Splendore e miseria del cinema. Sulle Histoire(s) di Jean-Luc Godard 8881016613, 9788881016617

«Che cos'è il cinema? Niente. Che cosa vuole? Tutto. Che cosa può? Qualcosa.» (Jean-Luc Godard).

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Italian Pages 200 [202] Year 2010

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Splendore e miseria del cinema. Sulle Histoire(s) di Jean-Luc Godard
 8881016613, 9788881016617

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Collana diretta da Roberto De Gaetano

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A. CERVINI - A. SCARLATO - L. VENZI

SPLENDORE E MISERIA DEL CINEMA Sulle Histoire(s) di Jean-Luc Godard

con un saggio di Roberto De Gaetano

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INDICE

Prefazione

pag.

7

LUCA VENZI «Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità» Cinema, testimonianza, formatività

»

15

ALESSIO SCARLATO «Un’oscura fedeltà per le cose cadute» La storia e la testimonianza dei campi

»

67

ALESSIA CERVINI «Montaggio mio dolce affanno» L’arte e la messa in forma dell’universo

» 117

IL POTERE REDENTIVO DEL CINEMA

di ROBERTO DE GAETANO

» 165

Schede sinottiche Bibliografia essenziale Indice dei nomi e dei film

» 177 » 183 » 187

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Prefazione

PREFAZIONE

Le Histoire(s) du cinéma di Godard sono un’opera formidabile. Lo sono evidentemente in virtù della loro eccezionale densità, della complessità dei pensieri, dei percorsi, delle implicazioni che sviluppano, della smisurata ambizione che le modella, ecc. Ma soprattutto lo sono nell’accezione prima del termine: le Histoire(s) du cinéma fanno paura. La meraviglia che inducono nello spettatore – il disorientamento sistematico, talora radicale, che provocano a ogni visione – apre da subito a un senso di sgomento laddove ci si proponga per qualche via di renderne conto, laddove si provi a venirne a capo, a fare discorsi che intendano illustrarne i tratti, le figure, l’andamento del pensiero, le dinamiche elaborative, espressive, configurative. Leggere le Histoire(s) è un’operazione difficile. Forse perché quando ci si misura con esse si ha l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di mai visto, di essere chiamati a una del tutto inedita esperienza di visione: ma le Histoire(s) si vedono? O non si ascoltano almeno quanto si vedono? O non si leggono almeno quanto si vedono e si ascoltano? Del resto sono anche un libro non meno di quanto siano un film: ma è possibile dire che le Histoire(s) sono un film? 7

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SPLENDORE E MISERIA DEL CINEMA. SULLE HISTOIRE(S) DI JEAN-LUC GODARD

Dunque, qualcosa di mai visto e insieme, dice a ragione De Gaetano nel saggio posto a conclusione del libro, di ultimativo. Una volta, in una delle sue opere teoriche più grandi, Ejzenštejn aveva avanzato l’ipotesi (era il 1937 e il libro era Teoria generale del montaggio) che con l’Ulisse di Joyce la letteratura avesse esibito il tratto ultimo, terminale, delle sue possibilità formative, che avesse raggiunto le sue colonne d’Ercole, oltre le quali sarebbe stato impossibile spingersi a meno di consegnare i propri propositi esplorativi a un sistema espressivo diverso: il cinema, diceva Ejzenštejn. Quando ci si trova di fronte alle Histoire(s) si ha la stessa impressione: si ha cioè l’impressione che con quest’opera in video che pensa e agisce con i modi e le forme del cinema, quest’ultimo sia giunto in via pressoché definitiva a perlustrare il limite estremo delle sue potenzialità costruttive, limite oltre il quale, evidentemente, non c’è più cinema. Oltre il quale, per continuare ad andare, occorre rivolgersi a qualcosa d’altro: difficile dire a che cosa e tuttavia già da tempo si ha l’impressione che esso – la digitalizzazione della cultura è certamente l’orizzonte candidato a produrlo – avrà prima o dopo un’identità definita e riconoscibile. Realizzate nell’arco di dieci anni (1988-1998), divise in quattro parti, ciascuna ripartita in due – quattro capitoli per otto brevi film complessivi –, dovute a uno degli artisti più importanti del XX secolo, le Histoire(s) du cinéma si prefiggono come è noto di raccontare la storia del cinema e, per mezzo di essa, la storia del Novecento. Tale proposito vi si attua non soltanto attraverso l’iper8

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Prefazione

trofica convocazione di frammenti di immagini e di suoni che il cinema ha costruito, ma mettendo al lavoro e ripensando l’intero orizzonte della cultura occidentale, dalla musica alla letteratura, dalla pittura alla fotografia, alla filosofia, e via di seguito. Frantumi audiovisivi provenienti da ogni dove (tutta intera la memoria di un uomo), chiamati a connettersi l’uno con l’altro, a intersecarsi, a mescolarsi, sempre apparentemente lontani e pure sempre capaci di comporsi in atti di pensiero nel continuo operare del montaggio. Tutte le immagini e tutti i suoni possibili chiamati a raccolta per dare conto di un’arte (il cinema) e di un secolo (il Novecento) al quale, per Godard, quell’arte definitivamente appartiene. Di un’arte, dunque, secondo lui, finita con il suo secolo, o come avevano subito annunciato i suoi inventori, effettivamente senza futuro. E tuttavia – le Histoire(s) lo mostrano ininterrottamente – quest’arte non smette per Godard di essere presente, viva e capace di continuare ostinatamente a farsi pensiero e a dar da pensare. Di un’opera di questo tipo, è evidente, si può fare soltanto una lettura determinata. Lungi da ogni impercorribile proposito di esaustività e di completezza, non si può che interrogare un singolo, determinato complesso di questioni che la innerva e di esso mettere in luce snodi portanti, tratti individuanti, segni di esemplarità. Questo breve testo diviso in tre saggi si propone appunto di comporre una lettura orientata delle Histoire(s) du cinéma, condotta alla luce di un circoscritto insieme di problemi e di interrogazioni. Mentre ripensano un secolo di cinema sotto forma di racconto storico e lo riconfigurano in 9

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SPLENDORE E MISERIA DEL CINEMA. SULLE HISTOIRE(S) DI JEAN-LUC GODARD

un disegno estetico di eccezionale densità, le Histoire(s) guardano tutto il Novecento a partire dalla frattura incomponibile e definitiva che vi si iscrive nel mezzo, vale a dire a partire dai campi di sterminio. La testimonianza di quell’orrore – la necessità di continuare a mostrare come quell’orrore non smetta di riguardarci – è uno dei pensieri centrali del loro formare. Ma come funziona, in generale, l’attività formativa delle Histoire(s) du cinéma e in che modo esse danno forma a quell’istanza testimoniale? E come tale istanza emerge all’interno dell’esorbitante attività formativa delle Histoire(s)? E ancora: testimonianza e messa in forma non costituiscono forse i due grandi poli entro cui si compone la costitutiva duplicità dell’immagine cine-fotografica analogica, per cui uno sguardo testimonia già sempre di ciò che gli è stato di fronte nell’attimo stesso in cui lo mette in forma? Infine: è un grande progetto storiografico quello che alimenta le Histoire(s) du cinéma e un fare estetico elaboratissimo e sovrastrutturato quello che lo realizza: ma se questo è vero, in che senso e per quali vie le Histoire(s) sono un’opera di storia e in che senso e a quali condizioni sono un’opera d’arte? E in che termini esattamente vi è pensata la storia del cinema? È attorno a nodi, a questioni, a interrogazioni simili a queste che, pure attraverso vie e rimandi differenti, si muovono i tre saggi disposti qui di seguito, ciascuno improntato a una prospettiva definita (rispettivamente filmologica, storiografica ed estetologica) e avviato dal movimento analitico di una singola sequenza delle Histoire(s) du cinéma. 10

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Prefazione

Dunque, è un campo di forze e di tensioni quello in cui questo libro intende comporsi, un campo quanto più possibile omogeneo ma anche evidentemente aperto e variamente modulato (come è logico per un lavoro scritto “a sei mani”), disteso tra aree di senso vastissime quali cinema, storia, arte, tracciato attorno alle nozioni guida di testimonianza e formatività, interrogate prima nel loro incrocio costitutivo, quindi singolarmente, ma sempre a partire da nuclei di problemi condivisi e correlati. In generale, ciascun saggio muove a suo modo dalla radicale posizione del Godard delle Histoire(s) secondo cui, se il Novecento è prima di tutto l’orrore dei campi, il cinema, che del Novecento è stato lo sguardo, ha mancato la possibilità di darne adeguata testimonianza. La storia del cinema, allora, è certo segnata da tratti di splendore, ma soprattutto, per Godard, è da cima a fondo una storia piena di miseria (le Histoire(s) lo ricordano fin dalle prime battute con un richiamo al Balzac di Splendeurs et misères des courtisanes): è una lunga catena di mancanze, di cadute, di fallimenti, tra i quali quello che secondo Godard lo ha perduto, che ne ha segnato storicamente la fine e che appunto coincide con il non aver saputo testimoniare Auschwitz come avrebbe dovuto. Ma in questa dinamica di splendore e miseria che modella per intero la storia del cinema si può leggere uno dei grandi movimenti di pensiero di Histoire(s) du cinéma: se la miseria della storia coincide certo con l’orrore dei campi è allora in primo luogo a partire da quella miseria, a partire 11

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SPLENDORE E MISERIA DEL CINEMA. SULLE HISTOIRE(S) DI JEAN-LUC GODARD

dal suo inaggirabile sussistere, che Godard rilegge e incrina lo splendore dell’arte e della cultura occidentali, e più in generale che egli ripensa idealmente tutte le immagini visive e sonore dell’occidente dopo l’orrore di cui l’occidente è stato ed è sempre capace. Le Histoire(s) du cinéma sono un immenso, scintillante universo di immagini che dice come, dopo i campi, ciascuna immagine, quale che sia, da qualunque luogo provenga, è già sempre, ha scritto Montani, riguardata dall’orrore, anche quando ne sembrerebbe più distante. Ogni volta che osserviamo le Histoire(s), quell’universo brucia di una luce oscura.

Gli autori ringraziano in modo sincero Roberto De Gaetano per aver da subito creduto in questo lavoro, per averlo accolto nella collana “Frontiere. Oltre il cinema” da lui diretta e, soprattutto, per aver acconsentito alla loro richiesta di accompagnarlo con un suo testo scritto per l’occasione. Questo lavoro nasce da una serie di ricerche condivise condotte dagli autori in anni e in sedi diverse, e già avviate nel periodo della loro formazione scientifica sotto la guida di Pietro Montani, il quale, ormai diversi anni fa, per primo li chiamò a lavorare su molti dei temi affrontati in queste pagine. Un ringraziamento particolare va ad Alessandro Canadè per la sua amichevole collaborazione. Al fine di agevolare la lettura, tutti i testi scritti o parlati delle Histoire(s) du cinéma cui si è fatto riferimento sono 12

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Prefazione

stati tradotti o riportati secondo la traduzione presente nella versione del film sottotitolata in italiano diffusa da RAI3. Le indicazioni del minutaggio all’interno dei singoli episodi riportate nei saggi si riferiscono a quella stessa versione. Prezioso punto di riferimento per l’identificazione di molti frammenti visivi e sonori delle Histoire(s) discussi nel presente lavoro è stata la minuziosa ricerca filologica condotta da Céline Scemama, rintracciabile in rete all’indirizzo http://cri-image.univ-paris1.fr/celine/celine.html. A.C. A.S. L.V.

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SPLENDORE E MISERIA DEL CINEMA. SULLE HISTOIRE(S) DI JEAN-LUC GODARD

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

LUCA VENZI «TUTTA QUESTA CHIAREZZA, TUTTA QUESTA OSCURITÀ». CINEMA, TESTIMONIANZA, FORMATIVITÀ

1. In principio era il cinema: il figlio perduto, lo sguardo dimidiato

«Non cambiare niente perché tutto sia diverso». «Hoc opus, hic labor est». Due frasi nel buio. La prima pronunciata da una voce grave, l’altra scritta sullo schermo, spezzata in due. Poi lo Stewart de La finestra sul cortile (Hitchcock, 1954), in primo piano e in ralenti, macchina fotografica tra le mani, occhi in movimento. E Misha Auer in Rapporto confidenziale (Welles, 1955), con una lente per guardare le sue pulci, in due inquadrature scavate da un iris. La seconda mostra solo gli occhi dell’ammaestratore, deformati e divisi. Un’altra frase impressa sullo schermo, «che ogni occhio tratti per suo conto», e un’altra pronunciata subito dopo: «Non mostrare tutti i lati delle cose. Conserva un margine d’indefinito». Salgono dal fondo voci oscure e lontane, distorte dall’accelerato. È un film che passa e ripassa in moviola. «Histoire(s) du cinéma» – si legge – e poi «Splendore e miseria». Segue un’immagine da Il prato di Bežin (1935-37), l’incompiuto, perduto Ejzenštejn, quindi una foto di Ida Lupino, una macchina da 15

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LUCA VENZI

presa alle spalle. Più avanti, ecco la moviola, con la pellicola che scorre all’interno, mentre le voci accelerate continuano a risuonare. Poi, ecco Godard, al tavolo da lavoro, la macchina da scrivere davanti a sé. «Che cos’altro c’è adesso?», «Mi fa il solletico»: sono le voci indistinte dell’accelerato, per un istante percepibili. Appartengono a Boudu salvato dalle acque (Renoir, 1932). Si avverte una ritmata sequenza di tasti premuti sulla macchina da scrivere, ma Godard non scrive ancora. Si sentirà a lungo, qui e altrove. Un blocco chapliniano in tre immagini – Tempi moderni (Chaplin, 1936), un’inquadratura degli anni Dieci in cui l’attore posa un fiore su un piano1, un ritratto dell’autore –, poi Godard, concentrato, dice: «La regola del gioco» (Renoir, 1939). Più avanti, in ralenti, Ida Lupino in Quando la città dorme (Lang, 1955) guarda in un visore per diapositive. Le voci del film in moviola, ora massimamente rallentate, si fanno sinistre e quasi spaventose, e abitano un nero profondo. La pellicola scorre lenta. «Sussurri e grida» (Bergman, 1973), continua Godard. Di nuovo Lupino con la macchina da presa alle spalle, poi Moira Shearer, a intermittenza, che è invece alla guida di una cinecamera. Ancora il nero, ancora i suoni distorti, ancora la pellicola in Godard deriva l’inquadratura da Unknown Chaplin (Brownlow e Gill, 1983), ampio e ricchissimo documentario che attraverso copie lavoro, sequenze soppresse, film di famiglia e altri materiali attraversa la pratica filmica del grande cineasta. L’inquadratura in questione fu espunta da Chaplin dal suo La cura miracolosa, del 1917. Cfr. K. Brownlow, Alla ricerca di Charlie Chaplin, tr. it., Edizioni Cineteca di Bologna, Bologna 2009, p. 83. 1

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

lento scorrimento. Un’immagine di Nicholas Ray da Nick’s Movie (Wenders, 1980), rallentata come le voci che gli stanno attorno e che ora sembrano, sempre più spaventose, farci udire il movimento del suo respiro. Ray tiene un dito sulla bocca e gli occhi chiusi. Li apre, poi li richiude. Un iris lampeggiante mostra un bacio tra Belmondo e Karina in Pierrot le fou (Godard, 1965). Godard ricomincia: «Giglio infranto» (Griffith, 1919) e infatti ecco un ritratto griffithiano, quindi un’altra fotografia: è ancora Ray, un occhio bendato. «Padre – si legge sullo schermo – non vedi che brucio?». E lo schermo è ora Rossellini che stringe a sé il volto di un bambino. In dissolvenza, ancora una foto, John Ford, anche lui con una benda su un occhio. Poco più avanti, Godard, lampada e sigaro, dispone nuovi fogli nella macchina da scrivere. L’asta di un microfono gli gira attorno. Seguiranno un’inquadratura con un uomo che in ralenti spara con un mitra da Jack Diamond Gangster (Boetticher, 1960), una foto di scena da Il sepolcro indiano (Lang, 1959), un’immagine di Pudovkin che corre sul tetto di una casa. «Tutte le storie che ci sono state», dice tra l’altro Godard e solleva gli occhi. Tre inquadrature rapidissime mostrano gli occhi spalancati azzurri di una giovane donna (Fury, De Palma, 1978). Le Histoire(s) du cinéma devono pur avere un inizio. Il flusso luminescente opaco in cui consistono, virtualmente interminabile, sempre e in ogni suo punto disteso e debordante, dovrà pure cominciare da qualche parte. Assai lacunosamente e semplificando in ogni dove, è proprio il celebre 17

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LUCA VENZI

inizio del grande polittico godardiano (l’apertura di 1a – Toutes les histoires) che ho appena descritto (arrestandomi, con qualche grado di arbitrarietà, in un punto che pure sembra consentirlo). Ma che inizio è questo? Meglio, che storia è questa? La storia del cinema che da anni Godard va immaginando comincia finalmente, e comincia con un sedimento hitchcockiano, ma prima ancora, a guardar bene (anzi, ad ascoltare bene), comincia con Bresson: è sua la frase2 pronunciata, e appena modificata da Godard, che si fa avanti prima che qualcosa si dia a vedere. E tuttavia, evidentemente, essa è già un richiamo alla celebre affermazione (rovesciata) del Gattopardo (Visconti, 1963): «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». Ma questa storia comincia, forse, nientemeno, con Virgilio. La sibilla cumana avverte Enea che è facile discendere nel regno dei morti: difficile – «Hoc opus, hic labor est», «Questo è l’impegno, è qui la fatica»3 – è risalire alla luce. Un solo passo nelle Histoire(s) du cinéma, l’idea di un passo mosso accanto al loro movimento inaugurale, e si è travolti dal montare della sconfinata corrente visuale e uditiva che le informa, dalla «potenza del caos fraseggiato»4, dice Rancière, in cui si fanno avanti immagini di ogni tipo (anche il

«Senza cambiare nulla, che tutto sia diverso», R. Bresson, Note sul cinematografo, tr. it., Marsilio, Venezia 2003, p. 121. 2

Virgilio, Eneide, libro sesto, v. 129, tr. it., Einaudi, Torino 1989, p. 213. 3

J. Rancière, La frase, l’immagine, la storia, in Id., Il destino delle immagini, tr. it., Pellegrini, Cosenza 2007, p. 96. 4

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

buio) e suoni di ogni tipo (anche il silenzio), in cui immagini con immagini, suoni con suoni, immagini con suoni, si annodano, si sovrappongono, urtano tra loro, formando dappertutto (ovunque ci sia da vedere e da ascoltare) strati, riverberi, concrezioni di senso. Gangli iconici e sonori attraverso i quali, nella simultaneità (sovrimpressioni, incrostamenti, prolungate dissolvenze e tutto quanto l’uso del video consente) e nella successione (il procedere laborioso del montaggio propriamente detto), in orizzontale e in verticale, passano multipli e difformi movimenti di pensiero. Occorre allora disporsi fin dall’inizio (fin da questo inizio su cui qui proverò a trattenermi, denso e importante come ogni inizio che si rispetti) a vedere e ad ascoltare il multiplanare dispiegarsi di quegli stessi movimenti. È immane il proposito che sostiene le Histoire(s): raccontare la storia del cinema e con essa la storia del XX secolo. Di fronte alla prova più difficile, al compito più arduo e ambizioso, servono rigore, testardaggine muta e un’assoluta concentrazione. Si tratta di discendere nel mondo dei morti e di tornare da quel mondo perduto. Di dire che esso c’è stato e di dargli parola. Non è questo, innanzitutto, il compito dello storico? Chiuso nella sua solitudine integrale, solo al suo tavolo con i pochi strumenti di cui ha bisogno, Godard comincia a cercare le ombre di cui il cinema è fatto, per riportarle alla luce. Guardare una immagine cinefotografica, è chiaro, è già sempre guardare, con Barthes, «il ritorno del morto»5. Ma dal fondo di 5

R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it.,

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una storia che al momento di iniziare le Histoire(s) sta per compiere ormai cento anni, è anche, per Godard, andare in cerca dei padri, dei fratelli, dei compagni scomparsi, che uno degli ultimi figli della Cinémathèque, contro l’oblio che scandisce il suo tempo, non può non cominciare a evocare. In un dialogo che, in questo periodo, di film in film, sarà lungo e intenso. «Ho dei doveri verso i morti»6, ha detto una volta Godard. Il lavoro dello Einaudi, Torino 2003, p. 11. È nota la reticenza del Barthes della Camera chiara a estendere al cinema molti dei principi che egli riconosce come individuanti dell’immagine fotografica. Ma è altrettanto noto come soprattutto negli ultimi anni (durante i quali l’avvento delle tecnologie digitali ha modificato in profondità la natura dell’immagine cine-fotografica analogica), e tuttavia non solo negli ultimi anni, la teoria del film ha rintracciato nell’ultimo grande libro di Barthes uno dei suoi principali orizzonti di riferimento, di fatto ricominciando a spostare significativamente la propria attenzione (e qui anche la riflessione di Bazin è tornata decisiva) sul fondamento fotografico dell’immagine filmica. J.-L. Godard, La télévision fabrique de l’oubli, in Id., JeanLuc Godard par Jean-Luc Godard, vol. II, a cura di A. Bergala, Cahiers du cinéma, Paris 1998, p. 241. Quella curata da Bergala, in due volumi, è senza dubbio la più ampia e accurata raccolta di scritti, interviste, documenti di lavoro di Jean-Luc Godard. Al fine di garantire uniformità ai riferimenti ai testi godardiani presenti in queste pagine, farò qui uso soltanto di questa edizione. In traduzione italiana, il lettore può tuttavia disporre di due antologie godardiane: la “storica” J.-L. Godard, Il cinema è il cinema, a cura di A. Aprà, premessa di P.P. Pasolini, tr. it., Garzanti, Milano 1981 (che in larga parte traduce e aggiorna al 1980 un primo Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, apparso per Belfond nel 1968 e poi confluito nel primo volume dell’edizione a cura di Bergala); e la recente, più esile, Id., Due o tre cose che so di me, a cura di O. Leogrande, tr. it., 6

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

storico che si immerge nel passato e quello dell’artista solitario, che si oppone alla tempesta del presente, si sovrappongono: «Bisogna proteggere i morti dai vivi», si dice in Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma (Godard, 1986). Di più: in questo periodo, in una prospettiva che rilegge e oltrepassa la lezione baziniana (lezione che il regista franco-svizzero, forse più in profondità di altri, non ha mai smesso di ripensare), Godard sostiene spesso che l’immagine filmica è ciò che propriamente consente una resurrezione del reale. Il cinema, che per la sua natura meccanica riproduce qualcosa del mondo imbalsamandolo nella sua durata, non fa che rubare la vita a ciò che trascrive. È per questo che, dice suggestivamente l’autore, il cinema è stato inventato in bianco e nero: il colore c’era già ma, continua Godard, occorreva portare il lutto per aver rubato la vita alle cose (2b – Fatale beauté, 24’537), onorare il debito profondo che il cinema contrae con il reale di cui bazinianamente (e quasi vampirescamente) si nutre. È allora con il montaggio che il cinema riporterà in vita ciò che aveva filmato. È alla moviola che la vita, rubata da un atto di trascrizione automatica, presa da una macchineria misteriosa, torna a farsi presente, cioè torna a farsi visibile. «Non sono cristiano ma quando leggo in San Paolo che l’immagine verrà al tempo della resurrezione, beh, dopo trent’anMinimum Fax, Roma 2007 (ventidue testi scelti dall’edizione bergaliana in due volumi).

Ma vedi anche Id., Le montage, la solitude, la liberté, in JeanLuc Godard par…, vol. II, cit., pp. 245-246. 7

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ni di montaggio, comincio a capire. Per me il montaggio è la resurrezione della vita»8. La frase paolina, che Godard ripete in molti film di questi anni, non è che la configurazione più esemplare di questa idea del montaggio e del cinema tout court. Il montaggio, dice il regista, è ciò che solo consente di «vedere», che solo permette di «vedere la vita»9. Di rivedere vivo ciò che è morto, che è già sempre morto per il fatto di trovarsi in un’immagine cine-fotografica, che «è morto e sta per morire»10. È il tempo passato, l’«è stato» di Barthes che la macchina attesta e che, per Godard, un atto formativo è chiamato a mostrare. Dovrò tornare sulla complessità del montaggio godardiano. Per ora basti osservare che per l’autore delle Histoire(s) la storia del cinema è già sempre una storia della morte (una discesa agli inferi) e già sempre una storia della resurrezione (una risalita in superficie). È una storia del buio e una storia della luce. La storia di qualcosa che è morto e di qualcosa che risorge. Ecco, allora, le immagini e le voci dei morti. Circondano il pensiero e l’azione dello storico che mette mano al suo lavoro. Riemergono dal fondo oscuro del tempo passato («Solo il passato si filma», 3a - La monnaie de l’absolu, 5’40), si sovrappongono, lampeggiano, mugghiano paurosamente nel buio. Schegge, filamenti, resti di immagini e di suoni. Lo storico con la moviola ne va in cerca per ridar loro la vita, per tornare a 8 9

Ivi, p. 246. Ivi, p. 247.

10

R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, cit., p. 96.

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

vederli vivi e lasciarli parlare. La moviola al lavoro, immagine ricorsiva nelle Histoire(s), è l’atto fondativo di quel cercare: rinchiuso nel suo lavoro solitario, Godard chiama a sé le immagini e i suoni, li trova, li ridesta, quasi li tocca nello scorrimento inesausto, in avanti, all’indietro («Mi fa il solletico»), della pellicola. Comincia a raccontare con loro una storia mai raccontata. Meglio, mai raccontata in questo modo. Se la Storia è dire il passato nello sforzo di conservare, con Péguy, «un’oscura fedeltà per le cose cadute» (4b – Les signes parmi nous, 23’17), qui il passato, dice Godard, non è detto, ma mostrato e ascoltato. Questo passato si può dire (questa storia si può fare) perché esso si ricompone, ritorna vivo11, nel dispiegarsi di una proiezione. Non si dovrà, non si potrà mostrare tutto: occorrerà scomporre, disarticolare, trascegliere, mantenere «un margine di indefinito»12 entro il quale comporre un disegno non-cronologico, caleidoscopico, che pure sappia restituire in modo attendibile ciò che è stato, scrivendo e riscrivendo, montando e rimontando, ma senza modificare nulla («non cambiare niente») e anzi sforzandosi di costruire un documento/monumento, un monumento costruito con tutti i documenti che ci sono, con tutte le storie che ci sono state, che possa aspirare 11 «Il tempo perduto, il tempo trovato. Il cinema», si legge in 2a – Seul le cinéma, 22’58. La stessa frase ritorna in 2b (08’08) proprio sull’immagine della moviola in funzione.

È l’altra frase bressoniana dell’ouverture delle Histoire(s), anch’essa leggermente modificata da Godard: «Non mostrare tutti i lati delle cose. Margine d’indefinito», R. Bresson, Note sul cinematografo, cit., p. 95. 12

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a dire finalmente la vera, autentica storia13 di quel mistero del secolo chiamato cinema, che ora può essere mostrata e ascoltata come mai è accaduto, scritta in modo differente da come è sempre stato («perché tutto sia diverso»). Perché l’oggetto di questa storia è un oggetto misterioso, anzi, è un mistero tout court. Il cinema, dice Godard, non è «né un’arte, né una tecnica, è un mistero» (2b, 10’12). Mistero ontologico per il quale – potere del dispositivo – qualcosa del mondo è testimoniato dallo sguardo nell’attimo stesso in cui questo lo mette in forma. E mistero storico che riguarda il destino di un sistema di visione – un modo inedito di vedere e di pensare il mondo – il cui potenziale conoscitivo, per Godard, è andato quasi immediatamente disperso. È per questo che la sua storia è soprattutto la storia di qualcosa di perduto. Strumento nato per vedere il reale come mai era stato possibile, esso ha avuto subito commercio col potere che ne ha sempre impedito l’evoluzione e addomesticato o corrotto le capacità di conoscenza. Presto accerchiato, manipolato, sfruttato dal potere e dal mercato, il cinema non ha potuto assolvere al suo compito più individuante: configurarsi pienamente come uno strumento capace di vedere e di pensare il proprio tempo. Subito trasformato in grande attrazione spettacolare, il cinema, dice Introduction à une véritable histoire du cinéma è il titolo del libro pubblicato da Godard a partire dalle conferenze che l’autore tenne a Montréal nel 1978, che costituiscono, come è ampiamente noto, uno dei momenti seminali del progetto Histoire(s), iniziato solo dieci anni più tardi. Cfr. J.-L. Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, tr. it., Editori Riuniti, Roma 1982. 13

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

Godard, non ha sviluppato le proprie potenzialità. I grandi magnati e le majors, l’avvento del sonoro e con esso quello delle grandi cerimonie di Stato, il mercato mediatico della modernità: il cinema, per Godard, non è finito adesso, «è sempre stato finito»14. Ha iniziato a finire, ad esempio, quando Thalberg è salito alla guida della MGM. A lui e a Hughes, capo della RKO, Godard dedica un ampio segmento di 1a, all’inizio del movimento consacrato a Hollywood: le Histoire(s) cominciano a raccontare la storia del cinema e a dire che il cinema ha subito cominciato a morire. Esso è come un figlio che non è cresciuto, un figlio castrato dal potere del padre. È un bambino cui i genitori hanno sempre impedito di diventare adulto. È questo un tema che Godard ripete in modo costante negli anni Histoire(s). Ecco allora che il motivo del rapporto tra padre e figlio si innesta potentemente sull’invocazione dei padri (Rossellini, certo, ma anche Ray e Ford15) che apre le Histoire(s) du cinéma. La frase freudiana che appare sulla foto di Rossellini (e si chiude su quella di

14

Id., La télévision fabrique de l’oubli, cit., p. 237.

«Quando Delacroix copiava i quadri di Tintoretto a Venezia, si considerava uguale a Tintoretto. Mentre io mi sono sempre considerato come il figlio di Rossellini», ivi, p. 240. Ray è uno degli autori più amati da Godard negli anni “Cahiers”. «Come il figlio di Rossellini – dice Godard nel brano citato –, o di Hawks», non dunque, come è noto, di Ford, il quale più che come “padre” godardiano sembra convocato in questo movimento, tra l’altro, come uno dei grandi padri del cinema (ma sul profondo rispetto godardiano per Ford con riferimento agli anni “Cahiers”, si veda almeno Id., L’art à partir de la vie, intervista a cura di A. Bergala, in Jean-Luc Godard par…, vol. I, cit., p. 13). 15

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Ford) – «Padre, non vedi che brucio?»16 – trattiene e incrocia queste due direttrici di pensiero: da un lato, mentre si avvia a discendere nel mondo dei morti e a compiere l’ardua impresa di ritornare alla luce, Godard cerca padri spirituali (ed Enea non chiedeva alla Sibilla di poter entrare nell’Ade per vedere suo padre?), li invoca accanto a sé in cerca d’aiuto, comunica loro il suo sconforto. Dall’altro, la domanda freudiana è quella che nel sogno di un padre che ha appena smesso di vegliare il cadavere di suo figlio, il bambino morto gli rivolge «pieno di rimprovero»17 per averlo abbandonato: quel bambino è qui il cinema stesso. Quanto si sa del Prato di Bežin è che il film avrebbe raccontato del conflitto tra un padre violento e brutale, legato alla Russia prerivoluzionaria, e un figlio adolescente vicino alla rivoluzione, fino all’uccisione del ragazzino da parte del genitore. L’inquadratura del Prato è accostata alla foto di Lupino regista. Il primo film diretto dall’attrice, Non abbandonarmi (1949)18, comincia

S. Freud, L’interpretazione dei sogni, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1973, pp. 472-474. 16

17

Ivi, p. 472.

I titoli di testa del film assegnano la regia a Elmer Clifton, cui Lupino subentrò quando questi fu colpito da attacco cardiaco a poche ore dall’inizio delle riprese. La piena paternità del lavoro è stata presto riconosciuta dalla critica alla cineasta (che l’aveva anche scritto con Paul Jarrico e prodotto), indicandolo come suo esordio di primo rilievo dietro la macchina da presa. Lo stesso Godard critico spese parole d’elogio per la regista e il film (e per il successivo La preda della belva, 1950) in un suo celebre articolo del 1952, Défense et illustration du découpage classique, in Jean-Luc Godard par…, vol. I, cit., p. 82. 18

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

con una donna che si appropria di un bimbo dopo essere stata costretta a dare in adozione il proprio, sola e abbandonata dal padre del bambino19. Ed è proprio un bambino in fasce che, nel film di Lang, Lupino sta guardando nel suo visore per diapositive. Ancora, ne L’occhio che uccide (Powell, 1960), il film da cui è tratta la foto di scena con Shearer che manovra la macchina da presa, il protagonista è un omicida seriale perché suo padre, da bambino, lo terrorizzava con esperimenti sulla paura. Infine è nel Fury di De Palma che una giovane con poteri sovrannaturali ritrova un figlio scomparso, ricercato dal padre, che era stato rapito da una banda di criminali. Gli occhi della donna si spalancano e qui davvero Godard comincia a raccontare20: come a dire andiamo dunque a vedere come è fatta la storia di questo figlio perduto. Di quest’arte che è «l’infanzia dell’arte»21. Di questo Giglio infranto. Perché E se la dedica per Mary Meerson, che cade sull’inquadratura ejzenštejniana, rimanda certo alla sua infaticabile attività di conservatrice, con Langlois, di film preziosi, invisibili, leggendari – e «il vero cinema, ricorda spesso Godard, era quello che non si poteva vedere» (3b – Une vague nouvelle, 15’45) –, quella impressa sull’immagine di Lupino, per Monica Tegelaar, produttrice di un film (On Top of the Whale, Ruiz, 1982) in cui un gruppo di antropologi studia gli ultimi individui capaci di parlare una lingua scomparsa, prolunga e differenzia la linea del cinema come linguaggio misterioso, inespresso e perduto. 19

20 È qui che si iscrive una nuova, magnifica suite di montaggio, avviata dall’apparizione di Mefistofele nel Faust (1926) di Murnau con cui Godard delinea, tra l’altro, il “tradimento” di Hollywood, che vende l’anima (del cinema) al diavolo (della merce).

