limiti nella diffusione della democrazia

Capitolo 17

Il XXI secolo

17.1 L'avvio del nuovo secolo nel segno della crisi In occasione della grande cesura cronologica del passaggio di seco­ lo gli studiosi, da un lato, si cimentarono nel tentativo di definire e in­ terpretare in chiave complessiva il Novecento appena concluso: «seco­ lo dell’odio e delle idee assassine», «secolo del progresso scientifico», «secolo delle ideologie» sono alcune delle qualifiche che gli furono attribuite. Dall’altro lato, fecero confronti tra l’alba del XX secolo e la nuova realtà che si stava profilando all’inizio del XXI. Per quanto in forma schematica, questi raffronti mettevano in luce come all’inizio del Novecento fosse l’Europa a rappresentare, dal punto di vista politi­ co, economico e militare, il «centro» del mondo, incarnando un mo­ dello di civilizzazione fondato sull’economia capitalista, sul costituzio­ nalismo liberal-democratico, sulla secolarizzazione della vita pubbli­ ca, sulla centralità dello Stato-nazione quale fondamento del potere politico legittimo. All’alba del terzo millennio l’Europa aveva ormai perso da tempo il suo secolare primato mondiale, anche se era in corso un processo, poi continuato nel primo decennio degli anni Duemila, di espansione su scala mondiale del binomio capitalismo/liberal-democrazia, sul quale la civiltà occidentale si reggeva da almeno due secoli. Crollata infatti, con la fine del Novecento, l’idea che la democrazia sia un regime politi­ co praticabile solo in Occidente, la sua diffusione al di fuori di quest’area non ha tuttavia prodotto un modello uniforme, si incarna spesso in forme ibride e soprattutto non coinvolge ancora la maggio­ ranza dei Paesi e della popolazione mondiale: secondo dati del 2010, so­ lo il 45% degli Stati si possono definire «liberi» e vi risiede il 43% della popolazione mondiale; il 35% di quest’ultima vive ancora in Paesi «non liberi», mentre il rapporto di Amnesty International del 2010 ha eviden­ ziato in ben 111 Paesi casi di torture o altre forme di maltrattamento

Il XXI secolo

estremo. Più stabile, alle soglie del XXI secolo, sembrava essere l’affer­ mazione su scala globale dell’economia di stampo liberale. Nuove eco­ nomie emergenti, soprattutto in Asia e in America Latina, erano uscite dalla fase del sottosviluppo e si stavano affacciando con forza sulla sce­ na del commercio mondiale. Nondimeno il nuovo secolo si aprì all’insegna di una percezione dif­ fusa di insicurezza e crisi, rispetto sia all’ottimistica fiducia nel progres­ so che aveva segnato gli anni tra Otto e Novecento, sia alle speranze sca­ turite dalla fine della contrapposizione bipolare e dall’eccezionale svi­ luppo dell’economia mondiale registratosi nel corso degli anni Novanta. Innanzitutto due importanti crisi finanziarie - la prima nel 1997-98, do­ vuta al collasso di alcuni Paesi asiatici e della Russia, l’altra all’inizio del Duemila, causata dagli eccessi speculativi degli anni precedenti - diede­ ro un primo duro colpo all’andamento dell’economia mondiale. Circoscritte geograficamente e con scarse conseguenze sull’economia reale, esse non impedirono comunque la ripresa a partire dal 2002, che fu ca­ ratterizzata dalla crescita del prodotto mondiale, da bassa inflazione e da uno sviluppo impetuoso della finanza. Un altro elemento di insicurezza era dato dal parziale declino del potere degli Stati-nazione, messo sotto scacco dal peso crescente delle organizzazioni economiche e politiche sovragovernative o intergover­ native e dagli effetti della globalizzazione economica che tende a di­ sperdere le decisioni tra grandi attori transnazionali (mercati, imprese multinazionali, grandi banche e aziende di telecomunicazione). Inoltre i massicci flussi migratori, che a partire dagli anni Novanta del Nove­ cento hanno acquisito un vero carattere globale a causa degli squilibri economici e demografici tra i Paesi industrializzati e quelli più poveri, stavano creando società sempre più interculturali e multietniche, con conseguenti problemi di integrazione e inserimento culturale degli stranieri soprattutto in Europa, dove si trattava di un fenomeno relati­ vamente recente. Il declino delle ideologie tradizionali dopo la fine del­ la Guerra Fredda, la ridefinizione delle identità e appartenenze, spesso in chiave etnico-nazionale o religiosa, il contrasto tra le spinte prodotte dalla globalizzazione e il ritorno dei nazionalismi - nei Paesi di recente formazione o democratizzazione e in quelli industrializzati oggetto di grandi ondate migratorie - erano altrettanti elementi nuovi, potenzial­ mente forieri di instabilità. Ma il vero trauma, uno shock politico e culturale per il mondo inte­ ro, fu prodotto dagli attacchi terroristici delFll settembre 2001 contro gli Stati Uniti ad opera, come vedremo, di un’organizzazione di fonda­ mentalisti islamici. Oltre a causare più di 3.000 morti, essi misero in luce la presenza di un soggetto - il terrorismo islamico di matrice radicale o fondamentalista - in grado di costituire una minaccia globale e incon­ trollabile; difficile, cioè, da contenere mediante gli strumenti legali e mi­ litari tradizionali, come dimostrò la strategia della «guerra preventi­ va» (—»•) messa in atto dagli Stati Uniti nel 2003 contro l’Iraq che, nono­ stante il vasto dispiegamento di forze, non riuscì a estirpare la minaccia dell’islamismo fondamentalista. Quest’ultimo, pur essendo combattuto duramente sia in Occidente sia nei Paesi a religione musulmana, è infat-

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Affermazione globale deH'economia di stampo liberale

Percezione diffusa di insicurezza e crisi

Peso crescente delle organizzazioni economiche e politiche sovragovernative

Massicci flussi migratori globali

Il declino delle ideologie tradizionali

Il trauma d ell'll settembre 2001

La minaccia globale del terrorismo islamico

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Storia contemporanea

ti rimasto tragicamente attivo, come hanno testimoniato le stragi verifi­ catesi dopo il 2001 in Europa e soprattutto nei Paesi musulmani. Anche l’economia mondiale, dopo i primi segnali d’incertezza a ca­ Crisi dell'economia mondiale dal 2008-9 vallo dell’inizio del secolo, precipitò in una crisi profonda e traumatica a partire dal 2008-9. Esplosa nel 2007 negli Stati Uniti, a causa dello sgon­ fiamento della bolla immobiliare e del deprezzamento di molte attività finanziarie legate al credito fondiario, produsse una drastica caduta dei prezzi dei prodotti finanziari, la contrazione del credito, il crollo delle borse, il fallimento di grandi colossi bancari. Già nel 2009, secondo il Fondo monetario internazionale, aveva prodotto oltre 4.000 miliardi di dollari di perdite per il sistema finanziario mondiale. Dovuta, secondo gli economisti, a una serie di fattori quali la presenza di forti squilibri macroeconomici sul piano globale, la deregolamentazione dei mercati, l’instabilità di un sistema finanziario privo di vincoli, nel giro di un anno Dalla crisi della finanza soltanto la crisi si trasferì all’economia reale, colpendo dapprima gli Sta­ a quella dell'economia ti Uniti, poi i Paesi europei ed infine il mondo intero. Nel 2009 si regi­ reale strò, per la prima volta dal secondo dopoguerra, la riduzione del prodot­ to mondiale, con una caduta netta della produzione industriale e dei vo­ lumi del commercio globale. Trasformatasi ben presto in vera e propria recessione, tale crisi è stata affiancata da diversi studiosi alla Grande Depressione degli anni Trenta, sia per la gravità e intensità dei suoi ef­ fetti, sia per la sua diffusione su scala mondiale. Se, da un lato, la crisi ha messo in moto una serie di meccanismi correttivi volti ad impedirne il ripetersi (ristrutturazione delle grandi banche, individuazione di regole e vincoli per il mercato finanziario, rafforzamento della vigilanza sulle istituzioni finanziarie), dall’altro molti problemi restano ancora aperti. Di tipo politico, perché gli inter­ venti necessari per gestire e controllare il sistema della finanza globale abbisognano di consenso internazionale e producono, di conseguenza, la parziale riduzione della sovranità dei singoli Stati; di tipo economi­ co, perché un assetto più solido e meno instabile richiederebbe un maggior equilibrio tra le economie del pianeta; di tipo congiunturale, perché a 6-7 anni di distanza la fase recessiva non è stata ancora supe­ rata del tutto. In Europa essa, accentuando la forbice tra i Paesi con un’economia La forbice tra i Paesi europei solida e un’amministrazione virtuosa, come la Germania e quelli scan­ dinavi, e i Paesi con un debito pubblico elevato, ha condotto al rischio di default Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e Cipro, salvati dall’azione congiunta degli altri Paesi e delle istituzioni europee, dopo aver messo però seriamente a rischio la tenuta della cosiddetta eurozona. Al tempo stesso una delle «ricette» praticate dai governi per ridurre i costi e la spesa pubblica è stata il contenimento dell’espansione del welfare me­ diante tagli selettivi alla spesa sociale; una linea che, sebbene inaugura­ ta in alcuni Paesi, come la Gran Bretagna, già negli anni Ottanta, negli ultimi tempi ha messo progressivamente in crisi il modello sociale euro­ peo adottato dalle democrazie postbelliche sin dal 1945. Tanto la reces­ Le misure di austerity sione economica quanto le misure di austerity imposte dall’Unione eu­ imposte dall'UE ropea hanno quindi finito per accrescere la sfiducia dei cittadini nei confronti del processo di integrazione comunitaria e per divenire il ter-

Il XXI secolo

reno di coltura di partiti euroscettici, ultranazionalisti e talora aperta­ mente xenofobi. Segnata dalla grande recessione e dalle sue conseguenze, dall’emergere di nuove potenze economiche globali, prima fra tutte la Cina, dallo squilibrio tra i Paesi ricchi e industrializzati e quelli in via di sviluppo, la profonda ristrutturazione dell’economia mondiale verificatasi nei primi anni del nuovo millennio ha inciso anche sull’assetto degli equilibri in­ ternazionali. L’indebolimento della struttura economico-finanziaria statunitense e il consolidarsi di nuovi grandi poli strategici, come Cina, Russia, Unione europea, America Latina, hanno infatti impedito agli Stati Uniti di imporre una leadership stabile e unilaterale sul mondo in­ tero, un’ipotesi che era invece maturata dopo la fine dell’impero sovieti­ co. Al contrario, si sono prodotte a livello geopolitico nuove tendenze alla frammentazione, tese a proteggere identità e interessi circoscritti di tipo nazionale e/o regionale. Venuta meno la gabbia di contenimento bi­ polare, si sono infatti aperti nuovi teatri di scontri a livello locale, come in Medio Oriente o tra la Russia e i suoi vicini post-sovietici, e nuove strade per la proliferazione delle armi nucleari, chimiche e biologiche. Così, mentre al vecchio conflitto bipolare sembra essersi sostituito, do­ po FU settembre 2001, quello tra l’Occidente e l’islamismo fondamenta­ lista, il rischio della «morte atomica», pur in uno scenario diverso da quello della Guerra Fredda, risulta ancora operante. Le spese militari, cresciute costantemente dal 2000 al 2012, hanno registrato un calo (1,9%) solo nel 2013, quando ammontavano a 1.747 miliardi di dollari; calo dovuto alla riduzione del budget della difesa de­ gli Stati Uniti e dei Paesi dell’Europa occidentale, mentre nel resto del mondo, con in testa Cina e Russia, si è verificata la tendenza opposta. Anche in Medio Oriente l’acuirsi delle tensioni regionali ha fatto au­ mentare i bilanci militari complessivamente del 4% tra 2012 e 2013 (ma il dato non include diversi Paesi, tra cui Iran e Siria, che non hanno for­ nito cifre). Secondo i rilievi dello Stockholm International Peace Rese­ arch Institute, ben 23 Stati - nessuno dell’Europa occidentale e dell’Ame­ rica settentrionale - hanno più che raddoppiato le loro spese militari tra il 2004 e il 2013. Ma ancor più preoccupante è l’aspirazione delle grandi e medie potenze regionali del Medio Oriente a dotarsi degli armamenti strategici, aspirazioni che si sono in parte realizzate nel programma nu­ cleare avviato dall’ex presidente dell’Iran Mahmud Ahmadinejad (->-). Nel 2006 anche il primo ministro giapponese Shinzo Abe (—>-) rivendi­ cò un «minimo necessario» di armamenti nucleari per autodifesa. D ’al­ tra parte, nonostante il Trattato di non proliferazione entrato in vigore nel 1970, restano ancora molte le testate nucleari attive nel mondo: le possiedono Russia, USA, Francia, Gran Bretagna, Cina, India, Paki­ stan, Corea del Nord, Israele. Se dunque, facendo un raffronto con l’inizio del XX secolo, il mondo appare oggi senz’altro più «democratico», prospero e, perlomeno in Oc­ cidente, pacifico, tante e di diverso segno sono le sfide ancora aperte. Sul piano internazionale, la minaccia del fondamentalismo islamico, la frammentazione degli interessi e la mancanza di un ordine stabile e con­ diviso; sul fronte economico, la necessità di gestire e controllare il pro-

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La nuova potenza globale dnese

Le nuove aree di crisi

L'aumento delle spese militari dei Paesi extraeuropei

Gli armamenti strategici

Le sfide ancora aperte

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Il tema dei diritti umani

Gli sviluppi tecnologici e il «web 2.0»

Storia contemporanea

cesso di globalizzazione economico-finanziaria, che rende ciascun Pae­ se più interdipendente dagli altri e per certi versi più vulnerabile, e l’ur­ genza di ridurre gli squilibri tra le principali aree economiche del mondo; sul fronte politico e culturale, per i Paesi che sono oggetto di forti ondate migratorie, la necessità di individuare strategie adeguate di accoglienza e inserimento dei migranti. Nel primo decennio del XXI secolo anche il tema dei diritti umani ha acquisito una rilevanza crescente, ponendo alla giurisprudenza e alle istituzioni politiche nuove sfide. Da un lato, quella di garantire il rispetto dei diritti fondamentali degli individui, ancora violati in mol­ te parti del mondo; nei Paesi poveri e nelle zone di guerre, infatti, mol­ to resta ancora da fare per assicurare, specie alle donne e ai bambini, le libertà fondamentali, il diritto all’istruzione, alle salute e alle cure sanitarie. Dall’altro, è emersa tutta una serie di nuovi diritti, sia sog­ gettivi che collettivi, perlopiù legati alle dinamiche della globalizza­ zione e ai progressi nel campo della medicina e della tecnologia. Si è cominciato infatti da tempo a parlare del diritto a un ambiente non in­ quinato, all’integrità genetica della persona, a esprimere le proprie vo­ lontà in materia di trattamento sanitario, al riconoscimento giuridico per le coppie omosessuali, al libero accesso a internet. Rispetto a quest’ultimo e agli sviluppi tecnologici, il nuovo secolo ha visto la na­ scita del cosiddetto «web 2.0», ovvero l’insieme delle nuove applica­ zioni che consentono un alto livello di interazione tra i siti web e gli utenti. Si è imposta così un’idea della rete internet come spazio di par­ tecipazione, condivisione e comunicazione politica, a livello sia indivi­ duale che collettivo, e di essa si servono ormai ampiamente tutti i gruppi e i movimenti politici, nazionali e transnazionali; al tempo stesso gli sviluppi tecnologici forniscono ai governi potenti strumenti di controllo e sorveglianza. Nel complesso, quindi, il primo decennio del XXI secolo ha mostra­ to luci e ombre, crisi e successi, lacerazioni e potenzialità positive; po­ tenzialità che potranno diventare tanto più fruttuose quanto più si riu­ scirà a fare tesoro delle lezioni lasciate in eredità dalla storia. 17.2 L'11 settembre e i nuovi equilibri internazionali

Gli attentati dell'11 settembre 2001

L'organizzazione terroristica di Al-Qà'ida

L’11 settembre 2001 un gruppo di terroristi arabi prese il controllo di quattro aerei americani partiti da Boston, New York e Washington e di­ retti a Los Angeles e San Francisco. Con l’obiettivo di colpire gli Stati Uniti nei simboli del loro potere internazionale, i terroristi dirottarono due degli aerei verso il World Trade Center di Manhattan, facendoli schiantare sulle Torri Gemelle; un terzo aereo fu diretto sul Pentagono e il quarto, che secondo le ricostruzioni avrebbe dovuto colpire la Casa Bianca, precipitò a sud-est di Pittsburgh. Gli attentati, non immediata­ mente rivendicati, furono attribuiti dai servizi di intelligence all’organiz­ zazione terroristica di Al-Qà’ida (-^-): costituita da fondamentalisti islamici e guidata dallo sceicco saudita Osama Bin Laden (->-), aveva preso forma durante il conflitto in Afghanistan affiancando i mujahed-

Il XXI secolo

din attivi nella zona (cap. 15.3) e aveva trovato sostegno nel Sudan di Omar al Bashir (—*■). Gli Stati Uniti avevano già attribuito a Bin Laden la paternità degli attentati terroristici che nel 1998 avevano colpito le ambasciate america­ ne in Kenya e Tanzania. Come più volte affermato dallo stesso sceicco nel corso degli anni Novanta, il nemico principale di Al-Qà’ida erano gli Stati Uniti e per combatterli Bin Laden, rifacendosi alla sua lettura dei testi sacri dell’islam, aveva richiamato a raccolta l’intero mondo musul­ mano: «durante tutta la storia del popoli islamici - disse in un messaggio del 1998 - gli ulema hanno unanimemente affermato che il jihad è un dovere individuale se il nemico devasta i Paesi musulmani». Nel panora­ ma degli islamismi radicali, che hanno una lunga storia all’interno del mondo musulmano sciita e sunnita, Al-Qa’ida condivideva la stessa uto­ pia di ritorno a una mitica «età dell’oro» e esprimeva il medesimo odio contro l’Occidente e Israele. Tuttavia Bin Laden non si limitava a parla­ re della ricostruzione di uno Stato islamico, affermando piuttosto di vo­ ler costruire un Grande Califfato (—*-) universale. Gli attacchi dei kamikaze (->-) islamici dell’l l settembre 2001, che produssero oltre 3.000 morti, raggiunsero l’obiettivo presente nelle men­ ti folli dei terroristi di destabilizzare gli Stati Uniti e il mondo occidenta­ le. Tra l’altro essi si verificarono in un momento decisivo per la politica americana. Dopo la fine del comuniSmo sovietico, infatti, l’amministrazione del presidente democratico Clinton aveva cercato di far assumere agli USA l’immagine di un Paese impegnato in operazioni sostenute da un’alta tensione morale in difesa dei popoli oppressi, come si verificò in occasione della missione umanitaria in Somalia o nell’impegno militare americano per risolvere la questione bosniaca e serba-kosovara. Nel 2000, dopo una lunga e aspra campagna elettorale, era stato eletto alla presidenza il repubblicano George Bush jr., il quale modificò fin da su­ bito la strategia americana in politica estera. Con l’obiettivo di ridefinire il primato degli Stati Uniti come potenza mondiale, riducendone onori e oneri in modo spesso non compreso dagli alleati vecchi e nuovi, Bush decise di ritirare il trattato istitutivo della Corte penale internazionale in discussione al Senato, di non ratificare il protocollo di Kyoto sulla di­ fesa dell’ambiente e di riprendere il progetto reaganiano di dotare gli USA di uno «scudo spaziale» contro ogni possibile attacco missilistico. Le divisioni presenti nell’opinione pubblica americana di fronte a questa politica scomparvero immediatamente dopo i tragici eventi dell’11 settembre. L’attacco di Al-Qà’ida rafforzò infatti la politica unilateralista di Bush, che assunse caratteri sempre più radicali nella lotta al terrori­ smo internazionale. Già in ottobre gli Stati Uniti, alla guida di una coali­ zione internazionale che vedeva i Paesi dell’alleanza atlantica affiancati da Russia, Cina, Arabia Saudita e Pakistan, scatenarono un’offensiva mi­ litare in Afghanistan per sostenere la lotta di alcuni gruppi locali contro il regime dei talebani (cap. 15.3). Considerato da Bush uno «stato cana­ glia» sostenitore dei terroristi islamici, l’Afghanistan dei talebani venne sconfitto in pochi mesi e al regime dei talebani si sostituì un governo po­ sto sotto la protezione di reparti militari con funzione di peacekeeping, formati da 28 Paesi operanti sotto la bandiera ONU.

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Lo sceicco saudita Bin Laden

\\jihad contro gli USA

L'elezione di Bush jr. nel 2000 e la sua nuova politica estera unilateralista

La lotta al terrorismo internazionale Offensiva militare in Afghanistan e sconfitta dei talebani

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La denuncia delibasse del male»

Lo scavalcamento dell'ONU

La strategia della «guerra preventiva» e lo «scontro di civiltà»

L'attacco americano all'Iraq

Il crollo del regime di Saddam e la conseguente guerra civile

Gli attacchi terroristici a Madrid e Londra

Storia contemporanea

Nel corso del 2002, dopo che Bush aveva denunciato la presenza di un «asse del male» costituito da Corea del Nord, Iran e Iraq che, a suo avviso, rappresentava una minaccia per la sicurezza internazionale, pre­ se forma il progetto di abbattere il regime di Saddam Hussein in Iraq. In un primo tempo Bush accettò di passare attraverso un intervento delle Nazioni Unite, ma la loro proposta di procedere solo a nuove ispezioni sul territorio iracheno per verificare la presenza di armi di distruzione di massa non corrispondeva alle aspettative americane. D ’altronde, già nel settembre 2002 era stata pubblicata The National Security Strategy ofthe United States che, utilizzando il vecchio concetto di «deterrenza», sottolineava come il problema rappresentato dall’islamismo radicale fosse eminentemente politico e suggeriva altresì un nuovo indirizzo ag­ gressivo della politica estera statunitense motivato come risposta al bar­ baro attacco dell’l l settembre. La strategia della «guerra preventiva» teorizzata da Bush non solo evocava agli occhi di gran parte dell’opinione pubblica quello «scontro di civiltà» prefigurato fin dal 1993 dal politologo Samuel Huntington (->-), ma poneva una serie di problemi sul piano internazionale; innanzi tutto perché attribuiva alla guerra una funzione primaria per risolvere gli even­ tuali conflitti tra gli Stati, in aperto contrasto, quindi, con l’indirizzo di quelle organizzazioni internazionali, come l’ONU, che si fondavano inve­ ce sull’idea che i conflitti si dovessero risolvere in prima istanza attraverso il diritto. Tuttavia, nonostante l’opposizione di gran parte dell’opinione pubblica mondiale e dei governi di Francia e Germania, il presidente Bush rimase fermo nel suo progetto di «guerra preventiva» e nel marzo 2003 partì l’attacco americano all’Iraq, a cui parteciparono anche alcuni Paesi europei come Gran Bretagna, Spagna, Italia e Polonia. Il regime di Saddam Hussein crollò nel giro di pochi mesi e il dittatore, catturato e successivamente sottoposto a processo da un tribunale iracheno per cri­ mini contro l’umanità, venne giustiziato il 30 dicembre 2006. Le armi di distruzione di massa non furono però trovate e la strada della pacificazio­ ne si rivelò più difficile di quella preventivata inizialmente dagli Stati Uni­ ti e dai loro alleati. Passato da una guerra combattuta per far cadere un brutale dittatore a una sanguinosa guerra civile attraversata da conflitti di natura sia etnico-religiosa sia tribale, l’Iraq fu sottoposto a un veloce pro­ cesso di riorganizzazione politica che culminò nel 2005 con la convoca­ zione delle elezioni; tuttavia, proprio il loro risultato evidenziò le tante fratture difficilmente ricomponibili presenti nel Paese. Con la decisione di condurre una guerra unilaterale contro l’Iraq, gli Stati Uniti avevano scelto di scavalcare le Nazioni Unite e la loro azione in Iraq aveva finito per porre su fronti contrapposti i Paesi dell’alleanza atlantica e quelli dell’Unione europea, mentre, al contrario, molti Stati del vecchio blocco sovietico si erano schierati a fianco degli americani. Inoltre non solo l’opinione pubblica mondiale aveva dimostrato di non condividere, a differenza di quanto avvenuto per l’Afghanistan, la scelta di Bush di attaccare l’Iraq, ma gli attacchi terroristici dellTl marzo 2004 e del 7 luglio 2005 contro gli abitanti di Madrid e Londra, anch’essi riconducibili ad Al-Qà’ida, dimostrarono che nonostante l’invasione irachena la capacità dei terroristi islamici era ancora forte.

Il XXI secolo

Il concetto unilaterale di «guerra al terrore» lanciato dall’ammini­ strazione di Bush jr. rischiò dunque di isolare il Paese. Tanto più che il persistente ruolo cruciale degli Stati Uniti in termini politico-militari non è stato poi supportato, negli anni successivi, da una struttura economico-finanziaria altrettanto solida (la tendenza all’indebitamento inter­ nazionale dell’economia statunitense è infatti drammaticamente cre­ sciuta) e soprattutto non sembra aver trovato una legittimazione ideolo­ gica tale da non creare più nemici di quanti ne possa sconfiggere. L’instabilità accentuata dei regimi autoritari sotto la pressione ame­ ricana ha provocato nuove incertezze nell’area dei Paesi islamici. La crescita di un’ondata radicale di movimenti politici islamisti, che dalla contestazione interna contro le élite sono passati all’azione terroristica anti-occidentale, ha rappresentato solo uno degli aspetti rilevanti. Il se­ condo è dato dalla pressione per la democrazia salita costantemente dalle società civili più evolute o più moderne e frustrate dalla persisten­ te cappa di stagnazione dei regimi autoritari. Lo si è visto nel corso del­ le cosiddette primavere arabe che nel 2011 hanno messo in crisi molti dei vecchi regimi: crollati in Tunisia ed Egitto, oltre che in Libia (dove però è stato decisivo l’intervento militare internazionale), prostrati in una duratura guerra civile, come quella esplosa in Siria nel 2012, oppu­ re costretti ad operare riforme dall’alto (Marocco) o arroccamenti da parte dei poteri tradizionali (Algeria, Arabia Saudita). Il terzo fenome­ no è legato alla crescente evidenza di uno scontro intra-islamico, tra un asse sunnita guidato soprattutto dai sauditi e un asse sciita con al cen­ tro l’Iran, il quale si sta manifestando in molti terreni di crisi (Libano, Egitto, Siria, Iraq). La diversificazione crescente dei centri di potere economico interna­ zionale ha invece rafforzato un’area del Pacifico in cui, accanto al Giap­ pone ed alle «tigri» neoindustriali del sud-est, è emersa la pragmatica Cina post-maoista, determinata a mantenere la struttura monopolistica del potere del partito comunista, ma anche a imboccare la strada dell’economia di mercato nell’apertura internazionale. La politica este­ ra cinese, con i caratteristici moduli diplomatici avvolgenti, è infatti sempre più assertiva per diffondere l’influenza del Paese sia nell’area re­ gionale (con qualche tensione con il nazionalismo giapponese), sia a più ampio raggio tra America Latina e Africa. Dal canto suo, la Russia del presidente Vladimir Putin (—►) è riemersa dal caos post-comunista ten­ tando di opporsi alla strategia statunitense e riaffermando, con metodi anche militarmente spicci, la propria presenza in alcune aree critiche che hanno sempre fatto da cuscinetto con l’Europa (Ucraina, con l’an­ nessione della Crimea nel 2014) o con il Medio Oriente (Caucaso). La globalizzazione dell’economia, ancora parziale in termini reali ma molto più forte sul piano finanziario, ha modificato profondamente le relazioni internazionali. L’economia mondiale integrata, in cui è cre­ sciuto verticalmente il peso della finanza e dei movimenti internazionali di capitali, non si è però dimostrata stabile e capace di autoregolarsi. Dopo parecchie crisi settoriali, quella globale iniziata negli Stati Uniti nel 2007 attorno allo scoppio di un’enorme bolla speculativa sui valori immobiliari ha messo a dura prova la stessa globalizzazione. Non a caso,

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Nuove incertezze nell'area dei Paesi islamici

Le «primavere arabe» del 2011 e la crisi dei vecchi regimi

Lo scontro intra-islamico tra sunniti e sciiti

L'ascesa della Cina post-maoista

La Russia di Putin

L'incapacità di autoregolarsi dell'economia mondiale integrata

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Storia contemporanea

1

/

LA CRIMEA GEOSTRATEGICA

M ar d A ’ zov

M ar Nero I madrelingua russa in Crimea (:ensimento 2001)

(?) Aeroporto militare

Le misure per salvare la finanza e rilanciare la produzione

|

80% e più

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70-79%





60-69 %

si è parlato di un ritorno alle sovranità statuali, chiamate in causa alme­ no come istanze di salvataggio del sistema dall’autodistruzione. Il cosid­ detto bailout, messo a punto dal presidente americano Barack Hussein Obama (—*■), ha visto un’impressionante mole di risorse economiche pubbliche impegnate per salvare la finanza e rilanciare la produzione. Al contrario, forme flessibili di integrazione delle sovranità come la stessa Unione europea sono state sfidate a fondo dagli effetti della crisi, che ha soprattutto ingigantito i debiti pubblici degli Stati membri. Non a caso, contro l’interdipendenza globale si sono mostrate nuo­ ve tendenze alla frammentazione, alla protezione di identità circoscritte, basate a volte su un feroce etno-nazionalismo, a volte su un più equilibrato approccio alle relazioni globali. I Paesi emergenti dell’Asia orientale e deH’America Latina (Brasile, Cile) e addirittura di una parte dell’Africa (ad eccezione dell’instabile Africa nera equatoriale) sono sembrati in grado di assorbire meglio gli effetti della crisi finan­ ziaria globale e hanno iniziato ad assumere posizioni sempre più as­ sertive e influenti negli organismi internazionali, come il cosiddetto G-20. Peraltro, l’ipotesi di un nuovo ordine condiviso nella cornice ONU, affacciatasi dopo il 1989, non ha fatto grandi passi avanti negli ultimi anni, lasciando il sistema di fatto privo di una solida base di principi orientativi comuni.

Il XXI secolo

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17.3 Gli Stati Uniti da George W. Bush jr. a Barack Obama Nel novembre 2000, al termine di una campagna elettorale molto ac­ cesa, scandita da polemiche su presunti brogli e irregolarità, il repubbli­ cano George Bush jr. fu eletto presidente, sconfiggendo per una mancia­ ta di voti il democratico vicepresidente uscente Al Gore (—►), il quale fu penalizzato anche dalla presenza di un terzo candidato, Ralph Nader (—►) del Green Party. Bush inaugurò la sua presidenza con un indice di popolarità molto basso e con un’economia che cominciava a entrare in crisi; il boom economico degli anni della presidenza Clinton sembrava rallentare per trasformarsi in una vera e propria recessione nei primi mesi del 2001. La crisi si aggravò poi con lo shock provocato dall’attacco terroristico dell’l l settembre, contribuendo a un aumento della disoccu­ pazione che nel dicembre 2002 raggiunse il 6%. A questo si aggiungeva, alla fine del 2001, lo scoppio dello scandalo Enron, una della maggiori società in campo energetico e finanziario, che dichiarò fallimento nono­ stante i suoi bilanci fossero stati approvati da una società di controllo, la Arthur Anderson, svelando un quadro di comportamenti illeciti e pre­ occupanti conflitti di interesse che finì per investire il Partito repubbli­ cano e lo stesso Bush, a causa del sostegno dato loro dai maggiori diri­ genti della società durante la campagna elettorale. Bush mise in atto al­ cune misure economiche (aiuti alle aziende, sgravi fiscali) che permisero la ripresa, ma non l’assorbimento dell’occupazione. La reazione degli Stati Uniti all’attacco dell’11 settembre, con la guerra in Afghanistan prima e in Iraq poi, ebbe un impatto fortissimo sull’economia americana. L’aumento delle spese militari si associò alla riduzione della spesa pubblica e ai tagli fiscali, azzerando l’attivo di bi­ lancio lasciato da Clinton. La crisi economica si sommò ben presto a quella politica, sociale e culturale prodotta dagli eventi dell’l l settem­ bre, vissuti come un vero e proprio trauma nazionale. Era la prima volta dal 1812, infatti, che il territorio nordamericano veniva colpito: alle per­ dite materiali e di vite umane senza precedenti si univa uno shock di ca­ rattere politico e culturale perché gli attacchi erano stati rivolti contro i simboli del potere economico-finanziario americano (il World Trade Center) e di quello politico e militare (Washington e il Pentagono). La reazione emotiva fu fortissima, con un rinnovato senso dell’amor di patria e della riaffermazione dei valori dell’identità americana. «Per­ ché ci odiano?» fu la domanda retorica che si fece Bush, il cui indice di popolarità si impennò in questa fase fino al 90%. La sua risposta fu la riaffermazione dei valori americani come valori universali (l’odio era nei confronti della libertà, della democrazia e dello stile di vita america­ ni). I simboli, a partire dalla bandiera esposta in ogni casa, giardino o garage, raffigurata in spille e gadget di ogni tipo, vennero mostrati e ostentati a dimostrazione della compattezza della società americana di fronte all’attacco terroristico. Se da un lato, il patriottismo finì, come già era successo in passato, per alimentare le posizioni di chi voleva vendet­ ta e una reazione immediata contro nemici esterni e interni, favorendo anche derive islamofobiche, dall’altro vi era chi, pur riaffermando i valo­ ri americani e il patriottismo, si interrogava sulle responsabilità o sugli

La presidenza Bush jr.

Segnali di crisi economica Lo scandalo Enron

Le guerre in Afghanistan e in Iraq L'aggravamento della crisi

La fortissima reazione emotiva agli attentati La riaffermazione dei valori americani e del patriottismo

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errori che gli Stati Uniti avevano commesso, a partire dalle politiche at­ tuate in Medio Oriente. L’esaltazione di libertà, sicurezza, difesa della civiltà (occidentale) assunse anche una connotazione di genere con l’uso del tema dei diritti e della libertà delle donne afghane da parte del go­ verno americano per legittimare la war on terror che si stava dichiaran­ do contro il fondamentalismo islamico. La reazione all’l l settembre, infatti, fece crescere all’interno dell’am­ Il ruolo ministrazione il ruolo dei «neoconservatori» - dal vicepresidente Dick dei «neoconservatori» Cheney (—>-) al segretario della Difesa Donald Rumsfeld (—»-) - nei ri­ guardi sia delle scelte di politica estera, sia di quelle di sicurezza interna, i quali erano fautori di una politica aggressiva e unilateralista. Nei gior­ ni in cui Bush annunciava l’avvio delle operazioni per l’attacco in Af­ ghanistan, veniva anche approvata la nascita di una nuova struttura per Il varo del discusso la sicurezza nazionale, la Homeland Security. In ottobre il Congresso Patriot Act varò il provvedimento più discusso, il Patriot Act, un insieme di misure per affrontare il pericolo del terrorismo; la legge permise l’arresto, spes­ so senza sufficienti elementi, di residenti o cittadini islamici e l’avvio di procedure che di fatto costituivano una violazione delle libertà civili, come misero subito in evidenza le associazioni per la difesa dei diritti. Le proteste riguardarono anche altre misure prese dall’amministrazio­ ne, come la detenzione, senza garanzie giuridiche, di prigionieri afghani o sospettati di essere membri di Al-Qa’ida a Guantanamo. La decisione di Bush di muovere guerra all’Iraq sulla base di accuse, poi rivelatesi false, sulle presunte armi di distruzione di massa scatenò un’ondata di reazioni internazionali e la presa di distanza di alleati co­ me la Francia. AlFinterno, associazioni e gruppi pacifisti o progressisti criticarono la scelta delPamministrazione. Già qualche settimana dopo l’arresto di Saddam Hussein (dicembre 2003), apparve evidente che la guerra non si sarebbe trasformata nel successo auspicato dai «neocon­ Lo scandalo servatori». A questo si aggiunse l’effetto devastante dello scandalo susci­ dei trattamenti tato dalle foto e dalle notizie riguardanti i trattamenti disumani e le vere disumani e proprie torture esercitate nelle prigioni americane di Abu Ghraib e nelle prigioni USA successivamente a Guantanamo. Fu questo il clima politico che segnò la campagna elettorale del 2004 condotta dal Partito repubblicano all’insegna della riaffermazio­ ne dei valori del patriottismo e con lo slogan «non si cambia il coman­ dante in capo mentre il Paese è in guerra». A Bush il Partito democra­ tico oppose la candidatura di John Kerry (—>). Tuttavia i repubblica­ ni, grazie soprattutto all’opera dello spiri doctor Karl Rove (—>-), dimostrarono di essere in grado di mobilitare il proprio elettorato tan­ La rielezione di Bush jr. to che, a differenza del 2000, Bush vinse con un margine di circa tre milioni e mezzo di voti. L'andamento disastroso L’andamento disastroso della guerra in Iraq, che risvegliava il fanta­ della campagna in Iraq sma del «pantano del Vietnam», l’accrescersi di sentimenti antiamerica­ ni nel mondo, l’insofferenza di una parte dell’opinione pubblica ameri­ cana nei riguardi del conservatorismo di Bush furono alcuni degli ele­ menti che portarono il Partito democratico ad assumere una posizione sempre più dura nei confronti dell’amministrazione, facendosi interpre­ te delle richieste di chi voleva mettere fine alla guerra. La crescente mo-

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bilitazione contro Bush vide una forte componente femminile che lotta­ va sia contro la guerra, sia per difendere i diritti riproduttivi delle don­ ne, che l’agenda conservatrice del presidente, influenzata dalla destra religiosa, stava mettendo in discussione. Altre polemiche furono scatenate dall’inefficienza e dai ritardi con Il disastro dell'uragano cui il governo Bush aveva affrontato il disastro causato dall’uragano Katrina Katrina a New Orleans, nell’agosto 2005, città con una forte componen­ te afroamericana. Nel novembre 2006, quindi, le elezioni di metà man­ dato furono un vero test sull’amministrazione e i democratici riuscirono a riprendere il controllo del Congresso, ponendo le basi per la vittoria nelle elezioni presidenziali del 2008. Il risultato fu anche l’effetto dei primi segni di un peggioramento della situazione economica. Alla metà del 2006 erano apparsi, infatti, i sintomi di quella che nei mesi successivi sarebbe stata l’esplosione della bolla immobiliare e della crisi dei mutui, Lo scoppio della bolla la quale in breve si riversò su tutto il settore finanziario causando il fal­ immobiliare e la crisi limento di alcune delle maggiori imprese finanziarie americane come del settore finanziario Bears Stears e Lehman Brothers. L’economia americana, a partire dalla seconda metà del 2007, iniziò a rallentare, fino ad entrare in vera e pro­ pria recessione alla fine di quell’anno, avviando così una delle crisi eco­ La recessione nomiche più gravi mai affrontate dagli Stati Uniti e dal mondo occiden­ tale dopo il 1929. Alla fine del suo mandato Bush lasciava un debito pubblico di circa 460 miliardi di dollari; il tasso di disoccupazione nel gennaio 2009 era al 7,7% (per arrivare a superare il 10% nei mesi suc­ cessivi), con punte più alte se riferite ad afroamericani e ispanici. Prima della fine del 2008, il presidente otteneva dal Congresso la possibilità di stanziare 700 miliardi di dollari per salvare banche e istituti finanziari, ma anche grandi imprese come la General Motors. La crisi economica e la guerra in Iraq furono al centro della campa­ gna elettorale del 2008 che vide il Partito democratico candidare il pri­ Le elezioni del 2008 mo afroamericano della storia, Barack Hussein Obama. Le primarie de­ mocratiche per la selezione del candidato del partito, combattute fino alFultimo voto, avevano avuto un’importanza politica e simbolica; Oba­ ma aveva prevalso su Hillary Clinton (—>■), la prima donna ad avere la concreta possibilità di infrangere il cosiddetto «soffitto di cristallo» e ot­ tenere la più alta carica dello Stato. Obama, figlio di un africano e di una donna bianca, vissuto in tre continenti, con i suoi discorsi, la sua sto­ ria personale e politica sembrava incarnare di nuovo il sogno america­ no, rivitalizzando un’opinione pubblica progressista e democratica che in lui vedeva il candidato ideale dell’America tollerante e multicultura­ le. Lo slogan della sua campagna elettorale «Yes, we can» mobilitò una coalizione fatta di donne (soprattutto single), giovani, afroamericani e ispanici, attraverso l’uso di sofisticate tecniche elettorali, sapiente utiliz­ zo delle nuove tecnologie digitali e lavoro porta a porta. La sua vittoria Il primo presidente contro il repubblicano John McCain (—>-) fu interpretata come l’avvio afroamericano, Obama di una nuova fase di politica interna e internazionale e infatti l’inaugu­ razione della presidenza Obama, il 20 gennaio 2009, si trasformò in un evento globale dal forte carattere simbolico. Tuttavia lo slancio ideale e l’entusiasmo della campagna elettorale si infransero subito con le rigidità di uno scontro politico-ideologico che

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Provvedimenti contro la recessione

L'approvazione del progetto di legge «Obamacare»

L'opposizione repubblicana

La nuova recrudescenza terroristica

La rielezione di Obama

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impedì l’obiettivo del primo presidente afroamericano di avviare una fase di collaborazione fra i partiti. Il 17 febbraio 2009, il Congresso ap­ provò la legge proposta da Obama per stanziare fondi a favore delle im­ prese e dei lavori pubblici, al fine di arginare la crisi dei mutui e soste­ nere occupazione e redditi. Alla fine dell’anno venne anche approvata una legge di riforma del sistema finanziario. Provvedimenti che permi­ sero all’economia americana di riprendersi, tanto che la borsa cominciò a risalire dai primi mesi del 2010, anche se la disoccupazione continuò a rimanere alta per scendere solo agli inizi del 2014. Nel 2009, oltre ai provvedimenti a favore dell’uguaglianza salariale fra uomini e donne e alla fine della norma che impediva l’ingresso degli omosessuali nelle forze armate, Obama presentò il suo progetto di legge più ambizioso, lo Affordable Care A ct che doveva eliminare gli sprechi e garantire più protezione a chi aveva già un’assicurazione e soprattutto permettere a quei 49 milioni di americani che ne erano privi di accedere a piani assi­ curativi finanziati dal governo federale e quindi più convenienti. Il co­ siddetto «Obamacare» ebbe un iter lungo e tormentato, segnato da compromessi e mediazioni e fu approvato nel 2010, superando anche il vaglio della Corte Suprema. Lo scontro sulla riforma sanitaria radicalizzò tuttavia la battaglia politica. Già nei primi mesi del 2009 prese forma a livello locale il Tea Party Movement (Tea: «Taxed Enough Already», il nome richiamava la lotta antifiscale dei coloni americani contro il governo inglese) che, rap­ presentando il malessere dei ceti medi bianchi colpiti dalla crisi, accusò Obama di uso eccessivo della tassazione, di interferire con le scelte pri­ vate dei cittadini, di voler introdurre una medicina «socialista». Il movi­ mento, differenziato al proprio interno, agì come gruppo di pressione spingendo il Partito repubblicano su posizioni oltranziste. Nel 2010, quest’ultimo vinse le elezioni congressuali opponendosi a tutti i punti dell’agenda di Obama, dalla riforma sanitaria alle politiche immigrato­ rie e ambientali. Lo scontro interno si sommava poi alle difficoltà incon­ trate da Obama in politica estera. Le speranze suscitate dal discorso pronunciato al Cairo nel 2009 a favore di un nuovo dialogo e rispetto in­ ternazionale, che ne avevano giustificato il conferimento del Premio Nobel per la Pace, si infransero ben presto di fronte ai nuovi scenari di crisi politica, seguiti alle cosiddette primavere arabe. Il tema della sicu­ rezza e la nuova recrudescenza terroristica impedirono infatti al presi­ dente di rispettare tutte le promesse elettorali: dalla chiusura di Guantanamo, dichiarata ma mai attuata, fino al disimpegno, realizzato ma reso complicato dalle circostanze internazionali, delle truppe america­ ne in Iraq (mentre fu rafforzata la presenza militare in Afghanistan). Tuttavia, nonostante le difficoltà e la dura contrapposizione coi repubblicani, che nel 2011 aveva portato al rischio del blocco del gover­ no federale sul tema dell’innalzamento del tetto del debito, Obama ri­ uscì a vincere le elezioni del 2012 contro Mitt Romney (-*-), ritenuto un esponente del mondo degli affari e quindi inviso a quei settori della classe media e lavoratrice che ancora non avevano beneficiato della ri­ presa economica. Obama rafforzò la sua coalizione elettorale, inter­ cettando il disagio espresso dalla protesta giovanile e dal movimento

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Occupy Wall Street, che voleva rappresentare il 99% degli americani contrapposto all’1% dei più ricchi che dalla crisi continuavano a trarre benefici. La larga vittoria di Obama, però, non risolse il problema di una paralisi politica dovuta alla chiusura del Partito repubblicano a ogni forma di dialogo, né significò il consolidamento di un’America post-razziale, come si era scritto all’indomani delle elezioni del 2008. Episodi di cronaca in varie città riguardanti l’eccesso di uso della forza da parte della polizia contro giovani neri suscitarono violente reazioni, come nel caso di Ferguson, in Missouri, dove la polizia uccise un gio­ vane nero disarmato nell’estate del 2014, richiamando alla mente le ri­ volte degli anni Sessanta. Nel Congresso alcune proposte come quelle sul controllo delle armi, sull’immigrazione, sull’aumento del salario minimo o contro l’inquina­ mento furono bloccate o non ebbero esito, tanto che Obama fu costretto a ricorrere a ordini esecutivi (una sorta di decreto) come nel caso del mi­ nimo salariale per i lavoratori pubblici federali. Nel 2013, poi, si ripropo­ se lo scontro sul bilancio che portò al cosiddetto shutdown, ossia la chiu­ sura del governo federale dal 1° al 17 ottobre fino a quando, cioè, il Con­ gresso non si decise ad approvare il bilancio. Ancor più difficile divenne la situazione per Obama dopo l’esito delle elezioni di metà mandato del 2014, che portarono il Congresso sòlidamente in mano repubblicana. Nonostante il contesto internazionale presentasse non poche ombre dal confronto con la Cina alla tensione con la Russia per la crisi ucraina e all’esacerbarsi dei conflitti in Medio Oriente - Obama, nel discorso sullo stato delPUnione del gennaio 2015, poteva dichiarare che gli USA erano finalmente usciti dalla crisi economica: tutti i dati segnalavano la ripresa e la crescita americana e anche se la classe media ancora non ri­ usciva a percepire il cambiamento del clima economico si poteva - come disse - «voltare pagina».

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La paralisi politica

L'annuncio della ripresa economica

17.4 Le potenze emergenti Nei primi quindici anni del XXI secolo alcune aree del mondo, in Asia e America Latina, hanno conosciuto una fase di straordinaria cre­ scita economica. Mentre l’Europa annaspava nella crisi, i Paesi dell’Ame­ rica Latina, Cina, India, Giappone, Corea del Sud crescevano a ritmi so­ stenuti. Tra essi, quelli che soprattutto nella fase iniziale degli anni Due­ mila furono caratterizzati da una forte crescita del prodotto interno lordo - Brasile, India, Cina e Russia - vengono solitamente identificati con l’acronimo BRIC; apparso per la prima volta nel 2001, esso identifi­ ca quei Paesi, dotati di abbondanti risorse naturali, una vasta popolazio­ ne e un immenso territorio, che nell’ultimo quindicennio si sono affer­ mati come nuove potenze geo-economiche a livello mondiale. All’acronimo originario BRIC si affiancano oggi anche BRICS, con l’aggiunta del Sudafrica, e BRICST con l’inclusione della Turchia. In generale, nell’area latinoamericana lievito della crescita fu il de­ collo dei prezzi delle materie prime, esportati in gran quantità dalla re­ gione, dovuto all’enorme domanda delle economie emergenti, Cina in-

La straordinaria crescita economica dei BRIC Potenze mondiali emergenti

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La crescita dei Paesi latinoamericani

Abissale divario tra i Paesi

La lenta diminuzione delle disuguaglianze sociali

Il processo di modernizzazione

Il consolidamento della democrazia

Stati virtuosi e non

Disuguaglianze sociali

Storia contemporanea

nanzitutto. A ciò si sono aggiunti altri fattori. In primo luogo i governi latinoamericani hanno imparato la lezione dei fallimenti passati e, salvo eccezioni, hanno rispettato gli equilibri macroeconomici ed evitato scel­ te che sarebbero potute sfociare in sanguinose iperinflazioni e tragici default. Al tempo stesso, un insieme di stabilità politica, manodopera a buon mercato, riforme economiche e denaro a basso costo sul mercato dei capitali ha calamitato risorse verso la regione: gli investimenti esteri, pari a circa 40 miliardi di dollari nel 2003, erano 130 miliardi nel 2012. I numeri parlano chiaro: il prodotto lordo latinoamericano è cresciu­ to di oltre il 35% in appena un decennio; il tasso di disoccupazione è sceso ai minimi storici (6%); l’incidenza del debito estero in rapporto al prodotto s’è dimezzata; il volume del commercio estero è raddoppiato. Tutto con un tasso d’inflazione contenuto intorno al 5%. Ovviamente i divari da Paese a Paese e da ceto a ceto sono rimasti abissali: il reddito prò capite in Cile, il più elevato dell’area, è otto volte quello della vicina Bolivia. Ma la grande trasformazione in atto è palese. Per esempio la percentuale di studenti iscritti all’università è cresciuta di dieci punti in sette anni; decine di milioni di persone si sono scrollate di dosso il pro­ blema della povertà, il cui tasso è sceso dal 43,9% del 2002 al 28,2% del 2012. Perfino la disuguaglianza, nota dolente delle società latinoameri­ cane, è scesa del 10%, grazie in parte alle sovvenzioni pubbliche e, in parte ancora maggiore, agli effetti di più lavoro e migliori salari. Cin­ quanta milioni di latinoamericani hanno fatto ingresso nel ceto medio, il che significa più consumi, più istruzione, più diritti. La mobilità socia­ le ricorda quella dell’Europa del dopoguerra. Altri dati possono essere d’aiuto a comprendere questo processo di modernizzazione: il numero degli addetti alla ricerca scientifica s’è mol­ tiplicato per quattro in soli vent’anni, gli investimenti nell’energia pulita sono lievitati come in nessun’altra area al mondo, la speranza di vita, pa­ ri a 74,7 anni, è cresciuta e supera di cinque anni la media mondiale, le multinazionali che operano sul mercato locale sono in buon numero brasiliane, messicane e cilene, le cosiddette multilatinas, e i loro guada­ gni ammontano a circa 10 miliardi di dollari annui. Inoltre si è consoli­ data quasi ovunque la democrazia politica e le inchieste rivelano che le opinioni pubbliche vi credono più che in passato. Perfino i regimi popu­ listi che costellano la regione non si sognano di distruggere le istituzioni della democrazia parlamentare, pur essendo refrattari al suo spirito. Come tutte le medaglie, però, anche questa ha il suo rovescio. A Paesi virtuosi dove la crescita è robusta, il sistema produttivo sano, i conti pubblici in ordine e l’inflazione sotto controllo, se ne affiancano altri che tanto virtuosi non sono. Sono quelli che, spremendo fino all’ultima goccia i costi stellari delle materie prime, hanno eretto selve di controlli cambiari e protezioni commerciali e fatto levare le bandie­ re nazionaliste, lasciando che i conti e l’inflazione deragliassero. Cile e Messico sono sempre più competitivi; sempre meno lo sono, all’estre­ mo opposto, Argentina e Venezuela, col Brasile a metà strada. Nem­ meno il panorama sociale è privo di ombre. Brasile, Messico e Cile so­ no stati pionieri nel sostegno ai settori marginali, ma le disuguaglianze sociali rimangono ovunque un grave ostacolo allo sviluppo. E sullo

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sfondo positivo spiccano i punti neri rappresentanti dai bassi tassi di in­ vestimento e innovazione e la quantità troppo limitata di risparmio na­ zionale, assai inferiore a quello dei Paesi asiatici di nuova industrializ­ zazione. E c’è altro: poche sono le donne che lavorano, vasta è la corru­ zione, endemica è la violenza criminale, specie in America Centrale. Il risultato è che l’America Latina cresce, ma perde peso relativo rispetto ad altre aree emergenti. Il peso della Cina è ormai da tempo una realtà chiave del panorama geopolitico latinoamericano. È un peso indiretto, dato che la forte do­ manda cinese è la maggiore responsabile degli elevati prezzi delle mate­ rie prime di cui la regione ha beneficiato, ma è anche diretto, vista l’enorme rilevanza della Cina come partner commerciale, investitore e creditore. Nemmeno in tal caso tutto è roseo: la dipendenza dall’espor­ tazione di materie prime crea distorsioni nella struttura produttiva e ge­ nera vulnerabilità al variare dei loro prezzi. L’apertura dei mercati lati­ noamericani alle merci cinesi, contro cui è spesso impossibile compete­ re, produce effetti nocivi sul settore manifatturiero locale. Laddove poi i crediti cinesi soppiantano quelli di ogni altra origine, ne consegue un implicito debito politico. Gli Stati Uniti, intanto, hanno visto affievolirsi la loro influenza in America Latina; anche per questo l’amministrazio­ ne Obama ne ha rilanciato l’immagine liberandosi della zavorra che per essi rappresentava la politica di rigido isolamento di Cuba, l’unica ditta­ tura rimasta nella regione. Se la crescita economica dei Paesi latinoamericani è stata in gran parte legata al ruolo della Cina e delle potenze emergenti asiatiche è perché queste ultime si sono progressivamente affermate come nuovi motori dell’economia globale, dopo essere riemerse, non senza cicatrici, dalla crisi economico-finanziaria del 1997-98. La Repubblica Popolare cinese ha rivestito in questo processo un ruolo assolutamente centrale, sia in termini di capacità produttive che di presenza commerciale e fi­ nanziaria, fungendo da nucleo e volano di un inedito network regionale di economie in via di sviluppo che ha, di fatto, ridisegnato l’architettura economica dell’intera Asia orientale, strutturatasi durante la Guerra Fredda attorno all’egemonia nipponica. Gli ingredienti della spettacolare ascesa che caratterizza il caso cine­ se, come pure quello indiano, sono da rintracciarsi, in primo luogo, nel nesso virtuoso fra export e investimenti provenienti dall’estero, che han­ no foraggiato la rapida industrializzazione di tali Paesi e attenuato il gap tecnologico e di capitale umano con le potenze occidentali. Tra i punti in comune nella rapida crescita economica di Cina e India vi è senz’altro il ruolo cruciale svolto dalle imprese statali e dalle società straniere che in quei Paesi hanno deciso di investire; la differenza sostanziale sta in­ vece nel fatto che il settore manifatturiero ha guidato la crescita in Cina, mentre quello dei servizi è stato il propulsore dello sviluppo indiano. Tale transizione verso la nascita di nuovi centri nevralgici dell’economia globale, peraltro, si è riverberata sulla geografia internazionale dei flussi commerciali, che segnala il deciso spostamento del baricentro degli stessi verso il polo asiatico, così come la rinnovata importanza del com­ mercio intra-regionale.

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Il ruolo della Cina

La riduzione dell'influenza USA

La Cina e l'Asia orientale

Cina e India: i punti in comune e le differenze

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Le conseguenze negative della crescita vertiginosa

La guestione demografica

La riduzione dell'influenza economica e politica USA

I rapporti commerciali privilegiati tra Cina e Paesi dell'ASEAN

Investimenti cinesi nel sud-est asiatico

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Nel decennio 1991-2001, a fronte di un andamento di crescita nei vo­ lumi del commercio globale che si attestava al 177%, gli scambi in Asia orientale si espandevano al ritmo quasi doppio del 304%. In quest’otti­ ca, come prevedibile, l’incidenza di una crescita votata alle esportazio­ ni si rivelò inversamente proporzionale alla dimensione dei singoli mer­ cati domestici, e dunque particolarmente pronunciata nel caso di Sin­ gapore, di Taiwan, della Malesia, o del Vietnam, mentre ebbe una rilevanza più sfumata in mercati popolosi come quello indiano o indo­ nesiano. Come nel caso latinoamericano, tuttavia, a fronte dei successi economici vi è anche un rovescio della medaglia e la sostenuta crescita cinese e indiana ha dato origine a una nutrita serie di conseguenze ne­ gative. Entrambi i Paesi, per esempio, sono caratterizzati da una enor­ me popolazione, ma mentre la struttura demografica cinese sta muo­ vendosi verso un rapido invecchiamento della popolazione e una con­ trazione del tasso di fertilità, l’India ha invece una popolazione molto più giovane. Il mercato del lavoro cinese ha cominciato quindi a rivela­ re molte difficoltà, soprattutto in virtù del fatto che trovare lavoro è un’impresa ardua anche per i giovani più scolarizzati. Al contrario l’In­ dia mostra, grazie alla sua struttura demografica, grandi potenzialità per una crescita sostenuta, ma ciò non toglie che nel caso in cui il mer­ cato del lavoro dovesse andare incontro a una contrazione potrebbero originarsi numerosi problemi sociali. La novità che, in prospettiva, appare più densa di ricadute risiede tuttavia nella riduzione dell’influenza economica e politica esercitata dagli Stati Uniti nell’area, un trend riconosciuto dalla stessa ammini­ strazione Obama mediante l’implementazione del cosiddetto rebalancing, meglio noto come Pivot to Asia. Storicamente, infatti, la domanda estera che sosteneva le economie locali orientate all’esportazione era di fatto monopolizzata dal mercato nipponico e statunitense, gradualmen­ te rimpiazzati negli ultimi quindici anni dalla Cina e, in misura relativa­ mente minore, dall’India. I Paesi facenti parte deWAssociation ofSouthEast Asian Nations, fondata, come abbiamo visto, nel 1967, sono emersi a cavallo del secolo come partner privilegiati del boom economico cine­ se, consolidando un ampio surplus commerciale con Pechino che nel 2008 scalzò gli Stati Uniti dal ruolo di principale mercato di sbocco per le merci e i servizi provenienti dal Sud-Est asiatico. Il volume totale delle transazioni fra la Repubblica Popolare cinese e l’ASEAN, contestual­ mente, fotografava il carattere impetuoso di un simile processo, passan­ do dagli 8 miliardi di dollari nel 1991 agli oltre 230 miliardi nel 2008. Ta­ le tendenza fu infine suggellata grazie all’area di libero scambio (ChinaA S E A N Free Trade Area, CAFTA) varata nel 2010 e volta a liberalizza­ re e integrare ulteriormente i mercati coinvolti. La campagna di «corteggiamento» portata avanti da Pechino nei confronti degli attori che gravitano alla sua periferia si è avvalsa, in modo decisamente spregiudicato, anche di altre tipologie di leve econo­ miche: nel complesso, tra il 2002 e il 2007 il governo cinese riversò nel sud-est asiatico la più che ragguardevole cifra di 12,6 miliardi dollari, sotto svariate formule di assistenza economica e cooperazione per lo sviluppo finalizzate ad ampliare e sviluppare i mercati contigui alla Ci-

Il XXI secolo

na, ma assicurandole al contempo un forte ascendente politico. La di­ sinvoltura con cui Pechino continua a investire nella regione assicura inoltre fonti di approvvigionamento energetico di cui il Paese è assetato e contribuisce a smussare le periodiche frizioni bilaterali. Le somme stanziate in tale settore, analogamente a quanto è avvenuto per i flussi commerciali, hanno spesso oscurato quelle predisposte dagli Stati Uni­ ti: già nel 2002 gli aiuti cinesi destinati all’Indonesia erano il doppio di quelli di Washington, mentre l’assistenza fornita alle Filippine - storico bastione statunitense nell’area - superava di quattro volte quella previ­ sta dall’amministrazione Bush. In tale contesto l’India ha rappresentato sia un rivale sia un possibi­ le partner del sistema regionale edificato dalla leadership cinese e le re­ lazioni sino-indiane degli ultimi due decenni sono state un riflesso di tale ambivalenza di fondo. Se Yengagement economico è progredito in modo febbrile (da 1,7 miliardi di dollari nel 1998, i volumi degli scambi bilaterali nel 2008 superavano già la soglia dei 50 miliardi di dollari), il suo carattere sbilanciato, tuttavia, ha portato Nuova Delhi a consolida­ re un deficit commerciale nei riguardi della Cina di oltre 20 miliardi di dollari, spingendo così il governo indiano a introdurre misure anti­ dumping dirette in modo particolare agli operatori cinesi. Tali provve­ dimenti - come pure le restrizioni all’ingresso di forza-lavoro cinese nel Paese o di attori privati provenienti dalla Cina in mercati strategici co­ me quello delle telecomunicazioni - hanno ciclicamente messo a dura prova la solidità dei legami bilaterali, i quali, d’altro canto, possono pe­ rò giovarsi dell’alto grado di complementarietà, dal punto di vista strut­ turale, tra le due economie. Maggiori sforzi volti alla cooperazione tra Pechino e Nuova Delhi saranno dunque necessari in futuro, in considerazione del fatto che la collaborazione bilaterale è solo all’inizio in un folto numero di settori chiave - la protezione ambientale, l’ammodernamento infrastrutturale e lo sviluppo energetico, solo per citarne alcuni - in cui si presume di ave­ re degli ottimi risultati. Perché la collaborazione tra Cina e India possa realizzarsi su basi solide e durature, comunque, molte sono le barriere che dovranno crollare, a cominciare della vicendevole sfiducia.

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Le relazioni sino-indiane

Rapporto commerciale sbilanciato

17.5 La Russia di Putin Dal collasso dell’URSS nel 1991 erano sorti 15 nuovi Stati indipen­ denti, fra cui il più importante per territorio, popolazione, PIL e poten­ ziale militare era la Federazione russa (o semplicemente Russia). Costituita inizialmente da 89 soggetti federali, tra repubbliche, regioni, terri­ tori, circondari e «città di im portanza federale» (Mosca e San Pietroburgo), dopo l’accorpamento di sei soggetti federali in tre e l’in­ clusione, nel marzo 2014, della Crimea (che dal 1954 aveva fatto parte della Repubblica federale sovietica di Ucraina), la Russia consta oggi di 85 unità: 83 unità amministrative, più la Repubblica di Crimea e la sua capitale, Sebastopoli, eretta a terza «città di importanza federale». Dal 1992 Sebastopoli ospita la base della flotta militare russa del Mar nero,

La Federazione russa

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Il governo di Eltsin

Instaurazione di un'economia di mercato

Peggioramento delle condizioni di vita

Rinvio delle riforme istituzionali e scontro armato

La nuova Costituzione e i poteri del presidente

Le elezioni del 1995-96

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sulla base di un contratto d’affitto tra Ucraina e Russia protrattosi fino all’annessione della regione. All’inizio del 1992 il governo russo insediato da Boris Eltsin varò una serie di riforme radicali intese a stabilire nel Paese un’economia di mercato (liberalizzazione dei prezzi, convertibilità del rublo, drastico taglio della spesa pubblica per investimenti e servizi) e a inserirlo nei circuiti dell’economia mondiale. Furono inoltre avviate procedure per la privatizzazione delle imprese industriali, già proprietà dello Stato sovie­ tico, e alla fine del decennio il 70% della produzione nazionale era pas­ sato ad imprenditori privati. Lo Stato, tuttavia, mantenne consistenti e talvolta decisivi pacchetti azionari, soprattutto nel settore dell’industria metanifera (Gazprom), petrolifera, meccanica e degli armamenti. Si in­ nescò però una forte spirale inflattiva e le condizioni di vita di almeno un terzo della popolazione precipitarono drammaticamente. Le riforme istituzionali tese a superare definitivamente gli ordina­ menti sovietici, invece, furono rinviate. Il Congresso dei deputati del popolo, eletto nel 1990, rimase infatti in carica, anche se fu esautorato da una legge del dicembre 1991 che dava al presidente il potere di go­ vernare per decreto per un anno. Ma nell’ottobre 1993 si giunse egual­ mente a una violenta resa dei conti tra Elsin, che a settembre aveva sciolto d’autorità il Congresso, e una parte dei suoi membri, che scesero armati nelle strade di Mosca. Più di 150 insorti rimasero uccisi nello scontro con un’unità militare fedele al presidente, che così prevalse. Nel dicembre successivo i russi furono chiamati a votare per una nuova Costituzione e una nuova Duma. Grazie anche a un forte astensioni­ smo, ottennero una consistente rappresentanza i nazionalisti-populisti e anche i comunisti, ma la maggioranza assoluta (centro e centro-sini­ stra) dei parlamentari aderiva, sia pure con riserve, al corso riformato­ re. La nuova Costituzione presentava un carattere sostanzialmente de­ mocratico, pur caratterizzandosi per la forte entità dei poteri attribuiti al presidente; tendenza questa già avviata da Gorbacèv, che aveva così cercato di sottrarsi all’influenza della parte conservatrice dell’allora Partito comunista dell’URSS. La nuova Costituzione attribuì infatti al presidente il potere di sciogliere la Duma, se avesse votato la sfiducia al primo ministro da lui designato, e gli mise a disposizione una ramifica­ ta amministrazione presidenziale con il diritto di controllare i ministeri e i soggetti federali. Il disagio sociale causato dal rapido e tempestoso passaggio a una qualche forma di economia di mercato si fece sentire, ancora una volta, nelle elezioni alla Duma del dicembre 1995 e in quelle presidenziali del giugno successivo. Il Partito comunista (disciolto nel novembre 1991 ma tornato legale un anno dopo) ottenne in entrambi i casi una buona, anche se effimera, affermazione; esso aveva ormai rinunciato all’origi­ naria, intransigente opposizione allo scioglimento dell’URSS e al pas­ saggio all’economia di mercato e il suo momentaneo successo non se­ gnò un’inversione di rotta nella politica del Paese. I comunisti benefi­ ciarono anche dell’effetto sull’opinione pubblica della cruenta, ma poco efficiente, conduzione della prima azione di repressione dell’esercito federale contro le forze secessioniste e fondamentaliste islamiche in

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Cecenia (dicembre 1994-agosto 1996). Negli anni successivi la posizio­ Declino e dimissioni ne politica di Eltsin si indebolì ulteriormente, anche a causa delle sue di Eltsin declinanti condizioni di salute fisica e mentale, e dopo le sue dimissioni volontarie nel dicembre 1999, l’ultimo capo di governo da lui designato, Vladimir Putin, salì alla presidenza della Federazione. Iniziava così la L'inizio della lunga lunga «era Putin». «era Putin» Il periodo apertosi con l’inizio della presidenza Putin risulta com­ posto da diverse fasi politiche. In un primo momento (2000-2002), Pu­ tin sembrò soprattutto voler correggere le storture tollerate dal suo pre­ decessore e incoraggiò il completamento delle istituzioni dell’economia di mercato (leggi sulla bancarotta, tribunali per la risoluzione dei con­ flitti economici, codice agrario e del lavoro, norme antitrust). Quest’opera era stata lasciata a metà strada da governi influenzati dai L'influenza dei nuovi nuovi magnati privati dell’industria (i cosiddetti «oligarchi»), beneficia­ magnati privati ri delle privatizzazioni del 1992-1996. Più che all’instaurazione di una dell'industria genuina libera concorrenza economica sul mercato, essi erano interes­ sati al consolidamento di un regime di monopolio della produzione in loro favore. Alcuni di essi furono perseguiti penalmente per reati eco­ nomici e ripararono all’estero; tra questi, Boris Berezovskij (—>•), dece­ duto a Londra in circostanze poco chiare nel 2013. Tuttavia, un certo numero di grandi imprese russe - private, statali e a capitale misto continuarono a godere di un’opaca protezione da parte dello Stato e i principali canali televisivi passarono sotto il controllo statale. In questo Contenimento primo periodo, inoltre, Putin avviò un’energica azione di disciplina- delle autonomie mento dell’attività legislativa dei soggetti della Federazione ai quali dei soggetti Eltsin, in uno spregiudicato tentativo di guadagnarsene le simpatie, della Federazione aveva consentito di attribuirsi prerogative e poteri di carattere indipendentistico più che semplicemente autonomistico. L’esercito federale Intervento militare tornò quindi in Cecenia, dove la guerriglia indipendentista era rico­ in Cecenia minciata nel 1999 sotto la direzione di Aslan Maschadov (—►) e Samil Basaev (—►) uccisi in combattimento nel 2005-2006. La seconda guerra cecena si protrasse fino al 2002, ma la completa pacificazione della pic­ cola Repubblica caucasica avrebbe richiesto ancora anni. Dalla fine del 2003 il presidente inaugurò un nuovo corso, questa La costruzione volta teso alla costruzione di un sistema politico di tipo propriamente di un sistema autoritario. Il magnate del petrolio Michail Kodorchovskij (—*■) fu con­ autoritario dannato da un tribunale a un lungo periodo di detenzione per frode fi­ scale, probabilmente pagando così anche la sua attività di opposizione politica al presidente (fu poi amnistiato nel 2014). Nel 2004-2005, al cul­ mine di una fitta catena di sanguinosi attentati ad opera di terroristi ceceni, su proposta di Putin la Duma legiferò che i governatori delle unità federali, finora eletti a suffragio universale, fossero nominati direttamente dal presidente. La soglia elettorale per l’accesso dei partiti politici alla Duma fu elevata dal 5 al 7%. Inoltre nel 2008 fu eletto alla presi­ denza uno stretto associato di Putin, Dmitrij Medvedev (->-). D ’intesa Il gioco delle parti con Putin, che divenne capo del governo, il presidente portò un venticel­ tra Putin e Medvedev lo liberale nella politica interna, ma questo gioco delle parti si fece fin troppo scoperto alla vigilia delle elezioni politiche del dicembre 2011. Putin annunciò di ripresentarsi per la presidenza, mentre Medvedev fu

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Leggi di limitazione della libertà di opinione

Il crescente sostegno al governo della Chiesa ortodossa

I rapporti con gli Stati ex membri dell'URSS

Le «guerre del gas» tra Russia e Ucraina

Storia contemporanea

proposto come premier. Il tandem degli occupanti le due massime cari­ che dello Stato diveniva così un arrocco: l’uno prese il posto dell’altro. Alle elezioni politiche il partito di cui i due erano membri, Russia unita, subì una forte perdita di voti, nonostante probabili brogli in suo favore. Per diverse settimane a Mosca decine di migliaia di cittadini indignati dettero vita a manifestazioni di protesta, pacifiche e non, ostacolate dal­ la polizia, cui seguirono ben presto altrettanto massicce mobilitazioni popolari in favore di Putin. Ma alle elezioni presidenziali del 2012 il vo­ to per Putin cadde da più del 70% (nel 2004) al 64%. Quello stesso anno gruppo musicale femminista cantò nella catte­ drale moscovita un motivetto irriverente verso di lui e l’ultima di tali manifestazioni dette luogo a scontri tra dimostranti e polizia, con nume­ rosi arresti. La Duma cominciò quindi ad approvare una lunga serie di leggi che limitavano notevolmente la libertà di opinione, già insidiata dal controllo governativo dei più importanti canali televisivi e dall’atteg­ giamento spesso intimidatorio degli organi della giustizia russa. Il ripri­ stino dell’elezione diretta dei governatori nell’autunno 2013, ma accom­ pagnato da misure che restringevano la possibilità di presentare candi­ dature alternative a quelli in carica, non bastò a ristabilire un genuino pluralismo politico. Parallelamente, con la compiacenza e il contributo attivo del patriarca Kirill, la Chiesa ortodossa prese a sostenere con cre­ scente convinzione lo Stato russo nel nome dei «valori tradizionali rus­ si» e di un mordace nazionalismo anti-occidentale, profilando così una riedizione dell’alleanza tra Trono e Altare vigente in Europa al tempo della Restaurazione. Dal punto di vista dei rapporti con i Paesi vicini che avevano fatto par­ te dell’URSS, la Federazione intrattenne da subito buone relazioni, anche militari, con tre dei nuovi Stati dell’Asia centrale (Kazachstan, Tadzikistan, Kirgizistan), con la Belarus’ (ex Bielorussia) e con l’A rme­ nia; buoni rapporti essenzialmente economici con il neutrale Turkmeni­ stan; altalenanti con l’Uzbekistan, ciclicamente tentato da un orientamen­ to filo-occidentale; corretti ma distaccati con l’Azerbajdzan, filo-occiden­ tale. Con l’Ucraina i rapporti si mantennero buoni fino al 2005; e così quelli con la Georgia (fino al 2003) e la Moldova (ex Moldavia), la cui opi­ nione pubblica è divisa tra quanti vorrebbero integrarsi negli organismi internazionali facenti perno su Mosca e quanti puntano invece a rafforza­ re i legami con la UE. Le relazioni con i Paesi baltici si sono mantenute corrette, ma anche tese a causa della presenza di forti minoranze di russi, i cui diritti civili sono stati talvolta insidiati dai rispettivi governi. Nei pri­ mi anni Novanta, in Georgia e Moldova alcune regioni con maggioranze etniche diverse dichiararono la loro indipendenza dai rispettivi governi centrali, sotto la protezione della Federazione russa (rispettivamente Abchazija e Ossezia meridionale e la Transdnistria). Sotto il presidente na­ zionalista Michail Saachasvili (—>-) la Georgia arrivò a sfidare, anche con la violenza, abchazi, osseti e la stessa Russia; quest’ultima condusse una breve guerra vittoriosa contro di essa nell’agosto 2008, al termine della quale riconobbe diplomaticamente le due regioni secessioniste. In Ucraina, sotto il presidente Viktor Juscenko (->-), il premier na­ zionalista Julija Timosenko (-^-) protestò contro l’aumento dei prezzi

Il XXI secolo

del metano esportato nel Paese da Gazprom e ne seguì una serie di «guerre del gas». I russi interrompevano i rifornimenti per l’Ucraina, che dichiarava di non voler pagare quei prezzi e deviava per il proprio consumo il gas russo destinato all’Europa (transitante per gli stessi ga­ sdotti sul territorio ucraino). Alla fine del 2013 il nuovo presidente ucraino Viktor Janukovic (—>-) rifiutò all’ultimo momento di firmare con l’Unione europea un accordo di libero scambio che avrebbe richie­ sto sensibili sacrifici alla popolazione e negoziò invece con Putin un congruo prestito finanziario. Molti ucraini lo interpretarono come un segno di antieuropeismo e di filo-russismo; piazza dell’Indipendenza, a Kiev, si riempì di manifestanti e vi furono scontri sanguinosi con la poli­ zia. A febbraio 2014, fallito un tentativo europeo di mediazione, Janukovic riparò in Russia e nel Paese, eletto alla presidenza Petr Porosenko (—>■), si instaurò un governo nazionalista anti-russo. Preoc­ cupata da questi sviluppi, a marzo la Federazione attuò l’annessione (in­ cruenta) della regione ucraina della Crimea, composta a stragrande maggioranza di russi. Formazioni paramilitari di varia composizione in­ sorsero contro Kiev nelle regioni orientali di Doneck e Lugansk, a mag­ gioranza etnica russa, rifornite di armi dalla Federazione.

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Scontri tra nazionalisti e filo-russi

Annessione alla Russia della Crimea

17.6 L'Europa, un continente «vecchio» in difficoltà Benché i settant’anni successivi alla fine della guerra mondiale ab­ biano rappresentato uno dei più lunghi periodi di pace mai vissuti dal continente europeo e il processo di integrazione europea abbia contri­ buito a promuovere la democrazia e i diritti umani nei Paesi ex satelliti dell’URSS - fattori per i quali nel 2012 fu attribuito all’Unione europea il premio Nobel per la pace -, negli ultimi anni il cosiddetto vecchio Continente ha attraversato una fase di declino economico, politico, so­ Il dedino del «vecchio» ciale e demografico. Terminata l’euforia per il successo dell’introduzio­ Continente ne della moneta unica e per il grande allargamento del 2004, l’Unione europea si è trovata infatti a dover affrontare una serie di problemi co­ genti, vecchi e nuovi. In primo luogo fu colpita pesantemente, seppur con differenze note­ Crisi voli da Paese a Paese, dalla crisi economico-finanziaria esplosa nel economico-finanziaria 2007 negli Stati Uniti che produsse una forte contrazione delle econo­ mie dell’eurozona e un aumento repentino dell’inflazione. A questo si La questione aggiungevano difficoltà propriamente politiche, dovute alla complessa della governance governance della UE, alla presenza di troppe regole e costi elevatissi­ della UE mi, alla mancanza di un efficace coordinamento nella politica estera e alla difficoltà di sedimentare tra i cittadini un sentimento condiviso di identità sovranazionale. Fa crisi economica e quella politica alimenta­ rono così la sfiducia dei cittadini nei confronti della costruzione euro­ Sfiducia pea che, pur non trattandosi di un fenomeno del tutto nuovo, si accen­ ed euroscetticismo tuò a partire dalla fine del 2007; l’avanzata in molti Paesi di partiti e movimenti euroscettici, quando non apertamente antieuropeisti e ul­ tranazionalisti, ha rappresentato la risposta politica a tale diffusa disaf­ fezione verso l’Europa unita e le sue istituzioni. Il vecchio continente

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Declino demografico e invecchiamento della popolazione

La rinuncia di Benedetto XVI e l'elezione di Francesco

La tendenza alla «rinazionalizzazione» della politica

L'assenza di un vero potere di leadership nell'UE

Storia contemporanea

era inoltre diventato tale anche sotto il profilo demografico: con un tas­ so di fertilità compreso tra l’l,36 e PI,46 in Grecia, Portogallo, Italia e Germania, mentre quelli più elevati di Francia, Gran Bretagna e Svezia sono dovuti alla maggior natalità delle popolazioni di immigrati, l’Eu­ ropa ha conosciuto una progressiva riduzione del suo capitale umano, con conseguenze quali l’invecchiamento della popolazione, la riduzio­ ne della capacità produttiva e una pressione crescente sul sistema pen­ sionistico e sul welfare. Se è perlomeno dalla fine della Prima Guerra mondiale che la geo­ politica mondiale non ha più quella dimensione fortemente eurocentrica che aveva mantenuto per secoli, l’Europa degli ultimi vent’anni è appar­ sa incapace di rimettere in moto il percorso virtuoso che negli anni Cin­ quanta aveva guidato i padri fondatori dell’unificazione. Facendosi in­ terprete di questa diffusa percezione di sfiducia e impotenza, anche pa­ pa Francesco (—*-), in un discorso davanti al Parlamento europeo del novembre 2014, definì l’Europa «invecchiata e compressa», auspicando altresì che fosse superata la visione puramente economico-tecnocratica del progetto comunitario e si recuperassero i valori e gli ideali politici delle sue origini. Già arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, primo papa non europeo dopo quasi 1300 anni di storia, fu eletto al soglio pontificio nel marzo 2013, dopo la rinuncia al ministero petrino di Joseph Ratzinger (Benedetto XVI —*-). L’assenza, o la debolezza, di un’autentica comunanza politica e cul­ turale sembra essere il problema di fondo delFUnione europea degli ul­ timi anni. Nemmeno il Trattato di Lisbona, entrato in vigore alla fine del 2009 ridisegnando le basi dell’edificio istituzionale europeo all’inse­ gna di una maggiore efficienza, trasparenza e partecipazione dei cittadi­ ni, è riuscito sinora a invertire questo trend: un trend caratterizzato dal­ la tendenza alla «rinazionalizzazione» della politica, dalla scarsa visibi­ lità della U E nel sistema internazionale, dalla mancanza di un vero raccordo tra le varie membra del suo complicato corpo istituzionale e tra queste e i governi nazionali. Limiti che, sommati a problemi sistemi­ ci quali l’invecchiamento demografico, la debolezza militare, la dipen­ denza energetica, danno il quadro di un’Unione frammentata e ripiega­ ta su se stessa, che rischia di condannarsi (forse con la sola eccezione della Germania) all’irrilevanza politico-economica su scala globale. Due sembrano essere le ragioni principali all’origine di tale impasse. In primo luogo l’assenza di un vero potere di leadership, sia perché sono mancati negli ultimi anni statisti in grado di incarnare le prospettive del progetto comunitario e proporre ai cittadini una vera «pedagogia euro­ pea», sia a causa della complessità e del policentrismo della governance comunitaria. Ai suoi vertici siedono infatti il presidente della Commis­ sione, il presidente stabile del Consiglio europeo e quello a rotazione se­ mestrale ed infine l’alto rappresentante per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza, carica introdotta dal Trattato di Lisbona. Se dunque la UE si trova a sottostare alle dinamiche complesse di almeno quattro poli di potere diversi, è stato giocoforza, complice anche la crisi economica, l’emergere di leadership carismatiche legate ai singoli Paesi. Come nel caso dell’ex presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy (—>-)

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e della cancelliera tedesca Angela Merkel (—►), i quali non solo hanno confermato la solidità dell’asse franco-tedesco quale locomotiva della politica europea ma, imponendo sovente il loro dinamismo sui leader comunitari, hanno dimostrato quanto sia difficile superare la dimensio­ ne prettamente intergovernativa della politica europea a favore di un’in­ tegrazione sovranazionale. C’è stata poi una seconda ragione, di ordine principalmente econo­ mico, all’origine delle difficoltà di rilancio politico dell’Unione europea: la distanza, accentuatasi con la crisi economica della seconda metà del primo decennio del Duemila, tra i Paesi ricchi e ben amministrati, come la Germania e i Paesi del nord Europa, e quelli economicamente meno produttivi e con un debito pubblico elevato. Se, a parere di molti econo­ misti, l’eurozona continua a reggere più per il timore delle conseguenze di un suo collasso che per un’autentica soddisfazione circa la moneta unica, al fine di ampliare e approfondire l’unificazione politica sarebbe necessario attenuare progressivamente le differenze tra i Paesi con eco­ nomie competitive, amministrazioni pubbliche efficienti, sistemi politici solidi e Paesi che, viceversa, hanno un’economia e una gestione politico­ amministrativa scarsamente virtuose. Tale divario non solo si è accresciuto per effetto della recessione, im­ ponendo tra l’altro un’azione congiunta per il salvataggio di Grecia, Por­ togallo, Irlanda, Spagna e Cipro che rischiavano il crack finanziario, ma ha anche prodotto una netta divergenza politica tra i sostenitori dell’au­ sterità finanziaria e dell’intransigenza verso i Paesi economicamente più deboli e quanti, invece, chiedevano misure antirecessive e maggior fles­ sibilità rispetto al dogma del rigore di bilancio. Paladina della prima strategia è stata la cancelliera Merkel che, oltre a rivendicare la centrali­ tà dell’economia e della finanza pubblica quali variabili indipendenti della politica europea, ha richiesto ai Paesi più deboli sia il totale rispet­ to delle regole del Fiscal Compact (il patto di bilancio europeo che fissa una serie di norme vincolanti per il principio dell’equilibrio di bilancio), sia l’impegno ad attuare un programma interno di riforme strutturali. Contro la linea dell 'austerity si sono levate le voci di molti capi di Stato e di governo, come quella del leader greco Alexls Tsipras ( ^ - ) che, già simbolo nel suo Paese delle critiche radicali alle politiche di rigore della UE e del Fondo monetario internazionale, si presentò come candidato alla presidenza della Commissione in occasione delle elezioni per il Par­ lamento europeo del maggio 2014. Elezioni che videro la vittoria, col 29,43% dei voti, dei partiti aderenti al gruppo del Partito popolare euro­ peo e la conseguente nomina del lussemburghese Jean-Claude Juncker (—►) alla guida della Commissione europea. A fronte delle numerose, e diversissime fra loro, proposte per argi­ nare l’attuale fase recessiva, è tuttavia un dato di fatto che i Paesi euro­ pei e la U E nel suo complesso hanno perso terreno, sotto il profilo eco­ nomico e geopolitico, nei confronti degli Stati Uniti e soprattutto delle nazioni emergenti come Cina, India, Russia e Brasile. Sul piano delle re­ lazioni internazionali, essendo ancora a uno stadio piuttosto arretrato il processo di integrazione in materia di politica estera e di difesa, l’Euro­ pa ha continuato a operare prevalentemente attraverso le cancellerie dei

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Il divario tra i Paesi virtuosi e quelli deboli

Il salvataggio dei Paesi a rischio crack finanziario

Il dibattito sulla linea dell'm/sfer/fy e sulle misure antirecessive

La perdita di terreno a livello mondiale

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Crescita dei partiti euroscettici o antieuropeisti

Negoziati per l'ingresso nella UE di nuovi membri

Storia contemporanea

suoi Paesi principali e seguendo linee di interesse strategico perlopiù estranee al sistema comunitario. Inoltre, sebbene l’economia della UE in termini di produzione di beni e servizi abbia superato quella degli USA, la crisi dei debiti sovrani, la stagnazione demografica, la scarsa di­ sponibilità di materie prime e fonti energetiche fanno sì che le economie europee risultino meno competitive di quelle dei Paesi di recente indu­ strializzazione. Secondo diverse analisi, tra le venti economie destinate a imporsi nei prossimi trent’anni il primo Paese europeo, la Germania, si colloca solo al nono posto. Gli effetti della crisi economica e della disoccupazione (12% nel 2014 nell’eurozona) hanno inciso nel grado di attaccamento e supporto all’Europa da parte dei suoi cittadini. Da un lato sono cresciuti ovunque partiti, pur diversi tra loro, di stampo antieuropeista o euroscettico, dal Fronte Nazionale di Marine Le Pen (—*■) in Francia allo United Kingdom Independence Party di Nigel Farage (—>) in Gran Bretagna, dal Movimento 5 Stelle alla Lega Nord in Italia. Dall’altro, i sondaggi han­ no registrato un trend calante di fiducia verso le istituzioni comunitarie: quella nei confronti della UE è passata dal 57% del 2007 al 31% del 2013, restando tuttavia superiore alla fiducia accordata ai Parlamenti e ai governi nazionali. Se nel corso del 2013 è affiorato un cauto ottimi­ smo generale circa le prospettive di ripresa economica (51% di ottimisti a fronte del 48% del 2011), i dati restavano comunque molto diversi a se­ conda dei Paesi, dell’età e del livello d’istruzione dei cittadini: soddisfa­ zione e attaccamento verso la UE erano maggiori nei Paesi del nord Eu­ ropa, fra i giovani e le persone più ricche ed istruite. L’Europa unita, un’entità ormai estesa a 28 Paesi, è destinata a ulte­ riori allargamenti; sono infatti in corso negoziati con Turchia, Macedo­ nia e con la maggior parte dei Paesi balcanici. Avrà dunque bisogno di una struttura di potere forte in grado di integrarsi con le prerogative degli Stati nazionali, sui quali restano comunque incardinate le basi della legittimità democratica, e di recuperare credibilità agli occhi dei cittadini. Una struttura di potere che, basata su cooperazioni rafforzate come quelle che furono all’origine della CEE, superi le diffidenze reci­ proche e gli egoismi nazionali e soprattutto attenui il divario tra Paesi trainanti e paesi deboli. La ripresa economica dell’eurozona e il rilan­ cio del progetto politico di integrazione sembrano infatti processi inti­ mamente connessi. 17.7 La grave turbolenza del Medio Oriente

Una stagione

di estrema turbolenza

Col volgere del nuovo millennio il Medio Oriente entrò in una sta­ gione di estrema turbolenza, causata dall’espandersi del fenomeno del terrorismo islamico a seguito delle operazioni Enduring Freedom con­ tro l’Afghanistan (2001) e Iraqi Freedom (2003), dallo stallo totale del processo di pace israelo-palestinese, dalle guerre che hanno opposto Israele al Libano (2006) e a Gaza (2006, 2008-2009, 2012, 2013) e, infi­ ne, dallo scoppio nel 2011 delle cosiddette primavere arabe, sfociate in vere guerre civili in Libia e Siria.

Il XXI secolo

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La nuova fase storica della regione fu pesantemente influenzata da­ gli attentati dell’l l settembre 2001, quando la lotta al terrorismo islami­ co diventò globale. In questo quadro gli USA organizzarono nel 2001 l’operazione Enduring Freedom in Afghanistan e nel 2003 l’operazione le operazioni Iraqi Freedom: la prima con un ampio supporto internazionale e da par­ americane te del mondo arabo, la seconda solo con una «coalizione di volenterosi» in Afghanistan e Iraq - come la definì il presidente Bush - ovvero Paesi disposti a partecipare ad una guerra di cui pochi erano convinti in Occidente, ma soprattutto in Medio Oriente, dal momento che l’Iraq di Saddam Hussein era total­ mente estraneo ai fatti dell’l l settembre. Dei 19 attentatori, infatti, 15 erano sauditi e nemmeno uno iracheno, ma l’A rabia Saudita non fu og­ getto di alcun attacco militare da parte americana. Enduring Freedom, iniziata il 7 ottobre 2001, intendeva costringere il regime dei talebani a consegnare Osama Bin Laden all’amministra­ zione statunitense. Il leader dei talebani, il mullah Mohammed Omar (-*-), risultato in seguito estraneo ai disegni di Al-Q a’ida, voleva le prove del coinvolgimento dell’organizzazione negli attentati di New York e Washington. Arrivarono invece i bombardamenti intensivi dell’Afghanistan e gli attacchi di terra degli alleati locali degli USA, i guerriglieri dell’Alleanza del Nord, tagichi e uzbechi, che erano stati sconfitti nel 1994 dall’avanzata dei talebani stessi (di etnia pashtun), nel pieno della guerra civile tra le varie fazioni dei mujaheddin che avevano costretto al ritiro l’Armata Rossa nel 1989. Invece di combat­ tere, i talebani si ritirarono progressivamente davanti al nemico per la ritirata dei talebani poi rifugiarsi in Pakistan, dove ebbero modo di riorganizzarsi per tor­ in Pakistan nare nuovamente all’attacco nel 2004 contro l’ISAF (acronimo inglese e la controffensiva di Missione internazionale di assistenza alla sicurezza), la coalizione internazionale incaricata di riportare la pace e l’ordine in Afghani­ stan. In Pakistan, da sempre alleato degli Stati Uniti, era già fuggito anche Osama Bin Laden e lì, ad Abbottabad, fu ucciso dai Navy Seals L'uccisione di Bin Laden nel 2011 americani il 2 maggio 2011. Iraqi Freedom iniziò il 19 marzo 2003 e già il 1° maggio il presidente Bush dichiarò che la missione era stata compiuta. Il regime di Saddam Il crollo del regime Hussein crollò come un castello di carte anche per Pindebolimento cau­ di Saddam in Iraq sato dalle pesanti sanzioni inflitte al Paese a seguito della guerra del Golfo del 1991 che, se aveva liberato il Kuwait, non si era spinta fino ad abbattere la dittatura di Baghdad. Uno dei motivi che ai tempi aveva dissuaso Bush senior a non decapitare il regime iracheno era stato il ti­ more che l’Iraq si dividesse lungo le sue linee etnico-confessionali (la comunità sciita maggioritaria e le minoranze sunnita e curda), creando un pericoloso vuoto di potere nel cuore del Medio Oriente e dell’indu­ stria petrolifera mondiale. Spaccatura che si verificò progressivamente La guerra confessionale dopo l’intervento americano, sfociando in una guerra confessionale set­ interna taria che oppose soprattutto gli sciiti ai sunniti. Nel programma di transizione alla democrazia in Iraq, infatti, gli Stati Uniti avevano previsto, oltre a un preciso calendario elettorale, an­ che la completa «de-bathificazione» del Paese: ovvero l’arresto e la car­ La «de-bathificazione» cerazione degli esponenti di spicco del Ba’th iracheno, il partito unico che aveva dominato la politica irachena dal 1968 e aveva rappresentato

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L'esecuzione di Saddam nel 2006

Le vittorie elettorali sciite La prosecuzione della guerra settaria Le formazioni terroristiche sunnite e sciite

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lo strumento principe della tirannia di Saddam. L’operazione invece si trasformò in un mix di emarginazione e persecuzione di tutta la comu­ nità sunnita che, pur essendo minoritaria, aveva retto le sorti dell’Iraq fin dalla sua indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1932.1 sunniti così, già nel 2004, passarono all’attacco nell’area della capitale, Baghdad, e nelle province di al-Anbar e Salah al-Din in cui sono maggioritari, con azioni di insurgency (insurrezione) e atti terroristici di Al-Qà’ida nella Terra dei due fiumi guidata da Abu Musab al-Zarqawi (—>), originario della Giordania, ucciso nel 2006 da un raid aereo americano. Nello stes­ so 2006 fu giustiziato Saddam Hussein. Nonostante avesse tentato con il terrorismo di frenare il processo de­ mocratico, Al-Qà’ida non riuscì a impedire, il 30 gennaio 2005, le ele­ zioni per l’Assemblea Costituente che furono vinte da una grande coali­ zione sciita (Alleanza irachena unita), né il referendum con cui il 15 ot­ tobre 2005 venne approvata la nuova Costituzione, né le elezioni parlamentari del 15 dicembre 2005, vinte di nuovo dall’Alleanza irache­ na unita: tutte scadenze boicottate dai sunniti. Da allora le elezioni (nel 2010 e nel 2014), cui i sunniti hanno partecipato, sono state vinte da par­ titi sciiti e tutti i governi iracheni sono stati guidati da premier sciiti; ma la guerra settaria sunniti-sciiti in Iraq è continuata. Mentre sul fronte sunnita dalle ceneri di Al-Qà’ida nella Terra dei due fiumi è nato lo Sta­ to islamico dell’Iraq e del Levante, sul fronte sciita sono ancora operati­ ve formazioni terroristiche il cui legame con l’Iran è sempre stato con­ troverso. Con l’abbattimento del regime di Saddam Hussein, infatti, l’Iran è riuscito a estendere la propria influenza nel Paese vicino attra-

Attacchi aerei anti-Is (al 4 gennaio 2015) TURCHJLA

Iraq: 800

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verso le numerose formazioni che durante la dittatura, perseguitate in patria, avevano trovato rifugio a Teheran. Nello scenario israelo-palestinese, dopo il fallimento degli accordi di La tensione sul fronte Oslo e lo scoppio della seconda intifada nel 2000, la tensione rimase israelo-palestinese sempre altissima, aggravata dal conflitto interno alla compagine palesti­ nese tra al-Fatah e Hamas. La morte sospetta nel 2004 di Yasser Arafat, leader storico di al-Fatah e dell’OLP, rese ancora più critica la situazio­ ne. In questo contesto il premier israeliano Ariel Sharon nel 2005 deci­ se, con un atto unilaterale, di restituire la Striscia di Gaza all’Autorità nazionale palestinese, guidata da Abu Mazen, vecchio collaboratore di Arafat. Nello stesso anno Hamas decise di partecipare alle elezioni mu­ nicipali dell’ANP, che rivelarono il suo profondo radicamento a Gaza, e l’anno seguente si presentò alle legislative. Il risultato fu eclatante: il suo Trionfo elettorale partito, Cambiamento e Riforma, conquistò 74 seggi dei 132 in palio nel di Hamas Consiglio legislativo palestinese, mentre ad al-Fatah ne andarono solo 45. Si trattava chiaramente di un voto di protesta per il fallimento del processo di pace che era stato promosso da al-Fatah e dall’OLP. Ma il fatto che un partito islamista radicale, classificato come terrori­ sta in gran parte dell’Occidente, avesse conquistato la maggioranza in Le reazioni occidentali Parlamento non fu accettato né da Israele, né da Stati Uniti ed Europa che sospesero ogni forma di aiuto economico all’Autorità nazionale pale­ stinese. Dal canto suo Hamas, conscio di non avere alcuna esperienza di governo, chiese ad al-Fatah di creare un governo di unità nazionale, ma si vide opporre un netto rifiuto. In un crescendo di tensioni e violenze, nel I conflitti nella Striscia giugno 2006 Israele invase nuovamente la Striscia di Gaza per liberare un di Gaza suo giovane caporale rapito dai miliziani di Hamas (senza riuscirci). A quel punto l’Arabia Saudita convocò i massimi esponenti di al-Fa­ tah e Hamas per tentare una riconciliazione intra-palestinese; l’Accor­ do della Mecca venne siglato e il governo di unità nazionale dell’ANP vide la luce nel marzo 2007, ma ebbe vita breve. Hamas non intendeva cedere all’ANP il controllo delle proprie milizie armate, che il 10 giu­ gno 2007 attuarono un vero e proprio colpo di Stato nella Striscia di Gaza, impossessandosi di tutti gli edifici pubblici, cacciando e umilian­ do tutti i rappresentanti di al-Fatah e lasciando sul terreno un centinaio La divisione tra Hamas di morti. Per ritorsione, al-Fatah cacciò dalla Cisgiordania tutti gli e al-Fatah esponenti di Hamas. Da quel momento Israele ebbe buon gioco a rifiu­ tare il negoziato di pace coi palestinesi (quale delle due formazioni li rappresentava?) e strangolò economicamente Gaza che, sovraffollata com’era, si trasformò in una prigione a cielo aperto. Dalla Striscia con­ tinuarono a piovere su Israele razzi a gittata sempre più lunga, cui Israe­ le continuò a rispondere con pesanti bombardamenti e invasioni di ter­ ra nel 2008-2009, 2012 e 2013. 17.8 II dramma delle primavere arabe Il 4 gennaio 2011 in Tunisia moriva Mohammed Bouazizi (—►) do­ po una straziante agonia iniziata il 17 dicembre 2010, quando si era da­ to fuoco per protestare contro un grave sopruso della polizia. La sua vi-

La rivolta popolare in Tunisia

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La fuga di Ben Ali in Arabia Saudita

Il Movimento della rinascita islamica

Le proteste in Egitto

L'occupazione di piazza Tahrir

Le dimissioni di Mubarak e l'affermazione elettorale della Fratellanza musulmana L'effetto domino nel Medio Oriente

Storia contemporanea

cenda innescò immediatamente una rivolta popolare, coi giovani in te­ sta, che dai villaggi del sud sottosviluppato del Paese raggiunse ben presto Tunisi, dove si trasformò in un vero e proprio movimento di mas­ sa contro il regime di Zine El-Abidine Ben Ali (—►). Gli slogan non erano surrogati da nessuna ideologia ma inneggiavano alla libertà, al diritto al lavoro, alla lotta contro la corruzione. Ben Ali, presidente della repubblica dal 1989, mobilitò la polizia e le forze speciali ma quando anche l’esercito si schierò dalla parte della popolazione, il 14 gennaio, preferì darsi alla fuga in Arabia Saudita. Le prime libere ele­ zioni per la Costituente si svolsero il 23 ottobre 2011 e furono vinte dal Movimento della rinascita islamica (Ennahda) guidato da Rashid alGhannushl (—>■), che era stato messo fuorilegge nel 1991. Soprannominata «rivoluzione dei gelsomini», la vicenda tunisina ebbe un’eco immediata in Egitto, dove il 25 gennaio migliaia di giova­ ni si radunarono in piazza Tahrir, a II Cairo, gridando gli stessi slogan dei loro coetanei tunisini e scontrandosi duramente con le forze dell’ordine. Le manifestazioni e gli scontri si moltiplicarono in tutto il Paese e il presidente Hosni Mubarak ( ^ - ) , al potere dal 1981, nel ten­ tativo di placare la collera popolare il 31 gennaio 2011 sciolse il gover­ no in carica. Il 2 e 3 febbraio piazza Tahrir fu occupata in pianta stabi­ le da oltre un milione di dimostranti che chiedevano le dimissioni del presidente, mentre nelle strade i suoi sostenitori si scontravano coi ri­ voltosi. Mubarak si rese conto di non avere più alternative quando il segretario di Stato americano Hillary Clinton auspicò che in Egitto si realizzasse una «transizione pacifica nel rispetto delle aspirazioni del popolo egiziano». Il 10 febbraio annunciò quindi in televisione la sua intenzione di trasferire i poteri al vicepresidente ‘Umar Sulayman (—>) e di non volersi ripresentare alle imminenti elezioni presidenzia­ li. Promise anche una nuova Costituzione, ma piazza Tahrir aspettava solo le sue dimissioni, sicché il discorso finì per aumentare il clima di tensione generale. Dimessosi Mubarak il giorno successivo, la respon­ sabilità della transizione venne assunta dai militari e fu infatti il Con­ siglio supremo delle forze armate a garantire il pacifico svolgimento delle prime libere elezioni parlamentari, il 28 novembre 2011, che vi­ dero l’affermazione del partito Giustizia e Libertà creato dai membri della Fratellanza musulmana e guidato da Mohammed Morsi (—*■), che nel giugno 2012 vinse anche le elezioni presidenziali. L’esempio della Tunisia e dell’Egitto provocò un effetto domino in diversi Paesi del Medio Oriente: Libia, Algeria, Siria, Marocco, Bahrein, Giordania, Yemen. I sovrani del Marocco e della Giordania riusci­ rono ad aver ragione dei dimostranti con cambi di governo e minime concessioni costituzionali. In Algeria il regime del presidente Abdelaziz Bouteflika (—>-) si disse disponibile a fare invece significative riforme economiche. Nel regno del Bahrein la rivolta scoppiata nel marzo 2011 chiedeva certamente riforme politiche ed economiche, ma a renderle pericolose per la monarchia di Haman bin Isa al-Khalifa (—>-) era il fat­ to che stava assumendo il carattere di uno scontro confessionale intraislamico tra la maggioranza della popolazione sciita e l’élite sunnita le­ gata alla casa regnante. Così il 14 marzo 2011 l’Arabia Saudita interven­

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ne coi propri carri armati a riportare la pace e l’ordine. Per tutti gli Stati arabi sunniti affacciati sul Golfo Persico, infatti, si trattava di impedire che attraverso gli sciiti del Bahrein l’Iran finisse per ampliare la sua sfe­ ra di influenza nella penisola arabica. In Libia l’insurrezione iniziò il 17 febbraio 2011 a Bengasi, capoluogo della Cirenaica dove sono concentrati i pozzi petroliferi, e già due giorni dopo si era estesa a tutto il Paese, trasformandosi contemporaneamente in guerra civile. La totale mancanza di una cultura dello Stato e la poli­ tica del divide et impera coltivata da Gheddafi per quarantanni favori­ rono il riaffiorare di conflitti tribali e regionali, mentre il regime del co­ lonnello reagiva con una repressione spietata contro la popolazione civi­ le. Proprio per proteggere la popolazione, il 17 marzo 2011 il Consiglio di sicurezza dell’ONU autorizzò la comunità internazionale a usare tut­ ti i mezzi per imporre un cessate il fuoco, fino all’intervento armato. Fu così la NATO a bombardare pesantemente tutti i centri del potere e le roccaforti dei lealisti, mentre gran parte dell’esercito libico si schierava coi rivoltosi. La capitale Tripoli cadde sotto il loro controllo il 21 agosto e dopo due mesi cadde anche la città di Sirte in cui si era rifugiato il co­ lonnello. Gheddafi tentò allora la fuga nel deserto, ma il suo convoglio fu bombardato dall’aviazione francese, cosa che consentì ai suoi opposi­ tori di catturarlo vivo per poi ucciderlo barbaramente subito dopo, il 20 ottobre 2011 (^ -). Fin dal 27 febbraio i rivoltosi avevano creato il Con­ siglio di transizione nazionale per amministrare i territori conquistati; venne sciolto nell’agosto 2012 quando, dopo le elezioni legislative del 7 luglio, gli subentrò il Congresso generale nazionale incaricato di forma­ re un governo ad interim. Nelle elezioni di luglio il dato più sorprenden­ te fu che, a differenza della Tunisia e dell’Egitto, qui non si affermò il partito islamico, Partito per la giustizia e la costruzione, che ottenne so­ lo il 10% dei voti, ampiamente superato dall’Alleanza delle forze nazio­ nali, un partito laico affermatasi col 48% dei suffragi. Il Paese nel frat­ tempo stava precipitando in una spirale di violenza in cui, accanto a for­ mazioni tribali, provinciali e regionali, cominciarono a imporsi organizzazioni terroristiche islamiche come Ansar al-Sharia (i Partigia­ ni della legge islamica), una formazione di ispirazione qaedista basata a Derna in Cirenaica, che ITI settembre 2012 attaccò il consolato ameri­ cano a Bengasi uccidendo l’ambasciatore Christopher Stevens (— Tra spinte secessioniste, guerra per bande, attacchi terroristici e totale de­ bolezza dei governi, il 16 maggio 2014 il generale in pensione Khalifa Haftar (—>■), senza alcuna approvazione da parte del Congresso genera­ le nazionale, lanciò contro tutte le formazioni islamiste proliferate in Ci­ renaica una pesante offensiva, la cosiddetta Operazione Dignità. Da al­ lora la Libia è piombata nel caos e rischia di diventare uno Stato fallito. Le cose precipitarono anche in Egitto dove la Fratellanza musulma­ na al governo non seppe varare misure economiche in grado di allevia­ re la povertà generalizzata. Inoltre gli esponenti del suo partito in seno alla Costituente pretendevano di inserire la sharia nella nuova bozza costituzionale e arrivarono allo scontro diretto coi laici, che quindi ab­ bandonarono i lavori. Fu a quel punto che il presidente Morsi, nel no­ vembre 2012, si arrogò in pratica tutti i poteri. La popolazione rispose

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L'insurrezione in Libia

Il riaffiorare dei conflitti tribali e regionali La dura repressione di Gheddafi e i bombardamenti della NATO L'uccisione di Gheddafi nel 2011

Le elezioni del 2012

La spirale di violenza e il caos

Lo scontro tra Fratellanza e laici in Egitto

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colpo di stato militare e la rimozione della Fratellanza Il moltiplicarsi li attentati terroristici di matrice islamica

La nuova Costituzione in Tunisia

La drammatica «primavera in Siria»

La rivolta contro al-Assad e la guerra civile

Gli attentati delle formazioni estremiste islamiche

I curdi siriani

Gli aiuti degli alleati del regime

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con manifestazioni di protesta sempre più numerose e scontri sangui­ nosi tra laici e sostenitori della Fratellanza. Visto che la tensione non accennava a placarsi, le forze armate decisero di riprendersi il potere e il 3 luglio 2013 il generale Abd al-Fattah al-Sisi (—>-) attuò un colpo di stato, arrestando Morsi e tutti i leader della Fratellanza musulmana, su­ bito dichiarata fuorilegge. Svestita la divisa, al-Sisi fu eletto a stragran­ de maggioranza presidente della Repubblica P8 giugno 2014. Tale esito non ha tuttavia risparmiato all’Egitto il moltiplicarsi di attentati terro­ ristici di matrice islamista, concentrati nella penisola del Sinai ai danni della polizia e dell’esercito. A compierli è Ansar Beit al-Maqdis (Parti­ giani di Gerusalemme), il principale gruppo jihadista con base nella penisola medesima. In Tunisia invece la «primavera dei gelsomini» traghettò pacifica­ mente il Paese al varo, nel gennaio 2014, della nuova Costituzione, salu­ tata come la più democratica che il Medio Oriente avesse mai visto. Se­ guirono il 26 ottobre le elezioni parlamentari vinte da un partito laico, Appello per la Tunisia, guidato da Beji Caid Essebsi (—►), un politico quasi novantenne di provata esperienza, eletto poi presidente della re­ pubblica il 22 dicembre 2014. A ll’inizio del 2015 erano ancora in corso le drammatiche primave­ re in Siria e Yemen. Cominciata il 15 marzo 2011 con pacifiche mani­ festazioni di protesta nella cittadina di D ar’a al confine con la Giorda­ nia, la primavera siriana è ben presto volta in tragedia. Pur nella sua estrema complessità la si può suddividere in tre fasi. La prima (15 mar­ zo 2011-5 giugno 2013) vide trasformarsi la rivolta contro Bashar alAssad (—»-), estesasi gradualmente a tutte le principali città del Paese, in guerra civile. Il regime promise la revisione della Costituzione in senso multipartitico, ma usò fin da subito il pugno di ferro per repri­ mere le manifestazioni, cosa che indusse anche i rivoltosi all’uso delle armi. Il 29 luglio 2011 disertori delle forze armate crearono l’Esercito siriano libero (ESL), mentre in agosto venne annunciata in Turchia la formazione di due alleanze civili di opposizione: il Consiglio naziona­ le e la Coalizione nazionale, che da allora faticarono a collaborare tra loro e anche al proprio interno. Ben presto comparvero anche forma­ zioni estremiste islamiche. Il 23 gennaio 2012 si verificarono i primi at­ tentati contro le forze governative ad opera del Fronte al-Nusra (Fron­ te del soccorso al popolo di Siria), di chiara affiliazione qaedista; at­ tentati che resero ancora più violenta la lotta dei rivoltosi, e più feroce la reazione del regime. Per vincere le battaglie di Damasco e Aleppo, Bashar al-Assad non esitò a ricorrere all’artiglieria pesante e all’avia­ zione. Ma se riuscì a mantenere il controllo della capitale, nel resto del Paese il regime era in seria difficoltà perché erano scesi in campo an­ che i curdi siriani in lotta per la loro autonomia. I tradizionali alleati della Siria - Russia, Iran e gli hezbollah libanesi - decisero allora di sostenere in maniera più concreta il governo di Damasco, la Russia in­ viando consiglieri militari e armi, l’Iran altre armi, petrolio e finanzia­ menti, gli hezbollah con i propri guerriglieri. Il loro appoggio diede i primi risultati l’anno seguente quando, con l’aiuto degli hezbollah liba­ nesi e delle Guardie della rivoluzione iraniane, il 5 giugno 2013 le for­

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ze del regime riuscirono a riconquistare la cittadina di al-Qusayr sul valico di confine col Libano. La battaglia per al-Qusayr aprì la seconda fase della guerra civile (5 giugno 2013-6 settembre 2013) che si trasformò in una guerra settaria (sciiti contro sunniti), regionale e internazionale. Da quel momento il regime passò decisamente al contrattacco innanzitutto a Damasco, dove i ribelli erano riusciti a riconquistare il quartiere di Ghuta. E su Ghuta il 21 agosto 2013 l’aviazione siriana sganciò bombe-barile cariche di agen­ ti chimici (gas nervino) che provocarono centinaia di morti tra i civili. Lo shock a livello internazionale fu enorme, durissima la reazione del presidente americano Obama che nel 2012 aveva indicato nell’uso di ar­ mi chimiche da parte del regime il limite oltre il quale sarebbe scattato un intervento militare internazionale. In seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU gli Stati Uniti dovettero però incassare il veto di Russia e Ci­ na, cosa che spinse Obama a chiedere l’approvazione del Congresso per l’intervento in Siria, approvazione che gli venne però negata. Dal canto suo la Russia, nel corso del vertice del G20 di San Pietroburgo del 6 set­ tembre 2013, si adoperò per trovare una soluzione al problema contin­ gente convincendo Bashar al-Assad a smantellare il proprio arsenale chimico, cosa che il presidente accettò di fare. Ma ormai la crisi siriana era entrata di prepotenza nell’agenda internazionale. La terza fase della tragedia siriana (6 settembre 2013-8 agosto 2014) si è rivelata, se possibile, ancor più violenta e convulsa. Sempre nel 2013 fece la sua comparsa nello scenario della guerra civile siriana un altro fronte islamista radicale, lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (con acronimo misto inglese-arabo ISIS) nato sulle ceneri di Al-Qa’ida nella Terra dei due fiumi. Conquistata in Iraq la provincia di al-Anbar, confi­ nante con la Siria, l’ISIS cominciò a tracimare nel Paese vicino per com­ piervi sanguinosi attentati. A differenza del Fronte al-Nusra, il cui oriz­ zonte si ferma alla Siria stessa, l’ISIS è votato al jihad globale e il suo fi­ ne ultimo è la creazione di un califfato universale. Entrambi di matrice qaedista, sono finiti ben presto in rotta di collisione e oggi è difficile sa­ pere quali rapporti intercorrano realmente tra di loro. In Siria, comun­ que, l’ISIS è riuscito a imporsi su tutti i militanti dell’opposizione grazie ai suoi metodi terroristico-gangsteristici. Già il 9 giugno 2014 conquistò Mosul nel Kurdistan iracheno e il 29 il suo leader AbuBakr al-Baghdàdf (—►) proclamò il califfato su parti delle province orientali della Siria e occidentali dell’Iraq, battezzandolo Stato islamico (con acronimo ingle­ se IS). La comunità internazionale imparò a conoscere l’IS per la perse­ cuzione ai danni degli yazidi iracheni e per i video delle esecuzioni all’arma bianca degli ostaggi arabi, occidentali e giapponesi. Nel frattempo, il 14 febbraio, erano falliti in Svizzera i negoziati or­ chestrati dall’ONU per una transizione pacifica a un regime democrati­ co e il 3 giugno Bashar al-Assad era stato rieletto alla presidenza nelle prime elezioni in cui concorrevano anche altri candidati. Un avveni­ mento quest’ultimo che non colpì certo la comunità internazionale, che rimase invece profondamente scossa dal dilagare del califfato tanto in Iraq quanto in Siria. Di fronte al rischio che, dopo Mosul, occupasse l’intero Kurdistan iracheno, il presidente americano Obama riuscì a

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L'impiego delle armi chimiche

L'impasse all'ONU

Il nuovo fronte islamista radicale: l'ISIS

Lo stato islamico tra Siria e Iraq

I bombardamenti della coalizione internazionale

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M ar Rosso

M are Arabico

H O U TH IE AL-QAEDA IN YEMEN ;

; Al-Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap) Houthi: presenza o probabile presenza controllo o influenza

Le turbolenze in Yemen

Il fronte secessionista del sud

La continua minaccia terroristica di Al-Qà'ida

formare una coalizione di undici Stati (Italia compresa) che cominciò a bombardare le postazioni dell’IS in Iraq il 7 agosto 2014 e quelle in Si­ ria il 22 settembre. Ben prima che la primavera araba scoppiasse anche in Yemen, il Paese era già in preda a una grave turbolenza causata dalla ribellione degli Houthi (una tribù sciita del nord), iniziata nel 2004, e dagli atten­ tati di Al-Qà’ida nella Penisola arabica (AQAP), che era nata nel 2009 dalla fusione della branca saudita e di quella yemenita dell’organizza­ zione di Bin Laden. Le manifestazioni della primavera del 2011, dun­ que, vennero a inserirsi in un contesto già esplosivo e reso ancor più pro­ blematico dalla ricomparsa sulla scena politica del fronte secessionista del sud, che con le sue risorse petrolifere rappresenta l’unica vera fonte di reddito per il Paese più povero di tutto il Medio Oriente. Dopo dimo­ strazioni di massa, duri scontri con le forze dell’ordine e attentati dell’AQAP, la primavera yemenita riuscì comunque a cacciare nel 2012 il presidente-padrone Ali Abdallah Saleh (-^-), al potere dal 1990. Il suo successore Abdrabbuh Mansur Hàdl (—*-) si ritrovò immediata­ mente ad affrontare le molteplici spinte centrifughe della società yeme­ nita rappresentate da formazioni tribali, provinciali e regionali, nonché la continua minaccia terroristica di Al-Qà’ida. Intervennero allora il Consiglio di cooperazione del Golfo e l’ONU per aprire i negoziati e trovare una soluzione, che arrivò solo nel settembre 2014 con la firma di un accordo che consentì la nascita di un governo di unità nazionale.

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La pace durò tuttavia poco perché lo scontro si trasferì sulla redazione della nuova bozza costituzionale che, come annunciato dal presidente HadI, avrebbe dovuto trasformare lo Yemen in una federazione di sei pro­ vince. Gli Houthi, infatti, tornarono a imbracciare le armi, nell’autunno 2014 assunsero il controllo della capitale Sana’a per poi assediare il 21 gennaio 2015 il palazzo presidenziale. Chiedevano un reale power sharing all’interno del nuovo governo e si dichiaravano decisamente ostili alla so­ luzione federale. Il presidente HadI, sotto sequestro, si disse inizialmente disposto a valutare le loro richieste, a patto che gli Houthi si ritirassero dalla capitale; non lo fecero, sicché il 22 gennaio il presidente HadI e tutto il governo si dimisero, lasciando nel Paese un enorme vuoto di potere. 17.9 L'Africa subsahariana: conflitti, crescita economica e processi di democratizzazione Gli anni Duemila si aprirono in Africa subsahariana con lo scoppio di nuovi conflitti armati o con ondate di violenza in Paesi in cui i proces­ si di pace avevano in precedenza condotto a fragili compromessi politici. In Congo la guerra scoppiata nel 1998 si trascinò fino al 2002, quando la La guerra in Congo mediazione diplomatica sudafricana condusse alla firma di nuovi accor­ di di pace, che portarono il Paese alle elezioni del 2006. Secondo alcune stime, il conflitto in Congo, mai del tutto risolto nelle regioni orientali del Paese, provocò direttamente e indirettamente circa tre milioni di morti. Tra il 1998 e il 2000 il Corno d’Africa fu teatro di un nuovo e san­ Il nuovo conflitto guinoso conflitto tra Etiopia ed Eritrea. Alla base di tale conflitto vi tra Etiopia ed Eritrea erano ragioni molteplici, tra cui il tentativo eritreo di affrancarsi da ogni tutela economica da parte dell’Etiopia introducendo una propria mone­ ta, il timore etiope di perdere ogni accesso al mare e l’esatta definizione del confine tra i due Paesi. La sospensione delle ostilità consentì di sot­ toporre quest’ultima questione alla Corte internazionale di Giustizia, il cui verdetto andò a favore delle posizioni del governo eritreo. Tuttavia, le relazioni tra i due Paesi rimangono ancora oggi molto tese, non ulti­ mo a causa del rifiuto dell’Etiopia a ritirarsi dalle regioni invase. In Africa australe, se da una parte l’uccisione nel 2002 di Jonas Savimbi (—>■), il leader dei ribelli dell’Uniào Nacional pela Independència Total de Angola, pose fine alla guerra civile in Angola, dall’altra si L'aggravarsi della crisi aggravò la crisi in Zimbabwe. Nel 2000, davanti all’emergere di un forte in Zimbabwe movimento di opposizione, il presidente Robert Mugabe (—>), al pote­ re dal 1980, lanciò una politica di riforma della terra destinata a porre il suo governo in rotta di collisione con la Gran Bretagna, l’ex potenza coloniale, e gli altri governi occidentali. Mugabe decise infatti di proce­ La riforma della terra dere all’esproprio delle grandi imprese agricole (in maggioranza di pro­ di Mugabe prietà di cittadini di origine europea) al fine di redistribuire le loro ter­ re tra i contadini neri, senza pagare alcun indennizzo ai proprietari. Questa politica, che mirava a riconquistare consenso per il governo tra l’elettorato, si associò a una campagna di violenza lanciata contro gli esponenti e i sostenitori dell’opposizione. In questo modo, Mugabe e la Zimbabwe African National Union-Patriotic Front (ZANU-PF) riu-

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scirono a mantenere saldamente nelle loro mani il potere fino alla fine del primo decennio del Duemila, nonostante le sanzioni «intelligenti» adottate da Unione europea e Stati Uniti e la grave crisi economica che Escalation si era impadronita dello Zimbabwe. Alla fine del 2008, tuttavia, l’esca­ della violenza lation della violenza nel Paese costrinse Mugabe ad accettare la media­ e mediazione zione del Sudafrica e la creazione di un governo di unità nazionale coi del Sudafrica rappresentanti dei partiti di opposizione. Questi ultimi si fecero tutta­ via trovare impreparati alle elezioni del 2013, che Mugabe e la ZANUPF poterono quindi vincere facilmente. In Africa occidentale a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila si re­ gistrò una recrudescenza del conflitto in Liberia, cui venne posto fine solo nel 2003 con l’uscita dalla scena di Charles Taylor (->-), il capo di un movimento di ribelli che nel 1997 era stato eletto alla presidenza del La guerra civile in Costa Paese. Nel 2002 la Costa d’Avorio entrò invece in una spirale di guerra d'Avorio e l'intervento civile, in seguito al tentativo del governo di riconquistare il consenso tra dell'esercito francese gli elettori facendo leva sulla carta dell’autoctonia. Così, in un Paese tra­ dizionalmente meta di una forte immigrazione dai Paesi confinanti, vennero gettate le premesse per lo scoppio di un conflitto che, al di là di una parentesi tra 2007 e 2010, si sarebbe trascinato fino all’intervento dell’esercito francese nel 2011. Tale intervento condusse all’arresto del presidente Laurent Koudou Gbagbo (->-), uscito sconfitto dalle elezioni del 2010, e all’investitura a presidente di Alassane Ouattara (->-). A metà del primo decennio del nuovo secolo divenne incandescente Il conflitto armato nella regione sudanese anche il conflitto armato nella regione sudanese del Darfur. Proprio del Darfur mentre il governo di Khartoum firmava un accordo di pace che poneva fine alla ventennale guerra civile nel sud del Paese (accordo che avreb­ bero portato nel 2011 all’indipendenza del Sud Sudan in seguito a un re­ ferendum per l’autodeterminazione), nella regione orientale del Darfur esplodeva un’insurrezione da parte di alcuni gruppi armati, insurrezio­ La brutale repressione ne brutalmente repressa dall’esercito sudanese e da una serie di milizie dell'esercito filo-governative. Il conflitto in Darfur, che affondava le radici nella marginalizzazione politica ed economica di una regione del Sudan in cui gli effetti del processo di desertificazione avevano acuito le tensioni tra le popolazioni nomadi dedite alla pastorizia e quelle che praticavano L'attenzione l’agricoltura, attirò una forte attenzione internazionale e condusse dap­ internazionale prima l’Unione africana (—>-), nel 2004, e poi le Nazioni Unite, nel 2007, e le operazioni di pace a intraprendere operazioni di pace che, dopo forti rimostranze, il gover­ no sudanese si vide costretto ad accettare. Fu proprio nel tentativo di dare risposta all’instabilità militare in un contesto internazionale poco attento alle esigenze del mantenimento della sicurezza in Africa che prese avvio il processo che avrebbe porta­ to nel 2002 al passaggio dall’Organizzazione dell’Unità africana (->-), L'Unione Africana: creata nel 1963, all’Unione Africana (UA), Tra gli obiettivi dell’UA vi obiettivi e limiti sono la promozione della democrazia e del rispetto dei diritti umani e la creazione di un sistema di sicurezza collettivo africano, con la possi­ bilità di intervenire nei conflitti interni ai Paesi nei casi di genocidio, crimini di guerra (-^-) e crimini contro l’umanità (—>). Nel 2001 fu istituita anche la New Partnership for Africa’s Development (—►), un programma di riforme e aiuti economici ai Paesi dell’Africa che i Paesi

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del G8 (—►), l’Unione europea, ma anche Cina e Giappone si impegna­ rono a sostenere. La realizzazione della politica di sicurezza collettiva dell’UA è stata tuttavia ostacolata da una serie di fattori, come la gravità dei conflitti, le divisioni politiche tra i governi africani e la scarsità di risorse umane e materiali a disposizione dell’organizzazione. Così, TUA non è riuscita a fornire una risposta rapida ed efficace al conflitto in Mali tra il 2012 e il 2013, finendo per essere scavalcata dall’intervento militare francese. Anche nel caso dell’attuale conflitto nella Repubblica Centroafricana TUA ha faticato a ripristinare la sicurezza nel Paese, mentre nel caso della Somalia la presenza dei caschi verdi dell’UA si limita essenzial­ mente alla città di Mogadiscio. Se nel corso dell’ultimo decennio alcuni Paesi africani sono stati tea­ tro di gravi conflitti, in altri i processi di democratizzazione hanno po­ sto radici più salde. Oggi nella maggioranza dei Paesi africani la libertà di espressione e il pluralismo politico sono maggiormente tutelati che in passato e lo svolgimento di elezioni regolari è considerata condizione in­ dispensabile per la permanenza o l’ascesa al governo. Tuttavia, le istitu­ zioni della democrazia rappresentativa rimangono vulnerabili non solo alle manipolazioni operate dai presidenti e dai partiti al potere, ma an­ che allo scoppio di violenze provocate dalla competizione elettorale (co­ me avvenuto in Kenya tra il 2007 e il 2008). Mentre i partiti di opposi­ zione faticano in molti Paesi ad articolare proposte politiche alternative al programma attuato dal partito di governo e a radicare la loro presen­ za nelle aree rurali, le sempre più profonde sperequazioni nell’accesso al reddito e ai servizi sociali - in un contesto di forte crescita economica hanno alimentato in molti Paesi un forte astensionismo elettorale. Gli alti tassi di crescita che la maggiore parte dei Paesi africani ha registrato nell’ultimo decennio, complice l’aumento dei prezzi delle materie prime sui mercati internazionali, non si sono infatti tradotti in una diminuzio­ ne significativa dei tassi di povertà. Ancora oggi infatti si stima che il 48% circa della popolazione africana viva sotto la soglia di povertà. Casi emblematici dei problemi che le democrazie in Africa si trovano ad affrontare sono, senza dubbio, Nigeria e Sudafrica. In Nigeria, dove la democrazia multipartitica è stata ripristinata nel 1999 dopo circa due decenni di dittature militari, la diffusa corruzione non solo ha provoca­ to un forte risentimento popolare verso le istituzioni dello stato, ma ha anche costituito un ostacolo formidabile all’utilizzo degli introiti dallo sfruttamento delle risorse petrolifere ai fini della promozione dello svi­ luppo. Due fattori hanno inoltre alimentato instabilità e violenza. In primo luogo, i danni ambientali provocati proprio dall’estrazione del pe­ trolio nella regione del delta del fiume Niger hanno provocato l’emerge­ re di movimenti armati che non hanno esitato a fare ricorso alla violen­ za per sostenere la rivendicazione di maggiori investimenti da parte del governo a favore delle popolazioni locali. In secondo luogo, nel corso dell’ultimo decennio le regioni del nord-est sono state teatro delle attivi­ tà terroristiche di Boko Haram, un movimento islamico radicale che combatte per l’imposizione della sharia in Nigeria. Per quanto fino a questo momento la risposta (inefficace) del governo si sia essenzialmen-

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II processo di democratizzazione

Manipolazioni e violenze

Sperequazioni sociali e povertà

Il caso della Nigeria

Le risorse petrolifere

Instabilità e violenze

L'attività terroristica di Boko Haram

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Il caso del Sudafrica

Le condizioni di vita della maggioranza nera

La questione della proprietà della terra

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te concentrata sulla repressione militare del movimento, gli osservatori sono concordi nel ritenere che la risposta di lungo periodo alle azioni terroristiche di Boko Haram debba passare anche attraverso la realizza­ zione di misure incisive di lotta alla povertà. In Sudafrica il governo non è ancora riuscito colmare l’ampio divario nei livelli di ricchezza tra la maggioranza nera della popolazione e la mi­ noranza bianca lasciati in eredità dal regime dell’apartheid. Nel primo decennio dall’avvio della transizione alla democrazia il governo guidato prima da Nelson Mandela (1994-1999) e poi da Thabo Mbeki (—►19992008) ha perseguito una rigida politica di rigore economico, finalizzata ad attirare gli investimenti stranieri, rinunciando a intraprendere mas­ sicci interventi in campo sociale. Dal 2004, durante il secondo mandato alla presidenza di Mbeki e il primo mandato di Jacob Zuma (—>- 20092014), il governo ha invece inaugurato un aumento della spesa nei setto­ ri sociali, spesa che però ha faticato a tradursi in un miglioramento del tenore di vita della maggioranza della popolazione nera a causa di fatto­ ri quali la fragilità delle istituzioni statali, e in particolare di quelle del governo locale e la frammentazione degli interventi. La questione che più di ogni altra mette a nudo la rinuncia da parte del governo sudafrica­ no guidato d'àWAfrican National Congress ad attuare politiche in grado di promuovere una distribuzione più equa della ricchezza all’interno del Paese è quella della proprietà della terra. Tre sono state le linee lungo cui il governo ha deciso di intervenire al fine di garantire un maggiore accesso alla terra a favore della popolazio­ ne nera, che durante il regime della segregazione e poi quello deWapartheid si era vista massicciamente spogliata di tale risorsa. In primo luo­ go, attraverso un limitato programma di restituzione della terra a coloro cui lo Stato l’aveva espropriata dopo il 1913. In secondo luogo, per mez­ zo di una serie di interventi legislativi volti a garantire una maggiore si­ curezza della proprietà nelle ex-riserve (o bantustan). Da ultimo, me­ diante la promozione dell’acquisto di appezzamenti di terra (a prezzi di mercato) da parte di agricoltori neri. Accanto al fatto che il prezzo della terra è stato tenuto artificialmente alto dalla ritrosia dei proprietari bianchi a cedere almeno parte dei loro appezzamenti, i limitati finanzia­ menti forniti dallo Stato all’acquisto di terre ha fatto sì che la struttura agraria ereditata dall’apartheid venisse solo in parte modificata. A di­ spetto dei limiti e delle contraddizioni della politica economica perse­ guita dai governi negli ultimi due decenni, l’ANC ha vinto con un gran­ de margine le elezioni del maggio del 2014, un segnale inequivocabile della forte legittimità politica di cui il principale movimento di lotta contro il regime di apartheid continua a godere nel Paese. 17.10 I flussi migratori I fenomeni migratori, che negli ultimi vent’anni hanno conosciuto un incremento notevolissimo, non costituiscono un fenomeno nuovo; il XIX e il XX secolo furono entrambi secoli di grandi migrazioni. Con la fine del Novecento, tuttavia, una serie di nuovi sviluppi ha determinato

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un salto di qualità e di scala nella composizione, nella geografia e nelle caratteristiche dei flussi migratori. Innanzitutto il fenomeno della cosid­ detta globalizzazione ha inciso profondamente nell’originarsi delle re­ La globalizzazione centi migrazioni; la diffusione su scala planetaria delle società multina­ zionali e dei mezzi di informazione, gestiti in genere dai Paesi industrializzati, fornisce infatti al mondo intero un modello socio-culturale non sempre condiviso, ma comunque ambito. Inoltre il calo progressivo del­ le nascite nei Paesi industrializzati, a differenza di quanto avviene nelle aree in via di sviluppo, ha prodotto un crescente divario negli assetti de­ Il divario negli assetti mografici del Nord e del Sud del mondo: nel 2000, nei Paesi più indu­ demografici strializzati il numero dei bambini sotto i 15 anni era quasi pari a quello delle persone di età uguale o superiore ai 55 anni (circa il 22% della po­ polazione per ciascuna categoria), mentre i Paesi in via di sviluppo regi­ stravano ancora una quota elevata di bambini, il 35%, e una proporzio­ ne relativamente bassa di anziani (il 10% della popolazione aveva un’età uguale o superiore ai 55 anni). La presenza di un’alta percentuale di popolazione giovane nei Paesi in via di sviluppo, ma soprattutto l’enorme divario di possibilità econo­ miche tra il Nord e il Sud del mondo hanno quindi provocato l’avvio di nuovi e massicci flussi migratori. Mentre all’inizio del Novecento erano I nuovi e massicci flussi soprattutto gli Stati Uniti e i Paesi dell’America Latina a costituire poli migratori d’attrazione per l’emigrazione europea e asiatica, all’inizio del XXI se­ colo la situazione appare del tutto diversa: l’America Latina si è infatti trasformata in terra d’emigrazione, mentre i Paesi dell’Europa, soprat­ tutto occidentale, sono diventati meta di immigrazione. All’inizio del 2011 gli stranieri dimoranti all’interno di uno Stato dell’Unione europea erano oltre 33 milioni, pari al 6,6 % della popolazione della UE a 27; di questi circa due terzi provenivano da Paesi europei non comunitari o da altri Continenti. La stessa Italia, Paese tradizionalmente di emigranti, si è trasformata negli ultimi anni in polo attrattivo per i migranti stranieri, senza tuttavia avere il tempo di predisporre politiche d’integrazione in grado di accogliere l’enorme numero di immigrati che giungono ogni anno sulle sue coste. Nel 2013 erano oltre 5 milioni gli stranieri regolar­ mente presenti in Italia, di cui il 50% circa provenienti dall’Europa, ol­ tre il 22% dall’Africa e il 19% dall’Asia; le comunità più numerose risul­ tavano quella romena, albanese, marocchina e cinese. Un numero sempre crescente di Paesi (compresi quelli del Golfo Per­ sico, dell’Africa orientale e contrale e del sud-est asiatico, mete dei re­ centi flussi) è stato quindi coinvolto nel sistema globale di migrazione, con conseguenze estremamente significative sotto il profilo della stessa composizione delle cittadinanze e delle «società nazionali». Una forte eterogeneità culturale caratterizza infatti i Paesi di immigrazione, men­ tre le nuove tecnologie di comunicazione e la democratizzazione del si­ stema dei trasporti hanno posto le condizioni per la formazione di vere e proprie diaspore transnazionali, consentendo agli emigrati di mante­ nere una presenza all’interno dei Paesi di provenienza. Le differenti cause di migrazione, non più legate solo alle difficoltà economico-lavo­ rative come invece all’inizio del Novecento, hanno prodotto anche di­ Diverse tipologie verse tipologie di migranti: dalla manodopera in cerca di una nuova si- di migranti

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La «femminilizzazione» dei flussi migratori

Il radicamento nei Paesi ospitanti

I flussi finanziari: le rimesse dirette ai Paesi in via disviluppo

Il dibattito sulle rimesse

Il fenomeno dell'immigrazione irregolare

Storia contemporanea

stemazione lavorativa permanente e più vantaggiosa rispetto a quella dei Paesi d’origine, agli intellettuali e ai lavoratori altamente specializ­ zati, sempre più spesso chiamati all’estero in virtù delle loro competen­ ze professionali. L’eterogeneità degli attuali flussi migratori è data an­ che dalla presenza di un numero elevato di rifugiati politici, oltre 45 mi­ lioni nel 2012 secondo il rapporto ONU Global Trends, di emigranti «illegali» e di quelli «stagionali», stimolati dall’andamento ciclico di al­ cuni settori produttivi come l’agricoltura o il turismo. Rispetto al passato, poi, negli ultimi decenni si è verificata una cre­ scente «femminilizzazione» dei flussi migratori. Se tra i migrati di ini­ zio secolo, infatti, due terzi e anche più erano uomini, oggi le donne sono in media la metà del totale. Una delle motivazioni che sottendono agli spostamenti femminili è certamente il ricongiungimento familia­ re, segno quest’ultimo della progressiva stabilizzazione dei migranti nei Paesi stranieri. Mentre all’inizio del Novecento, infatti, gli emigra­ ti uomini spesso facevano ritorno nelle terre d’origine, soprattutto en­ tro cinque anni dalla partenza, oggi si verifica un maggior radicamen­ to dei migranti e delle loro famiglie nei Paesi ospitanti. Ma sempre più spesso si registra un incremento dell’autonoma mobilità femminile, che prende forma all’incrocio tra motivazioni economiche, trasforma­ zioni delle strutture familiari nonché dei rapporti di genere e concreta ricerca di emancipazione. Nei Paesi europei la migrazione femminile si è inserita all’interno del mercato del lavoro domestico e di cura, che ha conosciuto profonde trasformazioni in coincidenza con la crisi dei sistemi di welfare. Un dato notevole che accompagna, molto più che in passato, le mo­ derne migrazioni è la quantità di flussi finanziari da esse prodotti. Le ri­ messe, ossia le somme di denaro inviate dagli emigrati alle loro famiglie in patria, nel 2008 ammontavano a livello mondiale a 337 miliardi di dollari, di cui 305 destinati ai Paesi dei Sud del mondo (quelli che hanno ricevuto più denaro in rimesse sono stati India, Cina, Messico, Filippine e Polonia). Tali somme hanno finito per superare in alcuni casi l’am­ montare complessivo degli aiuti internazionali diretti ai Paesi in via di sviluppo. Sociologi ed economisti hanno ampiamente analizzato il ruolo delle rimesse come possibile volano di sviluppo nei Paesi riceventi, per­ venendo a conclusioni spesso opposte: mentre alcuni ne sottolineano la valenza positiva, altri ne pongono in evidenza i limiti, richiamando ad esempio l’attenzione sui fenomeni inflattivi determinati dalle rimesse nei Paesi riceventi, con la conseguente depressione dello spirito di im­ prenditorialità e iniziativa economica. Il dibattito verte comunque, nel suo insieme, sulla necessità di sviluppare politiche internazionali e na­ zionali adeguate a un fenomeno la cui rilevanza macroeconomica non può più essere negata. Nei Paesi dell’Europa, meta negli ultimi anni di crescenti flussi mi­ gratori, si è avuto un progressivo irrigidimento delle normative sugli ac­ cessi e, anche come conseguenza di ciò, si è verificato un aumento espo­ nenziale del fenomeno dell’immigrazione irregolare, che ha messo a ri­ schio la capacità dei Paesi ospiti di individuare strategie adeguate di accoglienza. Sia i modelli di integrazione «repubblicana» (come per

I! XXI secolo

esempio quello francese), sia i modelli di integrazione «multiculturale» (come per esempio quello britannico) si vengono a trovare oggi di fronte a sfide inedite; i numerosi episodi di tumulti e rivolte nelle città inglesi a maggior presenza di immigrati, come Bradford e Liverpool, o nelle banlieues francesi hanno segnato la crisi sia dell’«integrazionismo» britan­ nico, sia del modello «assimilazionista» francese. Del resto, le tradizio­ nali politiche di gestione delle migrazioni, come quella del sistema delle quote, hanno via via mostrato i propri limiti di fronte alle profonde tra­ sformazioni del sistema economico, dove la domanda di forza lavoro mi­ grante si è fatta sempre più flessibile e difficilmente calcolabile, fino a rendere funzionale per taluni settori dell’economia la presenza di un’ampia riserva di migranti privi delle tutele e dei diritti collegati al re­ golare permesso di soggiorno. Si è venuta così a creare una filiera spesso drammatica in cui ai flussi migratori «illegali» si è risposto con la creazione di sistemi sempre più rigidi di raccolta e rimpatrio dei migranti in condizioni di irregolarità; a sua volta questo ha favorito la ricerca, da parte dei migranti, di metodi d’ingresso sempre più rischiosi, gestiti spesso da organizzazioni crimi­ nali. Un’autentica odissea, con costi elevatissimi in termini economici e di rischio per la vita stessa, è quella che sperimentano le migliaia di afri­ cani, provenienti sia dall’Africa sub-sahariana sia dal Maghreb, che ogni anno tentano di raggiungere i Paesi europei attraverso le rotte del Mediterraneo. Secondo l’agenzia ONU per i rifugiati, solo nel 2014 furono ol­ tre 200.000 i migranti che tentarono di attraversare il Mediterraneo e 3.419 morti in mare durante la traversata. In attesa che la U E metta in campo una politica davvero efficace per impedire il fenomeno dell’immigrazione clandestina, senza tuttavia bloccare l’accesso dei richiedenti asilo politico e di quanti cercano in Europa migliori condizioni di vita e di lavoro, è stata l’Italia, le cui coste rappresentano uno dei principali punti d’ingresso dei migranti prove­ nienti dal continente africano, ad attuare tra il 2013 e il 2014 una vasta operazione di salvataggio in mare dei migranti. Scaturita dalla tragedia di Lampedusa del 3 ottobre 2013, quando affondò un’imbarcazione libi­ ca usata per il trasporto di migranti provocando la morte accertata di 366 persone, l’operazione Mare Nostrum è consistita in una missione militare e umanitaria realizzata dalla Marina e dall’Aeronautica italia­ ne con l’obiettivo di far fronte allo stato di emergenza intorno al canale di Sicilia e di prestare soccorso ai migranti. Si è conclusa il 1° novembre 2014 ed è stata sostituita dall’operazione congiunta Triton che, coordi­ nata dall’agenzia europea Frontex e guidata dall’Italia, ha visto la parte­ cipazione di 21 Stati membri della UE. Gli interventi umanitari e la sorveglianza dei traffici illegali connessi alla tratta dei migranti sono tuttavia solo alcuni dei compiti che spettano oggi all’Unione europea e ai singoli Paesi membri per fronteggiare le numerose sfide portate dalle migrazioni contemporanee. L’individua­ zione di nuovi modelli di convivenza e cittadinanza, capaci di integrare e far convivere pacificamente gruppi differenti sul piano linguistico, et­ nico e religioso, rappresenta uno dei terreni politicamente più rilevanti per l’Europa del prossimo futuro.

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Crisi dei modelli di accoglienza e integrazione

La migrazione attraverso il Mediterraneo

Le operazioni di salvataggio in mare dei migranti

La sfida dell'integrazione pacifica

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Storia contemporanea

17.11 La politica italiana tra continuità e rotture

Le elezioni del 2001 e la vittoria del centro-destra

Il nuovo governo Berlusconi

Le polemiche sulle leggi adpersonam e sulla «finanza creativa»

Nell’aprile del 2000 il presidente del Consiglio Massimo D ’Alema, leader dei Democratici di sinistra, decise di rassegnare le dimissioni do­ po la pesante sconfitta subita dallo schieramento di centro-sinistra alle elezioni regionali. Sebbene non fosse un atto dovuto ma solo un gesto dettato da sensibilità politica, il capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi (->-), che era stato eletto alla presidenza della Repubblica nel maggio 1999, accolse le dimissioni e conferì il mandato a Giuliano Amato (—►), esponente della maggioranza parlamentare, nell’intento di portare la le­ gislatura al suo termine naturale, cosa che in effetti avvenne. Fu il nuovo esecutivo ad approntare la riforma del Titolo V della Costituzione in merito alla disciplina delle autonomie locali; votata in Parlamento dalla maggioranza, la legge fu poi sottoposta a referendum confermativo nell’ottobre 2001 e approvata col 64% dei consensi. Nel maggio di quello stesso anno le elezioni politiche avevano dato una vittoria netta allo schieramento di centro-destra guidato da Silvio Berlusconi: alla Camera ottenne 360 deputati contro i 242 del centro-si­ nistra, al Senato 177 senatori contro 125. Il nuovo governo Berlusconi, sostenuto dai tradizionali alleati di Forza Italia compresa la Lega Nord, si apprestava a governare per l’intera legislatura, anche se non sarebbero mancate polemiche e tensioni che col tempo produssero un calo di con­ sensi verso la leadership berlusconiana. Tra le più controverse fra le leg­ gi proposte vi fu il cosiddetto lodo Schifani, dal nome del senatore di Forza Italia Renato Schifani (->-), che intendeva sollevare da possibili processi penali le alte cariche dello Stato, ovvero i presidenti della Re­ pubblica, del Senato, della Camera dei Deputati, del Consiglio dei Mini­ stri e della Corte Costituzionale. Siccome il presidente del Consiglio era oggetto di diversi procedimenti penali, il provvedimento, varato nel giu­ gno 2003, fu duramente attaccato dalle opposizioni che lo definirono una legge ad personam; venne tuttavia dichiarato incostituzionale e an­ nullato dalla Consulta l’anno successivo. Alle polemiche suscitate da questo e da altri provvedimenti, come la riforma del sistema radiotelevisivo, si aggiunsero ben presto quelle le­ gate alla politica economica del ministro dell’Economia Giulio Tremonti (->-). Mentre infatti cominciavano ad apparire i primi sintomi di una crisi economica generale e l’Unione europea chiedeva il conteni­ mento della spesa pubblica, Tremonti promosse una serie di misure (defiscalizzazioni, riduzioni e abolizioni di imposte) che furono defini­ te dai suoi detrattori, presenti anche all’interno della maggioranza, «fi­ nanza creativa». Le difficoltà della maggioranza di centro-destra ap­ parvero poi evidenti dall’esito delle elezioni europee e di quelle ammi­ nistrative del giugno 2004: in queste ultime, infatti, il centro-sinistra conquistò 52 province su 63 e 22 comuni su 30. Un ulteriore smacco il centro-destra lo subì due anni dopo, quando in un nuovo referendum confermativo la legge di riforma costituzionale che era stata varata dal governo Berlusconi fu respinta dal 61% dei votanti; si trattava di una ri­ forma fortemente voluta dalla Lega Nord, in omaggio alle sue tradizio­ nali istanze di federalismo, ma che toccava anche nodi delicati dell’equi­

Il XXI secolo

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librio costituzionale, come i ruoli del presidente della Repubblica e del Consiglio. In precedenza, nel dicembre 2005, l’esecutivo aveva appro­ La controversa riforma vato un’altra riforma estremamente controversa e osteggiata dal cen­ elettorale tro-sinistra, quella relativa al sistema elettorale: introduceva un sistema formalmente proporzionale ma di fatto corretto dalla presenza di so­ glie di sbarramento e premi di maggioranza. Nel Paese intanto cominciavano a farsi sentire gli effetti della crisi economica e del calo della produzione industriale, con una crescente di­ varicazione della forbice sociale tra la fascia più benestante della popo­ lazione e quella meno abbiente. E quando si arrivò, nell’aprile 2006, alle Le elezioni del 2006 elezioni politiche, la vittoria, seppure con una maggioranza risicatissima, toccò allo schieramento di centro-sinistra guidato da Romano Pro­ di. Con il 49,8% dei voti ottenne, grazie al premio di maggioranza previ­ sto per la Camera, 348 deputati, a fronte dei 281 della coalizione di cen­ tro-destra (49,7% dei voti); assai più problematica la situazione al Senato, dove il centro-sinistra ebbe 158 seggi e la Casa delle Libertà, la coalizione guidata da Berlusconi, 156. In questo clima estremamente te­ so, anche a causa della contestazione dei risultati elettorali, il 10 maggio fu eletto alla presidenza della Repubblica Giorgio Napolitano (->-): un­ dicesimo capo dello Stato nella storia repubblicana, fu il primo uomo politico proveniente dal Partito comunista a ricoprire questo incarico. Nel nuovo esecutivo Prodi emersero fin da subito i tanti problemi do­ Il nuovo governo Prodi vuti alla maggioranza molto eterogenea che lo sosteneva: Democratici di sinistra, Rifondazione comunista, radicali, Verdi, Margherita, il partito che nel 2002 aveva unito le diverse aree cattoliche progressiste, e mode­ rati dell’Unione dei democratici per l’Europa (UDEUR), partito fondato nel 1999 da Clemente Mastella (—►). Il fatto che fosse il governo più nu­ meroso della Repubblica, 103 fra ministri, viceministri e sottosegretari, era solo uno degli indicatori della sua estrema fragilità. Dopo nemmeno due anni dal suo insediamento, segnati da tensioni crescenti alFinterno della stessa coalizione, l’uscita dalla maggioranza dell’UDEUR costrin­ se Prodi alle dimissioni e il ricorso ad elezioni anticipate. Le elezioni del 2008 videro fronteggiarsi il leader del centro-destra Le elezioni del 2008 Berlusconi e Walter Veltroni (—►), alla guida del nuovo Partito demo­ cratico, sorto dall’unione tra la Margherita e i Democratici di sinistra. Sul fronte opposto Berlusconi aveva dato vita al Popolo della libertà, nel quale si fondevano Forza Italia, Alleanza Nazionale e alcuni partiti mi­ nori. In occasione delle elezioni quest’ultimo si alleò nei collegi setten­ Nuovi partiti trionali con la Lega Nord e in quelli del Mezzogiorno col Movimento e coalizioni per le Autonomie, mentre a fianco del Partito democratico, dove conflu­ irono anche i radicali, si schierò il Partito dell’Italia dei Valori fondato da Antonio Di Pietro, che nel frattempo aveva lasciato la magistratura. Fuori dalle due coalizioni principali rimasero i gruppi della sinistra ra­ dicale, i Verdi, i socialisti e l’Unione dei Democratici Cristiani di Pierferdinando Casini (—►). Al termine di una campagna elettorale molto tesa, ampiamente monopolizzata dai talk show televisivi e giocata dai partiti maggiori sul principio del «voto utile», le elezioni dell’aprile 2008 assegnarono una vittoria più che netta al centro-destra: 46,8% dei voti per la Camera e 47,3% per il Senato.

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Storia contemporanea

Nuovamente guidato da Berlusconi, l’esecutivo di centro-destra ope­ rò interventi in diversi settori (abolizione della tassa sulla prima casa, ri­ forma del sistema universitario, potenziamento delle fonti di energia rinnovabili, inasprimento delle norme per contrastare l’immigrazione clandestina) e ripropose anche una legge non dissimile dal lodo Schifani per sospendere gli eventuali processi a carico delle alte cariche dello Stato; come la precedente, fu comunque annullata dalla Corte Costitu­ zionale. La spinta riformatrice del governo - che si vide in parte anche nella rapida ricostruzione delle zone dell’Abruzzo colpite da un terribile terremoto nell’aprile 2009, ricostruzione che tuttavia ha evidenziato la­ Gli effetti della cune e falle nel medio periodo - si trovò ben presto a fare i conti con gli recessione globale effetti della recessione economica globale partita nel 2007-08. Nel corso sull'economia italiana del 2009, infatti, anche l’economia italiana, analogamente a quanto sta­ va accadendo alle altre grandi economie trainate dalle esportazioni, re­ gistrò un forte calo del PIL (-5%), con conseguente contrazione del mer­ cato del lavoro, aumento della disoccupazione (7,8%) e riduzione dei I problemi strutturali consumi; a ciò si aggiungevano problemi più strutturali come un debito pubblico elevato, un’evasione fiscale tra le più alte d’Europa, un livello di corruzione nella pubblica amministrazione valutato intorno ai 50/60 miliardi l’anno. Tutti fattori che, oltre a incidere negativamente sulla quota degli investimenti esteri in Italia, determinarono una crescente sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni e della classe politica. Nascita Fu in questo contesto che il quadro politico si arricchì di un nuovo del Movimento 5 Stelle raggruppamento: nell’ottobre 2009 l’ex comico Beppe Grillo (—►) fon­ dò il Movimento 5 Stelle, sulla scia dell’esperienza maturata con un gruppo politico già attivo dal 2005. Proponendosi come voce nuova del­ la politica, lontana dalla «casta» dei partiti tradizionali, il Movimento di Grillo si caratterizzò fin da subito per una forte connotazione anti-partitica e per l’ambizione di stimolare, attraverso il suo sito internet, una forma di democrazia diretta contrapposta ai meccanismi della democra­ zia rappresentativa. Nel frattempo cambiava, in parte, la situazione an­ che all’interno dei due schieramenti principali: nell’ottobre 2009 Pierlui­ gi Bersani (—*-) divenne segretario del Partito democratico, mentre l’an­ no successivo Gianfranco Fini fu di fatto estromesso dal Popolo della li­ bertà e diede vita ad un gruppo parlamentare autonomo. Oltre alla «defezione» del gruppo finiano e all’emergere di una se­ rie di scandali riguardanti la vita privata del presidente del Consiglio, a mettere in grave difficoltà Berlusconi e il suo governo fu il precipita­ re della crisi economica, registrata nel corso del 2010-11 da tutti i prin­ La crisi dello spread cipali indicatori macroeconomici. La situazione raggiunse il calor bianco nell’estate del 2011, quando il differenziale, o spread, tra i buo­ ni del tesoro decennali italiani e quelli tedeschi arrivò ad oltrepassare i 400 punti. Mentre i mercati e gli investitori internazionali guardava­ no con crescente preoccupazione lo stato dell’economia italiana, la Banca centrale europea chiese all’Italia di anticipare al 2013 il pareg­ gio di bilancio previsto per il 2014, insieme a una serie di interventi ur­ genti come la riduzione di deficit e spesa, la riforma del mercato del la­ voro e del sistema pensionistico. Le risposte del governo non bastaro­ no a tranquillizzare i mercati e a metà novembre, con uno spread Il governo Berlusconi

Il XXI secolo

ancora fuori controllo che arrivò a toccare la quota record di 552 pun­ ti, Berlusconi rassegnò le dimissioni. Con l’obiettivo di costituire un governo di tipo «tecnico» e non poli­ tico in grado di sistemare i conti pubblici e ridare credibilità all’Italia in Europa, il presidente della Repubblica Napolitano decise di affidare il mandato a Mario Monti (—►), già commissario europeo tra il 1995 e il 2004 e da poco nominato senatore a vita. Formato da una squadra di ministri provenienti dal mondo universitario, dalla pubblica ammini­ strazione e dagli ambienti della finanza, l’esecutivo Monti trovò in Par­ lamento il sostegno delle cosiddette «larghe intese», ovvero Popolo della libertà, Partito democratico e UDC. Potè quindi realizzare una serie di provvedimenti incisivi, alcuni dei quali però molto controversi, come la riforma del sistema pensionistico; venne inoltre ripristinata la tassa sulla prima casa, furono attuate misure per riattivare la crescita e introdotti tagli per gli enti locali e le amministrazioni centrali dello Stato. Nell’opinione pubblica, tuttavia, il fuoco dell’antipolitica non si era spento, come dimostrarono prima la conquista del Comune di Parma da parte del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, nelle elezioni ammi­ nistrative del maggio 2012, e poi l’esito delle elezioni politiche del feb­ braio 2013. Alla competizione elettorale parteciparono lo schieramen­ to di centro-destra, sempre guidato da Berlusconi e formato da Popolo della libertà, Lega Nord e partiti minori, la coalizione di centro-sini­ stra, con il PD e gli altri partiti uniti sotto la leadership di Bersani, che nelle primarie per l’individuazione del candidato premier aveva battu­ to il sindaco di Firenze Matteo Renzi (->-), e il Movimento 5 Stelle, che scelse di far comporre le liste elettorali direttamente dai suoi so­ stenitori attraverso la rete internet. Anche Monti, dimessosi da presi­ dente del Consiglio, decise di scendere nell’arena politica costituendo un partito denominato Scelta Civica, che si alleò con l’Unione di Cen­ tro di Casini e con Futuro e Libertà, il gruppo politico creato da Fini dopo la sua uscita dal PdL. L’esito delle elezioni sancì, a sorpresa, che nessuna delle coalizioni aveva ottenuto una vittoria netta. Il centro-sinistra ebbe infatti la mag­ gioranza relativa dei voti (29,5% alla Camera dei deputati e 31,6% al Se­ nato), ma al prezzo di un forte calo di consensi per il PD; in perdita an­ che tutti i partiti del centro-destra, mentre la coalizione di Monti si fer­ mò al 10,5% (alla Camera). Il vero «vincitore» risultò quindi il Movimento di Grillo che, correndo per la prima volta in una competi­ zione nazionale e senza alleati, ottenne il 25,5% delle preferenze alla Camera e il 23,8%, al Senato. L’astensionismo al 25%, il più alto mai re­ gistrato nella storia repubblicana, rese paradossalmente il «partito degli astenuti» il quarto soggetto di questa competizione. Al problema concreto dell’ingovernabilità, con tre forze politiche impossibilitate a governare senza stabilire una qualche forma di allean­ za, si aggiungeva poi il delicato appuntamento, di lì a pochi mesi, dell’elezione del presidente della Repubblica. In quell’occasione, il 1820 aprile 2013, il partito di Bersani, che pure aveva ricevuto da Napoli­ tano il mandato esplorativo per formare il nuovo governo ma senza riu­ scirvi, dimostrò di avere al proprio interno tensioni e fratture difficili

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Il governo «tecnico» di Monti

Le elezioni del 2013

Calo dei consensi peri partiti tradizionali e astensionismo

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Vimpasse parlamentare e la rielezione di Napolitano

Il governo delle «larghe intese» di Letta

La decadenza dalla carica di senatore di Berlusconi

Il cambiamento interno al PD

Il governo Renzi

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da sanare. Falliti i primi tre scrutini, dove è necessaria la maggioranza dei due terzi dei cosiddetti «grandi elettori», al quarto, dove basta quel­ la assoluta, Bersani, in accordo col suo partito, pose la candidatura di Romano Prodi; ma nella votazione (a scrutinio segreto) 101 elettori del Partito democratico «tradirono», portando così all’affossamento della candidatura del fondatore dell’Ulivo. In questa situazione di stallo i principali partiti, ma non il Movimento 5 Stelle, si accordarono per chiedere al presidente uscente di accettare un secondo mandato: Gior­ gio Napolitano risultò quindi rieletto, al sesto scrutinio, con 738 voti. L’altra grave impasse, quello della formazione dell’esecutivo, fu su­ perato grazie alla decisione di costituire un nuovo governo delle «larghe intese» alla cui guida Napolitano, dopo le consultazioni di rito, chiamò Enrico Letta (-*-), vicesegretario del PD; lo sostennero tutti i principali partiti a eccezione del Movimento 5 Stelle e di Sinistra Ecologia e Li­ bertà, partito che aveva corso alle precedenti elezioni in coalizione col PD. Mentre la recessione economica continuava a causare alti tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile, e grande malessere sociale, le fi­ brillazioni politiche si ripresentarono nell’estate del 2013. La Corte di Cassazione confermò, infatti, la condanna a quattro anni di reclusione per Silvio Berlusconi nel processo sui diritti televisivi Mediaset, una sentenza definitiva arrivata dopo dieci anni di indagini e scontri giudi­ ziari e politici. Ad aggravare la posizione del leader del PdL si aggiunge­ va la legge, varata dal governo Monti nel 2012 e votata dal suo stesso partito, che prevede il divieto di ricoprire cariche elettive e di governo per quanti hanno ottenuto una condanna penale in via definitiva. Nono­ stante le proteste di Berlusconi e dei suoi sostenitori, che definirono la legge «anticostituzionale» e ne contestarono la retroattività, il 27 no­ vembre 2013 il Senato votò a favore della sua decadenza dalla carica di senatore; dopo quasi vent’anni di presenza ininterrotta in una delle due Camere, Berlusconi cessava di essere un parlamentare. La sua uscita di scena non fu comunque definitiva; qualche giorno prima, tra l’altro, ave­ va deciso di ricostituire Forza Italia, dove confluì la maggioranza degli esponenti del Popolo della Libertà dopo la scissione del gruppo guidato da Angelino Alfano (—>■), favorevole a continuare a sostenere il gover­ no Letta, che diede vita al partito del Nuovo Centrodestra. Le cose cambiarono ben presto anche all’interno del Partito demo­ cratico. A dicembre infatti, nelle elezioni primarie per determinare il segretario del partito, vinse Matteo Renzi, cresciuto politicamente all’interno della Margherita, già presidente della provincia di Firenze e sindaco del capoluogo toscano. Solo due mesi dopo, la direzione del PD votò a larghissima maggioranza un documento presentato dal neosegre­ tario in cui si affermava «l’urgenza di aprire una fase nuova, con un nuo­ vo esecutivo che abbia la forza politica per affrontare i problemi del Paese con un orizzonte di legislatura». Immediate e «irrevocabili» arri­ varono quindi le dimissioni del capo del governo Letta. Renzi, divenuto presidente del Consiglio all’età di 39 anni, il più gio­ vane della storia italiana, si insediò il 22 febbraio 2014, con una squadra di 15 ministri, di cui 8 donne e un’età media complessiva di 47 anni; quello di «rottamare» i leader politici tradizionali era stato, del resto, un

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cavallo di battaglia di Renzi sin dal 2010. Abile e carismatico comunica­ tore, decisionista, convinto della necessità di rinnovare il profilo politi­ Programma co e ideologico della sinistra italiana, il nuovo presidente del Consiglio di rinnovamento iscrisse fin da subito nella sua agenda alcune fondamentali riforme e riforme strutturali: quella della legge elettorale (urgente anche perché la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità di alcune norme della leg­ ge del 2005), la riforma dell’assetto istituzionale dello Stato (con la fine del «bicameralismo perfetto» e la trasformazione del Senato in Camera delle Regioni), la riforma del mercato del lavoro, della scuola e della giu­ stizia. Per le prime due cercò un accordo con il principale leader dell’op­ posizione, ossia Berlusconi, attraverso quello che fu definito «patto del Nazareno», dal luogo in cui si trova, a Roma, la sede del Partito demo­ cratico e dove si svolse il primo incontro ufficiale fra i due leader. Pur ri­ cevendo numerose critiche a causa del «patto» anche all’interno del suo stesso partito, Renzi ottenne un’importante conferma dagli elettori in occasione delle elezioni europee del maggio 2014, quando il Partito de­ mocratico raggiunse il 40,8% dei consensi. Forte di questo risultato, ma altresì duramente contestato da alcuni La contestata riforma settori del PD e dalla CGIL per la riforma del lavoro, il cosiddetto jobs del lavoro act riguardante il regime dei licenziamenti, le tipologie contrattuali, gli ammortizzatori sociali, Renzi conseguì un altro importante successo all’inizio del 2015 in occasione dell’elezione del presidente della Repub­ blica. Dimessosi Napolitano, come aveva annunciato fin dal momento della sua rielezione, erano in molti, sulla stampa e negli ambienti politi­ ci, a ipotizzare che l’accordo sul nuovo capo dello Stato sarebbe rientra­ to nel «patto del Nazareno», ovvero scaturito dall’intesa fra Renzi e Berlusconi. Il presidente del Consiglio lo negò sempre e, fermo nella sua posizione, propose ai «grandi elettori» del suo partito la candidatura di Sergio Mattarella, membro della Corte Costituzionale e più volte mini­ L'elezione a presidente stro. Sostenuto da tutti i partiti della maggioranza di governo (PD, di Mattarella UDC, NCD e gruppi minori) e da Sinistra Ecologia Libertà, Mattarella risultò eletto, al quarto scrutinio, il 31 gennaio 2015 con 665 voti, ben ol­ tre la maggioranza assoluta richiesta.

mondo 1915-2015

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1 - T ogo (Ger.)