Oltre che una nota espressione godardiana con cui, attraverso definizioni diverse, il regista si riferisce al cinema, L’enfance de l’art è il titolo di un cortometraggio diretto da Godard e A.M. 21

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di questa storia che ora va a incominciare Godard ci ha già chiamato a rintracciare il senso: le ragioni incontrastabili del capitale (ecco i Tempi moderni chapliniani, ecco il fiore lasciato cadere, ecco qual è La regola del gioco che ha subito orientato la partita) hanno presto schiacciato il cinema. La sua storia è una storia della morte, di qualcosa che è sempre stato ucciso, dei morti che ne abitano le immagini e che ora risorgono sotto i nostri occhi. Ne udiamo già i sussurri e le grida terrificanti. È la storia di un figlio del XIX secolo che il XX ha lasciato bruciare – come il neonato gettato nelle fiamme in The Heart of Humanity (Holubar, 1918), nel sottofinale di 1a – e che ha visto definitivamente cadere – come l’Edmund di Germania anno zero (Rossellini, 1947), in quella stessa sequenza – di fronte al suo più indicibile orrore: i campi nazisti che, dice Godard, il cinema non ha filmato e non ha mostrato. Ciò che c’è stato dopo i campi, il Neorealismo, la Nouvelle Vague22, quanto si è creduto fosse un nuovo grande inizio, non era che un ultimo sussulto di ciò che si era spento definitivamente ad Auschwitz23. Miéville e compreso nel film collettivo How Are the Kids?/Comment vont les enfants? (1990).

22 Ad essi l’autore dedica pagine di grande densità emotiva rispettivamente in 3a, nel grande segmento dedicato al cinema italiano, e in 3b.

23 J.-L. Godard, Histoire(s) du cinéma. Godard fait des histoires, intervista a cura di S. Daney, in Jean-Luc Godard par…, vol. II, cit., p. 169. Una parte dell’ampia e assai importante conversazione con Daney, filmata a Rolle alla fine del 1988 per un eventuale «accompagnamento pedagogico – scrive il critico – alle Histoire(s) du cinéma», è poi confluita nel segmento iniziale di 2a.

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

Ma intrecciata alla grande direttrice narrativo-discorsiva definita dal rapporto padre-figlio, agisce nell’ouverture delle Histoire(s) una seconda direttrice, altrettanto vasta, che ha nello sguardo il suo centro individuante. È infatti di un mistero che ha a che fare con l’atto di guardare ciò di cui ci si occupa se si fa una storia del cinema. James Stewart punta gli occhi lontano per indovinare il mistero nascosto nella stanza che sta di fronte alla sua [fig. 1], Misha Auer li sprofonda nel vicino, mi-

Fig. 1

nuscolo spazio delle sue pulci ammaestrate, restio alle richieste di Robert Arden che cerca di venire a capo del mistero-Arkadin. Due immagini-concrezione della questione di cui si tratta, ma anche, semplicemente, due modi diversi di guardare: l’uno concentrato nel voler vedere, l’altro chiuso nel non volerne sapere. Del resto l’assunto shakespeariano 29

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che li tiene insieme («che ogni occhio tratti per suo conto»24) pare confermare questa ipotesi di divaricazione: «vedere e non vedere (stato di conoscenza e stato di cecità), oppure vedere ora con un occhio ora con l’altro»25. E la seconda inquadratura tratta da Rapporto confidenziale muove, sinteticamente, in quella stessa direzione: in essa gli occhi di Auer sono diversi l’uno dall’altro, separati dalla lente in cui solo uno di essi è compreso, divaricati, e insomma figura di una visione non uniforme [fig. 2]. Ancora: alle immagini di Hitchcock e Welles si legano, lungo l’asse dell’incontro tra l’occhio umano e un dispositivo ottico (la macchina fotografica di

Fig. 2 W. Shakespeare, Molto rumore per nulla, tr. it., Mondadori, Milano 1995, p. 45. 24

S. Liandrat-Guigues, J.-L. Leutrat, Godard. Alla ricerca dell’arte perduta, tr. it., Le Mani, Recco 1998, p. 93. 25

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

Stewart, la lente di Auer)26, anche quelle di Lupino che guarda nel visore per diapositive nel film di Lang [fig. 3], di lei stessa accanto a una macchina

Fig. 3

da presa, di Shearer posizionata invece dietro la cinecamera27. Quest’ultima immagine, peraltro, fa 26

Ibidem.

Ma nei singoli snodi visivi e sonori che compongono le Histoire(s), vi si accennava, il dispiegamento di pensieri, di rimandi, di implicazioni si distende in infinite direzioni, difficili da ripercorrere nella loro interezza. I frammenti da La finestra sul cortile e Rapporto confidenziale accostati da Godard hanno a che fare, come detto, con un’indagine e una ricerca, con il tentativo, arduo e meticoloso, di riportare alla luce qualcosa di sommerso e di misterioso, che è quanto Godard stesso, con le Histoire(s) che vanno a incominciare, ha deciso di fare. E l’orizzonte musicale che li avvolge, la Sonata per alto solo di Hindemith, che il musicista compose per uso personale, dice che questa ricerca che Godard va preparando è, prima di ogni altra cosa, un

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capo a un film (il cui titolo francese è Le voyeur, richiamo immediato all’attitudine del protagonista del film hitchcockiano e a tutte le figure-sguardo presenti nella sequenza) che nel finale presenta un’inquadratura per molti versi simile alla seconda derivata da Rapporto confidenziale: vi compare, deformato in uno specchio, l’occhio di una vittima (mancata) dell’omicida, mentre l’altro è pressoché interamente nascosto [fig. 4]. Di nuovo, uno sguardo divaricato o semiaccecato. Di nuovo, uno sguardo

Fig. 4

che vede e insieme che non vede. Gli occhi interminabilmente chiusi di Ray nel film di Wenders che racconta la sua morte («è morto e sta per morire») si documento personale, privato, come del resto annunciato dal regista nella prima delle sue conferenze canadesi: «Preparo, per me stesso, una specie di storia del cinema». Il parallelo tra Hindemith e la conferenza inaugurale di Montréal è descritto in S. Liandrat-Guigues, J.-L. Leutrat, Godard. Alla ricerca dell’arte perduta, cit., p. 91. La citazione godardiana si trova in J.-L. Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, cit., p. 15.

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

riaprono, poi si richiudono. E il bacio di Belmondo e Karina che segue subito dopo è un bacio a occhi chiusi. Poi gli occhi aperti di Griffith e lo sguardo di due monocoli, ancora Ray [fig. 5] e Ford [fig. 6].

Fig. 5

Fig. 6

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Godard non ha accostato che poche inquadrature e tuttavia ha già iniziato a dire molto di ciò che intende con la sua storia del cinema. Che per lui è la storia di uno sguardo divaricato, alternato, meglio, di uno sguardo dimidiato. Uno sguardo che ha visto ciò che ha voluto e non ha visto ciò che doveva. Straordinaria invenzione per vedere il mondo, il cinema per Godard ha fatto molto e non ha fatto niente: ha aperto gli occhi sul reale per accordarlo ai propri desideri (ne aveva il diritto) e insieme ha chiuso gli occhi sul reale, è stato incapace di vedere (ne aveva il dovere) quando il reale reclamava di essere visto e mostrato. Il cinema, dice Godard, ha avuto occhi per una sola cosa, o, ed è lo stesso, ha guardato il suo tempo con un occhio solo. Le Histoire(s) torneranno più volte su questo punto28. Di più: ci torneranno fino in fondo, fino alle loro ultime inquadrature, nei passaggi conclusivi di 4b, che chiude l’intera serie: lì ancora un’immagine di Auer, ancora un iris, ancora la grande lente e un solo occhio nello schermo, ingigantito. Subito dopo, in un dettaglio sgranato, ravvicinatissimo, il celebre taglio dell’occhio dell’Un chien andalou buñueliano (1929). Poi, con la frase di Coleridge/Borges sull’uomo che si risveglia con un fiore dopo aver sognato di averlo ricevuto in Paradiso come prova L’apertura di 2a è interamente costruita sul motivo dello sguardo con un occhio solo: vi si susseguono tra l’altro la foto di un nero che nasconde un occhio con le mani, di una donna che guarda in una lente, di un combattente palestinese con un occhio coperto da una vistosa benda, il dettaglio di un occhio in bianco e nero, fino al disegno di un ciclope e all’immagine di un grande occhio solitario che fa da orizzonte a una scena rurale. 28

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del suo transito celeste29, Godard chiude la sua grande storia, e con essa, idealmente, quella di chi per tutta la vita («Quell’uomo ero io») ha ricevuto in dono un fiore caduto, il giglio infranto che il cinema è stato: qui la rosa bianca, come quella chapliniana, di Allemagne année 90 neuf zéro (Godard, 1991), lampeggiante sul volto di Godard [fig. 7]. Dalle porte dell’Ade al Paradiso ce n’è voluta di strada. Tutta quella percorsa dal polittico, che qui svela un andamento circolare.

Fig. 7

Quella che ha accompagnato la vita fragile e breve del cinema è allora una storia della visibilità, Si tratta di una frase di Coleridge riferita da Borges: «Se un uomo attraversasse il paradiso in sogno, e gli dessero un fiore come prova di essere stato lì, e se destandosi si trovasse in mano quel fiore...», J.L. Borges, Il fiore di Coleridge, in Id., Altre inquisizioni, tr. it., Feltrinelli, Milano 2002, p. 16. 29

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di ciò che si è disteso nella luce dell’immaginario, e insieme una storia della cecità, di ciò che si è perso di fronte al buio profondo della Storia. Raccontarla significa ricordarsi dell’una e dell’altra cosa. In una lettera indirizzata all’“Internationale Filmfestspiele”, con cui annuncia che non presenzierà alla proiezione di un suo film30 durante le celebrazioni del centenario del cinema, Godard scrive: Gli occhi aperti. Gli occhi chiusi. […] Ecco che il famoso mistero del tempo nero tra ogni immagine è finalmente chiarito. Un tempo per il giorno. Un tempo per la notte. Uno per il diritto. Uno per il dovere. E lei non pensa, cara amica, dal momento che il Festfilmspiele [sic] di Berlino si compiace come altri di rendere celebri cento anni di cinematografia, che si debba celebrare […] non soltanto ciò che la piccola, ultima delle arti ha certamente, ha propriamente fatto, ma soprattutto ciò che essa non ha fatto, o ha fatto male, o ha fatto così poco da valere niente?31.

È lungo questa linea, che, per Godard, si distende la storia che egli comincia a raccontare. Una linea sempre spezzata tra vedere e non vedere, tra luce e oscurità, tra diritto acquisito e dovere mancato. O ancora tra «splendore e miseria», grandezza e decadenza (Grandeur et décadence), bellezza e Si tratta di JLG/JLG. Autoportrait de décembre (Godard, 1994).

30

J.-L. Godard, Lettre à une amie allemande, in Jean-Luc Godard par…, vol. II, cit., p. 345. 31

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orrore. Laddove naturalmente il centro dell’orrore, e la miseria che ne consegue per non aver saputo situarsi alla sua altezza – per non aver visto e mostrato – è ancora costituito dai campi, autentico buco nero aperto in fondo alle Histoire(s), assillo oscuro che ne scandisce costantemente il comporsi. All’inquadratura dell’uomo col mitra, ancora nell’ouverture, tratta dal film di Boetticher, film il cui titolo originale è, emblematicamente, Rise and Fall of Legs Diamond, Godard fa seguire un’immagine folgorante, una foto di scena dal Sepolcro indiano, che sembra prolungare la polarità di grandezza e decadenza in quelle, che le corrispondono, di splendore e miseria, di bellezza e orrore: una piccola, affascinante stella del film, Sabine Bethmann, posa davanti a un’immagine che ritrae il gruppo dei lebbrosi che abitano le profondità del castello del maharajah [fig. 8]. Assai più di quanto

Fig. 8

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non accada nel film, dove la rappresentazione dei lebbrosi sembra al massimo anticipare (debolezza dell’immagine-movimento) quella di tanti horror successivi abitati da zombie, questa immagine immobile (potenza della fotografia) di uomini e donne sepolti vivi, orrendamente smagriti, richiama con impressionante immediatezza «le povere immagini della notte»32, le immagini dell’apertura dei campi. La storia del cinema, per Godard, è in un’immagine come questa: essa è divisa tra i segni dello splendore (quello delle sue opere più grandi, ma anche questo piccolo, incantato splendore di stelle che lo consegna alla storia del belletto, della cosmesi, più che a quella della comunicazione33) e quelli della miseria (la dimissione definitiva del suo consustanziale potere attestativo e testimoniale consumatasi di fronte all’orrore dei campi, quando «il cinema di finzione non ha recuperato suo fratello, il documentario»34). Il Dona nobis pacem, terzo movimento della Sinfonia n. 3 di Honegger, accompagna queste immagini: «Nulla di più inetto – ha commentato il musicista riferendosi alla sua composizione – della barbarie scatenata in una La frase, scritta a mano da Godard accanto a un montaggio di immagini televisive che trasmettono documenti filmati all’apertura dei campi, è stata riprodotta, su indicazione dello stesso regista, in Jean-Luc Godard par…, vol. II, cit., p. 160, nella parte conclusiva del testo A propos de la coupure publicitaire à la télévision, una coppia di lettere con cui l’autore autorizza due canali televisivi a effettuare tagli pubblicitari su due suoi film. 32

33

1b – Une histoire seule, 07’32.

J.-L. Godard, Le cinéma est fait pour penser l’impensable, in Jean-Luc Godard par…, vol. II, cit., p. 299. 34

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

civiltà. Quello che ho voluto esprimere all’inizio della terza parte è proprio questa crescita della stupidità collettiva»35. Non c’è dubbio che qui Godard dà avvio a quella intensa riflessione sull’orrore che abita le Histoire(s) e le trasforma presto in una storia della notte. Ci tornerò nell’ultimo paragrafo di questo lavoro. Quello che ora conta rilevare è che nel segmento che apre il polittico Godard ha messo a lavoro direttrici portanti dell’intero discorso. «Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità», si dice all’inizio di 1b. La storia del cinema corre tra l’una e l’altra, in bilico come Pudovkin lungo la linea di un tetto, dopo l’immagine del Sepolcro indiano. 2. Le polarità del pensiero godardiano e le poetiche dell’icona e del montaggio in Histoire(s) du cinéma

Dunque, è di uno sguardo diviso, alternato tra vedere e non vedere, che si fa la storia. E di un figlio bruciato dal potere e caduto davanti all’orrore. Di un’arte allo stato di infanzia che andava cercando la propria strada, la via maestra lungo la quale definire la propria identità, e che si è perduta senza potervi riuscire. Come la pittura aveva infine trovato la prospettiva, così il cinema avrebbe potuto trovare il montaggio, che, dice Godard, esso ha cercato a lungo e a fondo (Griffith, Ejzenštejn Citato in S. Liandrat-Guigues, J.-L. Leutrat, Godard. Alla ricerca dell’arte perduta, cit., p. 97. 35

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e i sovietici, e tutto il muto in generale), ma che non hai mai veramente trovato36. La ricerca e lo sviluppo del cinema si sono interrotti troppo presto: «Basteranno una o due guerre mondiali per pervertire questo stato d’infanzia» (1b, 36’12) e cioè per distogliere il cinema dalla sua indagine su se stesso e sul mondo, per impedirgli di veder maturare le sue potenzialità, per consegnarlo alle folle come un balocco. Ma che cos’è esattamente questa perversione forzata del cinema? Godard discende da una tra le più riconoscibili tradizioni di pensiero che abbiano abitato la storia e la teoria del cinema, quella che grosso modo dalla grande riflessione fenomenologica di André Bazin passa attraverso i giovani critici dei “Cahiers du cinéma” e la Nouvelle Vague parigina (irradiandosi, pur in modi diversi, in ciò che chiamiamo “il cinema moderno”) e che trova probabilmente nel Daney della maturità il suo ultimo discendente diretto. Dialogando con questa stessa tradizione (ed evidentemente non soltanto con essa), si dirà che un’immagine filmica non è che una regione di incontro, un’autentica zona di negoziazione37 tra alcunché di reale (la traccia di qualcosa che è stato) e alcunché di immaginario (l’elaborazione poietica di quella traccia, che la lavora e la piega a sé). Questa dualità è costitutiva all’immagine, il

J.-L. Godard, Histoire(s) du cinéma. Godard fait des histoires, cit., p. 164. 36

La nozione di negoziazione è uno dei nodi teorici portanti del libro di F. Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Bompiani, Milano 2005. 37

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

che equivale a dire che in essa agiscono sempre la trascrizione automatica di qualcosa del mondo preso nella sua durata (un’istanza attestativa) e l’azione di messa in forma di quel qualcosa (un’istanza costruttiva e in senso largo finzionalizzante). L’una presenterà allora gli importi dovuti, ineludibili, di una disposizione testimoniale38, l’altra quelli voluti, desiderabili, di una disposizione formativa. L’atto stesso del filmare è ciò che tiene insieme ed esibisce questo carattere di duplicità. Il cinema è insomma testimone di ciò che costruisce. Ciascuna delle sue immagini è un documento e una scrittura del reale. Non c’è documentario che non si debba all’azione di una costruzione finzionalizzante, né film di finzione che non contragga debiti con il farsi del sensibile di cui, dentro le storie che racconta, non cesserà di essere un’attestazione. Evidentemente senza il rigore terminologico del teorico, ma nei modi di un artista dotato di rara inclinazione speculativa, Godard articola negli anni la sua riflessione sul cinema essenzialmente all’interno di questo orizzonte concettuale, il cui nucleo fondativo va ricercato nella nozione di reciprocità di realtà e immagine formalizzata da Bazin. L’intero cinema godardiano, così vasto e diversificato, può 38 Una delle più perspicue riflessioni recenti, sviluppata in ambito filosofico, sull’identità testimoniale dell’immagine filmica si trova negli ultimi lavori di P. Montani, dal collettivo L’estetica contemporanea. Il destino delle arti nella tarda modernità, Carocci, Roma 2004, fino a Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Carocci, Roma 2007, passando attraverso i numerosi contributi che negli ultimi anni l’autore ha specificamente dedicato al cinema.

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essere pensato, a diversi livelli, a partire da questo definito ordine di problemi. Realtà e immagine, documento e finzione, istanza attestativa e istanza costruttiva. Presto Godard fa corrispondere a queste coppie concettuali – ancora in evidente consonanza con la lezione baziniana39 – un’ulteriore polarità, del tutto decisiva nel suo modo di fare e di pensare il cinema, quella di etica ed estetica. Il fatto che l’immagine filmica porti impresse su di sé le tracce di un darsi, di un offrirsi del sensibile, che essa cominci a esistere a partire dal debito che contrae col mondo, è già ciò che richiede alla spinta formativa che la modella la necessità di un atteggiamento morale. Il singolo film potrà allora di volta in volta inclinare sull’una o l’altra delle due istanze, ad esempio situandosi entro i confini di un regime rappresentativo evidentemente improntato a uno dei due versanti (il documentario, il film di finzione) o, più in profondità, potrà disporre le proprie attitudini retoriche e stilistiche sull’uno o sull’altro dei due poli (potrà scegliere di parlare la lingua di un Ejzenštejn o di un Visconti, o all’opposto quella di un Renoir o di un Rossellini). Ma non Una lezione con cui certo, fin dagli anni “Cahiers”, Godard ha dialogato talora anche per opposizioni (la distanza tra le posizioni dei “giovani turchi” e quelle del teorico di Angers sulla politique des auteurs, il Montage, mon beau souci godardiano sullo stesso numero della rivista, il 65 del 1956, cui Bazin consegna il suo, pur sempre mal inteso, Montage interdit, ecc.), ma che nei suoi lineamenti fondamentali, e cioè proprio quelli relativi all’identità dell’immagine filmica e alla definizione di un agire estetico che ha nell’etica il suo principio di determinazione, ha sempre costituito per l’autore delle Histoire(s) ben più che un punto di riferimento e al di là di tutte le evidenti differenziazioni. 39

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

potrà prescindere dall’uno o dall’altro. È attorno al principio di uguaglianza tra documento e finzione, alla coappartenenza tra attestazione e costruzione, alla reciproca reversibilità del gesto estetico in un’etica dello sguardo, che occorrerà orientare le proprie scelte. Il cinema non si dà, per Godard, se non nell’articolazione di questo orizzonte bipolare. Un orizzonte che nel ‘59 il regista descriveva così: «C’è la realtà o la finzione. Si mette in scena o si fa un reportage. Si opta decisamente per l’arte o per il caso. Per la costruzione o per la flagranza delle cose. E perché, dunque? Semplicemente perché scegliendo dal profondo del proprio cuore l’una o l’altra via, si ricade automaticamente sull’altra o sull’una». E più avanti, nello stesso testo, aggiungeva: «Bisogna scegliere tra l’etica e l’estetica. È chiaro. Ma è altrettanto chiaro che ciascuna di queste due parole porta in sé una parte dell’altra. E chi opti decisamente per l’una trova necessariamente l’altra alla fine»40. Dunque, nel quadro che dall’indiscernibilità di attestazione e costruzione conduce alla reciprocità di documentario e finzione, di etica ed estetica, scegliere di agire all’interno di una delle due regioni comporterà la consapevole presa in carico dell’altra e quindi equivarrà a misurare l’appropriatezza, l’opportunità dei propri intendimenti. Fare un film è sempre fare finzione, comporre e alimentare un immaginario, è sempre, in definitiva, dar vita a uno spettacolo. Ma accanto a questa «messa» che il cinema non ha mai smesso J.-L. Godard, L’Afrique vous parle de la fin et des moyens, in Jean-Luc Godard par…, vol. I, cit., pp. 180-182. 40

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di celebrare, occorre sempre fare posto alla «preghiera», dice Godard41, allo sforzo di rispettare e comprendere ciò che si mette in forma, al rigore documentario, alla ricerca conoscitiva. Messa e preghiera: altri due termini con cui il tardo Godard descrive il suo pensiero sul cinema. Ma negli anni Histoire(s), questo quadro è più insistentemente restituito, lo si vedeva già, attraverso un ulteriore binomio concettuale, che è quello definito dalle nozioni di «diritto» e di «dovere». Godard inquadra la nozione di diritto nell’orizzonte dell’immaginario, della finzione, dell’agire estetico (per cui ad esempio il cinema ha il diritto di costruire storie e di essere in senso ampio uno spettacolo) e quella di dovere nell’orizzonte della realtà, del documento, di un agire etico (per cui ad esempio il cinema ha il dovere di costruire, in senso ampio, una prestazione “autentica” e “veritativa”). Ora, ponendo mano alla sua storia del cinema, egli dice che questa storia è essenzialmente consistita in un grande e rutilante ammasso di finzioni. Certo i grandi registi, che inclinassero sul versante dell’estetica – come Ejzenštejn o Visconti – o su quello dell’etica – come Rossellini e Renoir –, hanno spesso fatto preghiera durante la messa e viceversa. Hanno spesso assolto ai loro doveri di testimoni e di indagatori del proprio tempo mentre esercitavano il loro diritto allo spettacolo, e inversamente. Raccontavano storie e insieme si sforzavano di essere all’altezza del tempo che abitavano, Id., Godard et De Oliveira sortent ensemble, in Jean-Luc Godard par…, vol. II, cit., p. 267.

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

della Storia che gli passava accanto. Ma pensata nel suo insieme e osservata dalla fine del secolo in cui si è inscritta, la storia del cinema non è la storia dei suoi grandi realizzatori, né dei pochi grandi film («Ci sono stati pochissimi film… Direi dieci film», dice Godard a Daney in 2a, 08’18) che vi hanno avuto corso: essa è essenzialmente la storia della trasformazione di uno strumento di visione, che consentiva di dare conto del mondo e che poteva farlo in modo popolare e spettacolare, in una regolamentata fabbrica di racconti, in una pioggia di storie interscambiabili, in un mucchio indistinto di racconti seriali da dare in pasto allo sguardo42. È in definitiva la storia di una separazione del diritto di far storie dal dovere di mostrare la Storia. Una separazione per così dire culturale, industriale, commerciale, di ciò che per essenza era ed è già sempre unito: quella, gestita dal potere (Hollywood ne è il grande emblema), tra il documentario e la finzione43. Drastica e irreversibile, questa separazione mercantile ha fatto sì che il cinema restasse un mezzo espressivo e conoscitivo incompleto, dimidiato, ha impedito la sua evoluzione storica e linguistica, lo ha fondamentalmente condannato all’espressione della frivolezza e dell’evasione. «Che storia vogliamo? Supponendo di essere degni della Certosa di Parma e di Delitto e castigo, ecco cosa chiedeva David O. Selznick: “Voglio Del Rio e Tyrone Power in una vicenda romantica ambientata nei Mari del Sud. Poco importa la storia, purché si intitoli Luana la vergine sacra e Del Rio salti alla fine in un vulcano”», 3a, 07’39. 42

J.-L. Godard, Parler du manque, in Jean-Luc Godard par…, vol. II, cit., p. 364. 43

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E dunque ad avere occhi solo per una cosa, o a guardare con un occhio solo. Ad essere spettacolo senza ricerca, messa senza preghiera, diritto senza dovere. A cercare la bellezza senza la giustezza, per usare una terminologia cara a Daney. La bellezza luminosa e splendente dell’immaginario, ammaliante delle dive, avvolgente dello spettacolo. Una bellezza fatale, una stregoneria: «La bellezza – continua il verso shakespeariano che lega gli sguardi opposti di Stewart e Auer all’inizio delle Histoire(s) – è una strega contro i cui vezzi la lealtà si scioglie in passione»44. E quando più avanti, sempre in 1a, Godard si ferma a osservare Rita Hayworth (Gilda, Ch. Vidor, 1946), accosta alla sua immagine il titolo del film più noto del danese Christensen, La stregoneria attraverso i secoli (1922) e inquadrature del rogo della strega in Dies irae (1943) di Dreyer, girato mentre i nazisti occupavano la Danimarca. E infatti subito dopo si fa avanti l’iscrizione conradiana «nel cuore delle tenebre». Stregato dalla bellezza, accecato dalla sua luce45, il cinema sarebbe stato incapace di guardare nel cuore delle tenebre. Privilegiando uno solo dei due poli discorsivi sui quali il dispositivo si fondava, abbandonando o relegando presto in una condizione di subalternità la pratica

44

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla, cit., p. 45.

In 2b, 17’58, con le parole di H. Broch (La morte di Virgilio, tr. it., Feltrinelli, Milano 2006, p. 157), Sabine Azéma prolunga e approfondisce questo stesso motivo: «La bellezza è una strega stregata dotata di un potere demoniaco di universale assorbimento». 45

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

del documentario e più in generale la capacità del mezzo di dar conto del reale, di descriverlo, di analizzarlo, l’industria che lo ha subito governato gli ha dunque impedito di osservare la sua vocazione alla testimonianza storica. Ciò è accaduto proprio al cinema, che costitutivamente era fatto per questo, che per natura era traccia dell’oscuro procedere del tempo. Esso «non era al riparo dal tempo, era il riparo del tempo»46 (4b, 34’26), ciò che al tempo consente di depositarsi in immagine, di conservarvisi intatto contro il nulla che lo cancella. Solo il cinema, secondo Godard, poteva far questo, poiché esso testimonia per essenza, poiché ha a che fare con gli eventi e non solo con le idee degli eventi; solo al cinema – più della letteratura, più della pittura, più della filosofia – la Storia si vede, il passato ritorna presente, il tempo si proietta. Ma del suo tempo il cinema è stato un figlio inascoltato (come l’ambulante di Ramuz di 4b, 18’53) e non ha potuto nulla. Di fronte all’orrore che ha spezzato il secolo, allora, il cinema è stato assente e per questo, afferma Godard, «non è servito a niente»47. Molto rumore per nulla, non è stata che questo l’invenzione del cinema: il titolo dell’opera che comprende la frase shakespeariana dell’ouverture era già al lavoro tra le immagini e

La frase si deve a M. Blanchot e si trova in Le Musée, l’Art et le Temps, del 1950 (ora in Id., L’amitié, Gallimard, Paris 1971, p. 48). Godard ne modifica il soggetto (l’originario «l’opera» diviene qui «il cinema»). 46

J.-L. Godard, Le cinéma est fait pour penser l’impensable, cit., p. 299. 47

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i suoni per avanzare subito, nei primi movimenti di quel «tramare polifonicamente»48 che muove il polittico, l’osservazione che la storia del cinema è la storia di un’invenzione che ha mancato il proprio compito storico, che non ha saputo, per Godard, farsi immagine giusta del proprio tempo. Non un’immagine giusta, certo, ma – è la celeberrima espressione godardiana – giusto un’immagine. Se dunque il cinema ha perso la possibilità di usare consapevolmente uno degli elementi fondanti della sua identità, «come se si fosse castrata la sua nascita, la sua infanzia, ciò che si chiama grosso modo il documentario», se cioè la pratica del documentario e in generale la vocazione testimoniale del cinema è stata messa da parte a vantaggio della produzione seriale di storie, è pur vero, ribadisce ancora una volta Godard, che «documentario e finzione sono la stessa cosa»49. Il che vuol dire che dentro tutte le sue storie, all’interno di tutte le immagini che le servivano, in fondo a tutti i racconti, grandi e piccoli, ardui o inutili, consapevoli o ignari, pure il cinema testimoniava, suo malgrado, il suo tempo. Ne accoglieva il farsi, ne trascriveva il muto procedere, lo tratteneva in sé. Ne imprimeva l’ottuso brusio, la pulsazione oscura nel corpo di tutte le finzioni cui si consegnava. Se i film si davano alle storie, al controllo delle sceneggiature, pure le immagini A. Badiou, Le plus-de-voir. Del Capello e del Fango, in Id., Del Capello e del Fango. Riflessioni sul cinema, a cura di D. Dottorini, Pellegrini, Cosenza 2009, p. 272. 48

J.-L. Godard, J’ai toujours pensé que le cinéma était un instrument de pensée, in Jean-Luc Godard par…, vol. II, cit., p. 303. 49

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non smettevano di tracciare in sé il continuare aperto del tempo, il nudo insistere degli esseri e delle cose, la presenza sola e inarticolata del sensibile. Un’immagine filmica – è la sua natura – non può non accostare all’immaginario che la produce qualcosa d’altro del quale essa è per essenza testimone, l’alterità radicale del reale rispetto ai nostri progetti formativi. Di questa alterità essa è comunque una prova, la traccia visibile di come al cinema, quale che sia l’orizzonte discorsivo prescelto, «il mondo lì di fianco continui»50. È in questo continuare laterale del mondo, sempre trascritto in fondo alle immagini filmiche, allora, che Godard ricerca, al di là e al di sotto dei racconti di un secolo di cinema, «il volto originario delle cose»51 con cui sia possibile far dire al cinema quel secolo che il cinema non ha potuto dire. Se il cinema non è riuscito a farsi immagine giusta del proprio tempo, è certo che in qualsivoglia delle sue immagini – giusto un’immagine – quel tempo si è depositato in segni, in storie potenziali impresse in fondo a storie precostituite, in concrezioni di gesti, di movimenti, di azioni, e che ora lo si può vedere e ascoltare. Si tratterà in primo luogo di separare le immagini dal loro universo narrativo e di riconoscere in ciascuna di esse le «testimonianze della pura presenza»52; quindi di combinare quelle S. Daney, Il cinema, e oltre. Diari 1988-1991, tr. it., Il Castoro, Milano 1997, p. 125. 50

51

J. Rancière, Il destino delle immagini, cit., p. 63.

Id., La favola cinematografica, tr. it., ETS/Cineforum, Pisa/ Bergamo 2006, p. 241. 52

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immagini con altri segni, con altre storie, con altre immagini, visive e sonore. Per farle parlare di ciò che, loro malgrado, esse portavano già in fondo a esse e per trovare, fuori di esse, nelle infinite associazioni di cui verranno a esser parte, discorsi ulteriori e ulteriori importi di senso. È proprio quanto si propone di fare la sconfinata operazione di montaggio che modella le Histoire(s). Laddove il montaggio punta a rintracciare e a riscrivere – a recuperare e a rimettere in forma – «le icone […] della pura presenza»53, l’impensato precipitato testimoniale del proprio tempo che il cinema ha conservato in fondo alle sue storie, per scrivere la storia del cinema e del secolo che l’ha accolta. Da un lato, dunque, c’è l’immagine, sottratta al precipuo orizzonte finzionale che l’ha costruita, intesa come traccia elementare del consistere delle cose e insieme come «presenza capace di esprimere la potenza dell’esperienza collettiva che la porta a presentificarsi»54; dall’altro c’è il montaggio, che è proprio ciò che la sceglie e la solleva dal suo universo narrativo e affettivo, che fruga nel suo apparire e che sospingendola in un continuum infinito di combinazioni con altre tracce e altre presenze, nella dinamica interminabilmente ek-statica che governa la scrittura godardiana, parla attraverso di essa e sempre al di là di essa. L’immagine, visiva e sonora, è qui pensata come nuda traccia, nuda presenza testimoniale, nudo documento iscritto nella finzione che l’aveva voluta. È una forza potenziale 53 54

Ivi, p. 236. Ivi, p. 235.