6 - R h o d esia S etten trio n ale ( G .B.)

2 - G u in e a (Spa.)

7 - N yassaland ( G .B.)

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8 - R h o d esia M erid io n ale ( G .B.)

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7 - G u in e a E q u ato riale

4 - R u an d a

8 - Sao T o m e e Principe

Oceano Pacifico

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EUROPA NEL 2015

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5 - N u o v a C aled o n ia (Fr.)

3 - S am oa am ericane (U sa)

7 - S am oa (N .Z .)

4 - N iu e (N Z .)

8 - N a u ru (Ger.)

6 - Pitcairn (G .B .)

Iso le Hawaii ^ (U SA )

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*

OCEANIA NEL 2015

Bibliografia

Una bibliografìa esaustiva per tutti gli argomenti trattati sarebbe im­ pensabile in termini di spazio e, in ogni caso, diffìcilmente potrebbe aspirare alla completezza. Si è scelto quindi di offrire alcune indicazioni bibliografiche seguendo come riferimento i temi proposti nei percorsi di lettura (a p. XIII). Sistema politico italiano (età liberale, fascista e repubblicana)

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448

Storia contemporanea

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Sistema politico dell’Impero ottomano

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Questione irlandese e Irlanda

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Dalla Jugoslavia alla balcanizzazione della regione B ianchini S., Sarajevo: le radici dell’odio. Identità e destino dei popoli balcani­ ci, Roma, Edizioni Associate, 20033 Caccamo D., Introduzione alla storia dell’Europa orientale, Roma, Carocci, 2001 P rivitera F., Jugoslavia, M ilano, Unicopli, 2007 Valota B., Storia dell’Europa orientale, M ilano, Jaca book, 1993

La politica internazionale dall’Ottocento al Novecento Di N olfo E., Storia delle relazioni internazionali: dal 1918 ai giorni nostri, R o­ ma-Bari, Laterza, 20155 F ormigoni G., Storia della politica internazionale nell’età contemporanea, Bo­ logna, Il Mulino, 20062 M acG regor K., Destino comune. Dittatura, politica estera e guerra nell’Italia fascista e nella Germania nazista, Torino, Einaudi, 2003

449

450

Storia contemporanea

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Dinamiche e conseguenze della decolonizzazione in Asia e Africa B etts R.F., La decolonizzazione, Bologna, Il Mulino, 20072 D roz B., Storia della decolonizzazione nel X X secolo, Milano, Bruno Mondadori, 2007 F rey M., Storia della guerra in Vietnam. La tragedia in Asia e la fine del sogno americano, Torino, Einaudi, 2008

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Lo scenario mediorientale E miliani M., R anuzzi D e ’ B ianchi M., A tzori E., Nel nom e di Omar. R ivo­ luzione, clero e potere in Iran, Bologna, Odoya, 2008 K epel G.,Jihad. Ascesa e declino. Storia del fondam entalism o islamico, Roma, Carocci, 2004 Morris B., Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Milano, Riz­ zoli, 2005 O wen R., Stato, potere e politica nella form azione del Medio Oriente moderno, Bologna, Il Ponte, 2005

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451

Indice dei nomi

A Abd al-Karim Qassem, 265 Abd A llah di Transgiordania, 245 Abd al-Nasser Gam al, 257, 263-265, 304-305 A bdulham ìd II, 57,122 Abu M azen [Mahmoud Abbas], 387, 415 Acerbo Giacomo, 137 Acheson D ean, 217-218, 241 A denauer Konrad, 221, 228-229, 242, 272, 295,323 Adorno Theodor, 145 A hm adinejad M ahmud, 391 al Banna Hassan, 265 al Bashir Omar, 393 al-Assad Bashar, 418-419 al-Baghdàdl A buB akr, 419 al-Gaylani Rashid Alì, 188 Alessandro I Romanov, 4 Alessandro II Romanov, 53-54 Alessandro III Romanov, 54 Alexander Harold Rupert, 199 Alfano Angelino, 432 Alfonso X II di Borbone, 50 Alfonso X III di Borbone, 166 al-Ghannùshl Rashid, 416, al-Husseini Haji A m in, 188 Allende G. Salvador, 290-291, 326 A lm irante Giorgio, 276 al-SlsI Abd al-Fattah, 418 Altissimo Renato, 372 al-Zarqawi Abu Musab, 414 A m ato Giuliano, 428 Am edeo d’Aosta, 136 Am edeo Ferdinando di Savoia, 50 Andreeva Nina, 351 A ndreotti Giulio, 327, 369 Andropov Jurij, 348 A rafat Yasser, 305,384, 387,415 A rendt H annah, 143 Armellini Carlo, 10

Attlee Clement, 202,253,283-284,330 A zana Manuel, 166

B Bachelet Vittorio, 328 Baden Max von, 125 Badoglio Pietro, 196,198 Bagehot Walter, 25 B akunin Michail Aleksandrovic, 32 Balbo Italo, 136 Baldwin Stanley, 162 Basaev Samil, 407 Basile Carlo Emanuele, 281 Batista Fulgencio, 289 Bava Beccaris Fiorenzo, 80 Beauvoir Simone de, 316-317 Bebel August, 37,106 Begin Menachem, 307, 330 Ben Ali Zine El-Abidine, 416, Ben Gurion David, 247 Benedetto XV [Giacomo della Chiesa], 108, 111 Benedetto X V I [Joseph Ratzinger], 410 Berchtold Leopold,, 103 Berezovskij Boris Abramovic, 407 Berija Lavrentij Pavlovic, 259 Berlinguer Enrico, 326-327, 362-363, 369 Berlusconi Silvio, 373,428-433 Bernstein Eduard, 18,106 Bersani Pierluigi, 430-432 Beveridge William Henry, 17,211,284 Bevin Ernest, 214 Biagi Marco, 328 Bianchi Michele, 136 Bin Laden Osama, 392-393,413, 420 Bismarck-Schònhausen O tto von, 31-32,35-40, 75-76, 82,100-101 Bissolati Leonida, 104 Blanc Louis, 6-7 Blum Léon, 159,165

454

Indice dei nomi

Bonar Law Andrew, 161,170 Bonomi Ivanoe, 135-136,198 Bordiga A m adeo, 108,135 Borsellino Paolo, 372 Bossi Um berto, 371, 373 Botha W. Pieter, 378 Bouazizi Mohammed, 415 Boulanger Georges, 34 Bouteflika Abdelaziz, 416 Bozzi Aldo, 370 Brandt Willy, 323, 329, 355 Bresci Gaetano, 80 Breznev Leonid Il’ic, 315,323,329, 340-341, 348, 353 Briand A ristide, 173-174 Briining Heinrich, 129-130 Bucharin Nikolaj Ivanovic, 148-151 Biilow B ernhard von, 82-83 Bush George H erbert Walker, 353, 357,384, 413 Bush George Walker jr„ 387, 393-395, 397-399, 405,413 Byrnes James, 214

C Caballero Francisco Largo, 167 Cadorna Luigi, 109-110,112 Caetano Marcelo, 338 Cairoli Benedetto, 44, 47 Calabresi Luigi, 325 Canovas del Castillo Antonio, 50-51 Càrdenas Làzaro, 68, 289 Carlo A lberto di Savoia, 9-10 Carlo I d’Austria, 111 Carlos M aria Isidoro di Borbone, 49 C arrillo Santiago, 363 C arter Jam es Earl [Jimmy], 307, 329-330, 344,347 Casini Pier Ferdinando, 429,431 Castlereagh R obert Stewart, 5 Castro Fidel, 258,289-290,292 C attaneo Carlo, 9 Cavaignac Louis-Eugène, 7 Cavallotti Felice, 47,49 Cavour Camillo Benso, conte di, 30, 41-45 Ceaujescu Nicolae, 341, 358 Cernenko Konstantin Ustinovic, 348, Chamberlain A rthur Neville, 162,179

Chamberlain Houston Stewart, 89 Chamberlain Joseph, 27-28 Cheney Richard Bruce [Dick], 398 Chiang Kai-shek [Jiang Jieshi], 216, 238-239, 241 Chruscèv Nikita Seergevic, 230,236, 259-262,267,280,289,292,315,340 Chunqiao Zhang, 359 Churchill Winston, 162,182,185-186, 189,194, 201-202, 204-205, 207, 250, 256,283-285 Ciampi Carlo Azeglio, 428 Ciano Galeazzo, 141 Clemenceau Georges Benjamin, 34,118 Clinton Rodham Hillary, 399,416 Clinton William Jefferson [Bill], 384, 393, 397 Connolly James, 169 Coolidge Calvin, 154 Coppino Michele, 46 C orradini Enrico, 91 Costa A ndrea, 49 Costantino II, 337 Craxi Benedetto [Bettino], 371-372 Crispi Francesco, 44,48-49,78,80 Cristiano IX di D anim arca, 54,56 Croce Benedetto, 98,143,198 D D ’Alema Massimo, 373,428 D ’Annunzio Gabriele, 133 D ’A ntona Massimo, 328 Daladier Eduard, 165,179 Dalai Lama, 255 Dalla Chiesa Carlo A lberto, 328, 371 Darwin Charles R obert, 89 Davis Jefferson, 61 De Ambris Alceste, 104 De Bono Emilio, 136 De Gasperi Alcide, 242,274-278, 280, 296 De Gaulle Charles, 194-195,204-205, 252,270-273,285,297, 305, 313 D e Gouges Olympe, 19 De Klerk Frederik, 378 De Lorenzo Giovanni, 283 De M aistre Joseph, 14 De Nicola Enrico, 198, 275 D e Vaierà Eamon, 171

Indice dei nom i

De Vecchi Cesare M aria, 136 Delors Jacques, 364 Deng Xiaoping, 359-361 Depretis Agostino, 44, 46-48 Di Pietro Antonio, 372, 429 Diaz A rm ando, 112,136 Diaz José Porfirio, 67 Dimitrov Georgj, 164 Disraeli Benjamin, 25-28 Donitz Karl, 200 Dostoevskij Fédor Michajlovic, 97 Dozier James Lee, 328 Dreyfus A lfred, 81, 89,243 Dubcek Alexander, 314-315,341, 357 Dulles John Foster, 264 E E bert Friedrich, 125-128 Eden Anthony, 201,285 Eichm ann Adolf, 191 Einaudi Luigi, 277 Einstein A lbert, 98 Eisenhower Dwight, 188-189,200,219, 226-227,259,265-266,285,292,299 Elisabetta II Windsor, 285 Eltsin Boris, 351-353,406-407 Engels Friedrich, 13,17 Erhard Ludwig, 215,229 Erzberger Matthias, 127 Escrivà de Balaguer José M aria, 233 Essebsi Beji Caid„ 418 F

Facta Luigi, 136 Falcone Giovanni, 372 Fanfani A m intore, 280, 282 Farage Nigel, 412 Farini Luigi Carlo, 44 Faruk I, 263 Federico Guglielmo IV, 8,35 Federico V II di D anim arca, 54-55 Ferdinando I d’A ustria, 7 Ferdinando II di Borbone, 8-9 Ferdinando III di A sburgo-Lorena, 5 Ferdinando V II di Borbone, 5, 49 Fermi Enrico, 200 Fini Gianfranco, 372,430-431 Fioravanti Giuseppe Valerio [Giusva], 370

Fiske John, 92 Foch Ferdinand, 112 Ford G erald Rudolph, 324 Forlani A rnaldo, 370, 372 Fortis Alessandro, 95 Fourier Charles, 13 Francesco [Jorge Mario Bergoglio], 410 Francesco Ferdinando d’Asburgo, 103 Francesco Giuseppe d’Asburgo, 40-41 Francesco IV d ’Asburgo, 5 Franco Francisco, 168,178,182,187, 230-234,339 Freud Sigmund, 98 Friedan Betty, 316 Friedm an Milton, 321, 330 Fritzsche H ans, 213 G

G albraith John Kenneth, 212-213 G andhi Indirà, 255 G andhi M ohandas Karamchand, 249 Gapon Georgij, 83 G aribaldi Giuseppe, 10, 42-43, 45 G asparri Pietro, 142 Gbagbo Laurent Koudou, 422 Gelli Licio, 370 Gemelli Agostino, 133 Gentile Giovanni, 98,136,141,143,198 Gero Erno, 262-263 Gheddafi Muammar, 385-386,417 Gheorghiu-Dej Gheorghe, 341 G iannini Guglielmo, 275 Gierek Edward, 342 Giolitti Giovanni, 48, 80, 94-96,104, 133-135 Giorgio II di Grecia, 207, 336 Giorgio V Windsor, 82 Giovanni Paolo II [Karol Wojtyla], 342 Giovanni X X III [Angelo Giuseppe Roncalli], 267-268,281 Giscard D ’Estaing Valéry, 368 Giuliano Salvatore, 276 Gladstone William Ewart, 26-27,169 G obetti Piero, 143 Gobineau de A rthur, 89 Goebbels Joseph, 146 Gomà Isidoro, 231 Gomulka Wladislaw, 261-262,341-342 Gonzàlez Màrquez Felipe, 340

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Indice dei nom i

Gorbacev Michail, 348-349,351-355, 357,361-363, 365, 406 Gore A lbert A rnold [Al], 397 Goring H erm ann, 147 G oulart Joào, 288 Gramsci Antonio, 135,163 G randi Dino, 135 Griffith A rthur, 170 G rillo Giuseppe [Beppe], 430-431 Grosz Kàroly, 353 Guesde Mathieu-Basile [Jules], 34 Guevara de la Sem a Ernesto [«Che»], 289,312 Guglielmo I di Hohenzollern, 35-36,40 Guglielmo II di Hohenzollern, 39,75, 82,100,112,125 H H aakon V II, 55,181 H abyarim ana Juvénal, 379-380 Hadx A bdrabbuh Mansur, 420-421 H aftar Khallfa, 417 Hailé Selassié, 178,184, 308 Ham m arskjóld Dag, 307 H arding W arren Gamaliel, 154 H arrim an W illiam Averell, 201 H asan al-Bakr A hm ad, 345 Hatoyam a Ichiro, 242 Havel Vàclav, 357 Hayek Friedrich von, 321 H eath Edward, 286 H enderson A rthur, 162 H erriot Edouard, 159 Herzl Theodor, 243 Heuss Theodore, 228 Heydrich Reinhard, 191 H im m ler Heinrich, 145,191 H indenburg Paul Ludwing von, 125, 128,130,144-145,163 H irohito, 241 H itler Adolf, 126,128-130,143-148, 163-164,175,177-184,186-188,190, 193,196-197,200, 225,231,284 Ho Chi-minh, 299-301 Hobhouse Léonard Trelawn, 93 Hobson John A tkinson, 91, 93 Honecker Erich, 355 Hongwen Wang, 359 Hoover H erbert, 154-155

Hoxha Enver, 341 Hu Yaobang, 360 H uerta Victoriano, 67 H untington Samuel, 394 Husàk Gustav, 357 Hussein di Giordania, 304-305 Hussein Saddam, 345-347, 382-383, 387, 394, 398, 413-414

I Iliescu Ion, 358 Ioannides Dimitrios, 337 Isa al-Khalifa H am an bin, 416 Isabella II, 31,49-50 Izetbegovic Alija, 376 J Jacini Stefano, 44 Jackson Andrew, 59 Janukovic Viktor, 409 Jaruzelski Wojciech, 342,354,362 Jaurès Jean, 106-107 Jingsheng Wei, 360 Johnson Lyndon Baines, 294-295, 301-302,321-322 Juan Carlos I di Borbone, 234,339-340 Juncker Jean-Claude, 411 Juscenko Viktor, 408 K Kabila Joseph, 380 Kabila Laurent-Désiré, 380 R àdar Jànos, 263,353 Kamenev Lev, 149-151 Kapp Wolfgang, 127 Karadzic Radovan, 376-377 Karamanlis Kostantinos, 337 Kautsky Karl, 106 Kayibanda Gregoire, 379 Kelsen Hans, 126 Kemal Mustafa, 124 Kennan George Frost, 207 Kennedy John Fitzgerald, 230, 267, 281, 291-294,301 Kennedy Robert, 313, 322 Kerenskij Aleksandr, 113-115 Kerry John Forbes, 398 Keynes John Maynard, 17,127,211 Khomeini Ruhollàh Mosavi, 343-347

Indice dei nom i

Kim il Sung, 216-218 King M artin Luther, 293-294,313,322 Kipling Rudyard, 92 Kissinger Henry Alfred, 303,322, 329 Kodorchovskij Michail, 407 Kohl Helmut, 355, 357, 365 Kornilov Lavr Georgevic, 114-115 Kossuth Lajos, 7 Kosygin Aleksej, 340 Krenz Egon, 355 Kriiger Stephanus J. Paulus, 77 Kuliscioff Anna, 49 L L’vov Georgij, 113-114 La M alfa Giorgio, 372 Lama Luciano, 327 Lassalle Ferdinand, 37 Lavai Pierre, 188 Lazzari Costantino, 107 Le Due Tho [pseudonimo di Phan D inh Khai], 303 Le Pen M arine, 412 Lee Robert, 61 Lenin Nikolaj [pseudonimo di Vladim ir Il’ic U l’janov], 91,108, 114-118,135,148-150, 255,260,349 Leone X III [Vincenzo Gioacchino Pecci], 15, 267 Leopoldo II di Toscana, 9 Leopoldo II del Belgio, 76 L etta Enrico, 432 Li Peng, 361 Liebknecht Karl, 106,108,125 Liebknecht Wilhelm, 37 Ligacev Egor, 351 Lin Biao, 315 Lincoln A braham , 61-62 Lippmann Walter, 207 List Friedrich, 34 Lloyd George David, 82,118,161,171 Lon Noi, 303 Longo Luigi, 198 Ludendorff Erich, 125 Luigi Filippo d’Orléans, 6 Luigi Napoleone Bonaparte [Napoleone III], 7, 9, 28-31.36. 42-43,45,53, 64 Luigi X V I di Borbone, 3

Luigi X V III di Borbone, 5 Lumumba Patrice, 307 Lussu Emilio, 143 Luxemburg Rosa, 91,106,108,125 Luzzatti Luigi, 96

M Mac M ahon Edm e Patrice Maurice de, 33 M acA rthur Douglas, 218,241 M acDonald James Ramsay, 161-162 Macmillan Harol, 285 M adera Francisco, 67 Malcolm X [pseudonimo di Malcolm Little], 294,313 M alenkov Georgij, 259 M ambro Francesca, 370 M andela Nelson, 378-379, 424 M anin Daniele, 9, 42 M ann Thomas, 145 Mao Zedong, 216,218, 238-241,300, 312,315, 323, 359-360 M aometto V, 57 Marcuse H erbert, 313 M aria Cristina di Borbone, 50 M aria Luisa d’A ustria, 5 M arshall George, 209 M arshall Thomas H., 211 Marx Karl, 13,17,29, 32 Maschadov Aslan, 407 Massimiliano d’Asburgo, 64 Mastella Clemente, 429 M attarella Sergio, 372, 433 Mattei Enrico, 281 M atteotti Giacomo, 135,137,163 M aurras Charles, 89 Mazowiecki Tadeusz, 354 Mazzini Giuseppe, 10, 42, 88 M beki Thabo, 424 McCain John, 399 M cCarthy Joseph, 225-226 M cGuinness M artin, 382 McKinley William, 152 Medvedev Dmitrij, 407 M enelik II, 49, 78 Merkel Angela D orothea, 411 M etternich-W inneburg Klemens Wenzel Lothar, principe di, 4-5,7 Michelini A rturo, 276

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Indice dei nomi

Michels Roberto, 87 Mihailovic Draza, 235 M ilan Nedic, 184 Milosevic Slobodan, 374-377 Mindszenty Joseph, 262 M inghetti Marco, 44-47 M itterrand Fran£ois, 273,365 M obutu Joseph Désiré, 307,380 Molina Antonio Tejero, 340 Mollet Guy, 271 Molotov Vjaceslav Michajlovic, 180-181, 201,209-210 Moltke H elm uth Johann Ludwig von, 109 M onnet Jean Omer M arie Gabriel, 271,295 M onroe James, 64 M ontesquieu Charles-Louis de Secondat, barone di, 2,22 M ontgomery B ernard Law, 188 Monti Mario, 431-432 Moro Aldo, 282-283, 326-328,369 Morsi M ohammed, 416-418 Mosca Gaetano, 87 Mosley Oswald Ernald, 162 M ubarak Hosni, 416 Mugabe Robert, 421-422 Mussolini Benito, 104,107,129, 133-143,148,167,173-175,177-179, 182-183,187-189,196,199, 225, 231 Mutsuhito, 69 N Nader Ralph, 397 Nagy Imre, 262-263, 314, 353 Napoleone Bonaparte, 3-5,7,29,52,54 Napolitano Giorgio, 429,431-433 N atta Alessandro, 362 Naum ann Friedrich, 126 Navarro Carlos A rias, 339 Neghib M uhammad, 263 N ehru Jawaharlal, 254-255,257 Nenni Pietro, 276, 280,282-283 Netanyahu Benjamin, 385 Neto Agostinho, 309 Ngo-dinh-Diem, 300-301 Nicola I Romanov, 52 Nicola II Romanov, 84,113 Nietzsche Friedrich Wilhelm, 97-98

Nitti Francesco Saverio, 134 Nixon Richard Milhous, 291, 302-303,320, 322-324, 329,331, 341 N taryam ira Cyprien, 380

O Obama Barack Hussein, 396, 399401,403-404, 419 Obregón Àlvaro, 68 Occhetto Achille, 362 O m ar Mohammed, 413 Orlando Leoluca, 371 Orlando Vittorio Emanuele, 118, 120 Orsini Felice, 42 O uattara Alassane, 422 Owen Charles R obert, 13 P Paisley Ian, 381-382 Palach Jan, 315 Palmerston Henry John Tempie, visconte di, 26 Pankhurst Emmeline, 20 Pannella Giacinto [Marco], 324, 373 Paolo VI [Giovanni Battista Montini], 268 Papadopulos Geórgios, 337 Papagos Alexandros, 337 Papandréu A ndreas, 338 Papandréu Geórgios, 337 Papen Franz von, 130, 214 Papini Giovanni, 91 Pareto Vilfredo, 87 Parnell Charles Stewart, 169 Parri Ferruccio, 198, 274, 370 Paulus Friedrich von, 188 Pavelic Ante, 184,187 Pellegrino Giovanni, 328 Pelloux Luigi, 80, 94 Peres Simon, 384 Perón D uarte Èva, 288 Perón Juan Domingo, 287-288 Perry Matthew Calbraith, 68 Pertini Sandro, 370 Pétain Henri-Philippe-Omer, 182, 188,194 Pinelli Giuseppe, 325 Pinochet Augusto, 291, 326

Indice dei nomi

Pio IX [Giovanni M aria M astai Ferretti], 9-10, 45-46, 266 Pio X [Giuseppe M elchiorre Sarto], 95,267 Pio X I [Achille Ratti], 142,148 Pio XII [Eugenio Pacelli], 191,266-267 Plechanov Georgi], 84,113 Pleven René, 220, 296 Poincaré Raymond, 107,160 Poi Pot, 303-304 Pompidou Georges, 272-273 Popieluszko Jerzy, 354 Porosenko Petr, 409 Pram polini Camillo, 49 Prim o de Rivera José Antonio, 167 Primo de Rivera Miguel, 165-166 Princip Gavrilo, 103 Prodi Romano, 373, 429,432 Putin V ladim ir Vladimirovic, 395, 407-409

Q Qing Jiang [Li Shumeng], 359 Quisling Vidkun. 187 Qutb Sayyid, 265 R Rabin Yitzhak, 305, 384-385 Radetzky Johann J.F., 9 Rajk Làszló, 262 Ràkosi Màtyàs, 262 Ram alho Eanes Antonio, 339 Rathenau Walther, 127 Rattazzi Urbano, 41 Reagan Ronald Wilson, 309, 331-332, 348-349,386 Redmond John, 170 Renzi M atteo, 431-433 Reza Pahlavi M ohammad, 344 Rhee Syngman, 216-217 Rhodes Cecil, 76-77 Ribbentrop Joachim von, 178,180-181 Rocco Alfredo. 91,138 R5hm Ernst. 145 Rommel Erwin. 184.188 Romney Willard Mitt. 400 Romualdi Pino. 276 Roosevelt Franklin Delano. 156-157, 185-186.189. 200-202. 205. 225,250

Roosevelt Theodore, 152-153 Rosselli Carlo, 143 Rousseau Jean-Jacques, 2 Rove Karl Christian, 398 Rudinì Antonio Starabba, marchese di, 80 Ruffilli Roberto, 328 Rumsfeld Donald Flenry, 398 S Saachasvili Michail, 408 Sacharov Andrei, 351 Sadat Anwar, 305-307, 330 Saffi Aurelio, 10 Sagasta Pràxedes Mateo, 50-51 Saint-Simon Claude H enri de, 13 Salandra Antonio, 104-105 Salazar A ntonio de Oliveira, 163, 338 Saleh A li Abdallah, 420 Salisbury R obert A rthur Talbot Gascoyne Cecil, marchese di, 28 Saragat Giuseppe, 276 Sarkozy Nicolas, 410 Sauvy A lfred, 257 Savimbi Jonas, 421 Scalfaro O scar Luigi, 373 Sceiba Mario, 279 Schacht Hjalmar, 214 Scheidemann Philipp, 125 Schifani Renato, 428, 430 Schleicher K urt von, 130 Schlieffen A lfred von, 103 Schmitt Cari, 126 Schumacher Kurt, 229,365 Schuman Robert, 271, 295 Schumpeter Joseph Alois, 91 Secchia Pietro, 278 Segni Mario, 371 Sella Quintino, 44 Serrati Giacinto M enotti, 108 Sforza Carlo, 277 Sharon Ariel, 387,415 Shastri Lai Bahadur, 255 Shigeru Yoshida, 242 Shinzo Abe, 391 Siad B arre Mohammad, 307, 309 Sieyès Emmanuel, 257 Silvela Francisco, 52 Smith Adam, 2-3,11

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Indice dei nomi

Smith Ian Douglas, 309-310 Soares Mario, 338-339 Sokolovskij Vasilij Danilovic, 214 Solzenicyn Aleksandr, 340 Sonnino Sidney, 80, 95-96,104-105, 118,120 Sossi Mario, 326 Sotelo Calvo José, 168 Spaak Paul-Henry, 296 Spadolini Giovanni, 370-371 Spaventa Silvio, 44 Spinola Antonio, 338 Stalin Josif [Josif Vissarionovic Dzugasvili], 115,143,148-152,164, 173,175,177,180,186,189,193, 195,198,201-203,205,207,218-219, 229-230,235-236,240,259-260, 262,280,296, 336, 348 Starace Achille, 139 Stauffenberg Claus Schenk von, 196 Stepinac Alojzije, 235 Stevens Christopher, 417 Stinnes Hugo, 125 Stolypin Pétr Arkadevic, 84 Stresemann Gustav, 126,128,173 Sturzo Luigi, 133,135,137,197, 372 Suàrez Adolfo, 339 Sukarno A hm ed, 257 Sulaymàn‘Umar, 416 Sun Yat-sen, 73-74,237-238 T

Talleyrand Charles M aurice de, 5 Tambroni Fernando, 281-282 Taylor Charles, 422 Taylor Frederick Winslow, 85 Terracini Um berto, 135 Thatcher M argaret, 330-332 Thiers Adolphe, 32 Thorez Maurice, 161 Timosenko Julija, 408 Tirpitz A lfred von, 82 Tiso Jósef, 187 Tito [Josip Broz], 195, 205,234-237, 240,257,259,262, 336, 374 Togliatti Paimiro, 135,198,274, 278, 280 Tommaseo Niccolò, 9 Tremonti Giulio, 428

Trockij Lev, 115-116,148-151 Truman Harry Spencer, 200,202,207210,216,218-220,224-226,239,259 Tsipras AlexTs, 411 Tudjman Franjo, 375 Turati Filippo, 49,108,135 U U Thant Sithu, 256 Ulbricht Walter, 229-230, 323 Um berto I di Savoia, 80 Umberto II di Savoia, 198, 274

V Vanoni Ezio, 281 Vargas Getulio, 288 Veltroni Walter, 429 Villa Pancho [Doroteo Arango], 67 Vittoria di Hannover, 25,27 Vittorio Emanuele II di Savoia, 9-10, 41,43,46,50 Vittorio Emanuele I I I di Savoia, 104-105,136,178,189,196,198,274 Volpi Giuseppe, 140 Voltaire [Fran$ois-Marie Arouet], 2 W

Walesa Lech, 342, 354 W arren Earl, 227 Weber Max, 88,98-99,126 Wenyuan Yao, 359 Wilson Harold, 285-286 Wilson Woodrow, 111, 118-120,125, 153,248,255 W indhorst Ludwig, 37 Wollstonecraft Mary, 19 Y

Yuan Shi-kai, 73-74,237 Z

Zanardelli Giuseppe, 48, 80, 94-95 Z apata Emiliano, 67 Zhou En-lai, 257, 359 Zinov’ev Grigorij, 149-151 Zivkov Todor, 357-358 Ziyang Zhao, 361 Zola Émile, 81 Zukov Georgij Konstantinovic, 200 Zum a Jacob, 424

Indice delle cartine

L’Europa tra reazione e progresso (1815-1848), 28 I Balcani dopo il Congresso di Berlino (1878), 38 Colonialismo e imperialismo, 90 II sistema di alleanze all’origine della Prim a G uerra mondiale, 102 Democrazie e regimi autoritari in Europa (1933-1939), 132 Il sistema di alleanze in Europa tra il 1933 e il 1939,176 La popolazione ebraica in Europa nel 1930,192 Le organizzazioni m ilitari europee dopo il 1945,206 La guerra di Corea (1950-1953), 217 Gli Stati del Patto di Varsavia, 222 Il piano O N U di spartizione della Palestina (1947), 246 Lo Stato d’Israele dopo la guerra del 1948,246 La guerra d’Indocina (1945-1954), 251 L’A frica nel 1965, 308 La dissoluzione dell’Unione Sovietica (1991), 350 Le «rivoluzioni» nell’Europa dell’est. 356 I gruppi etnici della Jugoslavia, 375 La guerra del Golfo (1991), 384 La Crimea geostrategica, 396 Lo Stato Islamico, 414 Houthi e A l-Q a’ida in Yemen, 420 II mondo 1915-2015,435-445

Glossario

Abd al-Karim Qassem (1914-1963). Militare iracheno di sentimenti nazionalisti, prese il potere in Iraq nel 1958 con un colpo di Stato che abbatté la monarchia. Guidò il paese come primo ministro fino al suo assassinio nel corso del colpo di stato militare del 1963. Abd Allah di Transgiordania (1882-1951). Emiro della Transgiordania fin dal 1921, quando la Gran Bretagna controllava militarmente queste terre, nel 1946, alla revoca del mandato, la Transgiordania ottenne l’indipendenza e Abd Allah assunse il titolo di re di Transgiordania. Con gli armistizi di Rodi del 1949, che chiusero il primo conflitto araboisraeliano, la Cisgiordania e Gerusalemme est furono affidate alla Trans­giordania che mutò così il nome in Giordania. Questa scelta, ritenuta dai palestinesi pregiudizievole per la loro causa, nel 1951 armò la mano di un palestinese che in un attentato uccise il re Abd Allah. Abd al-Nasser Gamal (1918-1970). Militare e uomo politico egiziano, fu presidente della Repubblica egiziana dal 1956 al 1970. A lui si deve la decisione di nazionalizzare la Compagnia del canale di Suez nel 1956. Dal conflitto che ne seguì, l’Egitto uscì, sebbene militarmente sconfitto, rafforzato sul piano politico internazionale. Abdülhamîd II (1842-1918). Sultano ottomano salito al trono nel 1876. Concesse subito una Costituzione che introduceva un sistema parlamentare, ma già nel 1877 ripristinò un sistema dispotico. Durante il suo regno dovette affrontare le agitazioni delle minoranze presenti nel territorio dell’Impero. Sotto la sua dominazione, tra il 1894 e il 1896, si perpetrò un primo massacro della popolazione armena. Nel 1908, la rivoluzione vittoriosa dei Giovani Turchi lo costrinse a ripristinare la Costituzione concessa nel 1876, ma l’anno successivo, a causa dei continui contrasti con l’apparato militare, fu costretto ad abdicare. Abu Mazen [Mahmoud Abbas] (1935-). Palestinese, è stato tra i fondatori di al-Fatah e ha negoziato con gli israeliani gli accordi di Oslo (1993). Nel 2004, dopo la morte di Yasser Arafat ha assunto la guida

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Storia contemporanea

dell’Autorità nazionale palestinese, diventandone presidente nel 2005 in seguito ad un voto popolare. Accordi di Grenelle. Accordi siglati il 27 maggio 1968 tra i sindacati francesi e le organizzazioni padronali (Confédération Générale du Tra­ vail, Force Ouvrière e Confédération Française Démocratique du Travail da un lato e Comité National du Patronat Français dall’altro) sotto la regia del primo ministro Georges Pompidou. Gli accordi rappresentarono un avanzamento a livello sociale. Il salario minimo inter-professionale garantito fu aumentato del 35%, i salari del 10%. Vennero riconosciuti i comitati di fabbrica e si gettarono le fondamenta per alcuni accordi circa un miglioramento della formazione professionale e per le pensioni. Acerbo Giacomo (1888-1969). Leader del movimento fascista abruzzese fin dal primo dopoguerra, nel 1923 ebbe un ruolo decisivo nell’elaborazione della legge maggioritaria voluta da Mussolini per consentire al PNF di conquistare una solida maggioranza in Parlamento. Acheson Dean (1893-1971). Uomo politico statunitense. Affiancò Franklin D. Roosevelt nelle sue scelte di politica economica, prima come sottosegretario al Tesoro e successivamente come segretario aggiunto per gli affari economici nel Dipartimento di Stato. Dal 1949 al 1953, nella veste di segretario di Stato del presidente Truman, sostenne sia la politica del containment, sia la costruzione dell’Alleanza atlantica. Action française. Movimento politico francese sorto nell’aprile del 1898 per opera di Henri Vaugeois e Maurice Pujo, sull’onda dell’affaire Dreyfus. Inizialmente con connotati nazionalisti in forte polemica con il parlamentarismo, sotto l’impulso di Charles Maurras, che pubblicò nel 1900 sull’omonimo giornale il programma del movimento, assunse connotati sempre più antiparlamentari, sostenendo apertamente la volontà di rovesciare con la forza il regime democratico della Repubblica francese. Adenauer Konrad (1876-1967). Uomo politico tedesco. Esponente del Zentrum, fu sindaco di Colonia (1917-33). All’avvento del nazismo si ritirò a vita privata. Nel dopoguerra riprese l’attività politica contribuendo alla fondazione della CDU e nel 1949 divenne il primo cancelliere della Repubblica federale tedesca. Guidò la Germania fino al 1963, seguendo una politica moderata incentrata sui valori dell’anticomunismo e dell’atlantismo. Adorno Theodor (1903-1969). Filosofo e sociologo tedesco, fu tra i fondatori della Scuola di Francoforte. Nei suoi scritti espresse una serrata critica del sistema e della società capitalista. Affirmative action. Con questa locuzione si intende un’azione volta a introdurre politiche egualitarie a livello sociale. Con essa ci si riferisce di norma alle politiche sociali dei governi. African National Congress. Nome della più importante organizzazione antiapartheid sudafricana. Costituito nel 1912 con il nome di South African Native National Congress, è il movimento politico più antico dell’Africa. Africanistas. Termine usato per definire l’aristocrazia militare spagnola, di norma di stanza nelle colonie. Ahmadinejad Mahmud (1956-) uomo politico iraniano. Presidente della Repubblica islamica dell’Iran dal 2005 al 2013. Sostenitore di una

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politica di armamento nucleare dell’Iran è stato uno dei leader politici più attivi nell’incitare i paesi islamici ad una violenta contrapposizione alle politiche portate avanti a livello internazionale dagli Stati Uniti e da Israele. al-Assad Bashar (1965-). Presidente della Repubblica della Siria dal 2000, figlio del presidente precedente Hafez al-Assad. Appartiene alla minoranza alauita, una setta dello sciismo, al potere in Siria dal 1970. La maggioranza della popolazione è sunnita. Allo scoppio della «primavera araba» siriana, il suo regime ha reagito con eccezionale brutalità alla rivolta, inizialmente pacifica, della popolazione. al-Baghdādī Abū Bakr (1971-). Nome di battaglia di Ibrahim al-Badri. Terrorista islamico sunnita iracheno, leader dell’Isil (Stato islamico dell’Iraq e del Levante, antico nome della Siria; l’acronimo inglese è Isis, quello arabo Daesh). Il 29 giugno 2014 ha istituito il Califfato islamico nelle regioni nord-occidentali irachene e orientali siriane cadute sotto il controllo della sua organizzazione. al Banna Hassan (1906-1949). Leader politico egiziano. Critico nei confronti del processo di occidentalizzazione e secolarizzazione della società egiziana, nel 1928 fu il fondatore della Fratellanza musulmana. Il movimento, sotto al Banna, divenne sempre più attivo contro il governo egiziano. Il raggruppamento estremistico cominciò a creare basi di addestramento militare in Egitto e nei paesi limitrofi e si rese protagonista di diversi attentati. Il 12 febbraio 1949, Hassan al Banna venne ucciso in un mercato del Cairo. al Bashir Omar (1944-). Militare e uomo politico sudanese, intraprese la carriera militare servendo le forze egiziane nella guerra araboisraeliana del 1973. Tornato in Sudan, guidò le operazioni militari contro il Fronte di liberazione popolare del Sudan insediatosi nel sud del paese e composto principalmente da cristiani. Nel 1989, Al Bashir prese il potere con un colpo di stato rovesciando il primo ministro Sadeq al-Mahdi. Mise quindi al bando ogni partito, censurò la stampa e sciolse il Parlamento. Nel 1996 fu eletto presidente del Sudan, con un mandato di cinque anni, nel corso di elezioni generali poco trasparenti. Le elezioni del 2000 lo hanno visto riconfermato alla guida del paese. Alessandro I Romanov (1777-1825). Imperatore di Russia dal 1801 fino alla morte. Nei primi anni del suo regno fu artefice di una politica di riforme. In politica estera si contrappose alla Francia e, dopo il Congresso di Vienna, fu il promotore della Santa Alleanza. Alessandro II Romanov (1818-1881). Figlio di Nicola I, gli succedette sul trono e fu imperatore di Russia dal 1855 fino alla morte. Divenne zar durante la guerra di Crimea. Dopo il trattato di Parigi del 1856, avviò all’interno del paese una politica di riforme tra cui la liberalizzazione dei servi della gleba (1861) e la costituzione degli zemsteva (1865). L’incompiutezza delle sue riforme fu tuttavia condannata dal movimento populista che attraversò la Russia tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del XIX secolo. Venne ucciso in un attentato nel 1881. Alessandro III Romanov (1845-1894). Salito al trono dopo l’assassinio del padre Alessandro II nel 1881, si prefisse di ripristinare totalmente in Russia il sistema autocratico. Nonostante la sua gestione reazionaria, il

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movimento rivoluzionario consolidò le sue basi nel paese e vi attecchì anche la dottrina marxista, grazie all’insegnamento di Georgij Plechanov. Alexander Harold Rupert (1891-1969). Generale dell’esercito britannico, combatté nella Prima e nella Seconda guerra mondiale. In quest’ultima guidò la spedizione alleata in Italia. L’armistizio firmato dall’Italia nel 1943 porta la sua firma, assieme a quella di Badoglio e Eisenhower. Alfano Angelino (1970-). Dal 28 aprile 2013 ministro degli Interni nei governi guidati da Enrico Letta e Matteo Renzi. In precedenza, dal 2008 al 2011, era stato ministro della Giustizia nel governo Berlusconi. Aderì a Forza Italia sin dal 1994, ma nel novembre 2013 fu il promotore della scissione dal Popolo della Libertà, fondando il Nuovo Centrodestra di cui divenne presidente il 13 aprile 2014. Al-Fatah. Termine che significa «la vittoria», è un movimento per la liberazione della Palestina fondato ufficialmente da Yasser Arafat nel 1965. Rappresenta la componente di maggioranza dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP). A partire dal 2000 è cresciuta al suo interno l’importanza dei due bracci armati: Tanzim e le Brigate dei martiri di al-Aqsa. Alfonso XII di Borbone (1857-1885). Riportò sul trono di Spagna la monarchia dei Borbone dopo la parentesi della Prima Repubblica spagnola. Fu re dal 1875 fino alla morte. Alfonso XIII di Borbone (1886-1941). Nacque quando suo padre era già morto. Formalmente re fin dalla nascita, assunse la direzione del regno in prima persona solo nel 1902. Fu favorevole alla dittatura di Miguel Primo de Rivera (1923-1930). In seguito all’affermazione delle forze repubblicane nelle elezioni amministrative del 1931, lasciò il trono vacante. al-Ghannūshī Rāshid (1941-). Politico tunisino, fondatore e leader del Movimento della tendenza islamica, ribattezzato nel 1989 Partito della Rinascita (Ennahda), messo fuori legge nel 1991 dal presidente Zine el Abidine Ben Ali per attività sovversive contro lo Stato. Fuggito a Londra, al-Ghannūshī tornò in patria solo nel 2011 allo scoppio della «primavera araba» tunisina e guidò Ennahda alla vittoria nelle prime elezioni democratiche per l’Assemblea Costituente il 23 ottobre dello stesso anno. al-Husseini Haji Amin (1897-1974). La più alta autorità musulmana durante il mandato britannico in Palestina. Ispiratore delle rivolte arabe del 1929 e del 1936, fuggì in Germania nel 1936. Fervido sostenitore del nazismo, cercò sempre, ma invano, di ottenere da Hitler e da Mussolini un aiuto militare contro ebrei e inglesi in Palestina. Dal 1941 ispirò in Iraq il golpe filonazista di Rashid Ali Gaylani. Dopo la repressione inglese che ne seguì, si rifugiò di nuovo in Germania dove, nel 1945, venne catturato dalle truppe americane e rinchiuso in un carcere francese da cui riuscì ad evadere rifugiandosi poi a Beirut. Allende G. Salvador (1908-1973). Uomo politico cileno, fu tra i fondatori del Partito socialista (1933). Eletto nel 1937 al Parlamento, fu ministro della Sanità (1939-1940) e senatore. Nel 1970 fu eletto alla presidenza della Repubblica con l’appoggio di una coalizione di sinistra (Unidad popular). Il suo governo nazionalizzò le miniere di rame e pro-

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mosse una riforma agraria. Subì una violenta opposizione interna e internazionale che portò al colpo di stato militare dell’11 settembre 1973 ad opera del generale Augusto Pinochet. Si suicidò quello stesso giorno nel palazzo presidenziale della Moneda. Almirante Giorgio (1914-1988). Uomo politico italiano. Aderì alla Repubblica sociale italiana e fece parte del suo governo con il ruolo di sottosegretario. Fu tra i fondatori del Movimento sociale italiano e ne assunse la segreteria nel 1969 dopo la morte di Arturo Michelini. Successivamente siglò un’alleanza con i monarchici, trasformando il partito in Movimento sociale-destra nazionale. Al-Qā’ida. Organizzazione terrorista del fondamentalismo islamico, costituita da Osama bin Laden alla fine degli anni Ottanta del XX secolo. In nome del jihad ha riunito sotto la sua bandiera guerriglieri afghani che avevano combattuto contro l’esercito sovietico, estremisti pakistani, palestinesi ed egiziani. A questa organizzazione vanno ricondotti, tra gli altri, gli attentati del 1998 alle ambasciate americane in Kenia e Tanzania e l’attentato alle Torri Gemelle di New York e al Pentagono di Washington dell’11 settembre 2001. al-Sīsī Abd al-Fattah (1954-). Presidente dell’Egitto dall’8 giugno 2014, già membro del Consiglio supremo delle forze armate che deteneva il potere nel paese dopo la caduta del regime di Hosni Mubarak l’11 febbraio 2011. Il 12 agosto 2012 al-Sīsī venne nominato capo di Stato Maggiore delle Forze Armate dal neo-presidente eletto Mohammed Morsi, appartenente alla Fratellanza musulmana, il cui partito Libertà e Giustizia aveva vinto le elezioni parlamentari del 2011-2012 e le presidenziali del 2012. Il 3 luglio 2013, sull’onda di grandi manifestazioni di piazza che protestavano contro la gestione autoritaria del potere da parte di Morsi, al-Sīsī attuò un colpo di Stato militare incruento, mise fuori legge la Fratellanza musulmana e il partito Libertà e Giustizia, ne imprigionò tutti i leader, Morsi compreso, e si candidò con successo alla presidenza della Repubblica. Altissimo Renato (1940-2015). Uomo politico italiano, segretario del Partito liberale dal 1986 al 1992, è stato più volte ministro della Repubblica. al-Zarqawi Abu Musab (1966-2006). Nome di battaglia di Ahmad Fādil al-Nazāl al-Khalā, terrorista sunnita giordano, che dopo l’operazione statunitense Iraqi Freedom del 2003, caduto il regime di Saddam Hussein, nel 2004 creò in Iraq la branca locale di Al-Qā’ida: Al-Qā’ida nella Terra dei due fiumi. Venne ucciso da un raid aereo americano il 7 giugno 2006. Sulle ceneri di al Qaeda nella terra dei due fiumi, Abū Bakr al-Baghdādī nel 2013 creò l’Isil, sganciandolo dal controllo dell’organizzazione di Osama bin Laden. Amato Giuliano (1938-). Giurista e uomo politico italiano. È stato un esponente del Partito socialista, per poi aderire all’Ulivo di Romano Prodi e infine al Partito democratico. Più volte ministro (dal 1987 al 1989, dal 1998 al 2000, dal 2006 al 2008), ha ricoperto la carica di presidente del Consiglio per due volte, dal 1992 al 1993 e dal 2000 al 2001. Dal 2013 è giudice della Corte Costituzionale. Amedeo d’Aosta (1898-1942). Discendente di un ramo cadetto dei rea­li d’Italia, nipote del terzogenito di Vittorio Emanuele II, entrò nel­

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l’esercito, ottenendo i gradi di generale. Nel 1937 fu nominato viceré di Etiopia. Durante la Seconda Guerra mondiale, fronteggiò le truppe britanniche in Africa dove, stretto d’assedio sull’altopiano di Amba Alagi, capitolò il 21 maggio del 1941, morendo qualche mese dopo in prigionia. Amedeo Ferdinando di Savoia (1845-1890). Primo duca d’Aosta, figlio di Vittorio Emanuele II, al momento della vacanza del trono di Spagna nel 1868, la casa sabauda pose la sua candidatura. Quando le Cortes decisero la restaurazione della monarchia, Amedeo d’Aosta fu scelto come nuovo re di Spagna. Fu incoronato nel 1871, ma già nel febbraio del 1873 abdicò rinunciando al trono. Mentre Amedeo tornava a Torino, in Spagna veniva proclamata la Repubblica. Ammassi. Politica in base alla quale un produttore (agricolo o industriale) è obbligato a versare la propria produzione ad un ente pubblico che la amministra nell’interesse della collettività. Anarchici-anarchismo. Movimento politico che mira ad abbattere ogni forma di autorità politica, economica o religiosa in nome della libera emancipazione dell’individuo. Dopo le prime teorizzazioni risalenti ad William Godwin e a Pierre Joseph Proudhon, fu sostenuto e propagandato dai teorici russi Michail Aleksandrovič Bakunin e Pierre Alekseevič Kropotkin e dal tedesco Max Stirner [Johann Kaspar Schmidt]. Ancien Régime. Con questo termine si rimanda all’organizzazione del sistema politico degli Stati nazionali europei antecedente la Rivoluzione francese del 1789. Andreeva Nina (1938-). Donna politica russa, segretaria del comitato centrale del Partito comunista dell’Unione, si oppose duramente al programma riformatore di Gorbačëv. Andreotti Giulio (1919-2013). Uomo politico italiano, fu eletto al­ l’Assemblea Costituente nelle file della DC. Vicino a De Gasperi, fu sottosegretario alla presidenza del Consiglio (1947-53) e in seguito sempre presente, con vari incarichi, nei governi successivi. Nel 1991 fu nominato senatore a vita. Dopo la dissoluzione della Democrazia Cristiana (1994) e in seguito ad una complessa vicenda giudiziaria per collusione con la mafia (conclusasi con la sua assoluzione), si ritirò progres­sivamente dalla politica attiva. Andropov Jurij (1914-1984). Uomo politico sovietico. Capo del KGB dal 1967, nel 1982 successe a BreŽnev nella carica di segretario generale del PCUS. ANZUS. Acronimo che definisce un patto tra Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti. Stipulato nel 1951 e attivo dall’anno successivo, il suo obiettivo era, negli anni della Guerra Fredda, quello di accerchiare diplomaticamente l’URSS in funzione di sicurezza antisovietica. Apartheid. Regime politico che attua la segregazione razziale e nega i diritti civili. Su tale sistema si resse il governo della Repubblica sudafri­ cana dal 1948 al 1990. Arafat Yasser (1929-2004). Nel 1948 partecipò alla resistenza palestinese contro la creazione dello Stato di Israele. Al Cairo, dove soggiornò durante gli studi d’ingegneria civile, venne in contatto con la Fratellanza musulmana e la Lega degli studenti palestinesi di cui divenne presidente. Allo scoppio della crisi di Suez era sottotenente dell’esercito egiziano.

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Nel 1969, all’indomani della sconfitta araba contro Israele, Arafat fece convergere al-Fatah nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, assumendone la presidenza. Nel 1989, dopo aver proclamato unilateralmente la nascita dello Stato indipendente di Palestina, ne fu eletto primo presidente dal Parlamento. Nel 1993 firmò con Yitzhak Rabin l’accordo di pace tra israeliani e palestinesi. Nel 1996 fu eletto presidente dell’Autorità palestinese. Premio Nobel per la pace nel 1994. Arendt Hannah (1906-1975). Filosofa e scienziata politica tedesca. Di origine ebraica, emigrò prima in Francia poi negli Stati Uniti, dove ottenne la cittadinanza americana, dopo l’avvento del nazismo. Contribuì al pensiero filosofico novecentesco soprattutto con le sue riflessioni circa la natura e le origini storiche dei moderni totalitarismi. Tra le sue opere principali vi è infatti il saggio Le origini del totalitarismo, pubblicato nel 1951. Armellini Carlo (1777-1873). Repubblicano, fece parte insieme a Giuseppe Mazzini e Aurelio Saffi del triumvirato della Repubblica Romana nel 1848-49. Association of South-East Asian Nations (ASEAN). Associazione fondata nel 1967 per promuovere e sostenere la collaborazione economica e commerciale tra i paesi membri: Maynmar, Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Papua Nuova Guinea, Singapore, Thailiandia, Vietnam. Associazione nazionalista italiana. Associazione costituitasi nel 1910 per impulso prevalente di Enrico Corradini. Assolutismo politico. Sistema politico secondo il quale il capo dello Stato è legibus solutus. L’assolutismo caratterizzò la storia politica della formazione degli Stati nazionali tra il XVII ed il XVIII secolo. Attlee Clement (1883-1967). Laburista inglese, fu alla guida del primo governo di maggioranza del Labour Party dal 1945 al 1951 e durante il suo mandato gettò le basi del sistema di Welfare State in Gran Bretagna. Autorità nazionale palestinese (ANP). Istituzione provvisoria nata nel quadro degli accordi di Oslo del 1993. Fin dal 1994 e previe elezioni, la presidenza è stata assunta da Yasser Arafat che l’ha mantenuta fino alla morte, nel 2004. L’ANP ha organi rappresentativi statuali, ma non la piena sovranità sul territorio destinato alla creazione dello Stato palestinese, i cui confini sono ancora oggetto di trattativa. Autunno caldo. Con questa espressione si fa riferimento all’autunno del 1969 segnato dalla congiunzione della protesta studentesca con quella operaia. Principale soggetto promotore dell’«autunno caldo» fu la FIOM, il sindacato dei metalmeccanici. Proprio nell’autunno del 1969, i metalmeccanici prepararono una piattaforma di rivendicazioni per il rinnovo del contratto in cui per la prima volta si affrontava il tema della qualità del lavoro, arrivando infine a porre sul tavolo delle trattative la richiesta di salari uguali per tutti. Questa piattaforma, sostenuta da un’ampia e aspra azione di lotta sindacale, ebbe un grande impatto anche sul piano politico tanto che, proprio sul finire dello stesso anno, la vertenza dei metalmeccanici si risolse a favore delle organizzazioni operaie. Avanguardia nazionale. Gruppo di estrema destra attivo in Italia dal 1960 al 1965, si ricostituì nel 1970 per essere poi sciolto d’autorità nel

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1976 con l’imputazione di violare la norma costituzionale che vieta la riorganizzazione del partito fascista. Avanguardia operaia. Gruppo di estrema sinistra attivo in Italia dal 1968 al 1977, quando si divise. La parte minoritaria confluì nel Partito di unità proletaria, mentre la maggioranza entrò in Democrazia Proletaria. La matrice marxista-leninista con venature trotzkiste ne fecero un punto di riferimento per i Comitati unitari di base all’interno sia del mondo del lavoro che di quello studentesco. Azaña Manuel (1880-1940). Uomo politico spagnolo. Negli anni della Seconda Repubblica guidò il governo prima dal 1931 al 1933 e di nuovo nel primi mesi del 1936. Durante gli anni della guerra civile, fu chiamato alla presidenza della Repubblica. Azione Cattolica. Associazione laica di cattolici, fu promossa da Leo­ ne XIII dopo l’emanazione della Rerum Novarum (1891) e sostenuta da Pio XI con l’enciclica Ubi Arcano Deus (1922). I suoi ambiti di intervento vanno da quello religioso a quello sociale, culturale ed istituzionale. Ba’ath. Il termine significa «rinascita». È il nome di un partito politico presente in molte repubbliche mediorientali e in particolar modo in Siria (ancora al potere) e in Iraq (disciolto nel 2003). Fondato nel 1940 a Damasco, si propose l’obiettivo del panarabismo da un punto di vista progressista e laicista. Negli anni Cinquanta la fazione siriana del partito si staccò da quella irachena, caratterizzandosi per una maggiore adesione a posizioni laiche e filo-marxiste. Nel 1963 un colpo di stato trasformò il partito Ba’ath nel partito unico siriano. Nel 1970 sempre in Siria un altro colpo di stato decretò l’ascesa al potere di Hafez al-Assad, che si propose come leader del fronte del rifiuto di Israele dopo la morte dell’egiziano Nasser. Alla morte di Hafez al-Assad nel 2000, il potere passò nelle mani del figlio Bashar al-Assad. Bachelet Vittorio (1926-1980). Giurista italiano, entrò giovanissimo nelle file dell’Azione Cattolica, di cui fu presidente dal 1964 al 1973. Nel 1976 venne eletto alla vicepresidenza del Consiglio superiore della magistratura. Il 12 febbraio 1980, al termine di una lezione, venne assassinato da un commando delle Brigate Rosse nell’atrio della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università La Sapienza di Roma. Baden Max von (1867-1929). Fu l’ultimo cancelliere dell’Impero tedesco, dal 3 ottobre al 9 novembre 1918. I suoi sforzi per firmare un armistizio furono frustrati dallo scoppio di violente insurrezioni in tutto il paese; cercò inutilmente di persuadere Guglielmo II ad abdicare per salvare la monarchia. Nonostante il rifiuto del sovrano, il 9 novembre annunciò l’abdicazione dell’imperatore e si dimise a favore del socialdemocratico Ebert. Badoglio Pietro (1871-1956). Militare e uomo politico italiano. Comandante nel settore di Caporetto durante la Prima guerra mondiale, fu nominato capo di stato maggiore dell’esercito nel 1919. Durante il fascismo gli furono conferiti la carica di capo di stato maggiore generale (1925-40) e il titolo di maresciallo d’Italia (1926). Comandante delle forze italiane nella fase finale della campagna etiopica, fu nominato viceré alla proclamazione dell’Impero (1936). Contrario all’entrata in guerra dell’Italia (1940), dopo la caduta di Mussolini nel luglio 1943 assunse la

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direzione del governo e l’8 settembre annunciò l’armistizio siglato con gli alleati. Fuggito a Brindisi assieme al re e alla famiglia reale, guidò i successivi governi antifascisti fino alla liberazione di Roma (giugno 1944). Bagehot Walter (1826-1877). Intellettuale e giornalista inglese, si occupò di politica e questioni economiche. Nella sua opera The English Constitution, pubblicata nel 1867, offrì un’analisi approfondita del sistema costituzionale britannico, in particolare in merito al funzionamento del Parlamento e della monarchia. Bakunin Michail Aleksandrovič (1814-1876). Teorico e rivoluzionario russo. Inizialmente su posizioni di panslavismo democratico, elaborò successivamente una teoria anarchica che vedeva nello Stato il centro di organizzazione di tutti i rapporti sociali autoritari e in quanto tale un’istituzione da abbattere. Lo strumento era la rivoluzione sociale delle grandi masse diseredate, mentre il fine era una società senza classi fondata sulla libera associazione di gruppi di produttori (Stato e anarchia, 1873). Questa concezione lo pose in rotta di collisione con le correnti marxiste: critico della dittatura del proletariato, vi vedeva il rischio di una nuova forma di dispotismo burocratico. Nel 1849 partecipò all’insurrezione di Dresda, fu arrestato e condannato a morte. Lo zar ne ottenne l’estradizione; deportato in Siberia, ne fuggì nel 1861, riparando a Londra. Sostenne l’insurrezione polacca (1863) e si trasferì poi in Italia (1864-1867), dove entrò in contrasto con Mazzini, che accusava di proporre una «teologia politica» idealista. Nel 1868 fondò l’Alleanza internazionale della democrazia socialista, le cui sezioni aderirono alla Prima Internazionale (1864), da cui fu espulso nel 1872 a causa dei contrasti con Marx. Balbo Italo (1896-1940). Uomo politico italiano, fu tra i fondatori del fascismo. Durante il regime, fu prima ministro dell’Aeronautica e poi governatore della Libia. Baldwin Stanley (1867-1947). Uomo politico britannico appartenente al Partito conservatore. Fu più volte primo ministro (1923-24; 1924-1929; 1935-1937). Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS). Banca costituita nel 1991 con il programma di sostenere la trasformazione delle economie dei paesi dell’ex blocco sovietico in economie di mercato. Basaev Šamil (1965-2006). Leader indipendentista ceceno, fece parte dell’ala più estremista del movimento islamista anti-russo. Durante le guerre cecene partecipò ad azioni di guerriglia e di terrorismo, come quelle messe in atto nel teatro Dubrovka nel 2002 e nella scuola di Beslan nel 2004, per richiamare l’attenzione della comunità internazionale sul diritto all’indipendenza della Cecenia. Rimase ucciso, nel 2006, in un’esplosione a Ekaževo, in Inguscezia. Basile Carlo Emanuele (1885-1972). Uomo politico italiano, aderì fin dai primi anni al fascismo. Fu tra i fondatori del Fascio di Stresa e diresse la Federazione di Novara e di Torino. Nel 1943 aderì alla Repubblica sociale italiana e fu nominato prefetto di Genova, carica che ricoprì dal 1943 al 1944. Fu iscritto al Movimento sociale italiano. Batista Fulgencio (1901-1973). Militare, assunse il governo a Cuba nel 1940 e nel 1952 vi instaurò un regime dittatoriale. Fu sconfitto nel 1959 dalla rivoluzione guidata da Fidel Castro.

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Battaglia del grano. Campagna lanciata dal fascismo nel 1925 per aumentare la produzione di frumento e rendere il paese autosufficiente su questo prodotto base dell’alimentazione. Nel periodo 1925-1931 la produzione cerealicola arrivò quasi a raddoppiarsi. Bava Beccaris Fiorenzo (1831-1924). Generale dell’esercito italiano, partecipò alla guerra di Crimea e alla seconda e terza guerra d’indipendenza dell’Italia. Partecipò con le sue truppe alla repressione dei moti di Milano nel 1898 scatenati dall’aumento del prezzo del pane. Beauvoir Simone de (1908-1986). Scrittrice e filosofa francese. Teorica della questione femminile, ne fece il centro di saggi (Il secondo ses­ so, 1949), racconti e romanzi, alcuni dei quali autobiografici (Memorie di una ragazza per bene, 1958; Una donna spezzata, 1967). Nel 1955 vinse il premio Goncourt con il romanzo I mandarini. Legata al filosofo esistenzialista Jean-Paul Sartre, ne dipinse gli ultimi anni di vita nella Cerimonia degli addii (1982). Bebel August (1840-1913). Tra i fondatori del Partito socialdemocratico tedesco (1875), fu sostenitore della linea ortodossa di Karl Kautsky contro il revisionismo di Eduard Bernstein. Begin Menachem (1913-1992). Uomo politico israeliano. Eletto in Parlamento nel 1948, fu il leader dell’opposizione ai governi di centrosinistra fino al 1967, quando fu chiamato dai laburisti a far parte del governo di unità nazionale. Contrario alla restituzione dei territori occupati nel 1967, abbandonò il governo nel 1969 per riunire i principali movimenti nazionalisti di destra nel Likud, la coalizione che guidò alla vittoria elettorale nel 1977. Divenuto primo ministro (1977-1983), avviò le trattative con il presidente egiziano Sadat, culminate nel trattato di Camp David che gli valse il premio Nobel per la pace (1978). Abbandonò l’attività politica nel 1983. Ben Ali Zine El-Abidine (1936-). Ex presidente della Tunisia, costretto alla fuga il 14 gennaio 2011 dalle manifestazioni di piazza della «primavera araba». Militare degli apparati di sicurezza, nel 1989 era stato eletto in carica dopo che nel 1987 il suo predecessore, Habib Bourghiba, era stato allontanato dal potere in quanto «incapace di intendere e di volere». Benedetto XV [Giacomo Della Chiesa] (1854-1922). Eletto papa nel 1914, pochi mesi dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale, la condannò con estrema lucidità definendola, in un intervento del 1917, una «inutile strage». Benedetto XVI (1927-). Al secolo Joseph Aloisius Ratzinger, è papa emerito della Chiesa cattolica. Eletto al soglio pontificio il 19 aprile 2005, ha rinunciato all’ufficio di romano pontefice nel febbraio 2013, mantenendo il titolo di papa emerito e il trattamento di Sua Santità. Secondo le ricostruzioni storiche più attendibili, Ratzinger è stato l’ottavo papa a rinunciare al ministero petrino. Benelux. Termine con cui si definisce l’Unione economica tra Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi, siglata nel 1944 ed entrata ufficialmente in vigore nel 1948. Con essa si sanciva la libertà di commercio fra i tre paesi e si stabilivano comuni tariffe doganali nei confronti di paesi terzi. Ben Gurion David (1886-1973). Uomo politico israeliano, emigrato in Palestina dalla Polonia nel 1906, guidò Israele nella fase della sua co-

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stituzione e ne fu primo ministro dal 1948 al 1953 e nuovamente dal 1955 al 1963. Berchtold Leopold (1863-1942). Uomo politico austriaco, fu ministro degli Esteri dell’Impero austro-ungarico dal 1912 al 1915. È ritenuto uno dei maggiori responsabili del conflitto austro-serbo che portò allo scoppio della Prima Guerra mondiale. Berija Lavrentij Pavlovic (1899-1953). Uomo politico sovietico e commissario del popolo agli Affari interni dal 1938. Come capo del ministero incaricato della sicurezza dello Stato e delle forze di polizia, fu uno degli artefici delle purghe staliniane e l’organizzatore del sistema dei gulag. Nominato vicepresidente del Consiglio nel 1946, fu processato e fucilato dopo la morte di Stalin. Berlinguer Enrico (1922-1984). Segretario del Partito comunista italiano dal 1972 fino alla morte, avviò una politica di graduale autonomia del PCI dall’Unione Sovietica. Insieme ai comunisti di Francia e Spagna promosse un programma ispirato all’eurocomunismo. A partire dal 1973 fu artefice della strategia del «compromesso storico». Berlusconi Silvio (1936-). Uomo politico e imprenditore italiano. Fondatore e proprietario della società multimediale Fininvest (oggi Mediaset), presidente della squadra di calcio del Milan, è entrato in politica nel 1993, fondando nel gennaio dell’anno successivo un partito di centrodestra Forza Italia, confluito successivamente (2007) nel Popolo della libertà. Più volte presidente del Consiglio (1994-1995; 2001-2005; 20052006; 2008-2011), è stato deputato per cinque legislature dal 1994 all’inizio del 2013. Nelle elezioni del febbraio 2013 è stato per la prima volta eletto in Senato. Più volte imputato in procedimenti giudiziari, con sentenza passata in giudicato, nell’agosto 2013 è stato condannato a quattro anni di reclusione di cui tre condonati dall’indulto del 2006. Nell’ottobre del 2013, in seguito alla condanna, gli è stata inflitta l’interdizione dai pubblici uffici per due anni. A causa di ciò il 27 novembre 2013 il Senato ha votato a favore della sua decadenza dalla carica di senatore. Berezovskij Boris Abramovič (1946-2013). Uomo politico e imprenditore russo, fu uno dei primi miliardari della Russia post-sovietica. Accusato di essere un boss della mafia e fiero oppositore di Putin, è stato trovato morto nella sua casa in Gran Bretagna, per un apparente suicidio, il 23 marzo 2013. Bernstein Eduard (1850-1932). Uomo politico tedesco, fu tra i leader del Partito socialdemocratico. Nel suo saggio del 1899 I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia elaborò un’ampia revisione della dottrina marxista. Bersani Pierluigi (1951-). Uomo politico italiano. Giovanissimo entrò nel Partito comunista passando poi, dopo il suo scioglimento, al Partito democratico della sinistra, ai Democratici di sinistra e infine al Partito democratico. È stato presidente della Regione Emilia-Romagna nel 1993-1996, più volte ministro negli anni Novanta-Duemila e parlamentare europeo nel 2004-2006. Eletto segretario del PD nel 2009, si presentò come leader della coalizione di centro-sinistra alle elezioni politiche del 2013, dopo aver vinto le primarie dell’anno precedente per la scelta del candidato premier. Nell’aprile 2013, dopo l’esito fallimentare

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delle candidature di Franco Marini e Romano Prodi alla presidenza della Repubblica, candidature presentate dal suo partito, decise di dimettersi dalla segreteria PD. Beveridge William Henry (1879-1963). Economista inglese, direttore nel 1919 della London School of Economics, durante la Seconda guerra mondiale stilò per il governo due rapporti che portano il suo nome (nel 1942 e nel 1944) dal forte contenuto riformatore. Grazie ad essi, infatti, venne introdotta successivamente l’assistenza sanitaria gratuita e l’estensione della previdenza sociale agli strati della popolazione meno agiati. Fu nominato Lord nel 1946. Bevin Ernest (1881-1951). Uomo politico britannico, laburista. Durante la Seconda guerra mondiale partecipò come ministro del Lavoro al governo di coalizione retto da Winston Churchill. Dopo la vittoria laburista alle elezioni del 1945, entrò nel governo di Clement Attlee come ministro degli Esteri. Fervido anticomunista, sostenne apertamente l’alleanza con gli Stati Uniti e la politica americana nei primi anni della Guerra Fredda. Biagi Marco (1950-2002). Giuslavorista italiano. Consulente dei ministeri del Lavoro e del Welfare, è stato ucciso dalle nuove Brigate Rosse il 19 marzo 2002 a Bologna. Bianchi Michele (1883-1930). Uomo politico italiano. Socialista in gioventù e interventista nel 1915, fu tra i fondatori dei Fasci di combattimento (1919) e primo segretario del Partito nazionale fascista (19211923). Quadrumviro nel 1922, fu eletto deputato nel «listone» di Mussolini nel 1924 e nominato ministro dei Lavori Pubblici nel 1929. Bismarck-Schönhausen Otto von (1815-1898). Discendente da un’antica famiglia della nobiltà prussiana, fu primo ministro e ministro degli Esteri dal 1862 in Prussia. Fautore del rafforzamento militare e politico della Prussia, fu l’artefice dell’unificazione tedesca (1870). Sostenitore della politica europea dell’equilibrio, firmò la Triplice Alleanza con Austria-Ungheria e Italia (1882) e diede avvio alla politica coloniale tedesca in Africa. All’interno della Germania lottò contro i cattolici (Kulturkampf) e represse il movimento socialista, ma varò anche una legislazione sociale molto avanzata. I contrasti con l’imperatore Guglielmo II condussero nel 1890 alle sue dimissioni. Bissolati Leonida (1857-1920). Uomo politico italiano, fu tra i fondatori del Partito socialista italiano nel 1892, dove si collocò su posizioni riformiste. Nel 1911-12 appoggiò la guerra di Libia e per questo fu costretto a dimettersi dal partito. Nel 1914 fu tra i capi dell’interventismo democratico. Black Muslims. Organizzazione politico-religiosa che riunisce una parte della popolazione di colore degli USA. Il suo nome ufficiale è Nazione dell’Islam. Venne fondata nel 1930 da Wali Farad e fu particolarmente attiva negli anni Sessanta. Blanc Louis (1811-1882). Storico e uomo politico francese. Di formazione socialista, ammiratore di Robespierre, teorizzò nell’Organizza­ zione del lavoro (1839) la creazione degli ateliers sociaux (opifici sociali) con capitale statale. Nel 1848, come ministro del Lavoro del governo provvisorio, annunciò il «diritto al lavoro» e l’istituzione degli ateliers

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nationaux (opifici nazionali) per assicurare il lavoro ai disoccupati. Esule in Inghilterra, rimpatriò nel 1871 e, in dissidio con la Comune, difese la via delle riforme per affrontare la questione sociale. Fu tra i fondatori del Partito radical-socialista. Bloody sunday. Con questa espressione si fa riferimento alla domenica del 30 gennaio 1972 quando il primo battaglione del Reggimento Paracadutisti britannico, nella città di Londonderry in Nord Irlanda, aprì il fuoco su una manifestazione pacifica a favore dei diritti civili. Si contarono 13 morti e numerosi feriti. L’accusa rivolta ai militari era di aver sparato su civili disarmati, colpendoli, in alcuni casi, alle spalle. Blum Léon (1872-1950). Socialista francese, fu uno dei massimi dirigenti della SFIO (Sezione Francese dell’Internazionale operaia); nel 1920 si oppose fermamente all’adesione dei socialisti all’Internazionale comunista. Fu due volte presidente del Consiglio nella Terza Repubblica, dal giugno 1936 al giugno 1937 e dal 13 marzo al 10 aprile 1938. Il suo governo del 1936 si costituì dopo che la coalizione di Fronte Popolare, formata da socialisti, comunisti e radicali, aveva vinto le elezioni dell’aprile-maggio di quell’anno. Composto da ministri socialisti e radicali e col sostegno esterno del Partito comunista, l’esecutivo di Fronte Popolare guidato da Blum varò importanti riforme economico-sociali. Dopo la fine della Seconda Guerra mondiale Blum divenne capo del governo provvisorio dal dicembre 1946 al gennaio 1947. Boeri. Con questo termine si definiscono i discendenti dei coloni olandesi stanziatisi nell’Africa meridionale fin dal Seicento. Nel corso dell’Ottocento si batterono per l’indipendenza dalla Gran Bretagna che all’inizio del secolo aveva occupato la Colonia del Capo, provocando lo spostamento dei boeri a nord-est, verso il Transvaal, l’Orange e il Natal. Tra Otto e Novecento, dopo la scoperta di giacimenti di oro e diamanti in quelle regioni, lo scontro tra britannici e boeri portò a due sanguinose guerre terminate solo nel 1902 con la vittoria britannica. Bolscevichi. Il termine significa letteralmente «maggioranza» e venne attribuito all’ala del Partito operaio socialdemocratico russo che, nel II Congresso svoltosi nel 1903, si assicurò il controllo del giornale, l’«Iskra». I bolscevichi, che rappresentavano l’ala più radicale del partito e la cui guida fu presto assunta da Nikolaj Lenin, costituivano in realtà una parte minoritaria del Partito socialdemocratico. Staccatisi definitivamente dai menscevichi nel 1912, i bolscevichi furono artefici della rivoluzione dell’ottobre 1917 che li portò al potere in Russia. Promossero, con la fondazione della Terza Internazionale, la trasformazione delle correnti più radicali dei partiti socialisti in partiti comunisti, nome che essi stessi assunsero. Bonapartismo. Dal nome degli imperatori francesi Napoleone I e Napoleone III della famiglia Bonaparte, questo termine entrò nell’uso comune con il Secondo Impero di Napoleone III. Con esso si identifica infatti un sistema di potere che si regge sull’«appello al popolo», nel quale, cioè, le scelte non necessitano della mediazione degli organi costituzionali, ma vengono ratificate direttamente dal popolo attraverso i plebisciti, che diventano lo strumento della legittimazione del potere. Bonar Law Andrew (1858-1923). Uomo politico britannico. Succedette, nel 1911, ad Arthur Balfour alla guida del partito conservatore.

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Fautore dell’accordo di coalizione tra liberali e conservatori nelle elezioni del 1918, ricoprì la carica di primo ministro dal 1922 al 1923. Bonomi Ivanoe (1873-1951). Uomo politico italiano di fede socialista. Fin dai primi anni del Novecento si distinse per il suo moderatismo che lo portò ad abbandonare il Partito socialista nel 1911. Dopo la Prima guerra mondiale fu a capo del governo tra il luglio 1921 e il febbraio 1922. Nel 1944 il CLN lo chiamò a reggere il primo esecutivo di emanazione ciellenista dopo il governo Badoglio. Bordiga Amadeo (1889-1970). Tra i fondatori del Partito comunista d’Italia, ne fu il primo segretario, occupando questa carica dal 1921 al 1923. Messo in minoranza dalla linea di Gramsci e Togliatti durante il Congresso svoltosi a Lione nel 1926 con l’accusa di radicalismo e settarismo, quattro anni dopo fu espulso dal partito. Borsa. Il nome completo è «Borsa valori» ed indica un mercato dove si scambiano beni mobiliari e valute. Borsellino Paolo (1940-1992). Magistrato, membro del Pool Antimafia, procuratore della Repubblica a Marsala dal 1986 e procuratore aggiunto a Palermo dal 1991. Fu ucciso in un attentato di mafia il 19 luglio 1992, insieme ai cinque agenti della sua scorta. Bossi Umberto (1941-). Politico italiano, fondatore e segretario nazionale prima della Lega lombarda (1982) poi del partito Lega Nord (1991), entrò al Senato nel 1987, mentre dal 1992 in poi è stato eletto deputato. Nel secondo governo Berlusconi (2001) ha svolto l’incarico di ministro delle Riforme. Dopo la vittoria del centro-destra alle elezioni dell’aprile 2008, è di nuovo entrato nel governo Berlusconi come ministro delle Riforme per il Federalismo. Nel 2012, a seguito dello scandalo legato alla distrazione di fondi pubblici a favore della sua famiglia, ha rassegnato le dimissioni da segretario del partito. Botha W. Pieter (1916-2006). Uomo politico sudafricano, membro del National Party, già ministro della Difesa e primo ministro, è stato presidente della Repubblica Sudafricana dal 1984 al 1989. Bouazizi Mohammed (1984-2011). Giovane tunisino che, sebbene diplomato, era costretto a vendere verdure senza licenza nel suo villaggio di Sidi Bouzid. Il 17 dicembre 2010 la polizia gli sequestrò il carretto con cui svolgeva la sua attività di ripiego per mantenere la famiglia e lui, per protesta, si diede fuoco nella piazza del paese. Morì il 4 gennaio 2011 dopo una penosa agonia, quando ormai era diventato il simbolo della rivolta contro il regime tirannico e corrotto di Zine El-Abidine Ben Ali che inaugurò la stagione delle «primavere arabe» in Medio Oriente. Boulanger Georges (1837-1891). Generale francese, fu ministro della Guerra dal 1886 al 1887 e prese posizione contro la corruzione presente nelle alte gerarchie dell’esercito. Fautore della revanche contro la Germania, tra il 1886 e il 1887 divenne il punto di riferimento di un vasto ed eterogeneo movimento nazionalista antitedesco e antiparlamentare. Accusato di tradimento nel 1889, fuggì in Belgio dove si suicidò due anni dopo. Bouteflika Abdelaziz (1937-). Presidente dell’Algeria dal 1999, rieletto nel 2004, 2009, 2014. Come tutti i presidenti algerini succedutisi in carica dal 1992 – data del colpo di Stato con cui le Forze armate impedi-

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rono al Fronte islamico di salvezza di accedere al potere attraverso elezioni democratiche – la sua elezione è avvenuta con l’appoggio dei militari al potere. A lui si deve la politica della «concordia civile» con la quale ha tentato di riportare il paese alla stabilità dopo i terribili anni della guerra civile (1992-1999) costati all’Algeria più di 100.000 morti. Bozzi Aldo (1909-1987). Esponente del Partito liberale italiano, guidò la prima Commissione bicamerale per le riforme istituzionali dal 1983 al 1985. Brandt Willy (1913-1992). Nome originario Herbert Ernst Kark Frahm, entrò nel 1929 nella gioventù socialista e l’anno successivo nella SPD. All’avvento del nazismo, fu incaricato dal partito di formare una cellula di resistenza ad Oslo. Si trasferì quindi in Norvegia dove nel 1934 assunse il nome di copertura di Willy Brandt, che nel 1949 divenne il suo nome ufficiale. Dal 1957 al 1964 fu sindaco di Berlino. Presidente del Partito socialdemocratico dal 1964 al 1987, ricoprì i ruoli di vicecancelliere e di ministro degli Esteri (1966) nel governo di grande coalizione con i cristiano-democratici. Nominato cancelliere nel 1969, promosse il processo di distensione tra le due Germanie. Fu insignito del premio Nobel per la pace nel 1972. Bresci Gaetano (1869-1901). Anarchico italiano emigrato negli Stati Uniti, fece ritorno in Italia per uccidere il re Umberto I, quale atto di vendetta simbolica per l’eccidio compiuto a Milano nel 1898 dall’esercito guidato dal generale Bava Beccaris. Processato e condannato a morte, la sua pena fu commutata da Vittorio Emanuele III in ergastolo. Sulla sua morte, avvenuta ufficialmente per suicidio nel carcere di Ventotene, non è mai stata fatta piena chiarezza. Brežnev Leonid Ilič (1906-1982). Uomo politico sovietico. Segretario generale del PCUS (1964), nel 1977 assunse anche la carica di capo dello Stato. In campo internazionale perseguì una politica di competizione nucleare con l’Occidente, ma anche di progressiva normalizzazione dei rapporti con gli USA (trattati SALT I e SALT II). Teorizzò una politica di limitazione della sovranità dei paesi socialisti, che trovò la sua massima applicazione nell’invasione della Cecoslovacchia (1968). In politica interna perseguì la repressione del dissenso politico, in modo particolare nei confronti degli intellettuali. Briand Aristide (1862-1932). Socialista indipendente francese, lasciò il partito al momento della costituzione della SFIO nel 1905. Più volte ministro e presidente del Consiglio, promosse la riconciliazione francotedesca e nel 1928 patrocinò assieme allo statunitense Frank Kellog l’accordo che promuoveva il rifiuto della guerra per la risoluzione di controversie a livello internazionale. Brigate dei martiri di al-Aqsa. Nome assunto da uno dei bracci armati di al-Fatah nel corso della seconda intifada. Brigate Garibaldi. È il nome assunto durante la Resistenza italiana dai gruppi armati partigiani di ispirazione comunista. Brigate Internazionali. È il nome assunto dalle formazioni militari internazionali, prevalentemente di ispirazione comunista, che si batterono a fianco della Repubblica spagnola contro le truppe del generale Francisco Franco durante la guerra civile del 1936-1939.

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Brigate Matteotti. È il nome assunto durante la Resistenza italiana dai gruppi armati partigiani di ispirazione socialista. Brigate Rosse. Organizzazione terroristica di estrema sinistra, sorta in Italia all’inizio degli anni Settanta dalla confluenza di più gruppi che avevano scelto la lotta armata. Le loro prime azioni furono dirette all’interno delle fabbriche, per passare poi ad attentati e rapimenti di dirigenti industriali, giudici e uomini politici. Il disegno politico delle BR volto all’abbattimento dello Stato ebbe il suo momento più tragico nel rapimento e nell’assassinio del leader democristiano Aldo Moro nel 1978. Brüning Heinrich (1885-1970). Uomo politico tedesco, appartenente al Zentrum. Nel 1930 fu chiamato al cancellierato da Hindenburg e fece spesso ricorso ai poteri speciali conferiti al cancelliere dall’art. 48 della Costituzione di Weimar, inaugurando così, di fatto, una sorta di governo presidenziale. Fu costretto a dimettersi nel 1932, dopo aver cercato, ma senza grandi risultati, di risollevare il paese dalla grave crisi in cui era precipitato nel 1929. Bucharin Nikolaj Ivanovic (1888-1938). Tra i leader della Rivoluzione bolscevica del 1917, entrò in contrasto con la sinistra trotzkista del partito nella lotta per la successione a Lenin. Sostenitore, insieme con Stalin e contro Trockij, della teoria del «socialismo in un solo paese», si oppose all’industrializzazione forzata e alla collettivizzazione delle campagne volute da Stalin. Nel 1929 fu estromesso dagli organismi dirigenti del partito e nel 1938 processato e fucilato come «nemico del popolo». Venne riabilitato nel 1988. Bülow Bernhard von (1849-1929). Ministro degli Esteri tedesco dal 1897 al 1900, quando lasciò questa carica per assumere quella di cancelliere, che mantenne fino al 1909. Promosse e sostenne la politica di potenziamento della marina dell’ammiraglio Alfred von Tirpitz, che finì per avvicinare la Gran Bretagna a Francia e Russia, consolidandone l’intesa in chiave antitedesca. Bush George Herbert Walker (1924-). Uomo politico statunitense, appartenente al Partito repubblicano, fu vicepresidente di Ronald Reagan ed eletto dopo di lui alla presidenza degli Stati Uniti (dal 1988 al 1992). Venne sconfitto alle elezioni presidenziali del 1992 dal candidato democratico Bill Clinton. Bush George Walker jr. (1946-). Uomo politico statunitense, appartenente al Partito repubblicano. Governatore del Texas dal 1994 al 1998, fu eletto presidente nel 2001 e riconfermato nel 2004. Durante il suo primo mandato, gli Stati Uniti subirono gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 contro le Torri Gemelle di New York e il Pentagono. Ha diretto la reazione americana contro il regime dei talebani in Afghanistan, nel 2001, accusati di sostenere al-Qā’ida. Nel 2004 ha deciso, senza il consenso dell’ONU, di muovere guerra al regime iracheno di Saddam Hussein. Byrnes James (18979-1972). Uomo politico statunitense, membro del Congresso, fu anche giudice della Corte Suprema e dal 1945 al 1947 segretario di Stato. Era stato in precedenza uno dei più stretti collaboratori del presidente Franklin D. Roosevelt. Caballero Francisco Largo (1869-1946). Segretario nel 1925 del Partito socialista spagnolo (PSOE) e del sindacato socialista (UGT), fu pri-

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mo ministro e ministro della Guerra (1936-37). Dopo la sconfitta dei repubblicani nel 1939 riparò in Francia. Arrestato durante l’occupazione nazista, fu internato nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Liberato dopo la fine della guerra, morì in esilio a Parigi. Caciques-caciquismo. Con questo termine si identifica il sistema clientelare su cui si reggevano i partiti politici spagnoli (partito conservatore e partito liberale) durante il regno di Alfonso XII e di Alfonso XIII di Borbone. Cadorna Luigi (1850-1928). Appartenente ad una famiglia di antiche tradizioni militari, percorse tutti i gradi dell’esercito fino a conseguire la carica di capo di stato maggiore nel 1914. Guidò l’esercito italiano durante la Prima guerra mondiale, ma dopo la disfatta di Caporetto (1917) fu costretto a lasciare il comando supremo e venne sostituito dal generale Armando Diaz. Caetano Marcelo (1906-1980). Uomo politico portoghese. Succeduto a Salazar nel 1968, fu l’ultimo presidente del Consiglio della Seconda Repubblica portoghese (l’Estado Novo varato da Salazar nel 1932). Fu deposto dal golpe del 25 aprile 1974, la cosiddetta «rivoluzione dei garofani». Cairoli Benedetto (1825-1889). Uomo politico appartenente alla Sinistra Storica, fu primo ministro nel 1878 e di nuovo nel 1879. Si oppose al programma trasformistico di Agostino Depretis e Marco Minghetti. Calabresi Luigi (1937-1972). Commissario di polizia, responsabile dell’ufficio politico della questura di Milano. Nel corso delle indagini sulla strage di piazza Fontana a Milano del 1969, l’anarchico Giuseppe Pinelli, in stato di fermo da oltre due giorni, durante un interrogatorio cadde da una finestra della questura di Milano. La stampa di sinistra e in particolare il gruppo della sinistra extraparlamentare «Lotta continua» presero di mira Calabresi accusandolo di essere il responsabile della morte di Pinelli. Il 17 maggio 1972 Calabresi fu assassinato da un commando che lo aspettava sotto casa. Nel 1988, in seguito ad una confessione di Leonardo Marino, iniziò un lungo iter giudiziario arrivato a compimento solo nel gennaio 1997 con la sentenza definitiva di condanna a 22 anni di carcere per Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani quali mandanti dell’omicidio Calabresi. Canovas del Castillo Antonio (1828-1897). Politico spagnolo, fu tra i fautori della restaurazione della monarchia dei Borbone in Spagna nel 1875. Leader del partito conservatore insieme a Mateo Sagasta, fu artefice dell’accordo che stabiliva l’alternanza al governo tra conservatori e liberali. Capitalismo senza democrazia. Espressione usata per definire lo sviluppo economico di quei paesi che entrano nel libero mercato, ma conservano al loro interno un sistema politico autoritario o totalitario. In questa direzione si è mossa, dopo gli anni Settanta, la Cina comunista, ma prima di lei avevano imboccato questa strada i paesi dell’Asia orientale comunemente definiti «tigri asiatiche»: Corea del Sud, Hong Kong, Singapore e Taiwan. Cárdenas Lázaro (1895-1970). Militare e uomo politico messicano. Fu presidente della Repubblica del Messico (1934-1940). Nazionalizzò l’industria petrolifera, realizzò una riforma agraria e sostenne l’istruzio-

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ne libera e gratuita. Fu ministro della Guerra (1942-1945) e appoggiò la rivoluzione cubana. Carlisti. Termine che identificava i seguaci del pretendente al trono di Spagna Carlos Maria Isidoro di Borbone dopo l’abrogazione della legge salica da parte del re Ferdinando VII. Di ispirazione ultraconservatrice, i carlisti entrarono spesso in conflitto coi liberali. Dopo la morte di Carlos continuarono a rivendicare la discendenza al trono per i pretendenti di quest’ultimo. Le «guerre carliste» si protrassero in Spagna lungo tutto l’Ottocento. Carlo I d’Austria (1887-1922). Fu incoronato imperatore d’Austria nel 1916 alla morte di Francesco Giuseppe. Dopo la Prima guerra mondiale, in seguito al crollo dell’Impero austro-ungarico, riparò in esilio in Portogallo. Carlo Alberto di Savoia (1798-1849). Durante i moti rivoluzionari del 1921, in seguito all’abdicazione da parte dello zio Vittorio Emanuele I, assunse la reggenza del Regno di Sardegna e fece promulgare una Costituzione di matrice liberale, che tuttavia fu immediatamente abrogata dal nuovo re, Carlo Felice. Alla morte di quest’ultimo, assunto il trono in prima persona, concesse uno Statuto nel corso dei moti del 1848. L’anno successivo abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele e morì qualche mese dopo in esilio ad Oporto. Carlos Maria Isidoro di Borbone (1788-1855). Fratello di Ferdinando VII, quando nel 1833 quest’ultimo, dopo aver abolito la legge salica per permettere la successione al trono di sua figlia Isabella, chiamò Carlos a giurare fedeltà all’ordinamento dello Stato, si rifiutò ritenendo i propri diritti di discendenza di origine divina. Alla morte di Ferdinando, nello stesso anno, Carlos contestò la reggenza assunta dalla madre di Isabella. Ebbe così inizio una serie di conflitti, definiti guerre carliste, che insanguinarono la Spagna con lotte intestine per alcuni decenni. Carrillo Santiago (1915-2012). Segretario del Partito comunista spagnolo (1962-80), negli anni Settanta aderì all’eurocomunismo. La sua azione politica moderata e riformista favorì il processo di democratizzazione della Spagna dopo il franchismo. Espulso dal PCE nel 1985 con l’accusa di «eccessivo moderatismo», rifiutò l’invito di Zapatero di entrare nel Partito socialista (PSOE). Carta Atlantica. Sottoscritta nel 1941 da Gran Bretagna e Stati Uniti, vi aderì in seguito anche l’Unione Sovietica. In essa erano tracciati i principi a cui avrebbero dovuto ispirarsi i rapporti internazionali alla fine del conflitto. Cartello. Termine usato spesso come sinonimo di trust, indica l’accordo tra due o più imprese volto a coordinare le loro politiche di produzione e/o vendita per aumentare la capacità contrattuale verso altre imprese o gli stessi consumatori. Carter James Earl [Jimmy] (1924-). Uomo politico statunitense, membro del Partito democratico, fu eletto alla presidenza degli Stati Uniti nel 1977, carica che mantenne fino al 1981. A lui si devono gli accordi di Camp David tra il leader egiziano Anwar al-Sadat ed il premier israeliano Menachem Begin. Al termine del suo mandato si riaffermò nella convention democratica, battendo di misura Ted Kennedy, ma fu poi sconfitto alle elezioni presidenziali dal repubblicano Ronald Reagan.

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Caschi blu. Dal colore dell’elmetto, è il nome con cui si definiscono le forze militari internazionali appartenenti all’Organizzazione delle Nazioni Unite. Chiamate a intervenire in missioni di pace in paesi attraversati da conflitti o a vigilare su territori dichiarati neutrali, nel 1988 hanno ricevuto il premio Nobel per la pace. Casini Pier Ferdinando (1955-). Uomo politico italiano. Ex democristiano, è il leader e il capogruppo alla Camera dell’UDC. È stato presidente della Camera dei deputati nella XIV legislatura. Cassa per il Mezzogiorno. Ente costituito nel 1950 per incrementare lo sviluppo dell’Italia meridionale, isole comprese. Nel 1986 è stata sostituita dall’Agenzia per lo sviluppo del Mezzogiorno, chiusa per scelta referendaria nel 1993. Caste. Il sistema delle caste è un sistema in cui i gruppi sociali, definiti da precise caratteristiche, vivono in un ordine gerarchico tendenzialmente chiuso, per cui è difficile il passaggio da una casta di rango inferiore ad una di rango superiore. Castlereagh Robert Stewart (1769-1822). Deputato al Parlamento irlandese dal 1790, fece approvare l’unione legislativa dell’Irlanda alla Gran Bretagna (1801). Ministro della Guerra (1805-1806; 1807-1809) e degli Esteri (1912-22), guidò la politica estera inglese nella lotta contro Napoleone e nella prima fase della Restaurazione, partecipando al Congresso di Vienna (1814-1815). Castro Fidel (1926-). Leader della rivoluzione cubana che abbatté il regime di Fulgencio Batista. Instaurò a Cuba un regime socialista osteggiato dagli Stati Uniti ed appoggiato ben presto dall’URSS. Definito li­ der maximo, il suo regime è sopravvissuto all’implosione del sistema sovietico. A causa delle sue precarie condizioni di salute, nel 2006 gli è subentrato alla guida del paese il fratello Raúl Castro. Catena di montaggio. Sistema di produzione in base al quale le operazioni del montaggio dei prodotti industriali vengono eseguite in successione da addetti di fronte a cui scorrono, su un tapis roulant, i pezzi da montare. Tale sistema è finalizzato ad ottimizzare il lavoro degli operai e a contenere i tempi necessari per il montaggio di un manufatto complesso. Cattaneo Carlo (1801-1869). Uomo politico italiano attivo negli anni del Risorgimento, prese parte ai moti del 1848 e all’insurrezione delle «cinque giornate di Milano». Federalista convinto, dopo l’unificazione fu più volte eletto alla Camera dei Deputati. Cavaignac Louis-Eugène (1802-1857). Militare e uomo politico francese. Ministro della Guerra (1848), ricevette poteri dittatoriali e attuò una sanguinosa repressione dell’insurrezione popolare parigina. Venne fatto arrestare da Luigi Napoleone dopo il colpo di stato. Cavallotti Felice (1842-1898). Leader della sinistra radicale, fu eletto alla Camera dei deputati per la prima volta nel 1873. Si oppose al programma trasformista di Depretis e alla politica crispina; soprattutto durante i governi di Crispi denunciò con forza la corruzione della classe politica italiana. Cavour Camillo Benso, conte di (1810-1861). Leader dei liberali moderati nel Parlamento del Regno di Sardegna, Cavour promosse il processo di unificazione dell’Italia usando principalmente le arti della di-

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plomazia. Dalle colonne del giornale da lui fondato, «Il Risorgimento», sostenne l’importanza del sistema rappresentativo e il principio «libera Chiesa in libero Stato». Ceauşescu Nicolae (1918-1989). Uomo politico rumeno. Segretario generale del Partito comunista dal 1965, nel 1967 assunse la carica di presidente del Consiglio e nel 1974 quella di presidente della Romania. Nel dicembre del 1989 fu deposto da un’insurrezione popolare e giustiziato su iniziativa del Comitato di salvezza nazionale allora costituitosi. Čeka. Termine che deriva dalle due parole russe Cresvyčajnaja Kommissia, ovvero Commissione straordinaria per la repressione della controrivoluzione e del sabotaggio. Dietro questa sigla si celava la polizia segreta russa che, istituita nel 1917, andò a sostituire la vecchia polizia segreta zarista. Nel 1922 fu sostituita dalla GPU, Gossudarstvenoje politikeskoie upravlenie, cioè Amministrazione politica di Stato. Černenko Konstantin Ustinovic (1911-1985). Uomo politico sovietico, fu segretario del Partito comunista nel 1984-85. Cetnici serbi. Partigiani anticomunisti guidati da Draža Mihailović, furono attivi durante la Seconda guerra mondiale. Combatterono prima contro gli eserciti dell’Asse e in seguito, in opposizione alle truppe di Tito, presero contatto con le forze d’occupazione. Chamberlain Arthur Neville (1859-1940). Fu primo ministro conservatore in Gran Bretagna dal 1937 al 1940. Sostenitore di una politica di pacificazione (appeasement) nei confronti della Germania nazista, non si oppose alle prime annessioni territoriali di Hitler. Ma dopo l’invasione della Polonia (settembre 1939), dichiarò guerra alla Germania. Chamberlain Houston Stewart (1855-1927). Filosofo e studioso delle scienze naturali di origine inglese, prese la cittadinanza tedesca nel 1916 dopo aver sposato la figlia di Richard Wagner ed essere entrato a far parte dei circoli intellettuali nazionalisti tedeschi. Sostenne la teoria della purezza della razza ariana. Tra le sue maggiori opere, I fondamen­ ti del XIX secolo, pubblicata nel 1900 prima in tedesco e poi in inglese. Chamberlain Joseph (1836-1914). Uomo politico britannico. Liberalradicale, militò prima nelle file liberali, ma uscì dal partito nel 1886 in disaccordo col progetto di Home Rule per l’Irlanda varato da Gladstone. Riformatore in politica interna, in politica estera sostenne l’imperialismo. Charta ’77. Manifesto del dissenso cecoslovacco scritto nel 1977 per denunciare le violazioni dei diritti civili perpetrate nel paese dopo l’invasione sovietica del 1968. Tra i suoi estensori vi fu Václav Havel. Continuò a rimanere attivo come movimento dei dissidenti antisovietici. Cheney Richard Bruce [Dick] (1941-). Uomo politico statunitense. Dal marzo 1989 al gennaio 1993 fu segretario alla Difesa nell’amministrazione di George Bush padre. Promotore di due delle più importanti operazioni militari della storia recente degli Stati Uniti, Giusta Causa a Panama e Desert Storm in Iraq, si guadagnò la fama di «falco». Vicepresidente degli Stati Uniti durante l’amministrazione di George W. Bush jr., appoggiò la seconda guerra del Golfo e nel 2006 disse di essere favorevole alla condanna a morte di Saddam Hussein. Chiang Kai-shek [Jiang Jieshi] (1887-1975). Uomo politico cinese, successe a Sun Yat-sen alla guida del Guomindang. Prese le distanze dai

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comunisti nel 1927 e li combatté durante un lungo conflitto che si protrasse dal 1930 al 1935. Solo la guerra contro i giapponesi lo condusse ad un accordo con il Partito comunista di Mao. Al termine della Seconda Guerra mondiale riprese tuttavia il conflitto tra Guomindang e comunisti che si concluse con la vittoria di questi ultimi, mentre i nazionalisti del Guomindang ripararono nell’isola di Formosa. Qui mantennero in vita, sotto la presidenza di Chiang Kai-shek, la Cina nazionalista. Chiese protestanti non-conformiste. Confessioni religiose protestanti non anglicane presenti in Gran Bretagna. Chruščev Nikita Seergevic (1894-1971). Uomo politico sovietico. Segretario generale del PCUS (1953-64), fu primo ministro dell’URSS dal 1958 al 1964. Al XX Congresso del partito, nel 1956, denunciò il culto della personalità e i crimini di Stalin. Diede avvio alla destalinizzazione all’interno dell’URSS e in politica estera contribuì all’apertura di una fase di coesistenza pacifica con gli Stati Uniti. Non abbandonò, tuttavia, una politica di potenza, che nel 1962 arrivò a sfiorare, con la crisi dei missili a Cuba, lo scontro militare con gli USA. Usò il pugno di ferro nel reprimere la rivolta ungherese del 1956. Chunqiao Zhang (1917-2005). Politico cinese, nel 1938 entrò nel Partito comunista. Alla nascita della Repubblica popolare divenne un importante giornalista a Shangai. Qui conobbe Jiang Qing e collaborò con lei a lanciare la «rivoluzione culturale». Nel 1969 divenne membro del Comitato centrale del partito ma cadde in disgrazia dopo la morte di Mao. Nel 1976 fu arrestato e condannato a morte. Successivamente la pena venne commutata in carcere a vita. Fu rilasciato nel 2002. Churchill Winston (1874-1965). Figlio del leader tory Randolph Churchill, fu protagonista della scena politica britannica per quasi sessant’anni, ricoprendo numerose cariche di governo. Eletto deputato per il Partito conservatore alle elezioni del 1900, nel 1904 passò nelle file dello schieramento liberale. Tra il 1908 e il 1922 fu più volte ministro. Dopo essere rientrato nel Partito conservatore (1924), fu nominato cancelliere dello Scacchiere nel governo Baldwin (1924-1929). Primo ministro dopo la caduta di Chamberlain (maggio 1940), spinse la Gran Bretagna ad opporsi con tutte le forze al nazifascismo durante la Seconda guerra mondiale. Battuto alle elezioni politiche del 1945, fu di nuovo primo ministro nel 1951-1955. Ottenne il premio Nobel per la letteratura nel 1953 per i suoi scritti storici. Ciampi Carlo Azeglio (1920-). Economista, banchiere e uomo politico italiano. Senatore a vita e presidente emerito della Repubblica italiana, ricoprì tale carica dal 18 maggio 1999 al 15 maggio 2006. In precedenza era stato governatore della Banca d’Italia dal 1979 al 1993, presidente del Consiglio dei ministri (1993-1994) e ministro del Tesoro e del Bilancio (1996-1999). Eletto alla presidenza della Repubblica alla prima votazione e con una maggioranza schiacciante, Ciampi godette, durante tutto il suo mandato, di un alto indice di gradimento da parte dei cittadini; operò per cercare di trasmettere agli italiani un forte senso di identità nazionale. Ciano Galeazzo (1903-1944). Fascista, fu prima ministro della Stampa e Propaganda nel 1935, poi ministro degli Esteri dal 1936 al 1943. Nel

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1930 sposò Edda, figlia di Mussolini. Dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale fu spesso in disaccordo con Mussolini soprattutto a proposito dell’alleanza con la Germania, che Ciano disapprovava. Nella notte del 25 luglio votò a favore dell’ordine del giorno presentato da Dino Grandi contro Mussolini. Per questo la Repubblica sociale lo processò e condannò a morte. Clemenceau Georges Benjamin (1841-1929). Uomo politico francese, leader dei radicali, guidò il governo dal 1906 al 1909 e dal 1917 al 1919. Rappresentò la Francia alla Conferenza di Versailles, dove espresse la necessità di una linea di ferma intransigenza contro la Germania. Nel 1920 si ritirò dalla vita politica. Clinton Rodham Hillary (1947-). Politica statunitense. Moglie di Bill Clinton, è stata first lady dal 1993 al 2001 e successivamente senatrice per due mandati consecutivi dal 2001 al 2009. Barack Obama le affidò la carica di segretario di Stato durante il suo primo mandato presidenziale. Nel 2015 ha annunciato di volersi candidare alle elezioni presidenziali del 2016 per il Partito democratico. Clinton William Jefferson [Bill] (1946-). Esponente del Partito democratico statunitense, fu eletto alla presidenza nel 1992 e mantenne questo incarico per due mandati, interrompendo un lungo periodo di dirigenza repubblicana. Fautore di una politica estera di controllo dei conflitti internazionali, si adoperò per risolvere quello israelo-palestinese, pur non riuscendovi in modo definitivo. Cominform. Era l’Ufficio di informazione tra i partiti comunisti europei, costituitosi nel 1947 per iniziativa del Partito comunista sovietico. Ne facevano parte i partiti comunisti di Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Romania, Ungheria, Italia, Francia e Jugoslavia. Quest’ultima fu espulsa nel 1948 in seguito alla rottura dei rapporti tra Stalin e Tito. Fu sciolto nel 1956. Comintern. Sigla con cui veniva definita la Terza Internazionale, la cui costituzione fu promossa nel 1919 dal Partito bolscevico diretto da Lenin. Ad essa furono chiamati ad unirsi tutti i partiti socialisti che, espulsi i riformisti, avessero accettato di assumere il modello bolscevico di partito e di cambiare il nome in Partito comunista sezione della Terza Internazionale. Comitato di liberazione nazionale (CLN). Organizzazione costituitasi in Italia dopo l’8 settembre 1943 ad opera dei principali partiti antifascisti (DC, PCI, PSI, PLI, Pd’A e DdL) con il compito di dirigere le operazioni della Resistenza alle forze nazifasciste. Comitato per la difesa degli operai. Movimento politico-sociale sorto in Polonia nel 1976, originariamente per sostenere le famiglie dei lavoratori arrestati durante gli scioperi e rimasto attivo fino al 1981. Rappresentò un esempio di collaborazione tra intellettuali ed operai accomunati dall’opposizione al regime comunista. Commissariat général du plan (CGP). Istituzione creata nel 1946 da Charles De Gaulle con il compito di avviare e tenere sotto controllo la pianificazione economica del paese. L’Istituto fu posto in diretto collegamento con il primo ministro. Responsabile della struttura, nella fase di avvio, fu Jean Monnet. Nel 2005, il primo ministro Dominique de

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Villepin sostenne la necessità di sostituire il Commissariat con un Centro di analisi strategica, sempre alle dirette dipendenze del governo. Nel marzo 2006 è stata resa ufficiale la sostituzione. Commonwealth. Struttura di collegamento dei paesi già appartenuti all’Impero britannico. Il termine fu usato per la prima volta nel 1921 per definire i rapporti tra la Corona inglese e i dominion, ovvero le ex colonie. Nel 1931, con lo Statuto di Westminster, si distinse il British Empi­ re, cioè i territori legati alla Corona britannica, dal British Common­ wealth, cioè territori che si reggevano su governi indipendenti. Nel 1931 facevano parte del Commonwealth Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Unione Sudafricana, Irlanda e Terranova. Compromesso storico. Strategia politica promossa nel novembre 1973 dal segretario del PCI Enrico Berlinguer. Secondo questa linea politica, in una fase di crescita del consenso verso il partito comunista, bisognava essere avvertiti che comunque il partito non avrebbe potuto governare neppure con il raggiungimento della maggioranza assoluta e che quindi il superamento della conventio ad excludendum e l’accesso al governo per i comunisti sarebbero stati possibili solo in alleanza con la Democrazia Cristiana. Comune. Termine con cui si fa riferimento all’esperienza politica parigina del 1871. In seguito alle elezioni tenutesi nel febbraio di quell’anno, dopo la guerra franco-prussiana e di fronte alla consistente affermazione delle forze moderate e conservatrici, la popolazione di Parigi istituì una forma di autogoverno popolare chiamando a raccolta tutte le altre città per dar vita a una Federazione delle libere città di Francia in grado di autogovernarsi. L’esperimento della Comune venne represso dall’esercito governativo nel maggio 1871. Comunità cristiane di base. Gruppi di credenti costituitisi nel corso degli anni Sessanta che, sulla spinta del Concilio Vaticano II, cercarono di confrontarsi con la parola del Vangelo per stimolare un rinnovamento della presenza dei cristiani nel mondo alla luce dei nuovi problemi delle società contemporanee. Furono attivi soprattutto in Europa e si contraddistinsero per un forte impegno politico in difesa dei diritti civili, delle rivendicazioni operaie e dell’emancipazione dei popoli del Sud del mondo. Spesso le loro iniziative non furono riconosciute dalla gerarchia ecclesiastica. Comunità di Stati indipendenti (CSI). Struttura di coordinamento sovranazionale costituitasi nel 1991 tra 11 Stati dell’ex Unione Sovietica. Ad essa non aderirono le repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania). Gli Stati che la compongono sono totalmente indipendenti e la CSI ha funzioni solo di coordinamento finalizzato soprattutto alla cooperazione economica e politica. Comunità economica europea (CEE). Organizzazione istituita nel 1957 dal trattato di Roma siglato da Belgio, Francia, Repubblica federale tedesca, Italia, Lussemburgo e Olanda, allo scopo di unificare progressivamente le proprie economie. I principali obiettivi della CEE erano: lo sviluppo di un mercato comune europeo per il miglioramento socio-economico complessivo e dei singoli paesi membri, l’adozione di una politica doganale comune nei confronti di paesi terzi, la libera circola-

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zione di persone, capitali e servizi e il coordinamento delle politiche agricole e dei trasporti. Nel corso dei decenni successivi molti altri paesi dell’Europa si sono aggiunti ai sei fondatori. Nel 1993, con il trattato di Maastricht, la Comunità assunse il nome di Unione europea. Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Organizzazione internazionale costituita nel 1951 volta ad unificare i settori carboniferi e siderurgici all’interno dei paesi membri. L’organizzazione fu fondata da Belgio, Francia, Repubblica federale tedesca, Italia, Lussemburgo e Olanda, paesi che successivamente diedero vita alla Comunità economica europea. Comunità europea di difesa (CED). Nel 1952 fu sottoscritto il trattato istitutivo della CED da Francia, Belgio, Lussemburgo, Olanda, Repubblica federale tedesca e Italia. Esso prevedeva l’istituzione di un esercito europeo di difesa. Il trattato non fu tuttavia ratificato dai paesi firmatari. Comunità europea per l’energia atomica (EURATOM). Organizzazione istituita nel 1957, assieme alla CEE, da Belgio, Francia, Repubblica federale tedesca, Italia, Lussemburgo e Olanda con lo scopo di coordinare l’attività di ricerca e produzione dell’energia nucleare per scopi pacifici. Concentrazione antifascista. Organizzazione fondata a Parigi nel 1927 dai fuoriusciti italiani socialisti e repubblicani allo scopo di coordinare l’azione di lotta contro il regime di Mussolini. Confederación nacional del trabajo. Sindacato anarchico spagnolo, più noto con la sigla CNT. La sua politica si sviluppò spesso in contrapposizione a quella del sindacato maggioritario, la Unión General de Tra­ bajadores di ispirazione socialista. Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL). Sindacato italiano fondato nel 1906 da appartenenti all’area riformista del PSI. Fu sciolta nel 1927 dal governo fascista, ma rimase attiva clandestinamente all’interno del paese per opera di militanti comunisti, all’estero per opera di Bruno Buozzi. Fu ricostituita dopo la caduta del fascismo nel 1944; quando però nel 1948 si staccarono prima i cattolici, che diedero vita alla CISL, e nel 1949 i socialdemocratici, che diedero vita alla UIL, all’interno della CGIL rimase attivo solo il sindacato comunista guidato da Giuseppe Di Vittorio. Confederazione italiana dei sindacati dei lavoratori (CISL). Sindacato costituitasi nel 1950 dopo che i lavoratori cattolici, nel 1948, erano usciti dalla CGIL. Conferenza di Bandung. Incontro promosso nel 1955 da Birmania, Ceylon, India, Indonesia e Pakistan. Parteciparono 29 paesi appartenenti ad Africa e Asia. Tra gli obiettivi principiali della conferenza vi era quello di costituire un collegamento nella lotta contro il colonialismo. A partire da questa conferenza cominciò a definirsi tra i paesi terzomondisti il neutralismo rispetto alle due grandi potenze USA e URSS, da cui ebbe origine il movimento dei «non allineati» che si costituì ufficialmente a Belgrado nel 1961. Conferenza di Città del Messico. Conferenza mondiale svoltasi nel 1975 e dedicata alla condizione delle donne nel mondo. Il 1975 fu l’Anno internazionale delle Donne e la Conferenza di Città del Messico si tenne cinque mesi prima che l’ONU proclamasse il decennio 1976-1985

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«Decennio delle Nazioni Unite per le Donne». Con queste iniziative si volle promuovere un cambio di prospettiva verso l’universo femminile, ancora oggetto di pesanti discriminazioni in varie parti del mondo. Conferenza di Kienthal. Si svolse dal 24 al 30 aprile 1916 per iniziativa dei gruppi socialisti della Seconda Internazionale contrari alla guerra mondiale e postulò la necessità di una pace senza indennità o annessioni. Conferenza di Zimmerwald. Conferenza internazionale svoltasi dal 5 all’8 settembre 1915 tra i partiti socialisti per definire una comune linea rispetto alla guerra in corso. Prevalse la tesi di Lev Trockij che sosteneva una pace senza annessioni. Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa. Convocata ad Helsinki nel luglio 1973 per riavviare il dialogo Est-Ovest, diede origine al­l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE). Confucianesimo. Dottrina filosofica risalente a Confucio. Secondo i suoi principi, l’uomo deve entrare a far parte dell’armonia celeste, secondo rettitudine e benevolenza. Fino alla fondazione della Repubblica popolare cinese, nel 1949, il confucianesimo fu la dottrina ufficiale in Cina. Congrua. Termine con cui si definisce il contributo in denaro che riceve il clero dallo Stato nei paesi in cui ciò è previsto in base a un concordato tra Stato e Chiesa. Connolly James (1868-1916). Uomo politico irlandese, sindacalista, fu tra i fondatori prima del Irish Socialist Republican Party e poi del So­ cialist Labour Party, che nel 1903 abbandonò la Socialist Democratic Federation. Tra gli organizzatori della rivolta di Pasqua del 1916, fu condannato e fatto giustiziare dal governo britannico. Consiglio d’Europa. Organismo sopranazionale costituito nel 1949 allo scopo di creare uno spazio democratico e giuridico comune in Europa, organizzato nel rispetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e garante dei diritti fondamentali della persona. Consiglio militare amministrativo provvisorio (DERG). Consiglio militare di tendenze comuniste che, una volta destituito l’imperatore Hailé Selassié nel 1974, governò l’Etiopia fino al 1987. Conventio ad excludendum. Espressione latina con cui si suole definire la scelta di precludere, a partire dal 1948, la partecipazione al governo italiano sia della destra del Movimento sociale, sia del Partito Comunista e dei partiti ad esso collegati. Convenzione di Montreux. Accordo firmato nel 1936 da diversi paesi circa la regolamentazione del traffico marittimo attraverso lo stretto dei Dardanelli, il mar di Marmara e il Bosforo. L’Italia vi aderì nel maggio 1938. Convenzione europea. Organismo straordinario e temporaneo costituito nel 2002 all’interno dell’Unione europea con il compito di tracciare un progetto di riforma delle istituzioni comunitarie. Presidente della Convenzione fu il francese Valéry Giscard d’Estaing. Uno dei principali risultati dei lavori della Convenzione fu la stesura di un trattato per l’adozione di una Costituzione europea. Coolidge Calvin (1872-1933). Presidente degli Stati Uniti dal 1923 al 1929, apparteneva al Partito repubblicano.

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Corporations. Termine che, a partire dalla fine del XIX secolo, definisce le grandi concentrazioni industriali che, assunta la forma di persona giuridica, agiscono in base a normative loro specifiche. Corporazioni. Strutture base del sistema corporativo teso a organizzare i produttori e i lavoratori all’interno di organismi interclassisti secondo l’attività svolta. Questo sistema, già attivo nell’antichità e nel Medio Evo, fu riportato in auge nel Novecento dal fascismo italiano, che tentò di organizzare l’economia secondo una logica di corporativismo di Stato. Corradini Enrico (1865-1931). Intellettuale italiano, fu tra i principali esponenti del movimento nazionalista. Nel 1903 fondò la rivista «Il Regno» e nel 1911 il giornale «L’Idea Nazionale». Cortes. Termine con cui si definisce il Parlamento spagnolo. Costa Andrea (1851-1910). Uomo politico appartenente al proto-socialismo italiano. Fondò nel 1881 il Partito socialista rivoluzionario di Romagna. Nel 1882 fu il primo socialista ad entrare alla Camera dei deputati. Durante la crisi di fine secolo fu tra i più fervidi oppositori delle proposte di legge liberticide del ministero di Luigi Pelloux. Costantino II (1940-). Re di Grecia dal 1964 al 1973. Durante il suo regno si verificò il colpo di stato militare che instaurò la cosiddetta «dittatura dei colonnelli». Il sovrano, in un primo tempo consenziente e in seguito in disaccordo con l’esercito, tentò di riassumere il potere appellandosi al popolo. Fallito questo tentativo, si rifugiò in Italia. Nel 1973 fu dichiarato ufficialmente decaduto. Costituzione. Il termine deriva dal latino constitutio che a sua volta è legato al verbo constituere. A partire dal Settecento si affermarono due significati di Costituzione: da un lato, l’insieme dei rapporti giuridici e politici che stanno alla base di un sistema politico, dall’altro l’insieme delle regole che assicurano le libertà e i diritti dei cittadini. La differenza tra i due significati del termine corrisponde a quella tra «Costituzione formale» e «Costituzione materiale» introdotta da Carl Schmitt e rielaborata da Costantino Mortati. La «Costituzione formale» si identifica col documento nel quale sono contenuti i princìpi e gli istituti fondamentali dell’organizzazione statale. La «Costituzione materiale» è invece il concreto assetto dei rapporti politici, sociali e giuridici di ogni ordinamento politico, che può assumere valenze diverse dal documento scritto. Mentre la maggior parte degli Stati contemporanei si è dotata di Costituzioni scritte, il Regno Unito ha conservato una Costituzione «consuetudinaria», cioè fatta di norme non scritte frutto dell’esperienza e delle tradizioni affermatesi nel corso dei secoli. Costituzione dell’Unione europea. Quinto dei trattati firmato a Roma il 29 ottobre 2004 dai rappresentanti dei 25 paesi membri dell’Unione europea. La sua stesura è stata opera della Convenzione presieduta da Valéry Giscard d’Estaing. Il trattato costituzionale potrà entrare in vigore solo dopo la ratifica da parte di tutti gli Stati membri, da attuarsi per via parlamentare o tramite referendum. La mancata ratifica di alcuni paesi ne rende tuttora incerta la futura applicazione. Nei referendum svoltisi in Francia e Olanda rispettivamente il 29 maggio e il 1º giugno 2005, la maggioranza degli elettori ha votato contro la ratifica del testo della Costituzione europea. Nel giugno 2008 anche la maggioranza degli irlandesi si è opposta alla ratifica.

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Craxi Benedetto [Bettino] (1934-2000). Segretario del PSI dal 1976 al 1993, fu tra i primi uomini politici non democristiani ad assumere, nel 1983, la carica di presidente del Consiglio, mantenendola fino al 1987. Promosse una politica volta a far uscire il Partito socialista da una subalternità congenita rispetto alla DC e al PCI. Con quest’ultimo partito ruppe i rapporti sia sul piano ideologico che sul piano politico. Fu travolto dallo scandalo di «mani pulite» e venne condannato in via definitiva per corruzione nel 1996. Dal 1993 era riparato in Tunisia. Crimini contro l’umanità. Tale espressione definisce le azioni criminali perpetrate contro popoli o parte di popoli, tali che per la loro crudeltà e vastità sono percepite come un danno nei confronti dell’intera umanità. Dei crimini contro l’umanità si occupa la Corte penale internazionale che ha sede a L’Aja. Crimini di guerra. Questa espressione indica qualsiasi violazione delle norme del diritto di guerra e dei trattati e delle convenzioni internazionali, come ad esempio il mancato rispetto delle procedure di combattimento o il maltrattamento dei prigionieri di guerra e dei civili. In senso estensivo si utilizza per indicare anche stermini di massa o atti di genocidio. Crispi Francesco (1818-1901). Uomo politico italiano, partecipò alla rivoluzione siciliana del 1848 e nel 1860 prese parte alla spedizione dei Mille a fianco di Giuseppe Garibaldi. Tra gli oppositori del trasformismo depretisino, si riavvicinò in seguito al leader della Sinistra Storica e divenne primo ministro dopo la morte di Depretis nel 1887. Fu sostenitore dell’alleanza dell’Italia con Germania e Austria-Ungheria e promosse una politica imperialista. Lasciò il governo dopo la sconfitta di Adua del 1896. Cristiani maroniti. Ramo della Chiesa cattolica d’Oriente, presente soprattutto in Libano. Venne fondata nel V secolo da san Marone. Cristiano IX di Danimarca (1818-1906). Figlio di Federico Guglielmo, duca di Schleswig Holstein-Sonderbug-Glücksburg, nel 1947 fu scelto, con l’assenso di tutte le case regnanti d’Europa, a succedere a Federico VII, che non aveva eredi, sul trono di Danimarca. Incoronato nel 1863, subito dopo aver concesso la Costituzione che implicitamente incorporava il territorio dello Schleswig nella Danimarca, si scontrò con l’esercito dell’alleanza austro-prussiana e fu sconfitto. Croce Benedetto (1866-1952). Filosofo studioso di Marx, ne rifiutò la visione politica e il determinismo. Attraverso lo studio di Hegel, arrivò a definire il suo sistema filosofico in cui il divenire storico è sviluppo dello spirito, contro il determinismo. A livello politico, Croce fu un fermo oppositore del fascismo. Dopo la caduta del regime partecipò all’Assemblea Costituente e promosse la ricostituzione del Partito liberale, di cui diventò presidente nel 1948. Croix de Feu. Movimento dell’estrema destra francese, costituito nel 1927 da Maurice d’Hartoy. Riuniva ex combattenti di fede nazionalista. Nel 1931 ne assunse la guida François de la Rocque che diede al movimento una forte connotazione antiparlamentare e lo dotò di una struttura paramilitare. Sciolto nel 1936 dal governo del Fronte Popolare, dalle sue ceneri sorse il Parti social français. Daimyo. Termine che indica i grandi signori feudali in Giappone. La casta dei daimyo fu costituita nell’VIII secolo e da essa emerse l’istitu-

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zione dello shogunato. A partire dal XVII secolo i daimyo acquistarono il diritto di ereditarietà delle cariche. Daladier Eduard (1884-1970). Uomo politico francese di orientamento radical-socialista, fu più volte primo ministro nella Terza Repubblica. Fu tra i fautori dell’accordo di Monaco che sanzionava la dottrina dell’appeasement nei confronti della politica estera hitleriana. Dalai Lama. È la massima autorità spirituale della scuola buddista denominata Gelupa ed è anche la principale autorità temporale del Tibet. Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, è stato costretto all’esilio nel 1959 in seguito all’occupazione del Tibet da parte della Cina e da allora risiede in India. Nel 1989 ha ricevuto il premio Nobel per la pace per la resistenza non violenta promossa contro il governo cinese. D’Alema Massimo (1949-). Uomo politico italiano, segretario nazionale della FGCI dal 1975 al 1980, dal 1979 entrò a far parte del Comitato Centrale del PCI. Nel 1989 fu tra i sostenitori della svolta promossa da Achille Occhetto che portò alla trasformazione del PCI in Partito democratico della sinistra. Nel 1994 ne divenne segretario. Nel 1998 promosse la formazione di un nuovo partito per i democratici di sinistra (DS) e ne divenne presidente, carica che ha mantenuto fino al 2007. Più volte ministro, è stato dall’ottobre 1998 all’aprile 2000 primo ministro. Dalla Chiesa Carlo Alberto (1920-1982). Generale dell’Arma dei carabinieri, nel 1978 fu incaricato del coordinamento delle indagini sulle Brigate Rosse. Nominato prefetto di Palermo nel 1982, rimase vittima di un attentato mafioso nello stesso anno. D’Annunzio Gabriele (1863-1938). Scrittore e poeta, occupò una posizione di primo piano sulla scena politica italiana negli anni immediatamente successivi alla Prima guerra mondiale, quando organizzò l’occupazione della città di Fiume, rivendicandone il possesso all’Italia. D’Antona Massimo (1948-1999). Giuslavorista italiano. Consulente del ministero del Lavoro, è stato ucciso dalle nuove Brigate Rosse il 20 maggio 1999 a Roma. Darwin Charles Robert (1809-1882). Studioso di scienze naturali, elaborò, insieme ad Alfred Russel Wallance, la teoria della selezione della specie che propose con il suo studio L’origine della specie attraver­ so la selezione naturale, dato alle stampe nel 1859. Davis Jefferson (1808-1889). Fu il primo ed unico presidente degli Stati Confederati d’America. Dopo la sconfitta degli Stati Confederati nella guerra di secessione, fu catturato e imprigionato il 10 maggio 1865. Dazibao. Termine cinese che indica un cartellone murale scritto a mano. L’uso politico della parola risale agli anni Sessanta del Novecento, durante la «rivoluzione culturale», quando i dazibao diventarono il principale mezzo di comunicazione fra gli studenti. De Ambris Alceste (1874-1934). Tra i principali esponenti del sindacalismo rivoluzionario, nel 1908, alla guida della Camera del Lavoro di Parma, diresse lo sciopero agrario che rappresentò il battesimo di fuoco del sindacalismo rivoluzionario. Eletto alla Camera dei deputati nel 1913, fu sostenitore dell’interventismo nella Prima guerra mondiale e prese parte all’impresa fiumana. Contrario al fascismo, riparò all’estero fin dal 1922.

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De Bono Emilio (1866-1944). Fu tra i fondatori del Partito nazionale fascista e quadrumviro nella marcia su Roma del 1922. Fu ministro per le Colonie dal 1929 al 1935. Appoggiò l’ordine del giorno di Dino Grandi del luglio 1943 contro Mussolini. De Gasperi Alcide (1881-1954). Nel 1911, quale candidato dell’Unione politica popolare trentina, di matrice cattolica, fu eletto al Parlamento austriaco. Dopo la Prima guerra mondiale e il ritorno delle terre irredente all’Italia, entrò alla Camera dei deputati tra le file del Partito popolare italiano. Antifascista convinto, fu perseguitato dal regime mussoliniano e incarcerato. Fu tra i fondatori della Democrazia Cristiana e nel 1944 ne divenne segretario, carica che mantenne fino al 1946. Dal dicembre 1945 fino al maggio 1947 fu alla guida della coalizione di governo tripartita. Dopo l’espulsione delle sinistre dal governo, diede vita alle coalizioni centriste che caratterizzarono gli esecutivi da lui guidati fino al luglio del 1953. De Gaulle Charles (1890-1970). Generale e uomo politico francese. Ufficiale durante la Seconda guerra mondiale, fu nominato sottosegretario alla Difesa il 6 giugno 1940, poco prima dell’armistizio con la Germania. Dopo la resa ai tedeschi e la formazione del governo Pétain, riparò a Londra da dove, il 18 giugno, lanciò un appello ai francesi per continuare la lotta contro i nazisti, assurgendo così a simbolo della volontà francese di resistere alle potenze dell’Asse. Grazie ai meriti conquistati nel corso della Resistenza, De Gaulle si impose sulla scena politica francese e, dopo la Liberazione, fu presidente del governo provvisorio che guidò il paese prima della convocazione dell’Assemblea Costituente. Insoddisfatto, tuttavia, dell’impianto istituzionale uscito dal­l’Assemblea che diede vita alla Quarta Repubblica, si ritirò dalla vita politica (1946). Fu richiamato dal presidente della Repubblica nel maggio 1958 in un momento di grave crisi politica ed economica, dovuta soprattutto alla guerra in Algeria. Assunta nuovamente la guida del governo, De Gaulle elaborò una nuova Costituzione che, approvata da un referendum popolare a settembre, istituì la Quinta Repubblica. A dicembre del 1959 fu eletto presidente della Repubblica e tre anni dopo mise fine alla crisi algerina concedendo al paese l’indipendenza. Confermato alle elezioni presidenziali del 1965, dopo il ballottaggio con Mitterand, si dimise dalla carica di presidente nel 1969, ritirandosi definitivamente dalla vita politica. De Gouges Olympe (1748-1793). Letterata francese, attiva durante la Rivoluzione francese, a lei si deve la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina in cui proclamava l’eguaglianza tra uomini e donne dal punto di vista sia sociale che politico. De Klerk Frederik (1936-). Uomo politico sudafricano, di sentimenti nazionalisti, fu presidente della Repubblica dal 1989 al 1994, favorendo il processo di abolizione del regime di apartheid. De Lorenzo Giovanni (1907-1973). A capo del Servizio informazioni forze armate (SIFAR) dal 1955 al 1962, successivamente fu posto alla guida dell’Arma dei carabinieri, che tenne fino al 1966. Il suo nome venne alla ribalta per il ruolo avuto nella progettazione del «Piano Solo» nel 1964. Delors Jacques (1925-). Economista e uomo politico francese, ministro dell’Economia durante i governi di Pierre Mauroy dal 1981 al 1984.

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Nel 1985 fu designato a rappresentare la Francia alla Commissione europea insieme a Chaude Cheysson. Fu presidente della Commissione stessa dal 1985 al 1995. De Maistre Joseph (1753-1821). Filosofo e diplomatico francese. Fu uno dei più strenui sostenitori della Restaurazione dopo il 1815. Sosteneva la suprema autorità del papa anche in ambito politico. Deng Xiaoping (1904-1997). Uomo politico cinese, alla guida del Partito comunista dal 1954 al 1966. Caduto in disgrazia con la «rivoluzione culturale» di Mao, ritornò ad avere un ruolo politico di primo piano nel 1973 e dopo la morte di Mao, nel 1976, guidò il nuovo corso cinese nell’apertura all’Occidente, pur senza modificare la centralità del Partito comunista all’interno del paese. De Nicola Enrico (1877-1959). Uomo politico italiano, fu più volte deputato durante l’età giolittiana e nell’immediato primo dopoguerra. Ritiratosi dalla politica dopo l’avvento del fascismo, nel dicembre 1943 promosse la luogotenenza di Umberto di Savoia al posto di Vittorio Emanuele III. Eletto capo provvisorio dello Stato dall’Assemblea Costituente, fu il primo presidente della Repubblica italiana. Depretis Agostino (1813-1877). Uomo politico italiano, leader della Sinistra Storica. Nel 1876 guidò il primo governo della Sinistra, avviando nel paese un programma di riforme secondo quanto aveva preannunciato ai suoi elettori di Stradella nella campagna elettorale del 1876. In accordo con Marco Minghetti, leader della Destra Storica, nel 1883 promosse quella «trasformazione» dei partiti che diede origine alla politica trasformista. Dervisci. Nome che indica i seguaci di alcune confraternite islamiche che predicano l’ascetismo. Il termine è comune a diversi gruppi sufi. Descamisados. Termine spagnolo che letteralmente significa «scamiciati» e, per estensione, fu utilizzato per indicare la base sociale dei lavoratori su cui poggiava la dittatura Juan Domingo Perón in Argentina. Destino manifesto. Titolo di un saggio dello storico americano John Fiske pubblicato nel 1885, che riprendeva l’espressione coniata quarant’anni prima durante la guerra tra Stati Uniti e Messico. L’espressione indica la convinzione che agli Stati Uniti fosse stato assegnato dalla stessa provvidenza il compito di diffondere nel mondo, quasi come una «missione» inevitabile, i loro ideali di libertà e democrazia. Destra Storica. Raggruppamento politico e parlamentare che governò l’Italia dal 1861 al 1876. Si poneva idealmente e politicamente in continuità con l’azione di Cavour. I suoi principali esponenti furono Marco Minghetti, Bettino Ricasoli, Urbano Rattazzi, Quintino Sella. Dopo la caduta del governo Minghetti, avvenuta nel 1876 proprio quando gli uomini della Destra avevano faticosamente realizzato il pareggio del bilancio, la Destra Storica dovette cedere le redini del potere alla Sinistra. De Valera Eamon (1882-1975). Uomo politico irlandese, leader del Sinn Féin e attivo nell’opposizione repubblicana che scatenò la guerra civile al momento del trattato britannico che univa le province dell’Ulster alla Gran Bretagna. Si staccò dal Sinn Féin nel 1927 per dar vita ad un movimento più moderato, Fianna Fáil. Primo ministro dal 1932 al 1948 e dal 1951 al 1959, guidò l’Irlanda alla conquista della piena indipendenza.

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De Vecchi Cesare Maria (1884-1959). Fascista, fu ministro dell’Educazione nel 1935-1936. Votò l’ordine del giorno di Dino Grandi che mise in minoranza Mussolini all’interno del Gran Consiglio nella notte del 25 luglio 1943. Venne per questo condannato a morte in contumacia dalla Repubblica sociale italiana. Diaz Armando (1861-1928). Maresciallo a capo del XXIII corpo d’armata durante la Prima guerra mondiale, sostituì Luigi Cadorna alla guida dello stato maggiore dell’esercito italiano dopo la sconfitta di Caporetto e mantenne la carica fino alla fine del conflitto. Dal 1922 al 1924 fu ministro della Guerra nel primo governo Mussolini. Díaz José Porfirio (1830-1915). Militare e uomo politico messicano. Presidente della Repubblica (1877-80 e 1884-1911), governò con metodi semidittatoriali centralizzando tutti i poteri. Aprì il paese ai capitali stranieri, specialmente statunitensi, e promosse una politica agraria di concentrazione fondiaria. Fu deposto da Francisco Madero all’inizio della Rivoluzione messicana (1911). Dichiarazione Balfour. Dichiarazione rilasciata al Congresso sionista mondiale del 1917 dal ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour. Con essa la Gran Bretagna si impegnava a favorire la creazione di un «focolare nazionale ebraico» in Palestina. Dichiarazione Schuman. Discorso tenuto il 16 maggio 1950 a Parigi dal ministro degli Esteri francese Robert Schuman, dove per la prima volta si prospettava la cooperazione economica e l’unione doganale dei paesi europei. Dieta di Francoforte. Assemblea della Confederazione Germanica, era in realtà priva di poteri effettivi. Sospese le sue sedute durante i moti del 1848 e fu sciolta nel 1866 quando venne istituita la Confederazione tedesca del Nord. Dimitrov Georgj (1882-1949). Uomo politico bulgaro, fu tra i fondatori del Partito comunista. In Germania nel 1933, venne accusato da Hitler di essere il mandante dell’incendio del Reichstag e fu espulso dal paese. Si rifugiò in URSS e tra il 1935 e il 1943 fu segretario generale della Terza Internazionale e fu l’ispiratore della politica dei fronti popolari contro il nazifascismo. Tornato in Bulgaria nel 1944, fu alla guida del governo dal 1946 fino alla morte. Di Pietro Antonio (1950-). Nel 1992 fece parte del pool di magistrati che condussero l’inchiesta «Mani pulite» che fece emergere un vasto sistema di corruzione tra politica e affari in Italia. Nel 1995 lasciò la magistratura. Nel 1997 è stato eletto alla Camera dei deputati nelle liste del­l’Ulivo e nel 1998 ha fondato il partito Italia dei Valori. Diritti umani. La Dichiarazione universale dei diritti umani fu approvata dall’ONU il 10 dicembre 1948. È composta da 30 articoli che affermano e riconoscono i diritti civili, politici, economici, sociali e culturali di tutti gli individui. Disraeli Benjamin (1804-1881). Politico britannico, leader dei conservatori, ricoprì più volte la carica di primo ministro negli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento. Fautore di riforme sociali e politiche, il suo conservatorismo fu definito tory democracy.

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Dominion. Temine con cui si definiva lo statuto giuridico dei paesi dell’Impero britannico che godevano di un regime di autogoverno. Dönitz Karl (1891-1980). Militare tedesco, dal 1942 comandante della marina tedesca, divenne presidente del Terzo Reich nel 1945 in seguito al suicidio di Hitler e fu lui a firmare la resa l’8 maggio 1945. Quindici giorni dopo venne arrestato dagli inglesi. Processato a Norimberga, con l’accusa di crimini di guerra, fu condannato e trascorse dieci anni nel carcere di Spandau, a Berlino Ovest. Dostoevskij Fëdor (1821-1881). Scrittore russo, fu promotore di un nazionalismo di stampo slavofilo. Tra le sue principali opere volte ad indagare gli aspetti più profondi dell’animo umano, Umiliati e offesi (1862), Delitto e castigo (1866), L’idiota (1869) e I fratelli Karamazov (1880). Dozier James Lee (1931-). Generale statunitense, comandante della NATO per l’Europa meridionale, mentre ricopriva tale incarico fu rapito dalle Brigate Rosse nel 1981. Dopo poco più di un mese fu liberato da un commando dei NOCS, il Nucleo operativo centrale di sicurezza italiano. Dreyfus Alfred (1859-1935). Militare francese accusato di spionaggio a favore della Germania, fu condannato con l’accusa di alto tradimento il 22 dicembre 1894. Basate su documenti falsi, le irregolarità del processo vennero rese pubbliche in una lettera aperta che lo scrittore Émile Zola diresse, dal giornale «L’Aurore», al presidente della Repubblica. Dreyfus, dopo la riapertura del caso, venne riabilitato definitivamente nel luglio 1906. Drusi. Setta religiosa sciita, presente prevalentemente in Libano e Siria, il cui credo si rifà a quello ismailita. Essi sostengono che Dio si manifesti periodicamente sotto forma umana. Nel Novecento, le grandi famiglie druse giocarono un ruolo importante nella lotta per l’indipendenza del Libano. Uno dei loro principali esponenti, Kamal Jumblat, fondatore del Partito progressista libanese, promosse l’avvicinamento del Libano all’Egitto. Duarte Eva (1919-1952). Moglie di Juan Domingo Perón, ebbe un ruolo politico attivo nel regime del marito e riuscì a costruirsi un forte potere personale soprattutto grazie alla popolarità acquisita presso le classi lavoratrici per le opere assistenziali da lei promosse. Dubček Alexander (1921-1992). Segretario del Partito comunista cecoslovacco nel 1968, promosse la costruzione di un «socialismo dal volto umano». La sua azione venne fermata dall’invasione dell’esercito sovietico. Dopo il crollo dei regimi comunisti fu eletto alla presidenza del Parlamento. Dulles John Foster (1888-1959). Uomo politico statunitense, segretario di Stato durante la presidenza Eisenhower. Nel conflitto dei primi anni Cinquanta tra Francia e Vietminh, la Lega per l’indipendenza del Vietnam, si pronunciò a favore di un sostegno americano alla Francia. Duma. Nome con cui fu definita l’Assemblea rappresentativa russa dalla Costituzione del 1905, concessa dallo zar Nicola II. Ebert Friedrich (1871-1925). Uomo politico tedesco, membro del Partito socialdemocratico, fu nominato alla guida del governo provvisorio tedesco nel novembre 1918 dopo la caduta del governo di Max von Baden. L’11 febbraio 1919 fu eletto presidente della Repubblica dall’Assemblea Costituente riunita a Weimar e tenne questa carica fino alla sua morte.

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Eden Anthony (1897-1977). Uomo politico inglese appartenente al Partito conservatore. Più volte ministro degli Esteri, contrastò il pre­ mier Neville Chamberlain nella sua politica di appeasement nei confronti della Germania di Hitler. Fu alla guida del Partito conservatore dopo Churchill e dal 1955 al 1957 fu primo ministro. Eichmann Adolf (1906-1962). Colonnello delle SS tedesche, nel 1940 gli venne affidata la sezione dell’Ufficio Centrale della polizia razziale del Reich a cui l’anno seguente fu assegnato l’incarico della «soluzione finale del problema ebraico» che si tradusse nello sterminio. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale era riparato in Argentina ma, scoperto nel 1960 da agenti israeliani, fu arrestato e condotto in Israele dove fu processato, condannato a morte e giustiziato. Einaudi Luigi (1874-1961). Economista, uomo politico italiano, fu presidente della Repubblica nel 1948-1955. Professore universitario, fu oppositore del fascismo. Nel 1945 fu nominato governatore della Banca d’Italia e nel 1947, divenuto ministro del Bilancio nel quarto gabinetto De Gasperi, propose una politica rigidamente deflazionista e adottò un’impostazione liberista con cui riuscì a stabilizzare il valore della lira. Einstein Albert (1879-1955). Fisico tedesco, emigrato prima in Svizzera e poi negli Stati Uniti. Professore all’Institute for Advanced Study di Princeton, a lui si deve la teoria della relatività, passaggio obbligato verso la fisica moderna. Sostenitore dell’importanza delle scoperte nucleari, ma allo stesso tempo pacifista convinto, prese più volte posizione contro l’uso delle armi nucleari e a favore del disarmo. Eisenhower Dwight (1890-1969). Già capo di stato maggiore del­ l’esercito americano, nel 1943 assunse il comando delle forze alleate in Europa. Nel 1950 il presidente Truman lo chiamò a dirigere le forze del­ l’Alleanza atlantica. Nel 1952 si presentò candidato per il Partito repubblicano alle elezioni presidenziali e le vinse. Fu presidente degli Stati Uniti dal 1952 al 1961. Elisabetta II Windsor (1926-). Regina di Gran Bretagna dal 1952, figlia del re Giorgio VI, sposò nel 1947 Filippo di Mountbatten. Eltsin Boris (1931-2007). Nella fase di transizione dell’Unione Sovietica avviata da Michail Gorbačëv, ne fu tra i sostenitori più convinti. Nel 1991 fu eletto, a suffragio diretto, presidente della Repubblica federale russa e nello stesso anno fu il principale oppositore del tentativo di colpo di stato messo in atto dall’ala conservatrice del Partito comunista sovietico. Nel 1996 fu riconfermato alla presidenza della Repubblica, carica che mantenne fino al 1999. Encyclopédie. Il titolo completo dell’opera è Encyclopédie ou Dic­ tionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers; fu pubblicata da Denis Diderot e Jean Baptiste D’Alembert a metà del Settecento. Essa rappresenta l’espressione più vivace e la sintesi del pensiero illuminista francese. Engels Friedrich (1820-1895). Dopo l’incontro con Karl Marx nel 1844, prese parte ai moti del 1848 in Germania e, nello stesso anno, diede alle stampe con Marx il Manifesto del Partito comunista. Dopo la morte di Marx nel 1883, rimase un punto di riferimento per i socialisti di tutta Europa.

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Erhard Ludwig (1897-1977). Economista e uomo politico tedesco. Democristiano, fu ministro dell’Economia nella Repubblica federale tedesca (1949-1963), collaborando con il cancelliere Adenauer. È riconosciuto come l’artefice del «miracolo economico» tedesco nel secondo dopoguerra. Nel 1963 successe ad Adenauer nella carica di cancelliere, ma nel 1966 si dimise. Erzberger Matthias (1875-1921). Uomo politico tedesco. Tra i leader del Zentrum cattolico, nel 1917 presentò una mozione per la pace senza annessioni. Più volte ministro, rappresentò la Germania nelle trattative per l’armistizio e promosse la coalizione tra Zentrum e socialdemocratici che permise la firma del trattato di pace. Morì in un attentato. Escrivá de Balaguer José Maria (1902-1975). Sacerdote spagnolo, fondatore dell’Opus Dei. È stato proclamato santo nel 2002 da papa Giovanni Paolo II. Essebsi Beji Cai (1926-). Primo presidente eletto democraticamente in Tunisia. Avvocato attivo in politica già coi presidenti Habib Bourghiba (1959-1987) e Zine El-Abidine Ben Ali (1989-2011), il 21 dicembre 2014 è stato eletto in carica dopo che il suo partito, Appello per la Tunisia, aveva vinto le legislative del 27 ottobre dello stesso anno, sopravanzando Ennahda, il partito islamico che si era affermato alle elezioni per la Costituente del 23 ottobre 2011, seguite allo scoppio della «primavera araba» tunisina e alla cacciata di Ben Ali. Eurocomunismo. Progetto politico messo a punto dai partiti comunisti italiano, francese e spagnolo negli anni Settanta, volto a definire una strategia comune che prendesse le distanze dall’URSS. European Recovery Program (ERP). Piano economico varato dagli Stati Uniti nel 1947 per la ricostruzione dei paesi europei dopo la Seconda guerra mondiale. È comunemente noto come Piano Marshall. Fabian Society. Associazione britannica di matrice social-riformista, il cui nome si ispirava all’uomo politico dell’antica Roma Quinto Fabio Massimo detto «il temporeggiatore». Venne fondata nel 1884 da intellettuali e politici progressisti, tra cui i coniugi Sidney e Beatrice Webb e George Bernard Shaw. Unendosi ad altri gruppi, contribuì a dar vita, all’inizio del Novecento, al Partito laburista. Facta Luigi (1861-1930). Deputato liberale dal 1892, più volte ministro delle Finanze dal 1913 al 1921, era presidente del Consiglio, da febbraio, quando nell’ottobre 1922 si svolse la marcia su Roma dei fascisti. Decretò lo stato d’assedio, che non fu tuttavia controfirmato dal re. Fair Deal. Significa «patto onesto» e indica il programma del presidente americano Truman in politica interna, un programma che si poneva in continuazione ideale con il New Deal rooseveltiano. Falange. Movimento vicino al fascismo italiano, fondato in Spagna da José Antonio Primo de Rivera. Appoggiò Franco nel colpo di stato contro la Repubblica spagnola del 1936 che scatenò la guerra civile. Nel 1937 Franco unì d’autorità la Falange agli altri gruppi nazionalisti e tradizionalisti che lo sostenevano. Falcone Giovanni (1939-1992). Magistrato, membro del Pool Antimafia, nel 1991 assunse la presidenza della sezione Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia. Promosse una costante lotta contro la ma-

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fia e rimase vittima di un attentato mafioso a Capaci il 23 maggio 1992. Con lui persero la vita la moglie e tre agenti della scorta. Fanfani Amintore (1908-1999). Uomo politico della Democrazia Cristiana, guidò il partito dopo la morte di De Gasperi, tenendo la segreteria dal 1954 al 1959 e imprimendo al partito un’importante svolta organizzativa. Dal 1946, quando fu eletto all’Assemblea Costituente, rimase sempre all’interno del Parlamento italiano dove, al momento della morte, era ancora presente come senatore a vita. Più volte ministro e presidente del Consiglio, fu tra i fautori dell’apertura a sinistra verso il PSI di Nenni. Farage Nigel (1964-). Uomo politico britannico. Dal 2010 è leader dello United Kingdom Independence Party (carica che aveva ricoperto anche nel 2006-2009), partito che ha tra i punti fondamentali del suo programma la lotta all’immigrazione, la difesa dell’identità britannica e l’impegno a far uscire la Gran Bretagna dall’Unione europea. Dopo l’esito deludente ottenuto alle elezioni politiche del 7 maggio 2015, aveva annunciato le dimissioni, respinte però all’unanimità dall’ufficio politico del suo partito. Farini Luigi Carlo (1812-1866). Uomo politico italiano. Partecipò ai moti del 1831 e fu costretto all’esilio. Fu tra gli autori del manifesto di Rimini (1845), in cui si chiedevano riforme e maggiore libertà nello Stato pontificio. Deputato liberale (1849-1865), fu ministro con Massimo d’Azeglio e stretto collaboratore di Cavour. Nel gennaio del 1861 fu nominato da Vittorio Emanuele II luogotenente di Napoli e in seguito fu presidente del Consiglio (1862-63) del Regno d’Italia. Faruk I (1920-1965). Succedette al re Faud I sul trono d’Egitto che tenne dal 1936 al 1952, quando dovette lasciare il potere in seguito alla rivolta dei Liberi Ufficiali guidata dal generale Nagib. Fasci di combattimento. Movimento costituito il 23 marzo 1919 in Piazza San Sepolcro a Milano da parte di Benito Mussolini. Nel 1921 dai Fasci di combattimento prese origine il Partito nazionale fascista. Fasci siciliani. Strutture di tipo politico-sindacale che si costituirono in Sicilia tra il 1891 e il 1894. Animatore del movimento dei Fasci fu Giuseppe De Felice Giuffrida, che costituì a Catania il primo Fascio nel 1891. Tornato al governo nel 1893, Crispi sciolse i Fasci ed emanò una serie di provvedimenti che portarono all’arresto e alla condanna dei principali organizzatori del movimento. Fedayyin. Termine che letteralmente indica colui che si immola per una causa, viene utilizzato di norma per definire i guerriglieri all’interno del mondo arabo. Federico Guglielmo IV (1795-1861). Re di Prussia salito al trono nel 1840. Travolto dai moti rivoluzionari del 1848, rifiutò l’anno successivo la corona imperiale offertagli dall’Assemblea nazionale di Francoforte. Nell’ultimo decennio del suo regno accentuò i tratti conservatori del suo potere. Federico VII di Danimarca (1808-1863). Ultimo sovrano di Danimarca ad esercitare un potere assoluto, nel 1848 introdusse nel paese un sistema monarchico costituzionale. La Costituzione varata in quell’anno prevedeva il suffragio universale maschile.

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Ferdinando I d’Austria (1793-1875). Imperatore d’Austria e re di Ungheria dal 1835 al 1848. Figura debole e di scarso spessore politico, affidò di fatto la guida dell’Impero a Klemens von Metternich, cancelliere di Stato. Dopo i moti del 1848 abdicò in favore del nipote Francesco Giuseppe. Ferdinando II di Borbone (1810-1859). Assunto il titolo di re delle Due Sicilie nel novembre del 1830, cercò di avviare una politica di riforme. Durante la rivoluzione del 1848 sembrò acconsentire, in un primo tempo, alle istanze provenienti dagli ambienti liberali e concesse una Costituzione. La ritirò, tuttavia, dopo pochi mesi. Morì improvvisamente nel 1859. Ferdinando III di Asburgo-Lorena (1769-1824). Fu granduca di Toscana dal 1790 al 1799 e, dopo la caduta di Napoleone, tornò sul trono nel 1814, ottenendo al Congresso di Vienna alcuni ampliamenti territoriali. Artefice di una restaurazione mite e «illuminata», che mantenne molte delle leggi introdotte dai francesi, si dedicò soprattutto al potenziamento delle infrastrutture e dei lavori pubblici. Ferdinando VII di Borbone (1784-1833). Re di Spagna dal 1808 al 1833. Dopo la sconfitta di Napoleone I, che aveva imposto sul trono di Spagna il fratello Giuseppe Bonaparte, poté rientrare nel paese dove divenne un fervido campione della Restaurazione. Abolì infatti la Costituzione di Cadice del 1812, reintrodusse l’Inquisizione e i privilegi della nobiltà e del clero. Per consentire l’ascesa al trono della figlia Isabella, sua unica erede, abolì la legge salica, scatenando però nel paese la lotta tra i sostenitori di Isabella e i seguaci del pretendente Carlos di Borbone, fratello di Ferdinando. Fermi Enrico (1901-1954). Fisico italiano, emigrò negli Stati Uniti, dove ottenne la cittadinanza. Le ricerche che gli hanno dato fama mondiale sono legate alla meccanica quantistica. A lui si deve la costruzione del primo reattore nucleare a fissione. Fece inoltre parte della direzione del «Progetto Manhattan» che portò alla realizzazione della bomba atomica. Fiamme Verdi. Formazioni partigiane in maggioranza composte da cattolici. In Lombardia assunsero fin dall’inizio un orientamento cattolico-liberale. In Emilia Romagna si posero in stretto collegamento con i quadri in via di costituzione della Democrazia Cristiana. Fini Gianfranco (1952-). Uomo politico italiano, assunse la guida del Movimento sociale-destra nazionale dopo Giorgio Almirante. Nel 1994, con la svolta del Congresso di Fiuggi, sciolse l’MSI fondando il partito di Alleanza Nazionale. Nel 2008 promosse lo scioglimento di AN per farla confluire in un nuovo partito, Il Popolo della Libertà, fondato insieme a Silvio Berlusconi. Sempre nel 2008 fu nominato presidente della Camera dei deputati. Dopo l’abbandono del PdL ha fondato un nuovo partito, Futuro e Libertà per l’Italia, di cui è stato presidente dal 2011 al 2013. Fioravanti Giuseppe Valerio [Giusva] (1958-). Militante dei Nuclei armati rivoluzionari, formazione terroristica di estrema destra, è stato giudicato responsabile, insieme a Francesca Mambro, dell’attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. First Reform Act. È la legge di riforma elettorale promulgata nel 1832 in Gran Bretagna. Con essa furono abbassati i livelli di censo ne-

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cessari per accedere al diritto di voto, venne istituito il registro elettorale con gli elenchi degli elettori e fu modificata la geografia dei collegi elettorali. Fiske John (1842-1901). Filosofo e storico statunitense, influenzato dagli studi di Herbert Spencer, nel 1885 pubblicò sulle pagine dell’«Harper’s Magazine», una popolare rivista americana, un saggio dal titolo Manifest Destiny in cui sosteneva che la English race era destinata a dominare il mondo nel secolo che stava per iniziare. Fitna. Termine arabo che significa «dissenso», anche con connotazioni violente. Venne usato per indicare lo scontro che si ebbe a livello teologico ma anche politico nella prima fase dell’islam, quella dei cosiddetti «Califfi Ben Guidati». Foch Ferdinand (1851-1929). Ufficiale dell’esercito francese durante la Prima Guerra mondiale. Al comando della IX armata, fu determinante per la vittoria francese sulla Marna. Nell’ottobre 1914, il generale Joseph Joffre lo nominò «aggiunto del comandante in capo». Foibe. Geograficamente le foibe sono doline presenti in larga parte nella penisola istriana. Dal punto di vista storico e politico, il loro nome è legato al tragico uso che ne fecero i partigiani jugoslavi nel corso del 1945. Vi gettarono infatti i corpi di italiani appartenenti al Partito fascista, ma anche di cittadini non legati a particolari fedi politiche e partigiani «bianchi», accusati di ostacolare i disegni titini sul territorio di confine. Fondo monetario internazionale (FMI). Costituito, insieme alla Banca mondiale, nel dicembre 1945 in ottemperanza agli accordi di Bretton Woods siglati l’anno precedente. Lo scopo del Fondo è la promozione della cooperazione monetaria e la stabilità dei cambi. Ford Gerald Rudolph (1913-2006). Uomo politico americano, membro del Partito repubblicano, fu vicepresidente durante l’amministrazione di Richard Nixon. Quando questi fu travolto dallo scandalo del Water­gate e si dimise, Ford assunse la carica di presidente (1974-1976). In politica estera rafforzò il processo di distensione con l’URSS e gestì la fase finale dell’evacuazione delle forze americane dal Vietnam. Forlani Arnaldo (1925-). Uomo politico della Democrazia Cristiana, più volte ricoprì la carica di segretario del partito. Ministro e presidente del Consiglio, nel 1993 fu travolto dallo scandalo di «mani pulite». Fortis Alessandro (1842-1909). Militò inizialmente nelle file del repubblicanesimo mazziniano. Dopo l’assunzione del governo da parte della Sinistra Storica, abbandonò le posizioni astensioniste, fu eletto alla Camera nel 1880 e si avvicinò a Crispi. Fu sostenitore della politica giolittiana. Nel marzo del 1905 assunse la guida di un ministero di transizione. Forum civico. Costituito in Cecoslovacchia nel 1989 per permettere al gruppo guidato da Václav Havel di prendere parte alle elezioni dopo la caduta del regime comunista. Havel ne rimase alla guida finché non divenne presidente della Repubblica. Dalle sue ceneri sono sorti il Partito democratico civico, fautore di una politica liberista, e il Movimento civico, di ispirazione non liberista. Forum democratico ungherese. Partito conservatore ungherese di ispirazione cristiana. Il suo più importante esponente fu József Antall, che guidò il governo del 1990 al 1993, dopo la caduta del regime comunista.

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Forza attraverso la gioia. Tradotto dal tedesco Kraft durch Freude, era un’organizzazione creata dal regime hitleriano per indirizzare le attività del tempo libero dei cittadini tedeschi. Fosse Ardeatine. È il nome con cui vengono definite le cave arenarie situate a Roma nei pressi delle catacombe di San Callisto, dove il 24 marzo 1944 i tedeschi, sotto la guida del maggiore Herbert Kappler, fucilarono 335 italiani come rappresaglia in seguito all’attentato messo in atto dai partigiani contro i tedeschi in via Rasella a Roma. Fourier Charles (1772-1837). Economista e filosofo francese, teorizzò un socialismo fondato su comunità produttive collettive, i falansteri. Francesco (1936-). Nato Jorge Mario Bergoglio, dal 13 marzo 2013 è il 266º papa della Chiesa cattolica e vescovo di Roma. Di nazionalità argentina e appartenente ai chierici regolari della Compagnia di Gesù, è il primo pontefice di questo ordine religioso e il primo proveniente dal continente americano. Nel 1992 papa Giovanni Paolo II lo nominò vescovo ausiliare di Buenos Aires e nel 2001 lo fece cardinale del titolo di San Roberto Bellarmino. Dal 2005 al 2011 Bergoglio fu alla guida della Conferenza episcopale argentina. Francesco IV d’Asburgo (1779-1846). Arciduca Asburgo-Este e marito di Maria Beatrice Vittoria di Savoia, sua cugina, alla caduta di Napoleone ottenne il ducato di Modena e Reggio. Fortemente sospettoso nei confronti delle nuove correnti liberali e soprattutto della Carboneria, fu artefice di una politica di restaurazione estremamente severa e repressiva. Francesco Ferdinando d’Asburgo (1863-1914). Nipote dell’imperatore Francesco Giuseppe, era primo nella linea di successione al trono. Fautore della costruzione di una monarchia trialista che, a fianco di quelle austriaca e magiara, doveva vedere anche la formazione di un regno slavo a maggioranza croata, in funzione di contrasto dell’irridentismo serbo. Fu ucciso a Serajevo il 28 giugno 1914 da Gravilo Princip, un giovane nazionalista serbo. Francesco Giuseppe d’Asburgo (1830-1916). Imperatore della casa asburgica dal 1848. Fu artefice del passaggio verso la monarchia dualista che nel 1867 portò alla nascita dell’Impero austro-ungarico. Morì durante la Prima guerra mondiale, due anni prima della dissoluzione del­l’Impero. Franco Francisco (1892-1975). Capo di stato maggiore dell’esercito spagnolo dal 1934 al 1936, fu allontanato dall’incarico per decisione del governo di Fronte Popolare. Nel 1936 promosse il colpo di stato contro la Repubblica. Vinta la guerra civile e eliminati gli oppositori politici, assunse la carica di capo dello Stato con il titolo di Caudillo di Spagna. Fratellanza musulmana. Fondata nel 1928 da Hassan al Banna a Ismailia sul Canale di Suez. Rappresentò il primo movimento di massa musulmano che si espanse in tutto il Medio Oriente negli anni tra le due guerre mondiali e costituì il fulcro del moderno islamismo radicale. La sua opera si è concentrata sulla modernizzazione dei curricula scolastici tradizionali islamici, sull’assistenza alla popolazione sotto forma di scuole e ospedali. I suoi seguaci sono stati perseguitati in tutte le repubbliche del Medio Oriente e in Egitto non è mai stato concesso loro di

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trasformarsi in partito politico, pur avendo ufficialmente preso le distanze da tutte le organizzazioni terroristiche. Freikorps. Significa «corpi franchi». Dopo la fine della Prima guerra mondiale, si costituirono in Germania i Freikorps, per lo più costituiti da ex militari, con l’obiettivo di sedare le insurrezioni di stampo comunista e impedire una rivoluzione analoga a quella effettuata dai bolscevichi in Russia. Frente de libertação de Moçambique. Meglio conosciuto con la sigla FRELIMO, fu un movimento politico fondato nel 1962 per lottare contro il colonialismo portoghese e promuovere l’indipendenza del Mozambico. Freud Sigmund (1856-1939). Medico austriaco fondatore della psicoanalisi. Autore dell’Interpretazione dei sogni (1900), propose una «psicologia del profondo» basata sulla scoperta dell’inconscio. Compito dell’analista è portare alla luce queste esperienze «rimosse», in quanto dolorose, attraverso la libera associazione delle idee e un dialogo privo di censure. Definito «filosofo del sospetto», insieme a Marx e a Nietzsche, la sua opera ebbe il significato storico di mettere in crisi la presunta compattezza razionale della soggettività moderna, aprendola a una dimensione «abissale» che tanta parte ebbe nelle vicende sia storiche sia artistiche del Novecento. Friedan Betty (1921-2006). Fu tra le principali esponenti del movimento femminista statunitense. A lei si deve l’opera La mistica della femminilità, pubblicata nel 1963. Friedman Milton (1912-2006). Economista statunitense. Liberista convinto, è stato spesso definito l’anti-Keynes per il suo rifiuto di ogni intervento dello Stato in economia e per il sostegno alle politiche di laissez-faire. Negli anni Ottanta le sue teorie influenzarono le scelte dei governi di Margaret Thatcher nel Regno Unito e di Ronald Reagan negli Stati Uniti. Fondatore della scuola monetarista, ricevette il Nobel per l’economia nel 1976. Fritzsche Hans (1900-1953). Uomo politico tedesco, membro della NSDAP, diresse il settore delle trasmissioni radiofoniche tedesche, interno al ministero della Propaganda. Fatto prigioniero dai sovietici, nel maggio 1945, fu processato a Norimberga per tre capi d’accusa: cospirazione contro la pace; pianificazione della guerra d’aggressione; crimini di guerra. Fu assolto in quanto il tribunale riconobbe che non aveva mai sostenuto lo sterminio degli ebrei e perché per due volte aveva cercato di bloccare la pubblicazione del giornale «Der Stürmer» di tendenze antisemite. Fronte del lavoro. Nome del sindacato unico tedesco che operava durante il regime nazista. Nel gennaio 1934, entrò in vigore la Carta del lavoro in cui si ribadiva che il Fronte del lavoro era un’organizzazione volta a riunire in un unico organismo sia i lavoratori che gli imprenditori, subentrando ai sindacati ed alle associazioni imprenditoriali preesistenti. Fronte di liberazione nazionale. Movimento nazionalista costituitosi in Algeria nel 1954, frutto della fusione di due gruppi: l’Unione democratica del manifesto algerino e il Movimento per il trionfo delle libertà democratiche. Fu il movimento indipendentista più forte nel paese. Quando nel 1962 l’Algeria ottenne l’indipendenza dalla Francia, il FLN divenne il partito unico del paese.