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che attende di essere riconosciuta e raccolta. E il montaggio, visivo e sonoro, è qui espressione dello sconfinato agire di una poiesis totalizzante, di una formatività virtualmente illimitata. È un’interminabile forma al lavoro che convoglia, coordina, connette le forze di cui va in cerca per costruire il proprio discorso55. L’immagine è convocata nel testo in quanto capace di dire ciò che i testi da cui deriva non contengono e non conoscono. Meglio: per dire assieme a quei testi e attraverso di essi, di più di quanto essi non potessero e non volessero dire e per dirlo unitamente a tutto ciò che di eterogeneo vi si pone accanto. L’immagine-attestazione, icona della pura presenza, forza oscura e segreta del puro frammento documentale; e il montaggio-costruzione, l’incessante lavorio della forma, che connette interminabilmente tutti i frammenti, che associa senza sosta tutte le icone, tutte le testimonianze, tutte le apparizioni. Sono i due modi, si può dire a partire da Rancière, attraverso i quali le Histoire(s) dispiegano il flusso audiovisivo che le alimenta. Il primo ci chiede di contemplare le immagini, «per poter così intendere il loro intimo mormorio, per lasciare che siano esse stesse a imprimere il marchio della loro presenza. Questo modo afferma che le cose sono presenti, e che, per farle parlare, occorre astenersi

Alle nozioni di forma e forza nel cinema, in una prospettiva post-deleuziana, De Gaetano dedica un trattamento teorico importante nei suoi ultimi lavori, tra i quali si veda almeno Le vie della teoria in Italia, in R. De Gaetano, Teorie del cinema in Italia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 106-112. 55

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dal manipolarle». Il secondo sostiene invece che far parlare le immagini «significa manipolarle, farle sortire dal loro luogo proprio» per metterle in correlazione con tutto ciò che esiste di visibile e di udibile e «che è quindi necessario moltiplicare quei cortocircuiti che […] producono l’esplosione del senso che illumina l’esperienza comune. Il gioco di questa polarità presiede le Histoire(s) du cinéma»56. Non cambiare niente, dice Godard sulla soglia del discorso: l’immagine dirà ciò che essa suo malgrado contiene, senza che sia necessario modellarla. Il cinema di cui le Histoire(s) fanno la storia non è un sistema espressivo e nemmeno una tecnica di rappresentazione: è il miracolo di resuscitare il reale, di rivedere il tempo che ritorna. Non è linguaggio, né stile, né scrittura: non è definito dalle sue poetiche, dalle sue retoriche, dall’avvicendarsi dei suoi modi di espressione. È il prodigio della traccia impressa, la Sindone del mondo che continua, «uno schermo teso attraverso il mondo, perché su di esso vengano a stamparsi le cose»57. Ma, per contro, è unicamente attraverso l’azione di una scrittura che l’icona potrà esistere e darsi a vedere, è soltanto attraverso una nuova e ulteriore operazione di messa in forma che la forza muta delle cose potrà essere colta e mostrata («Perché sono le forme a dirci finalmente cosa c’è in fondo alle cose», 4a – Le contrôle de l’univers, 14’37). Riscrivendo le immagini in un’immane operazione di montaggio, ricomponendole e ritra56 57

J. Rancière, La favola cinematografica, cit., p. 237.

Ibidem.

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sformandole da capo, ridisponendole all’infinito l’una accanto all’altra, esse potranno dire ciò che le abita e più di ciò che le abita, essere viste e mostrate come per la prima volta, come altrimenti non sarebbe possibile: perché tutto sia diverso, perché l’immagine-attestazione possa mostrarsi, è necessario comporla, costruirla, consegnarla al prodursi di un impulso formativo. Solo così sarà possibile vedere (il montaggio consente di vedere) che «la storia del cinema è la proiezione della storia del secolo»58. Nella dinamica complessa tra «una poetica dell’icona» e «una poetica del montaggio»59, Godard riproduce al livello dell’intera struttura del polittico la duplicità di istanza attestativa e istanza costruttiva, di testimonianza e formatività, che definisce la natura del cinema. Tutte le polarità godardiane trovano in questo disegno e a un gran numero di livelli diversi una configurazione di eccezionale complessità. Attraverso il laborioso e stratificato dispiegarsi dell’azione formativa del montaggio, Godard fa fare al cinema, nella torsione etica che sorregge il suo agire estetico, quello che il cinema non ha potuto consapevolmente fare: testimoniare il secolo in cui si è data la sua stessa storia. La pura immagine-attestazione attorno alla quale si dispone la costruzione delle Histoire(s) è certo quella dovuta al dispositivo filmico, ma è anche quella della fotografia che lo precede, e ben A. Badiou, Su Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard, in Id., Del Capello e del Fango, cit., p. 253. 58

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J. Rancière, La frase, l’immagine, la storia, cit., p. 107.

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al di là dell’immagine riprodotta tecnicamente, è quella della pittura che precede la fotografia (ancora in accordo col grande disegno baziniano), del romanzo, della poesia, della filosofia. È quella inscritta nella voce e nella figura, nel colore e nella musica, nella linea e nella parola scritta, e, più in generale, nel dipanarsi delle diverse serie di materiali che in lungo e in largo attraversano le Histoire(s)60. Puri materiali visivi e sonori prelevati e sottratti all’intero immaginario occidentale, queste immagini e questi suoni non smettono tuttavia di appartenervi e di esibire in brandelli, i segni, le fogge, i lineamenti delle scritture che li hanno espressi: nude forze audiovisive convocate ininterrottamente l’una accanto all’altra, esse non cessano di esistere come forme, qui scardinate e aperte e indotte a ricominciare a formare, travolte da un’oscura forza costruttiva, il montaggio godardiano – in un incessante sconfinamento reciproco tra tutte le parti in gioco –, che li riusa per vedere e per pensare. Il cinema per Godard è fatto per connettere concettualmente immagini visive e sonore, per trovare nelle relazioni di elementi eterogenei, distanti l’uno dall’altro, nello choc che si produce tra l’uno e l’altro, il senso profondo che li tiene insieme, che li trascende, che non coincide con Secondo la recente proposta formulata da Badiou, le Histoire(s) si sviluppano attraverso una rete discorsiva definita dall’intersezione di ben otto grandi serie di materiali diversi, ciascuna dotata di modi propri, tendenzialmente ricorsivi, di articolazione. Cfr. A. Badiou, Su Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard, cit., pp. 249-264. 60

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

essi. Non c’è immagine al cinema, ma sempre due immagini associate, e proprio in quanto qualcosa le associa, esse sono già sempre tre: è ciò che Deleuze ha chiamato «metodo del Tra»61 e che spesso il regista descrive attraverso una nota definizione di Reverdy62. È questo in definitiva il montaggio, quello che consente di vedere e di pensare, che il cinema, per Godard, ha cercato, ma che non è mai riuscito a trovare. Sarebbe stata la sua “prospettiva” e la sua storia avrebbe avuto un corso diverso. Ma quel corso, per il regista, si è arrestato in un punto: un punto cieco – un’immagine mancante – attorno a cui tutte le altre immagini sembrano disporsi. 3. Tutto l’immaginario e il buio assoluto del reale

In quella tempesta visiva e sonora che informa le Histoire(s) du cinéma mentre interroga l’universo della cultura occidentale (film, pittura, letteratura, scultura, scienza, filosofia…), c’è qualcosa G. Deleuze, L’immagine-tempo, tr. it., Ubulibri, Milano 1989, p. 201. 61

«Un’immagine non è forte perché è brutale o fantastica – ma perché l’associazione delle idee è lontana e giusta», P. Reverdy, L’image, in “Nord-Sud”, n. 13, marzo 1918, poi in Id., Le gant de crin, Flammarion, Paris 1968, p. 30. Nelle Histoire(s) la frase è citata in 4b, 25’05; poco più avanti si legge: «Accostare le cose che non sono ancora mai state accostate e che non sembrano disposte ad esserlo», da R. Bresson, Note sul cinematografo, cit., p. 48. La frase bressoniana compare, tra l’altro, su un’inquadratura tratta da King Lear (Godard, 1987) in cui Mr. Alien/Woody Allen, al tavolo di montaggio, unisce pezzi di pellicola con una spilla. 62

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che fin dall’inizio si situa dentro e attraverso le immagini come ciò che le assilla, che vi insiste, che non lascia loro il tempo di restare. Qualcosa che intacca dal profondo (talora apertamente, più spesso in modo sotterraneo) tutte le immagini: questo oscuro tormento – ciò che non sempre vedo, né sempre ascolto, ma che sempre sento nel fondo dell’audiovisione – ha il proprio centro irradiante nei campi di sterminio (nell’immagine dei campi, nell’assenza di quell’immagine, nell’interrogazione su quell’assenza) e più in generale nel pensiero dell’orrore, di tutti gli orrori di cui il Novecento è stato capace. Se il cinema aveva fatto ingresso nel nuovo secolo come uno strumento che serviva a vedere e a pensare e se quel secolo ha prodotto l’orrore assoluto, quell’orrore, dice Godard, il cinema doveva vederlo e doveva pensarlo e non lo ha fatto, perché da tempo era stato trasformato in una macchina da intrattenimento o ridotto all’ammaestrata grancassa del potere. Lì il figlio della modernità, incapace di farsi sguardo e pensiero, si è perso per sempre. Ma in che senso esattamente il cinema non ha saputo vedere e pensare i campi? Occorre soffermarsi sui ripetuti interventi godardiani, fittissimi negli anni Histoire(s), che descrivono la questione: Tutto si è compiuto nel momento in cui non sono stati filmati i campi di concentramento. In quel momento il cinema ha totalmente mancato al proprio dovere. Ci sono stati sei milioni di persone uccise o gasate, principalmente ebrei, e il cinema non era lì. Eppure, da Il grande dittatore a La regola del 56

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

gioco, aveva preannunciato tutti i drammi. Non filmando i campi di concentramento, il cinema si è totalmente dimesso dalle proprie funzioni63.

E ancora: Per me la cosa è diventata chiara quando mi sono accorto, dopo un certo numero di anni, che i campi di concentramento non erano stati mostrati. Che, in generale, se ne era parlato, ma non li si era mostrati. […] Invece i campi erano la prima cosa da mostrare, nello stesso senso in cui si è mostrato come cammina un uomo attraverso il fucile cronofotografico di Marey o cose del genere. Non si è voluto vederli. E qui tutto si è fermato64.

In queste e in altre dichiarazioni degli stessi anni, per descrivere quella che ai suoi occhi si configura come una definitiva dimissione, Godard impiega piuttosto liberamente e tuttavia con una certa regolarità due termini distinti, filmare e mostrare. È allora forse possibile leggere la sua radicale posizione proprio a partire da questi due termini e dalle prospettive che essi descrivono. In ordine al filmare, Godard dice che il cinema è colpevole di non essere stato presente quando il 63 J.-L. Godard, Le cinéma n’a pas su remplir son rôle, in JeanLuc Godard par…, vol. II, cit., p. 336, corsivo mio.

Id., Histoire(s) du cinéma. Godard fait des histoires, cit., pp. 168-169, corsivo mio. Godard utilizza di regola l’espressione “campi di concentramento” anche quando intende chiaramente riferirsi ai campi di sterminio, come risulta in modo evidente dal primo brano qui riportato. 64

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mondo sprofondava nei campi. Ha tradito la sua vocazione alla presenza, la sua consustanziale capacità di testimoniare ciò che si compie, di essere accanto al mondo che procede, di essere il mondo fatto immagine. Si tratta con chiara evidenza di un argomento che non prende in considerazione il problema empirico di sapere come avrebbe potuto essere presente e filmare. […] Il cinema avrebbe dovuto essere presente ad Auschwitz perché essere presente è parte della sua essenza. Ovunque qualcosa avvenga – nascita o morte, banalità o mostruosità –, vi sono delle immagini che il cinema ha il dovere di catturare65.

Il cinema che porta sempre in fondo alle sue immagini l’oscuro continuare del tempo, che consente di vedere la Storia come nessun altro strumento può fare, non ha avuto immagini quando la Storia aveva il nome dell’orrore: lì la Storia è continuata senza sguardi, senza immagini, senza niente. Si è compiuta da sola, lontana dagli uomini, lontana da tutto. Quando Godard dice che il cinema non ha filmato intende dire che il miracolo della sua natura testimoniale è stato inutile se della prima cosa che doveva essere testimoniata non ci sono immagini. L’immagine-attestazione, l’icona della nuda traccia non è qui che pura assenza di immagini, immagine definitivamente mancante, o non consiste che in poche immagini di corpi annientati. Godard sa 65

J. Rancière, La favola cinematografica, cit., p. 238.

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

bene, cioè, che i campi sono stati filmati alla loro apertura. Non solo, infatti, conosce i documenti, ma, come ricorda Didi-Huberman, «li utilizza addirittura nel suo film»66. Ciò su cui egli intende portare l’attenzione è che proprio il cinema, che per essenza testimoniava, non si è trovato – non ha potuto trovarsi – nella condizione storica di poterlo fare e quindi di poter dire al suo tempo ciò che stava accadendo. Se attraverso alcuni autori il film di finzione aveva per così dire autonomamente, cioè fuori dai condizionamenti del potere, annunciato a suo modo «tutti i drammi» – la “danza macabra” della Regola del gioco, il Chaplin del Grande dittatore (1940), il Lubitsch di Vogliamo vivere (1942)67 –, se cioè aveva coniugato il suo diritto di raccontare storie con il dovere di dar conto della Storia, la pratica da tempo subalterna del documentario e più in generale il cinema come istituzione (qui Godard ha in mente soprattutto i cinegiornali), controllato o manipolato dal potere (le propagande di Stato), ha abitato la Storia come un complice forzato, come un colpevole coatto, come soggetto della Storia costretto, esso stesso, ad avere a che fare con l’orrore. Dunque c’è stata, certo, documentazione filmata, ma sono state solo magre attualità [le immagini girate all’apertura dei campi] che – sostiene Godard – hanno salvato G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2005, p. 177. 66

J.-L. Godard, Histoire(s) du cinéma. Godard fait des histoires, cit., p. 170; Id., Le bon plaisir de Jean-Luc Godard, in Jean-Luc Godard par…, vol. II, cit., p. 308. 67

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l’onore della registrazione del reale, magre attualità di cui non si è fatto niente. Dunque il cinema non è servito a niente, non ha fatto niente, non c’è stato alcun film. Si è detto “mai più”, ma il film di Resnais sui campi non lo si trasmette più68.

In ordine al mostrare, Godard sa altrettanto bene che i documenti filmati sono stati a lungo e ripetutamente mostrati. E tuttavia, da un lato, a suo dire, il mondo (il potere) ha progressivamente rimosso la questione («il film di Resnais non lo si trasmette più») o l’ha rinchiusa nella sua istituzionalizzazione, dall’altro il cinema non ha saputo prendere in carico l’urgenza di ripensare continuativamente se stesso e il mondo a partire dall’orrore, non ha cercato nelle immagini dei campi l’identità, il senso, il destino del mondo che viene dopo i campi, e, più propriamente, non ha mostrato quel venire dopo. Il cinema, per Godard, non ha saputo, storicamente, osservare «il mondo nello stato in cui l’avevano messo i campi»69, non si è fatto carico di far sentire come guardare l’umano dopo la demolizione dell’umano. Quando Godard dice che il cinema non ha mostrato intende essenzialmente dire che esso non ha saputo disporre l’orizzonte delle sue possibilità all’altezza di ciò che era stato («abbiamo smesso di essere all’altezza di verità fondamentali, ma non per questo esse smettono di essere», 3b, 23’37). È evidente che per Godard il nodo cruciale

68

Id., Le cinéma est fait pour penser l’impensable, cit., p. 299.

Id., Histoire(s) du cinéma. Godard fait des histoires, cit., p. 170. 69

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

della questione diviene proprio quello definito dal problema del mostrare. È infatti proprio con tale problema che la sua pratica filmica è chiamata a misurarsi. Si tratta ancora di fare con il cinema ciò che a suo dire il cinema non ha fatto e di farlo nel momento stesso in cui se ne scrive la storia. È di nuovo la polarità di attestazione e costruzione, di testimonianza e formatività, di icona e montaggio, quella che regola l’intero corso delle Histoire(s), a definire il modo con cui esse si incaricano di accostare il problema dei campi. A un primo livello, Godard associa l’immagineattestazione – «le povere immagini della notte» o quelle desunte dai pochi rigorosi racconti che se ne sono occupati – a ciò che in apparenza e in sé sembra non poter essere altro che distante da esse. Ma che con esse – nello spazio che intercorre tra ciò che è stato accostato – consente di vedere e di pensare. Di più, consente di mostrare «che cosa ne è del mondo dopo la svolta impressa dai campi all’istituto stesso della visione»70. Nella frontiera che separa un’immagine dall’altra – nell’interstizio che ci restituisce la differenza tra l’una e l’altra – il montaggio mostra allora il comporsi di un’impensata contiguità, di una contiguità che si dà come interamente da pensare e che al contempo ci restituisce l’istanza dichiaratamente testimoniale in cui si compie il singolo gesto formativo. A un secondo e più profondo livello, l’immagine dei campi tormenta da vicino e da lontano, lo si P. Montani, Introduzione, in L’estetica contemporanea. Il destino delle arti nella tarda modernità, cit., p. 33.

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diceva, tutte le altre immagini del flusso, incrinandone le identità conchiuse e definite, alterandone il valore e la funzione, lasciandovi ricadere il peso del proprio spaventoso riflesso. Tutte le altre immagini del polittico ne sono colpite e tutte vi si rispecchiano: «Godard pensa che tutte le immagini ormai ci “parlino” solo di questo […] ed ecco perché rivisita senza posa tutta la nostra cultura visiva sullo sfondo di tale questione»71. Tutte le immagini, pare dire Godard – quelle venute prima e quelle venute dopo Auschwitz – si possono, si devono leggere a partire da Auschwitz e dalle immagini che lo riguardano. O meglio, a partire dall’immagine mancante, dall’attestazione assente, dal buio di immagine in cui tutto si è compiuto. Qui Godard ci domanda di sentire (che non è solo un vedere e non è solo un ascoltare), accanto e in fondo a tutto ciò che ha avuto immagine, il peso di ciò che è stato senza immagini. Qui attraverso l’esorbitante azione del montaggio, egli accosta il nulla irrimediabile dell’immagine-attestazione al tutto delle immagini, che ne sono senza sosta ridefinite e riscritte. Interrogate da un’estetica che in un’irrinunciabile istanza etica esibisca il proprio orizzonte formativo, riattraversate dal farsi arduo e complesso di un formare autenticamente testimoniale, tutte le immagini indicheranno i campi come «la prima cosa da mostrare», come ciò di cui tutto l’esistente ci parla72 e che non smette di 71

G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, cit., p. 159.

È qui che si compone la più grande differenza tra il Godard delle Histoire(s) e il Lanzmann di Shoah (1985). Per Lanzmann i campi costituiscono un’unicità assoluta, irrimediabilmente chiusa in sé, che non può essere messa in relazione con altro che 72

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

invocare testimonianza. Si tratta di un importo che il montaggio consegue non soltanto nel singolo gesto formativo (cioè nel principio strutturale, nella meccanica della scrittura godardiana: un’immagine più un’immagine = un’immagine-pensiero), ma nel processo formativo profondo mobilitato dall’intero film. Qui le Histoire(s) si configurano come un unico, sconfinato sprofondamento nel cuore dell’immaginario occidentale costantemente attraversato dall’assillo che qualcosa di inimmaginabile e di reale73 ne ha definitivamente prodotto il collasso, annichilito le potenzialità, annullato le funzioni. Ecco allora che lungo il corpo del polittico godardiano, i raggi accesi, luminosi dell’immaginario (e dell’immaginario filmico in particolare) vengono mostrati di continuo accanto al buio assoluto del reale, al niente dell’immagine, al nero che frammenta il flusso e che è al contempo assenza di immagine (ciò che non è stato filmato, che non è stato mostrato) e parola estrema, residua dell’immagine (il nero come icona testimoniale, immagine per tutto ciò che non ha avuto immagini). Il perdurare acceso dell’immagine accanto a tutte le cose cadute senza immagine. È così che le Histoire(s) si incaricano di dire l’orrore assoluto e insieme di illustrare la dimissione storica del cicon se stessa. Per Godard, dopo l’orrore dei campi, ogni cosa parla di quell’orrore, che non cessa di ricadere sull’umano e che con l’intero orizzonte dell’umano deve di continuo essere posto in relazione.

Di un inimmaginabile che per essere testimoniato ci costringe allo sforzo di dover immaginare. È questa una delle tesi principali del libro di Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, cit. 73

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nema di fronte a esso e di fronte all’orrore che non ha mai smesso di abitare il XX secolo: la chiarezza e l’oscurità, il giorno e la notte, «il tempo nero tra ogni immagine», il vedere e il non vedere del cinema, i suoi occhi contemporaneamente aperti e chiusi sul suo tempo. Ecco la storia dell’ultima delle arti, dell’infanzia dell’arte. Se la si vuole vera, non si potrà scriverla se non mostrandone ininterrottamente splendore e miseria. Tentando di prendere in carico, in ogni senso, l’onere dell’uno e dell’altra. L’agire dell’artista che mette mano a quella storia non faticherà a incontrare il rigore dello storico che egli ha scelto di diventare: «l’arte – dice Godard – era la morale dell’occidente»74 e lui sa di esserne uno degli ultimi rappresentanti. Il fare estetico è un fare etico oppure non è. È allora nello iato che separa il diritto di mostrare ciò su cui il cinema ha aperto gli occhi (ciò che il cinema è stato) e il dovere di non smettere di mostrare tutto ciò su cui li ha chiusi (ciò che il cinema non è stato), in questo abissale battito di palpebre che accompagna il farsi delle Histoire(s), che si compie la più profonda operazione di montaggio attiva nel film, con la quale esso riscrive senza sosta ciò che chiamiamo la storia del cinema e quella del suo tempo. Le Histoire(s) du cinéma sono senz’altro un’opera di lutto, un immenso monumento funebre a qualcosa che è scomparso presto e di cui si può fare un commosso ricordo. Ma mentre sul finire del secolo le Histoire(s) non cessano di J.-L. Godard, Jean-Luc Godard rencontre Régis Debray, in Jean-Luc Godard par…, vol. II, cit., p. 423.

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«Tutta questa chiarezza, tutta questa oscurità»

ricordare i compiti cui il cinema ha mancato di dar corso e che lo hanno perduto, esse si sforzano di attendervi laboriosamente, silenziosamente, e immagine dopo immagine si ostinano a recuperare e a mettere al lavoro quello strumento per vedere e per pensare che, nel corso di un secolo, il cinema non è mai potuto diventare. Così le Histoire(s) si fanno monumento paziente e solitario alla vitalità residua e tenace del cinema, alla sua muta e ottusa capacità di resistenza, al suo impensato rimanere vivo. Raccontano la storia del suo continuo morire e insieme, sotto i nostri occhi, non smettono un istante di riportarlo in vita.

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«Un’oscura fedeltà per le cose cadute»

ALESSIO SCARLATO «UN’OSCURA FEDELTÀ PER LE COSE CADUTE». LA STORIA E LA TESTIMONIANZA DEI CAMPI

1. L’ordine del discorso

Una voce femminile legge un brano da Compagnons secrets (Beuchot, 1996), tratto da un romanzo sulla Resistenza di Daniel Anselme: «Diceva che la fedeltà, per quanto grande fosse e senza effetto sulla marcia del tempo, non è suscettibile di risuscitare nulla e nessuno, e che non c’è altra soluzione se non la fedeltà». L’ultimo capitolo delle Histoire(s) du cinéma, 4b – Les signes parmi nous, si è appena aperto, come gli altri, con una doppia dedica. In questo caso a Anne-Marie Miéville e allo stesso Godard. Scorrono in alternanza le foto di Robert le Vigan e di Simone Signoret. Ad accompagnare queste immagini la musica di Ketil Bjørnstad, The Sea. Prima sulle fotografie, quindi sullo schermo nero, le scritte: L’amour des histoires, Histoire(s) du cinéma, Toutes les histoires. Al testo di Anselme segue un brano tratto da una lettera (a Georges Landry, del 25 aprile 1873) di Leon Bloy: «L’uomo ha nel suo povero cuore dei luoghi che ancora non esistono e nei quali il dolore entra affinché essi siano». Su queste parole Godard monta la Cacciata dal Paradiso di Adamo 67

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ed Eva di Masaccio e alcune scene dall’Aleksandr Nevskij (Ejzenštejn, 1938) dedicate al massacro da parte dei tedeschi dei prigionieri di Pskov. Mentre proseguono le scritte (Une Histoire seule, Seul le cinéma, Histoire(s) du cinéma), ancora un accostamento tra due immagini che non sembrano disposte a essere avvicinate: un’inquadratura della giovane protagonista cieca da La scala a chiocciola (1946) di Siodmak e la foto-icona delle persecuzioni nel ghetto di Varsavia. Su queste inquadrature, a cui segue una veloce alternanza di un’inquadratura dai Nibelunghi (Lang, 1923-1924) e una foto di Fassbinder, Godard legge la conclusione de L’ordine del discorso di Foucault: «Capisco meglio perché provavo tanta difficoltà a cominciare, poco fa. Ora so qual è la voce che avrei voluto che mi precedesse, mi portasse e mi invitasse a parlare e che alloggiasse nel mio discorso. So cosa c’era di così temibile nel prendere la parola poiché la prendevo nel luogo dove l’ho ascoltato e dove lui non c’è più per sentirmi»1. In che modo trasformare la casualità della scelta di un frammento, di una sequenza, di una frase, e articolarla come se questa si imponesse con necessità come origine di un nostro pensiero? Domanda che ogni scrittura si pone prendendo la parola, anche quando cerca soltanto di proseguire un discorso già iniziato, quando cerca nelle sue

M. Foucault, L’ordine del discorso, in Id., Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-84, tr. it., a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001, p. 41 [traduzione leggermente modificata]. 1

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«Un’oscura fedeltà per le cose cadute»

pieghe la fedeltà che si deve a ciò che si ama. Domanda che raddoppia quella di Godard che in 4b fa a essa rimando attraverso Foucault. Ogni inizio si pone come principio d’ordine e cerca attraverso un racconto, attraverso tutti i racconti, di spiegare tale decisione. Ed è ciò che Godard dagli anni dei “Cahiers du cinéma” ha ritenuto essere il problema del cinema, dove iniziare e dove terminare un’inquadratura. Le Histoire(s) cominciano otto volte, o ancora più precisamente quattro per due, e attorno a esse si dispiegano una serie di opere storiche collaterali, come Allemagne année 90 neuf zero (1991), Les enfants jouent à la Russie (1993), Deux fois 50 ans de cinéma français (1995). I titoli dei singoli episodi a loro volta si ripetono di opera in opera, si sovrappongono, a insistere su una stratificazione che chiede di ripensare la singola sequenza, la singola voce, all’interno di un montaggio diverso. La complessità dell’ordito godardiano delinea un disegno a volte indecifrabile e costringe a uno sguardo d’insieme che non rende però giustizia del rigore compositivo di un’opera come le Histoire(s). Anche soltanto un paio di minuti, come quelli descritti in apertura, pur tra i più limpidi e già commentati in altre occasioni2, chiedono un’attenzione a ogni singola inquadratura, evidenziano la difficoltà della trascrizione analitica di una sequenza audiovisiva. Tale difficoltà rimanda a quella dello storico “tradizionale” che deve trasferire nella scrittura verbale la verità J. Rancière, La frase, l’immagine, la storia, in Id., Il destino delle immagini, tr. it., Pellegrini, Cosenza 2007, pp. 65-107. 2

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del passato e più cerca di essergli fedele, fino ad annullarsi nel suo racconto, più spettri e ossessioni personali e collettive riemergono nei margini di una citazione, di una fonte dimenticata, di un accostamento. Ma ancora più radicalmente, non è ogni discorso, in quanto domanda sulla propria origine, un pensiero che muove attorno alla ferita di un passato, il quale sfugge alla semplice presa del ricordo e alla ingannevole neutralità di uno sguardo positivista? Il gesto del dare inizio può essere quello di mostrare gli strumenti, le mani del proprio pensiero, il tavolo di montaggio e la macchina da scrivere (1a – Toutes les histoires), o la messa in video di un frammento de L’Image di Beckett, prosa in cui i movimenti di un uomo nel fango sono descritti come se avvenissero al di fuori di ogni volontà (1b – Une histoire seule); può essere la ripresa del durissimo atto d’accusa ai governanti europei scritto da Hugo nel 1876, senza che per alcuni minuti ci si renda conto del suo essere “passato” (3a – La monnaie de l’absolu), o la ricerca dell’origine nel gesto d’amore più estremo, una fedeltà senza speranza di resurrezione (4b). Muovendo da questa sequenza, la torsione che intendo dare al mio discorso riguarda proprio la fedeltà delle Histoire(s): la sua verità storica. La sequenza comincia da una dichiarazione di fedeltà da parte di chi è coinvolto nella Resistenza. Tale fedeltà separa il resistente dal collaborazionista, l’attrice Simone Signoret dall’attore Robert le Vigan. Da essa muove la storia. Dar sepoltura, senza speranza di resurrezione se non nella memoria, se non nella capacità rinnovata di distinguere i volti confusi nell’orrore. È una fedeltà disperata 70

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che trova nell’espressione del dolore la capacità di portare di fronte ai nostri occhi ciò che ancora non esiste. L’immagine della passione, dell’abbandono dell’uomo da parte di Dio, come in questo caso con la Cacciata dal Paradiso, è passione dell’immagine, è la difficoltà a rendere visibile, ossia pensabile. Tale immagine si nasconde perché Altro dall’uomo; questa alterità non è apertura a una trascendenza sublime, ma luogo dell’inumano, qualcosa di «più oscuro della politica» (Malraux). Il principio d’ordine sta dunque nel duplice compito di sepoltura dei morti e di arresto della visione nell’attimo della catastrofe, al di fuori di risoluzioni catartiche. Elegia e grido. Fare storia non è pura contemplazione di cose passate, ma debito e ritorno di possibilità rimosse che impegnano il racconto verso quel che è stato. Da qui la tensione apocalittica che diviene, come in Benjamin o Péguy, strumento per svuotare di senso il racconto storicista, per fare del passato memoria di un futuro invisibile, memoria di possibilità non accadute. Se ogni istante del racconto delle Histoire(s) appare come una possibilità apocalittica, come una ferita traumatica che ostacola qualsiasi narrazione lineare, “felice” nel suo svolgimento, c’è comunque un luogo verso il quale le diverse storie tendono come loro origine, ed esso è qui segnato dal montaggio di un documento del ghetto ebraico [fig. 1] con un’immagine esemplare della fabula di genere hollywoodiano, La scala a chiocciola [fig. 2]. Dietro quella favola si nasconde la storia del regista Siodmak, costretto all’emigrazione per sfuggire alla persecuzione nazista. Il delirio di un omicida seriale, che vuole purificare il mondo 71

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Fig. 1

Fig. 2

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da coloro che vivono con menomazioni fisiche o psichiche, e il blocco della parola della giovane protagonista sono evidente metafora del delirio biopolitico nazista e dell’assenza di voce delle sue vittime. La foto del ghetto di Varsavia, con il bambino in primo piano con le braccia alzate, è dagli anni del dopoguerra tra le più usate, fino a diventare una delle icone simboliche della Shoah, in nome di una pedagogia dell’orrore che ha finito per arrestare traumaticamente lo sguardo su alcune immagini. Dopo alcuni decenni, quelle immagini sembrano ormai soltanto evocazioni prive di un contesto, non attivano più alcun ricordo; sono piuttosto veicolo di un’emozione che rimuove la distanza tra le vittime e gli spettatori, così da rimanere fermi nell’alternativa tra un silenzio sacralizzante e una chiacchiera sentimentale, priva di pensiero. Godard riesce a riattivare il portato testimoniale (e non soltanto simbolico) di quella foto, intaccandone l’inaccostabilità, lavorando quel trauma, in questo caso facendo emergere la memoria che era nella finzione hollywoodiana, così da esibire di converso i fantasmi che si addensano attorno a un’immagine apparentemente soltanto documentaria. Godard lo fa, conscio dell’interminabilità di quell’analisi, perché continuamente lo sguardo rivolto ai deportati di Varsavia interroga il processo di transfert da cui è mosso il narratore3. L’incrocio tra fedeltà e speranza apocalittica, tra memoria personale e logica teologica segna i Sulle foto della Shoah, si veda: Visual Culture and the Holocaust, a cura di B. Zelizer, The Athlone Press, London 2001. 3

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due poli antinomici tra i quali si muove il discorso storico. Ne sono la duplice, dissonante origine. Il narratore attraverso l’elaborazione di una memoria personale ricorda alla comunità, di contro al totalitarismo del presente, il luogo, sempre al di là da venire, verso cui essa muove. Il teologo libera il nostro sguardo, fisso a un passato che si mostra come lunga catena di orrori, per aprire a una speranza impossibile, a un invisibile che non rimuova quel dolore. Ma la comunità stabilisce regole, protocolli, richiede prove, costruisce archivi, interroga testimoni, perché le memorie private e la logica scandalosa dell’invisibile possano costruire un orizzonte condiviso. Vi è uno scarto tra l’immagine veridica, persuasiva, perché in accordo con le rappresentazioni che una coscienza o una collettività ha di sé e del proprio passato, e l’immagine vera, che la comunità discute lottando contro i propri spettri. La verità della storia non nega la fedeltà della memoria e lo scandalo dell’invisibile. Lo storico sa però di parlare alla polis in nome di qualcuno che lo precede, che disloca e riarticola la tensione tra l’autobiografia e il lamento (o la lode) a Dio, in quanto riconosce la comune origine di quella memoria e di quello scandalo, ossia il debito verso ciò che è assente. La memoria, prima di essere racconto del mio io, è il luogo dove ritrovo i miei familiari, i miei amici, il mio mondo. La speranza apocalittica, piuttosto che risoluzione del dolore e superamento-rimozione della morte, indica che si è comunità soltanto attraverso la porta stretta di una redenzione comune, soltanto costruendo una polis che non dimentichi i morti reali del passato, che non li ri74

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muova, non li riduca a cenere. Se Foucault si rivolgeva a chi lo aveva preceduto nell’insegnamento al Collège de France, Jean Hyppolite, Godard onora questo debito nei confronti delle vittime della Shoah. Ma in che modo il suo racconto rispetta la verità di quel che è stato? E perché l’ossessione proprio verso quella frattura della storia del XX secolo? E ancora: dove concludere questa sequenza sulla fedeltà all’origine: sulla scritta end, dopo che il pubblico (La folla, K. Vidor, 1928) è entrato nel cinema ridendo, mentre appare e scompare, come di fronte al battito di apertura e chiusura degli occhi, l’ombra di Nosferatu (Murnau, 1922), ossia la finzione che vampirizza e acceca il pubblico, il nemico pubblico (Wellman, 1931)? O sull’esplosione di gioia vitalistica della danza di Gene Kelly e delle musiche di Gershwin? O forse su Anna Karina, che in Pierrot le fou (1965) mostra un paio di forbici di fronte all’occhio della macchina da presa, nel gesto del taglio? È necessario a questo punto capovolgere lo sguardo e dalla decifrazione di poche inquadrature muovere verso l’orizzonte del problema. 2. Storia e memoria nell’epoca del cinema

«Scrivere storia significa dare alle date la propria fisionomia»4. Il XX secolo chiede alla storiografia di riconsiderare i propri archivi, i propri metodi di W. Benjamin, I passages di Parigi, tr. it., Einaudi, Torino 2002, p. 534. 4

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spiegazione, le proprie tecniche narrative. Chiede di dissolvere l’apparenza del sempre uguale che scandisce con ritmo uniforme e vuoto un tempo che tutto cancella, secondo i modelli contrapposti e speculari delle ideologie del progresso e della decadenza. Perché di questo si tratta: le Histoire(s) sono un’autobiografia di Godard e una teologia dell’immagine, ma questi due movimenti sono i poli che costruiscono una narrazione storica, o ancor meglio un discorso sul metodo storiografico. Porre in evidenza il ruolo della messa in intrigo nell’elaborazione della verità storica non serve a ridurre la realtà del passato a una finzione, a un effetto di verità del discorso storico, ma segna un debito di fedeltà per ciò che è stato. Ciò può richiedere dei modelli narrativi, dei personaggi, delle scale temporali diverse rispetto agli schemi tradizionali, nei quali la scrittura costruisce uno spazio d’azione in cui interagiscono le volontà di soggetti autonomi, coscienti di sé. Per allargare il quadro alla storiografia letteraria, i criteri di spiegazione e quindi di narrazione delle Annales e della microstoria sono tentativi di pensare dei soggetti dell’azione al di fuori di quelli derivabili dall’orizzonte delle polis greche o degli imperi, per muovere verso una diversa interpretazione della causalità storica, senza ricalcare il modello della causalità efficiente delle scienze della natura. Ecco quindi la storiografia parlare di soggetti-luoghi, o di soggetti-mentalità collettive, o degli esclusi che non hanno avuto voce e volto5. Ma questi sono 5

Per una ricognizione complessiva del dibattito odierno sulla

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soltanto l’emergere di una riconsiderazione più vasta del soggetto di stampo cartesiano, cosciente e padrone della propria volontà, per cercare un fondo della storia ancora più originario. All’interno delle Histoire(s) una data si impone: la soluzione finale. È la data a cui essere fedeli. È l’origine del discorso. Ricorre in più luoghi: un lungo movimento di 1a (da 23’05 alla fine), quindi alcune brevi per quanto illuminanti sequenze negli episodi centrali (1b, 19’05-19’38; 3a, 12’49-16’52; 3b-Une vague nouvelle, 6’31-6’45), e infine più volte nel corso di 4b. Godard legge la storia del XX secolo a partire dalla sua memoria d’intellettuale europeo, nato pochi anni prima la Seconda Guerra Mondiale. La sua è una storia degli effetti del tramonto dell’Europa a partire da un evento, quello dello sterminio degli ebrei, che gradualmente è stato riconosciuto nella sua specificità dalla coscienza europea. Godard legge gli altri grandi traumi storici a cui fa riferimento nelle sue Histoire(s) a partire da quella data. Auschwitz è l’evento nel quale il testimone è annullato, è lo spazio di un’esclusione radicale che non soltanto mette a morte ma si pone lo scopo di impedire la conoscenza e la presa in carico di quel storiografia, il riferimento ineludibile è P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2003, oltre al classico M. De Certeau, La scrittura della storia, tr. it., Jaca Book, Milano 2006; sul problema della verità in assenza di testimonianza, C. Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, Feltrinelli, Milano 2006. Sulla storiografia nel cinema, si rimanda a De l’histoire au cinéma, a cura di A. De Baecque e Ch. Delage, Complexe, Paris 1998.