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Fronte islamico di salvezza. Coalizione di fronti islamici creata nel 1989 in occasione della promulgazione della prima Costituzione democratica dell’Algeria. Partecipò alle elezioni amministrative del 1990 e al primo turno delle politiche del 1991, sbaragliando l’ex partito unico del Fronte di liberazione nazionale. Questo fu all’origine del colpo di stato militare del 1992 che riportò l’Algeria sotto il controllo delle forze armate. L’ala militare del FIS, ovvero l’Esercito della salvezza islamica, si diede alla macchia e partecipò alla guerra civile che insanguinò l’Algeria dal 1992 al 1998. Fronte Popolare. Il termine, che riprendeva il nome dell’alleanza antifascista promossa a metà degli anni Trenta dal Comintern, fu assunto in Italia nel 1948, in occasione delle prime elezioni repubblicane, dalla coalizione tra PCI e PSI. Fuero del lavoro. Ordinamento in materia di lavoro approvato il 9 marzo 1938 dal Consiglio della falange spagnola tradizionalista e delle Juntas de las Ofensivas Nacional Sindacalistas. G8 [Gruppo degli Otto]. Formazione internazionale che originariamente riuniva i 7 paesi più industrializzati del mondo. Ne facevano parte dal 1975 USA, Gran Bretagna, Francia, Germania Ovest, Giappone, Canada, Italia. Nel 1997 si aggiunse la Federazione russa, da cui derivò il cambio del nome da G7 a G8. Galbraith John Kenneth (1908-2006). Economista di origini canadesi, ma naturalizzato americano, fu tra i consiglieri prima di Franklin D. Roosevelt, quindi di John Kennedy e Bill Clinton. Nel 1958 diede alle stampe The affluent society, il libro che lo rese famoso. Dal 1961 al 1963 fu ambasciatore in India. Successivamente, durante la presidenza Johnson, collaborò alla stesura del programma presidenziale sulla Great Society. Gbagbo Laurent Koudou (1945-). Presidente della Costa d’Avorio dal 2000 al 2010. Fin dal 2002 la sua politica incentrata sulla «autoctonia» (l’ivorianità), in un paese tradizionalmente meta di una forte immigrazione dai paesi confinanti, innescò una conflittualità, da molti definita guerra civile, che si protrasse con alterne vicende fino all’intervento francese del 2011. Gbagbo, che era uscito sconfitto dalle elezioni del 2010 vinte da Alassane Ouattara, rifiutò di abbandonare la carica. Venne infine arrestato e alla presidenza poté insediarsi Ouattara. Ghandi Indira (1917-1984). Figlia di Jawaharlal Nehru. Si sposò con Feroze Ghandi e da lui prese il nuovo cognome. Quest’ultimo non aveva alcun legame di parentela con il Mahātmā Ghandi. Fu primo ministro in India dal 1966 al 1975 quando, ritenuta colpevole di brogli elettorali, le furono interdetti i pubblici uffici. Ritornata sulla scena politica, il suo partito vinse le elezioni nel 1980 e questo le permise di riprendere la guida del governo, che mantenne fino al 1984, quando fu uccisa per mano di due sue guardie del corpo di etnia sikh. Gandhi Mohandas Karamchand (1869-1948). Detto Mahātmā (grande anima), difese le minoranze indiane durante il suo lungo soggiorno in Sudafrica (1893-1914). Ritornato in India, divenne il leader più ascoltato del Partito del congresso. Influenzato dall’idea giainista di non violenza (ahisma), la utilizzò per guidare le campagne di disobbedienza

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civile di massa (satyagraha) alle leggi britanniche. Venne ucciso da un fanatico induista nel 1948, un anno dopo il conseguimento dell’indipendenza da parte dell’India. Gapon Georgij (1870-1906). Sacerdote russo, attivo tra i lavoratori per i quali organizzò, tra Otto e Novecento, i primi sindacati. Fu tra gli organizzatori della manifestazione che il 9 gennaio 1905 sfilò per le vie di Pietroburgo raggiungendo il Palazzo d’Inverno per presentare una petizione allo zar. La manifestazione venne repressa dall’esercito zarista, dando inizio alle insurrezioni che attraversarono il paese nel corso di quell’anno. Garibaldi Giuseppe (1807-1882). Patriota e uomo politico italiano. Fu tra i principali protagonisti del Risorgimento italiano e guidò la spedizione dei Mille nel 1860. Dopo la nascita del Regno d’Italia (1861), tentò in due occasioni, nel 1862 e nel 1867, di occupare militarmente Roma, con i suoi volontari, per completare l’unificazione italiana. Combatté a fianco di movimenti indipendentisti anche fuori dall’Italia. Trascorse gli ultimi anni della sua vita nell’isola di Caprera. Gasparri Pietro (1852-1934). Segretario di Stato vaticano (19141931), stipulò con Mussolini i Patti Lateranensi (1929). Gelli Licio (1919-). Negli anni Trenta sostenne il fascismo e partecipò al corpo militare inviato da Mussolini in Spagna a sostegno delle truppe di Franco. È ricordato soprattutto per essere stato «maestro venerabile» della loggia massonica P2, continuando a ricoprire questo ruolo anche dopo l’espulsione della P2 dalla massoneria ufficiale, nel 1976. Nel marzo 1981 la polizia, perquisendo la sua villa nei pressi di Arezzo, scoprì una lunga lista di ufficiali delle forze armate, uomini politici e funzionari pubblici aderenti alla P2. Dapprima fuggito in Svizzera e Sudamerica, si costituì nel 1987 e venne in seguito condannato per procacciamento di notizie relative a segreti di Stato, bancarotta fraudolenta e depistaggio nelle indagini sulla strage alla stazione di Bologna. Si trova attualmente agli arresti domiciliari. Gemelli Agostino (1878-1939). Frate francescano, nel 1919 fondò l’Università Cattolica di cui fu rettore fino alla morte. General Agreement on Tariffs and Trade (GATT). Accordo siglato a Ginevra nel 1947 al fine di favorire il commercio internazionale su basi multilaterali. Gentile Giovanni (1875-1944). Filosofo e uomo politico italiano. Collaborò per alcuni anni con Benedetto Croce per l’affermazione del­ l’idealismo contro il positivismo. In seguito se ne allontanò sia per motivi filosofici, sia per la sua adesione al fascismo nel 1923. Fu ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo Mussolini (1922-1924). A lui si deve la riforma della scuola avviata nel 1923. Nel Manifesto degli intel­ lettuali del fascismo, celebrò il regime mussoliniano come il compimento del Risorgimento. Fu ucciso nel 1944 a Firenze dai partigiani. Gerö Ernö (1898-1980). Uomo politico ungherese, comunista, fu membro del Comintern. Per ordine di Chruščëv sostituì Rákosi alla segreteria del partito dopo l’estromissione di Nagy nel 1956. Gestapo. Abbreviazione di Geheime Staatspolizei, il corpo della polizia segreta della Germania nazista. Fondata da Hermann Göring nel 1933, aveva il compito di annientare ogni forma di dissenso contro il re-

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gime. Durante la Seconda guerra mondiale, la Gestapo ebbe un ruolo decisivo nel controllo dei territori occupati e nello sterminio degli ebrei. Gheddafi Muammar (1942-2011). Militare libico, andato al potere con il colpo di Stato del 1969 che depose re Idris. Trasformatosi ben presto in dittatore, per sé scelse la carica di guida e comandante della Rivoluzione della Grande Jamahiriya (regime delle masse) Araba Libica Popolare Socialista. Anti-sionista viscerale, campione dell’antiamericanismo arabo, finanziatore del terrorismo internazionale negli anni Settanta e Ottanta del Novecento, è stato ucciso senza processo il 20 ottobre 2011 dai rivoltosi che avevano dato vita alla «primavera araba» libica, quando ormai il suo regime era caduto per l’intervento armato di una coalizione NATO che agiva sotto mandato ONU, iniziato nel mese di marzo. Gheorghiu-Dej Gheorghe (1901-1965). Uomo politico rumeno. Membro del Partito comunista fin dagli anni Trenta, fu segretario del partito e capo del governo dal 1952 al 1955. Nel 1961 divenne presidente della Repubblica, sostenendo un progetto di «via nazionale» al socialismo. Giannini Guglielmo (1891-1960). Giornalista, drammaturgo e politico italiano. Dopo la Seconda guerra mondiale fondò il Fronte dell’uomo qualunque, un partito caratterizzato da un atteggiamento di sfiducia e critica nei confronti della politica, dei partiti e delle istituzioni tradizionali. Gierek Edward (1913-2001). Uomo politico polacco. Segretario del Partito comunista nel 1951. Nel 1971, quando il leader Gomułka fu costretto a dare le dimissioni dalla segreteria del partito in seguito agli scioperi nelle principali città del paese, Gierek fu chiamato al suo posto e vi rimase fino al 1980. Giolitti Giovanni (1842-1928). Uomo politico italiano. Liberale di orientamento progressista, intraprese nel 1892 la carriera burocratica presso il Ministero delle Finanze. Fu eletto deputato per la prima volta nel 1882 e divenne presidente del Consiglio dieci anni dopo. Coinvolto nello scandalo della Banca Romana e in difficoltà per i moti di protesta scoppiati in Sicilia ad opera dei Fasci siciliani, fu costretto a dimettersi nel 1893. Si oppose alle misure autoritarie e liberticide dei governi Rudinì e Pelloux di fine secolo e, con Giuseppe Zanardelli, fu protagonista del nuovo corso liberale della politica italiana a partire dal 1901. Prima ministro degli Interni nel governo Zanardelli, dal 1903 al 1914 fu per molti anni presidente del Consiglio, con solo brevi interruzioni. Promosse un intenso programma di riforme sociali e politiche, anche se sul piano politico dovette far fronte all’opposizione dei liberali moderati, della destra nazionalista e della sinistra socialista; per questo fu costretto a fare affidamento su maggioranze parlamentari costruite di volta in volta con tecniche trasformistiche e pressioni clientelari. Fermamente contrario all’entrata dell’Italia nella Prima guerra mondiale, formò il suo quinto e ultimo governo tra il 1920 e il 1921, firmando con la Jugoslavia il trattato di Rapallo e mettendo fine all’occupazione di Fiume da parte di Gabriele D’Annunzio. Giorgio II di Grecia (1890-1947). Fu re di Grecia dal 1922 al 1924 e nuovamente, dopo una breve parentesi in cui la Grecia divenne repub-

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blica, dal 1935 al 1947. Nel 1941 lasciò Atene in seguito all’occupazione tedesca; nel 1946 il suo ritorno venne sancito da un referendum. Giorgio V Windsor (1865-1936). Fu re del Regno Unito dal 1910, alla morte del padre, al 1936. Fu il primo monarca britannico della casa dei Windsor, nata dal casato tedesco dei Sassonia-Coburgo-Gotha. Giovanni XXIII [Angelo Giuseppe Roncalli] (1881-1963). Fu eletto al soglio pontificio dopo il pontificato di Pio XII nel 1958. Emanò nel 1961 l’enciclica Mater et Magistra e nel 1963 la Pacem in Terris. Nel 1962 convocò il Concilio Vaticano II. Giovanni Paolo II [Karol Wojtyla] (1920-2005). Papa dal 1978 al 2005. Polacco, arcivescovo di Cracovia nel 1964, è stato il primo pontefice slavo. Fu gravemente ferito in un attentato nel 1981. La sua opera ha contributo a indebolire il declinante sistema di potere sovietico. Gioventù hitleriana. Organizzazione creata da Hitler nel 1926, raccoglieva i ragazzi tedeschi con più di 10 anni. Il suo obiettivo era prepararli al ruolo di cittadini attraverso un addestramento tipicamente militare. Giscard D’Estaing Valéry (1926-). Politico francese, a partire dal 1956 fu eletto ininterrottamente in Parlamento. Nel 1974 vinse le elezioni presidenziali, battendo di misura François Mitterand, e fu presidente della Quinta Repubblica fino al 1981. Dal 1988 al 1995 ricoprì l’incarico di presidente dell’Unione per la Democrazia Francese (UF), formazione politica nata nel 1978 per sua iniziativa a cui aderirono i partiti liberali e centristi. Nel 2001 venne designato alla presidenza della Convenzione europea incaricata di stilare una bozza di Costituzione da sottoporre alla ratifica dei paesi membri della UE. Giuliano Salvatore (1922-1950). Esponente dell’indipendentismo separatista siciliano, rifiutò l’accordo con lo Stato italiano (1946) che pose fine alla guerriglia separatista condotta dall’esercito volontario per l’indipendenza siciliana (EVIS, 1944). Fu accusato di essere l’esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) contro una folla di manifestanti riuniti per i festeggiamenti del 1° maggio. Venne assassinato nel 1950. Della sua morte si autoaccusò il cugino Gaspare Pisciotta chiamando in causa autorevoli mandanti. Su questi avvenimenti rimane il segreto di Stato fino al 2016. Giustizia e Libertà. Movimento antifascista fondato in Francia da un gruppo di esuli italiani tra cui Carlo Rosselli. L’assassinio dei fratelli Rosselli nel 1937 segnò la fine dell’unità del movimento, da cui comunque nel 1942 nacque il Partito d’azione. Le formazioni partigiane che si formarono all’indomani dell’8 settembre 1943 per iniziativa del Pd’A presero il nome di brigate Giustizia e Libertà. Gladstone William Ewart (1809-1898). Uomo politico britannico, iniziò la sua carriera politica nelle file del partito conservatore. Passato ai liberali nel 1859 assunse la carica di cancelliere dello Scacchiere nel governo presieduto da Lord Palmerston. Fu poi alla guida del governo dal 1868 al 1874, dando vita ad una serie di riforme destinate a migliorare l’amministrazione pubblica e l’istruzione. Tornato primo ministro nel 1880, tentò di risolvere la questione irlandese concedendo l’Home Rule ovvero l’autogoverno all’isola. Tale scelta, che non fu approvata dal Parlamento, produsse una scissione nel partito liberale e la caduta del suo governo. Nel

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1892 fu nuovamente al governo e ripresentò il progetto di autonomia per l’Irlanda. Riuscì a farlo approvare dalla Camera dei Comuni, ma venne definitivamente respinto dai Lord. Nel 1893 si dimise da primo ministro per motivi di salute, pur rimanendo in Parlamento sino al 1895. Glasnost. Termine russo tradotto in italiano con «trasparenza». Insieme a perestrojka rappresentava uno dei cardini del programma riformista di Michail Gorbačëv in Unione Sovietica. Glorious Revolution. Con questo termine si fa riferimento agli eventi che nel 1688 portarono sul trono britannico il principe protestante Guglielmo d’Orange. Non si trattò di una semplice sostituzione di sovrani, ma di un vero mutamento di regime. Il nuovo sovrano si insediò infatti solo dopo aver accettato il Bill of Rights, che condannava i tentativi di Giacomo II Stuart di sovvertire la religione protestante e le leggi della nazione, mentre poneva limiti precisi all’esercizio del potere regio e riaffermava i diritti di libertà degli individui. Gobetti Piero (1901-1926). Intellettuale e scrittore italiano, fu precoce esponente dell’antifascismo di ispirazione liberal-radicale, interpretando il regime fascista come «rivelazione» dei mali storici dell’Italia e del fallimento del Risorgimento. Giovanissimo fondò e diresse diversi periodici e il suo pensiero influenzò i gruppi antifascisti poi confluiti in «Giustizia e Libertà». A seguito delle numerose violenze subite dagli squadristi fascisti, morì durante l’esilio in Francia all’età di 25 anni. Gobineau Arthur de (1816-1882). Fu tra i principali sostenitori dell’ineguaglianza delle razze e nel suo Saggio sulla ineguaglianza delle razze umane (1853-1855) sostenne la superiorità di quella ariana. Goebbels Joseph (1897-1945). Uomo politico tedesco, tra i più fanatici seguaci di Hitler. Dal 1933 al 1945 fu ministro della Propaganda del Reich. Nelle ultime fasi della guerra fu nominato generale della Weh­ rmacht con il compito della difesa di Berlino. Per non cadere nelle mani dei nemici, si uccise assieme alla moglie e ai figli alla vigilia della caduta di Berlino, poco dopo il suicidio di Hitler. Gomá Isidoro (1869-1940). Nominato cardinale nel 1935 da Pio XII, combatté strenuamente la Repubblica di Spagna, definendo la guerra civile non frutto della volontà di «innalzare uno Stato autocrate sopra una nazione umiliata, ma solo perché risorga lo spirito nazionale con la forza e la libertà cristiana dei tempi antichi» [Dalla lettera collettiva dei Ve­ scovi Spagnoli, 1 luglio 1937]. Gomułka Władisław (1905-1982). Uomo politico polacco. Nel corso della Seconda guerra mondiale animò la resistenza al nazismo. Nominato segretario del Partito comunista polacco nel 1943 e vice primo ministro nel 1944, Gomułka si fece promotore di una «via nazionale al socialismo» e per questo fu accusato da Stalin di «deviazionismo nazionalista». Tuttavia, alla morte del leader sovietico, venne prosciolto dalle accuse e riabilitato. Segretario a partire dal 1956 del Partito operaio unificato polacco (nato dalla fusione di quello comunista con quello socialista), nel 1970 non riuscì a fronteggiare la crisi economica e dopo la sanguinosa repressione dei moti operai di Danzica fu costretto a dimettersi. González Márquez Felipe (1942-). Uomo politico spagnolo esponente del Partito socialista. Fu primo ministro dal 1982 al 1996.

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Good Friday Agreement. Anche detto Belfast Agreement, fu l’accordo siglato tra il governo britannico e quello irlandese il 10 aprile 1998 e approvato successivamente il 23 maggio 1998 con due referendum svoltisi nel Nord Irlanda e nella Repubblica irlandese. Rappresentò un importante passo avanti nel processo di pace della regione. Gorbačëv Michail (1931-). Segretario generale del PCUS nel 1985, diede avvio ad un ampio processo di riforma (perestrojka) dell’intero sistema sovietico con l’obiettivo di rivitalizzare l’economia e introdurre principi di trasparenza (glasnost) nella società. Sostenitore della distensione con gli USA e dell’«interdipendenza globale», abbandonò la «dottrina Brežnev» sulla sovranità limitata e ridusse gli impegni militari sovietici. Gli incontri con i presidenti americani Reagan e Bush senior, a partire dal summit di Ginevra del 1985, segnarono l’evoluzione dei rapporti tra le due superpotenze. Eletto presidente dell’URSS in base alla nuova costituzione (1990), nell’agosto del 1991 la nomenklatura del partito tentò un colpo di stato che fallì, offrendo però a Boris Eltsin l’opportunità di prendere il sopravvento. Reintegrato nella carica di presidente, si dimise pochi giorni dopo dall’incarico di segretario del PCUS. Ricevette il premio Nobel per la pace nel 1990. Gore Albert Arnold [Al] (1948-). Uomo politico statunitense. È stato vicepresidente degli Stati Uniti dal 1993 al 2001 durante l’amministrazione di Bill Clinton. Nel 2000 si presentò come candidato del Partito democratico alle elezioni presidenziali. L’esito del voto restò incerto per diverse settimane a causa dello strettissimo margine che separava i due candidati in Florida; alla fine, dopo una serie di appelli e ricorsi, la Florida venne assegnata al repubblicano George W. Bush. Attivo sul fronte della tutela dell’ambiente e promotore di studi e ricerche sugli effetti dei cambiamenti climatici, nel 2007 Gore è stato insignito del Premio Nobel per la pace. Göring Hermann (1893-1946). Uomo politico tedesco, figura di spicco nel regime nazista. Fu nominato da Hindenburg generale dell’esercito nel 1934 e due anni dopo andò a dirigere il «piano quadriennale per la rinascita economica», teso a promuovere l’autosufficienza economica della Germania in previsione di una eventuale guerra nell’immediato futuro. Fu tra gli ideatori della «soluzione finale» contro il popolo ebraico. Goulart João (1918-1976). Uomo politico brasiliano, fu presidente del Brasile dal 1961 al 1964. La sua nomina fu osteggiata dallo stato maggiore militare e fu possibile solo grazie a una modifica costituzionale che poneva l’esecutivo responsabile di fronte al Congresso. La forte crisi economica che si manifestò durante la sua presidenza e la fragilità degli esecutivi gli permisero, nel 1963, di ripristinare la forma presidenziale. Il golpe militare del 1964 mise fine alla sua presidenza. Gramsci Antonio (1891-1937). Tra i fondatori del settimanale «L’Ordine nuovo», nel 1921 partecipò alla scissione interna al Partito socialista che portò alla nascita del Partito comunista d’Italia. Nel 1924 fu eletto alla segreteria del partito. Attento alla questione meridionale, sostenne la necessità di un’alleanza tra il proletariato industriale del nord ed i contadini del sud. Arrestato dal governo fascista nel 1926, rimase in carcere fino alla morte. Tra le sue maggiori opere, i Quaderni del carcere, usciti postumi tra il 1948 ed il 1951.

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Gran Consiglio del fascismo. Organo istituito da Benito Mussolini nel dicembre 1922, aveva come obiettivo quello di mantenere un forte controllo centrale sulle sezioni periferiche del PNF. Nel 1928 divenne anche un organo dello Stato e gli furono affidati compiti importanti sia in merito alla rappresentanza politica, sia circa i rapporti tra il regime e la monarchia. Grande balzo in avanti. Con questa espressione si indica il progetto economico e sociale messo in atto da Mao nella Repubblica popolare cinese tra il 1958 ed il 1960. Con esso si intendeva mobilitare l’intera popolazione in un gigantesco sforzo produttivo teso ad accrescere la produzione sia nell’agricoltura che nell’industria. Grande Califfato. Con questa locuzione si intende la riproposizione della forma più teocratica dello Stato islamico concepito su scala planetaria. Nella storia dell’islam, l’ultimo Califfato è stato l’Impero ottomano. Grandi Dino (1895-1988). Fu tra i fondatori dei Fasci di combattimento nel 1919, ma si contrappose a Benito Mussolini nel 1921 nel Congresso che diede vita al Partito nazionale fascista. Ministro degli Esteri dal 1929 al 1932, fu in seguito ambasciatore in Gran Bretagna e vi rimase fino al 1939. Nel 1943 fu l’estensore dell’ordine del giorno presentato il 25 luglio al Gran Consiglio del fascismo in cui si chiedeva al sovrano l’estromissione di Mussolini. Griffith Arthur (1872-1922). Uomo politico irlandese, tra i fondatori dello Sinn Féin. Guidò la delegazione irlandese che prese parte ai negoziati che nel 1921 si conclusero con la firma del trattato anglo-irlandese. Fu presidente del Dáil Éireann nei primi mesi del 1922. Grillo Giuseppe [Beppe] (1948-). Attore e uomo politico italiano. Dopo una lunga carriera come attore comico, nel 2007 ha iniziato l’attività politica diventando l’ispiratore, insieme a Gianroberto Casaleggio, di una serie di liste civiche che portano il suo nome. Nel 2009 ha creato il Movimento 5 Stelle, di cui è leader riconosciuto senza tuttavia sedere in Parlamento. Grósz Károly (1930-1996). Uomo politico ungherese. Nel 1988 succedette a Kádár alla segreteria del Partito comunista ungherese, diventato nel 1989 Partito socialista ungherese. Con le elezioni politiche del 1990, vinte dal Forum democratico ungherese, ebbe definitivamente fine il regime comunista in Ungheria. Gruppi comunisti combattenti. Nel 1974 dalla formazione di Lotta continua uscì un gruppo che assunse il nome di Comitati comunisti per il potere operaio. Successivamente dai Comitati presero vita, nell’arco di due anni, altri gruppi dell’estrema sinistra extraparlamentare tra cui i Comunisti combattenti e Prima linea, che patrocinavano la lotta armata per l’abbattimento delle strutture dello Stato italiano. Gruppi d’azione patriottica (GAP). Si formarono dopo l’8 settembre 1943 per iniziativa del Partito comunista sul modello dei gruppi dei maquisards operativi nella Resistenza francese. Erano squadre partigiane che operavano soprattutto nei centri urbani. Guardia rivoluzionaria. Il nome per esteso è Esercito della Guardia della rivoluzione islamica, i cosiddetti Pasdaran. Il gruppo sorse nel 1979 come braccio armato del Partito repubblicano islamico e rappresentava

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il clero militante seguace dell’ayatollah Khomeini. Col tempo è divenuto una forza militare che affianca a pieno titolo l’esercito iraniano. Guardie rosse. Con questa espressione si fa riferimento agli studenti sostenitori della «rivoluzione culturale» promossa da Mao Zedong contro le istanze revisioniste di Liu Shao-Chi. Nella manifestazione inaugurale della «rivoluzione culturale», in Piazza Tienanmen, il 18 agosto 1966, Mao stesso indossava il bracciale di riconoscimento delle Guardie rosse, in appoggio al loro operato. Guerra preventiva. Guerra preventiva o anche «difesa preventiva» fu quella invocata dal presidente americano George W. Bush jr. prima dell’attacco all’Iraq (2003) e venne avallata da diversi paesi tra cui la Gran Bretagna. I sostenitori di questa strategia affermarono che era legittimo muovere guerra ad un paese, anche se non attaccati, quando fondate informazioni di intelligence dimostravano la capacità o volontà offensiva di tale paese. Guerre indiane. Le guerre indiane, combattute dall’esercito americano e dai coloni contro i nativi, si svolsero principalmente in tre momenti nella seconda metà del XIX secolo. A metà degli anni Sessanta vi fu la prima guerra indiana contro i Sioux; dopo dieci anni le tribù Comanche, Kiowa e Sioux, nonostante la vittoria riportata a Little Bighorn contro il generale Custer, furono sconfitte anche a causa dell’epidemia che colpì i bisonti e le ridusse alla fame. Alla fine degli anni Ottanta fu domato dall’esercito americano l’ultimo tentativo di ribellione delle tribù indiane. Nel 1894 il governo dichiarò chiusa la frontiera. Guesde Mathieu-Basile [Jules] (1845-1922). Socialista francese, contrario alla collaborazione con i governi liberal-borghesi, fu più volte incarcerato. Fondò «L’egalité» (1877-1883), primo giornale socialista in Francia che contribuì alla diffusione delle idee marxiste. Nel 1882 fondò il Parti ouvrier français, che nel 1905 confluì nella SFIO. Guevara de la Serna Ernesto [«Che»] (1928-1967). Argentino, si laureò in Medicina a Buenos Aires e partecipò a fianco di Fidel Castro alla rivoluzione cubana che mise fine alla dittatura di Fulgencio Batista nel 1959. Teorizzò e sostenne la lotta armata per la liberazione dei paesi del Terzo Mondo. Nel 1965 abbandonò Cuba per dedicarsi all’attività rivoluzionaria; fu ucciso nel 1967 mentre cercava di organizzare la guerriglia in Bolivia. Guglielmo I di Hohenzollern (1797-1888). Re di Prussia e imperatore di Germania. Salì al trono nel 1861 alla morte del fratello Federico Guglielmo IV, re di Prussia. Chiamò a guidare il governo prussiano Otto von Bismarck nel 1862 e patrocinò un ampio progetto di rafforzamento dell’esercito. Dopo la vittoriosa guerra contro la Francia del 1870, nel gennaio dell’anno successivo fu proclamato imperatore di Germania nella reggia di Versailles. Guglielmo II di Hohenzollern (1859-1941). Imperatore tedesco dal giugno 1888 al novembre 1918. La sua politica fu volta ad affermare il ruolo centrale della Germania in Europa e nel mondo con una politica estera imperialista e aggressiva. Entrato in contrasto col cancelliere Bismarck, lo costrinse a dimettersi nel 1890. L’ampio e ricorrente uso dei poteri concessi all’imperatore dalla Costituzione del 1871 e la sua pro-

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pensione al governo personale lo posero spesso in conflitto anche coi successivi cancellieri. Costretto a lasciare il trono alla fine della Prima guerra mondiale, dopo la sconfitta tedesca, riparò in esilio in Olanda. Gulag. L’acronimo sta per Glavnoe Upravlenie Ispravitelno-trudo­ vykh LAGerej ovvero Direzione principale dei campi di lavoro correttivi. Questi campi di lavoro forzato, destinati originariamente ad ospitare criminali, furono in realtà utilizzati da Stalin per rinchiudervi gli oppositori del regime e i kulaki. La morte di Stalin e l’avvio del processo di destalinizzazione segnarono l’inizio dello smantellamento dei gulag, che fu completato, tuttavia, solo negli anni Ottanta. Haakon VII (1872-1957). Appartenente alla casa reale danese, il suo nome era Christian Frederik Carl Greorg Valdemar Axel. Quando la Norvegia, nel 1905, si separò dalla Svezia e un referendum popolare scelse la forma-stato monarchica, gli venne offerta la corona di re di Norvegia. L’incoronazione avvenne il 22 giugno 1906 data in cui il principe salì al trono assumendo uno dei nomi della tradizione reale norvegese. Habyarimana Juvénal (1937-1994). Uomo politico ruandese. Fu presidente del Rwanda dal 1973, anno in cui conquistò il potere in seguito a un colpo di stato, al 1994, anno in cui perse la vita in un attentato di cui sono rimasti ignoti gli autori. Cercò di favorire la collaborazione tra l’etnia tutsi e quella hutu e di promuovere il pluralismo politico. Hādī Abdrabbuh Mansur (1945-). Presidente sunnita dello Yemen dal 27 febbraio 2012, quando subentrò ad Ali Abdallah Saleh al potere dal 1990, costretto alla fuga dallo scoppio della «primavera araba» yemenita. Il 22 gennaio 2015 è stato virtualmente deposto da un colpo di stato della minoranza Houthi, sciita, sostenuta dall’Iran, e si è rifugiato ad Aden. Tuttora riconosciuto come legittimo presidente dalla comunità internazionale, in suo aiuto è intervenuta una coalizione araba guidata dall’Arabia Saudita e sostenuta dagli Stati Uniti, che ha iniziato a bombardare lo Yemen nella notte tra il 25 e il 26 marzo 2015. Haftar Khalīfa (1943-). Generale libico che, nell’infuriare della guerra civile dopo il crollo del regime di Muammar Gheddafi, il 16 maggio 2014 decise di intervenire con quanto rimaneva dell’esercito per annientare le organizzazioni terroristiche islamiche della Cirenaica, soprattutto Ansar al-Sharia (i Partigiani della legge islamica), basata a Derna, e affiliata al Califfato islamico di Abū Bakr al-Baghdādī. Hailé Selassié (1892-1975). Negli anni Venti, come reggente dell’Etiopia, ne promosse la modernizzazione e l’ammissione alla Società delle Nazioni. Nel 1928 fu incoronato negus e il 2 novembre 1930 proclamato imperatore. Costretto a lasciare il paese dopo l’occupazione italiana, vi ritornò nel 1941, dopo la vittoria inglese sulle truppe italiane di stanza nell’Africa orientale. Nel 1955 dotò il paese della sua prima Costituzione. Hamas. Acronimo di Harakat al-Muqāwwama al-Islāmiyya, ovvero Movimento di resistenza islamico. È un’organizzazione palestinese impegnata a livello sociale e politico. Fondata nel 1987, i suoi aderenti considerano la Palestina una terra islamica che non può essere ceduta ai non musulmani. In Occidente, a causa dei numerosi attentati ad opera di kamikaze e diretti prevalentemente contro civili, è considerata un’organizzazione terrorista.

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Hammarskjöld Dag (1905-1961). Diplomatico svedese, fu Segretario generale delle Nazioni Unite dal 1953 al 1961. Harding Warren Gamaliel (1865-1923). Ventinovesimo presidente degli Stati Uniti d’America, svolse un’intensa attività giornalistica prima di dedicarsi alla politica. Nel 1914 entrò nel Senato di Washington dove si fece notare per le sue critiche all’ingresso degli USA nella guerra mondiale. Candidato repubblicano alle elezioni presidenziali del 1920, vinse di larga misura sul suo avversario. Nel 1921, grazie ad una timida ripresa economica e all’approvazione di un provvedimento per la riduzione dell’orario di lavoro degli operai, la sua popolarità crebbe enormemente. Il suo consenso durò tuttavia poco. A causa, infatti, dei loschi affari e della corruzione dilagante nel suo staff, spregiativamente indicato come la «cricca dell’Ohio», la posizione di Harding si fece sempre più difficile da sostenere. Morì durante il lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti intrapreso per cercare di ridare credibilità al governo. Harriman William Averell (1891-1986). Diplomatico e politico statunitense entrò nello staff di Franklin Delano Roosevelt che gli affidò il compito di monitorare l’attuazione della legge affitti e prestiti istituita per aiutare lo sforzo bellico della Gran Bretagna nel corso della Seconda guerra mondiale. Fu ambasciatore a Mosca (1943-1946) e segretario del Commercio Estero dal 1946 al 1948. Dal 1955 al 1959 fu governatore dello Stato di New York, dopo di che venne impiegato dal presidente Kennedy come ambasciatore itinerante e all’interno del Dipartimento di Stato per l’Estremo Oriente (1961-1965). Sotto il presidente Johnson guidò la delegazione americana ai colloqui di Parigi per la pace in Vietnam. Hasan al-Bakr Ahmad (1914-1982). Generale dell’esercito iracheno, fece parte del gruppo dei Liberi Ufficiali che nel 1958 rovesciarono la monarchia in Iraq. Fu tra i leader del partito Ba’ath e nel 1963 contribuì al rovesciamento, con un colpo di stato, del leader militare Abdul Karim Kassem. Dopo alterne vicende, con l’aiuto egiziano, nel 1968 riprese il controllo del partito Ba’ath, mandò in esilio il presidente Abdul Rahman Arif e assunse la presidenza della Repubblica. Hatoyama Ichiro (1883-1959). Uomo politico giapponese, ricoprì la carica di primo ministro a metà degli anni Cinquanta. Havel Václav (1936-2011). Drammaturgo e uomo politico ceco. Figura di spicco della dissidenza al regime comunista, in seguito alla repressione della «primavera di Praga» (1968). Avviò così un’intensa attività politica culminata con la nascita del movimento Charta ’77, che gli costò una condanna a cinque anni di carcere. Nel 1989 fu tra gli animatori della cosiddetta «rivoluzione di velluto» che lo portò alla presidenza dell’Assemblea federale cecoslovacca. Dopo le libere elezioni del 1990 mantenne la presidenza, ma, politicamente sempre più indebolito, si dimise il 20 luglio 1992. Nel 1993, all’indomani della nascita della Repubblica ceca, Havel venne nominato presidente, mantenendo questa carica anche dopo le elezioni del 1998. Hayek Friedrich von (1899-1992). Austriaco di nascita, ma inglese d’adozione, fu un importante economista a cui si deve la teoria dei cicli economici.

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Heath Edward (1916-2005). Uomo politico britannico appartenente al Partito conservatore, ne divenne il leader dal 1965 al 1975. Fu primo ministro dal 1970 al 1974. Henderson Arthur (1863-1935). Uomo politico britannico. Leader del Partito laburista di cui fu segretario in varie fasi tra il 1908 e il 1932. Herriot Édouard (1872-1957). Uomo politico francese, guidò il Partito radicale dopo la Prima guerra mondiale. Nel 1924 promosse una coalizione elettorale delle sinistre. In seno alla Società delle Nazioni si batté per l’approvazione di un protocollo per il regolamento pacifico delle controversie internazionali. Fu per tre volte presidente del Consiglio tra il 1924 e il 1932. Herzl Theodor (1860-1904). Ebreo ungherese di lingua tedesca, giornalista e scrittore, fondò l’Organizzazione sionistica mondiale. Diversamente dai pensatori del sionismo religioso o pragmatico il progetto di Herzl tendeva ad un modello laico e nazionalista di Stato che suscitò grande interesse tra gli ebrei dell’Europa orientale. Già nel 1897 fu perciò possibile organizzare a Basilea il primo Congresso sionista. L’intensa attività diplomatica svolta da Herzl nel tentativo di giungere ad un riconoscimento internazionale del diritto alla sovranità ebraica su un territorio fu coronata, dopo la sua morte, dalla Dichiarazione Balfour del 1917. Heuss Theodore (1884-1963). Uomo politico tedesco, fu leader del Partito liberal-democratico (FDP) e collaborò alla redazione della Legge fondamentale per la Germania occidentale nata alla fine della Seconda guerra mondiale. Fu il primo presidente della Repubblica federale tedesca (1949-1959). Heydrich Reinhard (1904-1942). Militare tedesco, collaboratore di Himmler e tra i principali organizzatori della «notte dei lunghi coltelli» contro le SA (1934). Guidò i servizi d’informazione del regime nazista tra il 1934 e il 1939, poi l’Ufficio centrale di sicurezza. Dal 1941 ebbe la carica di «protettore del Reich» in Boemia e Moravia, dove attuò feroci repressioni. Morì in un attentato della resistenza ceca. Hezbollah. Termine che in arabo significa «partito di Dio», è una milizia libanese di religione sciita fondata nel 1982 con il supporto delle Guardie rivoluzionarie iraniane, mandate in Libano dopo la rivoluzione del 1979 per rafforzare le forze che si opponevano all’occupazione israeliana del paese. La strategia adottata da Hezbollah è quella della guerriglia e dell’uso dei kamikaze contro le forze israeliane. Con il supporto iraniano e sciita, il movimento si è radicato nel tessuto sociale libanese, costruendo un’ampia rete che comprende ospedali e scuole. Questo ha permesso ad Hezbollah di costruirsi un diffuso consenso nel paese. Himmler Heinrich (1900-1945). Uomo politico tedesco, figura centrale del regime nazista. Fin dagli anni Venti fu alla guida delle Schutz­ staffeln, le squadre di sicurezza (SS) di Hitler. Nel 1936 fu chiamato da Hitler al vertice della polizia tedesca e dal 1939 guidò le forze di sicurezza della Germania nazista. Ebbe un ruolo di primo piano nello sterminio degli ebrei nel corso della Seconda guerra mondiale. Nel 1943 diventò ministro degli Interni e ricoprì altri importanti incarichi nelle fasi finali del conflitto. Convinto, tuttavia, della necessità di una pace separata con gli angloamericani in funzione antisovietica, alla fine entrò

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in contrasto con Hitler e lasciò la Germania. Catturato dagli inglesi nel maggio 1945, si suicidò. Hindenburg Paul Ludwing von (1847-1934). Militare e uomo politico tedesco. Ufficiale nelle guerre contro Austria (1866) e Francia (1870), si ritirò nel 1911. Richiamato allo scoppio della Prima guerra mondiale, vinse a Tannenberg e sui laghi Masuri (1914). Ebbe il comando supremo dell’esercito tedesco nell’agosto del 1916 e tentò una svolta offensiva del conflitto, influenzando i vertici politici. Nel 1925 fu eletto presidente della Repubblica di Weimar. Confermato nel 1932, affidò a Hitler la guida del governo (gennaio 1933). Hippies. Il movimento hippy ebbe origine negli Stati Uniti negli anni Sessanta e da lì si propagò in tutto il mondo, assumendo tuttavia in ogni paese una propria connotazione. Espressione della beat generation, gli hippies fecero entrare nella cultura giovanile la musica rock, la rivoluzione sessuale e l’uso di sostanze stupefacenti come la cannabis o l’LSD. Nel 1969 il festival musicale che si svolse a Woodstock fu una delle massime espressioni del movimento hippy. Hirohito (1901-1989). Imperatore del Giappone dal 1926. Nel 1940 decise l’entrata in guerra del suo paese a fianco della Germania nazista e dell’Italia fascista e nel 1946, dopo la sconfitta, fu costretto a rinunciare al tradizionale status divino del sovrano. Hitler Adolf (1889-1945). Nato nella regione dell’Alta Austria da una famiglia di origine contadina, a 15 anni si trasferì a Vienna dove visse facendo il manovale e il muratore. Si arruolò volontario nella Prima guerra mondiale, ottenendo una decorazione e i gradi di caporale. Interpretò la sconfitta austro-tedesca come una «pugnalata alla schiena» delle forze disfattiste interne e dei partiti di sinistra. Trasferitosi a Monaco si affiliò al Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, fornendogli un’ideologia pangermanista, razzista e antisemita e portandolo, in pochi anni, da poche decine di adepti a diverse migliaia di militanti. Alla guida della NSDAP, organizzò a Monaco un colpo di stato nel 1923, il cui fallimento causò lo scioglimento temporaneo del partito e la sua carcerazione. In carcere compose l’opera Mein Kampf, in cui esprimeva le sue concezioni politiche, nonché i punti chiave di un programma teso alla costruzione di un forte Stato tedesco, autoritario all’interno ed espansionista all’esterno. Nel gennaio 1933 il presidente Hindenburg lo nominò cancelliere e nel giro di pochi mesi Hitler smantellò il sistema liberal-parlamentare della Repubblica per instaurare un feroce regime totalitario. Nel 1934, alla morte di Hindenburg, assunse anche la carica presidenziale e il titolo di Führer. Artefice di una politica estera espansionistica e aggressiva, causò lo scoppio della Seconda guerra mondiale con l’invasione della Polonia nel settembre 1939. Nel 1944, mentre ormai si profilava la sconfitta della Germania, scampò ad un attentato. Al momento dell’ingresso delle truppe sovietiche a Berlino, si suicidò assieme alla moglie Eva Braun nel bunker dove si era asserragliato. Hobhouse Leonard Trelawny (1864-1929). Filosofo e sociologo britannico. Tra Otto e Novecento contribuì alla fondazione teorica del new liberalism, la dottrina liberale che tentava di conciliare i principi del li-

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beralismo con le istanze di riforma sociale. Nel 1911 scrisse Liberalism, che divenne il manifesto teorico del liberal-socialismo inglese. Hobson John Atkinson (1858-1940). Economista liberale inglese. Le sue critiche all’economia liberista classica ne fecero un precursore del­ l’economia keynesiana. Le sue riflessioni contribuirono anche a definire il nuovo corso del liberalismo britannico all’inizio del Novecento. Ho Chi-minh (1890-1969). Da sempre sostenitore dell’indipendenza indocinese, entrò nelle file del comunismo internazionale negli anni Venti, aderendo alla Terza Internazionale. Nel 1930 fondò il Partito comunista indocinese e nel 1941 proclamò l’indipendenza del suo paese dalla Francia. Fu a capo del movimento del Vietminh, guidando la guerriglia prima contro i giapponesi, poi contro i francesi. Dopo la Conferenza di Ginevra che riconobbe l’indipendenza del Vietnam dividendolo in due parti, Ho Chi-minh fu proclamato presidente della Repubblica democratica del Vietnam (Vietnam del Nord). Sostenitore della riunificazione del Vietnam, guidò la guerra contro gli Stati Uniti. Alla fine del conflitto, nel 1975, gli fu intitolata la città di Saigon. Holding. Il termine inglese significa letteralmente «proprietà», ma viene usato per indicare una società che ne controlla altre mediante il possesso di partecipazioni azionarie. Honecker Erich (1912-1994). Segretario della SED, il Partito socialista unificato della Repubblica democratica tedesca, dal 1971, fu alla guida del paese dal 1976 al 1989. Hongwen Wang (1936-1992). Membro del Partito comunista cinese, prese parte alla guerra di Corea. Dopo la fine del conflitto venne inviato a Shanghai in qualità di ufficiale dei reparti di sicurezza nelle fabbriche. Entrato nelle Guardie rosse, nel 1967 organizzò la comune di Shanghai. Fu uno dei protagonisti della «banda dei quattro» all’inizio degli anni Settanta. Nell’ottobre 1976 fu arrestato e condannato al carcere a vita dopo essere stato riconosciuto colpevole di delitti controrivoluzionari dalla Corte suprema del popolo nel 1981. Hoover Herbert (1874-1964). Uomo politico statunitense, apparteneva al Partito repubblicano. Fu candidato alla presidenza dal suo partito dopo la decisione di Calvin Coolidge di non correre per un secondo mandato. Nominato presidente nel 1929 dovette affrontare la difficile crisi seguita al crollo della Borsa di Wall Street. Hoxha Enver (1908-1985). Fondatore del Partito comunista albanese, combatté il nazifascismo. Assunta la direzione del paese nel 1945, instaurò in Albania un regime dittatoriale filosovietico. Huerta Victoriano (1854-1916). Militare e politico messicano. Fu l’artefice del colpo di stato che nel 1913 rovesciò il primo presidente del Messico rivoluzionario, Francisco Madero, della cui morte in carcere fu ritenuto responsabile. Divenuto egli stesso presidente della Repubblica, guidò il paese con metodi dittatoriali grazie anche all’appoggio dei latifondisti e delle società britanniche interessate al petrolio messicano. Ma la sua dittatura fu breve; la guerra civile scoppiata nel 1914 lo costrinse infatti ad abbandonare il potere e a lasciare il paese. Huntington Samuel (1927-2008). Politologo statunitense. Legato negli anni Cinquanta all’ambiente neoconservatore americano, studioso

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dei fenomeni di modernizzazione è conosciuto soprattutto per il volume The Clash of Civilizations (1996), in cui rielaborava un precedente articolo del 1993. La tesi del libro è che i conflitti successivi alla fine della Guerra Fredda si verificano secondo linee di divisione culturali (o di «civiltà») e non più ideologiche o statuali. Husák Gustáv (1913-1991). Uomo politico cecoslovacco, comunista, fu espulso dal partito nel 1951 durante un’epurazione. Fu riammesso nel 1963 e in un primo tempo sostenne le riforme liberali che portarono alla «primavera di Praga» del 1968. Dopo la repressione sovietica si allineò alla volontà di Mosca e nel 1969 sostituì Dubček alla guida del partito. Nel 1975 venne eletto presidente della Repubblica e mantenne la carica fino al 1987. Hussein di Giordania (1935-1999). Re di Giordania nel 1952-1999. Succeduto al padre Talal, fu il rappresentante del fronte arabo moderato capeggiato dall’Arabia Saudita. Si schierò con l’Egitto nella guerra contro Israele del 1967, che costò al suo paese la perdita della Cisgiordania. Nel «settembre nero» del 1970 colpì duramente le basi palestinesi in Giordania, cosa che gli costò un duro isolamento nel mondo arabo. Si avvicinò poi all’Iraq ba’athista, che sostenne durante la guerra con l’Iran (1980-1988). Fautore di una soluzione diplomatica del conflitto mediorientale, nel 1988 rinunciò ai diritti sulla Cisgiordania. Nel 1994 firmò il trattato di pace con Israele. Hussein Saddam (1937-2006). Uomo politico iracheno. Partecipò al colpo di stato ba’athista del luglio 1968 e fu vicepresidente del Consiglio di comando della rivoluzione. Nel 1979, dimessosi il presidente Hassan al-Bakr, assunse il supremo potere, cominciando nel 1980 la lunga guerra contro l’Iran. Il 2 agosto 1990 ordinò l’invasione e l’annessione del Kuwait. La sconfitta subita nei mesi successivi da parte della forza internazionale organizzata dall’ONU, la sollevazione dei curdi nel nord del paese e quella degli sciiti nel sud indebolirono progressivamente il suo potere. Nel 2003, accusato dagli Stati Uniti di essere implicato negli attentati dell’11 settembre 2001 e di produrre segretamente armi di distruzione di massa, fu destituito in seguito all’invasione angloamericana dell’Iraq. Fu giustiziato per impiccagione il 30 dicembre 2006, in seguito a una sentenza di condanna a morte per crimini contro l’umanità pronunciata da un tribunale iracheno. Hu Yaobang (1915-1989). Uomo politico cinese, seguace e collaboratore di Deng Xiaoping. Hu Yaobang nel 1982, dopo la reintroduzione della carica di segretario generale del partito, fu il primo a ricoprirla. Nel corso degli anni Ottanta riabilitò molte delle vittime della «rivoluzione culturale» di Mao. Iliescu Ion (1930-). Uomo politico rumeno. Presidente della Romania per due mandati dal 1989 al 1996 e per un terzo mandato dal 2000 al 2004. Comunista, emarginato durante la dittatura di Ceauşescu, dopo la caduta di quest’ultimo si mise a capo del Fronte di salvezza nazionale sotto la cui bandiera si collocarono sia comunisti di secondo piano sia anticomunisti. Assunta la guida della transizione verso un sistema democratico, fu eletto presidente della Repubblica. Impeachment. Istituto originario del sistema giuridico britannico volto a mettere in stato di accusa titolari di cariche pubbliche che si siano mac-

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chiati di atti illeciti nell’esercizio delle loro funzioni. Inserito nella Costituzione americana, è tuttora vigente e ha mantenuto la sua originaria finalità. Soggetti passivi dell’impeachment sono principalmente i membri del potere esecutivo, a partire dal presidente. Per prevenire l’impeachment in seguito allo scandalo Watergate, Richard Nixon si dimise nel 1974. Indian Independence Act. La legge fu proposta dal governo laburista di Clement Attlee dopo che le rappresentanze del Congresso indiano, della Lega musulmana e della Comunità sikh, avevano raggiunto un accordo con il viceré britannico Louis Mountbatten. L’Atto, approvato dal Parlamento inglese, ricevette formalmente l’assenso reale il 18 luglio 1947. Con esso la penisola indiana veniva divisa tra Pakistan e India e i due territori ottenevano l’indipendenza. Intifada. Parola araba che significa «scrollarsi di dosso», è divenuta di uso comune nel conflitto israelo-palestinese. La prima intifada risale al 1987 e si protrasse, pur diminuendo di intensità, fino al 1993 quando furono firmati gli accordi di Oslo. La seconda intifada prese avvio nel 2000, quando il leader israeliano Sharon, con una scorta armata, entrò nella spianata delle moschee prospiciente il Muro del Pianto a Gerusalemme. Intoccabilità (India, sistema dell’intoccabilità). Il sistema delle caste indiane risale al primo millennio a.C., quando fu strutturata la divisione in caste tra sacerdoti, guerrieri, mercanti e artigiani e, infine, servi. Fuori dalle caste vi erano i paria, gli «intoccabili», messi al bando per l’infimo livello dell’occupazione esercitata o per essere stati espulsi dalla casta di appartenenza per averne violato le regole. Secondo questo sistema non era previsto alcun tipo di mobilità tra le caste. Ioannides Dimitrios (1923-2010). Ufficiale greco, partecipò al colpo di stato messo in atto dai colonnelli nel 1967. Rimasto nell’ombra nei primi anni, nel 1973 divenne presidente della Repubblica. Nel 1974 tentò di occupare Cipro, ma rimase sconfitto dalla reazione turca che produsse anche la caduta del regime dei colonnelli. Nel 1975 fu processato per tradimento e condannato. Irish Land League. Organizzazione politica irandese del XIX secolo, aveva l’obiettivo di tutelare gli interessi dei contadini poveri. Irish Republican Army (IRA). Anche detta Old IRA, per distinguerla dai gruppi sorti successivamente, questa prima formazione ebbe origine dagli Irish Volunteers. Fu riconosciuta ufficialmente come esercito della Repubblica irlandese nel 1919 dall’Assemblea d’Irlanda. Dopo il trattato anglo-irlandese del 1921, la parte dell’IRA favorevole al trattato andò a costituire il nucleo dell’esercito irlandese. I gruppi contrari all’accordo, invece, mantennero in vita le strutture paramilitari dell’organizzazione. Isa al-Khalifa Haman bin (1950-). Re del Bahrein dal 2002, in precedenza Emiro dal 1999. Di religione sunnita, governa su una popolazione a maggioranza sciita. Allo scoppio della «primavera araba» in Bahrein, il 14 marzo 2011 l’Arabia Saudita è intervenuta in armi per salvare la sua monarchia. Isabella II (1830-1904). Regnò in Spagna dal 1833 al 1866. Salita al trono quando non aveva ancora compiuto il terzo anno di età, fino al 1843 la reggenza fu tenuta prima dalla madre e poi dal generale Espar-

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tero. A 13 anni fu dichiarata maggiorenne e incominciò a regnare in prima persona. La sua nomina a regina, voluta dal padre Ferdinando VII, che a questo fine abolì la legge salica, scatenò le ire del fratello di Ferdinando, Carlos Maria Isidoro di Borbone, che con il movimento carlista combatté la dinastia isabelliana. Istituto mobiliare italiano (IMI). Ente pubblico istituito nel 1931 da Mussolini con l’obiettivo di finanziare nel medio e lungo periodo le attività industriali del paese. Assieme all’IRI contribuì i risollevare l’economia italiana dopo la grave crisi del 1929. Istituto per la ricostruzione industriale (IRI). Ente pubblico fondato nel 1933 da Mussolini. Aveva il compito di risollevare i settori bancari e industriali che erano stati duramente colpiti dalla crisi economica internazionale del 1929. Izetbegović Alija (1925-2003). Uomo politico bosniaco. Dopo la Seconda guerra mondiale, fu vittima delle persecuzioni messe in atto da Tito nei confronti dei non comunisti. Incarcerato, venne liberato nel 1949. Per oltre trent’anni svolse la professione di avvocato senza però abbandonare la sua militanza politica a favore dell’islam. Nel 1970 pubblicò un manifesto, La Dichiarazione islamica, nel quale espresse tutte le sue critiche nei confronti della decadenza dell’islam e invocò una rigenerazione religiosa del mondo musulmano. Proprio a causa di questa sua visione politica nel 1983 fu di nuovo arrestato e condannato a 14 anni di carcere per aver attentato all’unità nazionale. Alla caduta del regime comunista, fondò nel 1989 il Partito dell’azione democratica, vinse le elezioni del novembre 1990 e divenne membro di una presidenza collegiale composta dai rappresentanti degli otto cantoni della federazione. Rieletto alla presidenza della Bosnia-Erzegovina nel 1998, lasciò la carica due anni dopo, nell’ottobre 2000. J’accuse. È il titolo della lettera scritta da Émile Zola al presidente della Repubblica francese Félix Faure e pubblicata su «L’Aurore» il 13 gennaio 1898. Nella lettera Zola condannava le irregolarità commesse durante il processo contro Alfred Dreyfus. Nonostante la condanna per vilipendio delle forze armate, che subì Zola dopo la pubblicazione della lettera, essa servì a far riaprire il caso. Dreyfus fu riabilitato nel 1906. Jacini Stefano (1826-1891). Cattolico e liberale moderato, deputato e poi senatore, fu più volte ministro dei Lavori Pubblici nel Regno d’Italia (1860-1861; 1864-1867). Fautore del decentramento amministrativo, diresse l’Inchiesta agraria (1877-84) che prese il suo nome. Jackson Andrew (1767-1845). Fondatore del Partito democratico, fu presidente degli Stati Uniti dal 1928 al 1936. Durante il suo primo mandato fu inaugurato lo spoil system, termine che indica l’occupazione dei posti di comando da parte del partito vincitore alle elezioni. Jacquerie. Termine entrato nell’uso per indicare una rivolta contadina spontanea, priva di organizzazione e base politica. Janukovyč Viktor (1950-). Uomo politico ucraino naturalizzato russo e presidente dell’Ucraina dal 2010 al 2014. In precedenza era stato primo ministro per tre volte: dal 2002 al 2004, dal 2004 al 2005 e dal 2006 al 2007. Violentemente contestato dai gruppi favorevoli all’ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea, nel febbraio 2014, al culmine delle

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proteste di piazza, Janukovyč abbandonò Kiev per rifugiarsi in Russia. Non riconobbe il nuovo governo ucraino, di stampo nazionalista antirusso, dichiarando di essere stato deposto da forze neofasciste. Jaruzelski Wojciech (1923-2014). Generale e uomo politico polacco, partecipò alla resistenza antinazista nell’esercito polacco riorganizzato dai sovietici. Nel 1947 entrò nel Partito operaio unificato polacco e iniziò una attiva carriera militare e politica. Dal 1981 primo ministro e segretario del Partito comunista, affrontò la drammatica crisi politica aperta dalla massiccia protesta operai guidata dal sindacato Solidarność. Temendo un intervento armato delle truppe del Patto di Varsavia, Jaruzelski sciolse Solidarność, arrestandone migliaia di membri e soffocando ogni tipo di protesta nel paese. Eletto capo dello Stato nel 1985, avviò trattative con le opposizioni da cui scaturì il compromesso istituzionale che doveva portare la Polonia fuori dal sistema comunista. Dopo le prime elezioni libere del 1898, fu eletto dal Parlamento alla presidenza della Repubblica. Ricoprì tale carica fino al settembre 1990, per poi ritirarsi a vita privata. Jaurès Jean (1859-1914). Uomo politico francese. Nel 1904 fondò il giornale socialista «L’Humanité». Insieme a Jules Guesde, nel 1905, diede vita al Partito socialista francese (SFIO), guidando la corrente riformista. Pacifista convinto, fu ucciso nel 1914, un giorno prima della mobilitazione generale per la guerra, da un giovane nazionalista francese. Jihad. Termine arabo che significa «combattere». All’interno del Corano, il termine viene usato per indicare una lotta interiore volta a raggiungere uno stato di perfezione nella fede. Nel linguaggio comune viene spesso confuso con la «guerra santa». Jihad Islamico. Il suo nome originario è Al-Jihad. Organizzazione costituitasi nel 1979 in Egitto attraverso l’aggregazione di gruppi islamisti formatisi nella seconda metà degli anni Settanta fuori dal controllo dei Fratelli Musulmani. Fin dai primi passi la scelta fu quella della clandestinità e della lotta armata. Nel 1998, sotto la guida di Ayman al-Zawahiri, il gruppo si legò ad al-Qā’ida. Jingsheng Wei (1950-). Entrò nelle Guardie rosse a sedici anni, durante la «rivoluzione culturale» voluta da Mao. Dopo una lunga permanenza in carcere, durante il regime di Deng, fu rilasciato nel 1997 su pressione internazionale e inviato negli Stati Uniti. Nel corso degli anni divenne il simbolo della lotta a favore della democrazia in Cina. Johnson Lyndon (1908-1973). Presidente degli Stati Uniti nel 19631968. Senatore democratico e vicepresidente, succedette a John F. Kennedy dopo il suo assassinio il 22 novembre 1963. Impegnò in modo crescente gli USA nella guerra del Vietnam. In politica interna cercò di proseguire il programma di Kennedy lanciando l’idea della «grande società». Juan Carlos I di Borbone (1938-). Re di Spagna dal 1975 al giugno 2014, quando ha abdicato in favore del figlio Felipe. Nato in esilio durante la guerra civile, nel 1969 Franco lo designò erede al trono dopo la propria morte (1975). Il suo regno si è caratterizzato per l’opera di transizione dal franchismo alla democrazia. Nel 1978 varò la nuova Costituzione. Juncker Jean-Claude (1954-). Avvocato e uomo politico lussemburghese, dal 1º novembre 2014 è presidente della Commissione europea. È

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stato primo ministro del Lussemburgo dal 1995 al 2013 e presidente del­ l’Eurogruppo dal 2005 al 2013. Candidato dal Partito popolare europeo alla guida della Commissione in occasione delle elezioni europee del 2014, è risultato eletto con 422 voti favorevoli, 250 contrari e 47 astenuti. Juščenko Viktor (1954-). Uomo politico ucraino e presidente dell’Ucraina dal 2005 al 2010. Vinse le elezioni presidenziali del 2004, battendo Viktor Janukovyč, il candidato sostenuto dal governo, dopo che furono ripetute per ben tre volte a causa di brogli e irregolarità. In quell’occasione i suoi sostenitori diedero vita alla cosiddetta «rivoluzione arancione», un movimento di protesta pacifica che chiedeva la ripetizione della consultazione elettorale. Kabila Joseph (1971-). Uomo politico congolese, è succeduto al padre nella carica di presidente della Repubblica democratica del Congo nel 2001. Alle elezioni presidenziali del 2006, dopo l’approvazione delle nuova Costituzione, ha riportato il maggior numero di voti, ma non la maggioranza assoluta. Nel ballottaggio svoltosi il 29 ottobre, Kabila è risultato vincitore con circa il 58% dei consensi. Kabila Laurent-Désiré (1939-2001). Uomo politico della Repubblica democratica del Congo. Fu presidente della Repubblica dal 1997, quando rovesciò il regime di Mobutu, fino al suo assassinio avvenuto nel 2001 durante un fallito colpo di stato. Gli succedette il figlio Joseph Kabila. Kádar János (1912-1989). Uomo politico ungherese, comunista. Segretario del partito dal 1956 al 1988, ne fu chiamato alla guida al posto di Mátyás Rákosi quando scoppiò la rivolta ungherese nel 1956. Inizialmente sostenitore del governo di Imre Nagy, quando questi prese le distanze da Mosca lo tradì, aprendo la strada alla repressione sovietica in Ungheria. Kamenev Lev (1883-1936). Uomo politico sovietico. Tra i fondatori del Partito bolscevico, nel 1917 si oppose alla tattica insurrezionale di Lenin, che lo nominò vicepresidente del Consiglio (1922-1927). Nella lotta interna al partito si alleò prima con Stalin e Zinov’ev contro Trockij (1924-1925), poi con Zinov’ev contro Stalin. Per questo fu processato insieme con Zinov’ev e fucilato nel 1936. Kamikaze («vento divino» in giapponese). Si indicavano con questo nome gli aviatori suicidi giapponesi che, nella fase finale della Seconda guerra mondiale, si lanciavano con i propri aerei carichi di esplosivo contro la flotta statunitense. Per estensione, tutti coloro che in un conflitto compiono attentati suicidi contro obiettivi nemici. Kapp Wolfgang (1858-1922). Funzionario e uomo politico tedesco. Nel marzo 1920, contrario alla Repubblica di Weimar e alle imposizioni di Versailles da essa accettate, organizzò a Berlino un colpo di mano, autoproclamandosi cancelliere del Reich. L’atto tuttavia, subito contrastato da uno sciopero generale, non durò più di cinque giorni. Rifugiatosi dapprima in Svezia e arrestato al suo ritorno in patria nel 1922, Kapp morì prima di venire processato per alto tradimento. Karadzić Radovan (1945-). Uomo politico serbo-bosniaco. Leader politico dei serbi della Bosnia-Erzegovina, quando nel 1992 la BosniaErzegovina acquistò l’indipendenza, divenne presidente della Repubblica Srpska, i territori a prevalenza serba che non riconoscevano la seces-

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sione dalla Jugoslavia. Secondo il Tribunale penale internazionale dell’Aja ordinò la pulizia etnica dei musulmani e dei croati di Bosnia durante la guerra nella ex Jugoslavia. Oltre che di crimini di guerra è accusato di genocidio, insieme con Ratko Mladic, per il massacro di Srebrenica, dove nel 1995 le truppe serbo-bosniache sterminarono migliaia di musulmani. Dopo 13 anni di latitanza, nel luglio del 2008 è stato catturato a Belgrado, dove viveva sotto falsa identità. Karamanlis Kostantinos (1907-1998). Uomo politico greco. Esponente del Partito popolare, fu primo ministro nel 1956-63. In esilio durante la dittatura militare (1963-1973), fu nuovamente a capo del governo dal 1974 al 1980. Nel 1956 fondò la conservatrice Unione nazionale radicale (ERE) e nel 1974 il partito Nuova democrazia (ND). Fu presidente della Repubblica nel 1980-1985 e nel 1990-1995. Kautsky Karl (1854-1938). Teorico e uomo politico austro-tedesco. Leader della socialdemocrazia tedesca, fu l’autore del programma del partito al congresso di Erfurt (1891), che indicò la linea a gran parte dei partiti socialisti europei. Contestò sia l’estremismo rivoluzionario, sia il revisionismo di Bernstein. Kayibanda Gregoire (1924-1976). Uomo politico rwandese, appartenente alla comunità degli hutu. Battutosi per l’indipendenza dal Belgio e per la destituzione della monarchia dei tutsi, fondò il Partito dell’emancipazione hutu, che ben presto divenne partito di maggioranza nel paese. Ottenuta l’indipendenza, nel 1962 fu eletto alla presidenza del Rwanda e vi rimase fino al 1973. Kelsen Hans (1881-1973). Giurista di nazionalità austriaca, il suo pensiero influenzò la stesura della Costituzione di Weimar. La sua lettura della democrazia, tesa a sottolineare che il fulcro della democrazia è la «creazione di numerosi capi» e quindi di un Parlamento dove siano presenti più partiti politici, fu espressa in modo particolare in due scritti: L’essenza e valore della democrazia (1920) e Il problema del parla­ mentarismo (1924). Kemal Mustafà (1881-1938). Militare e uomo politico turco, è stato il fondatore della Repubblica turca nel 1923, dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano. Fautore di un programma di laicizzazione del paese, fu presidente della Repubblica dal 1923 alla sua morte. Insignito del titolo di Atatürk, ovvero «padre dei turchi», assunse ufficialmente questo cognome nel 1934. Kennan George Frost (1904-2005). Diplomatico americano, fu funzionario presso l’ambasciata di Mosca tra il 1944 ed il 1946. Fu l’estensore del cosiddetto «lungo telegramma» inviato al segretario di Stato James Byrnes in cui si denunciavano le mire espansionistiche dell’URSS. Per questo motivo spesso viene ricordato come uno dei padri della dottrina del containment. Kennedy John Fitzgerald (1917-1963). Uomo politico statunitense, fu presidente (il primo di religione cattolica) dal 1961 al 1963. Appartenente al Partito democratico, il 14 luglio 1960, in occasione della sua ­nomination a candidato alla presidenza, fece un discorso in cui menzionava la «nuova frontiera» piena di sfide, di speranze e minacce che si apriva dinanzi agli Stati Uniti con gli anni Sessanta. La sua breve presi-

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denza fu segnata da avvenimenti internazionali di grande rilievo: la costruzione del Muro di Berlino; la crisi dei missili a Cuba; la guerra del Vietnam; il movimento per i diritti civili. Fu ucciso il 22 novembre 1963 a Dallas. All’indomani della sua morte fu insediata una Commissione per indagare sulle circostanze del suo assassinio, ma restano tuttavia ancora oggi molti lati oscuri nella vicenda. Kennedy Robert (1925-1968). Uomo politico statunitense appartenente al Partito democratico. Ministro federale della Giustizia e consigliere del fratello John Fitzgerald durante la sua presidenza, fu senatore (1964-1968) e leader del gruppo liberal-democratico. Contrario alla partecipazione americana alla guerra in Vietnam, nel 1968 fu il candidato democratico alla presidenza. Venne assassinato a Los Angeles da un immigrato giordano durante un comizio elettorale. Kerenskij Aleksandr (1881-1970). Uomo politico russo appartenente al Partito socialista rivoluzionario, nel 1917 entrò nel governo retto dal principe L’vov dove ricoprì prima la carica di ministro della Giustizia e poi quella di ministro della Guerra. Nel luglio 1917 sostituì L’vov alla guida del governo, ma dovette scontrarsi subito con il tentativo controrivoluzionario del generale Kornilov. La sua politica, fautrice della prosecuzione della guerra a fianco degli alleati dell’Intesa, era destinata a confliggere con il disegno bolscevico della pace ad ogni costo. Quando i bolscevichi presero il potere, fu costretto a fuggire dalla Russia. Kerry John Forbes (1943-). Avvocato e uomo politico statunitense. Nel 2004 fu il candidato per il Partito democratico alle elezioni presidenziali. Nel dicembre 2012 Barack Obama lo ha nominato segretario di Stato, carica nella quale Kerry è succeduto a Hillary Clinton. Keynes John Maynard (1883-1946). Economista britannico, è ritenuto il padre della moderna macroeconomia. In controtendenza rispetto alla teoria economica neoclassica, la sua analisi ha sostenuto la necessità dell’intervento pubblico nell’economia. KGB. Acronimo che indica il russo Komitet Gosudarstvennoj Bezo­ pasnosti, Comitato per la sicurezza dello Stato che riuniva i servizi segreti e la polizia politica dell’Unione Sovietica. Il KGB fu attivo dal 1954 al novembre 1991. Il suo stemma, una spada e uno scudo, stava ad indicare che esso rappresentava il custode della lealtà all’interno e al­ l’esterno dell’URSS. Khmer rossi. Movimento di guerriglieri comunisti cambogiani attivi a partire dai primi anni Sessanta. Saliti al potere nel 1975, instaurarono una violenta dittatura guidata da Pol Pot, cui pose fine l’invasione viet­ namita della Cambogia nel 1979. Khomeini Ruhollāh Mosavi (1900-1989). Leader religioso sciita e uomo politico iraniano. Ispiratore e capo della rivoluzione che nel 1979 depose lo scià, instaurò in Iran una repubblica islamica in cui assunse un potere pressoché assoluto come «guida della rivoluzione». Avviò la re-islamizzazione del paese e combatté contro le influenze occidentali. Sfruttò la lunga guerra con l’Iraq (1980-88) per isolare le componenti laiche del mondo politico iraniano. Uno dei suoi ultimi atti fu la sentenza di morte (fatwa) espressa contro Salman Rushdie, accusato di oltraggio all’islam per la pubblicazione dei suoi Versetti satanici.

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Kibbutzim. Plurale di kibbutz. Insediamenti agricoli collettivistici di Israele ispirati al sionismo. Nati in Palestina intorno al 1910, sono caratterizzati dalla proprietà collettiva della terra e dalla collettivizzazione di tutti i servizi. Di limitato impatto economico, hanno avuto una grande importanza politica e strategica nella storia del sionismo. Kim il Sung (1912-1994). Uomo politico nordcoreano. È stato segretario generale del Partito comunista nordcoreano dal 1945, primo ministro della Repubblica democratica popolare di Corea (Corea del Nord) dal 1948 al 1972 e presidente dal 1972 alla morte. A lui è legato un fortissimo culto della personalità; in Corea il suo compleanno è festa nazionale. King Martin Luther (1929-1968). Pastore battista e uomo politico statunitense. Leader del movimento non violento per i diritti civili della popolazione nera, organizzò la famosa «marcia su Washington» del 1963. Teorico della resistenza pacifica (La forza di amare, 1968), ricevette il premio Nobel per la pace nel 1964. Fu assassinato a Memphis nel 1968. Kipling Rudyard (1865-1936). Scrittore e poeta britannico. Nato e vissuto a lungo in India, con la teoria del «fardello dell’uomo bianco» (titolo di una sua poesia pubblicata nel 1899 in occasione della guerra ispano-americana) sostenne la missione civilizzatrice dell’imperialismo occidentale, e britannico in particolare, nei confronti dei cosiddetti «selvaggi». Autore di molti romanzi e racconti, scrisse La luce che si spense (1891), i Libri della giungla (1894-95), Capitani coraggiosi (1897), Kim (1901) e, tra le altre, la poesia If (1895). Kissinger Henry Alfred (1926-). Uomo politico statunitense di origine tedesca. Lasciò la Germania nel 1938 a causa delle persecuzioni antisemite. Docente all’Università di Harvard, diresse per diversi anni presso quella Università il Centro di studi internazionali. Consulente del governo federale, fu segretario di Stato durante le presidenze Nixon e Ford. Nel 1973 gli fu attribuito il premio Nobel per la pace per aver negoziato le trattative che misero fine alla guerra in Vietnam. È autore di numerosi saggi sulla politica internazionale e la diplomazia. Kodorchovskij Michail (1963-). Imprenditore russo fin dai tempi della glasnost e della perestroika, all’inizio degli anni Duemila era uno degli uomini più ricchi del suo paese. Arrestato nel 2003 per frode fiscale e successivamente condannato, quello a suo carico viene considerato da molti un processo politico voluto da Vladimir Putin per eliminare dalla scena uno dei suoi più potenti oppositori che infatti, prima di finire in carcere, aveva apertamente contestato lo stato di corruzione del sistema russo. A seguito di un’amnistia concessa nel dicembre 2013, Kodorchovskij si è trasferito in Germania. Kohl Helmut (1930-). Uomo politico tedesco, leader della CDU, l’Unione cristiano-democratica, fu cancelliere della Germania Ovest dal 1982 al 1990 quando, dopo la caduta del Muro di Berlino, il progetto di riunificazione delle due Germanie poté essere realizzato. Fu quindi il primo cancelliere della Germania unificata e mantenne questa carica fino al 1998. Kolchoz. Cooperativa agricola istituita in URSS all’epoca del primo piano quinquennale (1928-1932). È stata il motore della collettivizzazione agricola forzata. Il kolchoz otteneva gratuitamente la terra dallo Stato, che acquistava a prezzi inferiori a quelli di mercato i suoi prodotti

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pianificandone le attività. I soci erano retribuiti in base alle giornate lavorative prestate e potevano disporre di piccoli appezzamenti privati. Kornilov Lavr Georgevic (1870-1918). Generale russo. Dopo la Rivoluzione del febbraio 1917 in Russia, tentò di abbattere il governo Kerenskij con un colpo militare controrivoluzionario. Il tentativo fallito terminò con l’arresto di Kornilov. Fu ucciso dall’Armata Rossa nel 1918. Kossuth Lajos (1802-1894). Uomo politico ungherese. Avvocato, esponente della piccola nobiltà magiara, fu sostenitore di idee radicali sulla questione nazionale. Membro del governo rivoluzionario ungherese (1848), nel 1849 dichiarò l’indipendenza dell’Ungheria. Presidente della Repubblica, fu costretto all’esilio perché restio a riconoscere l’autonomia delle altre nazionalità presenti nel paese. Avversò il compromesso costituzionale del 1867 continuando a sostenere la causa nazionale. Kosygin Aleksej (1904-1980). Uomo politico russo. Sostituì Nikita Chruščëv nell’ottobre del 1964 alla guida del governo. Fu successivamente membro della troika guidata da Leonid Brežnev. Si dimise da ogni incarico politico nel 1980. Krenz Egon (1937-). Uomo politico tedesco. Fu l’ultimo capo di Stato della DDR e succedette ad Erich Honecker alla guida del Partito socialista unificato (SED). Non impedì l’abbattimento del Muro di Berlino il 9 novembre 1989. Krüger Stephanus J. Paulus (1825-1904). Uomo politico sudafricano. Leader della resistenza boera contro il governo britannico del Sudafrica (1877) e presidente della Repubblica indipendente del Transvaal (1883-1902). Durante la seconda guerra boera (1899-1902), fu costretto ad abbandonare il paese. Ku Klux Klan. Società segreta razzista fondata nel 1867 nel Tennessee (USA) da ex secessionisti degli Stati del sud. Messa fuori legge nel 1869, fu ricostituita nel 1915 ad Atlanta. Negli anni Venti affiancò al tradizionale odio per gli afroamericani atti di violenza contro immigrati europei, cinesi ed ebrei. Dopo una fase declinante negli anni QuarantaCinquanta, riprese vigore nel decennio successivo in opposizione al movimento per i diritti civili dei neri americani. Nel 1965 il Ku Klux Klan fu pubblicamente denunciato dal presidente Lyndon B. Johnson. Kulaki. Termine russo che significa «pugno» e, in senso figurato, «avaro». Era usato per indicare il ceto dei contadini benestanti russi. Formatosi dopo la riforma agraria del 1861, tale gruppo si oppose alla collettivizzazione forzata delle campagne voluta da Stalin. A milioni, i kulaki furono espropriati dei loro beni e costretti a lavorare nei kolchoz. Furono deportati in massa nei gulag durante il regime staliniano. Kuliscioff Anna (1857-1925). Socialista russo-italiana. Lasciò definitivamente la Russia nel 1876 per sottrarsi alla polizia zarista. Compagna prima di Andrea Costa e poi di Filippo Turati, fondò insieme a quest’ultimo nel 1891 la rivista «Critica sociale». Lager («campo» in tedesco). Luogo in cui vengono concentrati dai regimi totalitari gli oppositori politici e più in generale coloro che sono oggetto di discriminazione violenta su base razziale, religiosa o sessuale. Il primo, durante la guerra civile americana, fu il campo sudista di Andersonville (Georgia), dove molti prigionieri unionisti trovarono la

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morte (1861-65). Assunsero rilevanza storica con il nazismo, che creò veri e propri campi di concentramento e di sterminio in cui venivano internati ebrei, zingari, omosessuali e oppositori politici. Laissez faire («lasciate fare», in francese). Principio del liberismo economico secondo cui lo Stato non deve intervenire nella sfera economica. L’espressione completa laissez faire, laissez passer è generalmente attribuita a J.C.M. Vincent de Gournay (1712-1759), esponente della fisiocrazia e sostenitore dell’abolizione dei dazi nel commercio e nell’industria. Lama Luciano (1921-1996). Sindacalista e uomo politico italiano. Deputato comunista nel 1958, fu segretario generale della CGIL dal 1970 al 1986. Nel febbraio del 1977 fu violentemente constestato a Roma dai giovani della sinistra extraparlamentare. Nel 1978, con la «svolta del­l’Eur», propose ai lavoratori una politica di sacrifici per risanare l’economia italiana. La Malfa Giorgio (1939-). Figlio di Ugo, leader del Partito repubblicano nel secondo dopoguerra, aderì anch’egli al Partito repubblicano di cui divenne segretario nel 1987. È stato deputato per diverse legislature. Nel 2001 e nel 2006 si è alleato con Forza Italia. Rieletto nel 2008 alla Camera nelle file del Popolo della libertà, si è successivamente iscritto al Gruppo misto. Lassalle Ferdinand (1825-1864). Uomo politico prussiano, fondò nel 1863 l’Associazione generale dei lavoratori tedeschi, che confluì nel 1875 nel Partito socialdemocratico. Fu il teorico della «legge bronzea dei salari», secondo cui il salario medio non supera mai il livello della semplice sussistenza degli operai perché legato alla pressione demografica e alla crescente offerta di manodopera. Laval Pierre (1883-1945). Uomo politico francese. Deputato socialista, fu presidente del Consiglio (1931-32; 1935-36). Favorevole all’avvicinamento all’Italia fascista, si oppose al governo del Fronte Popolare. Sostenitore di una politica di appeasement nei confronti del nazismo, fu a capo del governo di Vichy (1942-45). Dopo la liberazione fu arrestato e fucilato dagli alleati. Lazzari Costantino (1857-1927). Socialista italiano, fu tra i fondatori del partito nel 1892. Segretario del PSI dal 1912 al 1919, fu il promotore della formula «né aderire, né sabotare» in merito alla posizione che i socialisti avrebbero dovuto tenere nei confronti dell’ingresso dell’Italia nella guerra mondiale. Le Duc Tho [pseudonimo di Phan Dinh Khai] (1911-1990). Uomo politico nordvietnamita. Leader del Partito comunista, dal 1968 al 1973 condusse i negoziati che avrebbero posto fine alla guerra del Vietnam. Premio Nobel per la pace (1973), rifiutò il riconoscimento sostenendo che la pace non era stata effettivamente realizzata. Lee Robert (1807-1870). Militare statunitense. Consigliere nel 1861, allo scoppio della guerra di secessione, del presidente sudista Jefferson Davis, comandante dell’esercito della Virginia, sconfisse nel 1862 le truppe nemiche a Richmond, Bull Run e Friedericksburg. Nel 1863 fu costretto a ritirarsi dopo la sconfitta di Gettysburg in Pennsylvania. Assediato a Richmond dal generale Grant, fu costretto alla resa nell’aprile 1865, ponendo fine alla guerra civile americana.

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Lega dei paesi arabi. Associazione di paesi arabi costituitasi il 22 marzo 1945 al Cairo. I sette paesi fondatori furono: Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Iraq, Libano, Siria, Yemen del Nord, cui si aggiunsero in seguito Libia (1953), Sudan (1956), Tunisia e Marocco (1958), Kuwait (1961), Algeria (1962), Yemen del sud (1967), Bahrain, Qatar, Oman e Emirati Arabi Uniti (1971), Mauritania (1973), Somalia (1974), Gibuti (1977). All’OLP era riconosciuto lo status di membro rappresentante della Palestina. Nel 1979 la sede fu trasferita a Tunisi. Lega di Spartaco. Associazione marxista fondata nel 1914 in Germania da Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e da altri esponenti della sinistra socialdemocratica. Alla fine della Prima guerra mondiale organizzò la rivoluzione dei Consigli (novembre 1918), diventando il nucleo promotore del Partito comunista tedesco (KPD). Nel gennaio del 1919 la repressione della rivoluzione condusse all’uccisione a Berlino dei suoi due principali esponenti. Lega Navale. Associazione tedesca costituitasi nel 1898 quando erano ministro della Marina l’ammiraglio Alfred von Tirpitz e ministro degli Esteri Bernhard von Bülow. I suoi membri erano fautori di una politica espansionistica che vedeva nel riarmo navale la sua condizione necessaria. Lega Pangermanica. Costituita nel 1891, riunì in breve tempo industriali, ammiragli, intellettuali tutti fautori di una politica che, abbandonato l’equilibrio bismarckiano dello status quo in Europa, doveva portare la Germania alla conquista di nuove terre e nuovi mercati. Il suo primo presidente fu Ernest Hasse. L’associazione, di chiaro stampo conservatore, si mantenne in vita fino al 1939, quando confluì nel Partito nazista. Legge delle guarentigie. Legge promulgata il 13 maggio 1871 dal governo italiano per regolare i rapporti tra il Regno d’Italia e la Santa Sede dopo l’occupazione di Roma del 1870. Mai riconosciuta dal papa, gli assicurò il libero esercizio del potere spirituale e l’inviolabilità dei palazzi del Vaticano. Rimase in vigore fino al Concordato del 1929. Legge Pica. Legge che prese il nome dal suo promotore, il deputato della Destra Storica Giuseppe Pica. Fu varata dal Parlamento italiano nel 1863 e rimase in vigore fino alla fine del 1865. Prevedeva disposizioni eccezionali per la repressione del brigantaggio meridionale. Lenin Nikolaj [pseudonimo di Vladimir Il’ic Ul’janov] (1870-1924). Teorico e uomo politico sovietico. Fu l’artefice della Rivoluzione bolscevica nel 1917. Teorico del partito come avanguardia rivoluzionaria della classe operaia (Che fare?, 1902), sosteneva la necessità di una rigida organizzazione di partito la cui guida fosse affidata a «rivoluzionari di professione». Pensò che la Prima guerra mondiale potesse essere utilizzata in senso rivoluzionario e condannò il patriottismo della Seconda Internazionale. Allo scoppio della Rivoluzione del febbraio 1917 rientrò dall’esilio ginevrino con un vagone ferroviario messogli a disposizione dalle autorità tedesche e diresse l’insurrezione d’ottobre portando i bolscevichi al potere. Teorico della dittatura del proletariato come fase di transizione dal vecchio Stato zarista alla società comunista (Stato e rivo­ luzione, 1917), nel 1919 fondò la Terza Internazionale (o Comintern).

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Leone XIII [Vincenzo Gioacchino Pecci] (1810-1893). Papa dal 1878 al 1903, scrisse numerose encicliche tra le quali la più famosa è la Rerum Novarum con cui la Chiesa cercò di fornire una risposta ai crescenti problemi sociali e alle condizioni delle classi lavoratrici. Leopoldo II (1835-1909). Sovrano del Belgio dal 1865 sino alla morte, è ricordato per aver occupato il bacino del Congo (1879) e per avervi fondato, in qualità di unico proprietario, lo Stato libero del Congo (1885). Una iniziativa del tutto privata, messa in atto dal sovrano per sfruttare le ricche risorse naturali presenti nella regione. Leopoldo II di Toscana (1797-1870). Granduca di Toscana nel 18241859. Autore di grandi opere pubbliche come la bonifica della Maremma, favorì lo sviluppo di una moderna economia, tenendosi al riparo dai moti del 1830-1831. Nel 1848 concesse la Costituzione, che revocò l’anno successivo perché era contrario al governo di Guerrazzi e Montanelli. Dovette fuggire con Pio IX a Gaeta. Rientrato con l’aiuto degli austriaci, instaurò un regime ostile al movimento nazionale italiano. Nel 1859, allo scoppio della seconda guerra d’indipendenza, fu costretto al definitivo esilio. Le Pen Marine (1968-). Politica francese, europarlamentare dal 2004 e presidente del Fronte Nazionale dal gennaio 2011, quando subentrò al padre. Partito nazionalista e antieuropeista, il Fronte Nazionale si batte per l’uscita della Francia dall’euro e dalla NATO, il contrasto alle politiche di austerità volute dalla UE e la limitazione del flusso di immigrati. Dalle elezioni europee del 2014 è uscito come il primo partito in Francia e alle elezioni dipartimentali del 2015 ha ottenuto il 25,19% dei consensi. Letta Enrico (1966-). Politico italiano. Nel 1998, nominato ministro per le Politiche comunitarie del governo D’Alema, divenne il più giovane ministro, fino ad allora, nella storia della Repubblica. Ha successivamente ricoperto diversi incarichi ministeriali ed è stato europarlamentare dal 2004 al 2006. Esponente prima della Margherita poi del PD, nel 2009 fu eletto vicesegretario nazionale di quest’ultimo partito. Nell’aprile 2013 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano gli conferì l’incarico di formare un nuovo governo, che Letta costituì con esponenti del Partito democratico, del Popolo della Libertà e di Scelta Civica. Meno di un anno dopo, il 14 febbraio 2014, rassegnò le dimissioni a seguito della sfiducia espressa, su impulso del nuovo segretario Matteo Renzi, dalla direzione nazionale del Partito democratico. Liberismo. Dottrina economica fondata sulla libera iniziativa privata e sul libero commercio. Con la formula del laissez faire intendeva eliminare qualsiasi vincolo alla libertà economica e limitare l’intervento dello Stato nella sfera economica. Il liberismo si sviluppò soprattutto in Gran Bretagna durante l’Ottocento, facendo propri gli insegnamenti di Adam Smith e poi di William Cobden e quindi seguendo gli sviluppi della rivoluzione industriale. In declino dopo la Prima guerra mondiale, si è riproposto dopo la Seconda con l’ampliamento del mercato internazionale, l’abbattimento delle tariffe doganali in Europa e, negli anni Ottanta, con le politiche economiche ispirate al cosiddetto neoliberismo. Liebknecht Karl (1871-1919). Uomo politico tedesco. Figlio di Wilhelm, uno dei fondatori del Partito socialdemocratico tedesco, fu a capo dell’ala radicale della socialdemocrazia e tra i fondatori nel 1918 della Lega di

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Spartaco, da cui sorse il Partito comunista (KPD). Fu ucciso con Rosa Luxemburg nella repressione dell’insurrezione spartachista di Berlino. Liebknecht Wilhelm (1826-1900). Uomo politico tedesco, studiò filosofia e filologia a Marburgo. In seguito alla sua partecipazione ai moti rivoluzionari che infiammarono il Baden nel 1848 fu costretto a fuggire in Svizzera. Espulso dal territorio elvetico, riparò a Londra dove conobbe Karl Marx, divenendone allievo. Fu promotore della Prima Internazionale (1864) e con August Bebel fondò nel 1869 il Partito socialdemocratico dei lavoratori. Questo movimento, grazie proprio all’opera di Liebknecht, si fuse nel 1875 con l’Associazione generale dei lavoratori tedeschi dando vita alla SPD. Ligačev Egor (1920-). Uomo politico russo, faceva parte della squadra che Andropov si scelse quando salì al potere nel 1982. Il suo ruolo era quello di dirigente del Dipartimento di organizzazione del Comitato centrale del PCUS. Inizialmente collaboratore di Gorbačëv, se ne distaccò quando la sua politica di riforme si fece troppo avanzata. Lín Biāo (1908-1971). Militare e uomo politico cinese. Iscrittosi al Partito comunista cinese nel 1925, partecipò come comandante della prima Armata Rossa alla «lunga marcia» (1934-35), alla resistenza contro il Giappone e alla guerra civile contro le forze nazionaliste. Idolo delle Guardie rosse durante la «rivoluzione culturale» (1966-69), nel 1971 fu accusato di un colpo di stato e morì in circostanze misteriose. Lincoln Abraham (1809-1865). Uomo politico statunitense, fu presidente degli USA dal 1861 al 1865. Dal 1834 al 1842 fu membro del Parlamento dell’Illinois e deputato al Congresso dal 1847 al 1849. Nel 1856 aderì al Partito repubblicano, nato dalla disgregazione del gruppo whig a cui aveva appartenuto in precedenza, e cominciò ad interessarsi alla questione della schiavitù nei territori dell’ovest. Pur non teorizzando l’eliminazione della schiavitù laddove esisteva, era comunque convinto che, per ragioni economiche e politiche, non bisognasse permetterne l’espansione. Nel 1861, scoppiata la guerra civile per la secessione degli Stati schiavisti del sud, sostenne con forza la necessità di mantenere in vita l’Unione ed arrivò gradualmente, tra il 1863 e il 1865, a decretare l’abolizione della schiavitù. Conclusasi la guerra con la vittoria delle truppe nordiste nell’aprile 1865, Lincoln cadde vittima di un attentato ad opera di un fanatico sudista. Linea gotica. Nome dato dai tedeschi alla linea lungo cui correva il fronte in Italia durante le ultime fasi della Seconda guerra mondiale: si estendeva da Massa Carrara a Rimini. Dall’agosto del 1944 all’aprile del 1945 arrestò l’avanzata degli alleati angloamericani. Li Peng (1928-). Uomo politico cinese. Cauto sostenitore del rinnovamento economico, fu primo ministro (1987-98) e nel 1989 sostenne la repressione del movimento di Piazza Tienanmen, tanto da conquistarsi l’appoggio di Deng Xiaoping, che lo indicò come suo successore. Ma alla scomparsa di Deng fu osteggiato da Jiang Zemin e nel 1998 lasciò la carica di premier a Zhu Rongji, per assumere la presidenza del Parlamento cinese. Lippman Walter (1889-1974). Giornalista, lavorò per molti anni all’«Herald Tribune» occupandosi soprattutto di politica internazionale. Vinse due premi Pulitzer, nel 1958 e nel 1962. La sua opera più importante è stata il saggio L’opinione pubblica del 1921.

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List Friedrich (1789-1846). Economista tedesco, sostenne il protezionismo come mezzo per sostenere lo sviluppo dei paesi con un basso livello di industrializzazione. Lloyd George David (1863-1945). Uomo politico britannico appartenente al Partito liberale. Assunse la guida del governo durante la Prima guerra mondiale e rappresentò la Gran Bretagna alla Conferenza di Versailles nel 1919. Diede particolare impulso alle riforme sociali da quando, nel 1908, divenne cancelliere dello Scacchiere nel governo Asquith. Lon Nol (1913-1985). Militare e uomo politico cambogiano. Ufficiale dell’esercito durante la guerra d’Indocina, fu primo ministro cambogiano (1966-67; 1969-75). Organizzò il colpo di stato che nel 1970 destituì il presidente Sihanouk e si alleò con gli Stati Uniti e il regime sudvietnamita che invasero il paese. Nel 1972 assunse la presidenza della Cambogia, ma dovette abbandonare Phnom Penh nel 1975, poco prima dell’occupazione della città da parte dei khmer rossi. Longo Luigi (1900-1980). Uomo politico italiano. Tra i fondatori del Partito comunista d’Italia nel 1921, fu ispettore delle Brigate Internazionali nella guerra civile di Spagna (1936-39). Nel 1943 fu tra i fondatori delle brigate Garibaldi e quindi vicecomandante del Corpo volontari della libertà (CVL). Assieme a Parri diresse il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia. Nell’aprile del 1945 fu tra i capi dell’insurrezione dell’Italia settentrionale. Succedette a Togliatti nella carica di Segretario del PCI (1964-72), di cui fu successivamente presidente. Lotta continua. Movimento politico italiano della sinistra extraparlamentare. Fondato a Torino nel 1969, si sciolse nel 1977. Tra il 1971 e il 1982 pubblicò l’omonimo giornale. Fra i suoi leader vi fu Adriano Sofri. Ludendorff Erich (1864-1937). Durante la Prima guerra mondiale fu, insieme a Hindenburg, alla guida dello stato maggiore tedesco. All’inizio degli anni Venti, stabilitosi a Monaco, divenne uno dei più ascoltati portavoce della destra ultranazionalista e antisemita e si avvicinò al Partito nazionalsocialista di Hitler. Luigi Filippo d’Orléans (1773-1850). Re di Francia dal 1830 al 1848. Dopo i moti di luglio, fu proclamato re dal Parlamento per le sue simpatie liberali. In politica interna fu dapprima fedele al ruolo di monarca costituzionale, poi attuò una politica conservatrice favorendo la grande borghesia industriale e finanziaria. Travolto dalla rivoluzione del febbraio 1848, abdicò e si rifugiò in Inghilterra. Luigi Napoleone Bonaparte (1808-1873). Imperatore francese dal 1852 al 1870. Nipote di Napoleone I, fu eletto a suffragio universale presidente della Seconda Repubblica (10 dicembre 1848). Con un colpo di stato (2 dicembre 1851) sciolse l’Assemblea legislativa e si proclamò prima presidente per dieci anni e poi, il 2 dicembre 1852, imperatore con il nome di Napoleone III. Alleatosi con Inghilterra, Turchia e Piemonte, partecipò alla guerra di Crimea (1853-56) contro la Russia. In seguito all’attentato di Felice Orsini (gennaio 1858) appoggiò il Piemonte nella seconda guerra d’indipendenza (1859), ma si dimostrò intransigente sulla questione romana. La sconfitta di Sedan (1870) nella guerra francoprussiana condusse alla dissoluzione dell’Impero costringendo Napoleone III all’esilio in Inghilterra.

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Luigi XVI di Borbone (1754-1793). Re di Francia dal 1774 al 1792. Nipote e successore di Luigi XV, ebbe come ministri delle Finanze prima Turgot e poi Necker, i quali tentarono di introdurre alcune riforme per ridurre il deficit del bilancio statale. Ma la reazione dei ceti aristocratici lo costrinse a convocare gli Stati Generali (1789). Iniziò così la Rivoluzione francese, nei confronti della quale oscillò tra il tentativo di convivere con il nuovo regime costituzionale e un atteggiamento di difesa dell’ordine tradizionale. Nel 1791 tentò di lasciare il paese ma, scoperto a Varennes, fu arrestato, processato dalla Convenzione, condannato e infine giustiziato (1793). Luigi XVIII di Borbone (1755-1824). Re di Francia dal 1814, dopo la caduta di Napoleone I, restaurò la monarchia assoluta. Governò, tuttavia, con moderazione concedendo nel 1814 una carta costituzionale ed attuando una politica di conciliazione nazionale. Tale esperimento venne però bruscamente interrotto con l’assassinio, nel 1820, dell’erede al trono, il duca di Berry. Da quel momento Luigi XVIII appoggiò la destra reazionaria. Lumumba Patrice (1925-1961). Uomo politico congolese. Fondatore del Movimento nazionale per l’indipendenza dal Belgio, vinse le elezioni e proclamò l’indipendenza del paese (1960). La secessione del Katanga affrettò la sua caduta. Destituito dal presidente Kasavubu, fu arrestato e assassinato (1961). Lunga marcia. Ritirata compiuta nel 1934-1935 dall’esercito comunista cinese guidato da Mao Zedong dalla Cina meridionale alle province del nord-ovest per sfuggire agli attacchi del Guomindang e per poter meglio resistere all’invasione giapponese. Lungo Ottocento. Espressione coniata dallo storico britannico Eric J. Hobsbawm in opposizione a quella da lui stesso introdotta di «secolo breve» (1917-1989) per definire il Novecento. Essa individua nell’Ottocento un secolo che, a differenza del «breve» Novecento, si è esteso dal 1789 al 1914, ossia è compreso tra le due cesure storiche rappresentate dalla Rivoluzione francese e dalla Prima guerra mondiale. Lussu Emilio (1890-1975). Già tra i fondatori del Partito sardo d’Azione, fu insieme a Carlo Rosselli tra gli ideatori del movimento Giustizia e Libertà. Azionista, fu il leader della corrente socialista del partito. Luxemburg Rosa (1871-1919). Politica e teorica polacca. Ebrea, di nazionalità tedesca dal 1897, fu la principale esponente della sinistra rivoluzionaria del Partito socialdemocratico tedesco. Avversò il revisionismo riformista di Bernstein e per il suo pacifismo trascorse due anni in carcere (1916-1918). Dopo il 1917 criticò il rigido modello leninista di partito, cui contrappose l’idea della spontaneità rivoluzionaria delle masse proletarie. Nel dicembre del 1918 fondò il Partito comunista tedesco e insieme con Karl Liebknecht organizzò la Lega di Spartaco, guidando l’insurrezione di Berlino del gennaio 1919, nella cui repressione, ordinata dal presidente socialdemocratico Ebert, fu uccisa. Scrisse L’ac­ cumulazione del capitale (1912) e La rivoluzione russa (1922). Luzzatti Luigi (1841-1927). Uomo politico italiano. Giurista ed economista, nel 1869 fu nominato da Minghetti sottosegretario all’Agricol-

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tura e al Commercio e in tale veste promosse un’indagine sull’industria italiana (1871-1873). Più volte ministro del Tesoro dal 1891 al 1906, fu presidente del Consiglio nel 1910. L’vov Georgij (1861-1925). Principe e uomo politico russo, fece parte della prima Duma tra le file dei costituzionalisti democratici. Nel febbraio 1917, dopo la caduta di Nicola II, assunse la guida del governo provvisorio con l’obiettivo di trasformare la Russia in un paese democratico e di continuare la guerra a fianco dei paesi della Triplice Intesa. MacArthur Douglas (1880-1964). Generale statunitense che nel corso del secondo conflitto mondiale comandò le forze alleate nel Pacifico sud-orientale e guidò l’amministrazione militare delle forze d’occupazione nel Giappone sconfitto. Allo scoppio della guerra di Corea, venne posto al comando (1950-1951) delle forze ONU. In tale veste prese posizione a favore di un attacco contro la Cina entrando in contrasto con il presidente Truman, che lo rimosse dall’incarico nell’aprile 1951. Maccartismo. Fenomeno politico riconducibile alla campagna anticomunista organizzata negli Stati Uniti nei primi anni Cinquanta dal senatore repubblicano Joseph McCarthy. In qualità di presidente della Commissione senatoriale di controllo sulle attività governative, denunciò presunte infiltrazioni comuniste in diversi enti statali e nel mondo dello spettacolo. La sua carriera fu compromessa nel 1954, dopo le accuse mosse ad alti esponenti dell’esercito. MacDonald James Ramsay (1866-1937). Politico inglese che fu tra i fondatori del Partito laburista (1906). Nel 1922-1924 guidò il primo governo laburista (di minoranza) del Regno Unito. Tornò ad essere primo ministro nel 1929, mentre nel 1931 formò un «governo nazionale» con conservatori e liberali. I provvedimenti proposti dal suo esecutivo di coalizione furono duramente osteggiati dai sindacati e per questo motivo decise di abbandonare nel 1935 il partito. Nelle elezioni di quell’anno non riuscì a conquistare il suo seggio parlamentare e si ritirò definitivamente dalla vita politica. Mac Mahon Edme Patrice Maurice de (1808-1893). Generale e uomo politico francese. Vincitore sugli austriaci a Magenta (1859) nella seconda guerra d’indipendenza italiana, fu sconfitto dai prussiani a Sedan (1870) e represse la Comune di Parigi (1871). Presidente della Repubblica (1873), tentò di restaurare un regime autoritario di stampo monarchico ma, sconfitto dai repubblicani alle elezioni, fu costretto a dimettersi nel 1879. Macmillan Harold (1894-1986). Uomo politico britannico, appartenente al Partito Conservatore. Fu stretto collaboratore di Churchill e più volte ministro e cancelliere dello Scacchiere nei governi dello stesso Churchill e di Anthony Eden. Primo ministro dal 1957 al 1963, favorì il processo di decolonizzazione e cercò di far entrare la Gran Bretagna nella Comunità economica europea. Madero Francisco (1873-1913). Uomo politico messicano, diresse la rivoluzione contro Porfirio Díaz, diventando poi presidente della Repubblica. Fu deposto da Victoriano Huerta. Mafia. Con questo termine si indica un’organizzazione malavitosa violenta, strutturata per famiglie o clan, dedita ad attività criminali e di

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estorsione, presente nel Mezzogiorno d’Italia e soprattutto in Sicilia. Associazioni criminali analoghe alla mafia siciliana sono la camorra in Campania, la ’Ndrangheta, che opera prevalentemente in Calabria, e la Sacra Corona Unita, presente in Puglia. Oggi, comunque, il termine mafia viene spesso utilizzato in modo estensivo per indicare sia i gruppi della criminalità organizzata presenti nel territorio italiano, sia analoghe organizzazioni attive in altri paesi, come Russia, Turchia, Giappone e Stati Uniti, le quali tendono ad assumere caratteri transnazionali. Maggio francese. Movimento di protesta studentesca accompagnato da grandi agitazioni sociali che in Francia ebbe il suo culmine nel maggio del 1968. In questo moto di rivolta confluirono da un lato il malcontento di una nuova generazione di studenti per le scarse prospettive occupazionali e, dall’altro, l’insoddisfazione profonda della classe operaia. Il governo Pompidou reagì negoziando con i sindacati gli accordi di Grenelle, in base ai quali gli operai ottennero aumenti salariali. La protesta rientrò quando, nelle elezioni politiche di giugno, riuscì vincitore il partito gollista al potere, mentre la sinistra subì una netta sconfitta. Malcolm X [pseudonimo di Malcolm Little] (1925-1965). Uomo politico statunitense. Leader del movimento di emancipazione dei neri americani, si convertì all’Islam durante la sua detenzione in carcere per furto. Rifiutò il cognome imposto alla sua famiglia in epoca schiavista e aderì al movimento dei Black Muslim. Nel 1964 fondò un’organizzazione estremista, che sosteneva la supremazia della razza nera. Fu assassinato il 21 febbraio 1965. È autore dell’Autobiografia (1965). Malenkov Georgij (1902-1988). Uomo politico russo, fu stretto collaboratore di Stalin e presidente del Consiglio dopo la sua morte. Si oppose all’ascesa di Chrusčëv che dapprima lo emarginò dal potere e successivamente lo espulse dal partito. Mambro Francesca (1959-). Militante dei Nuclei armati rivoluzionari, formazione terroristica di estrema destra, è stata condannata, assieme a Valerio Fioravanti, per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Mandarini. Termine con cui si indicavano nella Cina imperiale gli alti dignitari di corte dotati di ampi privilegi di casta. Per estensione, funzionari pubblici che godono di privilegi e si comportano in modo vessatorio e autoritario. Mandato. Istituto di diritto internazionale creato alla fine della Prima Guerra mondiale con cui la Società delle Nazioni affidò l’amministrazione di paesi e popoli destinati all’indipendenza a una grande potenza. Questa aveva il compito di creare le condizioni necessarie per il raggiungimento dell’autogoverno. L’applicazione più nota di questo istituto temporaneo si ebbe nei territori dell’ex Impero ottomano. Mandela Nelson (1918-2013). Uomo politico sudafricano. Leader del movimento antisegregazionista African National Congress, nel 1962 fu arrestato per la sua attività di lotta contro l’apartheid. Liberato nel 1990, fu eletto presidente dell’ANC (1991) e guidò la delegazione del movimento ai negoziati per la transizione del Sudafrica a un sistema democratico e multirazziale. Premio Nobel per la pace nel 1993, fu presidente della Repubblica (1994-99).

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Manin Daniele (1804-1857). Liberale veneto, fu a capo della Repubblica di Venezia sorta in seguito ai moti del 1848 e riconquistata dagli austriaci nel 1849. Mann Thomas (1875-1955). Scrittore e saggista tedesco, premio Nobel per la letteratura nel 1929. Tra le sue opere di maggior successo il romanzo I Buddenbrook (1901), Morte a Venezia (1903), La montagna incantata (1924). Antinazista, dovette riparare in Francia e poi negli Stati Uniti. Maometto V (1844-1918). Salito sul trono dell’Impero ottomano nel 1909 dopo la rivolta dei Giovani Turchi che avevano deposto suo fratello, Maometto V dovette far fronte alla crisi ormai irreversibile del suo Impero. Dopo aver subito gravi perdite territoriali nella guerra di Libia contro l’Italia (1911-12) e nelle guerre balcaniche (1912-13), entrò nel primo conflitto mondiale a fianco degli Imperi centrali. Morì poco prima della fine della guerra, che avrebbe portato alla definitiva dissoluzione dell’Impero ottomano. Mao Zedong (1893-1976). Uomo politico cinese. Tra i fondatori del Partito comunista cinese (1921), fu membro del comitato centrale del partito alleatosi con il Guomindang di Chiang Kai-shek. Dopo la rottura con i nazionalisti (1927) organizzò un esercito su base contadina (Armata Rossa) e nel 1931 fondò nel Jiangxi una repubblica sovietica indipendente, che dovette essere abbandonata con la «lunga marcia» (1934-35) in seguito all’avvio della repressione anticomunista. L’invasione giapponese della Cina (1937) costrinse comunisti e nazionalisti a una precaria alleanza, destinata a concludersi in una sanguinosa guerra civile (1946-49) dopo la resa giapponese. La guerra civile terminò con la vittoria di Mao e la proclamazione della Repubblica popolare cinese (1949), di cui fu presidente fino al 1958. Rimase presidente del partito fino alla morte. Maquis (in francese «macchia»). Termine con cui si indicavano i gruppi partigiani nella Resistenza francese durante la Seconda guerra mondiale. Marcuse Herbert (1898-1979). Compiuti gli studi in Germania, abbandonò il uso paese per approdare prima in Svizzera e poi negli USA nel 1934, dove rimase e ne prese la cittadinanza nel 1940. Fondatore, insieme a Max Horkheimer ed a Theodor Adorno, della Scuola di Francoforte, nelle sue opere ha condotto una serrata critica sia del sistema capitalistico che di quello sovietico. Su questi temi una delle sue opere principali è L’uomo a una dimensione, pubblicata nel 1964. Maria Cristina di Borbone (1806-1878). Figlia di Francesco I, regina di Spagna (1829-1833). Alla morte del sovrano Ferdinando VII, nel 1833, si appoggiò allo schieramento liberale per difendere il diritto di successione della figlia Isabella dalle mire dello zio Carlos, sostenuto dai cattolici tradizionalisti. Maria Luisa d’Austria (1791-1847). Appartenente alla dinastia degli Asburgo-Lorena e figlia dell’imperatore austriaco Francesco I, nel 1810 fu data in sposa a Napoleone Bonaparte a suggello della pace stipulata l’anno precedente tra Francia e Austria. Al Congresso di Vienna le furono assegnati i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla.

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Marshall George (1889-1959). Capo di stato maggiore dell’esercito statunitense dal 1939 al 1945, fu segretario di Stato dal 1947 al 1949 sotto la presidenza Truman. A lui si deve il programma di aiuti economici per la ricostruzione dell’Europa che porta il suo nome. Marshall Thomas (1893-1982). Sociologo inglese, insegnò a lungo alla London School of Economics. È noto soprattutto per la sua teoria della cittadinanza che delineò nell’opera Class, Citizenship and Social Development del 1963. Secondo Marshall, la cittadinanza si è progressivamente espansa dai diritti civili, affermatisi nel corso del XVIII secolo, a quelli politici (come il diritto di voto), riconosciuti tra XIX e XX secolo, fino a comprendere anche i diritti sociali nel corso del Novecento. Questi diritti sono istituzionalizzati rispettivamente dai tribunali, dal Parlamento e dal sistema di Welfare State. Marsigliese. Inno nazionale francese. Composto da Rouget de Lisle nella primavera del 1792, divenne inno nazionale il 14 luglio 1795. Fu assunto definitivamente come inno nazionale nel 1879 dal governo della Terza Repubblica. Marx Karl (1818-1883). Filosofo tedesco. Democratico-radicale negli anni Quaranta dell’Ottocento, elaborò attraverso la dialettica hegeliana una nuova concezione della storia su base materialista, secondo la quale il motore dello sviluppo storico-sociale è la lotta tra le classi, determinata dal modo in cui in una società è organizzata la produzione (struttura), mentre politica e cultura sono il riflesso ideologico del modo di produzione (sovrastruttura). Dal 1845 avviò la collaborazione con Friedrich Engels. Con questi condivise anche la militanza politica, aderendo alla Lega dei comunisti e scrivendo a due mani il Manifesto del Partito comunista (1848) nel quale, dopo avere elogiato l’originaria natura rivoluzionaria della borghesia, esortavano i «proletari di tutti i paesi» a unirsi per abbattere il sistema capitalistico e a dare vita ad una società comunista senza classi. Trasferitosi a Londra (1849), fu tra i promotori della Prima Internazionale e nella sua opera maggiore, Il Capitale, elaborò una teoria generale dell’ordinamento sociale capitalistico e dei suoi antagonismi di classe. Maschadov Aslan (1951-2005). Militare e politico russo, di etnia cecena. Già colonnello dell’esercito sovietico, fu il terzo presidente della Repubblica Cecena dal 1997 al 2005. Considerato da molti l’artefice della vittoria cecena nella guerra che portò, di fatto, alla nascita della Repubblica di Cecenia, allo scoppio della seconda guerra cecena, nel 1999, tornò a guidare la resistenza contro l’esercito russo. Massimiliano d’Asburgo (1832-1867). Arciduca d’Austria e imperatore del Messico. Fratello di Francesco Giuseppe, fu governatore del Lombardo-Veneto (1857-59). Nel 1864 gli fu offerta la corona del Messico da una giunta di oligarchi locali, in accordo con i francesi che occupavano il paese, ma i repubblicani guidati da Juárez si opposero. Venne arrestato e poi fucilato. Mastella Clemente (1947-). Politico italiano, ha avuto una lunga esperienza parlamentare sia come deputato che come senatore, iniziata nel 1976 nelle file della Democrazia Cristiana. È stato il fondatore e segretario nazionale del partito d’ispirazione cattolica-popolare UDEUR.

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Mattarella Sergio (1941-). Uomo politico italiano. Democristiano, deputato dal 1983, ministro per i Rapporti con il Parlamento (19871988; 1988-89), ministro della Pubblica Istruzione (1989-91), vicepresidente del Consiglio (1998-1999) e ministro della Difesa (1999-2000; 2000-2001). Porta il suo nome la riforma della legge elettorale in senso maggioritario approvata nel 1993. Dal febbraio 2015 è il dodicesimo presidente della Repubblica italiana. Mattei Enrico (1906-1962). Partecipò alla Resistenza, militando nelle brigate di formazione cattolica. Vicino alla sinistra democristiana, dopo aver avviato le ricerche petrolifere nella pianura padana, fu nominato presidente dell’Ente nazionale idrocarburi nel 1953. Fautore di una politica di rapporti diretti con i paesi mediorientali produttori di petrolio, morì in un incidente aereo di cui non sono ancora state accertate la cause. Matteotti Giacomo (1885-1924). Uomo politico italiano. Socialista riformista, fu segretario del Partito socialista unitario dal 1922. Denunciò i brogli elettorali effettuati dai fascisti durante le elezioni del 1924. Venne rapito e ucciso da un gruppo di fascisti; atto di cui Mussolini si assunse la responsabilità politica e morale nel discorso al Parlamento del 3 gennaio 1925. Maurras Charles (1868-1952). Fondatore, nel 1908, dell’Action française, fu tra i principali sostenitori del nazionalismo francese di impronta cattolica e monarchica. Collaborò col regime di Vichy durante la Seconda guerra mondiale e fu per questo condannato all’ergastolo dopo la fine della guerra. Mazowiecki Tadeusz (1927-2013). Esponente del cattolicesimo democratico polacco, venne eletto in Parlamento nel 1961. A causa delle forti critiche che mosse alla dura repressione messa in atto dal regime comunista durante la protesta operaia a Danzica e Stettino, nel 1970 perse il seggio. Negli anni Settanta divenne quindi uno dei principali rappresentanti del dissenso e fu poi uno stretto collaboratore di Lech Wałesa. Nel 1989, in seguito alle prime elezioni libere, fu nominato alla guida di un governo di unità nazionale chiamato ad assicurare diritti e libertà democratiche e a risollevare il paese dalla disastrosa situazione economica. Diventato leader del nuovo partito dell’Unione democratica (dal 1994 Unione per la libertà), nel 1992 fu chiamato come osservatore in Bosnia-Erzegovina dalla Commissione per i diritti umani dell’ONU. Mazzini Giuseppe (1805-1872). Uomo politico italiano. Fondò nel 1831 la Giovine Italia, un’associazione che intendeva battersi per la realizzazione di un’Italia unitaria, libera, indipendente e repubblicana. Nel 1848 ebbe un ruolo di primo piano nella breve esperienza della Repubblica Romana, del cui triumvirato fece parte insieme a Carlo Armellini e Aurelio Saffi. Mbeki Thabo (1942-). Politico, figlio di un militante dell’African Na­ tional Congress e del Partito comunista del Sudafrica, seguì le orme del padre entrando giovanissimo nell’ANC. Attivista contro l’apartheid, lasciò il paese dopo l’arresto di Nelson Mandela e trascorse 28 anni in esilio. Nel 1989 partecipò ai negoziati con il governo sudafricano che portarono al riconoscimento dell’African National Congress e al rilascio di numerosi prigionieri politici. Nel 1999 venne eletto presidente della Re-

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pubblica sudafricana, incarico nel quale venne riconfermato anche dopo le elezioni dell’aprile 2004. McCain John (1936-). Veterano della guerra del Vietnam, ha rappresentato lo Stato dell’Arizona al Congresso prima come deputato, dal 1982, e in seguito, dal 1987, come senatore. Nel 2000 si mise in corsa per la presidenza degli Stati Uniti, ma venne sconfitto alle primarie del Partito repubblicano da George W. Bush jr. Ripresentatosi nel 2008, ha ottenuto facilmente la nomination alla convention del partito. McCarthy Joseph (1908-1957). Uomo politico statunitense. Membro del Partito repubblicano, fu senatore dal 1947 al 1957. Intraprese una dura lotta contro quei funzionari e uomini di governo, intellettuali, attori e attrici ed esponenti delle forze armate che riteneva fossero di tendenze comuniste. McGuinness Martin (1950-). Uomo politico nordirlandese. Tra i principali leader dei cattolici indipendentisti del Sinn Féin, fu l’artefice degli accordi di pace del 1998 con i protestanti. Dal 2007 è vice primo ministro. McKinley William (1843-1901). Venticinquesimo presidente degli Stati Uniti fu eletto al Congresso nel 1877 per il Partito repubblicano. Governatore dello Stato dell’Ohio dal 1892 al 1896, fu promotore del Tariff Act approvato dal Parlamento nel 1920, legge che prevedeva un rialzo dei dazi doganali per proteggere le industrie e il lavoro nazionali. Nelle elezioni presidenziali del 1896 ottenne un’ampia vittoria. Successo ripetuto anche nelle elezioni del 1901 che gli garantirono un secondo mandato alla Casa Bianca. Pochi mesi dopo morì sotto i colpi di un anarchico di origine polacca. Medvedev Dmitrij (1965-). Uomo politico e imprenditore russo. Dal 2008 al 2012 ha ricoperto la carica di presidente della Federazione Russa, mentre dal 2012 è primo ministro, nominato dal presidente Vladimir Putin. Dopo lo stesso Putin, si tratta della seconda volta che un ex presidente ottiene la guida del governo. Menelik II (1844-1913). Imperatore d’Etiopia (1889-1913). Erede al trono dello Scioa, si autoproclamò imperatore alla morte di Giovanni IV. Stipulò con l’Italia il controverso trattato di Uccialli (1889). Attraverso le conquiste territoriali e l’avvio di un processo di modernizzazione economica, militare e culturale, contribuì alla formazione del moderno Stato etiopico. Merkel Angela Dorothea (1954-). Politica tedesca appartenente al Partito cristiano-democratico. Dal 22 novembre 2005 ricopre la carica di cancelliere della Germania, prima donna ad ottenere questo incarico. È stata anche presidente del Consiglio europeo e presidente del G8 e ha giocato un ruolo decisivo nei negoziati per il Trattato di Lisbona e nella Dichiarazione di Berlino del 2007. Secondo la rivista «Forbes» Merkel è «la donna più potente al mondo». Paragonata da molti all’ex primo ministro britannico Margaret Thatcher, per la sua tempra e il suo carisma, Angela Merkel è anche la prima cancelliera proveniente dalla Germania Est e la prima nata dopo la Seconda guerra mondiale. Metternich-Winneburg Klemens Wenzel Lothar, principe di (17731859). Uomo politico austriaco. Fu ambasciatore a Parigi (1806-1809), cancelliere e ministro degli Esteri. Favorì dapprima il riavvicinamento

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alla Francia di Napoleone per poi passare, nel 1813, al fronte antinapoleonico. Fautore della Restaurazione dopo il 1814, è considerato il vero artefice del Congresso di Vienna, con cui si ristabilì l’egemonia austriaca in Germania e Italia. Lasciò gli incarichi di governo nel 1848 di fronte agli effetti irreversibili della rivoluzione. Michelini Arturo (1909-1969). Ha ricoperto la carica di segretario del Movimento sociale italiano dal 1954 fino alla morte. Michels Roberto (1876-1936). Sociologo tedesco. Allievo di Weber, appartenne alla scuola italiana delle élite insieme a Mosca e Pareto. Nella Sociologia del partito politico (1911), estese la dottrina elitistica all’analisi dei grandi partiti di massa novecenteschi, con particolare riferimento alla socialdemocrazia tedesca, mostrando come le decisioni siano sempre prese da un ristretto gruppo di persone che concentrano in sé ogni potere di comando. Sintetizzò questa tendenza nella cosiddetta «legge ferrea dell’oligarchia», che illustrava la doppia esigenza dei moderni apparati di partito: organizzazione e concentrazione del potere in poche mani. Mihailović Draža (1893-1946). Militare jugoslavo, durante la Seconda guerra mondiale organizzò quello che rimaneva dell’esercito in truppe partigiane, i cetnici, che combatterono prima contro gli eserciti del­ l’Asse, e in seguito contro i partigiani comunisti di Tito. Alla fine della guerra il governo retto da Tito lo condannò alla fucilazione. Milan Nedić (1878-1945). Militare e uomo politico serbo. Fu primo ministro del governo fantoccio e collaborazionista della Serbia imposto dagli occupanti tedeschi (1941). Partecipò allo sterminio degli ebrei. Morì suicida. Milošević Slobodan (1941-2006). Uomo politico serbo. Dirigente della Lega dei comunisti jugoslavi e tra i fondatori del Partito socialista serbo, fu presidente della Serbia (1989-1997) e della Repubblica federale di Jugoslavia (1997-2000). Schierato dalla parte dei serbi di Bosnia durante la guerra civile bosniaca, negoziò la fine delle ostilità a Dayton (1995). Rappresentante del nazionalismo serbo più radicale, ridusse l’autonomia del Kosovo e fu accusato di promuovere la pulizia etnica contro i kosovari di nazionalità albanese. Nel 1999 il Tribunale penale internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia lo pose in stato d’accusa per crimini di guerra e contro l’umanità commessi contro i musulmani in Croazia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo. Nel 2000 fu sconfitto nelle elezioni presidenziali dal moderato Vojislav Kustunica e nel 2001 venne estradato all’Aja, sede del Tribunale internazionale. L’11 marzo 2006 fu trovato morto, in circostanze non del tutto chiare, nella sua cella del carcere dell’Aja. Mindszenty Joseph (1892-1975). Primate d’Ungheria, venne nominato cardinale da Pio XII nel 1946. Fermo oppositore del regime comunista di cui contestava soprattutto i provvedimenti di riforma agraria realizzati in Ungheria, fu arrestato una prima volta nel 1944 con l’accusa di alto tradimento e poi nel 1948 quando fu condannato all’ergastolo. Liberato nel 1956 durante la rivolta ungherese, trovò ospitalità all’ambasciata americana di Budapest. Nel 1971 il regime comunista gli concesse di raggiungere la Santa Sede a Roma. Minghetti Marco (1818-1886). Uomo politico italiano. Già ministro nel governo costituzionale di Pio IX, rappresentante della corrente libe-

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rale della Destra Storica, fu vicino a Cavour. Ministro degli Interni (1860-1861) e delle Finanze (1862-1864), come presidente del Consiglio firmò la Convenzione di settembre con la Francia nel 1864 e predispose un piano di risanamento finanziario dello Stato. Presidente del Consiglio e ministro delle Finanze nell’ultimo governo della Destra (1873-1876), ottenne il pareggio del bilancio e dal 1876 fu a capo dell’opposizione. Mit brennender Sorge. Enciclica di papa Pio XI pubblicata il 10 marzo 1937. Affronta il tema della condizione della Chiesa cattolica tedesca nella Germania nazista e condanna il nazionalsocialismo come anticristiano. Mitterand François (1916-1996). Uomo politico francese di orientamento socialista. Partecipò alla Resistenza e, dopo la fine della guerra mondiale, ebbe diversi incarichi governativi nella Quarta Repubblica. Oppositore di De Gaulle, lo sfidò per la carica di presidente alle elezioni del 1965. Fu poi presidente della Repubblica dal 1981 al 1995. Mobutu Joseph Désiré (1930-1997). Militare e uomo politico zairese. Comandante dell’esercito congolese dal 1960, fu presidente del Congo dal 1965 in seguito a un colpo di stato contro il presidente Kasavubu e l’ex alleato Lumumba. Nel 1971 cambiò il nome del paese in Zaire, imponendo a tutti gli zairesi di assumere un nome africano. Egli stesso cambiò il suo con quello di Mobutu Sese Seko Koko (o Kuku) Ngbendu Wa Zabanga. Rinominò il lago Albert in lago Mobuto Sese Seko, segno dell’avvio di un culto della personalità che lo avvicinava ad altri dittatori. Nel 1997 fu costretto all’esilio in Marocco in seguito al successo del movimento rivoluzionario di L.D. Kabila. Modello bolscevico di partito. Partito di quadri di tipo leninista che prevede una macchina centralizzata diretta non a organizzare le masse, ma a formare pochi «rivoluzionari di professione» in possesso di grande capacità organizzativa. Il partito deve essere organizzato in modo rigidamente centralizzato e gerarchico e l’élite rivoluzionaria deve agire come avanguardia del proletariato, portando in quest’ultimo, dall’esterno, la coscienza politica di classe. Modernismo. Movimento di riforma e rinnovamento del cattolicesimo. Promosso da alcuni intellettuali tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, si propose di mettere in relazione il cristianesimo storico con le conquiste dell’epoca moderna nell’ambito della cultura e del progresso sociale (Programma dei modernisti, 1908). La Chiesa condannò il movimento prima con il decreto Lamentabili sane exitu (1907), quindi, due mesi dopo, con l’enciclica di Pio X Pascendi dominici gregis. Nel 1910 fu prescritto anche il giuramento antimodernista. Il modernismo cercò di superare gli schemi della scolastica di matrice aristotelica e di applicare il metodo storico alla conoscenza del fenomeno religioso. Presente in molti paesi europei, ebbe vasta diffusione anche in Italia dove, soprattutto per opera di Romolo Murri, ebbe finalità prevalentemente politico-sociali. Molina Antonio Tejero (1932-). Ufficiale spagnolo, fu tra i protagonisti del colpo di Stato consumatosi in Spagna il 23 febbraio 1981. Già processato nel 1979 per un altro tentativo di destabilizzare le istituzioni, nel 1981 si presentò armato al Congresso dei deputati insieme a circa 200 guardie civili e sequestrò i deputati presenti fino alla mattina del 24 marzo, quando si arrese. Condannato, nel 1996 ottenne la libertà condizionale.

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Mollet Guy (1905-1975). Uomo politico francese di area socialista, presidente del Consiglio tra il 1956 ed il 1957. Nonostante avesse inizialmente pensato di adottare di fronte alla crisi algerina una linea moderata e aperta alle trattative, optò poi per una linea repressiva in accordo con la maggioranza parlamentare. Nel passaggio dalla Quarta alla Quinta Repubblica appoggiò De Gaulle e il suo progetto di riforma costituzionale. Molotov Vjačeslav Michajlovič (1890-1986). Politico sovietico, fu commissario agli Esteri (1939-1949, 1953-1956). Nel 1939 stipulò il patto di non aggressione tedesco-sovietico (accordo Ribbentrop-Molotov) che legittimò l’invasione nazista della Polonia innescando la Seconda guerra mondiale. Contrario al processo di destalinizzazione avviato da Chruščëv, nel 1957 venne accusato di attività antipartito e mandato come ambasciatore in Mongolia. Moltke Helmuth Johann Ludwig von (1848-1916). Militare tedesco, anche detto «Moltke il giovane» perché nipote del capo di stato maggiore dell’esercito prussiano Helmuth von Moltke, nel 1891, alla morte dello zio, diventò aiutante di campo dell’imperatore Guglielmo II. Nel 1906, quando il capo di stato maggiore Alfred von Schlieffen si ritirò, gli subentrò assumendo la guida delle forze armate tedesche. Monnet Jean Omer Marie Gabriel (1888-1979). Uomo politico francese, all’indomani della Prima guerra mondiale fu segretario aggiunto della Società delle Nazioni. Nel 1943, ad Algeri, entrò a far parte del Comitato di liberazione nazionale francese e da quel momento fu fermo sostenitore della necessità di costruire un’unione tra gli Stati dell’Europa. Collaborò all’estensione della Dichiarazione Schuman e alla fondazione della CEE. Fu presidente della CECA dal 1952 al 1955. Monroe James (1758-1831). Quinto Presidente degli Stati Uniti, a lui si deve la dottrina che porta il suo nome, centrata sulla frase «l’America agli Americani», che fu successivamente sviluppata dal presidente Theodore Roosevelt. Montesquieu Charles-Louis de Secondat, barone di (1689-1755). Scrittore politico francese. Nella sua opera più importante, lo Spirito delle leggi (1748), analizzò le relazioni delle leggi con una serie di fattori come il clima, la religione e i costumi dei singoli paesi. Classificò le forme di governo in base alla loro «natura», ossia in base agli elementi morali e psicologici di cui erano espressione. Distinse così tre forme di governo: repubblica (democratica e aristocratica), monarchia e dispotismo. A ogni tipo di governo corrisponde, per Montesquieu, uno specifico principio che lo fa agire: la virtù per la repubblica democratica e la moderazione per quella aristocratica; l’onore per la monarchia e la paura per il dispotismo. Ammiratore della costituzione inglese, teorizzò, a tutela della libertà, la distinzione dei tre poteri fondamentali dello Stato: legislativo, esecutivo e giudiziario. Montgomery Bernard Law (1887-1976). Generale inglese, durante la Seconda guerra mondiale fu nominato comandante della VIII armata che sconfisse gli italo-tedeschi a El-Alamein (1942) e conquistò Tripoli e la Tunisia (1943). In forza di questi successi venne promosso comandante supremo dell’esercito britannico sul fronte occidentale e insieme al generale Dwight D. Eisenhower condusse la campagna per la libera-

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zione dell’Europa dal nazifascismo, guidando lo sbarco delle truppe alleate in Sicilia e in Normandia. Monti Mario (1943-). Economista e uomo politico italiano. Presidente dell’Università Bocconi dal 1994, è stato commissario europeo sia nella Commissione Santer, sia in quella presieduta da Romano Prodi, dove ricoprì il ruolo di commissario per la concorrenza (1999-2004). Nominato senatore a vita nel novembre 2011, subito dopo fu chiamato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a formare un nuovo governo, rimasto in carica fino all’aprile 2013. In vista delle elezioni politiche di quell’anno diede vita alla coalizione centrista «Con Monti per l’Italia». La sua lista, Scelta Civica, ottenne alla Camera l’8,3% dei voti e al Senato poco più del 9%. A causa dei dissidi emersi con diversi esponenti del suo partito, nel 2013 Monti si dimise dalla presidenza di Scelta Civica, abbandonandola definitivamente nel febbraio 2015. Moro Aldo (1916-1978). Uomo politico della Democrazia Cristiana. Ricoprì la carica di segretario del partito dal 1959 al 1965. Più volte ministro e presidente del Consiglio, fu tra gli artefici dell’apertura a sinistra al PSI di Pietro Nenni. Negli anni Settanta, fautore di una «politica dell’attenzione» verso il PCI, promosse insieme ad Enrico Berlinguer le fasi iniziali della cosiddetta «solidarietà nazionale». Nel marzo del 1978 fu rapito dalla Brigate Rosse ed ucciso dopo 55 giorni di prigionia. Morsi Mohammed (1951-). Primo presidente eletto democraticamente in Egitto nel 2012. Leader del partito Libertà e Giustizia affiliato alla Fratellanza musulmana, che nel 2011-2012 aveva vinto le elezioni parlamentari, è rimasto in carica fino al 3 luglio 2013 quando un colpo di Stato militare guidato dal generale Abd al-Fattah al-Sīsī, lo ha deposto e imprigionato. Il 16 maggio 2015 è stato condannato a morte. Mosca Gaetano (1858-1941). Filosofo politico, a lui si deve la teoria della classe politica, intesa come minoranza che detiene il potere. Tra le sue principali opere va ricordato il volume del 1896, Elementi di scienza politica. Mosley Oswald Ernald (1896-1980). Uomo politico britannico. Fondatore nel 1932 della British Union of Fascists. Nel secondo dopoguerra fondò l’Union Movement che a livello europeo aderì al National­Party of Eu­ rope, la formazione che raggruppava i partiti europei di estrema destra. Movimento das Forças Armadas. Movimento nato nel 1973 in Portogallo, che riuniva gli ufficiali dell’esercito ostili alla dittatura fascista. Guidato dal generale Antonio Spinola, fu il principale artefice della «rivoluzione dei garofani», l’azione militare del 25 aprile 1974 condotta contro il governo di Marcelo Caetano. Movimento dei paesi non allineati. Movimento sorto nel 1961 a Belgrado su iniziativa di Tito, raccolse inizialmente 25 paesi che non volevano aderire a nessuno dei due blocchi politico-ideologici della Guerra Fredda. Membri principali furono, oltre alla Repubblica jugoslava, l’India, il Brasile, l’Egitto e per un certo periodo la Cina. Nel 1964 i membri diventarono 46 e fra essi vi erano molti paesi africani che avevano conquistato l’indipendenza di recente. Movimento feniano. Movimento nazionalista sorto nel XIX secolo che propugnava la nascita di una repubblica irlandese indipendente dalla Gran

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Bretagna. Ebbe due anime ben distinte: una, nata a Dublino per opera di James Stephens e denominata Fratellanza repubblicana irlandese (Irish Republican Brotherhood); l’altra fondata a Chicago (USA) da John O’Mahony con il nome di Fratellanza feniana (Fenian Brotherhood). La sezione irlandese fu duramente repressa dalle autorità britanniche per le azioni terroristiche compiute in nome dell’indipendenza. Gladstone, favorevole all’autogoverno dell’Irlanda, spinse molti membri del movimento a partecipare alla vita politica. Diversi suoi membri furono eletti nel Parlamento di Londra nelle fila del Partito parlamentare irlandese. Movimento per la democrazia. Movimento politico che prese forza dopo la riabilitazione di Deng Xiaoping. A partire dal 1978 questo movimento si espresse attraverso manifesti che venivano appesi su un muro situato nel quartiere di Xidan a Pechino. I manifesti criticavano inizialmente le posizioni della cosiddetta «banda dei quattro», per poi spingersi a chiedere riforme più generali all’interno del partito e del paese. Deng, che inizialmente aveva guardato con favore al movimento, ne prese le distanze e lo condannò. La sua condanna significò l’impossibilità per il movimento a continuare nella loro opera di critica. Movimento popular de libertação de Angola. Movimento politico angolano, nato nel 1956 dalla fusione del Partito comunista angolano con il Partito della lotta unita degli africani in Angola. Guidò il paese all’indipendenza dopo aver combattuto contro il Portogallo dal 1961 al 1974. Oggi è membro dell’Internazionale socialista. Mubarak Hosni (1928-). Ex militare, presidente dell’Egitto dal 14 ottobre 1981 all’11 febbraio 2011. Costretto alle dimissioni dalla «primavera araba» egiziana, è stato arrestato e condannato all’ergastolo il 2 giugno 2012. Il 29 novembre 2014, un nuovo processo indetto dalla Corte di Cassazione lo proscioglie dalle accuse di omicidio e corruzione. La Corte di Cassazione egiziana ha tuttavia accolto un ricorso e annullato la sentenza precedente: il 5 novembre 2015 la vicenda giudiziaria di Mubarak torna nei tribunali egiziani in vista di un verdetto definitivo, assoluto e inappellabile (come riferito dall’agenzia Mena). Mugabe Robert (1924-). Presidente dello Zimbabwe ininterrottamente dal 1987. Già protagonista della lotta anticoloniale contro la minoranza bianca dell’ex Rhodesia del Sud alla testa dello ZANU (Zim­ babwe African National Union), ha progressivamente trasformato il suo regime in una dittatura. Dopo il 2000 la sua riforma agraria, con l’espropriazione senza indennizzo delle grandi aziende agricole ancora in mano ai settlers di origine europea, lo ha messo in rotta di collisione con l’ex potenza coloniale, la Gran Bretagna, e altri governi occidentali che hanno comminato allo Zimbabwe pesanti sanzioni economiche. Mujaheddin («combattenti», in lingua araba). Termine con cui si indicano le formazioni armate di ispirazione nazionalista prima, e islamista dalla fine degli anni Settanta in poi. I più famosi furono quelli che combatterono contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan tra il 1979 e il 1989 e i mujaheddin del popolo iraniani che contrastarono Khomeini. Multiculturalismo. Termine introdotto in Canada nei primi anni Settanta del Novecento nel contesto dei tentativi governativi di realizzare una convivenza multietnica. In generale, il termine indica, anche in

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Europa, le numerose questioni culturali, legali e istituzionali legate alla crescente eterogeneità di società investite dai grandi processi migratori globali e dalla crisi degli Stati nazionali. Mussolini Benito (1883-1945). Entrato giovanissimo in politica nelle file del Partito socialista, si pose a capo della frazione rivoluzionaria durante il Congresso di Reggio Emilia del 1912. Tenne la direzione del quotidiano «Avanti!» dal 1912 al 1914, quando fu espulso dal partito per essersi pronunciato a favore dell’intervento dell’Italia nel conflitto mondiale. Nel 1919 fondò a Milano il movimento dei Fasci di combattimento. Dopo le elezioni del 1921, promosse la fondazione del Partito nazionale fascista e in seguito alla marcia su Roma dei fascisti, il re Vittorio Emanuele III gli conferì l’incarico di formare il governo. Mussolini promosse inizialmente governi di coalizione, ma dal 1925, con la promulgazione delle «leggi fascistissime», trasformò il suo potere in un regime autoritario. Alleatosi con Hitler, fece intervenire l’Italia nella Seconda guerra mondiale nel giugno 1940 ma l’andamento sfavorevole della guerra portò alla caduta di Mussolini il 25 luglio 1943. Dopo la breve parentesi della Repubblica sociale italiana, Mussolini fu catturato e ucciso dai partigiani il 28 aprile 1945. Mutsuhito (1852-1912). Imperatore del Giappone dal 1867 al 1912. Durante il suo lungo regno, il Giappone si aprì ai contatti coi paesi occidentali, trasformandosi in uno Stato moderno, venne abolito il regime feudale e fu avviata una rapida industrializzazione. La costituzione da lui promulgata nel 1889 e ispirata a quelle occidentali lasciò all’imperatore poteri esecutivi e militari, affidando invece a due Camere la gestione delle sue proprietà. Trasferì la capitale da Kyoto a Tokyo. Il regno di Mutsuhito venne definito «epoca Meiji», ovvero «illuminata». Mutual assured destruction (MAD). Teoria della mutua distruzione assicurata, sviluppata durate la Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Prevedeva che, in caso di aggressione con armi nucleari, ogni utilizzo di simili ordigni da parte di uno degli schieramenti contrapposti finisse nella totale distruzione sia dell’aggressore che dell’aggredito. Di conseguenza si creava una situazione di stallo in cui nessuna delle superpotenze poteva permettersi di far scoppiare un conflitto mondiale. Nader Ralph (1934-). Avvocato e uomo politico statunitense. Attivista della sinistra radicale, con particolare interesse per i temi dell’ambientalismo e animalismo, dei diritti degli immigrati e della tutela dei consumatori, nel corso degli anni Settanta e Ottanta ha creato e presieduto numerose organizzazioni non profit. Dal 1996 al 2008 si è costantemente candidato alla presidenza degli Stati Uniti, dapprima per il Green Party e poi, dal 2004, come indipendente. Nagy Imre (1896-1958). Uomo politico ungherese. Militante comunista, durante gli anni tra le due guerre fu in esilio a Mosca. Tornato in patria dopo la Seconda guerra mondiale, fu prima espulso dal partito nel 1949 per aver criticato la politica agricola promossa dall’Unione Sovietica e riammesso poi nel 1951. Dopo la morte di Stalin fu nominato capo del governo. Dimessosi nel 1955, fu richiamato di nuovo al governo nell’ottobre 1956, quando stava montando la rivolta della popolazione ungherese contro il regime. Le sue iniziative tese a tenere sotto controllo il movimento di piazza, ma al tempo stesso a far transitare il paese

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verso una democrazia fondata sul pluralismo politico, produssero l’intervento delle truppe sovietiche nel 1956. Nagy fu arrestato e condannato a morte nel 1958. Napoleone Bonaparte (1769-1821). Imperatore dei francesi (18041814; 1815) e re d’Italia (1805-1814). Giovane ufficiale, fu in contatto con gli ambienti giacobini. Legatosi dopo il Termidoro a Carnot e Barras, represse l’insurrezione realista del 5 maggio 1795. Diresse le operazioni militari in Italia contro gli austro-piemontesi (1796) e firmò con il Piemonte l’armistizio di Cherasco e il trattato di Campoformio con l’Austria (1797). Dopo la sconfitta subita dagli inglesi nella battaglia di Abukir (1798), rovesciò il Direttorio con il colpo di stato del 18 brumaio (9 novembre 1799) e istituì il consolato. Di nuovo in Italia, sconfisse gli austriaci a Marengo (1800) ottenendo l’annessione della riva sinistra del Reno (1801). Console a vita (1802), varò una serie di riforme amministrative e introdusse il nuovo Codice civile (1804). Proclamatosi imperatore dei francesi (1804) e re d’Italia (1805), si scontrò con le varie coalizioni antifrancesi organizzate dalle potenze europee e sostenute dall’Inghilterra. Sconfitto dall’ammiraglio inglese Nelson a Trafalgar (1805), vinse a Austerlitz (1805) e a Jena (1806), ponendo fine al Sacro romano impero (1806). Creò la Confederazione del Reno (1806) e, dopo avere sconfitto i russi a Eylau (1807), stipulò con lo zar il trattato di Tilsit (1807). Scontratosi con l’opposizione spagnola (1809-13), naufragò il suo proposito di assoggettare la penisola iberica; fallì anche il «blocco continentale» (1806) attuato con l’intenzione di isolare e sconfiggere l’Inghilterra. Il fallimento dell’alleanza franco-russa lo spinse a invadere la Russia (1812), ma la campagna fallì. Una nuova coalizione antifrancese sconfisse Napoleone a Lipsia (1813). Costretto ad abdicare (1814), fu confinato all’Elba, ma riuscì a rientrare da imperatore a Parigi (20 aprile 1815). Sconfitto nuovamente a Waterloo (18 giugno 1815), si consegnò agli inglesi e fu deportato nell’isola di Sant’Elena, dove rimase prigioniero sino alla morte, avvenuta il 5 maggio 1821. Napolitano Giorgio (1925-). Uomo politico italiano, senatore a vita e presidente emerito della Repubblica italiana, avendo ricoperto la carica di presidente della Repubblica dal 15 maggio 2006 al 14 gennaio 2015. In precedenza era stato presidente della Camera dei Deputati (1992-1994), ministro degli Interni (1996-1998), nonché deputato dal 1953 al 1996, europarlamentare dal 1989 al 1992 e di nuovo dal 1999 al 2004. Era stato nominato senatore a vita già nel 2005 da Carlo Azeglio Ciampi. È stato l’unico capo dello Stato ad aver fatto parte in precedenza del Partito comunista. Rieletto alla presidenza della Repubblica il 20 aprile 2013, è stato sino ad oggi il solo presidente chiamato a svolgere un secondo mandato. National Liberal Federation. Movimento politico fondato nel 1877 da Joseph Chamberlain, si fuse nel 1886 con la Liberal Central Association. Natta Alessandro (1918-2001). Succeduto ad Enrico Berlinguer alla guida del Partito comunista italiano, fu segretario del partito dal 1984 al 1988. In questi anni prese avvio un confronto tra le diverse anime del PCI. Naumann Friedrich (1860-1919). Scienziato politico tedesco, prese parte attiva alla politica del suo paese come esponente del Fortschrittli­ che Volkspartei, il partito liberale progressista. Dopo la nascita della Repubblica di Weimar, aderì al Partito democratico tedesco.

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Navarro Carlos Arias (1908-1989). Uomo politico spagnolo. Al fianco di Francisco Franco durante la guerra civile del 1936-1939, assunse la carica di primo ministro in seguito all’attentato in cui trovò la morte, nel 1973, Luis Carrero Blanco. Mantenne la carica fino al 1976, quando il re Juan Carlo di Borbone chiamò al governo Adolfo Suárez. Neghib Muhammad (1901-1984). Militare e uomo politico egiziano. Generale dell’esercito egiziano, fu protagonista della prima guerra contro Israele (1948). Nel 1952 guidò il colpo di Stato che destituì re Faruk costringendolo all’esilio, mentre l’anno successivo fu scelto quale primo presidente della Repubblica egiziana. Nel 1954 venne deposto e tenuto agli arresti fino al 1972. Gli succedette Nasser. Nehru Jawaharlal (1889-1964). Uomo politico indiano, discepolo del Mahātmā Ghandi, trasformò in forma politica le richieste del movimento nazionalista non violento. Ottenuta l’indipendenza nel 1947, Nehru scelse la strada del neutralismo rispetto ai due blocchi internazionali della Guerra Fredda, diventando una figura centrale del movimento dei paesi non allineati. Nenni Pietro (1891-1979). Uomo politico italiano. Repubblicano, volontario nella Prima guerra mondiale, nel 1921 aderì al Partito socialista e dal 1923 al 1925 diresse l’«Avanti!». Esule antifascista in Francia (1925), nel 1934 firmò il «patto di unità d’azione» con i comunisti in funzione antifascista. Partecipò con le Brigate internazionali alla guerra civile spagnola (1936-1939). Arrestato dai tedeschi nella Francia occupata, fu consegnato agli italiani e confinato a Ponza (1943). Liberato dopo il 25 luglio, assunse la direzione del PSIUP. Vicepresidente del Consiglio nel 1945, fu ministro degli Esteri nei primi governi De Gasperi (1946-1947). Convinto sostenitore del Fronte democratico popolare (1948) e della solidarietà con l’URSS fino al XX Congresso del PCUS (1956), non ruppe mai con il PCI. Segretario generale del PSI (1949-64), lo guidò nell’esperienza dei governi di centro-sinistra, in cui fu vicepresidente del Consiglio (19631969) e ministro degli Esteri. Nel 1970 fu nominato senatore a vita. Netanyahu Benjamin (1949-). Uomo politico israeliano. Divenuto nel 1993 leader del Partito Likud, la coalizione israeliana che riunisce formazioni di destra e di centro, ha ricoperto la carica di primo ministro dal 1996 al 1999 e nuovamente a partire dal 2009 in seguito alle elezioni anticipate del febbraio di quell’anno e alla riconferma ottenuta alle elezioni del gennaio 2013. Neto Agostinho (1922-1979). Uomo politico angolano, leader del Movimento politico per la liberazione dell’Angola (MPLA). Dopo che nel 1975 l’Angola ottenne l’indipendenza dal Portogallo, Neto ne divenne il presidente. New Partnership for Africa’s Development (NEPAD). Programma economico adottato dall’Unione Africana in occasione della 37ª sessione dell’Assemblea dei capi di Stato e di governo tenutasi a Lusaka (Zambia) nel 2001. Scopo del programma è quello di mettere a punto un quadro generale e le strutture politiche necessarie per accelerare la cooperazione e l’integrazione economica tra i Paesi africani. Ngo-dinh-Diem (1901-1963). Uomo politico vietnamita. Presidente del Vietnam del Sud (1955-1963), si rifiutò di indire le elezioni per la ri-

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unificazione del paese previste dalla Conferenza di Ginevra (1954). Fautore di un governo autoritario, assistette alla nascita della guerriglia comunista dei vietcong. Fu rovesciato da un golpe militare con l’appoggio americano (1963) e giustiziato. Nichilismo. Termine derivato dal latino nihil, «nulla», con cui si indica una corrente filosofica e, più in generale, un’attitudine di pensiero radicalmente critica nei confronti dei valori fondanti della tradizione filosofica e politica dell’Occidente. Nato sul terreno della critica sociale, politica e culturale sviluppatasi in Russia nel corso dell’Ottocento, è stato per la prima volta definito in termini filosofici da Nietzsche (1844-1900). Nicola I Romanov (1796-1855). Zar di Russia dal 1825 al 1855. Succeduto al fratello Alessandro I, dopo la repressione del moto decabrista (1825), avviò una serie di misure che rafforzarono l’autocrazia. Si schierò contro i fermenti liberali che andavano diffondendosi in Europa (Polonia e Ungheria) e la sua politica espansionistica fu all’origine della guerra di Crimea (1853-1856). Nicola II Romanov (1868-1918). Figlio di Alessandro III, divenne zar di Russia nel 1894. In seguito all’esito disastroso della guerra contro il Giappone (1904-1905), il popolo russo insorse e lo costrinse a concedere una costituzione (1905) e a convocare una Duma. Travolto dalla rivoluzione del febbraio 1917, a marzo fu costretto ad abdicare. Arrestato in seguito dai bolscevichi, fu giustiziato insieme a tutta la famiglia. Nietzsche Friedrich Wilhelm (1844-1900). Filosofo tedesco, è stato uno dei massimi filosofi occidentali di tutti i tempi. Si dedicò all’analisi dei fondamenti culturali della filosofia, della religione e della morale occidentali che sottopose a forte critica in quanto espressioni razionalizzate dell’ideale ascetico. Elaborò anche il concetto della «volontà di potenza» e la teoria del «superuomo». Nitti Francesco Saverio (1868-1953). Liberale progressista, entrò nei governi retti da Giovanni Giolitti. Fu presidente del Consiglio dal 1919 al 1920. Antifascista, riparò nel 1924 prima in Svizzera e poi in Francia. Studioso d’economia, fu tra i fondatori della rivista «La Riforma Sociale». Nixon Richard Milhous (1913-1994). Uomo politico e presidente degli Stati Uniti (1968-1974). Repubblicano, fu vicepresidente con Eisenhower (1952-1960). Nel 1972, all’inizio del suo secondo mandato, pose fine, insieme al segretario di stato Henry Kissinger, all’intervento americano in Vietnam e iniziò i colloqui con l’Unione Sovietica per la riduzione delle armi strategiche. Riconobbe diplomaticamente e visitò la Repubblica popolare cinese (1972). Nel 1971, per rispondere alla crisi economica, dichiarò l’inconvertibilità del dollaro e pose fine al sistema creato con gli accordi di Bretton Woods, imponendo il controllo governativo su prezzi e salari. Coinvolto nello scandalo Watergate, fu il primo presidente costretto a dimettersi (1974). Il suo vicepresidente Gerald R. Ford, succedutogli, gli concesse la grazia evitandogli così il processo penale. Nomenklatura. Termine con cui in URSS si designava la lista segreta delle cariche che non potevano essere assegnate senza l’autorizzazione del PCUS. In Occidente il termine fu utilizzato per indicare l’intera classe dirigente sovietica, descritta come un mondo chiuso e un corpo

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separato dalla società, dotato di privilegi intoccabili, e per estensione la classe dirigente di ogni apparato burocratico. North Atlantic Treaty Organization (NATO). Alleanza di carattere politico-militare stipulata con il Patto Atlantico il 4 aprile 1949 a Washington tra dieci paesi europei (Belgio, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Portogallo) e due paesi americani (Canada e USA), cui si aggiunsero Grecia e Turchia (1952), Repubblica federale tedesca (1955) e Spagna (1982). Nel 1966 la Francia uscì dall’organizzazione militare integrata, pur restando in quella politica. Il patto prevedeva la collaborazione politica, economica e militare per assicurare la difesa collettiva in caso di aggressione contro uno dei paesi membri. Nel 1999 aderirono all’organizzazione Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria. Ntaryamira Cyprien (1955-1994). Attivo fin dai primi anni Ottanta nel movimento socialista, nel 1986 fu tra i fondatori del Fronte per la democrazia in Burundi, il partito che ottenne il potere dopo le prime elezioni libere del 1993. Nominato ministro dell’Agricoltura nel febbraio 1993, dopo alcuni mesi di guerra civile, fu designato presidente del Burundi. Morì nell’aprile dell’anno successivo in un attentato. Nuova politica economica (NEP). Misure economiche adottate in Russia da Lenin per fronteggiare le rivolte nelle campagne contro le requisizioni forzate, posero fine al comunismo di guerra e favorirono la ripresa dell’economia. La NEP fu abbandonata alla fine degli anni Venti, quando, di fronte alla crisi dell’industria pesante, il gruppo dirigente staliniano impose la collettivizzazione forzata dell’agricoltura. Obama Barack Hussein (1961-). Laureato alla facoltà di Legge di Harvard, ha esercitato la professione di avvocato assumendo principalmente la difesa di associazioni per i diritti civili. Eletto nel 1996 senatore per lo Stato dell’Illinois, nel 2000 si presentò alle primarie del Partito democratico che doveva scegliere il candidato congressuale per l’Illinois, ma venne battuto. Nel 2004 ripresentò la propria candidatura per la nomina del senatore che avrebbe dovuto rappresentare l’Illinois al Congresso e fu eletto a novembre con il 70% dei consensi. Nel 2007 ha presentato ufficialmente la sua candidatura per la presidenza degli Stati Uniti. Vinte le primarie per il Partito democratico, ha ottenuto ufficialmente l’investitura alla convention del partito che si è tenuta a Denver nell’agosto 2008. Alle elezioni del 4 novembre 2008 ha sconfitto il repubblicano John McCain, diventando così il 44° presidente degli Stati Uniti e il primo afroamericano a ricoprire tale carica. Il 6 novembre 2012 è stato rieletto alla presidenza degli Stati Uniti per un secondo mandato. Obregón Álvaro (1880-1928). Politico messicano di umili origini. Combatté tra le forze rivoluzionarie che sconfissero la dittatura di Porfirio Díaz nella rivoluzione del 1911. Fu chiamato alla presidenza della Repubblica messicana nel novembre del 1920 e vi rimase fino al 1924. Rieletto presidente nel 1928, fu assassinato subito dopo. Occhetto Achille (1936-). Segretario nazionale del Partito comunista italiano dal 1988, ha guidato la trasformazione del partito nel 1991 con la conseguente modifica del nome in Partito dei democratici di sinistra, mantenendone la guida. Nel 1994 ha lasciato la segreteria del partito.

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Offensiva del Tet. Contrattacco lanciato il 30 gennaio 1968 dai guerriglieri nordvietnamiti durante la guerra del Vietnam. Pregiudicò seriamente il controllo statunitense delle zone meridionali del paese, investendo direttamente le principali città, compresa Saigon. Fu all’origine della crisi della strategia militare degli USA, segnando l’inizio del loro graduale disimpegno dal conflitto. Oltreuomo. Concetto filosofico formulato da Friedrich Nietzsche. Noto anche con il termine italianizzato di «superuomo», con esso Nietzsche si riferiva ad un uomo capace di riconoscere i propri limiti e quindi, attraverso l’uso della coscienza, in grado di trascenderli superando in questo modo se stesso. Figura ideale nel processo evolutivo della specie umana, ma senza alcuna connotazione biologica o soprannaturale. Omar Mohammed (1960-2013). Meglio conosciuto come mullah Omar, è stato la guida politico-spirituale dei talebani afghani. Proclamato Emiro dopo che i talebani conquistarono Kabul nel 1996, nel 2001 fu costretto alla fuga in Pakistan dall’operazione Enduring Freedom voluta dagli Stati Uniti di George W. Bush come ritorsione per gli attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono dell’11 settembre 2001 organizzati da Al-Qā’ida, il cui leader Osama bin Laden era all’epoca ospite del regime talebano. Opera dei Congressi (1874-1904). Organizzazione cattolica italiana promossa dalla Società della gioventù cattolica italiana. Con sede centrale a Venezia, era schierata su posizioni intransigenti nei confronti dello Stato italiano, osservando strettamente i precetti indicati dal pontefice nel Sillabo e rispettando il non expedit circa la partecipazione dei cattolici alla vita politica del paese. Aveva l’obiettivo di difendere i diritti della Chiesa e coordinare le attività promosse dalle associazioni cattoliche. Dopo il 1880 ebbe un rapido sviluppo, soprattutto in Lombardia e Veneto. Opera nazionale dopolavoro. Associazione creata nel 1925 dal regime fascista con il compito di occuparsi del tempo libero dei lavoratori. Aveva come obiettivi l’educazione fisica e l’«elevazione morale» del popolo, che curava mediante l’organizzazione di eventi sportivi, ricreativi e culturali. Opera nazionale per la maternità e l’infanzia. Ente creato nel 1925 dal fascismo per sostenere la nuova politica demografica del regime, aveva l’obiettivo di promuovere la centralità della famiglia legittima e favorire la maternità. Opinione pubblica. Ambito tipicamente moderno in cui si svolge il libero e informato dibattito intorno alla cosa pubblica. La formazione dell’opinione pubblica presuppone la moderna separazione tra Stato e società civile, intesa quest’ultima come sfera articolata e dinamica costituita di individui che, attraverso specifiche forme associative, assumono un atteggiamento di critica razionale nei confronti degli atti del governo. Opus Dei. Associazione cattolica fondata in Spagna nel 1928 da José Maria Escrivá de Balaguer. Riconosciuta nel 1947 da Pio XII, si radicò inizialmente soprattutto nella Spagna franchista, per poi diffondersi anche in altri paesi. Il suo fine è quello di aiutare i fedeli a vivere le attività professionali ordinarie come occasioni di rinnovamento della propria vita spirituale e del proprio apostolato. Oggi l’Opus Dei possiede banche, società finanziarie, stazioni radio e case editrici.

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Ordine nuovo. Gruppo neofascista italiano fondato nel 1956 da Pino Rauti in seguito a una scissione dal Movimento sociale italiano. Fedele ai principi del fascismo sociale, si collocò su posizioni filonaziste e fu più volte sospettato di coinvolgimento nelle attività terroristiche del­l’estrema destra. Organization of the Petroleum Exporting Countries (OPEC). Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio. Fondata a Baghdad nel 1960 da Arabia Saudita, Iraq, Iran, Kuwait e Venezuela, oggi vi aderiscono i maggiori produttori di petrolio. Il suo scopo principale è stato quello di agire come un cartello, regolando la quantità di greggio prodotta e fissandone il prezzo più conveniente per i paesi esportatori. Organizzazione degli Stati americani (OSA). Fondata nel 1948 a Bogotà, ha lo scopo di favorire la sicurezza collettiva del continente americano, promuovendo la cooperazione tra i paesi membri. Raggruppa gli Stati Uniti e i paesi del Centro e Sud America, con esclusione di Cuba, espulsa nel 1962. Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Fondata a San Francisco nel 1945 con l’obiettivo di assicurare la pace e la sicurezza nel mondo dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale, ha la propria sede nel Palazzo di Vetro di New York. Raggruppa quasi tutti i paesi del mondo e i suoi organi principali sono l’Assemblea generale e il Consiglio di sicurezza, composto di 15 membri, di cui 10 eletti ogni due anni dall’Assemblea e 5 permanenti con diritto di veto (USA, Regno Unito, Francia, Cina e Russia). L’ONU ha una serie di agenzie specializzate in singoli problemi (FAO, UNESCO, ecc.) e dispone di proprie forze militari (Caschi blu) da inviare nelle zone di conflitto con obiettivi di interposizione e pacificazione. Organizzazione per la Cooperazione economica europea (OECE). Sorta a Parigi all’indomani della Seconda guerra mondiale tra 16 Stati europei (Stati Uniti e Canada vennero associati pur non essendo membri) allo scopo di risollevare la situazione economica e politica dell’Europa, coordinando gli aiuti previsti nel piano Marshall. Istituita il 16 aprile 1948, l’OCSE si fondava su un consiglio composto dai delegati di ciascun paese membro e su un Comitato esecutivo avente funzioni direttive. Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP). Fondata dalla Lega Araba al Cairo nel 1964 con lo scopo di coordinare le azioni della guerriglia finalizzata a distruggere lo stato di Israele. Dopo la sconfitta araba nella guerra dei Sei Giorni (1967), divenne l’organizzazioneombrello dell’intero movimento palestinese. Fu guidata da Ahmed Shuqeiri fino al 1969 e da Yasser Arafat dal 1969 al 1996. La rivolta popolare in a Gaza e in Cisgiordania (intifada) iniziata nel 1987 e la rinuncia della Giordania alla sovranità sulla Cisgiordania (1988) consentirono all’OLP di proclamare, anche se solo formalmente, la costituzione dello Stato indipendente di Palestina. In seguito al riconoscimento dello Stato di Israele da parte dell’OLP nel 1988, si avviarono i negoziati di pace che si conclusero con gli accordi di Oslo del 1993-1995. Nel 1996 alFatah, la componente maggioritaria dell’OLP, vinse le elezioni del consiglio dell’Autorità palestinese, da cui uscì presidente Arafat. Organizzazione sionista mondiale. Organizzazione fondata in occasione del primo Congresso sionista svoltosi a Basilea, in Svizzera, nel 1897 su iniziativa di Theodor Herzl.