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che è stato. “Fuori di qua nessuno vi crederà”: è un monito che i carnefici rivolgevano spesso ai propri prigionieri. In modo più radicale rispetto ad altri eventi storici, il compito della traccia di farsi testimonianza assume perciò un ruolo centrale nella comprensione della fisionomia di tale data, proprio perché essa segna un evento giudicato inverosimile, impossibile secondo la logica della polis. Lì dove la memoria è distrutta, il passato è del tutto disponibile ai fantasmi e alle ossessioni che muovono la (volontà di potenza della) spiegazione. Lì dove non vi è memoria a cui essere fedele, lì dove l’altro è morto senza sepoltura, lì dove non vi è l’urto con la contingenza radicale, il potere sottomette alla propria ragione il passato. Perché gli spettri del passato non ne agitassero i sonni e le coscienze, tali morti reali sarebbero dovute accadere come se niente fosse. Quale storiografia allora, per un evento che si nega all’esperienza e alla memoria? Come spiegare tale progetto, la cui enormità sembra travalicare qualsiasi logica economica, sia pur perversa? Come scrivere di un evento che ha impedito, fino alla riduzione a cenere, la sepoltura dei morti? Il problema delle Histoire(s) interroga alla radice la natura stessa della storiografia. La Shoah impone che la verità del passato si faccia testimonianza, ossia impegno e riconoscimento del debito verso quell’evento preso nella sua singolarità, verso quella traccia incenerita. Per leggere le Histoire(s) come un’opera storiografica bisogna confrontarsi con quest’origine del discorso, chiedendo quali archivi e quali strategie narrative propone di fronte a una data che 78

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intendeva cancellare la possibilità della testimonianza. Il cinema è predisposto a una concezione testimoniale della verità, ma con la Shoah ci troviamo di fronte a un vuoto: la distruzione non è stata registrata. Dalla constatazione fattuale della povertà d’immagini dei campi nazisti, Godard affronta il problema di come testimoniare tale frattura della storia6. Lì dove altri sostengono che il vero testimone è il sommerso7, e che quindi la testimonianza deve partire dal riconoscimento di un limite ontologico per chi prende la parola e tenta un’impossibile sepoltura, le Histoire(s) cercano di riattivare il portato testimoniale di quelle poche tracce attraverso una scrittura, il montaggio, che si fa resistenza, e questa a sua volta si offre come martirio, sacrificio. Il cuore oscuro attorno a cui muove quest’enorme opera di montaggio sono quindi i campi: il luogo di produzione dell’invisibilità della violenza estrema di Stato. Le Histoire(s), come poche altre opere (su tutte, Shoah di Lanzmann e Private Hungary di Forgács, 1988-2002), hanno posto il problema dell’archivio e da lì hanno costruito una narrazione che fosse fedele alla natura delle sue fonti. Ogni volta il 6 Sulla necessità da parte delle arti di ripensare il proprio statuto a partire dal problema della testimonianza della Shoah, si veda: L’estetica contemporanea. Il destino delle arti nella tarda modernità, a cura di P. Montani, Carocci, Roma 2004. Mi permetto di rinviare anche a: A. Scarlato, 20 gennaio 1942. Auschwitz e l’estetica della testimonianza, NEU, Roma 2009.

In primo luogo la riflessione tarda di P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986. Su questa linea si muove Lanzmann in Shoah (1985). 7

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racconto dello sterminio orienta e costruisce uno spazio-tempo dell’azione che conduce lo storicotestimone delle tracce audiovisive a proporre spiegazioni e articolare narrazioni dal timbro lontane l’una dall’altra, ma che si raccolgono come in una costellazione e raccontano colui che è stato messo al bando dalle polis nel cuore dell’Europa, al di fuori di qualsiasi riduttiva lettura lineare-progressiva dei fatti. Lanzmann costruisce il suo racconto ponendo a confronto, senza alcuna immagine di repertorio, alcuna immagine del passato incenerito, le memorie degli sguardi (dei carnefici, delle vittime, degli spettatori indifferenti) e da qui racconta la Shoah come la data verso cui tende l’Occidente, il presente eterno dell’annichilimento non visto del popolo ebraico. Forgács, con l’archivio di film cineamatoriali, di sguardi nascosti a quello ufficiale dell’arte di potere, all’arte dei diversi regimi succedutisi in Ungheria, mobilita le proiezioni e gli sguardi di tre memorie: di colui che prima dell’evento mette in scena il proprio quotidiano, non vedendo le “ragioni” che progressivamente limitano il proprio spazio d’azione o ascoltandole come fossero una melodia8, lo sguardo dello spettatore che oscilla dal distanziamento critico all’empatia con coloro che muoiono eternamente di fronte alla macchina da presa e infine il proprio, quello di archivista, che muove tra l’indagine di una memoria privata e la ricostruzione (con voci off o con didascalie) La voce off che legge i diversi provvedimenti che limitano le libertà e i diritti dei cittadini nell’episodio più strettamente dedicato alla persecuzione ebraica (ep. X, Free Fall, 1996) è melodiosa e affascinante.

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della cronaca pubblica, ufficiale, impersonale. In Forgács la Shoah è ciò che si nasconde a se stessi, il fantasma di un potere apparentemente lontano che agita e inquieta la microstoria di individui e di nuclei familiari che cercano nella loro quotidianità il tempo eterno del rito. Anche Godard spiega e racconta partendo dal problema dell’archivio della memoria, dagli spettri dimenticati eppure incancellabili. Ma la sua memoria non è quella delle voci prive d’immagine dei testimoni (Lanzmann) o delle immagini private, nascoste all’impersonalità pubblica del potere (Forgács). La memoria di Godard è quella del cinema intero. Il lavoro della memoria avviene attraverso supporti, che sono il tramite che disloca qualsiasi presupposta immediatezza, qualsiasi idea di un maggior contatto con l’evento. È un lavoro che trattiene qualcosa archiviandolo, ossia inserendolo all’interno di una rete che si organizza negoziando tra diverse pulsioni, tra diverse esigenze, ma che comunque esibisce un intreccio tra la memoria interna e quella esterna, tra quella privata e quella pubblica. Impossibile distinguere una memoria interna innocente, come se questa si elaborasse al di fuori di un’archiviazione che è già di per sé scrittura su un supporto e al contempo elaborazione dei propri spettri9. Il supporto perJ. Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, tr. it., Filema, Napoli 2005. Il problema della negoziazione tra spinte confliggenti, come meccanismo che regola la produzione delle immagini del cinema, è il centro teorico di F. Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Bompiani, Milano 2005. 9

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mette quindi alla memoria di riattivare il ricordo, di renderlo vivo, di riportarlo alla luce. Il modo in cui le impronte lasciano il segno nell’archivio della nostra memoria risponde dei supporti che nel corso dei secoli le mani pensanti (4a, 4’4410’22) dell’uomo hanno saputo costruire. Vivere nell’epoca della fotografia e quindi del cinema significa non soltanto avere un ulteriore supporto per la nostra memoria esterna, ma memorizzare cinematograficamente. E perciò, provare a spiegare e raccontare quel passato attraverso la memoria del cinema. La memoria del titanismo dei produttori, di chi ha scritto e immaginato film mai fatti, di attori-divi-testimonial per industrie di cosmetici, di spettatori che hanno sognato nel buio la luce del proiettore, di angeli che hanno custodito quelle pellicole infiammabili, di amici e padri che ne hanno scritto e discusso, delle storie di fatale bellezza e di seducente distruzione, di politici che con essa hanno manipolato le coscienze, di pittori che hanno mostrato la gloria del visibile, di scienziati che hanno indagato la materia invisibile, di martiri che vi hanno cercato redenzione, di vittime senza nome e senza volto, testimoni senza sepoltura. La memoria di Godard. 3. Auschwitz: tutte le storie, una storia sola

Godard non propone una cronologia, né un catalogo di grandi opere o di innovazioni tecniche. Sarebbe l’ennesima storia dalla parte dei vincitori, dalla parte di una ragione che mostra la sua potenza e afferma la necessità di ciò che si è reso visibile. 82

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Quella di Godard è una storia contropelo, che segue il movimento convulsivo dei vinti, dei dispersi, di coloro la cui storia è stata raccontata da altri, o addirittura è stata negata10. La Shoah, intesa come progetto non soltanto di cancellazione di un popolo ma anche della memoria di tale distruzione, ne è il centro focale. Godard strappa “pezzi di realtà” dal proprio contesto e li monta perché finalmente si veda quel che in essi è contenuto. Scrivere storia significa citare storia senza virgolette, come insegna Benjamin, a sua volta “allievo” di Vertov. Ancora secondo la lezione di Benjamin, questo montaggio non costruisce narrazioni dal passato verso il presente, ma costellazioni d’immagini dialettiche, dove l’ora e quel che è stato si uniscono fulmineamente, nell’attimo della catastrofe e del significato incipiente. Il video permette addirittura di giustapporre nello stesso quadro più pezzi e di dare soluzione audiovisiva al progetto benjaminiano. Con quel flusso di immagini dialettiche, le quali si sovrappongono per far emergere degli eventi, Godard torna più volte sullo stesso nodo, ma inserendolo all’interno di serie diverse che ne mostrano un volto diverso e lo mettono in connessione con altri traumi che segnano la mappa del secolo11. Toutes les histoires e Une histoire seule. Il primo dittico orchestra il campo-controcampo che 10 Su questo insiste C. Scemama, Histoire(s) du cinéma de JeanLuc Godard. La force faible d’un art, L’Harmattan, Paris 2006.

Una proposta di classificazione delle serie è in A. Badiou, Su Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard, in Id., Del Capello e del Fango, a cura di D. Dottorini, Pellegrini, Cosenza 2009, pp. 249-264. 11

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regge tutte le Histoire(s). Da una parte le storie raccontate, le storie del desiderio e delle finzioni che si accordano ai nostri desideri, le storie di Hollywood e quindi quelle dei suoi padri-produttori, e da lì tutte le storie dei film che non sono stati fatti. Il controcampo del lavoro delle mani alla sala da montaggio e alla macchina da scrivere è una storia sola, ossia la cosa stessa («la Storia, non colui che la racconta», 1a, 10’25): l’immagine al tempo della resurrezione, ossia la cosa che emerge nella sua specificità e risorge attraverso il lavoro del montaggio. L’articolazione di 1a individua gli snodi del racconto. Una prima sequenza mostra le regole del gioco: gli strumenti della visione e al contempo del pensiero, le mani che vedono se stesse soltanto mentre sono al lavoro, mentre affrontano il compito della discesa agli inferi, al Padre, e da lì la fatica improba (hoc opus, hic labor est) della risalita. Quindi i due movimenti, il cinema vampiresco delle fabbriche di sogni (1a, 5’36-23’04) e la notte del cinema che non ha visto i campi (da 23’05 al termine). Godard apre quest’ultimo movimento con i grandi film che non sono stati realizzati, parzialmente distrutti, resi invisibili: Don Chisciotte (Welles, 1957-75), Il Mercante di Venezia (Welles, 1969), La condizione umana (Malraux), Umiliati e offesi. Sulle immagini di Ejzenštejn (Il prato di Bežin, 1935-37), la voce di July Delpy legge dalle Lettere a un giovane poeta di Rilke: «È scesa la notte, un altro mondo si è levato, duro e cinico, analfabeta e amnesico, che gira senza ragione evidente, chiara, come se avesse perso la prospettiva, come se avesse perso il punto di fuga». 84

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La morte di Orfeo-Cocteau (Il Testamento d’Orfeo, 1959), del poeta che sarebbe dovuto risalire dagli Inferi, intervalla un brano più ampio, tratto dall’Atalante (Vigo, 1934): il protagonista Jean che si tuffa nell’acqua per suicidarsi e nuotando a occhi aperti vede-immagina la sua compagna Juliette. Ascoltiamo l’inizio di un lied di Mahler, Quando la mia amata si sposa. Allo stesso tempo, una voce recita alcuni versi di Valère Novarina: «Je suis l’erreur qui vit. Je suis Jean, je suis Jean, vivant malgré lui». Ancora un Orfeo che rischia la propria vita per vedere Euridice. Lì dove il poeta è stato assassinato, rimangono le storie di letto, le storie che possono essere viste in Tv. Godard va più a fondo, non si accontenta di rintracciare le grandi opere che le mani dell’uomo sono riuscite soltanto in modo frammentario a portare ai nostri occhi. Interroga le mani dell’uomo che hanno costruito l’invisibilità dei campi. Le mani di Karajan, direttore d’orchestra tedesco che dirige Wagner nella Parigi occupata, si sovrappongono a quelle di Hitler: le mani che estetizzano la violenza, che fanno della morte un languido spettacolo nel quale immergere e perdere la propria anima, le mani che coprono la barbarie con la cultura, le mani di una fatale bellezza. Il raccordo che intreccia i fili dei film non fatti, delle storie di letto e quindi degli anni della guerra è sviluppato da Godard attraverso una microstoria, quella della realizzazione fallita della Scuola delle mogli (Ophüls), per via della relazione tra il regista e l’attrice Ozerlay, moglie dell’attore Jouvet. Con sarcasmo, Godard vi legge il riflesso speculare dell’invasione tedesca in Francia. 85

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Tale raccordo indica che il quadro storico proposto da Godard risente della sua memoria personale. Come Lanzmann racconta della riscoperta di un’identità ebraica, che non può essere ridotta a quella dell’altro dall’antisemita, come Forgács indaga le microstorie che si nascondono alle menzogne del potere totalitario, così Godard si confronta con l’alternativa della scelta tra resistenza e collaborazionismo12. Per un verso, «i film erano stati fatti, non è così?» (1a, 32’39) . Il cinema, a differenza della radio («Radio Parigi mente», 1a, 32’20), aveva mantenuto la parola. Negli anni che precedevano la guerra, il cinema aveva visto il teatro che muoveva con rigorosa violenza i conflitti di classe (La regola del gioco, Renoir, 1939), aveva visto i processi di piazza (M, il mostro di Düsseldorf, Lang, 1931) e l’impulso mortifero di una pretesa razionalità tecnica (Il dottor Mabuse e Metropolis, Lang, 1922 e 1927), aveva visto il dittatore rubare il volto alla più grande maschera del cinema (Chaplin). Quelle finzioni avevano detto. Ma lo sprofondamento nella notte, il cuore buio delle Histoire(s) e del cinema (europeo) è quello degli anni tra il ‘39 e il ‘44, gli anni dell’occupazione nazista, gli anni nei quali non si sono filmati i campi. Godard cerca con il montaggio di salvare l’onore di quel reale (1a, 32’52). Lo fa pensando con le mani attorno a poche finzioni, su tutte La passeggera di Munk, in fondo anch’esso un film La questione del collaborazionismo francese è richiamata in una breve inquadratura, all’epoca censurata, di Notte e nebbia (Resnais, 1956) ed è al centro di Le Chagrin et la Pitié (Marcel Ophüls, 1969). 12

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non fatto13, e alle immagini di repertorio girate all’apertura dei campi. «La sofferenza non è una star» (1a, 42’52) come regola aurea. Raccontare il campo attraverso la finzione significa renderlo verosimile, pensarlo come uno spazio politico nel quale l’individuo è responsabile di sé e delle proprie azioni. Questo conduce a ignorare lo sguardo della vittima e a vedere il campo soltanto attraverso gli occhi del carnefice. La Passeggera è consapevole di questo e staglia la propria finzione sullo sfondo anonimo della morte di massa. Il passato del campo mai rielaborato, e quindi mai realmente passato, è nella Passeggera visto a partire dagli occhi di un carnefice che cerca di sedurre la propria vittima e la costringe a suonare mentre i propri compagni vanno alla morte. Il controcampo di questa finzione è in 1a quello dello spettatore incredulo, spaventato, che all’entrata dei campi si trova di fronte ai nudi corpi, agli scheletri ambulanti, alla massa di vittime senza nome: è la terribile icona in bianco e nero dell’Autoritratto di Rembrandt (1a, 45’33). Questo è il campo-controcampo che Godard cerca con umiltà profonda, attenta, di montare in 1a: la violenza estetizzata dei carnefici e l’orrore dello spettatore-testimone di fronte alla morte di massa. Ma è un movimento che muove attorno a uno sguardo che non finisce mai di mancare, quello del testimone-vittima. Intorno Il regista Andrzej Munk muore nel 1961 durante le riprese. La Passeggera è completato nel 1963 da alcuni suoi collaboratori, che montano il materiale girato e su alcune foto di scena leggono un commento che non pretende di cancellare le lacune del girato rispetto alla sceneggiatura. 13

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a quella mancanza era costruito Shoah, opera-monumento che rifiuta immagini d’archivio, mai fatte dal punto di vista del testimone-vittima. Godard monta soltanto una breve sequenza da Shoah. È quella dal più alto valore iconico: il conducente del treno verso Treblinka, mentre compie con la mano quel gesto di rasoio, con cui chi assisteva al passaggio delle locomotive avvertiva gli ebrei del loro destino (1a, 34’54). Ogni fotogramma del cinema è immagine d’archivio; in esso lavorano il principio formativo e la registrazione di qualcosa. Ma, come discusso in apertura, lì dove l’origine di quel fotogramma è documentaria, Godard ne esalta il valore simbolico, mentre nei brani strappati dalle finzioni, come con la Passeggera, cerca la capacità di testimoniare al di là (o al di sotto) del racconto dal quale proveniva. La sequenza descritta, uno dei punti incandescenti dell’intera opera, mantiene un volto nascosto. La memoria-archivio della storia del XX secolo è quella del cinema. La scrittura di quella storia è affidata al montaggio. Ma l’operazione della spiegazione sembra non assumere un ruolo distinto, oscillando tra la fiducia nella capacità del pensiero manuale di trovare i giusti accostamenti e quella nella verità dell’immagine in quanto tale, tra il lavoro poietico dell’immaginazione e la contemplazione umile della memoria del mondo proiettato dal cinema. Godard cerca di liberare la narrazione cinematografica dal dominio del linguaggio verbale. Un dominio che si è sviluppato nella storia del cinema costruendo per lo più opere che sono la messa in scena di un’azione teatrale o letteraria, dove comunque la parola significa l’immagine, 88

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riempie il quadro audiovisivo, rappresenta il senso sotteso alla manifestazione fenomenica. L’orizzonte logocentrico della spiegazione rispecchia quella polis nella quale i soggetti iniziano liberamente le proprie azioni e ne rispondono in modo cosciente. La fuoriuscita da quell’orizzonte segna la realtà del XX secolo, il cui spazio esemplare non è stato quello della libera discussione nell’agora, ma piuttosto quello dei campi. Il soggetto è dominato da forze sovrapersonali, da impulsi, da spettri, che non permettono la descrizione lineare di una sostanza padrona della propria coscienza. Oltre a questa motivazione, legata a una data, a una ferita che si annida in tutte le storie del XX secolo14, ve ne è una più propriamente ontologica (se non teologica): la realtà è fatta di immagini, non di parole. Quello che cerchiamo abitualmente in una spiegazione è perciò la possibilità di ridurre le immagini della nostra memoria d’archivio alle forme (lineari, consequenziali) del linguaggio verbale15. Lì dove Tra gli storici che si sono confrontati sul problema di nuove metodologie di narrazione dopo Auschwitz: O. Bartov, Mirrors of destruction. War, Genocidy and Modern Identity, Oxford University Press, New York 2000; S. Friedländer, La Germania nazista e gli ebrei, tr. it., Garzanti, Milano 1998-2009; R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, tr. it., Einaudi, Torino 1999; A. Wieviorka, Déportation et Génocide. Entre la mémorie et l’oubli, Lon, Paris 1992; Id., L’età del testimone, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 1999. 14

A sua volta il museo, ossia l’accostamento di opere d’arte al di là della loro origine spazio-temporale, costituisce uno spazio che predispone quello ancora più immaginario del cinema. Su questo, l’opera godardiana fa dialogare Benjamin con A. Malraux (Il museo dei musei, tr. it., Leonardo, Milano 1994). 15

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il cinema può mostrare tale passato e non soltanto dirlo, la spiegazione verbale riduce la ricchezza di nessi che anche soltanto pochi secondi delle Histoire(s), con le loro sovrimpressioni, le loro dissolvenze, le polifonie sonore, le composizioni di quadri visivi (foto, fotogrammi, pitture) possono offrire. Le mani di Karajan nella Parigi occupata mostrano in pochi secondi l’estetizzazione della violenza, mostrano la sua preparazione nella cultura tedesca, ne individuano le assonanze con Hitler. Tutto ciò ha bisogno di un sottotesto verbale? Il movimento della «storia senza parole, storia della notte» (1a, 23’05 fino alla fine) tiene insieme queste due motivazioni, la fedeltà testimoniale alla verità dell’epoca dei campi e la fede nella verità dell’immagine cinematografica che mostra-proietta la cosa stessa: l’immagine è sudario, non schermo (1a, 38’30). Per questo Godard, che pure costruisce tutte le Histoire(s) attorno al vuoto d’immagini di Auschwitz, mostra un’irrisolvibile ambiguità. Quella espressa dal montaggio [fig. 3] della scena sul lago di Un posto al sole (Stevens, 1951) e Noli me tangere di Giotto (1a, 47’18-47’32)16. Il ricordo dell’orrore nascerebbe dall’arte, da ciò che rinasce dopo che è stato bruciato (1a, 45’43). Godard propone alcuni esempi, la Guernica di Picasso, la Fucilazione del Tre maggio 1808 di Goya, fino a Un posto al sole. Dalla testimonianza Su questo montaggio incentrano le loro analisi molti dei principali studi sulle Histoire(s), in primo luogo G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2005, e J. Rancière, La favola cinematografica, tr. it., ETS/Cineforum, Pisa/Bergamo 2006. 16

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Fig. 3

della distruzione portata dalla guerra e della sofferenza dei resistenti alle immagini di una gioia apparentemente vacua. Ma in quelle immagini Stevens ha meritato il diritto allo sguardo felice che esprime nel volto di Liz Taylor perché egli ha pochi anni prima filmato i campi alla loro apertura (Nazi concentration camp, 1945)17. Godard monta l’orrore dei corpi ridotti allo stremo con la felicità di Liz Taylor, senza per questo sostenere che la finzione hollywoodiana sia la soluzione dialettica, il positivo che supera quel negativo, né tanto meno intendendo criticare la vacuità rispetto al disumano registrato dalla macchina da presa nei campi. Le Il documentario fu mostrato al processo di Norimberga. Queste immagini sono state poi utilizzate e rimontate dal figlio, George Stevens Jr., per il documentario D-Day to Berlin (1994). 17

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due scene si illuminano reciprocamente: l’una mostra la distruzione dell’umano, l’altra ne segna la speranza di redenzione. Ma questa specularità tra la memoria della distruzione invisibile e la speranza di qualcosa d’altro dal visibile fino a che punto può arrivare? Godard inquadra la scena di Un posto al sole all’interno di un particolare di Noli me tangere. Il dipinto è ruotato di novanta gradi, cosicché la mano di Gesù che si allontana da quella della Maddalena sembra provenire dal fondo della terra. Cristo è la vittima-martire, colui che accede all’immagine attraverso la sua passione. La memoria della vittima è quindi memoria di un sacrificio che permette di trasformare la cenere in qualcosa che risorge. «Martirio e resurrezione del documentario» (1a, 47’18), intitola questo passaggio Godard. Le Histoire(s) parlano delle vittime del XX secolo a partire da quel prima originario, dalle vittime lasciate sole dal cinema: a partire dai campi. Ma la teologia dell’immagine godardiana cristianizza quella solitudine, quella cenere che si fa braccio implorante dal fondo dalla terra. Lì dove c’è martirio, vi è resurrezione, reale o simbolica che sia, e con essa il potere salvifico dell’arte. Se il vuoto d’immagine della Shoah si ripercuote sulla storia del XX secolo, il controcampo del cinema-cristianesimo a sua volta vampirizza la sofferenza dell’abitante dei campi, la fa propria, la sottomette alle proprie icone di nascita splendente e di martirio redentore, come fa Godard montando una Madonna con bambino di Grünewald con Salomé che riceve la testa di Giovanni Battista di Caravaggio (1a, 46’03-46’16). Forse Godard non poteva fare altro, perché immergendosi nella 92

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storia delle immagini dell’Occidente, aveva a che fare con immagini cristiane e perché, ancora più a fondo, la fede nell’immagine è di per sé fede nella sua resurrezione («Oh che meraviglia poter guardare ciò che non si vede», 1a, 47’27). Pur dando vita a questo nodo irrisolto, l’insistenza su una dimensione apocalittico-sacrificale permette a Godard di non scivolare nella parola monotona, ormai estenuata dal ricordo, rassegnata al fatto che così è stato; quella parola che deve ascoltare il bambino completamente abbandonato al buio della storia, nell’ultimo fotogramma di 1a [fig. 4].

Fig. 4

Qui una guida probabilmente polacca descrive in un francese monocorde la meccanica dei campi. Lì dove la memoria è ridotta a una visita per turisti distratti o a uno spettacolo hollywoodiano, Godard costruisce una testimonianza sacrificale di discesa 93

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agli inferi, nella quale l’innocente è gettato nel fuoco (The Heart of Humanity, Holubar, 1918), quindi si suicida (Germania anno zero, Rossellini, 1947), e infine è lasciato solo: solitudine della storia. Une histoire seule capovolge lo sguardo di Toutes les histoires. L’oggetto non sono le storie raccontate dal cinema, non sono le mani che pensano, ma la consistenza ontologica della realtà proiettata. Il controcampo del lavoro poietico è la realtà-immagine, come nella prima inquadratura, che presenta un brano dell’Image di Beckett. Gran parte del capitolo è dedicata alla ricostruzione dei diritti e dei doveri del cinema, erede della fotografia (e della pittura), nei confronti della realtà, attraverso una dicotomia “giansenista” tra la televisione diabolica, che tutto rimpicciolisce e rinchiude dentro gli schermi delle camere da letto, e il cinema-cristianesimo. Un fotogramma tratto da Prigione (Bergman, 1949), con i due protagonisti (un giornalista-sceneggiatore e una prostituta) dietro un proiettore, ritorna ossessivamente in 1b. Prigione racconta del progetto abbandonato di un film su un mondo conquistato dal diavolo, lasciato alla sua monotona ripetitività, dominato dalla ripetizione senza scopo. Un breve momento di tranquillità si apre nel racconto, quello della proiezione di un film comico muto, a cui assistono nella soffitta i due protagonisti. Ma tra le immagini si nasconde, non riconosciuta, la morte. Questo leitmotiv visivo indica il cuore teologico del capitolo: Il cinema come il cristianesimo non si fonda su una verità storica, ci fornisce un racconto, una storia e ci dice ora credi. E non concedere a questo rac94

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conto, a questa storia la fede che si riconosce alla storia ma credi qualunque cosa accada e non può essere altro che il risultato di una vita intera. Hai un racconto, non comportarti con lui come con altri racconti storici. Dagli un’altra collocazione nella tua vita (1b, 19’39-22’01).

La scritta L’Image ritorna più volte, mentre Godard, dopo aver ricordato la capacità di immaginare una terra ancora invisibile con Fuga dall’Egitto di Giotto, ferma il suo sguardo sulle mani imploranti di Giovanna d’Arco (Bresson, 1962) e della scultura di Giacometti, sulle mani che toccano il suolo e si aprono al contatto con altre mani, per montarle con un fotogramma dalla scena della resurrezione di Ordet (Dreyer, 1955). Parola per parola, in parte oscurata, infine lampeggia per un istante la frase paolina: L’image viendra au temps de la resurrection (1b, 20’58-21’48). A guardare quella scritta è l’occhio spalancato/ferito di Un chien andalou (Buñuel, 1929), è l’occhio che incarna il trauma della visione, che ne porta le tracce [fig. 5]; è l’occhio che, dopo aver visto i corpi morti, decapitati (Davide con la testa di Golia di Caravaggio), sezionati (Lezioni di anatomia di Rembrandt), crede alla possibilità di evadere. In un solo fotogramma Godard condensa la scritta Industria dell’evasione e il fotogramma di Birgitt, la protagonista di Prigione, che si muove verso la luce che esce da una porta spalancata e verso il suo suicidio. Quell’evasione è compromissione con il diavolo non visto, è la miseria di un’industria dei cosmetici, o è il luogo dove la memoria montando permette di risorgere, dove lo splendore della luce libera dalla malattia della disperazione? 95

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Fig. 5

La Shoah entra fulmineamente, nella sequenza immediatamente precedente dedicata ai treni del cinema, con un documento d’archivio, ripreso da Notte e nebbia18. Godard in questo controcampo di 1a mette però al centro non tanto il trauma storico, ma l’ontologia (il miracolo) della resurrezione dell’immagine. Nelle Histoire(s) tale resurrezione, in modo indecidibile, può essere pensata come il lavoro della memoria che permette una sopravvivenza simbolica, una resistenza che si fa finalmente visione, attraverso il montaggio, della vita nascosta nelle tracce fotografiche, oppure come realtà incancellabile, dono di un essere che si dispiega La sequenza riguarda un treno di deportati da Westerbork. La giovane ragazza, che guarda disperata dal treno, è d’etnia rom, e non ebrea come spesso si è sostenuto [fig. 7]. È un caso tipico di documento per il quale il valore simbolico ha travalicato quello più strettamente informativo. 18

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e si incarna, di un essere in cui il Padre-origine e il logos-immagine sono uniti dalla stessa essenza. È infatti il parallelo tra cinema e cristianesimo ad attraversare l’episodio con i frammenti visivi dal Vangelo secondo Matteo (Pasolini, 1964) e Due soldi di speranza (Castellani, 1952), con brani di musica sacra come la Sinfonia dei salmi di Stravinskij, e con la lettura continua di passi evangelici. All’epoca della realizzazione di 1b, pur avendo già delineato il quadro complessivo delle Histoire(s), Godard non aveva garanzie sulla possibilità di portare a termine l’intera opera. La fine di 1b è, sia pur provvisoriamente, la conclusione delle Histoire(s). Il timbro cristiano vi risuona in modo ancora più netto. Godard monta un piano da La donna che visse due volte (1958), il film sulla resurrezione di Hitchcock, e uno del pressoché dimenticato Pandora (1951) di Lewin, dedicato a un sacrificio per amore in grado di riportare alla vita vera colui che per le sue colpe è costretto a vagare in eterno, con una scritta tratta dagli Atti dagli Apostoli (XVI, 28), Paolo che al suo carceriere grida: «Non fatevi del male, perché siamo tutti ancora qui». Quasi in un sussurro impercettibile, Godard si domanda «Cristo è un uomo o l’immagine di un uomo? Cristo è nell’Eucarestia realmente o simbolicamente? Un uomo filmato è reale o è la finzione di un uomo?». La fine degli anni Ottanta chiude il secolo breve; o meglio lunghissimo, se esso comincia, come spesso sottolinea Godard, nel XIX secolo. Il nuovo inizio delle Histoire(s) significa storicizzare lo stesso progetto, coglierne il prima e il poi, spiegare perché la storiografia, ossia la «descrizione precisa di ciò che non ha mai avuto luogo» (2a 97

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– Seul le cinéma, 1’50-2’24), ha a che fare con la critica d’arte francese, con quella tradizione che va da Diderot e Baudelaire a Malraux e Faure, e trova nei giovani dei “Cahiers” la sua espressione ultima, la sua proiezione. Godard ricomincia dall’intervista a Serge Daney in 2a (2’46-11’17)19. In una prospettiva di storia per immagini, lo storico è colui che pensa la funzione (critica, archeologica, monumentale) dell’immagine nel museo del nostro immaginario20. Tra il primo e il secondo dittico, Godard ha girato, oltre a diversi cortometraggi, Nouvelle Vague (1990), Allemagne, Hélas pour moi (1993). Ancora storie di resurrezione, nelle quali le nuove onde sono il ritorno di onde antiche, nelle quali memoria e immaginazione teologica si tengono insieme. Il riverbero delle Histoire(s) tocca ancora più profondamente For Ever Mozart (1996), che torna nei luoghi dell’ex Jugoslavia dove l’Europa mostra ancora la sua impotenza, e quindi Éloge de l’amour (2001) e Notre Musique (2004). Rispetto al primo dittico, gli altri episodi delle Histoire(s) offrono studi più circoscritti. Il secondo dittico trova il suo epicentro in due lunghe sezioni dedicate alla lettura di Voyage di Baudelaire e di un frammento dalla Morte di Virgilio di Broch. La questione della bellezza e del suo nesso con il sesso e la morte, l’eredità della pittura e della fotografia

Sulla necessità di un nuovo inizio, Godard si sofferma nell’intervista con Youssef Ishaghpour (Archéologies du cinéma et mémoire du siècle, Farrago, Tours 2000). 19

In modo provocatorio Godard sostiene che soltanto in Francia sia esistita la critica d’arte. 20

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nel cinema, «né arte né tecnica, ma mistero» (2b, 11’25), sono il cuore di 2a e 2b – Fatale beauté. È l’episodio 3a a riportare al centro della visione la violenza della storia e il problema di una sua testimonianza. L’articolazione del capitolo è quanto mai limpida. Può essere scandita in quattro movimenti: la visione della guerra nelle parole (1876) di Hugo sui crimini di Stato in Serbia e nelle immagini pittoriche, in particolare in Goya21; il confronto tra diversi modi di raccontare la guerra (Tolstoj e la CNN) e da qui tra il metodo di produzione hollywoodiana e la pittura moderna (Manet), in grado di educare alle forme che pensano; l’alternanza tra i treni in guerra, quelli degli attori collaborazionisti che andavano a Berlino e quello di Irène Némirovsky, scrittice ebrea deportata ad Auschwitz; la magnifica fioritura del cinema italiano a partire da Roma città aperta, l’unico film in grado di resistere al monopolio della visione degli americani e al vuoto d’immagine nazista. Lì dove i russi hanno fatto film di martirio, i polacchi d’espiazione, gli inglesi nulla, e i francesi film come Silvie et le fantôme22. Gli americani, film di pubblicità, film come Schindler’s List (Spielberg, 1993), dove la finzione L’episodio è del 1995, quando ancora non si è conclusa la guerra civile jugoslava (1991-95) che è senza dubbio il presente di distruzione dell’umano verso cui volge il suo sguardo Godard sul finire del secolo.

21

Il film, del 1946, è di Claude Autant-Lara, che negli anni ’90, divenuto membro del Fronte Nazionale, si è distinto per dichiarazioni fortemente scioviniste, che sono scivolate nel negazionismo, tanto da dichiarare che le camere a gas erano un «cumulo di bugie». 22

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pretende di mettere in scena, di riprodurre quel che non deve essere più, e che essendo reso verosimile, diventa ripetibile all’infinito. Ancora una volta, il trauma della visione è Auschwitz e le altre violenze della storia, come la guerra civile in Jugoslavia, sono da Godard lette apocalitticamente (e non cronologicamente) a partire da quella data. Il cinema era stato fatto, come la pittura, per produrre forme che pensano, ma «la fiamma si spegne definitivamente a Auschwitz» (3a, 12’49-13’01). Il disegno teorico è ancora più manicheo di 1a: da una parte l’ammaestramento uniformante dello sguardo, la storia ridotta a occasione della fabula spettacolare, che sia l’ennesima produzione Universal o la guerra a Baghdad vista alla CNN, dall’altra la resistenza di chi non ha identità né uniforme, come quella del padre Rossellini (1a, 3’35-3’50). Je lutte [fig. 6], sospira Agnès (Perfidia, Bresson, 1945).

Fig. 6

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La Shoah è spettro che costringe Godard, come chiunque si avvicini a essa con onestà, a fare i conti con il proprio rimosso. Quello personale: Godard monta nella sequenza dei treni una sua foto degli anni della guerra. È una foto presente in JLG/JLG. Autoportrait de décembre (1994), scattata negli anni della guerra, mentre Jean-Luc Godard soggiornava in Svizzera. Il controcampo che Godard con pudore non può fare è quello con il bambino del ghetto di Varsavia. Quello collettivo: la lista interminabile di uomini del cinema francese che hanno collaborato. Ma questa collaborazione con il nulla di cinema che la Gestapo aveva orchestrato, con l’invisibilità dei campi, si ripercuote secondo Godard anche in altre scuole dello sguardo: nella chiave evasiva del cinema francese durante la guerra, un cinema occupato nelle coscienze pur a distanza di decenni dalla liberazione di Parigi; nella chiave sacrificale del cinema dell’Est, sul quale però ha costruito, attraverso La Passeggera, la «storia della notte» in 1a; nella chiave spettacolare del cinema hollywoodiano. La condanna nei confronti del tentativo hollywoodiano di ricostruire nella finzione il campo tornerà in Éloge de l’amour23. La dinamica economica con la quale Hollywood costruisce i propri racconti, anche quando prendono vita dalle testimonianze di sopravvissuti, è quella di un universalismo che

23 In Éloge de l’amour due ex partigiani sono contattati dalla Spielberg Association che intende acquistare le loro memorie e farne un film di finzione con Juliette Binoche come protagonista.

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si fa impero dell’immaginario. La possibilità da parte della finzione di lavorare l’impossibilità del mondo del campo, quindi di qualcosa che a rigor logico non può essere reso oggetto di persuasione, di ricostruzione verosimile, è negata con nettezza da Godard. È l’uniformità della visione, e quindi l’incapacità di essere solo con le forme che pensano, a rendere possibile Auschwitz. Lì dove domina lo Stato, domina la ragione priva di coscienza (Hugo), cui contrapporre il resistente disperato. Godard vede quell’atto di resistenza nell’istante di libertà supremo, nella corsa sfrenata della Magnani, nel sospiro di Agnès24. Se nel cinema dell’Est l’espiazione si dà a cose compiute, e cerca nella coscienza della colpa l’impossibile risarcimento verso le vittime, Rossellini durante la distruzione dell’umano resiste, ossia guarda le cose con gli occhi dell’uomo. Come già in 1a, l’ampiezza del discorso godardiano tende a uniformare. I diversi crimini di stato non hanno di fronte a sé sempre lo stesso nemico. Godard li legge, al di là del loro contesto storico o geografico, a partire da quello che accade in Europa negli anni della Seconda Guerra Mondiale. Durante quegli anni si sovrappongono tre tipi di conflitto: quello tradizionale tra stati, le cui regole sono condotte all’implosione nel XX secolo; quello tra occupanti e resistenti, dove la Godard interrompe la sequenza bressoniana prima della resurrezione della protagonista, ma propone comunque una dinamica cristologica, sia pur sbilanciata sul momento del martirio piuttosto che su quello della raggiunta salvezza, sulla croce piuttosto che sulla gloria. 24

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sproporzione della potenza militare è superata dalla forza ideologica del partigiano, disposto al sacrificio della vita, al di fuori quindi della distinzione tra civile e militare, nell’ottica di una ancora più radicale mobilitazione totale, resa possibile da una tecnica che ha trasformato in teatro di guerra ogni luogo, terra, acqua, cieli; quello biopolitico verso il virus delle minoranze, in particolare verso i paria, i senza Stato. Sono tutte e tre guerre totali, al di fuori delle convenzioni che avevano retto i secoli della modernità europea, ma la costituzione del nemico assoluto si sviluppa secondo modalità diverse. Questa sovrapposizione fa sì che Godard, pur insistendo sul trauma dei campi nazisti, ne veda il contraccolpo soltanto nel resistente e quindi in un’esperienza marginale ad Auschwitz e del tutto impossibile in campi soltanto di sterminio come Treblinka. Godard rimane legato alla prospettiva di Sartre25 e di Resnais, il quale in Notte e nebbia denunciava il crimine dei campi contro l’umanità, ma lo interpretava quasi esclusivamente come un’appendice della logica militare ed economica: una prigione contro avversari politici, una fabbrica per interessi industriali. L’ottica del resistente è quella che troviamo nelle testimonianze dei deportati francesi ad Auschwitz, come in Antelme. È l’ottica del deportato politico o dell’ebreo francese, che vive il proprio ebraismo soltanto dall’esterno, come effetto della logica razziale dei nazisti occupanti. Per J.-P. Sartre, L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, tr. it., Mondadori, Milano 1990. 25

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questo, quello che manca alle Histoire(s) rispetto a Shoah è la capacità di raccontare gli ebrei come un popolo. Ma è proprio quello che il pensiero godardiano, nella sua estrema coerenza, non permette: se la vittima è l’altro dallo Stato, la vittima assoluta è il senza popolo. Se l’ebreo è il nome per la vittima assoluta dei campi, allora egli non può essere se non chi “tradisce” qualsiasi identità collettiva. Se seguiamo questa logica, unilaterale ma presente nella cultura francese resistenziale (esistenzial-marxista o cattolica), comprendiamo perché Godard chiuda il racconto sul cinema di un popolo, quello italiano, che proprio nel tradimento e nel rifiuto di qualsiasi divisa ha trovato la possibilità di uno sguardo redento, come nell’ultima sequenza, quanto mai commossa (e commovente), di 3a. La resistenza del pensiero che forma e delle mani che pensano assume un volto diverso, a seconda del paese dal quale vediamo muovere i treni verso Auschwitz. Lì dove per Godard testimoniare è distinguere il collaborazionismo e il tradimento liberatorio, per Lanzmann è il riconoscimento degli ebrei come popolo, come identità autonoma e non costruita soltanto come il negativo, come l’altro di qualcosa (la Chiesa cristiana, lo Stato) che lo precede, lo determina e lo vuole così assimilare negando la sua particolarità. I capitoli 3b e 4a-Le contrôle de l’univers evidenziano come la formazione intellettuale di Godard alla Cinémathèque Française rimanga il suo faro. In 3b al centro è il problema della trasmettibilità della tradizione (onda antica) della verità, come in apertura la citazione di un testo di Scholem evidenzia. Trasmettere la tradizione è quello che 104

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facevano i giovani che riempivano le sale della Cinémathèque guidati dall’angelo Langlois. Questa trasmissione voleva dire fare cinema, e farlo con la scrittura sulle pagine dei “Cahiers” prima ancora che dietro una macchina da presa. Sono quella generazione iconoclasta che in fondo voleva filmare la vita da sola26, filmare delle belle ragazze mentre facevano delle belle cose (J.-G. Auriol), lasciando che il racconto scivolasse nelle pieghe dell’esistenza, libera, sfrenata, disperata, colma d’attenzione e di sdegno, come nella corsa infinita di Doinel nei Quattrocento colpi (Truffaut, 1959), la più emblematica delle poche sequenze della Nouvelle Vague utilizzate da Godard in questo capitolo. L’episodio piuttosto attraversa le immagini custodite nella Cinémathèque, e nel vagabondare di Eddie Constantine-Lemmy Caution, tra Alphaville (Godard, 1965) e Allemagne, riconosciamo il percorso tra il grande cinema tedesco del primo dopoguerra e la sua trasmissione nel noir americano e da lì nel giovane cinema francese degli anni Sessanta27. Godard ricorda come erano soprattutto le immagini del cinema non visto, del cinema introvabile, a muovere il pensiero e lo sguardo suo e dei suoi amici della Cinémathèque. Questo capitolo, forse meno incisivo di altri, ripete comunque uno snodo teorico decisivo nel progetto godardiano, e va letto

Filmare la vita da sola è il progetto che Godard esprime nella sua forma più esplicita in Pierrot le fou. 26

E da qui nel cinema indipendente americano degli anni Settanta. Ma la storia del cinema di Godard rimane quella degli anni della sua formazione da critico negli anni Cinquanta. 27

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in dialogo con l’intervista di Daney in 2a. La storia del XX secolo si fa attraverso gli sguardi, apparentemente ludici, distratti, sognanti di quegli spettatori guidati dall’angelo Langlois, che imparano a decifrare i meccanismi del potere dell’immaginario attraverso accostamenti, nello stesso pomeriggio, nello stesso tempo, di tracce testimoniali, di forme pensanti provenienti da luoghi e momenti diversi ma vissute come una totalità della quale si sentono eredi non passivi: come una storia appunto. Sempre in linea con la storia dei “Cahiers”, in 4a assistiamo al lungo omaggio a Hitchcock, colui che ha dominato l’universo attraverso il suo pensiero manuale. Questo omaggio è incastonato tra alcune sequenze, costruite attorno alla voce che incarna una parola: quelle di Valéry (Psaume pour une voix) e di Denis de Rougemont (Penser avec les mains) in apertura, quella di Faure (1921) in chiusura, da Godard adattata per parlare del cinema, dello sguardo che ci accompagna durante la nostra esistenza, dai primi sospiri a quando il nostro sguardo rimane fisso nella notte della morte28. Tale omaggio mantiene un nodo irrisolto. Godard afferma che il poeta Hitchcock è riuscito dove hanno fallito i dittatori del XX secolo; d’altro canto, andando oltre la lettera godardiana, colui che più di tutti poteva accompagnare con la forza delle forme pensanti del cinema la nostra esistenza non ha più di tutti la responsabilità di aver lasciato Lì dove Faure parlava di Rembrandt (lo sguardo attonito di fronte ai campi in 1a), Godard sostituisce la parola cinema. Si veda É. Faure, Histoire de l’art, L’art moderne I, Le Livre de poche, Paris 1976. 28

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«Un’oscura fedeltà per le cose cadute»

l’uomo da solo ad Auschwitz?29 Questo lungo percorso mi permette di riaffrontare 4b. La sequenza iniziale, commentata in apertura, è costruita attorno alla domanda sulla fedeltà a un’origine assente. Contro il totalitarismo del presente, Godard torna ancora una volta alla materia fantasma. La materia invisibile eppure presente che dall’immensità del cosmo alla notte della storia è l’origine del discorso storico. A tale invisibile Godard, dai tempi dei “Cahiers”, è sempre stato fedele. Ecco che nel cuore del capitolo conclusivo, torna a uno dei suoi scritti più illuminanti, un articolo dell’ottobre 1965, letto da Azéma30. In queste pagine, Godard affermava che il cinema dovesse, al di là dell’impilarsi del linguaggio, costretto nelle proprie “gabbie”, mostrare la vita, la vie toute seule, con lunghe panoramiche e dei piani fissi sulla morte, con suoni flebili e potenti, con immagini corte o lunghe. E l’unico problema è capire perché iniziare e perché terminare un’inquadratura (4b, 11’31-13’33). Rivette aveva chiarito tale problema in modo definitivo in Dell’abjection (1961) sulle pagine dei “Cahiers”, proprio a partire dalla distruzione dell’umano che si realizza nei campi31. Ma nelle file della Nouvelle Hitchcock è stato comunque consulente del documentario inglese (Memory of the camps, Bernstein, 1945) su Bergen Belsen. 29

J.-L. Godard, Pierrot mon ami, in Id., Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, vol. I, a cura di A. Bergala, Cahiers du Cinéma, Paris 1998, pp. 259-263. 30

J. Rivette, De l’abjection, in “Cahiers du cinéma”, n. 120, giugno 1961, pp. 54-55. Attorno a quest’articolo costruisce la sua tarda

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Vague era stato Resnais, non Godard, a guardare nelle pieghe ancora invisibili di Auschwitz. Soltanto negli anni Ottanta Godard capisce come attorno al campo, prima delle guerre coloniali e dei conflitti della Guerra fredda, si addensi il rimosso che ha condotto all’estremo la violenza di Stato, come sia la fedeltà verso quell’invisibile a dover guidare il montaggio giusto tra le immagini. Gli accostamenti in questa sequenza centrale di 4b sono simili alla «storia della notte» di 1a: appare la scritta la solution finale, mentre la voce di Paul Celan legge la Fuga della morte32, il suo primo e forse più conosciuto componimento su quel che è stato. Margarete, il canto della cultura tedesca, estetizza e rende invisibile la marcia verso la morte dei prigionieri ebrei, costretti a suonare e danzare mentre scavano le proprie fosse. Una scena che Godard aveva già utilizzato attraverso La Passeggera in 1a e che (e purtroppo incompiuta) riflessione estetica Serge Daney, che conduce all’estremo il pensiero della scuola critica dei “Cahiers”, di cui ha tracciato un profilo perspicuo G. De Vincenti (Il cinema e i film. I «Cahiers du Cinéma» 1951-1969, Marsilio, Venezia 1980).

Godard monta i versi 9-15: «der schreibt wenn es dunkelt nach Deutschland dein/goldenes Haar Margarete/er schreibt es und tritt vor das Haus und es blitzen die/Sterne er pfeift seine Rüden herbei/er pfeift seine Juden hervor läßt schaufeln ein Grab in/ der Erde/er befiehlt uns spielt auf nun zum Tanz» (nella traduzione di G. Bevilacqua: «che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli/d’oro Margarete/ egli scrive egli s’erge sulla porta e le stelle lampeggiano/egli aduna i mastini con un fischio/con un fischio fa uscire i suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra/ci comanda e adesso suonate perché si deve ballare», cfr. P. Celan, Poesie, tr. it., Mondadori, Milano 1998, p. 63). 32

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«Un’oscura fedeltà per le cose cadute»

Celan non inventa, non crea, ma testimonia. Brani di un discorso di Himmler dedicato alla fedeltà alla patria si sovrappongono alla voce solitaria di Bataille, che ricorda i morti reali e non simbolici, mentre Godard mostra le immagini girate da George Stevens con dei lampi visivi (Metropolis, Chaplin che si dissolve in Hitler), che ripetono nodi già individuati: le grandi metafore del cinema tedesco, che avevano colto la violenza distruttrice nata dal connubio tra modernizzazione tecnica e ideologie superomistiche, tra spersonalizzazione delle masse e rivendicazione degli impulsi primordiali33; lo scivolamento della maschera del cinema, della grazia chapliniana, nel suo doppio diabolico hitleriano; le illusioni perdute che aveva saputo suscitare il popolo russo, il cui martirio rivoluzionario era stato già delineato da Dostoevskij, come Godard ricorda attraverso il rimando a uno studio critico (André Suarès) sullo scrittore. La saturazione di segni magnifica nell’assenza di spiegazioni (4b, 17’52-18’03) non conduce alla beffa della storia, al gioco relativista con quei segni, secondo il modello del falsario Welles, ma alla testimonianza dell’apocalisse, come nel racconto di Ramuz che dà il titolo al capitolo34. 33 Godard segue la lezione classica di S. Kracauer, Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, tr. it., Lindau, Torino 2001. La storiografia recente tende a ridimensionare l’idea di una scuola espressionista.

Charles-Ferdinand Ramuz pubblica Les signes parmi nous nel 1919 (Les Cahiers Vaudois, Lausanne) e, in una versione fortemente rivista, nel 1931. Ambienta il suo racconto in un villaggio della Svizzera, all’epoca della Prima Guerra Mondiale. Di fronte ai segni molteplici di una prossima apocalisse, tra sconvolgimenti 34

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Il cinema è quell’ambulante che viene allontanato dalla comunità, quando il suo racconto ha la forza di mostrare la distruzione in atto [fig. 7]. Come già in 1a, lì dove con le scritte Godard indicava che Dio aveva abbandonato l’uomo, anche qui è la musica di

Fig. 7

Pärt (in questo caso Festina lente) a segnare l’entrata della visione in un registro apocalittico. La parabola dell’ambulante introduce a una serie di definizioni sulla storia. Malraux, Braudel, Cioran, fino a quella decisiva di Péguy da Clio: «un’oscura fedeltà per le cose cadute35» [fig. 8]. E, a ribadire la lettura della natura, della guerra, della rivoluzione, un ambulante ricorda alla comunità le parole dei Testi Sacri. L’apparente ritorno a una situazione idilliaca conduce gli uomini del villaggio ad allontanare l’ambulante. 35

Cfr. Ch. Péguy, Clio, Gallimard, Paris 1932, p. 7. Péguy si

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«Un’oscura fedeltà per le cose cadute»

Fig. 8

sacrificale, la sequenza si chiude sull’affermazione che «testimone significa martire». Questa seconda storia della notte, rispetto a quella di 1a, chiama anche coloro che sono venuti dopo, Godard e con dedica, poco dopo la sua conversione, a due testi di filosofia della storia: nel 1912 Dialogue de l’histoire et de l’âme charnelle, indicato nelle sue lettere anche con il titolo Véronique, pubblicato postumo nel 1955, e nel 1909-13 Clio. Dialogue de l’histoire et de l’âme païenne, pubblicato nel 1917. In una lettera del 1912 all’amico Joseph Lotte così scrive: «Clio [la musa della storia] passa il tempo a cercare tracce, vane tracce e un’ebrea da niente, una ragazzina, Véronique, tira fuori il suo fazzoletto e sul volto di Gesù prende una traccia eterna. Ecco ciò che sbaraglia tutto. Lei si è trovata al momento giusto, Clio è sempre in ritardo» (dalla prefazione di M. Péguy a Ch. Péguy, Véronique. Dialogue de l’histoire et de l’âme charnelle, Gallimard, Paris 1972). La frase usata da Godard (une sombre fidélité pour les choses tombées) è un’esclamazione di Clio ed è a sua volta una citazione da Ultima verba di Hugo.

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lui la generazione dei “Cahiers”, al confronto con l’apocalisse degli anni Quaranta. Si tratta di montare immagini a partire da quell’oblio assoluto che si è fatto ricordo (Péguy). Si tratta di riconsiderare ogni immagine a partire da quel controcampo che sta alle nostre spalle. Come fulmineamente fa Godard in 3b, si tratta di spostare lo sguardo di James Stewart dalla Finestra sul cortile, lo sguardo del cinema, su Hitler (3b, 6’31-6’45). Godard riconsidera il suo impegno politico a partire da quel rimosso. E nell’ultimo movimento di 4b, giocato sul confronto tra la tirannia del presente e lo sguardo solitario di alcuni profeti (Rimbaud, Dickinson, Pound, Bacon che si rispecchia in Van Gogh, lo stesso Godard), lo sguardo teologico che aveva mosso il confronto con l’invisibile della storia si fa esplicitamente autoritratto. Godard fa i conti con una battaglia politica che lo ha visto per anni fortemente coinvolto, quella della resistenza palestinese, riproponendo alcune immagini da Ici et ailleurs (1975). «Avvicinare cose che non sono mai state avvicinate e che non sembrano disposte a esserlo»: la regola bressoniana appare come un avvertimento che Godard pone prima di una delle sequenze più criticate delle Histoire(s): il montaggio delle scritte alleman-juif-musulman (4b, 28’04-28’49)36. Gli abitanti del campo, condotti allo stremo, erano chiamati musulmani. Lavorando questo elemento linguistico, Godard sovrappone le due violenze, quella sugli ebrei nei campi nazisti e quella sui rifugiati palestinesi. 36

Godard usa la scritta allemand senza la d.

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«Un’oscura fedeltà per le cose cadute»

Giudica lo Stato d’Israele come una conseguenza della violenza di Mabuse, e paragona il conflitto medio-orientale allo spazio descritto da Antelme nella Specie umana: lo spazio del campo. Da una parte, Godard fa qualcosa che i simpatizzanti della causa palestinese negli anni Settanta non erano sempre disposti ad accettare, il riconoscimento della Shoah come passaggio storico ineludibile per capire il desiderio di costituire uno Stato ebraico. Ma la politicizzazione della memoria della Shoah ha avuto come contraccolpo la tendenza a leggerla in funzione delle ragioni delle opposte parti del conflitto medio-orientale, fino a una duplice aporia. Il rischio di un’israelizzazione della memoria della Shoah sta nel fatto che chi non condivide le ragioni della politica israeliana arrivi a minimizzare o a distorcere i caratteri del crimine compiutosi ad Auschwitz. A loro volta, gli israeliani rischiano di ridurre a memoria privata di un popolo un trauma che l’intera umanità dovrebbe continuare a considerare parte integrante della propria storia. L’accostamento di Godard è discutibile sotto molti aspetti. Da una parte, la storia della costruzione dello Stato d’Israele comincia prima del passaggio, pur decisivo, di Auschwitz. Si muove all’incrocio di tre diversi movimenti storici, quello del colonialismo inglese, del sionismo all’interno della storia ebraica della diaspora e dei movimenti socialisti del XIX secolo37, della costruzione delCfr. G. Bensoussan, Il sionismo. Una storia politica e intellettuale 1860-1940, tr. it., Einaudi, Torino 2007. 37

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l’identità palestinese attraverso un rapporto anche conflittuale con il pan-arabismo e il pan-islamismo38. Come con l’ebreo-prigioniero dei campi rispetto al nazista, scompaiono le ragioni del popolo palestinese e da lì il racconto con il quale ha costruito la propria identità, perché il palestinese, identificato con il musulmano, è visto soltanto come l’altro dal dominatore. Nel momento in cui il musulmano “coincide” con l’ebreo, e questo a sua volta è stato pensato come l’altro dalla violenza di Stato, quello che si perde è la specificità del percorso storico del popolo palestinese. Il modo di articolare il racconto da parte di Godard fa sì che le vittime della storia perdano la propria identità, o ancor meglio la determinino soltanto per via negativa. Inoltre, se l’accostamento vuole significare identità, è doppiamente discutibile: la violenza genocidaria indica un modello di conflitto diverso rispetto a quello tra occupanti e resistenti. L’abitante del campo non è un resistente e comunque conserva la propria innocenza al di là della sua possibilità e capacità di organizzare una resistenza; il resistente non è il musulmano dei campi, né tanto meno colui che è condotto allo sterminio, perché conserva la possibilità sia pur degradata, e fortemente attaccata, di un agire politico. Alcune interviste di Godard, che tendono a vedere lo sterminio degli ebrei nell’ottica di un sacrificio che permette la costituzione dello Stato

Per una disamina equilibrata dal punto di vista palestinese, cfr. R. Khalidi, Identità palestinese. La costruzione di una moderna coscienza nazionale, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2003. 38

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«Un’oscura fedeltà per le cose cadute»

d’Israele39, fanno emergere tutti i limiti di una prospettiva sacrificale, che vede la vittima innocente secondo la chiave del martirologio e quindi della resistenza che prepara la redenzione. Nei campi, non c’è stato sacrificio e quindi preparazione di un rinnovato patto con il divino (della storia), ma distruzione anonima. Il dispositivo sacrificale vampirizza quella violenza invisibile. Se 1a racconta di una caduta, nella quale l’uomo abbandonato da Dio attende la redenzione messianica, probabilmente impossibile, 4b sembra scivolare in una prospettiva hegeliana, dove quella caduta si fa negativo che si dialettizza, facendo delle vittime di ieri i carnefici di oggi, della sofferenza del passato la levatrice della potenza attuale. Come un soffio, quest’opera titanica, resistente e rigorosa come il pensiero manuale di Bresson e Rossellini, potente e in grado di imprimere le sue forme come Hitchcock e Lang, si chiude sulla grazia chapliniana di una rosa bianca, come il cinema segno del nostro passaggio senza perché su questa terra e comunque fonte di stupore e incanto, pronta a resistere contro ogni evidenza, come soltanto i poeti sanno. È il fiore che in Allemagne Godard aveva messo in immagine come omaggio alla Resistenza dei cattolici tedeschi della Rosa bianca e dietro cui lampeggia il suo volto. È la vita da sola con i suoi colori e le sue memorie e le sue speranze disperate, lavoro e gioia dei nostri racconti e delle nostre lotte, incanto del darsi delle cose, invisibile a S. Zagdanski, Entretien avec Jean-Luc Godard, in “Le Nouvel Observateur”, 18-24 novembre 2004. 39

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cui tendono le mani di ogni nostro pensiero, unica possibile chiusura rispetto alla fedeltà verso le cose cadute, origine del nostro discorso. Dove si tocca la vita, la testimonianza del passato può compiersi. Lì le Histoire(s) trovano la propria fine.

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«Montaggio mio dolce affanno»

ALESSIA CERVINI «MONTAGGIO MIO DOLCE AFFANNO». L’ARTE E LA MESSA IN FORMA DELL’UNIVERSO

1. Bellezza fatale

Il volto di Sabine Azéma appare sullo schermo intorno alla metà dell’episodio 2b delle Histoire(s), episodio che Godard sceglie di intitolare significativamente Fatale beauté (16’04). Per tutta la durata di una lunga sequenza, il volto dell’attrice sostituisce il gran numero di immagini che affollano l’opera di Godard. Tiene da solo lo schermo, creando quasi un vuoto, un’interruzione dentro lo scorrere inesorabile del grande racconto che le Histoire(s) portano avanti. Lo spazio compositivo si libera delle immagini e fa posto alle parole. Far piazza pulita della bellezza per cominciare a ripensare l’arte e i suoi compiti: sembra questo l’intento di Godard. Azéma non guarda mai in macchina e recita un brano tratto dal romanzo di Hermann Broch, La morte di Virgilio: «Bellezza, il gioco in sé, il gioco che l’uomo gioca col proprio simbolo, al fine di sottrarsi all’angoscia della solitudine […] di creare l’imperituro con la materia dell’essere perituto, con parole, suoni, pietre, colori»1. 1

Sono questi i versi recitati da Sabine Azéma, estrapolati da un

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La macchina da presa indugia, riprende in primo piano il volto dell’attrice che, nell’armonia dei suoi tratti, sembra negare il senso stesso del discorso che va pronunciando, nella misura in cui, parola dopo parola, quel discorso si erige a chiaro monito contro la bellezza: contro quel vuoto e insensato tentativo, portato avanti nei secoli dall’uomo, di nascondersi l’essenza crudele del proprio stare al mondo. Nessuna immagine tratta da vecchi film, nessuna citazione pittorica, soltanto le parole di Broch affidate alla recitazione di Azéma. In questa circostanza, come in poche altre, Godard gira infatti ex novo una sequenza da intervallare al materiale già filmato che egli riutilizza e monta nel modo in cui ormai i più sanno. Ci troviamo, in questo caso, in una delle serie che compongono l’opera godardiana, precisamente quella in cui il regista affida alla recitazione di un attore la citazione di brani tratti, di volta in volta, da testi filosofici, di poesia o romanzi2. Collocata a metà dell’intera opera, suddivisa in capitoli dal suo stesso autore, la sequenza a cui faccio riferimento acquista sul piano teorico, come componimento ben più ampio del quale riporteremo più avanti uno stralcio.

2 È Alain Badiou che considera l’opera di Godard composta da otto diverse serie: Cfr. A. Badiou, Su Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard, in Id., Del Capello e del Fango, a cura di D. Dottorini, Pellegrini, Cosenza 2009, pp. 249-264. Nella serie dedicata alla recitazione di pezzi di letteratura per voce di celebri attori, vanno ricordati, oltre a quello di Sabine Azéma, gli interventi di Juliette Binoche, Alain Cuny e Julie Delpy.

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su quello compositivo, una posizione centrale, in relazione anzitutto alla questione che attraversa globalmente le Histoire(s) e che riguarda più da vicino problemi di ordine estetologico: quale ruolo assegnare all’arte considerata nelle sue diverse forme, ivi compresa quella cinematografica; come intendere il lavoro creativo che sta alla base di ogni opera che voglia dirsi d’arte; come connettere tale lavoro con quello più chiaramente costruttivo, in ogni caso essenziale alla messa in forma di un qualsivoglia contenuto artistico. Ora, è evidente, per la posizione stessa che simili questioni assumono all’interno dell’opera di Godard, che esse non potranno essere pensate se non in una relazione forte e inscindibile con i problemi storici e storiografici che un’opera come le Histoire(s) è in grado di sollevare. Detto altrimenti: è ben chiaro che – questo sembra suggerire Godard – dopo un evento come la Shoah, l’arte dovrà riformulare radicalmente le regole del proprio operare, ma è allo stesso modo evidente che la necessità di tale operare non andrà, in alcun modo, messa in discussione. Osserva, a questo proposito, Georges Didi-Huberman che non solo Godard dimostra, con le Histoire(s), di «non aver paura degli archivi – evitando il duplice scoglio della sacralizzazione e della denegazione»3, ma di volerli anzi utilizzare «per creare un’opera, che è qui un’opera di montaggio»4. G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2005, p. 178. 3

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Ibidem.

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Nessuna opposizione si delinea, da questo punto di vista, fra il dovere dello storico e l’operazione formatrice dell’artista: le Histoire(s) sono, infatti, un’opera che sceglie di mettere in forma artisticamente, attraverso la costruzione di un enorme racconto, la storia del cinema e quella del XX secolo, senza dimenticare gli orrori di cui esso si è macchiato. Sulla questione che riguarda in modo specifico il destino dell’arte dopo un evento come quello della Shoah, la posizione di Godard non è equivocabile: Il nostro vecchio mondo è collassato e non resta granché. All’inizio pensavamo di aver perso tutto, col tempo poi abbiamo realizzato che questa perdita non era soltanto qualcosa di negativo. Almeno non del tutto. Alla fine, invece di registrare una perdita, abbiamo guadagnato l’occasione di un nuovo inizio. Teatro, romanzo, pittura, film... Mi sembra che la questione non sia se l’uomo continuerà, ma sapere piuttosto se ha il diritto di farlo5.