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Orlando Leoluca (1947-). Avvocato e uomo politico italiano. Appartenente alla Democrazia Cristiana, fu sindaco di Palermo dal 1985 al 1990. Nel 1991 lasciò il partito per fondare la Rete-Movimento per la democrazia. Nel 1993, nelle prime elezioni dirette dei sindaci, fu eletto nuovamente sindaco di Palermo, carica a cui venne riconfermato nel 1997. Dal 1994 al 1997 fu deputato al Parlamento europeo. Nel maggio 1999, dopo aver sciolto la Rete, aderì all’Ulivo di Romano Prodi e poi alla Margherita. Nel 2007 fu di nuovo in corsa per la carica di sindaco di Palermo, ma venne sconfitto dal primo cittadino già in carica. Nelle elezioni del 2006 e in quelle del 2008 è stato eletto al Parlamento nella lista Italia dei Valori. Orlando Vittorio Emanuele (1860-1952). Giurista e uomo politico, fu varie volte ministro prima e dopo la Grande Guerra. Nominato presidente del Consiglio nel 1917, dopo la sconfitta di Caporetto, fu a capo della delegazione italiana che nel 1919 partecipò alla Conferenza di pace di Parigi. Nel giugno dello stesso anno si dimise dalla guida del governo per non essere riuscito ad ottenere tutte le concessioni territoriali promesse all’Italia con il Patto di Londra del 1915. Pur avendo inizialmente appoggiato il governo di Benito Mussolini, dopo l’uccisione di Matteotti (1924) prese le distanze dal regime e si ritirò poi a vita privata. Tornato alla politica attiva nel 1944, fu eletto deputato all’Assemblea Costituente (1946). Orsini Felice (1819-1858). Patriota italiano inizialmente di fede mazziniana, nel 1858 attentò alla vita dell’imperatore Napoleone III che rimase illeso. Catturato, fu condannato a morte e giustiziato. Osama Bin Laden (1957-2011). Militante islamista sunnita capo di Al- Qā’ida, la maggiore organizzazione terroristica internazionale. È ritenuto l’ideatore degli attentati dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti. Il 1º maggio 2011 rimase ucciso in un conflitto a fuoco nella città pakistana di Abbottabad nel corso di un’operazione segreta ordinata dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Osoppo. Nome dei battaglioni partigiani creati all’indomani dell’8 settembre 1943 nelle province di Udine e Venezia Giulia, allora sotto l’amministrazione tedesca, da componenti non comunisti del Comitato di liberazione nazionale (CLN). Ostpolitik (in tedesco «politica verso est»). Termine con cui si indica la politica di riavvicinamento e distensione della Repubblica federale tedesca nei confronti della DDR e dei paesi dell’Europa orientale inaugurata dal cancelliere socialdemocratico Willy Brandt nel 1969. Ouattara Alassane (1942-). Presidente della Costa d’Avorio dall’11 aprile 2011. Economista, ha ricoperto importanti cariche nel Fondo monetario internazionale ed è stato primo ministro della Costa d’Avorio dal 1990 al 1993, prima di candidarsi alle presidenziali nel 2010. Uscito vincitore dalle urne, riuscì però a insediarsi solo dopo l’intervento armato che arrestò il suo predecessore Laurent Gbagbo. OVRA. Polizia segreta del regime fascista costituita nel 1926. La sua attività principale era la lotta e la repressione nei confronti degli oppositori del regime, ma svolse, più in generale, una funzione di controllo sull’intera società italiana.

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Owen Charles Robert (1771-1858). Industriale britannico, convinto che l’ambiente fosse fondamentale nella formazione del carattere dell’uomo, criticò il sistema delle fabbriche e teorizzò una società fondata su villaggi cooperativi. Cercò di realizzare materialmente questo suo progetto nel villaggio di New Lanark in Scozia. Paisley Ian (1926-2014). Uomo politico originario del Nord Irlanda, fondò nel 1971 il Partito democratico unionista. Dopo avere per anni sostenuto con estrema fermezza la linea dura contro i cattolici, nel maggio 2007, in seguito all’accordo raggiunto con lo Sinn Féin per la formazione di un governo unitario, ha assunto la carica di primo ministro del governo autonomo del Nord Irlanda. Nel 2008 ha rassegnato le dimissioni e gli è subentrato Peter Robinson, un protestante moderato. Palach Jan (1948-1969). Studente di filosofia cecoslovacco, divenne simbolo della resistenza popolare contro l’invasione sovietica del paese nel 1968. Il 17 gennaio 1969, per protesta contro la presenza delle truppe del Patto di Varsavia, si diede fuoco nella piazza Venceslao della capitale cecoslovacca. Ai suoi funerali parteciparono oltre 600 mila persone provenienti da tutto il paese. Palmerston Henry John Temple, visconte di (1784-1865). Uomo politico britannico. Eletto deputato tory nel 1807, aderì al partito liberale su posizioni moderate e fu primo ministro (1855-1858; 1859-1865). Sostenitore degli ideali liberali in Europa e fautore del prestigio internazionale dell’Inghilterra, condusse con successo la guerra di Crimea (1953-1956) e svolse un ruolo importante nel favorire l’unificazione italiana. Panachage. Termine francese con cui si indica un sistema elettorale in cui un elettore può votare candidati di liste diverse. Pankhurst Emmeline (1858-1928). Riformatrice e leader del movimento delle suffragette in Gran Bretagna. Nel 1889 fu tra le fondatrici della Women’s Franchise League e nel 1903 fondò a Manchester la Wo­ men’s Social and Political Union. Tra il 1908 e il 1913, durante le lotte per l’estensione dei diritti civili e politici alle donne, fu arrestata e detenuta in carcere diverse volte. Pannella Giacinto [Marco] (1930-). Fu tra i fondatori del Partito radicale italiano (1956), la formazione politica promossa dalla sinistra liberale fuoriuscita dal PLI e raccolta intorno al settimanale diretto da Mario Pannunzio «Il Mondo». Deputato di lungo corso (la sua prima esperienza in Parlamento fu nel 1976), Pannella fu, durante gli anni Settanta, tra i più accesi sostenitori delle battaglie per i diritti civili, da lui condotte con i metodi di lotta non violenta. Paolo VI [Giovanni Battista Montini] (1897-1978). Arcivescovo di Milano (1955), cardinale (1958), succedette a papa Giovanni XXIII nel 1963 e concluse il concilio Vaticano II. Fautore del dialogo ecumenico e della mediazione tra istanze conservatrici e progressiste all’interno della Chiesa, si impegnò per superare le divisioni all’interno del mondo politico cattolico. Papadopulos Geórgios (1919-1999). Uomo politico greco, fu tra i capi del colpo di stato militare del 1967. Durante la «dittatura dei colonnelli» fu primo ministro e ministro degli Esteri. Nel 1973, dopo aver dichiarato decaduta la monarchia e aver fatto proclamare la repubblica,

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ne divenne presidente. Dopo la fine della dittatura, venne condannato a morte, quindi all’ergastolo. Fu poi graziato nel 1990. Papagos Alexandros (1883-1955). Maresciallo di Grecia, onorificenza mai tributata a nessuno prima di lui, che a Papagos venne conferita nel 1945 dopo il suo ritorno dalla prigionia in Germania per come aveva guidato l’esercito greco contro le potenze dell’Asse. Dal 1949 al 1951 combatté la resistenza comunista. Nel 1951 fondò il Raggruppamento ellenico, partito schierato a destra che vinse le elezioni l’anno successivo. Nello stesso anno Papagos divenne primo ministro e ricoprì questa carica fino al 1955. Papandréu Andreas (1919-1996). Uomo politico greco figlio di Geórgios Papandréu, fondò nel 1974 il Partito socialista panellenico (PASOK), che vinse le elezioni nel 1981 e portò Papandréu alla presidenza del Consiglio; carica da lui mantenuta fino al 1989 e ottenuta nuovamente nel 1993. Papandréu Geórgios (1888-1968). Uomo politico greco, di formazione liberale, nel 1933 fondò il Partito democratico, che nel 1935 divenne Partito socialdemocratico. Varie volte ministro nell’immediato dopoguerra, nel 1961 diede vita all’Unione di centro, partito che ottenne una grande affermazione nelle elezioni del 1963. Primo ministro dal 1963 al 1965, fu costretto a dimettersi dal re Costantino II. Papen Franz von (1879-1969). Uomo politico tedesco, appartenente al partito del Zentrum, guidò il governo nel 1932 in linea con la politica del presidente Hindenburg. Ebbe un ruolo decisivo nella chiamata al potere di Hitler da parte del presidente Hindenburg nel 1933 e riuscì ad ottenere la carica di vicecancelliere nel tentativo, immediatamente fallito, di contenere e «addomesticare» le ambizioni hitleriane. Papini Giovanni (1881-1956). Intellettuale e scrittore italiano, fondò insieme a Giuseppe Prezzolini la rivista «Il Leonardo» e collaborò successivamente con «La Voce». Di orientamento nazionalista, appoggiò l’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale e in seguito aderì al fascismo. Pareto Vilfredo (1848-1923). Economista e sociologo italiano, nel 1894 fu nominato docente di economia politica all’Università di Losanna. Con i suoi studi contribuì a perfezionare la teoria dell’equilibrio economico. Abbandonato progressivamente l’insegnamento per problemi di salute, si dedicò alla ricerca sociologica. Nel Trattato di sociologia ge­ nerale (1916) espresse quattro grandi capisaldi del suo pensiero: la teoria dell’azione non logica, la teoria dei residui e delle derivazioni, la teoria delle élite, la teoria dell’equilibrio sociale. Parliament Act. Legge approvata dal Parlamento britannico il 18 agosto 1911 con cui la Camera dei Lord fu privata del diritto di voto sospensivo in materia finanziaria. Stabilendo che un progetto di legge votato dalla Camera dei Comuni e presentato alla Camera Alta per l’approvazione avrebbe assunto comunque valore di legge anche nel caso in cui non fosse stato da quest’ultima approvato, limitò il ruolo politico dell’aristocrazia. Parnell Charles Stewart (1846-1991). Uomo politico irlandese, fu eletto alla Camera dei Comuni nel 1875, battendosi per l’autonomia dell’Irlanda e schierandosi a favore della proposta di Home Rule del 1886.

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Parri Ferruccio (1890-1981). Antifascista, militò nelle file di Giustizia e Libertà durante la Resistenza italiana. Fu tra i fondatori del Partito d’azione e presidente del Consiglio dall’aprile al dicembre del 1945, nel primo governo costituitosi dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Partito-macchina. Termine con cui si indica il tipico «modello americano» di partito, esportato successivamente anche in Inghilterra, su cui richiamò l’attenzione Moisei Ostrogorski in La democrazia e l’organizza­ zione dei partiti (1902). I tratti caratteristici di tale modello, affermatosi pienamente negli Stati Uniti dopo la guerra di secessione, sono la presenza di un capo eletto direttamente dai delegati del partito; il carattere di «impresa» dell’attività politica nel contesto di una democrazia di massa; la centralità del momento elettorale. Il boss usa il partito come una «macchina» elettorale per procacciarsi voti, con una mentalità simile più a quella di un imprenditore capitalistico che non a quella di un capo politico. Pathet Lao. Movimento comunista e indipendentista del Laos fondato nel 1945. Impegnato nella lotta anticoloniale contro i francesi a fianco dei comunisti vietnamiti, negli anni Sessanta e Settanta combatté contro gli americani. Nel 1975 giunse al potere e proclamò la Repubblica democratica popolare del Laos. Patti della Moncloa. Accordo politico-sociale sottoscritto a Madrid nell’ottobre del 1977 da imprenditori, sindacati e principali forze politiche (socialisti, comunisti, popolari) con lo scopo di contenere le rivendicazioni salariali al di sotto degli indici programmati dal governo. Paulus Friedrich von (1890-1957). Militare tedesco, durante la Seconda guerra mondiale, fu alla guida della VI armata impegnata nella campagna di Russia. Dopo il lungo assedio presso la città di Stalingrado ad opera dell’Armata Rossa, capitolò il 31 gennaio 1943. Due giorni prima Hitler lo aveva nominato feldmaresciallo. Fatto prigioniero dai russi, nell’agosto 1944 lanciò dalla radio sovietica un appello al popolo tedesco per invitarlo ad opporsi a Hitler. Testimone d’accusa al processo di Norimberga del 1946, fu liberato dai russi nel 1953. Pavelić Ante (1889-1959). Croato, leader degli ustascia. Nel 1941, dopo lo smembramento della Jugoslavia da parte delle truppe dell’Asse, divenne capo di Stato in Croazia. Alla fine della guerra riparò in Argentina. P2. Si tratta di una loggia massonica che apparteneva al Grande Oriente d’Italia. Il suo nome per intero era Propaganda Due e la sua caratteristica principale quella di essere una loggia «coperta», ovvero segreta, con l’obiettivo di modificare l’assetto politico-istituzionale dell’Italia. Originariamente istituita nel 1877 come loggia Propaganda, rinacque col nome di Propaganda Due dopo la Seconda guerra mondiale. Fu tuttavia a partire dalla fine degli anni Sessanta, sotto la guida di Licio Gelli, che la P2 cominciò a reclutare imprenditori, uomini politici, funzionari statali e soprattutto ufficiali dell’esercito nel tentativo di tenere sotto controllo la vita politica italiana. La scoperta, nel 1981, della lista degli affiliati alla P2 produsse uno dei più gravi scandali politici della storia italiana. Una legge del gennaio 1982 sciolse la P2 e rese illegale il funzionamento di associazioni segrete con finalità analoghe. Il suo operato fu anche oggetto di indagine da parte della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia.

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Peacekeeping. In inglese «mantenimento della pace», è il termine con cui si intendono le operazioni per il mantenimento della pace condotte dall’ONU in paesi che per la gravità della situazione interna possono costituire una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale. Pellegrino Giovanni (1939-). Senatore dal 1990 al 2001, appartenente al gruppo parlamentare comunista, è stato presidente della Commissione parlamentare incaricata di indagare sulle stragi in Italia. Pelloux Luigi (1839-1924). Generale e uomo politico italiano. Più volte ministro della Guerra (1891-93; 1896-97), fu presidente del Consiglio dal giugno 1898 al giugno 1900. Nella crisi del 1898-99 adottò una politica autoritaria mirante a un rafforzamento dell’esecutivo. Provocò l’opposizione delle sinistre, che per la prima volta attuarono l’ostruzionismo parlamentare. Dopo le elezioni del 1900 si dimise. Pentito. Figura giuridica istituita in Italia dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa quando assunse nel 1978 la funzione di coordinatore delle forze di polizia e degli agenti informativi per la lotta al terrorismo. I collaboratori di giustizia, o «pentiti», sono stati utilizzati anche per combattere le grandi organizzazioni criminali come mafia e camorra. Peon. Parola di origine spagnola che indica, in America Latina, il bracciante giornaliero spesso di poverissima condizione. È utilizzato anche nel linguaggio giornalistico per indicare quei parlamentari dei grandi partiti che vengono utilizzati per esprimere passivamente il voto già deciso dagli organi dirigenti dei partiti stessi. Peres Shimon (1923-). Uomo politico israeliano. Di origine polacca, immigrato in Palestina nel 1934, nel 1965 fondò il Rafi, da cui nacque nel 1968 il Partito laburista. Fu ministro per lo sviluppo dei Territori occupati e l’assorbimento degli immigrati (1969-70), dei Trasporti (197074) e della Difesa (1974-77). Leader del Partito laburista (1977-92), dal 1984 si alternò con Yitzhak Shamir alla guida del governo di unità nazionale. Nel 1992 fu nominato ministro degli Esteri e contribuì al raggiungimento degli accordi di pace tra OLP e Israele (1993), che gli valsero l’anno successivo il premio Nobel per la pace. Dopo l’uccisione del primo ministro Rabin (4 novembre 1995) gli succedette nella carica, ma fu sconfitto da Benjamin Netanyahu nelle elezioni del 1996. Dal 2007 al 2014 è stato presidente dello Stato di Israele. Perestrojka. In russo significa «ristrutturazione», termine con cui si indica il processo di profonde riforme economico-politiche avviato da Michail Gorbačëv in URSS a partire dal 1985. Concepita come una politica di rinnovamento e modernizzazione del sistema del «socialismo reale», si trasformò ben presto in un processo di democratizzazione che avrebbe condotto, dopo la caduta del Muro di Berlino (1989), alla dissoluzione dell’URSS (1991). Perón Juan Domingo (1895-1974). Uomo politico argentino. Presidente della Repubblica dal 1946 grazie al sostegno delle masse lavoratrici attirate dalla sua politica demagogica e populista, impose all’Argentina un regime personale con tendenze populistiche. Rovesciato nel 1955 da un colpo di stato militare e costretto all’esilio, tornò in patria nel 1973 e vi fu eletto presidente.

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Perry Matthew Calbraith (1794-1858). Commodoro della Marina statunitense, con le sue pressioni costrinse il Giappone ad aprire i propri porti alle potenze occidentali (Convenzione di Kanagawa, 1854). Pertini Sandro (1896-1990). Uomo politico italiano e settimo presidente della Repubblica italiana (1978-85). Socialista, condannato dal Tribunale speciale fascista e più volte incarcerato, fu esule in Francia. Rientrato in Italia nel 1943, partecipò alla Resistenza, meritando la medaglia d’oro. Deputato del PSI fin dalla Costituente (1946), è stato presidente della Camera (1968-76). Il suo mandato presidenziale si caratterizzò per la difesa della democrazia e per la fiducia che seppe suscitare nei cittadini. Pétain Henri-Philippe-Omer (1856-1951). Militare e uomo politico francese. Generale durante la Prima guerra mondiale, fu presidente del Consiglio e capo dello stato (1940) dopo l’invasione nazista della Francia. Firmò l’armistizio con la Germania e nella zona della Francia occupata dai tedeschi diede vita a un governo autoritario e filonazista (regime di Vichy). Dopo la guerra fu processato per alto tradimento, condannato a morte e poi all’ergastolo. Piano Dawes. Ideato nel 1923 da Charles Gates Dawes, finanziere e vicepresidente degli USA, consentì di ridurre gli oneri delle riparazioni di guerra a carico della Germania fissati nel trattato di Versailles. Il piano di aiuti finanziari americani permise la ripresa dell’economia tedesca. Piano Fouchet. Dal nome del negoziatore, fu il progetto (1961-1962) ideato da De Gaulle, dopo l’avvio della Comunità economica europea (CEE), di un’unione politica europea che avrebbe dovuto affiancarsi alle Comunità e coordinare le politiche estere e di difesa attraverso una cooperazione intergovernativa su basi confederali. Il progetto fallì. Piano Pleven. Deriva il nome da René Pleven, ministro della Difesa francese, e prevedeva la creazione di un esercito europeo sotto comando NATO e gestito da un ministro della Difesa europeo. Il piano aveva l’obiettivo di evitare sia la formazione di un vero e proprio esercito europeo, poiché ogni paese avrebbe mantenuto un esercito nazionale, sia un riarmo tedesco, che allo scoppio della guerra di Corea (1950) era auspicato dagli americani in funzione antisovietica. Il piano porterà nel 1952 alla nascita della Ced (Comunità europea di difesa). Piano Solo. Progetto di colpo di stato militare in Italia (1964) che aveva l’obiettivo di consegnare il potere all’Arma dei Carabinieri, il cui comandante era allora il generale Giovanni De Lorenzo, e di porre termine all’esperienza dei governi di centro-sinistra. Il piano prevedeva l’arresto e la deportazione di uomini politici di sinistra e di sindacalisti, l’occupazione delle prefetture, della RAI, delle sedi di partito e di alcuni giornali. Il nome deriva dal fatto che la pianificazione militare del golpe doveva essere attuata «solo dai carabinieri». L’esistenza del «Piano Solo» fu rivelata nel 1967 dal settimanale «l’Espresso». Piano Young. Piano di natura economica riguardante le riparazioni di guerra richieste alla Germania dopo il primo conflitto mondiale. Progettato nel 1929 da una commissione presieduta dall’americano Owen Young, il piano riduceva notevolmente i debiti tedeschi. I benefici per la

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Germania furono tuttavia limitati a causa del sopraggiungere della crisi finanziaria internazionale dell’ottobre 1929. Pinelli Giuseppe (1928-1969). Ferroviere, animatore del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa di Milano, durante la Resistenza fece parte di una brigata partigiana. La sua morte, il 15 dicembre 1969, rimane uno degli eventi più controversi della storia dell’Italia contemporanea. Precipitò infatti dalla finestra della questura di Milano, dove era stato trattenuto per accertamenti scattati in seguito alla strage di piazza Fontana a Milano. Al termine della inchiesta, chiusa nel 1975 dal giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio, l’ipotesi dell’omicidio è stata comunque giudicata infondata. Pinochet Augusto (1915-2006). Militare cileno che diresse nel 1973 il colpo di stato contro il governo di Unidad Popular retto da Salvador Allende. Impose al Cile una dittatura militare e fu a capo della Repubblica dal 1974 fino al 1989. Pio IX [Giovanni Maria Mastai Ferretti] (1792-1878). Papa dal 1846, alimentò grandi speranze tra i liberali dello Stato pontificio concedendo il 14 marzo 1848 una Costituzione che istituiva due Camere ed il Sacro Collegio dei Cardinali. Dopo i moti del 1848 e la repressione della Repubblica Romana (1849) abrogò tuttavia lo statuto. Dopo la presa di Roma da parte dell’esercito italiano nel 1870, Pio IX continuò a considerarsi prigioniero in Vaticano e rispose ad ogni tentativo di conciliazione da parte del Regno d’Italia condannando le dottrine liberali nel Sillabo (1864), e promulgando il non expedit (1874), col quale ai cattolici fu vivamente sconsigliato di partecipare alla vita politica del nuovo Stato. Pio X [Giuseppe Melchiorre Sarto] (1835-1914). Papa dal 1903 e santo dal 1954. Mitigò l’intransigenza del Vaticano nei confronti del Regno d’Italia (Patto Gentiloni, 1913) e permise ai cattolici di partecipare alla vita politica. Lottò contro il modernismo, riformò il diritto canonico (Codice di diritto canonico, 1917) e redasse il catechismo che porta il suo nome. Pio XI [Achille Ratti] (1857-1939). Papa dal 1922. Nunzio apostolico in Polonia (1919), arcivescovo di Milano (1921), pose fine alla controversia con lo Stato italiano firmando i Patti lateranensi e il Concordato (1929). In un famoso discorso definì Mussolini «l’uomo che la Provvidenza ci ha fatto incontrare». Nel 1937, in seguito alle interferenze dei nazisti nella vita dei cattolici, scrisse, eccezionalmente in tedesco, l’enciclica Mit brennender Sorge, in cui condannava l’ideologia nazista. Pio XII [Eugenio Pacelli] (1876-1958). Papa dal 1939. Nunzio apostolico in Baviera (1917) e nella Repubblica di Weimar (1920), segretario di stato vaticano (1929), cercò invano di scongiurare lo scoppio della Seconda guerra mondiale («nulla è perduto con la pace, tutto può essere perduto con la guerra», discorso dell’agosto 1939). Fiero avversario del comunismo, nel 1949 scomunicò tutti i suoi sostenitori e aderenti e nel 1950, ricorrendo all’infallibilità papale, istituì il dogma dell’Assunzione di Maria in cielo. Personaggio storiograficamente controverso, è stato definito il «papa del silenzio» perché non prese posizione contro le leggi razziali promulgate da Mussolini (1938) e contro la Shoah. Plebiscito. Nella Roma antica, deliberazione della plebe convocata in assemblea dal tribuno. Nell’Europa contemporanea, votazione popo-

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lare su temi di rilievo costituzionale. Vi fece ricorso Napoleone I dopo il colpo di stato del 18 brumaio (9 novembre 1799) per far approvare la nuova Costituzione; e ancora Luigi Napoleone, il 20 novembre 1852, per restaurare l’impero. Nell’Italia del Risorgimento rappresentò il mezzo legale con cui Toscana, Emilia (11-12 marzo 1860), Sicilia, Italia meridionale, Marche, Umbria (ottobre-novembre 1960) e Veneto (novembre 1866) aderirono al Regno d’Italia. Vi ricorse anche Benito Mussolini durante gli anni Venti e Trenta. Plechanov Georgij (1857-1919). Appartenente in gioventù al movimento populista russo, fu poi tra coloro che, rifiutando la deriva terrorista, se ne allontanarono. Fondò l’Emancipazione del lavoro, nucleo da cui sorse il Partito operaio socialdemocratico russo. Fu tra i maggiori divulgatori del marxismo in Russia. Vicino a Lenin fino al 1905, se ne allontanò in seguito e nel 1917 si oppose alla Rivoluzione bolscevica. Pleven René (1901-1993). Politico francese più volte ministro e due volte presidente del Consiglio (1950-1951, 1951-1952), fu uno dei più stretti collaboratori di Charles De Gaulle durante la Resistenza al nazismo. Con il piano che porta il suo nome patrocinò la nascita della Comunità europea di difesa (CED), che però non fu ratificata dal Parlamento francese (1954). Pogrom. Termine russo («distruzione») con cui si indicano le violente sommosse popolari contro gli ebrei verificatesi a partire dal 1881 nella Russia zarista. Talvolta incoraggiate dalle autorità locali, causarono la morte di molti ebrei e la distruzione delle loro proprietà. Per estensione, ogni persecuzione violenta di una minoranza. Poincaré Raymond (1860-1934). Uomo politico francese. Primo ministro (1912-1913; 1922-1924; 1926-1929) e presidente della Repubblica francese (1913-1920), rappresentò nel primo dopoguerra le tendenze revansciste e la volontà comune dei francesi di punire i tedeschi. Nel 1923 fece occupare la regione della Ruhr dalle truppe francesi perché la Germania non era in grado di pagare le pesantissime riparazioni di guerra. Pol Pot (1928-1998). Uomo politico cambogiano. Comunista, fu il principale leader dei khmer rossi. Preso il potere nel 1975, instaurò una sanguinosa dittatura. Dopo l’invasione vietnamita della Cambogia (1979), diresse la guerriglia contro il governo filovietnamita di Phnom Penh. Lasciò ogni carica nel 1985. Politica estera e di sicurezza comune (PESC). Introdotta nel 1992 con il trattato di Maastricht, la PESC indica il cosiddetto «secondo pilastro» della UE, ossia il tentativo di dare statura politica internazionale all’Unione, integrandone la politica estera. Esiste un Alto rappresentante della PESC che, su mandato della presidenza del Consiglio, rappresenta l’Unione in tema di politica estera e nelle relazioni con i paesi terzi. Pompidou Georges (1911-1974). Uomo politico francese, gollista, fu a capo del governo durante la presidenza De Gaulle dal 1962 al 1968. Fu poi eletto alla presidenza della Repubblica, carica che ricoprì dal 1969 al 1974. Poor Law(s). Leggi inglesi per l’assistenza della popolazione più povera. Introdotte da Elisabetta I (1601), furono amministrate dalle parrocchie. Prevedevano il sostegno a coloro che per malattia o per età non fossero in grado di lavorare e non avessero mezzi di sostentamento. Co-

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loro che erano in grado di svolgere un lavoro erano invece costretti nelle workhouses (case di lavoro). Alla fine del XVIII secolo fu introdotto il «sistema Spenhamland», che prevedeva forme di assistenza e di integrazione dei salari per i lavoratori che non raggiungessero il livello minimo della sussistenza. La nuova legge sui poveri del 1834 eliminò ogni forma di assistenza per chi era in grado di lavorare, con la motivazione che l’assistenza avrebbe privato i salariati di ogni spririto di iniziativa e indotto gli imprenditori a tenere artificialmente bassi i salari. Popiełuszko Jerzy (1947-1984). Sacerdote polacco, vicino al sindacato Solidarność, animato da un acceso anticomunismo, nelle sue omelie invitava i fedeli a ribellarsi al regime. Per questo fu prima invitato al silenzio da funzionari del ministero degli Interni polacco e il 19 ottobre 1984 fu rapito e ucciso. Il suo corpo fu ritrovato undici giorni dopo nelle acque della Vistola presso Włocławek. Porošenko Petr (1965-). Imprenditore e uomo politico ucraino. Eletto per la prima volta nel 1998 nel Parlamento ucraino, è stato uno dei più stretti collaboratori di Viktor Juščenko durante la lunga e conflittuale campagna elettorale del 2005 e la cosiddetta «rivoluzione arancione». Appena ottenuta la presidenza, Juščenko lo nominò segretario del Consiglio nazionale di Sicurezza e Difesa dell’Ucraina. Tra i più fervidi sostenitori dell’entrata dell’Ucraina nella NATO e del suo avvicinamento all’Unione europea, dal giugno 2014 è presidente della Repubblica. Positivismo. Movimento di pensiero sorto verso la metà dell’Ottocento in Francia. Fondato sull’ottimistica fiducia nella scienza e nel progresso tecnologico e sulla convinzione che tutti i fenomeni, sia storici sia sociali, siano sottoposti a leggi naturali invariabili, il suo padre fondatore fu Auguste Comte (1798-1857). Potere operaio. Movimento politico italiano della sinistra extraparlamentare fondato a Pisa nel 1966. Si sciolse nel 1973 in seguito ai contrasti insorti tra Antonio Negri, leader dell’area padovana che avrebbe dato vita ad Autonomia operaia, e Franco Piperno, segretario di Potere operaio e leader dell’area romana. Prampolini Camillo (1859-1930). Socialista italiano, fu tra i fondatori del Partito dei lavoratori italiani nel 1892. A lui si deve l’organizzazione della rete delle cooperative e delle leghe socialiste. «Pravda». Organo di stampa del Partito comunista sovietico fu fondato da Lev Trockij nel 1908 a San Pietroburgo. D’impostazione inizialmente socialdemocratica, era stampato all’estero per sfuggire alla censura zarista. All’indomani del fallito tentativo di ricomporre la scissione del Partito operaio socialdemocratico russo divenne, nel 1912, il giornale ufficiale del gruppo bolscevico. Proprio sulla «Pravda» Lenin pubblicò, nel 1917, le Tesi di Aprile. Prima internazionale socialista. Sorta a Londra nel 1864 con l’obiettivo di collegare le diverse organizzazioni operaie esistenti in Europa potenziando la capacità di lotta del proletariato industriale, ebbe tra i suoi fondatori Karl Marx. Le sue posizioni entrarono però in contrasto prima con quelle di Proudhon e Mazzini, poi con quelle di Blanqui e Bakunin. Quest’ultimo fu infine espulso dall’associazione (1872). Trasferita la propria sede a New York (1872), la Prima Internazionale si sciolse nel 1876.

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Prima linea. Formazione terroristica italiana nata nel 1976. Per numero di aderenti e per importanza delle azioni armate è stata seconda solo alle Brigate Rosse. La distingueva da queste ultime il rifiuto della clandestinità e della rigida compartimentazione dei ruoli, nonché la centralità dell’azione rispetto all’elaborazione ideologica. Primavera di Praga (1968-1969). Movimento politico e culturale sviluppatosi nella Cecoslovacchia comunista. Guidato dal neosegretario del Partito comunista cecoslovacco Dubček, ebbe come finalità sia la riforma dell’economia sia l’introduzione del pluralismo politico. Il nuovo orientamento, definito «socialismo dal volto umano», fu avvertito da Mosca come una minaccia in grado di diffondersi negli altri paesi del­ l’Europa comunista. La notte tra il 20 e il 21 agosto 1968 le truppe del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia. Nel marzo 1969 i sindacati promossero una serie di iniziative a favore della libertà di sciopero, ma a quel punto il leader sovietico Brežnev riuscì a imporre le dimissioni di Dubček e la sua sostituzione con Husák. Primo de Rivera José Antonio (1903-1936). Uomo politico spagnolo, nel 1933 fondò il movimento filofascista della Falange spagnola. Incarcerato, dopo che il governo repubblicano aveva dichiarato illegale la Falange, nel novembre del 1936 fu giustiziato nel carcere di Alicante. Primo De Rivera Miguel (1870-1930). Generale e uomo politico spagnolo. Nell’aprile del 1923 instaurò la dittatura militare in Spagna dopo un pronunciamento. Perso progressivamente il consenso del re e della popolazione, si ritirò nel 1930 su pressione di Alfonso XIII. Princip Gavrilo (1894-1918). Nativo della Bosnia-Erzegovina, territorio soggetto all’amministrazione dell’Austria-Ungheria, fu un nazionalista serbo che si unì all’associazione rivoluzionaria della Giovane Bosnia il cui intento era di liberare la Bosnia-Erzegovina dal dominio degli Asburgo e annetterla al regno di Serbia. Il 28 giugno del 1914 assassinò a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria, erede al trono dell’impero austro-ungarico, e la moglie Sofia. A seguito dell’attentato, l’Austria inviò un durissimo ultimatum alla Serbia che rispose con la mobilitazione dell’esercito, facendo così scoppiare la Prima guerra mondiale. Processo di Norimberga (1945-46). Procedimenti penali intentati contro i responsabili dei crimini nazisti. Il primo, più importante, si svolse tra il 20 novembre 1945 e il 1° ottobre 1946 contro 24 alti dirigenti del regime nazista. Le imputazioni furono: crimini contro la pace, crimini di guerra e contro l’umanità. La sentenza del tribunale internazionale condannò a morte 12 imputati. Negli anni seguenti a Norimberga si svolsero con analoghe modalità altri processi contro generali, medici, funzionari, magistrati e industriali corresponsabili dei crimini nazisti. Prodi Romano (1939-). Professore universitario e uomo politico italiano. Docente di economia e politica industriale, democristiano, è stato ministro dell’Industria (1978) e presidente dell’IRI (1982-1989; 1993-1994). Due volte presidente del Consiglio (1996-1998; 2006-2008), presidente della Commissione europea (1999-2003). Fondatore e leader dell’Ulivo, è stato presidente del Partito democratico dalla sua fondazione all’aprile del 2008, quando si è dimesso. Dal settembre 2008 presiede il gruppo di lavoro ONU-Unione Africana sulle missioni di peacekeeping in Africa.

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Prodotto interno lordo (PIL). Termine impiegato nella contabilità nazionale per indicare il valore monetario complessivo dei beni e dei servizi prodotti all’interno di un paese in un determinato periodo di tempo e destinati al consumo finale. Misura la capacità produttiva di una nazione e quindi il suo potenziale economico. Si distingue dal «prodotto interno netto», che si ottiene sottraendo dal PIL il valore degli ammortamenti, ossia delle risorse destinate alla sostituzione degli impianti consumati nella produzione. Pubblico contro la violenza. Gruppo politico slovacco. Nato nel 1989, di ispirazione liberal-conservatrice, raccolse molti dei movimenti politici che si erano opposti al regime comunista, attestandosi come equivalente slovacco del Forum civico ceco. Nel 1991 subì la scissione del Movimento per la Slovacchia democratica e adottò il nome di Unione democratica civica (ODU), che nel 1994 confluì nel Partito democratico (DS). Putin Vladimir Vladimirovič (1952-). Attivo nel servizio d’intelligen­ ce del KGB fino all’implosione del sistema sovietico, nell’agosto 1999 fu nominato da Boris Eltsin primo ministro della Russia. In seguito alle dimissioni di Eltsin, nel dicembre dello stesso anno, svolse le funzioni di capo dello Stato e successivamente, nel 2000, venne eletto presidente della Federazione russa, carica che ricoprì per due mandati consecutivi fino al 2008. Il presidente, Dmitrij Medvedev, eletto il 7 maggio 2008, nominò Putin primo ministro. Il 4 marzo 2012 è stato eletto per la terza volta presidente della Federazione Russa succedendo allo stesso Medvedev. Qing Jang [Li Shumeng] (1914-1991). Nome con cui era nota la moglie di Mao Zedong. Principale figura del comunismo cinese, ferma sostenitrice della «rivoluzione culturale», alla morte di Mao fu accusata, insieme a Zhang Chunqiao, Yao Wenyuan e Wang Hongwen, di preparare un colpo di stato. I quattro, a cui da questo momento fu dato il nome di «banda dei quattro», furono arrestati; nel 1981 si svolse il processo. Jang Qing fu condannata a morte, pena in seguito tramutata in ergastolo. Questione d’Oriente. Insieme di problemi determinati dall’intrecciarsi delle politiche estere delle potenze europee nei Balcani con le spinte nazionali dei popoli della penisola. Sorse in conseguenza della crisi dell’Impero ottomano nell’Europa danubiano-balcanica, area su cui convergevano gli interessi di Austria, Russia, Francia e Inghilterra. La Russia era favorevole alla disgregazione dell’Impero ottomano, mentre Francia, Inghilterra e Austria, timorose di una possibile espansione russa nei Balcani, difendevano lo status quo nella regione. Tali differenti posizioni giunsero a confronto con lo scoppio della guerra di Crimea nel 1853, in cui contro la Russia si schierarono Turchia, Francia, Inghilterra e Regno di Sardegna, mentre l’Austria rimase neutrale. Il conflitto terminò nel 1856 con la sconfitta russa. La questione d’Oriente rimase al centro dell’attenzione delle potenze europee per tutta la seconda metà dell’Ottocento fino alle guerre balcaniche (1912-1913), preludio alla Prima guerra mondiale. Quisling Vidkun Abraham Lauritz Jonssøn (1887-1945). Ufficiale dell’esercito norvegese, nel 1940 fondò la filonazista Unione nazionale. Dopo l’invasione tedesca della Norvegia si mise al serivizo di Hitler cre-

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ando un governo collaborazionista. Al termine della Seconda guerra mondiale venne catturato dal Fronte patriottico norvegese e dopo un processo per alto tradimento fu giustiziato. Qutb Sayyid (1906-1966). Intellettuale egiziano, critico letterario, nel volume Giustizia sociale dell’islam del 1949 lanciò una critica severa alla società islamica e alla classe dirigente del suo paese. Dopo un soggiorno negli Stati Uniti, si iscrisse al movimento dei Fratelli musulmani e si dedicò agli studi religiosi. Inizialmente favorevole al colpo di stato dei Liberi Ufficiali, rimase tuttavia deluso dell’impronta laica e socialista impressa da Nasser al nuovo regime. Nel 1954, in seguito al fallito attentato a Nasser, fu arrestato insieme a molti altri esponenti dei Fratelli musulmani. Fu giustiziato nel corso di una successiva ondata repressiva del regime di Nasser, divenendo così un simbolo per i nuovi movimenti integralisti islamici. Rabin Yitzhak (1922-1995). Militare e politico israeliano, appartenente al Partito laburista, fu alla guida del governo prima dal 1974 al 1977 e poi dal 1992 al 1995, quando fu assassinato. A lui si deve, nel 1993, la firma degli accordi di Oslo con il presidente dell’OLP Arafat. Radetzky Johann J.F. (1766-1858). Militare austriaco, per lungo tempo governatore del Lombardo-Veneto, sconfisse l’esercito di Carlo Alberto a Custoza il 25 luglio 1848, costringendolo a firmare l’armistizio di Salasco. Alla ripresa della guerra, l’anno successivo, sconfisse nuovamente le truppe sabaude a Novara il 23 marzo 1849, ponendo così fine alla prima guerra d’indipendenza italiana. Rajk László (1909-1949). Uomo politico ungherese. Ministro degli Interni del governo comunista, nel 1949 fu condannato a morte per alto tradimento. Secondo l’accusa avrebbe complottato con il Vaticano, con Tito e con gli USA per rovesciare il governo. Fu successivamente riabilitato. Rákosi Mátyás (1892-1971). Uomo politico ungherese. Segretario del Partito comunista ungherese (1945-1956), si definiva il miglior discepolo ungherese di Stalin. Presidente del Consiglio (1952-1953), fu costretto a dimettersi su invito di Mosca a favore di Imre Nagy. Caduto Nagy in disgrazia dei sovietici, lo fece espellere dal partito (1955), ma l’anno successivo, dopo il XX Congresso del PCUS, fu costretto a dimettersi egli stesso. Reintegrato Nagy nel partito e nominato primo ministro allo scoppio dell’insurrezione ungherese del 1956, Rákosi fuggì a Mosca. Sedata la rivolta, i sovietici gli preferirono Kádár alla guida dell’Ungheria. Ramalho Eanes António (1935-). Militare e politico portoghese. Eletto presidente della Repubblica nel 1980, fu confermato nell’incarico nel 1986. Ha guidato il Partito per il Rinnovamento democratico. Ras. In Etiopia, originariamente, titolo dei governatori di provincia; in seguito titolo del più alto dignitario dopo il negus. Termine usato per indicare i capi locali del fascismo, con i quali Mussolini, nella fase iniziale del movimento, dovette mediare per affermare la propria leadership e trasformare il movimento in partito. Rashid Alì Al-Gaylani (1892-1965). Nazionalista iracheno, iniziò la carriera politica nel 1924 e nel 1940 divenne primo ministro. Approfittò della guerra in corso per allentare progressivamente i rapporti dell’Iraq con il Regno Unito rafforzando invece segretamente quelli con Germa-

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nia e Italia. Nel dicembre del 1940 fu tuttavia costretto a lasciare il suo incarico al generale Taha el Hashimi. Le vittorie conseguite dall’Asse nell’Africa settentrionale nel 1941 spinsero Rashid Alì ad organizzare una rivolta di stampo nazionalista, che ebbe successo. Destituiti il primo ministro e il sovrano, poté quindi instaurare un governo militare filotedesco e antiebraico. Rathenau Walther (1867-1922). Uomo d’affari e politico tedesco. Di origine ebraica, dopo la Prima guerra mondiale fu tra i fondatori del Partito democratico tedesco (DDP). Nel 1921 venne nominato ministro della Ricostruzione e l’anno successivo ministro degli Esteri. Fautore di un capitalismo che riteneva dovesse essere subordinato ai collettivi, non sposò mai le idee socialiste. Il 24 giugno 1922 fu assassinato da due ufficiali dell’esercito appartenenti all’estrema destra. Rattazzi Urbano (1808-1873). Deputato liberale nel Parlamento piemontese, dopo l’unificazione italiana fu presidente del Consiglio (18621867). Si batté per unire Roma al nuovo regno, ma fu costretto dal sovrano e dagli ambienti moderati di corte ad intervenire militarmente per impedire a Garibaldi di raggiungere ed occupare Roma con i suoi corpi di volontari. Reagan Ronald Wilson (1911-2004). Uomo politico e presidente degli Stati Uniti (1981-1989). Già attore cinematografico, esponente del Partito repubblicano, fu governatore della California (1966-1970) e leader del movimento conservatore americano. Eletto alla presidenza (1981), adottò politiche liberiste di drastica riduzione della spesa pubblica e delle tasse e di deregulation dei mercati. Sostenne la necessità del riarmo americano per contrastare l’Unione Sovietica, definita l’«impero del male». In politica estera seguì una linea interventista in America centrale (Panama, Nicaragua), mentre in Medio Oriente consentì la spartizione di gran parte del Libano fra Siria e Israele e approfondì il contrasto con la Libia, ritenuta prima responsabile del terrorismo internazionale. Cooperò con Gorbačëv alla nuova fase di distensione nei rapporti USA-URSS (1986). Redmond John (1856-1918). Uomo politico irlandese, assunse la guida del Partito nazionalista irlandese dopo la morte di Charles Parnell e ne divenne presidente nel 1900. Fautore dell’autonomia dell’Irlanda, era tuttavia convinto che si dovesse realizzare nel contesto britannico e dunque sostenne i progetti di Home Rule promossi dai governi inglesi. Avversato dal Sinn Féin, che considerava troppo moderata la sua politica, lasciò definitivamente la guida del movimento autonomista irlandese dopo la rivolta di Pasqua del 1916. Referendum abrogativo. Consultazione popolare in cui si chiede all’elettorato di pronunciarsi sull’abrogazione totale o parziale di una legge o di un atto avente valore di legge (decreto legge e decreto legislativo). Nel nostro ordinamento costituzionale è la forma prevalente di referendum (art. 75). Solo nei casi di modifiche alla Costituzione (art. 138), di fusione di regioni esistenti o di creazione di nuove regioni, di passaggio da una regione a un’altra di province o comuni (art. 132) può essere indetto un referendum consultivo. Non tutte le materie possono essere oggetto di referendum abrogativo: sono escluse le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione a ratificare tratta-

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ti internazionali. Sono altresì escluse le disposizioni costituzionali, abrogabili solo mediante il procedimento di revisione costituzionale previsto dall’art. 138. Religione cristiana monofisita. Dottrina eterodossa cristiana sorta nel V secolo che nega la presenza di due nature in Cristo (umana e divina) affermandone una sola e divina. Condannata nel concilio di Calcedonia (451), è ancora sostenuta dalle Chiese copta, etiopica, armena e sira. Rentenmark («marco di rendita» in tedesco). Valuta emessa nel novembre del 1923 in Germania allo scopo di contrastare l’inflazione che nel 1922 aveva raggiunto livelli altissimi. Il Rentenmark non era garantito da riserve auree, ma da un’ipoteca su tutti i beni del territorio nazionale. Renzi Matteo (1975-). Uomo politico italiano. È stato presidente della provincia di Firenze dal 2004 al 2009 e sindaco del capoluogo toscano dal 2009 al 2014. Esponente prima della Margherita, poi del Partito democratico, alle elezioni primarie dell’8 dicembre 2013 è stato eletto segretario del partito. A seguito delle dimissioni di Enrico Letta, chiamato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a formare un nuovo esecutivo, dal febbraio 2014 è presidente del Consiglio dei ministri. Divenendo capo del governo a 39 anni, è finora il presidente del Consiglio più giovane della Repubblica italiana. Repubblica Romana. Repubblica proclamata a Roma l’8 febbraio 1849 da un’Assemblea Costituente convocata dopo la fuga di Pio IX a Gaeta (novembre 1848). Governata da un triumvirato formato da Mazzini, Saffi e Armellini, proclamò il papato decaduto dal governo temporale dello Stato romano, abolì la pena di morte, introdusse il suffragio universale maschile e la libertà di culto. Fu sconfitta il 3 luglio 1849 dalle truppe francesi del generale Oudinot, dopo un assedio durato un mese e la strenua resistenza di Garibaldi. Rerum Novarum. Enciclica emanata da Leone XIII il 15 maggio 1891. Dedicata alla questione operaia, gettò le basi della dottrina sociale della Chiesa, teorizzando la necessità di un accordo fra lavoratori e datori di lavoro imperniato sulla tutela dei diritti dei primi e sui valori della solidarietà cristiana. Criticò sia il capitalismo sia il socialismo collettivistico, affermando la legittimità della proprietà privata e condannando la lotta di classe. Resistência nacional moçambicana (RENAMO). Partito conservatore del Mozambico guidato da Afonso Dhlakama. Fondato nel 1975, al momento dell’indipendenza del paese dal Portogallo, in funzione anticomunista, ha avuto l’appoggio dei servizi segreti dell’allora Rhodesia e del Sudafrica. La RENAMO ha combattuto contro il governo del Fronte di liberazione del Mozambico (FRELIMO) nella lunga guerra civile (1975-92) che ha insanguinato il paese. Revolución libertadora. Nome assunto dalla dittatura militare instaurata in Argentina nel 1955 (23 settembre-15 novembre) da Eduardo A. Lonardi in seguito a un golpe ai danni di Juan Domingo Perón. La dittatura mise fuori legge il partito giustizialista di Perón, aprì l’Argentina al mercato mondiale, avviò lo smantellamento dell’industria nazionale e della legislazione sul lavoro del periodo peronista. In un clima di grande instabilità politica si verificarono attentati della resistenza peronista e tenta-

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tivi di colpo di stato da parte dei settori più oltranzisti dell’esercito. Nel 1957 il generale Aramburo, succeduto per un breve periodo a Lonardo, varò una riforma costituzionale che annullò le riforme del periodo peronista. La parabola della dittatura poté dirsi compiuta il primo maggio del 1958, con l’ascesa al potere di Frondizi in seguito a elezioni. Reza Pahlavi Mohammad (1919-1980) scià di Persia (1941-1979). Autore nel 1953 di un colpo di stato di stampo autoritario, stabilì stretti rapporti con il governo degli USA. I suoi programmi di industrializzazione, fondati sull’investimento dei proventi del petrolio, videro un inizio di realizzazione (soprattutto dopo il brusco aumento dei prezzi del greggio del 1973-1974) a costo però di enormi tensioni sociali che sfociarono nella rivoluzione islamica del 1978. Costretto a lasciare l’Iran il 16 gennaio 1979, morì in Egitto. Rhee Syngman (1875-1965). Uomo politico sudcoreano. Primo presidente della Repubblica sudcoreana (1948-60), instaurò un regime dittatoriale sostenuto dalle forze di occupazione statunitensi e impegnato nella lotta anticomunista. Governò il paese durante la guerra di Corea e si oppose a una soluzione del conflitto che prevedesse la divisione della Corea. Dopo essere stato rieletto per tre mandati consecutivi, una serie di manifestazioni di piazza portò alla Rivoluzione d’aprile che lo costrinse a rassegnare le dimissioni (28 aprile 1960). Rhodes Cecil (1853-1902). Primo ministro della Colonia del Capo dal 1890 al 1896, guidò la lotta contro i boeri. Si devono a lui l’intenso sfruttamento dei giacimenti di diamanti nelle regioni meridionali del­l’Africa e l’estensione del dominio inglese fino alla regione del fiume Zambesi. Ribbentrop Joachim von (1893-1946). Uomo politico tedesco, ministro degli Esteri della Germania nazista dal 1938 al 1945, firmò nel 1939 con il sovietico Molotov il Patto di non aggressione tra i due paesi. Ebbe ancora un certo peso al momento della decisione di Hitler di invadere l’URSS nel 1941, ma la sua influenza politica diminuì progressivamente nel corso della guerra. Fu catturato dagli inglesi nel giugno 1945 e condannato a morte al processo di Norimberga. Riforma agraria. Provvedimenti legislativi in materia di ristrutturazione della produzione e della proprietà fondiaria varati dal Parlamento italiano nel 1950 (legge Sila e legge stralcio). Finanziata in parte con i fondi provenienti dal Piano Marshall, ebbe l’obiettivo di favorire lo sviluppo della piccola proprietà contadina e il ridimensionamento del latifondo improduttivo. Gli effetti furono però deboli, sia per l’insufficienza della redistribuzione fondiaria (30% della superficie agraria del paese) sia per la scarsità dei mezzi produttivi a disposizione dei nuovi proprietari. Riforma protestante. Movimento religioso iniziato nel XVI secolo in Germania dal monaco Martin Lutero che condusse alla rottura dell’unità religiosa dell’Europa e alla nascita del protestantesimo. Nata in opposizione alla pratica delle «indulgenze», contro la corruzione del clero e il fiscalismo della Chiesa di Roma, si fa cominciare dall’affissione delle 95 tesi di Lutero al portone della cattedrale di Wittenberg (1517). I più importanti principi teologici del protestantesimo sono la giustificazione del peccatore non attraverso le opere ma per «sola fede»;

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la riduzione dei sacramenti al battesimo e all’eucarestia; il «libero esame» delle Scritture e il «sacerdozio universale». Dalla Germania il movimento si diffuse nell’Europa centro-settentrionale (Scandinavia, Danimarca). Nell’alveo della Riforma a Ginevra si sviluppò il calvinismo (da Giovanni Calvino), che si diffuse in Ungheria, Polonia, Boemia, Francia, Svizzera (dove fu attivo anche U. Zwingli), Scozia (con J. Knox) e Olanda. In Inghilterra la diffusione della Riforma coincise con la nascita della Chiesa anglicana, che recepì solo alcuni suoi aspetti mantenendo, soprattutto nella liturgia, una maggiore fedeltà al cattolicesimo. Un’interpretazione radicale dei principi protestanti si ebbe invece con il movimento degli anabattisti e con il socinianesimo. La Chiesa cattolica reagì con il Concilio di Trento (1545-1563). Risoluzione 194. Risoluzione adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite (11 dicembre 1948) che prevedeva indennizzi per i profughi palestinesi del 1948 o il loro diritto al ritorno nei luoghi dove risiedevano. Secondo la risoluzione, ogni profugo aveva il diritto di scegliere se vivere o meno all’interno dei confini di Israele. La risoluzione fu da allora riaffermata più volte, inclusa in risoluzioni successive e in delibere dell’Assemblea sul problema dei profughi. Venne ripresa anche nella risoluzione 3236 (1974), considerata da alcuni la «carta dei diritti fondamentali del popolo palestinese». Risorgimento. Periodo della storia d’Italia (1815-1870) nel corso del quale maturò il processo di rinnovamento culturale, politico e sociale che consentì la formazione dello Stato nazionale. Il termine rimanda appunto al concetto di «rinascita» di quella unità politica della penisola perduta per molti secoli sotto il giogo di potenze straniere. Rivolta decabrista. Rivolta scoppiata il 26 dicembre 1825 in Russia su iniziativa di alcuni ufficiali e mirante a ottenere riforme liberali. La sollevazione si collocò nel contesto della breve crisi dinastica sopraggiunta alla morte dello zar Alessandro I, che non aveva lasciato indicazioni precise su quale dei suoi due fratelli dovesse succedergli. I liberali erano favorevoli al granduca Costantino, che però rinunciò aprendo la strada a Nicola I (1825-1855). I congiurati «decabristi» (nome derivato dal mese in cui si verificò il loro tentativo) erano legati in un’associazione segreta e sollevarono 3.000 soldati durante le parate militari in onore del nuovo zar. Il moto fu immediatamente represso. Rivoluzione culturale cinese. Movimento politico e sociale sviluppatosi in Cina tra il 1967 e il 1969 e guidato da Mao Zedong. Nata con l’obiettivo di evitare alla rivoluzione cinese l’involuzione burocratica e autoritaria che si riteneva fosse in atto in Unione Sovietica, intendeva realizzare il principio della prosecuzione della rivoluzione anche dopo l’instaurazione del socialismo. Condotta principalmente dalle giovani Guardie rosse e dall’esercito popolare guidato da Lín Biāo, prese di mira le strutture burocratiche e parassitarie del Partito comunista, diventando anche oggetto di strumentalizzazione nella lotta tra i vertici del partito. La sconfitta della rivoluzione si consumò già nell’estate del 1967, quando Mao dovette accettare un ritorno all’ordine sostenuto dai quadri rurali di formazione militare a lui fedeli, dall’esercito e dall’amministrazione capeggiata da Zhou En-lai.

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Rivoluzione industriale. Prima fase del processo di industrializzazione avviata intorno al 1770 in Inghilterra, estesasi quindi ad altri paesi nel corso dell’Ottocento. L’aspetto distintivo di questa rivoluzione fu costituito dal rapido aumento della produzione di manufatti grazie all’introduzione nell’attività produttiva di nuove macchine (macchina a vapore), nuove fonti energetiche (carbon fossile), nuove forme di organizzazione del lavoro (lavoro di fabbrica) e innovazioni tecniche. Le pre-condizioni furono la rivoluzione agricola inglese, con l’introduzione dell’azienda capitalistica e la conseguente disponibilità per l’industria di manodopera espulsa dalle campagne; l’espansione dei commerci e quindi l’abbondanza di capitali mercantili, la capacità del mercato interno di assorbire i beni prodotti dall’industria. Le conseguenze sociali furono la massiccia utilizzazione di lavoro minorile e femminile con il conseguente sfaldamento della famiglia patriarcale; la giornata lavorativa fino a 12-16 ore; l’inurbamento selvaggio della forza lavoro in condizioni igienico-sanitarie del tutto precarie; nuove forme di pauperismo e crisi periodiche di sovrapproduzione. Si verificarono proteste violente degli operai che assunsero spesso la forma della distruzione delle macchine (luddismo). Rocco Alfredo (1875-1935). Giurista, fu ministro della Giustizia dal 1925 al 1932 durante il fascismo. A lui si deve la produzione dei codici penale e di procedura penale emanati all’inizio degli anni Trenta. Röhm Ernst (1887-1934). Ufficiale nella Prima guerra mondiale, confluì in seguito nei gruppi di estrema destra che si opponevano alla Repubblica di Weimar. Nel 1931 divenne il capo delle Sturmabteilun­ gen, i reparti d’assalto di Hitler. A causa di contrasti con la linea politica hitleriana, Röhm e i vertici delle SA, che rappresentavano la sinistra anticapitalista all’interno della NSDAP, furono assassinati dai reparti delle SS nella «notte dei lunghi coltelli», il 30 giugno 1934. Rommel Erwin (1891-1944). Generale tedesco a cui fu affidato durante la Seconda guerra mondiale, dal 1941 al 1943, il comando dell’Afri­ kakorps. Richiamato in Europa nel marzo 1943, fu inviato dapprima nell’Italia settentrionale e poi in Normandia per contrastare lo sbarco angloamericano. Verso la fine del conflitto, convinto che la Germania non avrebbe potuto vincere, si avvicinò ai gruppi conservatori e militari della resistenza anti-hitleriana. Romualdi Pino (1913-1988). Uomo politico italiano. Nominato vicesegretario del PNF in Etiopia (1939), aderì alla Repubblica sociale italiana e fu vicesegretario del Partito fascista repubblicano (1943-1945). Tra i fondatori del Movimento sociale italiano nel 1946, fu deputato nazionale ed europeo e presidente del partito durante la segreteria Almirante. Roosevelt Franklin Delano (1882-1945). Uomo politico statunitense, appartenente al Partito democratico. Fu presidente dal 1933 fino alla morte nel 1945. Promosse il New Deal, programma economico volto a portare il paese fuori dalla drammatica crisi economica seguita al crollo della Borsa di Wall Street nel 1929. Dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, e soprattutto in seguito alla caduta della Francia, intensificò gli aiuti alla Gran Bretagna. Alla fine del 1941, dopo l’attacco giapponese alla base navale di Pearl Harbor, decretò l’entrata in guerra degli USA contro Germania, Italia e Giappone.

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Roosevelt Theodore (1858-1919). Presidente degli Stati Uniti d’America dal 1901 al 1909, membro del Partito repubblicano, assunse la carica dopo l’assassinio di William McKinley. In politica interna affrontò il problema dell’eccessiva concentrazione industriale varando lo Sherman Antitrust Act. In politica estera fu invece nettamente interventista, rilanciando la dottrina Monroe e applicando la cosiddetta «politica del grande bastone» che gli permise di allargare l’influenza degli Stati Uniti in America Latina. Nel 1906 ricevette il premio Nobel per la pace in virtù dell’opera di mediazione da lui svolta nel conflitto russo-giapponese. Romney Willard Mitt (1947-). Manager e uomo politico statunitense. Esponente del Partito repubblicano, è stato governatore del Massachusetts dal 2003 al 2007, per poi presentarsi alle elezioni presidenziali 2012 dove fu sconfitto da Barack Obama. Ha avuto una lunga carriera come manager e dirigente d’azienda. Rosselli Carlo (1899-1937). Storico e giornalista, si oppose fin dal­ l’inizio al regime mussoliniano e fu confinato a Lipari dai fascisti dal 1927 al 1928. Riparò poi in Francia dove nel 1929 fondò il movimento Giustizia e Libertà. Combatté durante la guerra civile spagnola a fianco dei repubblicani. Venne ucciso, assieme al fratello Nello, nel 1937 da una formazione dell’estrema destra francese su mandato dei servizi segreti italiani. Rousseau Jean-Jacques (1712-1778). Filosofo e letterato svizzero. Vicino agli ambienti illuministi, nel Discorso sulle scienze e sulle arti (1750) e nel Discorso sull’origine e fondamento dell’ineguaglianza tra gli uomini (1755) sostenne che la civiltà era frutto della corruzione di un ideale «stato di natura», distrutto dalla divisione del lavoro e dalla proprietà privata, che vi avevano introdotto la disuguaglianza sociale e la perdita di libertà. Nel 1762 pubblicò la sua opera politica più importante, Il contratto sociale. Erede della tradizione contrattualista, definiva la libertà come rispetto di una legge autoimposta all’interno di una repubblica istituita tramite un contratto sociale tra gli individui. Il contratto, in virtù del quale ogni individuo diventa cittadino, cioè membro del corpo sovrano, e suddito, cioè sottomesso alle leggi dello stato, implica la totale alienazione a favore del corpo sovrano dei diritti di ciascuno e la sottomissione di tutti alla volontà generale. Nell’Emilio (1762) e nella Nuova Eloisa (1761) gettò le basi della nascente sensibilità romantica, sostenendo la bontà originaria dell’uomo, spesso corrotta dalla riflessione e dalla cultura. Compose le autobiografiche Confessioni. Rove Karl Christian (1950-). Giornalista e politologo statunitense. È stato consigliere elettorale di George W. Bush nelle elezioni per la carica di governatore del Texas nel 1994 e nel 1998 e nelle campagne presidenziali del 2000 e del 2004. È stato vice-capo dello staff presidenziale fino alle sue dimissioni nell’agosto 2007. Rudinì Antonio Starabba, marchese di (1839-1908). Uomo politico della Destra Storica, fu due volte presidente del Consiglio. Si dimise nel 1898 in seguito alla repressione dei moti milanesi del maggio. Ruffilli Roberto (1937-1988). Intellettuale e uomo politico italiano. Studioso di politica costituzionale, nel 1983 fu eletto senatore nelle file della Democrazia Cristiana. Consigliere per le riforme costituzionali di Ciriaco De Mita, fu assassinato dalle Brigate Rosse il 16 aprile 1988 a Forlì.

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Rumsfeld Donald Henry (1932-). Politico, diplomatico e uomo d’affari statunitense. È stato segretario della Difesa durante la presidenza del repubblicano Gerald Ford dal 1975 al 1977 e successivamente sotto il presidente George W. Bush dal 2001 al 2006. Si dimise dall’incarico nel novembre del 2006, dopo la pesante sconfitta subita dai repubblicani nelle elezioni di medio termine. SA (Sturmabteilungen, reparti d’assalto). Formazioni paramilitari del nazionalsocialismo. Note anche come «camicie brune», furono istituite nel 1921 come servizio d’ordine del partito guidato da Hitler. Sotto la guida di Ernst Röhm, le SA divennero per Hitler uno strumento fondamentale per la sua ascesa al potere ma, divenute troppo politicizzate, Hitler le fece eliminare nella «notte dei lunghi coltelli» (30 giugno 1934). Saachašvili Michail (1967-). Giurista e uomo politico georgiano, è stato presidente della Georgia dal 2004 al 2007 e dal 2008 al 2013. È stato tra i fondatori, nel 2001, del Movimento nazionale unito, partito politico di orientamento conservatore ed europeista. Sacharov Andrei (1921-1989). Fisico russo, fu tra i costruttori della bomba H sovietica. Per il suo dissenso nei confronti del regime fu confinato nella città di Gor’kij dal 1980 al 1986. Nel 1975 gli era stato conferito il premio Nobel per la pace. Riabilitato da Michail Gorbačëv, fu tra i sostenitori della sua politica riformista. Sadat Anwar (1918-1981). Succeduto a Nasser alla presidenza della Repubblica egiziana nel 1970, dopo aver condotto la guerra contro Israele nel 1973 si aprì ad una fase di distensione culminata negli accordi di Camp David del 1978. Nello stesso anno gli fu conferito il premio Nobel per la pace. Morì in un attentato organizzato dal Jihad Islamico egiziano. Saffi Aurelio (1819-1890). Repubblicano italiano, fece parte insieme a Giuseppe Mazzini e a Carlo Armellini del triumvirato della Repubblica Romana nel 1848. Dopo la morte di Mazzini, fu il leader riconosciuto del partito repubblicano. Sagasta Práxedes Mateo (1827-1903). Uomo politico spagnolo. Liberale progressista, fu otto volte capo del governo tra il 1874 e il 1902, alternandosi con il conservatore Canovas del Castillo. Sotto la sua presidenza scoppiò la guerra ispano-americana (1898), conclusasi con una pesante sconfitta per la Spagna. Saint-Simon Claude Henri de (1760-1825). Filosofo francese, discepolo di Condorcet, elaborò una teoria dell’evoluzione sociale in cui si affermava che il perno della società erano i produttori e pertanto ad essi doveva essere attribuito anche il potere politico. Salandra Antonio (1853-1931). Uomo politico liberale fu più volte ministro. Presidente del Consiglio dal 1914 al 1916, portò l’Italia nella Prima guerra mondiale a fianco dell’Intesa, dopo la firma del Patto di Londra. Inizialmente favorevole ad affidare il governo a Mussolini nel 1922, ne prese le distanze nel 1925 dopo l’approvazione della legge sul capo del governo. Salazar António de Oliveira (1889-1970). Guidò il Portogallo dal 1932 fino alla morte, assumendo poteri dittatoriali. Nel 1933, dopo aver abrogato la Costituzione, fece approvare con un plebiscito l’Estado nuo­

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vo, l’ordinamento che sanciva il suo regime autoritario e corporativo secondo una matrice ispirata al paternalismo sociale cattolico. Saleh Ali Abdallah (1942-). Già presidente sciita dello Yemen del Nord dal 1978 al 1990, è stato il primo presidente dello Yemen riunito. È rimasto in carica dal 22 maggio 1990 al 27 febbraio 2012, quando ha abbandonato il paese a fronte delle rivolte della «primavera araba» yemenita. Salisbury Robert Arthur Talbot Gascoyne Cecil, marchese di (1830-1903). Uomo politico britannico. Deputato conservatore dal 1853, divenne leader del partito nel 1881 e fu primo ministro nel 1885, succedendo in entrambe le cariche a Disraeli; fu a capo del governo anche dal 1886 al 1892 e a partire dal 1887 assunse anche gli Esteri. Teorizzatore dello «splendido isolamento» britannico, dovette fronteggiare il deterioramento delle relazioni internazionali causato dalla competizione coloniale. Sconfitto dai liberali nel 1892, tornò al potere dal 1895 al 1902, detenendo ancora gli Esteri fino al 1900. Vinse la guerra contro i boeri (1899-1902), dimettendosi dopo la firma del trattato di pace. Samurai. Guerrieri giapponesi (secoli IX-XIX). Esponenti della piccola nobiltà colta di matrice feudale, appartenevano a una rigida casta. Avevano un proprio codice d’onore, in cui rientrava l’osservanza di determinati principi morali e di comportamento, e come emblema due sciabole. Saragat Giuseppe (1898-1988). Uomo politico italiano di orientamento socialista. Nel 1947, essendo contrario alla linea fusionista di Pietro Nenni che voleva mantenere l’alleanza tra socialisti e comunisti, uscì dal partito e fondò il Partito socialista dei lavoratori italiani che successivamente prese il nome di Partito socialdemocratico italiano. Nel 1964 fu eletto presidente della Repubblica. Sarkozy Nicolas (1955-). Uomo politico francese. Esponente del­ l’Union pour un mouvement populaire, si candidò alla presidenza della Repubblica nelle elezioni dell’aprile 2007, ottenendo al primo turno il 31% dei voti e battendo al ballottaggio la candidata del Partito socialista Ségolène Royal con oltre il 53% delle preferenze. È stato il primo presidente della Repubblica francese ad avere genitori di origine straniera e ad essere nato dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Candidatosi per un secondo mandato nel 2012, fu sconfitto al secondo turno dal socialista François Hollande. Saud. Dinastia saudita che fondò, nel 1932, il moderno regno del­ l’Arabia Saudita. Il sovrano del paese, che è anche capo della famiglia saudita, ha il titolo di «Custode delle Due Sante Moschee». Sauvy Alfred (1898-1990). Demografo, antropologo ed economista, nel 1945 fondò l’INED, il primo istituto di studi demografici del mondo. A lui si deve il termine «terzo mondo», coniato in riferimento ai paesi in via di sviluppo e utilizzato per la prima volta in un articolo apparso su «L’Observateur» il 14 agosto 1952. Savimbi Jonas (1934-2002). Politico e guerrigliero angolano, fondò e diresse l’União Nacional pela Independência Total de Angola (UNITA) che combatté contro il dominio coloniale portoghese. Dopo l’indipendenza ottenuta dall’Angola nel 1975, Savimbi entrò in lotta contro il Mo­ vimento Popular de Libertação de Angola (MPLA), scatenando così

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una guerra civile che è continuata, con alcune interruzioni, fino al 2002. In quell’anno morì in uno scontro con le truppe governative. Scalfaro Oscar Luigi (1918-2012). Uomo politico italiano e nono presidente della Repubblica (1992-1999). Democristiano, deputato all’Assemblea Costituente (1946), è stato più volte ministro (a partire dal 1967) e presidente della Camera (1992-1994). Scandalo Watergate (1972-75). La scoperta, da parte di due giornalisti del «Washington Post», di attività illegali da parte dell’amministrazione del presidente Nixon durante la campagna presidenziale del 1972, e il conseguente tentativo di ostacolare la giustizia da parte dello stesso presidente. La vicenda ebbe origine con l’installazione di un sistema di intercettazione telefonica nel quartier generale del Partito democratico presso il complesso residenziale Watergate a Washington, a beneficio del comitato per la rielezione di Nixon, presidente repubblicano in carica. Nixon si dimise dalla presidenza l’8 agosto 1974. Scelba Mario (1901-1991). Uomo politico italiano. Tra i fondatori della DC, fu ministro degli Interni nei governi centristi (1947-1953), distinguendosi per la repressione poliziesca delle manifestazioni politiche e sindacali. Presidente del Consiglio (1954-55), si oppose in seguito al centrosinistra. Fu senatore dal 1979. Schacht Hjalmar (1877-1970). Finanziere e politico tedesco ricoprì la carica di presidente della Reichsbank (1923-1930, 1933-1939). Aderì al nazionalsocialismo per il quale fu ministro dell’Economia (19341937). Da tale incarico venne destituito a causa di disaccordi con Hitler e Göring sulle eccessive spese militari che, secondo Schacht, avrebbero portato ad una catastrofica inflazione. Nel 1944 fu accusato di aver preso parte al complotto del 20 luglio per uccidere Hitler. Arrestato dalle SS fu internato nel campo di concentramento di Dachau, dove rimase fino all’aprile del 1945. Scheidemann Philipp (1865-1939). Uomo politico tedesco. Socialdemocratico, dopo la fine della Prima guerra mondiale proclamò la Repubblica (9 novembre 1918) e contribuì alla repressione della Lega di Spartaco. Fu il primo cancelliere della Repubblica di Weimar (febbraiogiugno 1919) e si dimise per protesta contro il trattato di Versailles. Schifani Renato (1950-). Uomo politico italiano, è stato senatore di Forza Italia dal 1996 al 2008 e, a seguito delle elezioni del 2008, presidente del Senato della Repubblica, eletto al primo scrutinio. Nel 2013 è stato invece sconfitto, nelle elezioni per la presidenza del Senato, da Pietro Grasso. Nel novembre dello stesso anno, dopo la sospensione delle attività del Popolo della Libertà e il rilancio di Forza Italia voluto da Silvio Berlusconi, Schifani ha aderito al Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano. Schleicher Kurt von (1882-1934). Generale e uomo politico tedesco. Ministro della Difesa nel 1932, fu l’ultimo cancelliere prima dell’avvento al potere di Hitler. Fu assassinato dai nazisti nella «notte dei lunghi coltelli» del 1934. Schlieffen Alfred von (1833-1913). Feldmaresciallo tedesco, mise a punto il piano militare che porta il suo nome. In caso di conflitto franco-tedesco, le truppe tedesche avrebbero attaccato la Francia attraversando il Belgio anche se neutrale.

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Schmitt Carl (1888-1985). Filosofo e giurista tedesco, si pronunciò, diversamente da Hans Kelsen, contro lo «Stato dei partiti» venutosi a creare in Germania negli anni della Repubblica di Weimar, sostenendo che la fedeltà allo Stato poteva essere mediata solo dalla presenza di un partito unico. Per la sua collaborazione al regime nazionalsocialista di Hitler, subì la carcerazione dopo la fine della Seconda guerra mondiale e dovette lasciare l’insegnamento. Schumacher Kurt (1895-1952). Uomo politico tedesco. Presidente della SPD (1946-52), ha contribuito alla rifondazione del partito dopo la Seconda guerra mondiale. Nei primi anni della Repubblica federale fu il principale antagonista politico di Adenauer. Schuman Robert (1886-1963). Uomo politico francese. Presidente del Consiglio (1947-1948) e ministro degli Esteri (1948-1952), fu un esponente di spicco del Movimento repubblicano popolare. Padre fondatore del­l’Europa, il 9 maggio 1950 pronunciò a Parigi, su ispirazione di Jean Monnet, il famoso discorso ufficiale in cui per la prima volta si parlò dell’Europa come di un soggetto integrato economicamente e politicamente (Dichiarazione Schuman). Il suo impegno a favore dell’integrazione europea condusse nel 1951 alla costituzione della Ceca (Comunità economica del carbone e dell’acciaio). Fu primo presidente del Parlamento europeo (1958-1960). Schumpeter Joseph Alois (1883-1950). Economista austriaco, fu professore di economia nelle università di Vienna, Czernowitz, Graz e Bonn. Nel 1932 abbandonò la Germania per gli Stati Uniti. Il suo apporto più originale agli studi economici riguarda la teoria dello sviluppo che Schumpeter, nel volume Teoria dello sviluppo economico (1912), ricollegava alle modificazioni apportate da imprenditori innovatori. Sciiti. Musulmani seguaci della corrente dell’islam che si distingue da quella dei sunniti per origini e concezione teologica. Il termine indicava originariamente i seguaci della fazione (shiah) di Alì, cugino e marito della figlia di Maometto, Fatima, e quarto califfo dell’Islam, considerato come unico successore legittimo del profeta. I tre califfi precedenti, riconosciuti invece dai sunniti, e i fondatori della dinastia degli Omayyadi, detentori del califfato, sarebbero degli usurpatori. La fazione di Alì venne sconfitta e Alì ucciso nel 661. Il sapere esoterico trasmesso da Maometto sarebbe custodito dagli imam, successori del profeta e guide della comunità. Gli sciiti si dividono in ismailiti, imamiti e gruppi minori. Gli sciiti sono la confessione islamica ufficiale dell’Iran. Scintoismo o shinto. Religione nazionale del Giappone. Nata intorno al VII secolo d.C., è una forma di politeismo e di panteismo a sfondo naturalistico-animistico. Si basa sulla venerazione dei Kami, divinità coincidenti con le diverse forze spirituali in cui si manifesta il flusso di energia cosmica che dà vita all’universo. È una religione rituale priva di istanze etiche e soteriologiche. Le cerimonie scintoiste celebrano i momenti lieti della vita. Secchia Pietro (1903-1973). Uomo politico italiano. Comunista, fu condannato a 18 anni di carcere dal Tribunale speciale fascista per le sue critiche a Mussolini (1931). Liberato nel 1943 dai partigiani, fu commissario generale delle Brigate Garibaldi durante la Resistenza. Nomi-

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nato da Togliatti vicesegretario del PCI (1946-1954), fu senatore dal 1948 alla morte. Scrisse La lotta della gioventù proletaria contro il fasci­ smo (1930) e I comunisti e l’insurrezione (1954). Second comers. Con questa espressione si indicano i paesi arrivati in ritardo al processo di industrializzazione rispetto a quelli economicamente più avanzati (Inghilterra e Francia). I second comers furono protagonisti della cosiddetta seconda rivoluzione industriale che, avviatasi a partire dalla metà dell’Ottocento, conobbe il suo più alto grado di intensità e diffusione tra il 1870 e la Prima guerra mondiale. I pae­si coinvolti da questa seconda ondata di industrializzazione furono soprattutto Germania e Stati Uniti, ma anche Belgio, Giappone e Italia. Essi poterono sfruttare il relativo ritardo con cui erano giunti all’industrializzazione: meno vincolati alla tradizione, più disposti a innovazioni tecnologiche e a forme di razionalizzazione produttiva, gli imprenditori americani e tedeschi si dedicarono a settori e processi produttivi nuovi e ad attirare finanziamenti dall’estero per le proprie attività. Operarono inoltre in un clima economico segnato da ingenti processi di concentrazione industriale, dal protezionismo, da un nuovo ruolo dello Stato e da nuove forme di razionalizzazione del lavoro e di organizzazione del capitalismo. Second Reform Act. Seconda riforma elettorale inglese varata nel 1867 dal governo di Benjamin Disraeli. Raddoppiò l’elettorato con l’allargamento del suffragio agli artigiani e agli operai più agiati dei centri urbani. Seconda Internazionale. Organizzazione di coordinamento internazionale di tutti i sindacati e i partiti socialisti fondata a Parigi nel luglio del 1889. I momenti più significativi della sua attività furono le discussioni su temi come il revisionismo, il colonialismo e il problema delle nazionalità, la lotta contro la guerra e l’eventuale utilizzazione dello sciopero generale. Al centro del suo programma vi fu la necessità di costrui­re partiti politici proletari che, pur evitando accordi con i partiti cosiddetti «borghesi», accettassero il parlamentarismo e se ne servissero per migliorare la legislazione sociale e le condizioni di vita delle masse lavoratrici. Il marxismo divenne la dottrina ufficiale dell’organizzazione. Dopo i congressi di Bruxelles (1891), Zurigo (1893), Londra (1896), Parigi (1900), Amsterdam (1904), a Stoccarda nel 1907 la corrente rivoluzionaria guidata da G. Hervé, Rosa Luxemburg e Lenin, contrari a ogni patriottismo, si scontrò con l’ala moderata guidata da Bebel e Vollmar, capi della socialdemocrazia tedesca, che in caso di guerra si proclamavano decisi a difendere la Germania. Lo scoppio della Prima guerra mondiale ebbe come conseguenza la fine della Seconda Internazionale poiché prevalsero, nella maggior parte dei partiti socialisti aderenti, lo spirito patriottico su quello internazionalista e la necessità di contribuire a difendere i rispettivi paesi impegnati nel conflitto. Questa strategia condusse per esempio la socialdemocrazia tedesca a votare i crediti di guerra nel 1914. Securitate. Servizio segreto della Romania comunista. Fondata nel 1948, la Securitate fu abolita nel 1989 dopo la caduta del dittatore Nicolae Ceauşescu. Segni Mario (1939-). Uomo politico italiano. Figlio dell’ex presidente della Repubblica Antonio Segni, è stato deputato democristiano e parlamentare europeo. Nel 1992 promosse il referendum per la modifica

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della legge elettorale da proporzionale a maggioritaria. Il referendum si tenne il 18 aprile 1993 e vide la vittoria dei sì. Nel 1994 fondò il Patto Segni, che, pur critico nei confronti del centro-destra, non entrò nella coalizione di centro-sinistra. Nelle elezioni europee del 1999 il Patto Segni si presentò con Alleanza Nazionale, ma ottenne un risultato deludente. Nel 2007 è nominato coordinatore del Comitato promotore del referendum elettorale guidato da Giovanni Guzzetta. Sella Quintino (1827-1884). Uomo politico e scienziato italiano. Esponente della Destra Storica, ministro delle Finanze (1862; 1865; 1969-1973), propose una serie di drastiche misure economiche per raggiungere il pareggio di bilancio del Regno d’Italia. Predilesse le imposte indirette sui consumi, come l’impopolare tassa sul macinato (1868). Nel 1863 fondò il Club alpino italiano (Cai). Serrati Giacinto Menotti (1872-1926). Esponente del Partito socialista, apparteneva alla corrente massimalista. Nel 1924 passò al Partito comunista d’Italia. Sette sorelle. Espressione coniata da Enrico Mattei per indicare le sette più ricche società petrolifere statunitensi ed europee che controllarono, attraverso un «cartello», il mercato del petrolio fino agli inizi degli anni Settanta. In seguito alla perdita delle concessioni mediorientali il loro ruolo si indebolì. Settimana rossa. Agitazioni popolari e scioperi avvenuti in Romagna e nelle Marche soprattutto fra il 7 e il 14 giugno 1914, in seguito agli scontri verificatisi ad Ancona tra le forze dell’ordine e i manifestanti durante un comizio antimilitarista. Le agitazioni assunsero un carattere pre-insurrezionale e furono duramente represse. Sfiducia costruttiva. Istituto previsto da alcune costituzioni del dopoguerra con l’intento di rafforzare la stabilità dei governi nelle democrazie parlamentari. Consiste nell’impossibilità da parte del Parlamento di votare la sfiducia a un governo in carica se contestualmente non vota la fiducia a un nuovo governo. La sfiducia costruttiva permette a un governo che non abbia più la maggioranza di sopravvivere fino a che in seno al Parlamento non si crei una diversa maggioranza in grado di sostenere un nuovo esecutivo. L’istituto fu introdotto in Germania con la Legge fondamentale del 1949, quindi in Spagna (1978) e Belgio (1993). Sforza Carlo (1872-1952). Ministro degli Esteri dal 1919 al 1920, fu tra gli artefici del trattato di Rapallo. Dopo la Seconda guerra mondiale, fu prima presidente della Consulta e nuovamente ministro degli Esteri dal 1947 al 1951. Sharon Ariel (1928-2014). Politico israeliano conservatore appartenente al Likud, la coalizione israeliana che riunisce formazioni sia di destra che di centro. Il suo nome è legato alle stragi di Sabra e Chatila, i due campi profughi palestinesi situati a Beirut, dove i miliziani della destra cristiana falangista nel 1982 compirono un massacro. Più volte ministro, nel 2001 divenne premier e la sua durissima repressione della seconda intifada portò al blocco dei negoziati di pace con i palestinesi. Nel 2005 decise il ritiro unilaterale degli israeliani dalla striscia di Gaza e promosse la costruzione di un nuovo partito, il Kadima, verso cui confluirono esponenti sia della destra che della sinistra.