La fine di un’epoca o forse addirittura di un’intera cultura, quella occidentale (la sola che, secondo Godard, abbia veramente conosciuto qualcosa come l’arte), segna immediatamente la perentorietà di un nuovo inizio. È precisamente su questo punto che intendo soffermarmi: sull’idea di arte che un testo complesso come le Histoire(s) è in grado di La citazione è tratta da un mediometraggio di J.-L. Godard e A.-M. Miéville, The Old Place (2006). 5

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proporre al suo spettatore. Lontano da posizioni iconoclaste che precluderebbero all’immagine (sia essa sonora o visiva) la possibilità di dire alcunché circa l’epoca in cui viviamo6 (epoca il cui inizio si può, senza troppi problemi, far risalire alla Seconda Guerra Mondiale e agli orrori che essa ha portato con sé), Godard affida al cinema, ultima e più giovane fra le arti, il compito – forse è più corretto cominciare a parlare sin da qui di “dovere” – di rifondare lo statuto di ciò che abbiamo chiamato e continuiamo a chiamare, malgrado tutto, arte. Questa la tesi che è mia intenzione sostenere e che sarà mio compito argomentare: il progetto che Godard porta avanti nei dieci anni che separano la realizzazione del primo episodio delle Histoire(s) da quella dell’ultimo, corrisponde al faticoso tentativo di scrivere non solo la storia del XX secolo, ma anche la storia dell’arte occidentale, decretandone (al di là delle più facili previsioni) non tanto la fine, quanto l’agognata e insperata rinascita. Che neppure una posizione radicale come quella che stabiliva l’avvenuta morte dell’arte – o più precisamente attribuiva in modo definitivo a essa un carattere di passato – sarebbe stata in grado di provocare l’interruzione della produzione di opere d’arte, era 6 Vale la pena ricordare la polemica fra Godard e Lanzmann a proposito della possibilità o meno di mettere in immagine l’orrore dei campi di sterminio. A questo proposito si vedano G. DidiHuberman, Immagini malgrado tutto, cit., in particolare il capitolo intitolato Immagine-montaggio o immagine-menzogna, pp. 153-188; I. Perniola, L’immagine spezzata. Il cinema di Claude Lanzmann, Kaplan, Roma 2007; A. Scarlato, 20 gennaio 1942. Auschwitz e l’estetica della testimonianza, NEU, Roma 2009.

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d’altronde convinzione dello stesso Hegel, autore di quella nota sentenza. Così, anche Adorno, artefice del perentorio giudizio secondo il quale «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie»7, ha sostenuto, smussando, in altra sede, la radicalità della sua prima affermazione, che «il dire che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie non ha validità assoluta»8. Ciò che è certo è, invece, che «non ci si può più immaginare un’arte serena»9. Insomma, in un modo o nell’altro, il nodo teorico in discussione sembra dover consistere non tanto nel decretare la vita o la morte dell’arte, quanto piuttosto nel comprendere – una volta accertata la sua incapacità di farsi oggi, come un tempo, veicolo di contenuti di verità – se, ed eventualmente come, l’arte possa tornare a farsi strumento di conoscenza del reale, ciò che nelle Histoire(s) Godard definisce in modo emblematico il “controllo dell’universo”10. Le Histoire(s) avanzano una tesi a riguardo: bisognerà ricostruirla, mostrandone i punti salienti, insieme a quelli più problematici. L’ammirevole sforzo teorico di Godard consiste innanzitutto nel mostrare al suo spettatore la profonda e nociva inattualità di certe categorie estetiche, che pure per secoli sono servite da regola

7 T.W. Adorno, Prismi. Saggi sulla critica della cultura, tr. it., Einaudi, Torino 1972, p. 22.

8 Id., È serena l’arte, in T.W. Adorno, Note per la letteratura, tr. it., Einaudi, Torino 1979, p. 277. 9

Ibidem.

Si intitola Le contrôle de l’univers l’episodio 4a delle Histoire(s) du cinéma.

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in tutti i processi di produzione artistica: quelle stesse categorie che hanno permesso poi, non più al produttore, ma al fruitore d’arte, di riconoscere e denominare gli oggetti di quella particolare produzione che, per l’appunto, si dice artistica. Se la cultura occidentale ha potuto contare sull’esistenza di qualcosa come l’arte è dunque perché alcuni criteri (la bellezza, l’armonia, l’ordine, solo per fare qualche esempio) ne hanno costituito indiscutibilmente lo statuto. Un’opera d’arte è tale, nella storia della cultura occidentale, soltanto perché bella, armonica, ordinata, prodotto di un atto creativo originale e disinteressato. Potrebbero essere, quindi, queste categorie a dover essere messe in discussione e riformulate, non l’idea di arte in generale. Ma è possibile pensare un’arte capace di continuare a esistere, sebbene privata di tutte quelle aggettivazioni che per secoli l’hanno definita?11 È questa la scommessa che l’arte contemporanea deve accettare se vuole tornare a essere strumento di formazione e trasformazione del reale, se vuole essere cioè arte politica, nel senso indicato da Walter Benjamin: disfarsi della bellezza e assumere il mistero (inteso nella maniera in cui di esso parla Godard) come nuova categoria estetica. Si dice, infatti, più volte nelle Histoire(s), che «il cinema non è arte, né tecnica, ma mistero»12: un’afferma-

Per l’approfondimento di questi temi si veda l’introduzione di P. Montani al volume L’estetica contemporanea. Il destino delle arti nella tarda modernità, Carocci, Roma 2004, pp. 11-34. 11

La prima ricorrenza della nota formulazione godardiana si trova nell’episodio 2b delle Histoire(s) du cinéma, 10’12. 12

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zione questa che richiama quanto scritto, ancora da Adorno, in conclusione al saggio intitolato È serena l’arte?: «L’arte che si addentra nell’ignoto, l’unica ancora possibile, non è serena né seria; ma il tertium è precluso come se fosse immesso nel nulla le cui figure le opere d’arte progredite descrivono»13. La bellezza, come ho detto, è per Godard uno di quei concetti che, lungo lo scorrere dei secoli, hanno mostrato, perché l’hanno messa in forma, ammantandola di gradevole apparenza, la fatalità di un destino che per la cultura occidentale (la cultura dell’arte in senso proprio) ha finito per coincidere con un destino di morte. Da quel destino di morte la bellezza sarebbe stata in grado di distogliere l’attenzione di quanti, da osservatori distratti, si sarebbero poi trasformati addirittura in attori conniventi: è questa la sorte toccata al cinema che, nato (secondo l’ipotesi forte, quanto nota, di Godard)14 come strumento di pensiero, si è ben presto trasformato in luogo di distrazione e consumo. È la colpa di cui il cinema deve cercare di liberarsi, uscendo dall’oblio e facendosi testimonianza attenta, cosciente e critica di ciò che è stato. Assume dunque il senso di una vera e propria condanna della bellezza, dai toni suggestivamente platonici, il monologo di Sabine Azéma nella sequenza a cui ho già fatto riferimento [fig. 1].

13

T.W. Adorno, È serena l’arte?, cit., p. 280.

È ovvio che Godard riprende tale convinzione dalla grande tradizione dei primi studi critici sul cinema, rappresentata, allo stesso modo, nonostante le evidenti differenze fra i due, da Jean Epstein, quanto da Sergej M. Ejzenštejn.

14

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Fig. 1

Bellezza, il gioco in sé, il gioco che l’uomo gioca col proprio simbolo, al fine di sottrarsi – egli non ha altre vie – all’angoscia della solitudine, la bella, incessante solitudine, la fuga nella bellezza, il gioco della fuga; ed ecco si svela all’uomo la fissità del mondo nella bellezza, la sua incapacità di sviluppo, la limitazione della sua compiutezza che si fa imperitura soltanto nella ripetizione e per tale apparente compiutezza deve essere sempre di nuovo cercata, si svela all’uomo il gioco dell’arte che serve la bellezza, la sua disperazione, il suo disperato tentativo di creare l’imperituro con la materia dell’essere perituro, 125

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con parole, suoni, pietre, colori, perché lo spazio figurato duri di là dai tempi […] e la bellezza si svela all’uomo come crudeltà, come crescente crudeltà di un gioco sfrenato che, sprezzando la conoscenza, promette nel simbolo il godimento dell’infinito, il puro godimento dell’apparente infinitezza terrena e che perciò è indifferente al dolore e alla morte, poiché ciò accade nel regno remoto della bellezza, raggiungibile solo al tempo e allo sguardo, ma non all’umanità e al dovere dell’uomo15.

Godard affida alle parole di Broch la sua invettiva contro la bellezza: Broch, lo scrittore viennese di origine ebraica che nel 1938 fu arrestato e poi rilasciato dalle truppe hitleriane, subito dopo l’occupazione dell’Austria. Il regista sovrappone la sua immagine a quella del romanziere che, chiuso nella cella di una prigione nazista, credendosi prossimo alla morte, comincia a comporre il più lirico e intimo dei suoi lavori. Una spinta mistica quella di Broch, che ricostruisce le ultime ore della vita di Virgilio; un’espiazione laica di colpa quella di Godard, responsabile in quanto autore cinematografico (il regista prende evidentemente se stesso come capro espiatorio, come parte per il tutto), di aver contribuito al lavorìo nascosto, ma costante, che ha consentito al mondo intero di distogliere l’attenzione da quell’ondata di morte che invase H. Broch, La morte di Virgilio, tr. it., Feltrinelli, Milano 2006, pp. 161-162. 15

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l’Europa durante la Seconda Guerra Mondiale. Jean Renoir aveva preannunciato la tragedia mettendo in scena, nella sua Regola del gioco (1939), la celebre danza macabra in cui il pubblico europeo non seppe riconoscere il segnale dell’approssimarsi dell’orrore più grande che il vecchio continente avesse mai conosciuto. Ora, la responsabilità di tale orrore va imputata proprio alla bellezza che, dice Broch, «è indifferente al dolore e alla morte». Fatale è la bellezza [fig. 2] perché essa «è ciò che fa dimenticare la morte necessaria»16, donando a ciò che è perituro l’illusione dell’eternità. La bellezza dis-trae perché allontana, ovvero tira letteralmente fuori, dal

Fig. 2

J. Aumont, Amnésies. Fictions du cinéma d’après Jean-Luc Godard, P.O.L., Paris 1999, p. 75.

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pensiero gravoso della morte. Il cinema, da parte sua, ha contribuito ad alimentarne il mito, portando sullo schermo i corpi meravigliosi di attrici divenute puri oggetti, dinanzi all’occhio desiderante della macchina da presa. In fondo, dice la voce di Godard, mentre sullo schermo appare un ritratto del 1930 della bellissima Lee Miller di profilo [fig. 3]: «Il cinema non fa parte dell’industria delle comunicazioni, né di quella dello spettacolo, ma dell’industria dei co-

Fig. 3

smetici, dell’industria delle maschere» (1b-Une histoire seule, 7’33). Quella costruita dal cinema, l’ossessione che esso ha contribuito ad alimentare, altro non era, dunque, che una enorme, fatale menzogna, volta a nascondere i meccanismi di quell’industria di morte che l’Occidente aveva messo in atto e che i campi di sterminio portano 128

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a completa realizzazione. Ebbene, il cinema coi trucchi dei quali dispone, fiancheggiando proprio quell’industria di morte, costruisce belle maschere dietro le quali è celata una tremenda verità. La bellezza è una strega perché essa ammalia, stordisce e anestetizza la forza che il reale avrebbe di rispondere e reagire agli orrori che esso stesso produce. La strega [fig. 4], dietro la quale si nasconde il volto bello e crudele della regina/matrigna, grazie alla mela rossa che le dà da mangiare,

Fig. 4

addormenta Biancaneve (cfr. 1b, 1’23; 3b, 19’26), quasi la uccide, proprio come fa il cinema con le coscienze dei suoi spettatori, i quali, grazie alle storie magnifiche di sesso e morte che l’industria cinematografica raccontava loro, non hanno capito quale genere di orrore si andasse perpetrando nel cuore dell’Europa più antica. 129

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«La fatalità del cinema», dice Jacques Aumont nel volume che dedica alle Histoire(s), «è dunque raccontare delle storie, che sono fatalmente storie di desiderio»17. La questione del bello e del desiderio si connette, dunque, quando si parla della più giovane delle arti, a quella che riguarda più da vicino l’attitudine propria del cinema, di quello hollywoodiano in particolare, di costruire grandiosi racconti di finzione. Alla condanna radicale della bellezza deve corrispondere allora, in una prospettiva come questa, la condanna altrettanto decisa della narrazione finzionale. Il che, però, non significa mai, neppure in Godard e in un’opera come le Histoire(s), negare al cinema il diritto di proporsi quale grande ideatore di racconti, ma riconoscere semplicemente che, privilegiando questa strada, esso è venuto meno al proprio dovere di testimonianza, al dovere morale di mostrare un evento spaventoso come la Shoah. «Se lo storico e il critico si definiscono grazie alla lotta che conducono contro la fatalità, essi devono impegnarsi nello stesso tempo per ristabilire i diritti della Storia contro il destino, e quelli del senso contro l’usura del tempo e la frivolezza della distrazione»18. Il compito di Godard sarà dunque quello di pensare e fare un cinema che, pur rifiutandosi di riconoscere nella bellezza, nel desiderio e nel piacere, l’unica giustificazione del proprio diritto a raccontare, non rifiuterà mai del tutto gli strumenti compositivi della scrittura e 17 18

Ivi, p. 97. Ivi, p. 79.

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della finzione. Non bisogna ricercare dunque nelle Histoire(s) la fine dell’arte, intesa come finzionale messa in forma del reale. Forse, è il caso di dire piuttosto che «il Cinema-arte, nel modo in cui lo mette in scena Godard, presuppone la messa a punto di un’altra mimesis»19, un nuovo modo, cioè, di intendere globalmente l’arte, i suoi compiti e i suoi prodotti. Sebbene le Histoire(s) conservino per molti versi il carattere oscuro di «un canto funebre alla gloria di un’arte e di un mondo dell’arte scomparsi»20, esse possono essere considerate a buon diritto tutt’altra cosa: per esempio, come sostiene Jacques Rancière, l’espressione della «tendenza neo-simbolista e neo-umanista dell’arte contemporanea»21. Secondo la prima delle due prospettive di lettura qui ricordate, si potrebbe vedere nell’operazione condotta da Godard la volontà di costruire un grandioso monumento alla memoria di qualcosa che non c’è più e che dunque va solo onorato: il cinema. Una tesi questa che potrebbe essere avvalorata, su un piano strettamente formale e stilistico, dalla scelta del regista di usare non più il cinema (inteso qui come linguaggio che ha regole e codici suoi propri), ma il video, per raccontare la storia di un mezzo come quello cinematografico, destinato a decretare la sua fine in seguito al tradimento dell’intima vocazione che ne aveva giustificato la 19 20

Ivi, p. 78. Ibidem.

J. Rancière, La frase, l’immagine, la storia, in Id., Il destino delle immagini, tr. it., Pellegrini, Cosenza 2007, p. 107. 21

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nascita: dar conto di ciò che è lì e chiede di essere filmato. Non è negabile, infatti, il tono funereo che pervade ogni episodio delle Histoire(s). Il richiamo ripetuto agli spettri che hanno popolato gli schermi cinematografici, la centralità attribuita, nel lavoro di composizione complessiva dell’opera, a un film come Nosferatu (Murnau, 1922), suonano come il riconoscimento dell’unico compito rimasto al cinema ormai agonizzante: dar voce a chi non c’è più. Compito che, per altro, spetterebbe ontologicamente al cinema, se è vero, come sostiene Cocteau, che esso è “morte al lavoro”. Certamente tutta questa serie di considerazioni non basta però a dar ragione dell’operazione godardiana, che è opera storiografica, ma allo stesso tempo opera d’arte. Se fosse altrimenti, se fossimo cioè di fronte a quello che Nietzsche definisce un uso eccessivo della Storia, ogni elemento vivificante sarebbe effettivamente precluso. Le Histoire(s), però, non raccontano solo la storia del cinema, la quale forse può dirsi finita, ma anche le storie del cinema che, al contrario, continueranno a essere raccontate. Il cinema, lo dice Godard, è ciò che consente a Orfeo di voltarsi indietro senza che per questo Euridice sia condannata alla morte eterna. A esso è data la possibilità di riportare in vita ciò che appartiene al passato, considerato non come qualcosa a cui non è dato tornare, ma come eredità capace di vivificare e rendere più grande il presente. È esattamente ciò che, invece, non è consentito in una considerazione monumentale della storia. Essa non vuole che «la grandezza nasca», ma dice semplicemente «guardate, il grande esiste già», «lasciate che i morti seppelliscano i 132

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vivi»22. Non è certo questo il senso di un lavoro come quello di Godard: esso non si limita, infatti, alla sola ammirazione di un passato grandioso, del quale anzi riconosce criticamente le storture, e si propone, al contrario, in quanto opera capace di parlare al presente. In questo senso, le Histoire(s) sono un monumento che «non commemora, non celebra, ma affida all’orecchio del futuro le sensazioni persistenti che incarnano l’evento: la sofferenza sempre rinnovata degli uomini, la loro protesta che rinasce, la loro lotta sempre ripresa»23. È questa la delicata posizione che le Histoire(s) scelgono di occupare: uno spazio che il cinema ha colpevolmente lasciato vuoto, quello che divide il racconto storico, inteso come obiettiva e scientifica documentazione, e il racconto concepito in termini di finzione e intrattenimento. È lo spazio che un’opera come quella di Godard si dimostra in grado di aprire, assumendo su di sé l’arduo compito di un radicale ripensamento dell’arte, in una direzione destinata a coinvolgere non più soltanto categorie estetiche, ma anche etiche e politiche.

F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia, tr. it., Adelphi, Milano 2006, p. 23. 22

G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, tr. it., Einaudi, Torino 2002, p. 177.

23

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2. Mistero

«Questo è l’impegno, è qui la fatica». Si apre con questa citazione virgiliana il primo episodio delle Histoire(s): «hoc opus, hic labor est». Il riferimento è al VI libro dell’Eneide, l’opera che, ricorda Broch, Virgilio avrebbe voluto dare alle fiamme e che, invece, è da considerare, ancora dopo secoli, come una delle colonne più solide della cultura artistica occidentale. Un particolare rilevante questo, se si pensa che Godard sostiene, con Malraux, che «l’arte è come l’incendio, nasce da ciò che brucia» (2b, 13’44). Non si tratta evidentemente di un fuoco distruttore, ma di un movimento creativo che purificando vivifica e concretizza il lavoro dell’arte. La Sibilla cumana ricorda a Enea quanto sarà complicata la sua risalita dall’Averno; Godard assume su di sé la difficoltà di tale compito, che consiste appunto nella costruzione di un’opera monumentale, in cui il dovere del ricordo si unisce all’aspirazione al ritorno a un’origine ideale del mondo e dell’arte, il luogo e il momento in cui ogni ogni atto creativo era ancora possibile. Far ritorno a quel paese natale – così recita uno dei versi di Broch affidati alla voce di Azéma – è il compito che spetta all’arte assolvere, soprattutto se essa vuol essere, come nel caso delle Histoire(s), atto consapevolmente reminiscente. Si intravade allora, sin da qui, il carattere nuovo della logica che regolerà la creazione artistica: da prodotto originale di un “genio” essa si farà opera di prelievi e recuperi. È questo l’assunto che permetterà al montaggio di proporsi in quanto fondamento 134

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di quella nuova estetica, cinematografica e non solo, di cui il lavoro di Godard prova la necessità e l’esistenza. «Ciò che salverà l’arte, ciò grazie a cui essa ritroverà la sua infanzia, è la forza poetica»24, ovvero, detto in termini heideggeriani, la sua forza produttiva e disvelante, la sua capacità di portare alla luce ciò che altrimenti era destinato a rimanere nascosto, come la sorte mortifera a cui l’Occidente era destinato. È in questo senso che una logica del riuso può dirsi capace di mostrare ciò che avevamo sotto gli occhi, ma non eravamo in grado di vedere. Nelle sequenze della storia del cinema che Godard sceglie di riproporre ai suoi spettatori era già in nuce quel contenuto che, però, solo il montaggio è riuscito a portare a completa visibilità. Un’autentica poetica del riuso è l’unico modo in cui all’arte contemporanea, dunque principalmente al cinema, è dato proporsi in quanto atto creativo, istitutivo di un modo realmente nuovo di guardare e mettere in forma il reale. Il mondo, infatti, altro non è che un insieme di segni del passato di cui ci spetta la decifrazione, lo svelamento, proprio come si fa per i contenuti criptici di un sogno. L’arte del montaggio è, per le cose dette fin qui, il miglior candidato per questo ruolo. «Alla fine, si potrebbe segnalare che il mistero del cinema consiste nel fatto che l’immagine vera deve presentare, deve mostrare i sogni invisibili che stanno intorno a noi: mostrare questi sogni invisibili sarebbe ciò che J. Aumont, Amnésies. Fictions du cinéma d’après Jean-Luc Godard, cit., p. 65.

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costituisce il visibile del cinema. In questo senso c’è mistero»25. Si capisce, così, perché Godard possa arrivare a sostenere, come fa nelle Histoire(s), che il cinema non è né arte, né tecnica, ma mistero. Non è arte, se questa è intesa classicamente come geniale creazione dal nulla, puro atto di invenzione: il cinema deve infatti sempre farsi carico del debito che esso ha contratto, sin dalle sue origini, con un reale che chiede di essere messo in forma, nella misura in cui deve essere, al contempo, decifrato e raccontato. Allo stesso modo il cinema non è semplicemente tecnica, poiché anche il montaggio è già da sempre, almeno per la maniera in cui Godard lo utilizza, autentico atto creativo. Scrive Aumont commentando l’affermazione godardiana: il cinema «non è una tecnica della mimesis indicazionale, non è un’arte dell’immagine fabbricata, sovraimpressa ed espressiva, ma un mistero, ovvero […] l’Arte»26. È dunque l’arte stessa a farsi mistero, quell’arte testimoniale di cui le Histoire(s) diventano esempio. Mistero non vuol dire enigma o misticismo. Il mistero è una categoria estetica elaborata da Mallarmè ed esplicitamente ripresa da Godard […]. La macchina del mistero è una macchina per rendere qualcosa comune, non più per opporre dei mondi,

A. Badiou, Su Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard, cit., p. 258. 25

J. Aumont, Amnésies. Fictions du cinéma d’après Jean-Luc Godard, cit., p. 61.

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ma per mettere in scena, attraverso le vie più impreviste, una co-appartenenza. Ed è questo comune che dà la misura degli incommensurabili27.

Il mistero, se inteso alla maniera di Rancière, che ne parla come di una categoria estetica capace di sostituirsi a quella ormai inservebile della bellezza, è, nel senso più ampio in cui ci è dato pensare, un’autentica modalità esistenziale: declinazione della condizione propria dell’umano, del reale e delle sue forme, ivi compresa quella artistica e cinematografica. Il mistero è il luogo indeterminato e negoziabile di un “tra” che divide entità apparentemente inconciliabili come l’arte e la tecnica (di cui andrà mostrata, invece, la comune origine), le immagini di cui si compone un film, le cose che costituiscono il mondo, il cielo e la terra. Nel caso del cinema, è il montaggio che riesce a provvedere, pur nel mantenimento di una distanza incolmabile, al compito di avvicinare e rendere commensurabili due eterogenei. Al cinema, dice Godard citando Bresson28, nessuna immagine deve essere chiusa in se stessa e autosufficiente, ogni inquadratura deve comunicare, cioè, con quella che la segue: esattemente in questo risiede l’arte misteriosa del montaggio. Il problema rancièriano del dare misura, mostrandone la fondamentale co-appartenenza e comunanza, a degli incommensurabili, corrisponde J. Rancière, La frase, l’immagine, la storia, in Id., Il destino delle immagini, cit., p. 95. 27

R. Bresson, Note sul cinematografo, tr. it., Marsilio, Venezia 2003, p. 19. 28

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grosso modo alla questione ancora spinosa dello schematismo kantiano che, non a caso, conserva e porta con sé un carattere di mistero. Così come assomiglia a quel misurare a cui Heidegger, sulla scia di Hölderlin, riconduce il senso più autentico dell’abitare dell’uomo, dunque del suo agire e operare poetico. In ogni caso, il mistero sta nella possibilità di colmare la distanza degli eterogenei. Perché, dunque, lo schematismo sarebbe da definire come l’arte segreta che consente il costituirsi di ciascun contenuto di conoscenza?29 Ebbene, si può dire senz’altro che il mistero di quell’operazione, che in termini kantiani definiamo schematismo, consiste esattamente nel lavoro di omogeneizzazione che compiamo ogni volta che riduciamo l’astrattezza di un concetto alla concretezza di un fenomeno sensibile: ogni volta, cioè, che siamo in grado di utilizzare l’idea generica di cane di cui siamo in possesso per riconoscere nell’animale che abbiamo di fronte un cane in carne e ossa. Che cos’altro facciamo, in un caso come questo, se non utilizzare la capacità misteriosa, di cui siamo dotati in quanto uomini, di riunire, cercandone la misura comune, due eterogenei? Kant chiama “immaginazione” tale facoltà, che occupa esattamente lo spazio di quel “tra” che divide la sensibilità e l’intelletto. Essa colma incrediDevo l’impostatione teorica della questione kantiana che segue alla lezione di Emilio Garroni, dalla cui scuola indirettamente provengo. Mi sia permesso ricordare qui, fra le tante opere che Garroni ha dedicato all’interpretazione del pensiero di Kant, almeno la sua illuminante Introduzione (scritta insieme a H. Hohenegger) alla più recente traduzione di: I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, tr. it., Einaudi, Torino 1999. 29

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bilmente quello spazio anche in assenza dell’oggetto sensibile, di cui è in grado di produrre intuitivamente un’immagine che lo sostituisca. Si dà poi il caso in cui l’immaginazione è in grado addirittura di produrre rappresentazioni per le quali l’intelletto si mostra incapace di fornire concetti adeguati, pensieri determinati, in grado di esaurirne il contenuto. È quel che accade quando l’immaginazione si fa esibizione di quelle idee estetiche che danno occasione di «pensare molto»30. È con l’arte che l’immaginazione scopre il suo compito più arduo: quello di plasmare forme sensibili produttrici interminabili di pensiero. Il mistero dell’arte supera dunque quello che permette di ottenere contenuti determinati di conoscenza: essa crea, infatti, immagini capaci, da sole, di vivificare e stimolare il pensiero. «Una forma che pensa, un pensiero che forma»31 [fig. 5]: è ciò a cui il cinema dà vita quando sceglie, come ha fatto il cinema italiano dal Neorealismo a Pasolini, di non ridurre l’immaginazione a pura fantasia, strumento utile, al più, per la costruzione di perfette macchine finzionali, ma di valorizzarla in quanto facoltà in grado di colmare lo iato che divide i fenomeni sensibili (quel mondo che chiede di esser messo in forma) dal pensiero (risultato di un lavoro formativo che niente come l’arte sa valorizzare). Solo in questa complessa declinazione, che non la considera come «un privilegio dell’artista o una faccenda soggetti30

Ivi, p. 149.

Si veda a questo proposito il finale dell’episodio 3a-La monnaie de l’absolu, 26’03. 31

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Fig. 5

vistica»32, l’immaginazione può essere considerata in quanto «parte integrante della conoscenza nel suo movimento più fecondo, benché – o perché – più arrischiato»33. Ciò che è in gioco qui è infatti il rapporto fra un generico soggetto pensante e il mondo a cui egli rivolge il suo pensiero, rapporto che il cinema riesce a restituire facendo avanzare la forma verso la parola, creando cioè una forma che pensa. L’invenzione del cinematografo porta a compimento un processo a cui già la pittura moderna, vale a dire – secondo il Godard lettore di Bataille34 – principalmente l’opera di Manet, aveva dato inizio: quel 32 33 34

G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, cit., p. 153. Ibidem.

G. Bataille, Manet, tr. it., Alinea, Firenze 1995.

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processo grazie al quale il mondo interiore riesce a incontrare il cosmo e il pensiero a esteriorizzarsi in una forma. Se le donne dei ritratti di Vermeer sembrano dire “io e poi il mondo”, quelle dei quadri impressionisti sembrano sostenere al contrario: “io so quello che pensi”, avendo spostato fuori di sé il centro del proprio pensiero (3a, 11’47). Un dato soprattutto va sottolineato in ciò che abbiamo appena detto: una filiazione diretta unisce la pittura moderna al cinema, che trova addirittura in essa, prima ancora che nella fotografia, la ragione della propria misteriosa origine. Sono numerosissime le immagini pittoriche inserite all’interno delle Histoire(s). Ciascuna, evidentemente, si integra all’interno del complesso compositivo realizzato da Godard con modalità e ragioni sue specifiche; tutte insieme tali immagini costituiscono un vero e proprio corpo autonomo all’interno del corpo più grande delle Histoire(s)35. Esse stanno a testi-

È il caso almeno di ricordare che Malraux e Faure sono gli intellettuali alla cui ricerca in campo artistico si fa più spesso riferimento nel corso delle Histoire(s). Le loro opere servono a Godard come modello per la scrittura della sua personale e originale idea di storia, dell’arte ma non solo. Così, molti dei riferimenti pittorici che si ritrovano nelle Histoire(s) sono proprio le opere prese in esame, di volta in volta, da Malraux o Faure. Vale la pena sottolinere che l’interesse di Godard per la pittura supera di gran lunga l’uso che egli ne fa nelle Histoire(s), essendosi occupato di questa forma d’arte in molti dei suoi lavori precedenti. Basti pensare solo a Pierrot le fou (1965) e Passion (1981). A proposito di quest’ultimo, devo rimandare almeno alle importanti letture di G. De Vincenti (Il concetto di modernità al cinema, Pratiche, Parma 1993, pp. 114128) e di F. Casetti (L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Bompiani, Milano 2005, pp. 167-171). 35

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moniare l’evoluzione di una storia, quella delle forme artistiche, che Godard intende restituirci in una maniera che poco ha a che fare con lo sviluppo lineare del racconto cronologico e che affida, ancora una volta, a una immensa operazione di montaggio. Una storia nella quale il cinema giunge certamente alla fine di un lungo e lento percorso, ma convive, allo stesso tempo, con forme artistiche che non sono superate, ma inserite sinteticamente all’interno di una grande opera d’arte globale. Così, è liberandosi di un’ingombrante eredità moderna e romantica, quella che ha letto la storia come sviluppo teleologicamente proteso al raggiungimento di un fine, e fatto del “bello” il criterio estetico sulla base del quale riconoscere e definire l’opera d’arte, che quest’ultima riesce a recuperare la sua antica accezione di poieisis, intesa come fare creativo e performante. Poetare significa, secondo Heidegger, misurare. Poetando l’uomo prende-misura della propria essenza mortale che coincide con la condizione del suo essere tra l’alto del cielo e il basso della terra. «Il misurare misura in tutta la sua estesione il frammezzo, che porta l’uno verso l’altro il cielo e la terra»36. Se dunque l’uomo da una parte si misura con i celesti, dall’altro egli è ancorato alla terra: per questa ragione il senso più autentico del suo abitare consiste nella misurazione di questo “frammezzo”, il “tra” al quale è assegnato in quanto mortale. Ma se a tale misurazione va fatto corrispondere il modo più vero dell’atto poetante, si può dire senz’altro che il M. Heidegger, «...Poeticamente abita l’uomo», in Id., Saggi e discorsi, tr. it., Mursia, Milano 1976, p. 131. 36

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compito della poesia, quindi in un certo senso di tutta l’arte, sta nel colmare, senza saturarlo, lo spazio di questo “tra”. «Il poeta fa poesia solo quando prende la misura, cioè quando dice gli aspetti del cielo in modo da adattarsi alle sue apparenze come all’estraneo in cui il Dio sconosciuto si tramette»37. Le immagini, dice ancora Heidegger, sono ciò che è in grado di farci vedere qualcosa che altrimenti resterebbe invisibile, sono le «incorporazioni visibili dell’estraneo nell’aspetto di ciò che è familiare»38: per questa ragione, il poetare è sempre poetare per immagini, poiché esse occupano di per sé la posizione del “tra”, permettendo la connessione dell’estraneo al familiare, dell’invisibile al visibile. Se misurare è poetare, poetare è trar fuori dal nascondimento, nella svelatezza, ovvero nella verità. Poiesis significa etimologicamente, nota Heidegger, pro-duzione. Forme di tale produzione sono tanto l’arte quanto la tecnica. Attraverso di esse si dà la verità. Le immagini, se non sono «semplici fantasie e illusioni»39, poiché portano a visibilità l’estraneo, sono forme del disvelamento, ovvero del conoscere, inteso come produzione dell’aperto. 3. Montaggio

La questione che abbiamo detto riguardare la possibile ridefinizione dell’arte a opera di un 37 38 39

Ivi, p. 135. Ibidem.

Ibidem.

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lavoro come le Histoire(s) finisce per coinvolgere, così, problemi inerenti più genericamente lo statuto di ciò che chiamiamo immagine, la sua capacità di farsi veicolo di verità, dunque, altrimenti detto, la sua vocazione intimamente poetica. Ora, va precisato sin da subito, in un autore come Godard, parlare di “immagine” significa sempre parlare di “immagini” al plurale, anzitutto perché la possibilità che a esse venga riconosciuta la facoltà di farsi veicolo di un contenuto di verità, pare corrispondere inevitabilmente a quel lavoro di costruzione che presiede alla costituzione di ciascuna “immagine”, così come di un susseguirsi più o meno lineare di “immagini”. «Non c’è un’immagine, ci sono solo delle immagini. E c’è una certa forma di accostamento delle immagini: quando ce ne sono due, ne deriva una terza»40. Già nella sua singolarità, l’immagine sembra essere, infatti, il risultato di uno stratificarsi interno di livelli di significazione differenti che non si esauriscono nella semplice decifrazione di ciò che vediamo o di ciò che udiamo, ma che anzi costringono lo spettatore a una serie di “operazioni”, volte alla messa in connessione di due tracce, quella del visibile e quella del dicibile41. La tecnica della sovraimpressione rende tutto ciò particolarmente evidente: non c’è immagine J.-L. Godard, Un mondo di cui nessuno ci aveva parlato. J.-L. Godard incontra Régis Debray, in Id., Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di O. Leogrande, tr. it., Minimum Fax, Roma 2007, p. 286. 40

Cfr. J. Rancière, Il destino delle immagini, in Id., Il destino delle immagini, cit., p. 33 e sgg. 41

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che sia “sola”, ogni immagine è, cioè, già da sempre, il frutto di un complesso lavoro di costruzione che il cinema chiama montaggio. J.-L. Godard. - Le Histoire(s) sono cinema, tecnicamente sono un manuale, cose semplicissime, tra le quaranta possibilità della regia ne ho utilizzate una o due, soprattutto la sovrimpressione, che mi ha consetito di serbare l’immagine originale del cinema […]. Y. Ishaghpour. - Il fatto che le immagini si fondano l’una con l’altra... J.-L. Godard. - La base è sempre due, presentare sempre all’inizio due immagini anziché una, è questo che io chiamo l’immagine, l’immagine fatta di due […]42.

Da questo punto di vista Godard, che pure secondo Rancière avrebbe, a differenza di Ejzenštejn, fatto un uso simbolico e non dialettico del montaggio43, si sente, e in effetti è, molto vicino al cineasta russo, col quale condivide l’idea in base alla quale non esiste immagine che non sia montata. Il montaggio non è, dunque, uno strumento a puro uso del cinema, ma dell’arte tutta: montavano, infatti, un pittore come Serov o un romanziere come Flaubert44. È la premessa in base alla quale il montaggio J.-L. Godard, Y. Ishaghpour, Archéologie du cinéma e mémoire du siècle, Farrago, Tours 2000, pp. 26-27. 42

43

J. Rancière, La frase, l‘immagine, la storia, cit., p. 93 e sgg.

Cfr. S.M. Ejzenštejn, Teoria generale del montaggio, tr. it., a cura di P. Montani, Marsilio, Venezia 1985. 44

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può arrivare a esser considerato in quanto vero e proprio principio costruttivo che sta alla base non solo del lavoro di composizione artistica, ma anche e soprattutto di un reale che risulterebbe altrimenti addirittura inconoscibile. Vale la pena ricordare, a questo proposito, che soprattutto nell’ultima fase della sua riflessione teorica sul cinema, Ejzenštejn ha fatto coincidere, dopo una lunga serie di ripensamenti e aggiustamenti, il montaggio con quella idea di “immaginità” (obraznost’), nella quale va ricercato il principio generale di coerenza e organizzazione che rende possibile ogni conoscenza. Se possiamo sapere come funziona la realtà che abbiamo sotto gli occhi, quindi anche quel meccanismo che chiamiamo arte, è perché assumiamo che questa, come la natura, risponda a una legalità che ne coordina e stabilisce i processi di sviluppo interni. Nulla ci sarebbe dato dire, a proposito del cinema, della natura e della storia, se non fossimo disposti a riconoscere che ciascuno di questi tre ambiti altro non è che il risultato di un lavoro di costruzione e montaggio. Se il cinema ha avuto una colpa, essa consiste proprio nella sua sottovalutazione del montaggio inteso come strumento conoscitivo. Solo con il montaggio sarebbe stato possibile il racconto della storia del XX secolo e dei campi di sterminio: sottovalutando lo straordinario strumento tecnico che aveva a disposizione, il cinema ha anche sostanzialmente disatteso il proprio compito storico ed etico. Così come lo andiamo presentando, infatti, il montaggio non significa affatto «assimilazione indistinta, fusione o distruzione degli elementi 146

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che lo costituiscono»45. Allo stesso modo, dire che è reale solo ciò che vien fuori da un processo di composizione e scrittura, non implica affatto che ci si arrenda alla supremazia della menzogna, secondo la quale sarebbe impossibile continuare ad aspirare a qualcosa come la verità. Al contrario, il montaggio va pensato come il solo strumento che ci consenta di continuare ad attribuire un carattere di razionalità a quel reale che ha potuto mostrare, solo perché incompreso, il suo lato più terrificante. Così, «montare un’immagine dei campi – o della barbarie nazista in generale – non significa perderla in un calderone culturale fatto di quadri, di estratti di film o citazioni letterarie: significa semmai dare a intendere qualcosa di diverso, mostrando la differenza e il legame di questa immagine con ciò che la circonda»46. Il montaggio è conoscenza solo in virtù della sua capacità di lasciar vedere il rapporto che corre fra due entità apparentemente irrelate, di fornire la misura comune a realtà che altrimenti considereremmo solo in base alla loro incommensurabilità. «Il cinema ha per vocazione – nel momento in cui si dichiara – il vincolare, il relazionare ciò che abitualmente non è relazionato, precisamente perché può avvicinare, far entrare in consonanza, tramare polifonicamente, per mezzo stesso della separazione»47. Due entità irrelate sono, per esempio, anche 45 46

G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, cit., p. 179.

Ibidem.

A. Badiou, Le plus-de-voir. Del Capello e del Fango, in Id., Del Capello e del Fango, cit., p. 272. 47

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il cinema e la storia che, però, una volta assunto il montaggio come principio costruttivo comune ai due, vanno considerati come ambiti non più distinti, ma in un rapporto di reciproca coappartenenza: non c’è cinema, cioè, che non debba farsi carico di dar conto della storia, così come, non c’è storia che non sia già in sé cinema, prodotto di scrittura e montaggio. È in una prospettiva come questa che ha senso sostenere, come ha fatto Godard, che «George Stevens non avesse utilizzato la prima pellicola a colori in sedicesimi a Auschwitz e Ravensbrück, probabilmente la felicità di Elizabeth Taylor non avrebbe trovato il suo posto al sole» 48, o che «quando François Jacob, il biologo, scrive: “lo stesso anno Copernico e Vesalio”, ebbene, in quel momento non sta facendo biologia, Jacob sta facendo cinema. E la storia è esattamente questo. È accostamento. È montaggio»49. Esso solo riesce a dar conto di accostamenti che altrimenti sembrerebbero del tutto arrischiati, perché procede misteriosamente come fa la nostra immaginazione in ogni processo conoscitivo. Il montaggio è, così inteso, molto più che puro strumento tecnico, a meno che nella tecnica stessa non si veda, così come ha suggerito Heidegger, una modalità dello svelamento, del darsi storico della verità: il montaggio è conoscenza, scrittura e pos-

48

Cfr. l’episodio 1a-Toutes les histoires, 47’18.

J.-L. Godard, Histoire(s) du cinéma: à propos de cinéma e d’histoire, in Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, vol. II., a cura di A. Bergala, Cahiers du Cinéma, Paris 1998, p. 402.

49

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sesso del reale. È in questo senso che Godard può arrivare a riconoscere in Hitchcock, preso a simbolo delle immense potenzialità del cinema, colui che è riuscito in ciò in cui addirittura Napoleone e Hitler hanno fallito: il controllo dell’universo, ovvero la conoscenza del reale. Comincia già nei primi anni Cinquanta l’ammirazione di Godard per Hitchcock, quando ancora giovane critico dei “Cahiers” scrive entusiastiche recensioni di capolavori, come per esempio Il ladro (1956). In un pezzo scritto in occasione della morte del grande maestro del cinema, Godard arriva a considerare, più avanti, il grande regista inglese come uno degli inventori del montaggio, colui che meglio di altri ha saputo restituire potenza all’immagine, ma soprattutto ai concatenamenti fra le immagini. Fino a quando, nell’episodio 4a delle Histoire(s), Hitchcock diviene, per Godard, il più grande creatore di forme del XX secolo [fig. 6], il che equivale a dire il più fine e accorto conoscitore dell’universo, poiché sono proprio le forme «a dirci finalmente cosa c’è al fondo delle cose» (4a, 14’37). È dunque solo qualcosa come la messa in forma del reale che ci consente di conoscerne lo sfondo, ciò che si nasconde dietro e tra le cose e che rischierebbe di rimanere invisibile se il montaggio non lo portasse alla luce. Ogni atto creativo corrisponde, così, a un vero e proprio processo di svelamento, appropriazione e conoscenza del reale, capace di assumere consistenza solo in virtù di quel processo costruttivo che lo sottende. Si prenda, per esempio, un sentimento come la paura. In un film come Notorious, l’amante perduta (Hitchcock, 1946) la 149

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Fig. 6

paura «è fittizia – e perfino umoristica, dato che si spaventa lo spettatore con un’attraente sfilza di buone bottiglie – ma riporta comunque una verità fenomenologica in cui diventa possibile pensare la paura in quanto tale. Il che è possibile perché il montaggio intensifica l’immagine e restituisce all’esperienza visiva una potenza che le nostre certezze o abitudini visibili hanno la tendenza a sedare o a velare»50. Si capisce ora in che senso sia lecito dire che il montaggio è lo strumento attraverso il quale il cinema riesce a farsi produttore di pensiero e conoscenza: esso porta a fenomenizzazione un reale altrimenti destinato all’invisibilità, e lo fa associando immagini distanti fra loro, le quali 50

G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, cit., p. 171.

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vedono accentuarsi, in questo modo, le proprie capacità disvelanti. Ma se di una vera e propria forma di conoscenza è corretto parlare a proposito del cinema, così come dell’arte più in generale, è allo stesso modo giusto precisare a che tipo di “controllo dell’universo” facciamo riferimento quando diciamo, come fa Godard, che Hitchcock è riuscito in ciò in cui anche Alessandro e Cesare, Napoleone e Hitler hanno fallito. Due modelli alternativi di conoscenza sono posti a confronto. Quale la forza della poetica hitchcockiana? Comporre immagini la cui potenza «non dipende in alcun modo dalle storie nelle quali sono combinate»51, ma piuttosto dalla loro intima connessione. Quella che le immagini, combinate, sanno scardinare è dunque la logica stessa della narrazione lineare, attraverso la quale, per esempio, il cinema ha costruito, assieme alle storie che ha raccontato, un universo chiuso e impermeabile ai richiami del reale. È per questa ragione che quel cinema e quelle storie possono essere considerate conniventi con un sistema di potere altrettanto accentratore e totalitario; per questo si può dire che quelle storie hanno prestato il fianco al più atroce degli eventi storici mai accaduti: lo sterminio silenzioso di milioni di persone innocenti. La stessa logica ordinatrice e calcolante è stata alla base dei processi che hanno condotto alla costruzione delle opere d’arte e a quella degli Stati dittatoriali del Novecento: in entrambi i casi, infatti, essi hanno contribuito ad J. Rancière, La favola cinematografica, tr. it., ETS/Cineforum, Pisa/Bergamo 2006, p. 228.

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alimentare quel progetto delirante che puntava alla eliminazione volontaria del contingente e alla conseguente fondazione di un’unità che rispondesse a criteri di coerenza e autosufficienza, gli stessi criteri che per secoli hanno definito la “bellezza”. Nulla resiste alla tirannia del Tutto, nessun particolare riesce a raggiungere la sua autonomia nella logica subordinante che sorregge la costruzione di ogni grande narrazione. Alla supremazia di una dicibilità costruita attraverso il susseguirsi logico di subordinate, il cinema di montaggio risponde con la creazione di una paratassi in cui ciascun elemento del racconto ha esattamente la stessa dignità degli altri, ai quali è unito da una semplice “e” congiunzione52. È così che è potuto accadere, come nel caso del cinema di Hitchcock, che molte unità narrative, molte singole immagini, si autonomizzassero e acquisissero vita propria. Ci siamo dimenticati per quale ragione Joan Fontaine si sporga dal precipizio e che cosa Joel McCrea sia andato a fare in Olanda. Ci siamo dimenticati su che cosa Montgomery Clift mantenga un eterno silenzio, perché mai Janet Leigh si fermi a Bates Motel, e perché Teresa Wright sia ancora innamorata dello zio. Ci siamo dimenticati di che cosa Henry Fonda non è affatto colpevole e per quale ragione esatta il governo americano ingaggi Ingrid Bergman. Ci ricordiamo però di una borsetta. Ci ricordiamo però di un autobus nel deserto. Ci ricordiamo però di un bicchiere di latte, delle pale di un

52

Id., La frase, l’immagine, la storia, cit., p. 78 e sgg.

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mulino, di una spazzola. Ci ricodiamo di una fila di bottiglie, di un paio di occhiali, di uno spartito musicale, di un mazzo di chiavi perché è con questo che Alfred Hitchcock è riuscito nell’impresa nella quale fallirono Alessandro, Giulio Cesare, Napoleone e Hitler: prendere il controllo dell’universo53.

È ben chiaro allora che il controllo di cui Godard parla, a proposito di un universo come quello hitchcockiano, poco ha a che vedere con il pensiero raziocinante e totalizzante di cui abbiamo parlato fin qui. «Che cos’è il cinema?» si domanda Godard. «Niente» risponde. «Che cosa vuole? Tutto». «Che cosa può? Qualcosa» (3a, 8’18). È su questo “qualcosa” che dobbiamo allora focalizzare la nostra attenzione, sulla assoluta parzialità del controllo sull’universo che il cinema può garantire. L’abbiamo già detto: proprio in quanto arte del montaggio per eccellenza, il cinema non può contare sull’assolutezza ed esaustività delle immagini che lo compongono. Per questa ragione, il pensiero di cui si fa veicolo non può in nessun modo divenire pensiero della totalità. Al cinema «l’immagine non è nulla, non una, non è tutta, proprio perché essa offre singolarità multiple sempre suscettibili di differenze»54. Se dunque è di un pensiero del frammento e della differenza che stiamo parlando, è evidente che scopo primario del cinema dovrà essere non tanto garantire una rappresentazione 53 54

4a, 12’15.

G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, cit., p. 154.

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totalizzante ed esaustiva del reale, quanto un’immagine giusta, capace di restituirne gli elementi differenziali e giammai riconciliabili in una visione rappacificata e definitivamente unitaria. È così che la questione prettamente estetica diventa questione morale, in un modo per cui nessuna delle due istanze sarà più distinguibile dall’altra. Godard lo ripete inequivocabilmente nelle Histoire(s), ma lo aveva già sostenuto in veste di critico: Prima di essere una lezione di morale, Il ladro è in ogni momento una lezione di regia […]. Hitchcock ha saputo darci in una sola inquadratura l’equivalente di numerosi primi piani, con una forza che questi, separati, non avrebbero avuto. Ma soprattutto, e questo è l’importante, lo ha fatto consapevolmente, al momento giusto55.

D’ora in avanti, quindi, i problemi che riguardano la costruzione dell’opera d’arte saranno strettamente vincolati a domande, opzioni e scelte di tipo etico: all’artista spetta, infatti, non solo restituire un’immagine del reale, ma fare in modo che quella immagine sia giusta. È questo il paradosso che Godard costruisce attraverso l’uso del notissimo gioco linguistico: non un’immagine giusta, giusto un’immagine. Certo, quella del cinema è solo un’immagine, una fra le tante possibili: in questo

J.-L. Godard, Il cinema e il suo doppio. (Il ladro di Alfred Hitchcock), in AA.VV., La politica degli autori, seconda parte: i testi, tr. it., Minimum Fax, Roma 2003, p. 43. 55

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senso va intesa la sua sostanziale parzialità, l’incapacità, che la contraddistingue e per certi versi la salva, di trasformarsi in immagine totalizzante, di ridursi a un’immagine che da sola tiene in sé il tutto. È forse, anzi, proprio questa parzialità che richiede all’immagine cinematografica di essere, al contempo, soltanto un’immagine e un’immagine giusta, nel senso che suggerì, in più occasioni, Serge Daney. Una domanda di giustizia appartiene, infatti, all’arte a partire almeno dal momento in cui la fotografia, riproducendo il reale, si è mostrata capace di farsi testimone di ciò che è realmente stato e ora non è più. È questa la differenza che corre fra il semplice produrre qualcosa e il produrre qualcosa che, poiché giusto, è dotato di stile: ciò che, pur contro una certa tradizione culturale e di pensiero, possiamo ancora chiamare arte. «Che cos’è l’arte se non l’elemento attraverso il quale le forme diventano stile? E che cos’è lo stile se non l’uomo?» (4a, 14’42). Le due domande che riecheggiano a metà dell’episodio 4a ci indicano chiaramente la strada che dobbiamo seguire se vogliamo, come ho tentato io stessa di fare, continuare, anche oggi, a parlare di arte. La questione ruota, evidentemente, attorno alla definizione dell’esser uomo dell’uomo: in questo senso si deve dire che quello posto dall’arte, dal cinema soprattutto, è un problema di ordine etico e antropologico, ovvero anche estetologico, se l’estetica è in grado di dirci qualcosa circa il modo proprio di stare al mondo dell’uomo. L’interesse di Godard per il cinema nasce così da un interesse per l’uomo, per la sua capacità di essere anzitutto produttore di forme, dunque di stile: «Io credo 155

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nell’uomo in quanto creatore di opere. Gli uomini devono essere rispettati perché realizzano opere, che si tratti di un calendario, di un telecomando, di un’auto, di un film o di un quadro»56. E una grande opera sono le Histoire(s) che non smettono di sorprendere il suo spettatore, grazie all’impressionante lavoro di composizione poetica che esse fieramente non dimenticano di mostrare. Su questo sottile crinale si gioca la differenza che permette di distinguere, senza ombra di dubbio, l’opera di Godard da Shoah (1985) di Lanzmann o da Private Hungary (1988-2002) di Forgàcs. Se è vero, infatti, che è scopo dichiarato delle Histoire(s) mostrare la miseria dell’umanità, quel buco nero che lo sterminio degli ebrei ha rappresentato nella storia della civiltà occidentale, è altrettanto vero che esse non rinunciano mai allo splendore e allo scintillìo quasi accecante delle immagini che si susseguono, si sovrappongono, si assommano lungo gli otto capitoli che compongono l’opera di Godard, il quale condivide, da questo punto di vista, con la cultura cristiana e paolina, la fiducia negli strumenti redimenti della rappresentazione. Se una possibilità autenticamente creativa ancora c’è, se un vero atto poietico è ancora concepibile, esso va inteso come quel lavoro di composizione che solo uno strumento come il montaggio può assolvere. Non più l’arte come opera di genio, ma il lavoro della messa in forma e del riscatto del reale, attraverso le immagini è ciò che interessa Godard. J.-L. Godard, Histoire(s) du cinéma. Godard fa delle storie. Conversazione con Serge Daney, in Id., Due o tre cose che so di me, cit., p. 201. 56

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Pensare vuol dire costruire e far lavorare fra loro le immagini che è il reale stesso a suggerirci. È la “fratellanza delle metafore” (3b-Une vague nouvelle, 19’07) il principio che sta alla base di ogni operazione di montaggio, ciò che rende possibile, in via di principio, l’accostamento di due diverse immagini. Grazie a essa ci si fa dono del passato attraverso le forme del presente, metafora di un “è stato” che rivive e si riattualizza nel destino misterioso di ogni immagine. Di questo prezioso insegnamento di Henri Langlois si nutrì soprattutto la Nouvelle Vague: solo mostrando ciò che è rimasto a lungo invisibile e interdetto può vivere e trovare il suo compito più autentico il vero cinema (17’20). In questo modo si può arrivare a dire (come fa Godard parlando di Langlois) che l’immagine appartiene all’ordine della redenzione, quella del reale nello specifico (18’34). Redenzione che sta in ogni immagine che possa dirsi tale: in ciascuna delle immagini che Godard sapientemente, nelle Histoire(s), coordina e controlla come fosse un direttore con tutti gli elementi dell’orchestra (14’28), così come pure nei quadri di El Greco, o in quelli di Goya e Picasso (18’43). Così fu la luce, così fu Aurora (Murnau, 1927; 17’09): illuminando ciò che altrimenti non avremmo potuto vedere. Della stessa redenzione del reale è stato autore il cinema italiano in quella fase della sua storia che inizia col Neorealismo e forse termina con Fellini, Pasolini, Visconti e Antonioni. Con Roma città aperta (Rossellini, 1945), l’Italia ha semplicemente riconquistato, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il «diritto, come nazione, di guardarsi in faccia» (3a, 157

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21’48), facendo i conti a viso aperto con il proprio passato e i propri errori storici. Comincia, dunque, proprio con le immagini del film di Rossellini il lungo omaggio che Godard dedica al cinema italiano alla fine dell’episodio 3a delle Histoire(s): il susseguirsi di immagini tratte da Il bidone (Fellini, 1955), La terra trema (Visconti, 1948), Umberto D (De Sica, 1952), Stromboli, terra di Dio (Rossellini, 1949), Senso (Visconti, 1954), Il Gattopardo (Visconti, 1963), Ladri di biciclette (De Sica, 1948), Francesco, giullare di Dio (Rossellini, 1950), Teorema (Pasolini, 1968), Deserto rosso (Antonioni, 1964), montate, in una nota quanto commovente sequenza, sulle note di un pezzo di Riccardo Cocciante, La nostra lingua italiana. Ancora una volta lo splendore di un cinema che pure non ha dimenticato di raccontare la miseria di una nazione, che forse ha per la prima volta davvero conosciuto se stessa solo grazie alle opere di grandi registi che ne hanno mostrato la storia e la cultura. La lingua di Ovidio e quella di Virgilio sono entrate infatti nelle immagini di quel cinema, parlando di un passato che, anche in questo caso, ha saputo mostrare la sua profonda attualità. Senza necessità di manipolare le cose perché, come sosteneva proprio Rossellini (25’28) [fig. 7], esse sono semplicemente già lì e vanno solamente mostrate, il cinema italiano ha fatto ciò che il cinema tutto non dovrebbe smettere di fare: creare, cioè, forme in grado di pensare, sulla scorta di un pensiero che è già, in sé, intimamente formativo (25’37). È questo il mistero che ogni immagine custodisce e alimenta: essere forma eppure mostrare l’attualità di un pensiero in movimento che non smette di vi158

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«Montaggio mio dolce affanno»

Fig. 7

vere anche dopo secoli, come mostra uno dei volti dipinti da Piero della Francesca ne La leggenda della Vera Croce [fig. 5], col quale Godard chiude l’episodio 3a (25’50). Si tratta, dunque, di un pensiero che ha finalmente recuperato la sua sensualità, incarnandosi, per esempio, nel gesto della mano insanguinata di Jennifer Jones che accarezza, prima di morire, il volto di Gregory Peck in Duello al sole (K.Vidor, 1948; 1b, 6’28) [fig. 8] o nel volto di una donna che, terrorizzata, si mette le dita in bocca in Passion (Godard, 1981; 6’56). Ecco cosa si intende quando si dice, come fa in più occasioni Godard nelle Histoire(s), che l’uomo pensa con le mani: attraverso di esse passa un pensiero che finisce nei prodotti che sanno creare, per esempio le immagini. Il tavolo da montaggio diventa, da questo punto di vista, il luogo in cui il pensiero propriamente si 159

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ALESSIA CERVINI

Fig. 8

forma, nell’associazione di immagini diverse fra loro, come quella di una bobina che si arrotola e si srotola, sovrimpressa al ritratto di Maria Anna d’Austria di Velázquez (7’01). Nello spazio di quell’accostamento, che è poi lo spazio proprio del montaggio, vien fuori un pensiero che non vive se non nella forma che lo ospita. Al cinema e nell’arte non c’è, cioè, pensiero che in qualche modo non soggiorni in una forma sensibile. Da qui l’immagine trae la sua potenzialità salvifica, la sua capacità di dire che una resurrezione ci sarà. Nel caso delle Histoire(s), la resurrezione sarà quella del reale che finalmente avrà trovato nell’immagine il luogo del suo fenomenizzarsi, del suo darsi a vedere; nella tradizione cristiana a salvarsi sarà il mondo intero che nell’immagine di Cristo riconoscerà l’incarnazione di Dio, la sua scelta di farsi uomo fra gli uomini. 160

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«Montaggio mio dolce affanno»

Di quel Dio l’uomo è creatura. A essa, però, l’Onnipotente ha lasciato la possibilità di farsi, dal canto suo, creatrice delle immagini e del mondo, ovvero aperta al bene, tanto quanto al male. La mano umana è lo strumento di tale creazione. Nell’immagine di una mano tesa sta il senso di un atto d’amore o, detto altrimenti, di creazione e di conoscenza. Due mani che si sfiorano in Nouvelle Vague (Godard, 1990) richiamano, almeno sul piano formale e compositivo, la celebre Creazione del mondo di Michelangelo (4a, 4’56). Basta, in questo caso, un’immagine sola a rievocarne un’altra che in essa sopravvive, celata dietro i gesti e le movenze di due mani che delicatamente si avvicinano. «La vera condizione dell’uomo è pensare con le proprie mani»57 (7’19), è questa la qualità grazie alla quale l’uomo deve essere considerato in primo luogo in quanto creatore, ma “creatore creato”, libero eppure finito allo stesso tempo. Ora, è proprio tale condizione che ci obbliga a riconoscere nella possibilità data all’uomo, di farsi formatore e plasmatore del mondo, l’esistenza di un pericolo, che è poi il pericolo a cui è esposta, sempre, ontologicamente, ciascuna immagine. Allo stesso modo, accanto allo splendore che le immagini si fanno carico di mostrare – splendore che riverbera continuamente in un opera come le Histoire(s) – si nasconde sempre, come la seconda faccia di Giano, la miseria di un mondo che rifugge ogni Questa e la frase che segue sono estratte da un lungo brano, recitato da una voce d’uomo e ricavato da un testo di Denis de Rougemont del 1936, Penser avec les mains, Gallimard-Idées, n. 266, Paris 1972. 57

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bellezza e che pure bisogna raccontare. «Polizia, propaganda, Stato. Ecco la mano. Ecco il nome del Dio tiranno che l’orgogliosa ragione degli uomini ha creato a sua immagine» (5’11). Ma è nel pericolo più grande che si nasconde la possibilità della salvezza. Lo dice Heidegger parafrasando Hölderlin, ne sembra convinto anche Godard, ogni volta che, come accade più volte nelle Histoire(s), attribuisce all’immagine, ciò che prima di ogni altra cosa riesce a omogenizzare e banalizzare la complessità del reale, la facoltà di redimere e salvare l’uomo da tutti i suoi peccati. È evidente allora in che termini la questione artistica della messa in forma del mondo diventi questione etica: essa è stretta, infatti, a doppio filo col modo in cui all’uomo è dato stare al mondo; un modo determinato storicamente, che arti come il cinema hanno saputo trasformare radicalmente. Il cinema «è con noi, è noi stessi» (22’31). Il cinema è vita, nascita, amore e morte, è controllo e scrittura dell’universo. È presente quando la culla si illumina, è presente quando la ragazza ci apre china alla finestra coi suoi occhi che non sanno e una perla fra i seni. Era lì quando l’abbiamo spogliata, quando il suo torso rigido trema al battito della nostra febbre. È lì quando la donna ci apre le sue ginocchia con la stessa emozione materna che ha per aprire le braccia al bambino. È lì quando il frutto cade, una, due, tre... Oh, quante volte nella sua vita è presente dopo, quando è invecchiata, e il suo viso è screpolato, e le sue mani secche ci dicono che non ce l’ha con la vita per averle fatto del male. È ancora lì quando 162

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«Montaggio mio dolce affanno»

siamo vecchi con lo sguardo fisso verso la notte, è lì quando siamo morti, quando il nostro cadavere tende il sudario nelle braccia dei nostri figli58.

58 Il testo è recitato da Alain Cuny nell’episodio 4a (22’33). Il brano è tratto da un testo del 1921, rivisto e modificato da Godard (che lo trasforma in un testo sul cinema), di Élie Faure, Histoire de l’art: l’art moderne I, Le Livre de poche, Paris 1976.

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«Montaggio mio dolce affanno»

ROBERTO DE GAETANO IL POTERE REDENTIVO DEL CINEMA

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ROBERTO DE GAETANO

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Il potere redentivo del cinema

I movimento. Le Histoire(s) di Jean-Luc Godard, insieme ai due volumi di Gilles Deleuze sul cinema, costituiscono il grande esempio pratico-teorico di un doppio passaggio: quello che ha sancito da un lato la fine dei saperi e delle grandi metodologie di lettura dei testi e del mondo (di cui la semiotica ha rappresentato la prospettiva dominante), dall’altro la fine di un certo cinema, di un certo modo di vedere, pensare, sentire, e fruire il cinema. Sotto il segno della Storia in Godard, o della Natura e dello Spirito in Deleuze, il cinema ritorna come forma, nel primo, o come forza, nel secondo, a definire uno stato di espressione della vita e della sua temporalità, storica e non. II movimento. «Forse una descrizione precisa di ciò che non ha avuto luogo è il compito dello storico», questa considerazione presente nelle Histoire(s) evidenzia fin dall’inizio, se ce n’era bisogno, una prospettiva diametralmente opposta rispetto a quella classica, aristotelica, che fa della storia un discorso veritativo su ciò che è stato, contrapposto al discorso poetico che deve rispondere e corrispondere solo a criteri di verosimiglianza. Nella prospettiva aristotelica, il racconto delle 167

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ROBERTO DE GAETANO

gesta passate fonda il carattere documentale del discorso storico, contrapposto al carattere monumentale di quello artistico. Il primo si basa sulle tracce (documenti) che hanno segnato la presenza umana nel mondo, il secondo si tiene da sé e non rimanda che alla sua credibilità finzionale. Individuare la funzione del discorso storico nella descrizione di ciò che non ha avuto luogo significa sottrarlo a qualsiasi istanza documentale per collocarlo in una funzione espressamente poetica. I confini fra storia e poiesis si smarriscono. Ciò che ha avuto luogo è sempre e solo una parte di ciò che non ha avuto luogo; ciò che ha luogo emerge sempre su uno sfondo di opacità, che avrebbe potuto illuminarsi altrimenti. Sottrarre la storia al racconto dell’accaduto, aprendola al lavoro immaginativo sulla potenza, su ciò che poteva essere e non è stato, significa pensarla secondo modalità radicalmente diverse, il racconto delle quali non può prendere le forme di un resoconto lineare. Cosa significa in definitiva pensare e descrivere le linee abortite della storia? Una descrizione che, descrivendo, di fatto istituisce? Significa da un lato sottrarre il passato alla sua definitezza e alla sua compiutezza, ma dall’altro, e in primo luogo, liberare la virtualità passata, inattuata, rendendola presente. Si tratta di rendere presente qualcosa di non attuato, dando quindi al presente la sua storicità (ripresa di una potenza passata), sottratta però al vincolo e al debito troppo grande nei confronti dei morti e della tradizione. Per non far sì che i morti fagocitino i vivi, bisogna dar vita ai morti. Questo non è molto lontano da quella che Warburg chiamava la sopravvivenza delle immagini, il loro 168

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Il potere redentivo del cinema

attraversamento del tempo in una forma fantasmatica, che necessita di essere attualizzata. La resa presente di un inattuato storico concede al presente la sua storicità e restituisce al passato la sua vita. Una storicità non diacronica e non datata, inscritta in quella che Benjamin chiama «immagine dialettica». La storicità dell’immagine dialettica non è data dai riferimenti puntuali alla linea del tempo, ma dalla resa presente di un passato (non datato) che vive attraverso l’immagine. È una dialettica in “stallo” quella che istituisce l’immagine, liberandola da ogni intenzionalità fenomenologica, da ogni reificazione ontologica, da ogni mera concrezione di saperi: l’immagine è lo stallo tensivo che unisce l’ora con un passato acronico. Il presente, la cui presenza è istituita dall’immagine, non è il tempo del meramente attuale ma la forma della resa presente di una virtualità passata e inattuata. In questo il presente, e non il passato, è il tempo della storia, così come dell’immagine. È la resa presente che (ri)attiva la “vita delle immagini”, dove la sopravvivenza e la persistenza delle immagini stesse è fondata proprio dalla loro messa in presenza: «La sopravvivenza delle immagini non è, infatti, un dato, ma richiede un’operazione, la cui effettuazione è compito del soggetto storico […]. Attraverso questa operazione, il passato – le immagini trasmesse dalle generazioni che ci hanno preceduto – che sembrava in sé conchiuso e inaccessibile, si rimette per noi in movimento, ridiventa possibile»1. G. Agamben, Ninfe, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 25-26. 1

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La sopravvivenza delle immagini, la loro temporalità e storicità, è dunque effetto di una operazione, e questa è una operazione di montaggio. Qui le Histoire(s) condividono molto con altre operazioni analoghe del ’900, a partire da Mnemosyne di Warburg. Didi-Huberman è esplicito nel leggere la questione warburghiana della sopravvivenza delle immagini come una questione di montaggio: «Le immagini portatrici di sopravvivenze non sono altro che montaggi di significazioni e di temporalità eterogenee»2. È solo l’operazione di montaggio che rende presente e vivo il passato (delle immagini e non), perché attiva nel raccordo potenzialità inespresse. Emerge dunque l’idea che l’immagine, la cui presenza è anche sempre quella di una reviviscenza, di un sopraggiungere dal passato dell’immagine stessa, (ri)prende vita nell’immagine-montaggio; per cui l’immagine è fin dall’inizio montaggio, è sempre almeno “due”: «presentare sempre all’inizio due immagini anziché una, è questo che io chiamo l’immagine, l’immagine fatta di due»3. L’immagine non è mai mera identità a sé né alla cosa, né mera rivelazione della singolarità dell’oggetto: l’immagine è uno spazio di “immaginità”4, frutto di un’operazione che è in primo G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 445. 2

J.-L. Godard, Y. Ishaghpour, Archéologie du cinéma e mémoire du siècle, Farrago, Tours 2000, pp. 26-27. 3

In questa tradizione che va da Warburg a Godard, Ejzenštejn gioca un ruolo decisivo. Cfr. su questo, G. Didi-Huberman Quand les images prennent position, Les éditions de minuit, Paris 4

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luogo operazione di montaggio tra-immagini, tra immagini e parole (didascalie, voci off), immagini e suoni. Non c’è immagine che non sia (almeno) “due” e che non faccia risuonare in questo “due” la sua storicità; la quale non coincide con la documentazione veritativa di alcun passato, ma con la costruzione di un piano compositivo (concettuale e pratico) in cui si rendano presenti (come nei casi esemplari dell’atlante warburghiano, dei Passages benjaminiani, dell’Arbeitjournal brechtiano e naturalmente delle Histoire(s)) altre immagini che sono a loro volta già-montate, sopravvivenze che riprendono vita, ma una nuova vita, quella che non avevano, quella abortita, non espressa. Le Histoire(s) (ri)danno vita alle immagini sopravviventi del cinema, della pittura e della letteratura. Ma il piano di composizione estetico cambia loro segno. La “colpa” originaria del cinema, quella di non aver testimoniato gli orrori del Novecento, viene sanata e redenta (ma allo stesso tempo istituita) proprio dalle Histoire(s), che storicizzano il cinema e le sue immagini attraverso un’operazione che passa per il carattere asincrono del montaggio. È come se l’asincronia del montaggio godardiano fosse l’unica procedura per rendere storicamente presenti le immagini eterogenee che vengono concatenate. È una temporalità ferma, spazializzata, che richiama direttamente l’«immagine dialettica» benjaminiana, nozione centrale nella elaborazione 2009, e J. Rancière, Il destino delle immagini, tr. it., Pellegrini, Cosenza 2007.