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Shastri Lal Bahadur (1904-1966). Uomo politico indiano. Attivista del Partito del congresso durante la dominazione britannica, dopo la morte di Nehru (1964) fu scelto come suo successore alla carica di primo ministro. Mantenne l’incarico fino alla morte. Sherman Act. Primo provvedimento varato nel 1890 dal governo statunitense contro i monopoli e i trust. La legge prese il nome dal suo estensore, il senatore repubblicano John Sherman. Rimasta inattuata per alcuni anni, il presidente Theodore Roosevelt la impiegò poi per scindere la Northern Securities Company. Shigeru Yoshida (1878-1967). Politico giapponese, fu ambasciatore in Italia (1930-1932) e Gran Bretagna (1936-1939). Diventato capo del Partito liberale nel 1945, fu primo ministro per cinque volte tra il 1946 e il 1954. Durante la sua amministrazione venne approvata una nuova Costituzione, cessò l’occupazione statunitense e iniziò la trasformazione economica del Giappone. Shinzo Abe (1954-). Uomo politico giapponese, primo ministro eletto da una sessione speciale della Dieta Nazionale il 26 settembre 2006, si è dimesso il 12 settembre 2007, per poi essere rieletto il 26 dicembre 2012. Shogun. Capo militare giapponese cui era affidato il governo del paese (dal XII al XIX secolo). La carica, formalmente concessa dall’imperatore, indicava il supremo capo militare e la massima autorità del paese in un periodo in cui si assisteva alla graduale trasformazione dell’imperatore in una figura dall’autorità solo simbolica. Carica ereditaria, fu mantenuta sino alla caduta dei Tokugawa nel 1867. Siad Barre Mohammad (1919-1995). Uomo politico somalo. Fu dittatore della Somalia dal 1969 al 1991 in seguito a un colpo di stato. Di ispirazione marxista, instaurò inizialmente una «dittatura illuminata» che a partire dagli anni Ottanta si trasformò in un governo personale sempre più autoritario, sostenuto da un esasperato culto della personalità. Dal 1988 al 1990 represse con violenza il movimento di liberazione sviluppatosi nel nord del paese, grazie anche ai finanziamenti dell’Etiopia, in uno dei conflitti più sanguinosi della storia dell’Africa. Fu destituito nel 1991 dai movimenti di liberazione e costretto all’esilio. Sicilia - regione a statuto speciale. Il primo statuto speciale fu concesso alla Sicilia il 15 maggio 1946 con il decreto regio n. 415. Emesso dal re Umberto II, lo statuto diede vita alla regione siciliana ancora prima della nascita della Repubblica italiana. Fu originato da un accordo tra lo Stato italiano e la Sicilia, rappresentata dalla Consulta per la Sicilia, composta da rappresentanti dei partiti, delle istituzioni e delle parti sociali, che elaborò lo statuto. L’autonomismo garantito alla Sicilia fu un modo per neutralizzare il forte movimento indipendentista siciliano che lottava, anche militarmente (Esercito volontario per l’indipendenza siciliana, EVIS), per la separazione dell’isola dallo Stato italiano. Sieyès Emmanuel (1748-1836). Fu, alla vigilia della Rivoluzione francese, il teorico dei diritti del «Terzo Stato», ovvero la borghesia, che espresse nel saggio Che cos’è il Terzo Stato?. Ebbe un ruolo attivo nella fase iniziale della Rivoluzione, avviando il processo che portò alla convocazione dell’Assemblea Costituente.

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Sikh. Il termine letteralmente significa «discepolo». Il sikhismo è una religione scaturita dai conflitti tra induismo e islamismo. I seguaci del sikhismo sono dislocati in India ed in prevalenza nella regione del Punjab. Le lotte per l’indipendenza negli anni Ottanta provocarono violenti scontri con il governo indiano, culminati nel 1984 con l’assassinio del premier Indira Gandhi per mano di estremisti sikh. Sillabo. Abbreviazione di Syllabus complectens praecipuos nostrae aetatis errores, documento emanato da Pio IX nel 1864 e pubblicato insieme all’enciclica Quanta cura. Contiene la condanna di ottanta proposizioni filosofiche ed etico-politiche: libertà di culto, di opinione e di stampa, razionalismo, relativismo, liberalismo moderno, socialismo, comunismo, ateismo, matrimonio civile, ecc. È il simbolo dell’atteggiamento di chiusura della Chiesa nei confronti delle libertà e delle idee moderne. Silvela Francisco (1843-1905). Uomo politico spagnolo conservatore. Divenne il leader del Partito conservatore nel 1897, alla morte di Antonio Canovas del Castillo. Simbolismo. Movimento letterario e artistico nato in Francia alla fine del XIX secolo. In opposizione al naturalismo di stampo positivistico e all’impressionismo, sosteneva una forma artistica che evocasse, attraverso l’uso di immagini-simbolo ricche di mistero, intuizioni, sensazioni, stati d’animo. Operava quindi una smaterializzazione della poesia mirante a sottrarla ai condizionamenti e ai limiti realistici sia nei temi sia nei mezzi espressivi. Nel 1886 fu pubblicato il Manifesto del simbolismo a cura di Jean Moréas. Il modello cui il simbolismo si richiamò fu Baudelaire e la sua polemica anti-parnassiana, mentre i suoi esponenti più significativi furono Mallarmé, Verlaine, Rimbaud, Valéry. Nel campo delle arti figurative il padre del simbolismo è Odillon Redon (1840-1916). Sincronizzazione. In tedesco Leichschaltung, termine usato per descrivere il processo realizzato dal regime nazionalsocialista per esercitare un controllo totale sull’individuo attraverso il coordinamento di tutti gli aspetti della vita sociale, politica, amministrativa, economica dello Stato. Sinistra. In ambito politico il termine designa la componente del Parlamento che siede alla sinistra del presidente dell’Assemblea. Più in generale, identifica quelle forze politiche che perseguono programmi di stampo progressista. Nel corso del Novecento il concetto di Sinistra ha ricompreso forze politiche dalle posizioni ideologiche diversamente graduate: dalla visione riformista propria della socialdemocrazia a quella rivoluzionaria propugnata dal comunismo. Sinistra extraparlamentare. Espressione utilizzata per indicare l’insieme delle formazioni e dei gruppi politici di estrema sinistra che rifiutano le istituzioni rappresentative delle democrazie occidentali. Al rifiuto della dialettica e del metodo parlamentare si accompagna l’azione politica diretta con l’obiettivo di far maturare le condizioni necessarie per una radicale trasformazione politico-sociale (rivoluzione). In Italia la sinistra extraparlamentare visse una stagione particolarmente intensa negli anni Settanta, quando i gruppi politici di estrema sinistra nati dalle lotte operaie e studentesche della seconda metà degli anni Sessanta divennero i principali animatori del movimento di contestazione giovani-

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le. Fra le più importanti organizzazioni vi furono Lotta continua, Potere operaio, Autonomia operaia. Sinistra Storica. Espressione con cui si indica il raggruppamento politico italiano, di matrice liberale progressista, avversario della Destra Storica, che governò dal 1876 al 1896. Di matrice mazziniana, democratica e garibaldina, assunse il potere nel marzo del 1876 sotto la guida di Agostino Depretis. Espressione della media borghesia possidente, lottò per l’ampliamento del suffragio (raggiunto nel 1882), per il decentramento amministrativo, per l’istruzione elementare gratuita e obbligatoria (legge Coppino, 1877), per la riduzione del carico fiscale e per una prima legislazione sociale. La fase riformatrice si concluse nel 1882. I maggiori esponenti della Sinistra Storica furono, oltre a Depretis, Cairoli, Crispi, Nicotera e Zanardelli. Sinn Féin. Movimento nazionalista irlandese fondato nel 1902 per iniziativa del giornalista A. Griffith. Trasformatosi in partito nel 1905, fu protagonista della lotta per l’indipendenza dell’Irlanda (1921), con l’esclusione dell’Ulster. Il compromesso fu rifiutato da una minoranza che, mantenendo il nome di Sinn Féin, si radicalizzò e sostenne contro gli inglesi l’azione armata dell’IRA. Sistema elettorale delle «tre classi». Sistema per l’elezione della Camera dei deputati contemplato dalla Costituzione prussiana del 1850. Gli elettori venivano suddivisi in tre classi a seconda della capacità contributiva. La terza classe, la più bassa socialmente, contava oltre l’80% degli elettori, ma esprimeva solo un terzo dei deputati, come ciascuna delle altre due, che però raggruppavano, rispettivamente, il 4,7% e il 12,6% degli elettori. La presenza dei grandi proprietari terrieri e degli industriali determinava così la composizione politica del Parlamento. Smith Adam (1723-1790). Economista e filosofo, pubblicò nel 1776 lo studio Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, che può essere definito il primo vero trattato di economia politica. Presentò in questa sede la teoria della «mano invisibile», in base alla quale si affermava che il comportamento di ogni individuo tendente alla massimizzazione del profitto porta, al tempo stesso, al migliore risultato per l’intera collettività, in base al principio dell’uso efficiente delle risorse. Smith Ian Douglas (1919-2007). Dal 1964 al 1965 fu primo ministro della colonia britannica della Rhodesia del Sud. Nel 1965 proclamò unilateralmente l’indipendenza dalla Gran Bretagna e fino al 1979 mantenne la carica di primo ministro della Rhodesia. Dopo anni di scontri tra la popolazione di colore e il governo retto dalla minoranza bianca, nel 1979 il Lancaster House Agreement e l’elezione di Robert Mugabe a primo ministro della Rhodesia, ora rinominata Zimbabwe, portarono al governo la maggioranza di colore. Smith rimase all’interno del Parlamento fino al 1987. Soares Mário (1924-). Uomo politico portoghese. Esponente del Partito socialista portoghese, espulso più volte dal suo paese, vi fece ritorno nel 1974 alla caduta della dittatura. Primo ministro (1976-1978; 1983-1985), è stato segretario del Partito socialista, presidente della Repubblica per due mandati consecutivi (1986-96) ed europarlamentare fino al 2004.

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Socialismo della cattedra. Locuzione utilizzata per indicare una corrente dell’economia politica sviluppatasi in Germania tra il 1870 e il 1890 che, sulla scorta della Scuola storica, comprendeva una teoria dello sviluppo sociale, una dottrina della conoscenza scientifica e una pratica politico-sociale. I «socialisti della cattedra» predicavano dalle cattedre universitarie il riformismo liberale sotto il nome di socialismo. Sostenevano il ruolo di mediazione dello Stato e la necessità di un superamento del sistema della libera concorrenza. Poiché lo Stato era ritenuto superiore alle classi, esso sarebbe stato in grado di conciliare i loro contrapposti interessi attuando a poco a poco il socialismo. Era un socialismo senza rivoluzione per uno Stato, quello tedesco, in cui la società civile appariva ancora debole. Società civile. Concetto nato in concomitanza con l’affermazione dello Stato moderno come ambito non politicizzato e distinto dallo Stato, in cui agiscono gli individui «privati». Come figura intermedia tra la famiglia e lo Stato fu teorizzata per la prima volta da Hegel (1770-1831). In epoca contemporanea il concetto di società civile è sostanzialmente ricalcato sul paradigma marxiano, che la concepisce come «società borghese», ossia come luogo dei rapporti economici e privati tra individui, determinati dalla concorrenza sul mercato delle merci, e distinto in quanto tale dallo Stato come sfera dei rapporti pubblici. Società delle Nazioni. Organizzazione sovranazionale fondata nel 1919 per la conservazione della pace e della sicurezza, per la soluzione pacifica delle controversie internazionali e per la cooperazione tra gli Stati. Ideata dal presidente americano Wilson, fu il primo organismo internazionale a perseguire tali scopi nel clima pacifista seguito alla Prima guerra mondiale. Ebbe sede a Ginevra e vi aderirono cinquantotto Stati (1934). I suoi fini fallirono in più occasioni: il conflitto cino-giapponese (1931), l’invasione italiana dell’Etiopia (1935), l’aggressione nazista alla Cecoslovacchia (1938) e l’espansione tedesca agli inizi della Seconda guerra mondiale (1938-1939). Indebolita anche per la mancata adesione degli Stati Uniti e quella tardiva o solo temporanea di Germania, Giappone e Unione Sovietica, fu sciolta nel 1946 e il suo posto venne preso dall’ONU. Sokolovskij Vasilij Danilovič (1897-1968). Militare sovietico. Dal 1956 maresciallo, dal 1946 al 1949 comandante supremo delle forze armate sovietiche di stanza in Germania. Dal 1952 al 1960 membro del Comitato centrale del PCUS e capo di stato maggiore. Solidarność. Sindacato indipendente nato in Polonia nell’agosto del 1980 nel contesto dello sciopero ai cantieri Lenin di Danzica. Lech Wałesa ne fu presidente dal 1981. Le ondate di scioperi proclamati dal sindacato misero in difficoltà il governo, che tentò inizialmente una mediazione disattendendo però gli impegni presi. Di fronte al rischio di una radicalizzazione della protesta, che avrebbe potuto fornire il pretesto per un intervento sovietico, il generale Jaruzelski, eletto primo ministro nel febbraio del 1981, fece arrestare Wałesa (dicembre 1981) e proclamò la legge marziale, sciogliendo il sindacato. Passato alla clandestinità, nel 1989, con la caduta del regime comunista, Solidarność fu protagonista della transizione pacifica alla democrazia.

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Solženicyn Aleksandr (1918-2008). Scrittore russo, perseguitato dal regime sovietico per le sue idee politiche. Fu prima deportato e poi, nel 1974, costretto a lasciare l’Unione Sovietica. Nel 1970 gli venne conferito il premio Nobel per la letteratura. Tra le sue opere di denuncia del regime comunista vanno ricordate, tra le altre, Una giornata di Ivan Denisovič (1962) e Arcipelago Gulag (1973-78). Sonnino Sidney (1847-1922). Uomo politico italiano. Presidente del Consiglio del Regno (1906; 1909-1910) e ministro degli Esteri (1914-1919), stipulò con l’Intesa il Patto di Londra (1915) che porterà l’Italia a intervenire nella Prima guerra mondiale. Liberale conservatore, oppositore di Giolitti, con l’articolo Torniamo allo Statuto (1897) propose il ritorno a un’interpretazione restrittiva dello Statuto albertino, che permettesse di rafforzare l’esecutivo rispetto al Parlamento e di affrontare così la crisi di fine secolo. Partecipò come ministro degli Esteri alla Conferenza di pace di Parigi (1919) in cui rivendicò di fronte a inglesi e francesi il rispetto degli impegni assunti nei confronti dell’Italia con il trattato di Londra. Sossi Mario (1932-). Ex magistrato italiano. Pubblico ministero nel processo al Gruppo XXII ottobre, fu sequestrato dalle Brigate Rosse a Genova il 18 aprile 1974 e rilasciato il 23 maggio dello stesso anno. Sotelo Calvo José (1893-1936). Uomo politico spagnolo di tendenze monarchiche, fu ucciso nel luglio 1936, dopo cinque mesi dalle elezioni che avevano portato le forze del Fronte Popolare alla guida della Repubblica spagnola. La sua uccisione fu la scintilla che scatenò il colpo di stato del generale Francisco Franco dando avvio alla guerra civile. South-East Asia Treaty Organization (SEATO). Organizzazione di difesa nell’area del sud-est asiatico creata con il trattato di Manila (8 settembre 1954) da Australia, Filippine, Francia, Nuova Zelanda, Pakistan, Regno Unito, Stati Uniti, Thailandia, per fronteggiare la pressione politica e militare dei paesi comunisti dell’Asia. Avendo avuto scarsa efficacia nel corso della guerra del Vietnam, fu sciolta nel 1977 e sostituita con l’Asean. Soviet. Organo elettivo russo, cellula base della democrazia di massa su cui fu originariamente organizzata la struttura statale dell’URSS. Il primo soviet di operai nacque a Pietroburgo durante la rivoluzione del 1905. Risorti con la rivoluzione del febbraio 1917, i consigli di operai, soldati e contadini si svilupparono come luogo privilegiato di intervento politico delle correnti socialiste. I bolscevichi, in particolare, fondarono la loro strategia insurrezionale sull’egemonia dei soviet come strumenti di potere alternativo sia all’apparato burocratico zarista sia ai governi provvisori borghesi. Dopo la rivoluzione d’ottobre, i soviet diventarono la base del nuovo ordinamento statuale, anche se progressivamente svuotati di autonomia decisionale e sempre più direttamente condizionati dalle decisioni del Partito comunista. Spaak Paul-Henry (1899-1972). Uomo politico belga, appartenente all’area socialdemocratica, fu un convinto europeista. Collaborò insieme a De Gasperi, Adenauer, Schuman e Monnet alla costruzione del Mercato comune europeo. Spadolini Giovanni (1925-1994). Uomo politico italiano, fu segretario del Partito repubblicano dal 1979. Più volte ministro, nel 1981-1983

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fu il primo uomo politico non democristiano (dopo Ferruccio Parri nel 1945) ad essere alla guida di un governo. Nel 1987 fu nominato presidente del Senato. Spahi. Termine che designa le truppe scelte della cavalleria pesante ottomana impiegate dal sultano. I cavalieri erano in genere titolari di feudi militari detti Timar e dovevano provvedere con mezzi propri all’acquisto dell’armatura, delle armi e dei cavalli. Spaventa Silvio (1822-1893). Uomo politico e patriota italiano. Abruzzese, fratello del filosofo idealista Bertrando, fondò con Settembrini la società segreta dell’Unità italiana (1949) e fu condannato all’ergastolo (commutato poi in esilio perpetuo) da Ferdinando II di Borbone per cospirazione contro la sicurezza dello Stato. Legatosi alla fine degli anni Cinquanta a Cavour, fu deputato dal 1861 e ministro dei Lavori pubblici nel secondo governo Minghetti (1873-1876); si batté per la nazionalizzazione delle ferrovie, provocando la caduta dell’ultimo governo della Destra. Fu nominato senatore del Regno nel 1889. Spedizione dei Mille. Si svolse tra maggio e ottobre del 1860. Spedizione guidata da Giuseppe Garibaldi che liberò il Regno delle Due Sicilie, creando le condizioni per l’annessione del Mezzogiorno al Regno d’Italia. Scontratosi con i borbonici a Calatafimi (15 maggio), Palermo (30 maggio) e Milazzo (20 giugno), Garibaldi occupò Palermo il 6 giugno e Napoli il 7 settembre. Posto inizialmente sotto un governo garibaldino, il Meridione fu annesso al Piemonte (21 ottobre) in conseguenza della scelta del generale di consegnare a Vittorio Emanuele II il Regno delle Due Sicilie appena liberato (incontro di Teano, 26 ottobre 1860). Spinola Antonio (1910-1996). Militare portoghese. Assunse la presidenza della Repubblica durante la rivoluzione che, nel 1974, rovesciò il governo di Marcelo Caetano. Di sentimenti moderati, dopo il 1975 la sua linea politica si scontrò con quella promossa dal Partito comunista e fu costretto a lasciare per breve tempo il paese. Squadre d’Azione Patriottica (SAP). Formazioni combattenti partigiane attive nella guerra di Liberazione italiana. Nate nell’estate del 1944 come gruppi di 15-20 uomini ciascuna, rispondevano all’obiettivo di allargare la base di partecipazione popolare alla Resistenza. Inizialmente impegnate in azioni di sabotaggio, divennero presto formazioni di alto profilo militare e di pari livello rispetto ai GAP (Gruppi di Azione Patriottica). SS (Schutzstaffeln, squadre di protezione). Formazioni paramilitari del Partito nazionalsocialista create nel 1925 e comandate dal 1929 da H. Himmler. Fino al 1934 erano inquadrate nelle file delle SA, mentre dopo la decapitazione di queste, le SS videro accresciuto il proprio ruolo nel partito e nel paese. Nel regime nazista ebbero compiti di polizia, mentre durante la guerra furono creati i corpi delle Waffen SS, che reclutavano volontari nei territori occupati ed erano utilizzate come unità di combattimento. Stalin Josif [Josif Vissarionovič Džugašˇvili] (1878-1953). Succeduto a Lenin nella guida del Partito comunista sovietico e dell’URSS, è passato alla storia come uno dei dittatori più feroci di tutti i tempi. Sostenitore della costruzione del comunismo in un paese solo, ha perseguito il suo obiettivo eliminando progressivamente tutti gli oppositori e cir-

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condandosi solo di collaboratori disposti ad assecondarlo in ogni sua volontà. Alimentò nel paese il culto per la sua persona, avviando al contempo una politica del terrore verso qualsiasi dissenso. Starace Achille (1889-1945). Segretario del Partito nazionale fascista dal 1931 al 1939 e successivamente capo di stato maggiore della Milizia volontaria per la Sicurezza Nazionale dal 1939 al 1941. Venne fucilato dai partigiani. Stasi. Abbreviazione di Ministerium für Staatssicherheit, ministero per la sicurezza dello Stato. Fu la principale organizzazione di sicurezza e spionaggio della DDR. Guidata a partire dal 1955 da Erich Mielke, arruolò migliaia di cittadini tedeschi, soprattutto all’est ma anche all’ovest, per svolgere attività spionistiche nei confronti dei loro concittadini, contribuendo a creare un clima generalizzato di terrore e sospetto. Dopo la caduta del Muro di Berlino fu preso d’assalto il quartier generale della Stasi a Berlin-Lichtenberg. Nel 1991 il Parlamento tedesco licenziò una legge che permise l’accesso a tutti i dossier della Stasi. Statuto dei lavoratori. Legge italiana del 1970 che tutela i diritti dei lavoratori subordinati nelle aziende con oltre 15 dipendenti. Elaborata dai socialisti Giacomo Brodolini e Gino Giugni, ma frutto di aspre lotte sindacali, prevede il rispetto della dignità personale del lavoratore e della dialettica sindacale e il riconoscimento degli accordi sottoscritti dai sindacati più rappresentativi. Stauffenberg Claus Schenk von (1907-1944). Colonnello della Weh­ rmacht, ebbe un ruolo di primo piano nell’attentato alla vita di Adolf Hitler compiuto il 20 luglio 1944. La bomba collocata in una valigetta, pur esplodendo, per una serie di circostanze fortuite non provocò la morte di Hitler. Arrestato insieme agli altri ufficiali cospiratori, venne fucilato la notte stessa. Stepinac Alojzije (1898-1960). Arcivescovo di Zagabria e primate di Jugoslavia, nel 1945 il governo comunista retto da Tito lo accusò di avere collaborato con i fascisti croati di Ante Pavelić e lo condannò ai lavori forzati, tramutati dopo cinque anni in confino nella città natale di Krašič. Nel 1953 la sua nomina a cardinale provocò la rottura dei rapporti tra il Vaticano e la Jugoslavia. Stevens Christopher (1960-2012). Ambasciatore statunitense. Collaboratore del ministero degli Esteri dal 1991, nel 2011 ottenne la carica di ambasciatore in Libia. Rimase ucciso l’11 settembre 2012 durante un attacco al consolato americano di Bengasi ad opera di un gruppo di terroristi islamisti. Stinnes Hugo (1870-1924). Industriale tedesco, fu tra i fondatori del Partito popolare tedesco (DVP). Magnate dell’acciaio, dopo la Prima guerra mondiale arrivò a controllare anche diversi organi di stampa, canale che gli permise di condurre una violenta campagna contro il trattato di Versailles. Stolypin Pëtr Arkadevic (1862-1911). Uomo politico russo. Primo ministro della Russia zarista (1906-1911), fu autore di una riforma agraria (1911) che attraverso la dissoluzione delle comunità rurali di villaggio mirava a creare una classe di contadini proprietari della terra. Antirivoluzionario, morì vittima di un attentato.

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Strategic Arms Limitation Talks (SALT I). Negoziato per la limitazione delle armi strategiche, fu firmato a Mosca dal presidente statunitense Richard Nixon e dal segretario generale del PCUS Leonid Brežnev il 26 maggio 1972. Realizzava uno stop parziale nella corsa agli armamenti. Strategic Arms Limitation Talks (SALT II). Negoziato per la limitazione delle armi strategiche, fu firmato a Vienna dal presidente statunitense Jimmy Carter e dal segretario generale del PCUS Leonid Brežnev. Riconosceva la parità nucleare tra le due superpotenze. Strategic Defence Initiative. Nota anche come «scudo spaziale», fu proposta dal presidente Ronald Reagan nel 1983 come sistema di protezione e difesa da attacchi missilistici con testate nucleari. Stresemann Gustav (1878-1929). Uomo politico tedesco. Nel 1903 entrò nel Partito nazional-liberale e fu deputato al Reichstag nel 19071912 e nel 1914-1918. Dopo la fine della Prima guerra mondiale, fu tra i fondatori del Partito popolare tedesco, membro dell’Assemblea Costituente di Weimar e deputato al Reichstag dal 1920 fino alla morte. Nel mezzo della crisi della Ruhr del 1923, venne nominato cancelliere alla guida di una «grande coalizione» sostenuta dalla SPD, dal Zentrum e dai democratici. Pose fine alla resistenza passiva nella regione, sciolse i governi a partecipazione comunista della Sassonia e della Turingia, represse l’insurrezione comunista ad Amburgo (ottobre 1923), ma contemporaneamente tenne testa anche all’offensiva dell’estrema destra, facendo reprimere il tentato colpo di stato di Hitler del novembre 1923. Alla fine dell’anno, dopo la rottura della «grande coalizione», si dimise da cancelliere e divenne ministro degli Esteri. In questa carica, mantenuta fino al 1929, Stresemann operò al fine di conciliare la Germania con le altre potenze europee e rivedere con mezzi pacifici le dure condizioni imposte al suo paese dal trattato di Versailles. Sturzo Luigi (1871-1959). Fondatore del Partito popolare italiano nel 1919, ne fu il segretario fino al 1923, quando, a causa della sua opposizione a Mussolini, fu costretto a riparare all’estero. Tornato in Italia nel 1946, aderì alla Democrazia Cristiana. Suárez Adolfo (1932-2014). Uomo politico spagnolo, fondò nel 1975 l’Unione del centro democratico (UCD). Dal 1976 al 1981 fu capo del governo dopo la fine del regime franchista. Dopo aver avviato il paese sulla strada di una compiuta democratizzazione, si ritirò dalla vita politica nel 1981. Sukarno Ahmed (1901-1970). Uomo politico indonesiano. Nel 1927 costituì il Partito nazionalista indonesiano sul modello del Partito del Congresso indiano. Nel 1945 proclamò l’indipendenza dell’Indonesia dai Paesi Bassi. Costituita la Repubblica indonesiana, Sukarno ne divenne il primo presidente, carica che mantenne fino al 1965. Nel 1955 fu tra i promotori della Conferenza di Bandung. SulaymānʿUmar (1936-2012). Responsabile dei servizi segreti egiziani dal 1993 al 2011, sotto la presidenza di Hosni Mubarak. Nominato vicepresidente della repubblica dallo stesso Mubarak, il 29 gennaio 2011, mentre era in corso la rivolta di piazza Tahrir a Il Cairo, dopo la caduta del regime di Mubarak e la vittoria del partito Libertà e Giusti-

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zia alle parlamentari del 2011-2012, si è trasferito negli Stati Uniti, dove è morto nel luglio del 2012. Sun Yat-sen (1866-1925). Uomo politico cinese. Fondatore del Guomindang, dopo la rivoluzione del 1911-1912 fu eletto presidente della Repubblica. La fragilità delle nuove istituzioni, l’opposizione dei militari e dei proprietari terrieri lo costrinsero alle dimissioni a favore di Yuan Shikai. Nel 1923 alla guida del Guomindang organizzò a Canton un governo rivoluzionario e, con l’appoggio dell’Unione Sovietica e dei comunisti cinesi, ne fece il centro della lotta armata contro il governo di Pechino. Sunniti. Corrente maggioritaria ortodossa dell’islam, caratterizzata da una tradizione rituale e dottrinale diversa da quella degli sciiti. Il nome deriva dalla sunna, la tradizione più antica di norme, stabilita sulla base della condotta e dei detti di Maometto, conosciuti come hadith e considerati, insieme al Corano, le fonti principali del diritto islamico. La differenza fondamentale rispetto agli sciiti riguarda la presenza e il ruolo della gerarchia religiosa. I sunniti riconoscono l’autorità religiosa solamente alla comunità dei fedeli. Taft-Hartley Act. Legge ufficialmente denominata Labor-Manage­ ment Relations Act (legge sulle relazioni tra lavoratori e impresa), fu presentata nel 1947 da due esponenti del Partito repubblicano, il senatore dell’Ohio Robert A. Taft e il deputato del New Jersey Fred A. Hartley, allo scopo di eliminare molti privilegi acquisiti dai sindacati durante la Seconda guerra mondiale. Il provvedimento, pur riconoscendo il diritto alla contrattazione collettiva, sancì il diritto del lavoratore a non iscriversi ad alcun sindacato. Inoltre mise fuori legge i cosiddetti closed shop, ovvero le aziende che per contratto assumevano solo personale sindacalizzato. Introdusse limitazioni al diritto di sciopero e ridusse drasticamente i contributi federali ai sindacati. Taiping. Componenti di una setta, la «società degli adoratori di Dio», creata nel 1847 da Hong Xiuquan, un intellettuale della provincia cinese bocciato convertito al cristianesimo. Tra il 1851 e il 1864 i Taiping furono protagonisti di una estesa rivolta contadina in una Cina sconvolta dalle guerre dell’oppio. Intenzionati a riportate il paese all’antico prestigio, proclamarono uno Stato indipendente, il «Regno Celeste della Grande Pace» con capitale Nanchino, nel quale la popolazione, riunita in gruppi familiari, viveva in comunione di beni. La repressione imperiale nei confronti di questa esperienza radicale in cui il commercio privato era stato abolito ebbe la meglio nel 1864 quando, terminata la seconda guerra dell’oppio, inglesi e francesi portarono il loro aiuto al governo di Pechino. Talleyrand Charles Maurice de (1754-1838). Diplomatico francese, al servizio di Napoleone I fino alla sua caduta, si adoperò poi per il ripristino della monarchia dei Borbone. Prese parte al Congresso di Vienna, sostenendo il principio di legittimità. Con la sua azione riportò la Francia nel novero delle grandi potenze europee. Tambroni Fernando (1901-1963). Uomo politico appartenente alla Democrazia Cristiana, fu presidente del Consiglio nel 1960. La sua decisione di permettere al Movimento sociale di tenere il proprio congresso a Genova suscitò una forte ondata di proteste in tutto il paese e Tambroni fu costretto a dimettersi nel luglio 1960.

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Tangentopoli. Termine utilizzato dalla stampa italiana per identificare il fenomeno corruttivo di vaste proporzioni che investì il mondo politico e imprenditoriale nei primi anni Novanta del Novecento. Fenomeno emerso grazie alla corposa inchiesta «mani pulite» che la Procura della Repubblica di Milano avviò in seguito all’arresto dell’esponente socialista e presidente del Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa, il 17 febbraio 1992. Conseguenza politica di quelle indagini fu la scomparsa di due dei principali partiti storici della Repubblica: la Democrazia Cristiana e il Partito socialista italiano. Taylor Charles (1948-). Uomo politico liberiano e presidente della Liberia dal 1997 al 2003. Riuscì a farsi eleggere alla presidenza seminando violenze e terrore e durante il suo mandato presidenziale, coinvolto nella guerra civile della Sierra Leone, fu accusato di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. In patria, l’opposizione al suo regime crebbe fino a far scoppiare, nel 1999, la seconda guerra civile liberiana. Rassegnò le dimissioni nel 2003 anche a seguito delle forti pressioni internazionali. Taylor Frederick Winslow (1856-1915). Ingegnere ed imprenditore statunitense, elaborò una teoria per migliorare l’efficienza della produzione (taylorismo) attraverso una precisa riorganizzazione del lavoro. Secondo questa teoria la scomposizione del lavoro in più fasi, tali da poter assegnare ad ogni singolo operaio un’unica semplice operazione ripetitiva, avrebbe consentito di massimizzare la capacità produttiva per singolo addetto. Teologia della Liberazione. Scuola di pensiero nata in America Latina alla fine degli anni Sessanta in occasione della Conferenza episcopale latinoamericana di Medellìn (1968). A coniare l’espressione fu Gustavo Gutiérrez, sacerdote peruviano che nel 1973 pubblicò un volume dal titolo Historia, Política y Salvación de una Teología de Liberación. Cuore di questa riflessione teologica è la lotta in favore dei più poveri, dei diseredati del subcontinente americano da parte di una Chiesa maggiormente impegnata nel sociale. A rendere, però, difficile l’opera dei fautori della Teologia della Liberazione contribuì, negli anni Settanta, il diffondersi in molti Paesi dell’America Latina di dittature militari duramente repressive. Terracini Umberto (1895-1983). Dopo aver aderito nel 1912 al Partito socialista italiano, nel 1919 fu tra i fondatori de «L’Ordine nuovo», il foglio diretto da Antonio Gramsci. Fu quindi tra i padri fondatori del Partito comunista d’Italia (dal 1943 Partito comunista italiano). Incarcerato dal regime fascista, nel 1928 fu condannato a ventidue anni di prigione. Mandato al confino a Ponza e Ventotene, nel 1939 venne espulso dal partito per le sue posizioni critiche nei confronti dello stalinismo: in particolare, condannò l’alleanza tra Hitler e Stalin. Nel 1943, tornato in libertà, partecipò alla Resistenza e rientrò nel PCI. Eletto all’Assemblea Costituente, nel 1947 ne divenne presidente. Nel 1948 fu nominato senatore. Terre irredente. Locuzione che sta ad indicare l’aspirazione di un popolo a completare la propria unità territoriale, in base all’identità etnica o ad un precedente storico, portando all’interno dei propri confini territori sottoposti al dominio di un’altra nazione. Venne usata per la

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prima volta in Italia dal romanziere e uomo politico Matteo Renato Imbriani, nel 1877, auspicando l’unione all’Italia del Trentino e della Venezia Giulia, rimaste ancora sotto la dominazione austriaca dopo la fine delle guerre risorgimentali. Territorio libero di Trieste. Stato neutrale costituito dalla città di Trieste e da una ristretta fascia di territorio nella parte settentrionale dell’Istria, creato in seguito al trattato di pace del 19 febbraio 1947. Includeva due zone ben distinte: la «zona A», comprendente Trieste e la fascia costiera da Duino ad Albaro Vescovà, sotto amministrazione angloamericana, e la «zona B», che comprendeva la parte nord occidentale dell’Istria, sotto amministrazione jugoslava. Con l’accordo del 5 ottobre 1954, la «zona A» ritornò a far parte del territorio italiano, mentre la «zona B» fu assegnata definitivamente alla Jugoslavia. Tesi di Aprile. Programma politico presentato da Lenin, il 4 aprile 1917, alla conferenza del Partito bolscevico. Comprendendo che la situazione interna alla Russia era estremamente turbolenta e potenzialmente rivoluzionaria, Lenin, rientrato in patria dall’esilio svizzero, si affrettò a comunicare ai bolscevichi un programma che gli avrebbe permesso di porsi immediatamente come «Avanguardia del proletariato» per prendere il potere e attuare la transizione al socialismo. In sintesi, secondo le Tesi di Aprile, il proletariato avrebbe dovuto abbattere il governo provvisorio, di stampo borghese, trasferendo tutto il potere ai soviet. I contadini avrebbero dovuto ribellarsi ai grandi latifondisti occupandone le terre. Mentre la guerra doveva essere fermata per arrivare ad un accordo di pace senza profitti né perdite. Nelle stesse tesi Lenin propose anche che il partito cambiasse nome: da frazione bolscevica del Partito socialdemocratico russo in Partito comunista russo, in modo da differenziarsi del tutto dalla Seconda Internazionale. Testatico. Imposta personale gravante sulle persone che compongono una comunità. Sorta in epoca medioevale come forma di riconoscimento da parte del contadino della protezione del feudatario essa deriva il suo nome proprio da «testa»: a significare che era una imposta ricadente su ogni singolo individuo. Da tale imposizione erano tuttavia normalmente esenti nobili e clero, più spesso impiegati come esattori del­ l’odiato balzello. Thatcher Margaret (1925-2013). Politica britannica. Segretario del Partito conservatore (1975), fu primo ministro dal 1979 al 1990. Sostenitrice di un radicale liberismo, smantellò gran parte del Welfare State, realizzando un vasto programma di privatizzazioni e fronteggiando con durezza le opposizioni sociali e sindacali. In politica estera adottò posizioni rigidamente filoatlantiche e di sostegno al prestigio internazionale del Regno Unito che sfociarono anche nell’uso della forza (guerra delle Falkland, 1982). Thiers Adolphe (1797-1877). Uomo politico francese che collaborò negli anni Trenta con la monarchia di Luigi Filippo d’Orléans. Favorevole alla nomina di Luigi Napoleone Bonaparte alla presidenza della Seconda Repubblica, già nel 1849 prese le distanze dal principe-presidente, fu incarcerato e costretto all’esilio. Rientrato in Francia negli anni Sessanta rimase all’opposizione. Alla caduta di Napoleone III, dopo

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la battaglia di Sedan, fu posto alla guida della nascente Terza Repubblica e vi rimase fino al 1873. Third Reform Act. Riforma elettorale varata in Gran Bretagna nel 1884 dal governo Gladstone, estese il diritto di voto anche ai lavoratori delle aree rurali. Thorez Maurice (1900-1964). Uomo politico francese. Militò nelle file del Partito comunista francese e nel 1930 ne divenne segretario generale, carica che mantenne fino al 1964. Eletto deputato nel 1932 e nel 1934, promosse la strategia del Fronte Popolare in chiave antifascista. All’inizio della Seconda guerra mondiale riparò in Unione Sovietica e per questo fu condannato come disertore. Grazie ad un’amnistia, poté tornare in patria dopo la guerra e fece parte dell’Assemblea Costituente. Nel 1945-46 fu ministro della Funzione Pubblica e in seguito, fino al maggio 1947, vicepresidente del Consiglio. Timošenko Julija (1960-). Politica ucraina e leader del partito Patria, di orientamento nazionalista e conservatore. Entrata in politica nel 1996, è stata primo ministro dell’Ucraina dal 2007 al 2010, dopo aver ricoperto la stessa carica per alcuni mesi già nel 2005. Presentatasi come candidata alle elezioni presidenziali del 2010, fu battuta al ballottaggio dal suo grande rivale di sempre Viktor Janukovič. Condannata per malversazione di fondi pubblici e arrestata nel 2011, uscì di prigione tre anni dopo, a seguito della depenalizzazione del reato per il quale era stata condannata. Tirpitz Alfred von (1849-1930). Ammiraglio tedesco, ricoprì la carica di ministro della Marina dal 1897 al 1916. Fautore di una politica di potenziamento della marina, il suo disegno andò a collidere con gli interessi britannici sui mari. Tiso Jósef (1887-1947). Sacerdote cecoslovacco, negli anni tra le due guerre entrò a far parte del Parlamento e poi del governo del suo paese. Quando l’esercito tedesco invase la Cecoslovacchia e annetté Boemia e Moravia alla Germania, divenne presidente del Consiglio della Repubblica slovacca affiancandola agli Stati dell’Asse. Al termine della Seconda guerra mondiale fu accusato di tradimento e condannato a morte. Tito [Broz Josip] (1892-1980). Capo della resistenza comunista jugoslava, dopo aver partecipato insieme ai paesi dell’area socialista alla fondazione del Cominform, nel 1948 prese le distanze da Mosca, favorevole alla costruzione di un socialismo nazionale che mantenesse una propria indipendenza da Stalin. I rapporti con l’URSS si riallacciarono dopo la morte di Stalin, quando lo stesso Nikita Chruščëv si recò in visita a Belgrado. Togliatti Palmiro (1893-1964). Uomo politico italiano. Tra i fondatori del Partito comunista d’Italia nel 1921, fu esule in Unione Sovietica durante il fascismo. Tra i più importanti dirigenti del movimento comunista internazionale, rientrò in Italia dopo la caduta del fascismo e promosse la «svolta di Salerno» (1944) con cui abbandonava la pregiudiziale repubblicana ed entrava nel governo di unità nazionale di Badoglio con lo scopo di liberare l’Italia dal nazifascismo. Segretario del PCI dal 1944 alla morte, nel 1947 fu estromesso dal primo governo De Gasperi e nel 1948 subì un attentato. Dando prova di responsabilità politica, invitò i militanti comunisti alla moderazione, scongiurando

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così lo scoppio di una guerra civile. Nel Memoriale di Jalta del 1964 teorizzò le «vie nazionali al socialismo». Tommaseo Niccolò (1802-1874). Scrittore e patriota italiano. Membro del governo della Repubblica di Venezia (1948-49), fu costretto all’esilio di Corfù dopo la caduta della Repubblica. Critico nei confronti dell’unificazione italiana sotto i Savoia, rifiutò la nomina a senatore del Regno. Fu autore di un Dizionario della lingua italiana (1879) e del romanzo Fede e bellezza (1840). Trade Unions. Prime forme di organizzazione sindacale di mestiere, sorsero in Gran Bretagna nel 1824 con il preciso intento di rendere meno gravose le condizioni di lavoro e di vita degli operai specializzati, il cui numero era lievitato in seguito alla rivoluzione industriale. Il coordinamento tra le principali unioni di settore avvenne nel 1868 con la nascita del Trade Union Congress (Tuc). Il loro riconoscimento ufficiale da parte del governo avvenne però solo nel 1871. Lo sciopero dei portuali londinesi del 1889 segnò invece la nascita di un «unionismo» interessato ad organizzare anche i lavoratori meno qualificati. L’esigenza di riforme e di sostegno all’azione sindacale spinse, al volgere del secolo, alla costituzione del Labour Party (Partito laburista), che mantenne una linea politica gradualista e riformista. Trasformismo. Pratica politica volta ad annullare la tradizionale dialettica tra maggioranza e opposizione all’interno del Parlamento. In Italia, si diffuse a partire dal 1882 per opera di Agostino Depretis, leader della Sinistra e presidente del Consiglio, il quale diede vita con l’ala moderata della Destra guidata da Marco Minghetti ad un ampio schieramento centrista in grado di emarginare le estreme reazionarie e radicali dei due raggruppamenti. Una scelta che però produsse in breve tempo un immobilismo della politica italiana e il montare di forme sempre più esasperate di clientelismo, finalizzate a garantire al centro l’appoggio più ampio. Il trasformismo, iniziato con Depretis, continuò con i governi di Crispi e Giolitti assumendo sempre più una connotazione negativa, in quanto strettamente legato a fenomeni di corruzione e scarso coinvolgimento dell’opinione pubblica nella vita politica del paese. Trattati ineguali. Accordi siglati da alcuni paesi dell’Asia orientale con le potenze occidentali, tra XIX e inizio del XX secolo. In quel periodo le nazioni asiatiche si dimostrarono incapaci di opporsi alle pressioni economiche, ma ancor prima militari, delle nazioni straniere. In particolare, a subire l’imposizione di accordi commerciali con l’Occidente fu la Cina. Al termine della prima guerra dell’oppio, essa fu infatti costretta a firmare con la Gran Bretagna il trattato di Nanchino (1842), cui seguirono altri trattati con altre potenze, tra le quali anche Russia e Giappone. Questi accordi stabilirono a favore delle nazioni occidentali l’apertura o la cessione di porti cinesi, l’esenzione fiscale delle merci in transito, la extraterritorialità dei loro cittadini. Molti di questi accordi punitivi per la Cina vennero abrogati solo durante la Seconda guerra mondiale, quando la Repubblica cinese, entrata nel gruppo dei paesi vincitori, ottenne un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Trattato di Maastricht. Accordo siglato il 7 febbraio 1992 nella cittadina olandese di Maastricht dai dodici paesi componenti la Comunità

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europea. Entrato in vigore il 1° novembre 1993, il trattato ha introdotto nuove forme di collaborazione tra gli Stati membri, in particolare, nel­ l’ambito della difesa, della giustizia e degli affari interni. La nuova struttura nata nel 1992, ovvero l’Unione europea, segnò l’inizio di un passo concreto verso l’unione economica e monetaria del Vecchio Continente, basata su un’unica autorità monetaria, la Banca Centrale Europea, e sulla circolazione di un’unica moneta, alla quale il Consiglio europeo di Madrid del 1995 attribuì il nome di euro. Tremonti Giulio (1947-). Avvocato, accademico e uomo politico italiano. È stato più volte ministro dell’Economia e delle Finanze nei governi di Silvio Berlusconi e vicepresidente del Consiglio nel 2005-2006. Vicepresidente di Forza Italia dal 2004 fino allo scioglimento del partito, nel 2009, ha lasciato il Popolo della Libertà nel 2012 per fondare il movimento 3L (Lista Lavoro e Libertà). Triplice Alleanza. Intesa militare di carattere difensivo firmata a Vienna, il 20 maggio 1882, da Austria-Ungheria, Germania e Italia. Essa prevedeva il reciproco aiuto fra le tre nazioni in caso una di esse fosse stata attaccata dall’esterno. Tale accordo, stipulato chiaramente in ottica antifrancese, permise alla Germania di Bismark di completare il proprio sistema di alleanze in Europa e all’Italia di uscire dal proprio isolamento ancor più pericoloso dopo la nascita del protettorato francese sulla Tunisia (1881). Benché rinnovata più volte, la Triplice Alleanza fu minata fin dall’inizio dai contrasti tra Italia e Austria per la questione delle terre irredente (Trentino e Venezia Giulia) e a causa della politica espansionistica degli Asburgo nei Balcani. Non a caso, allo scoppio della Prima guerra mondiale, l’Italia poté rivendicare il carattere difensivo dell’accordo per non intervenire immediatamente nel conflitto. Trockij Lev (1879-1940). Uomo politico sovietico. Esponente di spicco del bolscevismo, ebbe un ruolo di primo piano nella Rivoluzione bolscevica. Fu Commissario del popolo alla Guerra e firmò la pace di Brest-Litovsk (1918). Creò l’Armata Rossa, che sotto la sua guida vinse la guerra civile (1918-1921). Entrò in contrasto con Stalin, contro la cui concezione del «socialismo in un solo paese» sostenne la teoria della «rivoluzione permanente», come recita il titolo di un suo libro del 1930. Espulso dal partito nel 1927, continuò la lotta contro lo stalinismo dall’esilio e pubblicò La rivoluzione tradita (1937). Fondò la Quarta Internazionale (1938) su posizioni antistaliniste. Condannato a morte in contumacia ai processi di Mosca (1936), nel 1937 si stabilì a Città del Messico, dove fu assassinato dai sicari di Stalin. Truman Harry Spencer (1884-1972). Uomo politico statunitense, esponente del Partito democratico. Eletto senatore nel 1935, fu vicepresidente di Franklin Delano Roosevelt e alla sua morte, il 12 aprile 1945, gli subentrò alla presidenza. Nel dopoguerra fu il promotore della dottrina del containment finalizzata a contenere l’espansionismo sovietico; in questo quadro appoggiò i governi di Grecia e Turchia contro le pressioni comuniste e promosse il Piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa. Trust. Figura giuridica perfezionata nei paesi di common law che prevede una organizzazione economica con personalità giuridica nella quale interagiscono almeno tre soggetti: il disponente (trustor) indivi-

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dua un gestore (trustee) e gli affida la gestione di determinati beni mediante un rapporto strettamente fiduciario e quest’ultimo ha piena facoltà di disporre dei beni in oggetto senza l’autorizzazione del disponente, ma solamente rispettando le direttive contenute nel mandato e comunque a vantaggio del beneficiario. Tsipras Alexīs (1974-). Uomo politico greco e leader di Syriza, partito di orientamento socialista. Candidato per il Partito della sinistra Europea alla presidenza della Commissione europea prima delle elezioni europee del 2014, alle elezioni politiche greche del 25 gennaio 2015 il movimento da lui guidato, Syriza, ha ottenuto il 36,34% dei voti e 149 seggi. Il giorno successivo è diventato primo ministro della Grecia. A seguito del referendum popolare sulle misure economiche imposte alla Grecia dai creditori internazionali e ai contrasti con alcuni dei suoi ministri e degli esponenti di Syriza, si è dimesso nell’agosto del 2015. Uscito vincitore dalle successive elezioni di settembre, ha formato un secondo esecutivo. Tudjman Franjo (1922-1999). Uomo politico croato. Già appartenente al Partito comunista, fondò il Partito nazionalista e guidò la Croazia verso l’indipendenza. Nel 1990 fu eletto alla presidenza della Repubblica, carica a cui venne riconfermato nel 1992 e nel 1997. Tupamaros. Movimento rivoluzionario d’ispirazione marxista sorto in Uruguay nel 1962 allo scopo di instaurare nel paese un regime socialista. Specializzato in guerriglia urbana, derivò il suo nome dall’ultimo imperatore inca Tupac Amaru. Si sciolse nel 1984, in seguito al ritorno della democrazia nel paese. Turati Filippo (1857-1932). Tra i fondatori nel 1892 del Partito socialista, l’anno precedente aveva iniziato le pubblicazioni della rivista «Critica Sociale». All’interno del partito fu il principale interprete della corrente riformista. In seguito alla scissione socialista del 1922, fu al vertice del Partito socialista unitario. Morì esule in Francia, dove era riparato nel 1926. Turnismo pacifico. Espressione utilizzata per designare il comportamento del sovrano nella Spagna alla metà del XIX secolo. Quando il re temeva l’approssimarsi di una crisi, scioglieva governo e Camera e chiamava il leader dell’opposizione a formare il nuovo esecutivo. Il nuovo ministro degli Interni predisponeva l’encasillado (piano di composizione futura della Camera), decidendo quale sarebbe stata la composizione della nuova maggioranza, garantita poi in sede di elezione dal cacique di seggio. U Thant Sithu (1909-1974). Uomo politico e diplomatico birmano. È stato il terzo segretario generale delle Nazioni Unite (1961-1971). Uitlanders. Appellativo con il quale i boeri (coloni di origine olandese) definivano gli immigrati che a partire dal 1884 si riversarono nelle regioni del Sud Africa attrattati dalle miniere d’oro e di diamanti del Transvaal e dell’Orange. Nel 1895 gli uitlanders, in gran parte inglesi, superavano ormai di numero i membri delle antiche famiglie boere. Da qui il crescere di tensioni che sfociarono nella seconda guerra angloboera. Ulbricht Walter (1893-1973). Deputato del Partito comunista durante la Repubblica di Weimar, a causa della sua opposizione al nazismo fu costretto a fuggire in Unione Sovietica. Alla fine della Seconda guerra mondiale collaborò alla fondazione del Partito socialista unificato di

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Germania (Sozialistische Einheitspartei Deutschlands, SED) di cui fu poi segretario dal 1946 al 1971. Presidente della Repubblica democratica tedesca, dal 1960 fino alla morte, guidò le scelte politiche filosovietiche della Germania orientale che ebbero un simbolo emblematico nella costruzione del Muro di Berlino (1961). Umberto I di Savoia (1884-1900). Figlio di Vittorio Emanuele II, sposò la cugina Margherita. Divenuto re nel 1878 si distinse per il suo atteggiamento autoritario. Rafforzò i poteri della corona con leggi eccezionali, avallò l’impresa coloniale di Crispi e approvò la sanguinosa repressione dei moti popolari del 1898 premiandone l’artefice, il generale Fiorenzo Bava Beccaris, con una onorificenza. Ciò nonostante venne anche soprannominato «re buono» per essersi prodigato a fronteggiare una sciagura come l’epidemia di colera che colpì Napoli nel 1884, partecipando personalmente ai soccorsi. Fu ucciso a Monza il 29 luglio 1900 dall’anarchico Gaetano Bresci. Umberto II di Savoia (1904-1983). Figlio di Vittorio Emanuele III, sposò Maria José del Belgio. Nominato Luogotenente Generale del Regno d’Italia nel giugno 1944, il 9 maggio 1946 divenne re d’Italia, di Sardegna, di Cipro, di Gerusalemme e d’Armenia. Il suo regno si concluse poco dopo, il 13 giugno dello stesso anno; motivo per il quale fu detto «re di maggio». União Nacional para a Indipendência total de Angola (UNITA). Partito politico fondato nel 1966, ha partecipato, sotto la guida di Jonas Savimbi (1934-2002), alle guerre d’indipendenza (1961-1975) e civili (1975-2002) che per oltre quarant’anni hanno sconvolto l’Angola. Dopo la morte di Savimbi la UNITA ha abbandonato la lotta armata per partecipare alla competizione elettorale. Nelle elezioni parlamentari del 2008 ha conquistato 16 seggi su 220. Unión General de Trabajadores. Tra i più importanti sindacati spagnoli, fu fondato nel 1888 da Pablo Iglesias Posse. D’ispirazione marxista, da sempre in stretti rapporti con il Partito socialista, fino al Congresso del 1920 la lotta di classe non venne mai indicata tra le modalità dell’azione sindacale. Durante la Seconda Repubblica spagnola, sotto la guida di Francisco Largo Caballero, l’UGT radicalizzò il proprio programma superando il milione di iscritti. Ma con la vittoria di Francisco Franco nella guerra civile spagnola, il sindacato fu costretto alla clandestinità. È ritornato a svolgere pubblicamente la propria funzione alla morte del dittatore nel 1975. Unione africana. Organizzazione sopranazionale nata ufficialmente nel luglio 2002 dalla trasformazione dell’Organizzazione dell’Unità africana. Vi aderiscono 53 paesi africani e ha sede ad Addis Abeba (Etiopia). È stata creata con l’intento di accelerare l’integrazione economica e politica tra i paesi del continente, di coordinare le politiche culturali, sanitarie e scientifiche, di garantire all’Africa pace e stabilità attraverso la promozione di istituzioni democratiche e il rispetto dei diritti umani. Unione dell’Europa occidentale (UEO). Sorta a Bruxelles nel 1948 ai fini della cooperazione nei settori della difesa e della sicurezza, oggi conta 28 Stati membri. Organi dell’organizzazione sono: il Segretariato generale, il Consiglio dei ministri, l’Assemblea consultiva e l’Agenzia di

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controllo degli armamenti, che ha il compito di monitorare la produzione bellica negli Stati membri. Unione italiana del lavoro (UIL). Tra le principali confederazioni sindacali italiane, nacque il 5 marzo 1950 in seguito alla fuoriuscita dalla CGIL (sempre più legata al PCI) di sindacalisti d’ispirazione cattolica, repubblicana e socialdemocratica. Questi fondarono la CISL. A sua volta, però, dalla CISL si staccarono i socialdemocratici e i repubblicani intenzionati a dar vita ad un soggetto sindacale né filocomunista né eccessivamente confessionale, che prese il nome di Unione italiana del lavoro. Unità africana. Organizzazione internazionale fondata il 25 maggio 1963 ad Addis Abeba da 32 Stati africani usciti dalla dominazione coloniale. Scopo dell’organizzazione era quello di perseguire l’unità politica dell’Africa al di là dei confini tracciati a tavolino dalle potenze europee. Il 9 luglio 2002 è stata sostituita dall’Unione africana. UNPROFOR. Organizzazione delle Nazioni Unite istituita il 21 febbraio 1992 con il compito di «creare le condizioni di pace e sicurezza necessarie per raggiungere una soluzione complessiva della crisi jugoslava», dopo che con la deflagrazione della Repubblica federale socialista di Jugoslavia all’interno delle sue ex repubbliche si scatenarono una serie di conflitti etnici. Il suo primo impiego operativo è avvenuto in Croazia e Bosnia-Erzegovina. Ushtria Çlirimtare e Kosovës (UÇK). Nome albanese dell’Esercito di liberazione del Kosovo. Formazione guerrigliera kosovaro-albanese nata nel 1992 con il sostegno del regime comunista albanese, fu protagonista degli scontri con le forze serbe nel territorio kosovaro negli anni della dissoluzione della Jugoslavia. Con l’insediamento in Kosovo di un’amministrazione straordinaria delle Nazioni Unite, l’UÇK è stato formalmente smilitarizzato e i suoi membri inquadrati in una nuova forza di polizia. Uskorenje. In russo significa «accelerazione». Insieme ai termini gla­ snost e perestrojka, ha rappresentato lo slogan del programma riformista varato da Michail Gorbačëv nella seconda metà degli anni Ottanta. Ustascia. Termine con cui venivano indicate le popolazioni slave impegnate nella lotta contro i turchi, ripreso dal croato di Bosnia Ante Pavelić per designare, a partire dal 1929, gli aderenti al suo movimento nazionalista. Dopo l’occupazione della Jugoslavia da parte dell’esercito tedesco, il movimento di Pavelić, su posizioni filofasciste e filonaziste, creò un governo fantoccio collaborazionista in Croazia che si impegnò nella lotta contro i nazionalisti serbi e le formazioni partigiane di Tito. Vanoni Ezio (1903-1956). Esponente della Democrazia Cristiana, più volte ministro, fu artefice della riforma tributaria del 1951, con cui si avviava la denuncia unica dei redditi. Nel 1954 promosse il piano che da lui ha preso il nome, ovvero un progetto di riforma economica volto a sviluppare l’occupazione e la produzione del reddito. Vargas Getulio (1882-1954). Uomo politico brasiliano, divenne presidente della Repubblica nel 1934 e instaurò in Brasile un regime dittatoriale all’insegna del trabalhismo. Fu destituito nel 1945 in seguito ad un colpo di stato militare, ma ritornò alla guida del paese nel 1950. Deposto nuovamente dall’esercito, si suicidò nel 1954.

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Veltroni Walter (1955-). Uomo politico italiano, è stato sindaco della città di Roma nel 2001 e 2006. Eletto nel 1987 alla Camera dei deputati per il Partito comunista italiano, l’anno successivo entrò a far parte della segreteria. Nel 1992 direttore de «L’Unità», è stato tra i protagonisti della transizione al Partito democratico della sinistra e della nascita della coalizione dell’Ulivo guidata da Romano Prodi. È stato vicepresidente del Consiglio e ministro dei Beni culturali del governo Prodi e segretario dei Democratici di sinistra dal 1998 al 2001. Dal 2007 al 2009 è stato segretario del Partito democratico. Veto di velluto. Con questo termine si definisce il rifiuto posto da Charles De Gaulle alla domanda di adesione alla CEE (Comunità economica europea) presentata il 9 maggio 1967 dalla Gran Bretagna. Vietcong. Termine utilizzato dai soldati statunitensi e dai loro alleati durante la guerra del Vietnam (1957-1975) per indicare le forze armate del Fronte di liberazione nazionale (FLN) guidate da Ho Chi-minh. Il nome sarebbe il frutto di una contrazione della frase in lingua vietnamita Viê.t Nam Cô.ng Sa’ n, ovvero «comunisti vietnamiti», utilizzata dal governo del Vietnam del Sud sotto la guida di Ngo-dinh-Diem. Vietminh. Lega patriottica rivoluzionaria costituita a Nanchino da Ho Chi-minh nel maggio del 1941 per liberare il Vietnam dalla dominazione coloniale francese e dall’occupazione giapponese avvenuta durante la Seconda guerra mondiale. D’ispirazione dichiaratamente comunista, l’organizzazione, a partire dal 1943, partendo dal confine cinese penetrò in territorio vietnamita e alla fine del conflitto mondiale proclamò l’indipendenza della Repubbilca democratica del Vietnam. Iniziò così un duro scontro armato con gli occupanti che si concluse solo nel 1954 con gli accordi di Ginevra e la divisione del Vietnam in due Stati: uno comunista al nord, uno filo-occidentale al sud. Villa Pancho [Doroteo Arango] (1878-1923). Rivoluzionario messicano. Capo guerrigliero, combatté con le forze rivoluzionarie di Francisco Madero, entrando vittorioso nella capitale con Zapata nel 1914. Morì in un’imboscata. Villaggio globale. Espressione utilizzata per la prima volta da Marshall McLuhan, esperto di comunicazioni di massa, in un libro del 1964, Understanding Media: The Extensions of Man. Con esso McLuhan pose l’accento sugli effetti prodotti dal progresso dei mass media sul modo di vivere degli esseri umani. Il sorgere di tecnologie sempre più sofisticate e di facile accesso aveva infatti accelerato le comunicazioni, rendendo così il globo una sorta di grande villaggio facilmente esplorabile attraverso gli strumenti di comunicazione di massa. Vitalismo. Corrente del pensiero filosofico sviluppatasi tra la metà del Settecento e la metà dell’Ottocento, sosteneva che gli organismi viventi si differenziano da tutto ciò che è inorganico perché possiedono una forza vitale immateriale, né chimica, né fisica. Benché i vitalisti non negassero il valore della ricerca biologica sugli organismi viventi, essi non ritenevano tuttavia che questi studi potessero portare alla conoscenza della vera natura della vita. Vittoria di Hannover (1819-1901). Regina di Gran Bretagna e Irlanda (1837-1901), imperatrice delle Indie (1876-1901). Unica figlia di Edoar­do,

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duca di Kent, succedette diciottenne allo zio Guglielmo IV. Di iniziali simpatie whig, approdò in seguito a posizioni conservatrici, specialmente dopo il matrimonio col principe Alberto di Sassonia-Coburgo (1840). Questi impose una severa austerità alla vita di corte, cercando altresì di ispirare alcune scelte di politica estera della regina come l’atteggiamento filoaustriaco nella seconda guerra d’indipendenza italiana (1859). Dopo la morte del marito (1861), la regina ne coltivò la memoria con una condotta ispirata a una severa moralità, che conferì il tratto distintivo all’intera epoca. Vittoria mutilata. Espressione retorica coniata da Gabriele D’Annunzio per indicare la convinzione diffusa tra nazionalisti e reduci italiani della Prima guerra mondiale che l’Italia non avesse ricevuto la ricompensa fissata con il Patto di Londra del 1915 per la sua partecipazione al conflitto contro gli Imperi Centrali. Motivo del malcontento fu il fatto che, durante i lavori a Versailles per la redazione dei trattati di pace, all’Italia non venne riconosciuto il diritto di ridefinire i propri confini orientali annettendo l’Istria e il territorio di Fiume. Vittorio Emanuele II di Savoia (1820-1878). Figlio e successore di Carlo Alberto, divenne re di Sardegna nel 1849 in seguito all’abdicazione del padre, dopo la sconfitta subita dall’esercito piemontese nella battaglia di Novara contro gli austriaci. Non revocò lo Statuto, ma intervenne frequentemente nella politica interna come fece con il «proclama di Moncalieri» per spingere gli elettori a nominare una Camera moderata e quindi disponibile a firmare la pace di Milano. Fu il primo re d’Italia nel 1861. Ottenuto il Veneto dalla guerra contro l’Austria del 1866, approfittò del conflitto franco-prussiano per conquistare Roma (1870) ed essere consacrato «padre della patria». Vittorio Emanuele III di Savoia (1869-1947). Figlio di Umberto I, sposò Elena di Montenegro. Re d’Italia dal 1900, in seguito all’assassinio del padre, cercò di infondere credibilità alle istituzioni e alla casa regnante inaugurando un periodo di distensione e progresso con i governi Zanardelli e Giolitti. Durante il suo lungo regno approvò l’entrata dell’Italia nella Prima guerra mondiale e contribuì alla fine dello Stato liberale, tollerando che il fascismo prendesse il potere nel 1922 ed instaurasse una dittatura. Divenuto imperatore d’Etiopia nel 1936 e re d’Albania nel 1939 lasciò che Mussolini portasse l’Italia in guerra a fianco dell’alleato tedesco. Nel 1938 controfirmò le leggi razziali antiebraiche varate da Mussolini. Nel 1943, dopo aver destituito Mussolini da capo del governo, abbandonò Roma e fuggì a Brindisi insieme alla famiglia reale e ai ministri del nuovo governo. Nel 1944 affidò la luogotenenza del regno al figlio Umberto. Morì in esilio ad Alessandria d’Egitto. Volpi Giuseppe (1877-1947). Uomo politico italiano, aderì al fascismo. Dal 1925 al 1928 ricoprì la carica di ministro delle Finanze nel governo Mussolini e da questa posizione cercò di avvicinare la classe imprenditoriale al regime. Voltaire [François-Marie Arouet] (1694-1778). Scrittore, filosofo, drammaturgo e poeta francese. Animatore del movimento culturale dell’Illuminismo, ha ispirato, con la sua ferma fiducia nella ragione e il rifiuto di ogni fanatismo, molti intellettuali e filosofi coevi e successivi.

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Voto di scambio. Con tale espressione si intende designare il comportamento di un elettore che, pur esprimendo in modo formalmente regolare il proprio voto, in realtà lo motiva con scelte politiche non disinteressate. Ovvero, la sua preferenza è data a un candidato che gli ha promesso qualcosa in cambio. Wałesa Lech (1943-). Sindacalista e uomo politico polacco. Operaio specializzato dei cantieri Lenin di Danzica, nel 1981 fu eletto presidente del sindacato indipendente Solidarność, ideatore di un’ondata di scioperi che stava mettendo in difficoltà il regime comunista. Premio Nobel per la pace nel 1983, nel 1989 condusse le trattative con il primo ministro Jaruzelski per la transizione democratica della Polonia. Fu presidente della Repubblica dal 1991 al 1995. Warren Earl (1891-1974). Politico statunitense, fu governatore della California. Dal 1953 al 1969, venne posto a capo della Corte Suprema dal presidente Dwight D. Eisenhower. Il suo mandato si caratterizzò per decisioni che segnarono la storia dei diritti civili del suo paese. Nella causa Brown vs Board of Education (1954) pose fine alla segregazione razziale nelle scuole pubbliche, in quella Mirando vs Arizona (1966) riconobbe l’obbligo delle forze di polizia d’informare l’arrestato dei propri diritti, pena la illegittimità del fermo. Il suo nome è anche legato alla commissione da lui presieduta per indagare sull’assassinio di John F. Kennedy. Weber Max (1864-1920). Sociologo tedesco. Nella sua opera L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905) analizzò la nascita del capitalismo moderno d’impresa come uno dei prodotti specifici della razionalizzazione occidentale, identificando la motivazione ideale che più contribuì al suo affermarsi con il protestantesimo ascetico di matrice calvinista e con la sua dottrina della predestinazione. In Economia e società (1922) distinse tre tipi di potere legittimo: tradizionale, carismatico e legale-razionale. Il primo si fonda sulla credenza nella legittimità di un’autorità che è sempre esistita, ed è un tipo di potere personale e ordinario secondo cui si deve obbedienza alla persona in quanto agisce all’interno della tradizione. Il fondamento di legittimità del potere carismatico è il riconoscimento da parte dei seguaci delle qualità personali straordinarie (carisma) possedute da un capo, che può essere un profeta, un condottiero militare o un moderno capo-partito. Il potere carismatico è personale e straordinario, legato a situazioni eccezionali di crisi e di rivoluzione. La legittimità del potere legale-razionale si basa invece sulla credenza nella legalità delle procedure che hanno condotto alla designazione dei detentori del potere e in quella delle norme entro i cui limiti il potere viene concretamente esercitato. Il potere legale è ordinario e impersonale perché in esso si obbedisce a un sistema di norme impersonali o a persone solo in quanto investite della loro autorità in base a tali norme. Esso è il potere del moderno Stato burocratico. Wenyuan Yao (1931-2005). Critico letterario e politico, fece parte della «banda dei quattro» attiva durante la «rivoluzione culturale» cinese fra il 1966 e il 1976. Westpolitik. Politica di collaborazione con l’Europa occidentale e con gli Stati Uniti d’America avviata dal cancelliere tedesco Konrad

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Adenauer all’indomani del secondo conflitto mondiale, quando a Bonn fu chiaro che la rinascita economica e la sicurezza della Germania Ovest sarebbero dipese, nel clima della Guerra Fredda, da relazioni privilegiate con i paesi occidentali. Whig. Gruppo politico nato negli Stati Uniti nel 1834 dall’unione degli oppositori del presidente democratico Andrew Jackson. Rispetto ai democratici, i whig sostenevano politiche economiche maggiormente stataliste con il rafforzamento, in particolare, delle barriere protezionistiche, espressione degli interessi manifatturieri del nord del paese. A segnare la fine del partito fu la questione della schiavitù che pose in conflitto i parlamentari whig del nord e quelli del sud. Wilson Harold (1916-1995). Uomo politico britannico, appartenente al Partito laburista. Nel 1963 fu nominato leader del partito e, dopo la vittoria laburista alle elezioni del 1964, divenne primo ministro. Mantenne questa carica fino al 1970 e la ebbe nuovamente dal 1974 al 1976, quando si ritirò a vita privata lasciando anche la guida del partito. Wilson Woodrow (1856-1924). Uomo politico statunitense appartenente al Partito democratico. Nel 1910 fu eletto governatore del New Jersey e alla fine del 1912 presidente degli Stati Uniti. Nel suo primo mandato realizzò un’importante riforma finanziaria e misure a favore di agricoltori e operai. Fu rieletto alla presidenza nel 1916, mentre in Europa era in corso la Prima guerra mondiale e ancora per un anno, nonostante la guerra sottomarina condotta dai tedeschi causasse gravi perdite umane e materiali agli USA, mantenne il paese neutrale. Ma nell’aprile 1917 Wilson decise di dichiarare guerra agli Imperi centrali e fin dall’inizio concepì l’intervento americano come un modo per difendere la libertà dei popoli e condurli alla loro autodeterminazione. Tale concezione venne espressa nei suoi «quattordici punti» pubblicati nel gennaio 1918 che comprendevano anche la proposta di creare una Società delle Nazioni per dirimere pacificamente le controversie internazionali. Nel 1920, tuttavia, l’entrata degli USA nella Società delle Nazioni fu bocciata dal Senato americano; nello stesso anno Wilson venne insignito del premio Nobel per la pace. Windhorst Ludwig (1812-1891). Politico tedesco, leader del Zentrum nel periodo in cui il cancelliere Bismarck lanciò una sfida al mondo cattolico emanando una serie di provvedimenti volti a rafforzare il carattere laico dello Stato, ma anche a mettere sotto sorveglianza l’attività del clero. Nonostante il Kulturkampf, sotto la sua guida i cattolici tedeschi riuscirono in pochi anni a raddoppiare la propria rappresentanza parlamentare, vanificando le misure eccezionali volute da Bismarck. Wollstonecraft Mary (1759-1797). Scrittrice e saggista inglese fu la teorica del primo femminismo, promuovendo nelle sue opere i diritti delle donne britanniche. Presente a Parigi come giornalista durante la Rivoluzione francese, entrò a far parte del gruppo di scrittori radicali (Thomas Paine, William Blake, Heinrich Füssli) raccolti attorno al marito William Godwin che attraverso la narrativa affrontarono il tema, all’epoca rivoluzionario, dell’oppressione dell’uomo sulla donna. In A Vindication of the Rights of Woman (1792) la Wollstonecraft pone l’accento sull’importanza dell’istruzione per l’emancipazione femminile e

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allo stesso tempo deplora il fatto che la società sia divisa in classi destinate a perpetuare la discriminazione della maggioranza disagiata privandola di risorse e libertà. Women’s Political Council. Nata nel 1946 a Montgomery (Alabama) come organizzazione per i diritti delle donne afroamericane, è ricordata per il boicottaggio del sistema di trasporto pubblico avvenuto in quella cittadina nel 1955. A scatenare tale reazione il fatto che il 1° dicembre di quell’anno Rosa Parks decise di non alzarsi dalla sezione anteriore dell’autobus su cui viaggiava, che era riservata a bianchi, facendosi così arrestare per non aver rispettato l’ordinanza di segregazione della città. Il boicottaggio, durato tredici mesi, si concluse nel giugno 1956 con la sentenza del tribunale federale dell’Alabama che dichiarò incostituzionale la segregazione sugli autobus. Sentenza confermata qualche mese dopo dalla Corte Suprema degli Stati Uniti. Workhouses. Istituzioni create in Gran Bretagna, tra XVII e XIX secolo, allo scopo di fornire assistenza ai malati e alle persone anziane prive di mezzi di sostentamento. Questi ricoveri, finanziati da privati e istituzioni pubbliche, erano organizzati su base parrocchiale. Alle soglie del XIX secolo, i costi di gestione delle workhouses, il numero crescente di emarginati e lavoratori precari presenti nei grandi centri urbani e il nascere di una nuova concezione di stato sociale, furono i fattori che portarono ad una scomparsa di queste istituzioni. Yuan Shi-kai (1859-1916). Ufficiale dell’esercito e politico cinese. Si autoproclamò imperatore nel 1916 e tentò di dar vita ad una nuova dinastia. La sua morte causò un vuoto di potere che spianò la strada al periodo dei «signori della guerra». Yuppies. Contrazione dell’espressione Young Urban Professional con la quale negli anni Ottanta del Novecento erano indicati i giovani professionisti ambiziosi della società capitalista di stampo occidentale. Neolaureati in università prestigiose come Yale, Harvard o Princeton, la loro ambizione era accumulare ricchezza in modo veloce e soprattutto attraverso un uso spregiudicato degli strumenti finanziari e della Borsa. Zanardelli Giuseppe (1826-1903). Giurista e uomo politico italiano. Deputato al Parlamento italiano dal 1861, con l’avvento al potere della Sinistra Storica, nel 1876, fu ministro dei Lavori Pubblici nel primo governo Depretis, ministro degli Interni nel governo Cairoli e ministro di Grazia e Giustizia nei successivi dicasteri presieduti da Depretis e Crispi. Nel 1889 promulgò un nuovo codice penale, entrato in vigore l’anno successivo, che aboliva la pena di morte e riconosceva una relativa libertà di sciopero e associazione. Dopo essere stato presidente della Camera nel 1892-1894 e 1897-1899, fu di nuovo a capo del ministero di Grazia e Giustizia nel governo Rudinì, ma si dimise dopo che esplosero i tumulti per il carovita nel 1898. Nel febbraio 1901 fu chiamato dal nuovo re Vittorio Emanuele III come presidente del Consiglio. Con Giovanni Giolitti al ministero degli Interni, il governo Zanardelli avviò una stagione di riforme liberali aperta al dialogo con le organizzazioni dei lavoratori. Molto malato, fu costretto a dimettersi nel 1903; gli subentrò, alla guida del governo, Giolitti. Zapata Emiliano (1879-1919). Uomo politico messicano, combatté a fianco di Francisco Madero contro il regime di Porfirio Díaz. Favorevo-

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Storia contemporanea

le ad un vasto programma di riforma agraria, continuò a combattere, dopo la vittoria di Madero nel 1911, assieme a Pancho Villa a sostegno della causa dei contadini del sud e dei lavoratori del nord. Zemstva. Plurale di zemstvo, l’assemblea elettiva introdotta a livello locale in Russia dallo zar Alessandro II nel 1864. Organo con funzioni consultive e di amministrazione distrettuale e provinciale, era composto da rappresentanti di tutti i ceti sociali. Portò vantaggi alla popolazione rurale in particolare nel campo dell’istruzione e della sanità. Gli zemst­ va furono aboliti in seguito alla Rivoluzione bolscevica del 1917. Zhou En-lai (1898-1976). Politico cinese, prese parte al Movimento del quattro maggio (1919) guidando un assalto ad un ufficio governativo locale per protesta contro la firma del trattato di Versailles, in base al quale la provincia di Shandong era stata ceduta al Giappone, nonostante la Cina fosse tra le potenze vincitrici della Prima Guerra mondiale. In Francia, dove si era recato per motivi di studio, prese contatto con militanti comunisti cinesi. Rientrato in Cina nel 1924, occupò importanti posizioni nella Repubblica nazionalista di Sun Yat-sen. Entrato nel file dei rivoluzionari di Mao partecipò alla «lunga marcia» e alla presa del potere da parte del Partito comunista. Dal 1949 fu ininterrottamente primo ministro della Repubblica popolare. Fino al 1958 ricoprì anche la carica di ministro degli Esteri. Promotore dello sviluppo economico della Cina, durante la «rivoluzione culturale» mantenne un atteggiamento moderato, impedendo alle Guardie rosse l’assalto alle principali sedi delle istituzioni e cercando di tutelare l’amministrazione dello Stato dalle ripercussioni delle lotte di partito. Fu protagonista nel 1972, insieme al presidente americano Nixon, della ripresa delle relazioni tra Cina e Stati Uniti. Zinov’ev Grigorij (1883-1936). Uomo politico russo. Alleato prima di Stalin contro Trockij, successivamente, non appoggiando la scelta di continuare sulla strada tracciata dalla NEP, gli si oppose e fu espulso dal partito. Riammesso nel 1934, due anni dopo fu accusato di essere tra i mandanti dell’omicidio di Sergej Kirov e nel primo grande processo delle «purghe» staliniane fu condannato a morte. La sua riabilitazione arrivò solo negli anni di Michail Gorbačëv. Živkov Todor (1911-1998). Uomo politico bulgaro, è stato primo ministro dal 1962 al 1971 e presidente della Bulgaria dal 1971 al 1989. Fu il ­leader che rimase il più a lungo al potere in uno stato del blocco sovietico. Durante il suo governo, tutte le voci dissidenti vennero aspramente represse, con migliaia di arresti in tutta la nazione. Grazie all’aiuto del­ l’Unione Sovietica, Živkov rafforzò il processo di collettivizzazione delle fattorie e tentò di modernizzare l’industria. Nel 1968 autorizzò le forze militari bulgare a partecipare, insieme agli altri eserciti del Patto di Varsavia, all’invasione della Cecoslovacchia. Caduto in disgrazia dopo il 1989 (fu espulso dalla presidenza e dal Partito comunista bulgaro), fu incriminato per appropriazione indebita e costretto agli arresti domiciliari fino al settembre 1996, quando venne assolto dalla Corte Suprema bulgara. L’anno successivo Živkov tornò a fare politica nelle file del Partito socialista. Ziyang Zhao (1919-2005). Politico cinese, ricoprì la carica di primo ministro dal 1980 al 1987 e quella di segretario generale del Partito comunista cinese dal 1987 al 1989. Contribuì ad introdurre in Cina l’eco-

Glossario

nomia di mercato e si oppose alla burocrazia e alla corruzione diffusa nel paese. È noto anche per essere l’unico alto dirigente cinese ad essersi opposto apertamente alla strage di piazza Tienanmen del 1989. Zola Émile (1840-1902). Giornalista e romanziere francese, è considerato il capofila del naturalismo che difese dalle violente accuse mosse dalla critica idealistica e dalla stampa borghese. Fu infatti il primo grande scrittore a tratteggiare nelle sue opere crudi ritratti di vita sociale ai tempi del Secondo Impero. Ritratti costellati di una umanità dedita ai bagordi, al vizio ed indifferente alle sofferenze degli umili. Fu l’autore del J’accuse, con cui denunciò, nel 1898, le irregolarità del processo contro il capitano ebreo Alfred Dreyfus. Žukov Georgij Konstantinovič (1896-1974). Ufficiale russo che guidò l’Armata Rossa durante la Seconda Guerra mondiale. Fu poi il referente per la zona assegnata all’URSS al termine del conflitto. Prese parte al processo di destalinizzazione nel corso della seconda metà degli anni Cinquanta e fu ministro della Difesa dal 1955 al 1957. Zuma Jacob (1942-). Uomo politico sudafricano. Presidente del­ l’African National Congress, nel 2009 è stato eletto alla presidenza del Sudafri­ca con il 67% delle preferenze. In precedenza, durante il regime di apartheid, era stato dapprima incarcerato, scontando dieci anni di reclusione, poi mandato in esilio. Poté rientrare in Sudafrica nei primi anni Novanta, dopo l’esilio trascorso in Mozambico e in Zambia.

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