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di un pensiero sulla storicità delle immagini, svincolata da ogni naturalità. È Agamben a sottolineare questo punto: Benjamin elabora il concetto di “immagine dialettica” (dialektisches Bild), che dovrebbe costituire il fulcro della sua conoscenza storica. Forse in nessun altro testo egli si avvicina a darne una definizione, come in un frammento (N3, 1) del libro sui Passaggi parigini. Qui egli distingue le immagini dialettiche dalle essenze della fenomenologia husserliana. Mentre queste sono conosciute indipendentemente da ogni dato fattuale, le immagini dialettiche sono definite dal loro indice storico, che le rimanda all’attualità. E mentre per Husserl, l’intenzionalità resta il presupposto della fenomenologia, nell’immagine dialettica la verità si presenta storicamente come “morte dell’intentio”5.

Solo l’immagine dialettica è pienamente storica: ma perché? E in che senso? E come è pensabile questa storicità? L’immagine dialettica è storica, perché costruisce una storicità come «stallo», come «arresto» fra polarità contrapposte. È storica, non perché fa riferimento in termini di contenuto al passato, ma perché è messa in presenza di una tensione tra movimenti e tempi diversi, dove viene a operarsi una attualizzazione storica, come resa sincrona, o meglio anacronica, di passato e presente. Nelle Tesi sulla storia, Benjamin dice: «Non è che il passato getti la sua luce sul presente 5

G. Agamben, Ninfe, cit., pp. 27-28.

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o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’adesso in una costellazione. In altre parole: l’immagine è dialettica in situazione di stallo»6. È nella forma di un dinamismo statico che emerge l’immagine di un tempo senza sviluppo né linearità, di una storicità come co-appartenenza. È proprio una nuova immagine della storia quella implicata dalla storicità delle immagini delle Histoire(s): […] sono ormai due secoli che la storia non è più il racconto del passato, ma una forma di compresenza, un modo di pensare e di provare la coappartenenza delle esperienze e l’inter-espressività delle forme e dei segni che le esprimono. […] Storia è diventato il nome della coappartenenza delle esperienze individuali, gloriose o banali, il nome di quel che istituisce fra le forme di un quadro o le frasi di un romanzo – ma anche fra i graffiti o le crepe di un muro, l’usura di un vestito o le scrostature di una facciata – un rapporto di inter-espressività. […] L’epoca della storia ha la sua poetica specifica, riassunta dalla celebre formula di Novalis: “Tutto parla”: questo fa capire come ogni forma sensibile sia un tessuto di segni più o meno oscuri, una presenza capace di esprimere quella potenza dell’esperienza collettiva che la porta a presentificarsi7.

W. Benjamin, Sul concetto di storia, tr. it., Einaudi, Torino 1997, p. 116.

6

J. Rancière, La favola cinematografica, tr. it., ETS/Cineforum, Pisa/Bergamo 2006, p. 235. 7

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Se la storia è la forma di una co-appartenenza nel presente, fondata sull’inter-espressività delle forme, e se queste forme sono anche le forme, le più varie ed eterogenee, che sopravvivono e provengono dal passato, allora la storia è inscindibile da una poiesis che la istituisce, capace di dare parola a tutto, di rispondere e corrispondere al precetto romantico del “tutto parla”. Questa poetica del “tutto parla”, capace con uno stesso gesto di smontare e rimontare l’immagine e la Storia, è l’operazione fondamentale compiuta dalle Histoire(s): Le Histoire(s) du cinéma sono la più eclatante manifestazione contemporanea della poetica romantica del tutto parla, ma anche della tensione originaria che abita questa poetica. Vi sono infatti due modi di intendere questa formula. Il primo […] che afferma che le cose sono presenti, e che, per farle parlare, occorre astenersi dal manipolarle. Il secondo modo afferma invece che, dato che tutte le cose e tutti i significati si esprimono a vicenda, farle parlare significa manipolarle, […] metterle in comunicazione con tutte le cose, tutte le forme, tutti i segni e i modi di fare che sono co-presenti ad esse8.

Potenza dell’immagine, potere del montaggio l’una iscritta nell’altro e viceversa. E, nuovamente, è il montaggio che diventa forma e principio di costruzione dell’immagine dialettica, montaggio che 8

Ivi, p. 257.

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Il potere redentivo del cinema

non totalizza, ma concatena dissociando, operando uno stallo che non unifica né dissocia gli elementi concatenati, ma li mantiene in una sorta di “sintesi disgiuntiva”. E, allora, se come dice Godard nelle Histoire(s) «il cinema non è un’arte né una tecnica, ma un mistero», questo mistero lo ritroviamo proprio in una composizione che evita la mimesis, ma anche la pura rivelazione fenomenologica, e si afferma nello scarto tra tempi, forme, linguaggi; in una pratica di montaggio dove domina il «senza comune misura» tra le immagini e tra queste e i suoni. O meglio, dove la misura comune la ritroviamo in uno “stallo” dialettico, in un piano di composizione estetico dove il presente e il passato abitano uno spazio di coalescenza, sopravvivenze e presenze convivono e si sovrappongono, e ogni immagine si relaziona all’oggetto all’interno di un piano di discorsività. III movimento. Due direttrici radicate e radicali, nel loro sfidare le forme della mimesi da un lato e lo storicismo dall’altro: l’immagine come forma dialettica, istituita dal montaggio, piano di composizione storico, di una storia come presenza, scrittura delle sopravvivenze; e l’immagine come forza espressiva della materia e dello spirito, loro modo di essere a-storico e intempestivo. Di nuovo le Histoire(s) e L’immagine-movimento e L’immagine-tempo: le prime, un lavoro radicale sulle forme, sulla forma immagine, sulla composizione di montaggio: un atlante storico del cinema; le seconde, un emergere intensivo delle forze-immagini dalla materia e dallo spirito. In entrambi i casi il 175

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cinema è pensato nel suo potere redentivo, delle colpe passate (Godard) o delle astrazioni percettive (Deleuze). Due direttrici o due costellazioni, allora: una, partendo da Godard comprende Ejzenštejn, Brecht, Warburg e ruota intorno al potere della forma-montaggio e alla sua storicità; un’altra, partendo da Deleuze, passando per Pasolini, Artaud, Epstein, giunge a una intensità dinamica e temporale che oltrepassa la storicità delle forma per giungere alle potenze di una Natura-Spirito, di una Materia-Memoria. Oltre questo, il cinema è stato una storia di rappresentazioni mimetiche e di dispositivi consensuali. E dopo questo, il cinema, collocato nell’alveo di una medialità estesa, è ritornato sotto il controllo delle scienze sociali e dei saperi codificati (culturologici, analitici, archivistici). Le Histoire(s) e L’immagine-movimento e L’immagine-tempo rimangono opere ultimative nell’operazione tassonomica che compiono. Riprenderle significa trasformare quelle immagini in sopravvivenze da rimettere in gioco, facendo loro riprendere vita. E la storia continua…

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Il potere redentivo del cinema

SCHEDE SINOTTICHE Histoire(s) du cinéma (1988-1998)

1a-Toutes les histoires (1988) Regia, sceneggiatura e montaggio: J.-L. Godard; produzione: Canal +, La Sept, FR 3, Gaumont, JLG Films, CNC, RTCR, Vega Film; durata: 51’ Dedicato a Mary Meerson e Monica Tegelaar L’episodio si articola in tre movimenti: una lunga sequenza introduttiva, volta a mostrare la solitudine dello storico, i suoi strumenti di lavoro e il funzionamento dello sguardo filmico; un movimento dedicato ai racconti che sono stati fatti, al cinema «fabbrica dei sogni» che «sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda ai nostri desideri», il cinema dei grandi produttori di Hollywood (Thalberg, Hughes); infine la «storia della notte», ossia la storia dei racconti che non sono stati fatti, dai grandi progetti incompiuti (come Don Chisciotte di Welles o Il prato di Bežin di Ejzenštejn) fino al cinema incapace di testimoniare Auschwitz. 1b-Une histoire seule (1988) Regia, sceneggiatura e montaggio: J.-L. Godard; produzione: Canal +, La Sept, FR 3, Gaumont, JLG Films, CNC, RTCR, Vega Film; durata: 42’ Dedicato a John Cassavetes e Glauber Rocha 177

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SPLENDORE E MISERIA DEL CINEMA. SULLE HISTOIRE(S) DI JEAN-LUC GODARD

Riflessione sulla fede nella sacralità dell’immagine, che attraversa la storia delle arti del XIX secolo (il romanzo verista, l’impressionismo, la fotografia) per giungere all’infanzia dell’arte, il cinema, unica tra le arti a filmare il miracolo (Ordet di Dreyer). La bellezza e l’immagine cinematografica: da una parte il cinema assomiglia a un’industria di cosmetici, a un’industria dell’evasione che ferma il suo sguardo sulle «bellezze in fiore»; dall’altra, come il cristianesimo, è al lavoro perché qualcosa come la resurrezione avvenga. 2a-Seul le cinéma (1994) Regia, sceneggiatura e montaggio: J.-L. Godard; interpreti: Serge Daney, Julie Delpy; produzione: Gaumont, Peripheria; durata: 26’ Dedicato ad Armand J. Guliez e Santiago Alvarez L’episodio è diviso in due movimenti. Il primo presenta brani di una conversazione di Godard con Serge Daney sul progetto delle Histoire(s), sulla possibilità del cinema di fare storia («descrizione precisa di ciò che non ha mai avuto luogo») e sul ruolo della critica d’arte francese, da Diderot ai giovani critici dei “Cahiers du cinéma”. Il secondo movimento è dedicato alla lettura da parte di Julie Delpy de L’invitation au voyage di Baudelaire. 2b-Fatale beauté (1994) Regia, sceneggiatura e montaggio: J.-L. Godard; produzione: Gaumont, Peripheria; interpreti: Sabine Azéma; durata: 28’ Dedicato a Michelle Firk e Nicole Ladmiral 178

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Schede sinottiche

Dedicato all’intreccio tra la seduzione delle donne fatali (Ava Gardner, Lauren Bacall, Hedy Lamarr) e la fascinazione per la morte. La glorificazione della bellezza del corpo è un gioco crudele che svela la fragilità dell’essere umano. Segue la lettura di un brano dalla Morte di Virgilio di Broch, recitato da Sabine Azéma e dedicato alla bellezza. 3a-La monnaie de l’absolu (1995) Regia, sceneggiatura e montaggio: J.-L. Godard; produzione: Gaumont, Peripheria; durata: 26’ Dedicato a Gianni Amico e James Agee Godard si interroga sulla messa in immagine della guerra, forma tipica della violenza di Stato che attraversa l’Europa. Dopo aver ripercorso con Hugo la ferocia dei conflitti che si sono succeduti in Bosnia, si concentra sul cinema italiano che, da Roma città aperta, è stato l’unico a resistere al modello di occupazione culturale hollywoodiano, riprendendo così la tradizione delle «forme pensanti» della pittura. 3b-Une vague nouvelle (1995) Regia, sceneggiatura e montaggio: J.-L. Godard; produzione: Gaumont, Peripheria; interpreti: Alain Cuny e Juliette Binoche; durata: 27’ Dedicato a Friedrich C. Froeschel e Naum Klejman L’episodio ripercorre alcuni momenti fondamentali della storia dell’arte, secondo la prospettiva di Faure e Malraux, per concentrarsi sui musei della realtà, le sale cinematografiche, dove si è 179

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SPLENDORE E MISERIA DEL CINEMA. SULLE HISTOIRE(S) DI JEAN-LUC GODARD

formata la generazione dei critici della Nouvelle Vague, guidata da Langlois e Bazin. Dopo aver ripercorso le immagini di cui si sono imbevuti lo sguardo e il cinema di una generazione di cinefili, Godard dedica un commosso omaggio ai suoi amici e maestri scomparsi, da Becker a Rossellini, da Truffaut a Demy. 4a-Le contrôle de l’univers (1998) Regia, sceneggiatura e montaggio: J.-L. Godard; produzione: Gaumont, CNC, Fémis, Peripheria; interpreti: Alain Cuny; durata: 27’ Dedicato a Michel Delahaye e Jean Domarchi Il centro dell’episodio è l’omaggio al maggior poeta delle forme del cinema, Hitchcock, che ha saputo controllare l’universo, ossia l’immaginario di milioni di spettatori. Alcuni lunghi brani all’inizio e al termine, da opere di Valéry, de Rougemont, Faure, tornano sul potere insito nella forza poietica (e manipolatrice) delle arti, dalla parola e dalla voce che lo incarnano, allo sguardo filmico che accompagna e dà senso al visibile dell’esistenza. 4b-Les signes parmi nous (1998) Regia, sceneggiatura e montaggio: J.-L. Godard; produzione: Gaumont, CNC, Fémis, Peripheria; durata: 38’ Dedicato ad Anne-Marie Miéville e Jean-Luc Godard Densa ricapitolazione dei temi delle Histoire(s), dalla «miseria e splendore» del cinema ai compiti della memoria storica, che deve lottare contro 180

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Schede sinottiche

l’oblio fino al rischio dell’oblio totale, attraverso l’associazione di idee e di immagini lontane tra loro. Questo bilancio è delineato come un autoritratto di Godard stesso, che cerca di mettere ordine a quella «saturazione di segni magnifica» che è il cinema, arte del XIX secolo che ha fatto esistere il XX secolo.

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Bibliografia

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Si riporta di seguito una selezione dei principali testi, apparsi in volume o in rivista, direttamente dedicati a Histoire(s) du cinéma o a singole parti della serie, accanto a contributi per lo più consacrati al lavoro del tardo Godard. Per tutti gli altri testi discussi nel presente volume, si rimanda alle indicazioni bibliografiche riportate a pie’ di pagina all’interno dei singoli saggi. AA.VV., Le Siècle de Jean-Luc Godard. Guide pour “Histoire(s) du cinéma”, “art press”, n. fuori serie, novembre 1998. AA. VV., Histoire(s) du cinéma, in “Cahiers du cinéma”, supplemento al n. 537, 1999. AA. VV., The Godard Dossier, in “Screen”, n. 3, 1999, pp. 304-347. AA. VV., Histoire(s) du cinéma, in “Cahiers du cinéma”, n. 625, 2007, pp. 82-93. AUMONT J., Beauté, fatal souci. Note sur un épisode des Histoire(s) du cinéma, in “Cinémathèque”, n. 12, 1998, pp. 17-25. ID., Amnésies. Fictions du cinéma d’après Jean-Luc Godard, P.O.L., Paris 1999. BADIOU A., Su Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard, in ID., Del Capello e del Fango. Riflessioni sul cinema, a cura di D. Dottorini, Pellegrini, Cosenza 2009, pp. 249-264. 183

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SPLENDORE E MISERIA DEL CINEMA. SULLE HISTOIRE(S) DI JEAN-LUC GODARD

ID., Le plus-de-voir. Del Capello e del Fango, in ID., Del Capello e del Fango. Riflessioni sul cinema, a cura di D. Dottorini, Pellegrini, Cosenza 2009, pp. 265-277. BERGALA A., Nul mieux que Godard, Cahiers du Cinéma, Paris 1999. BONNAUD F., VIVIANT A., La légende du siècle, in “Les Inrockuptibles”, n. 170, 1998, pp. 20-28. CENSI R., Histoire(s) du cinéma – Lo splendore delle rovine, in “Cineforum”, n. 366, 1997, pp. 12-17. CIMENT M., GOUDET S., Jean-Luc Godard. Des traces au cinéma, in “Positif”, n. 456, 1999, pp. 50-57. COHEN-HALIMI M., COHEN F., Juifs, martyrs, kamikazes: la monstrueuse capture – Question à Jean-Luc Godard, in “Les Temps modernes”, n. 629, 2004/2005, pp. 301-310. COUREAU D., Jean-Luc Godard 1990-1995. Complexité esthétique, esthétique de la complexité, Presses universitaires du Septentrion, Lille 2000. DALL’ASTA M., Godard e l’angelo, in “Bianco e Nero”, n. 5, 2000, pp. 73-83. ID., La storia (im)possibile. Ancora su Histoire(s) du cinéma, in “La Valle dell’Eden”, n. 12-13, 2004, pp. 103-121. DE BAECQUE A., Le cinéma par la bande, in “Cahiers du cinéma”, n. 513, 1997, pp. 36-38. DELAVAUD G., ESQUENAZI J.-P., GRANGE M.-F. (a cura di), Godard et le métier d’artiste, L’Harmattan, Paris 2001. DIDI-HUBERMAN G., Immagini malgrado tutto, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2005, pp. 153-226. EISENSCHITZ B., TESSON CH., Une machine à montrer l’invisible, in “Cahiers du cinéma”, n. 529, 1998, pp. 52-57. GODARD J.-L., Introduzione alla vera storia del cinema, tr. it., Editori Riuniti, Roma 1982. ID., Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, a cura di 184

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Bibliografia

A. Bergala, vol. II (1984-1998), Cahiers du Cinéma, Paris 1998. ID., Histoire(s) du cinéma, 4 voll., Gallimard-Gaumont, Paris 1998. GODARD J.-L., DANEY S., Godard fait des histoires, in “Libération”, 26 dicembre 1988, poi in GODARD J.-L., Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, a cura di A. Bergala, vol. II (1984-1998), Cahiers du Cinéma, Paris 1998, pp. 161-173. GODARD J.-L., ISHAGHPOUR Y., Archéologie du cinéma et mémoire du siècle. Dialogue, Farrago, Tours 2000. HABIB A., Mémoire d’un achèvement. Approches de la fin dans les Histoire(s) du cinéma de Jean-Luc Godard, in “Cinémas”, n. 3, 2003, pp. 9-31. HARDOUIN F., Le cinématographe selon Godard. Introduction aux Histoire(s) du cinèma ou réflexion sur le temps des arts, L’Harmattan, Paris 2007. HEYWOOD M., Holocaust and image: debats surrounding Jean-Luc Godard’s Histoire(s) du cinéma (1988-98), in “Studies in French Cinema”, n. 3, 2009, pp. 273-283. LEUTRAT J.-L., Histoire(s) du cinéma, ou comment devenir maître d’un souvenir, in “Cinémathèque”, n. 5, 1994, pp. 28-39. ID., Mais c’est dans le dos que la lumière va frapper la nuit, in “Vertigo”, n. 22, 2001, pp. 92-102. ID., Retour sur Histoire(s), in “Trafic”, n. 70, 2009. ID., Retour sur Histoire(s), 2, in “Trafic”, n. 71, 2009, pp. 129-139. ID., Retour sur Histoire(s), 3, in “Trafic”, n. 72, 2009, pp. 96-116. ID., Retour sur Histoire(s), 4, in “Trafic”, n. 73, 2010, pp. 77-94. LIANDRAT-GUIGUES S., LEUTRAT J.-L., Godard. Alla ricerca dell’arte perduta, tr. it., Le Mani, Recco 1998. ID., Godard, simple comme bonjour, L’Harmattan, Paris 2004. 185

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SPLENDORE E MISERIA DEL CINEMA. SULLE HISTOIRE(S) DI JEAN-LUC GODARD

POURVALI B., Godard neuf zéro. Les films des années 90 de Jean-Luc Godard, Séguier Archimbaud, Biarritz 2006. PRÉDAL R. (a cura di), Où en est le God-Art?, “CinémAction”, n. 109, 2003. RANCIÈRE J., La favola cinematografica, tr. it., ETS/Cineforum, Pisa/Bergamo 2006, pp. 227-248. ID., La frase, l’immagine, la storia, in ID., Il destino delle immagini, tr. it., Pellegrini, Cosenza 2007, pp. 65-77. SCEMAMA C., Histoire(s) du cinéma de Jean-Luc Godard. La force faible d’un art, L’Harmattan, Paris 2006. SCHIFANO L., Histoire(s) du cinéma. Il capitolo italiano, in “Bianco e Nero”, n. 3-4, 1999, pp. 178-190. SILVERMAN K., The Dream of the Nineteenth Century, in “Camera Obscura”, n. 51, 2002, pp. 1-29. SOLLERS PH., DE BAECQUE A., TOUBIANA S., Il y a des fantômes plein l’ecran, in “Cahiers du cinéma”, n. 513, 1997, pp. 39-48. STRAUMANN P., Was ist der Film? Nichts. Was will er? Alles, in “Cinema”, n. 46, 2001, pp. 177-187. TEMPLE M., WILLIAMS J.S., WITT M. (a cura di), For Ever Godard, Black Dog Publishing, London 2004. TEMPLE M., WILLIAMS J.S. (a cura di), The Cinema Alone. Essays on the work of Jean-Luc Godard 1985-2000, Amsterdam University Press, Amsterdam 2000. ZAGDANSKI S., Entretien avec Jean-Luc Godard, in “Le Nouvel Observateur”, 18-24 novembre 2004.

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Indice dei nomi e dei film

INDICE DEI NOMI E DEI FILM

Adorno, Theodor W., 122 e n, 124 e n Agamben, Giorgio, 169n, 172 e n Agee, James, 179 Agente Lemmy Caution: missione Alphaville (Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution, Jean-Luc Godard, 1965), 105 Aleksandr Nevskij (Id., Sergej M. Ejzenštejn, 1938), 68 Alessandro il Grande, 151, 153 Allemagne année 90 neuf zéro (Id., Jean-Luc Godard, 1991), 35, 69, 98, 105, 115 Allen, Woody, 55n Alvarez, Santiago, 178 Amico, Gianni, 179 Antelme, Robert, 103, 113 Antonioni, Michelangelo, 157, 158 Aprà, Adriano, 20n Arden, Robert, 29 Artaud, Antonin, 176

Atalante, L’ (Id., Jean Vigo, 1934), 85 Auer, Misha, 15, 29-31, 34, 46 Aumont, Jacques, 127, 130, 135, 136 e n Aurora (Sunrise: A Song of Two Humans, Friedrich W. Murnau, 1927), 157 Autant-Lara, Claude, 99n Azéma, Sabine, 107, 117 e n, 118 e n, 124, 134, 178, 179 Bacon, Francis, 112 Badiou, Alain, 48 n, 53n, 54n, 83n, 118n, 136n, 147n Balzac, Honoré de, 11 Barthes, Roland, 19 e n, 20n, 22 e n, Bartov, Omer, 89n Bataille, Georges, 109, 140 e n Baudelaire, Charles, 98, 178 Bazin, André, 20n, 40, 41, 42n, 180 187

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SPLENDORE E MISERIA DEL CINEMA. SULLE HISTOIRE(S) DI JEAN-LUC GODARD

Becker, Jacques, 180 Beckett, Samuel, 70, 94 Belmondo, Jean-Paul, 17, 33 Benjamin, Walter, 71, 75n, 83, 89n, 123, 169, 172, 173n Bergala, Alain, 20n, 25n, 107n, 148n Bergman, Ingmar, 16, 94 Bergman, Ingrid, 152 Berstein, Steven, 107n Bethmann, Sabine, 37 Beuchot, Pierre, 67 Bidone, Il (Federico Fellini, 1955), 158 Binoche, Juliette, 101n, 118n, 179 Bjørnstad, Ketil, 67 Blanchot, Maurice, 47n, Bloy, Léon, 67 Boetticher, Budd, 17, 37 Bonaparte, Napoleone, 149, 151, 153 Borges, Jorge Luis, 34, 35n Boudu salvato dalle acque (Boudu sauvé des eaux, Jean Renoir, 1932), 16 Braudel, Fernand, 110 Brecht, Bertolt, 176 Bresson, Robert, 18 e n, 23n, 55n, 95, 100, 115, 137 e n Broch, Hermann, 46n, 98, 117, 118, 126 e n, 127,

134, 179 Brownlow, Kevin, 16n Buñuel, Luis, 95 Canadè, Alessandro 12 Casetti, Francesco, 40n, 81n, 141n Cassavetes, John, 177 Castellani, Renato, 97 Celan, Paul, 108 e n, 109 Chagrin et la Pitié, Le (Id., Marcel Ophüls, 1969), 86n Chaplin, Charles S., 86, 109 Chien andalou, Un (Id., Luis Buñuel, 1929), 34, 95 Christensen, Benjamin, 46 Clift, Montgomery, 152 Clifton, Elmer, 26n Cocciante, Riccardo, 158 Cocteau, Jean, 85, 132 Coleridge, Samuel T., 34, 35n Compagnons secrets (Pierre Beuchot, 1996), 67 Constantine, Eddie, 105 Copernico, Niccolò, 148 Cuny, Alain, 118n, 163n, 179, 180 Cura miracolosa, La (The cure, Charles S. Chaplin, 1917), 16n Daney, Serge, 28n, 40, 45,

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Indice dei nomi e dei film

46, 49n, 98, 106, 108n, 155, 156n, 178 D-Day to Berlin (George Stevens Jr., 1994), 91n De Baecque, Antoine, 77n De Certeau, Michel, 77n, De Gaetano, Roberto, 8, 12, 51n Delacroix, Eugène, 25n Delage, Christian, 77n Delahaye, Michel, 180 Deleuze, Gilles, 55 e n, 133n, 167, 176 Delpy, Julie, 84, 118n, 178 Del Rio, Dolores, 45n De Palma, Brian, 17, 27 Derrida, Jacques, 81n, Deserto rosso (Michelangelo Antonioni, 1964), 158 De Sica, Vittorio, 158 Deux fois 50 ans de cinéma français (Id., Jean-Luc Godard, 1995), 69 De Vincenti, Giorgio, 108n, 141n Dickinson, Emily, 112 Diderot, Denis, 178 Didi-Huberman, Georges, 59 e n, 62n, 63n, 90n, 119 e n, 140n, 147n, 150n, 153n, 170 e n Dies irae (Vredens Dag, Carl Th. Dreyer, 1943), 46

Domarchi, Jean, 180 Donna che visse due volte, La (Vertigo, Alfred Hitchcock, 1958), 97 Dostoevskij, Fëdor M., 109 Dottor Mabuse, Il (Dr. Mabuse, der Spieler, Fritz Lang, 1922), 86 Dottorini, Daniele, 48n, 83n, 118n Dreyer, Carl Th., 46, 95, 178 Due soldi di speranza (Renato Castellani, 1952), 97 Duello al sole (Duel in the Sun, King Vidor, 1948), 159 Ejzenštejn, Sergej M., 8, 15, 39, 42, 44, 68, 84, 124n, 145 e n, 146, 170n, 176, 177 Éloge de l’amour (Id., JeanLuc Godard, 2001), 98, 101 e n, Enfance de l’art, L’ (Id., Jean-Luc Godard e Anne-Marie Miéville, 1990), 27n Enfants jouent à la Russie, Les (Jean-Luc Godard, 1993), 69 Epstein, Jean, 124n, 176 Fassbinder, Rainer W., 68 189

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Faure, Élie, 98, 106 e n, 141n, 163n, 179, 180 Faust (Faust. Eine deutsche Volkssage, Friedrich W. Murnau, 1926), 27n Fellini, Federico, 157, 158 Finestra sul cortile, La (Rear Window, Alfred Hitchcock, 1954), 15, 31n, 112 Firk, Michelle, 178 Flaubert, Gustave, 145 Folla, La (The Crowd, King Vidor, 1928), 75 Fonda, Henry, 152 Fontaine, Joan, 152 For Ever Mozart (Id., Jean-Luc Godard, 1996), 98 Ford, John, 17, 25 e n, 26, 33, Forgács, Péter, 79-81, 86 Foucault, Michel, 68 e n, 69, 75 Francesco, giullare di Dio (Roberto Rossellini, 1950), 158 Freud, Sigmund, 26n Friedländer, Saul, 89n Froeschel, Friedrich C., 179 Fury (The Fury, Brian De Palma, 1978), 17, 27 Garroni, Emilio, 138n Gattopardo, Il (Luchino

Visconti, 1963), 18, 158 Germania anno zero (Roberto Rossellini, 1947), 28, 94 Gershwin, George, 75 Giglio infranto (Broken Blossoms, David W. Griffith, 1919), 17, 27 Gilda (Id., Charles Vidor, 1946), 46 Gill, David, 16n Ginzburg, Carlo, 77n Giotto, 90, 95 Giulio Cesare, 153 Goya, Francisco, 90, 99, 157 Grande dittatore, Il (The Great Dictator, Charles S. Chaplin, 1940), 56, 59 Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma (Id., Jean-Luc Godard, 1986), 21 Greco, El, 157 Griffith, David W., 17, 33, 39 Guattari, Félix, 133n Guliez, Armand J., 178 Hawks, Howard, 25n Hayworth, Rita, 46 Hegel, Georg F.W., 122 Heidegger, Martin, 138, 142 e n

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Indice dei nomi e dei film

Hélas pour moi (Id., JeanLuc Godard, 1993), 98 Heart of Humanity, The (Allen Holubar, 1918), 28, 94 Hilberg, Raul, 89n Himmler, Heinrich, 109 Hindemith, Paul, 31n, 32n Hitchcock, Alfred, 15, 30, 97, 106, 107n, 115, 149, 151-153, 154n, 180 Hitler, Adolf, 85, 90, 109 e n, 112, 126, 149, 151, 153 Hohenegger, Hansmichael, 138n Hölderlin, Friedrich, 138, 162 Holubar, Allen, 28, 94 Honegger, Arthur, 38 How Are the Kids?/Comment vont les enfants? (AA.VV., 1990), 28n Hughes, Howard, 25, 177 Hugo, Victor, 70, 99, 102, 111n, 179 Husserl, Edmund, 172 Hyppolite, Jean, 75 Ici et ailleurs (Id., Jean-Luc Godard, 1975), 112 Ishaghpour, Youssef, 98, 145 e n, 170n Jack Diamond Gangster (The Rise and Fall of

Legs Diamond, Budd Boetticher, 1960), 17 Jacob, François, 148 Jarrico, Paul, 26n JLG/JLG. Autoportrait de décembre (Id., JeanLuc Godard, 1994), 36n, 101 Jones, Jennifer, 159 Joyce, James, 8 Kant, Immanuel, 138 e n Karajan, Herbert von, 85, 90 Karina, Anna, 17, 33, 75 Kelly, Gene, 75 Khalidi, Rashid, 114n King Lear (Id., Jean-Luc Godard, 1987), 55n Klejman, Naum, 179 Kracauer, Sigmund, 109n Ladmiral, Nicole, 178 Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948), 158 Ladro, Il (The Wrong Man, Alfred Hitchcock, 1956), 149, 154 e n Lamarr, Hedy, 179 Lang, Fritz, 16, 17, 27, 31, 68, 86, 115 Langlois, Henri, 27n, 105, 106, 157, 180 Lanzmann, Claude, 62n, 79 e n, 80, 81, 86, 104, 121n, 156 191

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SPLENDORE E MISERIA DEL CINEMA. SULLE HISTOIRE(S) DI JEAN-LUC GODARD

Leigh, Janet, 152 Leogrande, Orazio, 20n, 144n Leutrat, Jean-Louis, 30n, 32n, 39n Levi, Primo, 79n Le Vigan, Robert, 67, 70 Lewin, Albert, 97 Liandrat-Guigues, Suzanne, 30n, 32n, 39n Luana la vergine sacra (Bird of Paradise, King Vidor, 1932), 45n Lubitsch, Ernst, 59 Lupino, Ida, 15, 16, 26 e n, 27 e n, 31 M, il mostro di Düsseldorf (M, Fritz Lang, 1931), 86 Magnani, Anna, 102 Mahler, Gustav, 85 Mallarmé, Stéphane, 136 Malraux, André, 71, 84, 89n, 110, 134, 141n, 179 Manet, Édouard, 99, 140 en Marey, Étienne-Jules, 57 Masaccio, 68 McCrea, Joel, 152 Meerson, Mary, 27n, 177 Memory of the camps (Steven Bernstein, 1945), 107n Metropolis (Id., Fritz Lang,

1927), 86, 109 Michelangelo, 161 Miéville, Anne-Marie, 28n, 67, 120n, 180 Miller, Lee, 128 Montani, Pietro, 12, 41n, 61n, 79n, 123n, 145n Munk, Andrzej, 86, 87n Murnau, Friedrich W., 27n, 75, 132, 157 Nazi concentration camp (Id., George Stevens, 1945), 91 Nemico pubblico (The Public Enemy, William Wellman, 1931), 75 Nibelunghi, I (Die Nibelungen, Fritz Lang, 192324), 68 Nick’s Movie – Lampi s u l l ’ a c q u a ( N i c k ’s Movie – Lightning over Water, Wim Wenders, 1980), 17 Nietzsche, Friedrich, 132, 133n Non abbandonarmi (Not Wanted, Elmer Clifton e Ida Lupino, 1949), 26 Nosferatu il vampiro (Nosferatu. Eine Symphonie des Grauens, Friedrich W. Murnau, 1922), 75, 132

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Indice dei nomi e dei film

Notorious, l’amante perduta (Notorious, Alfred Hitchcock, 1946), 149 Notre Musique (Id., JeanLuc Godard, 2004), 98 Notte e nebbia (Nuit et brouillard, Alain Resnais, 1956), 86n, 96, 103 Nouvelle Vague (Id., JeanLuc Godard, 1990), 98, 161 Novalis, 173 Novarina, Valère, 85 Occhio che uccide, L’ (Peeping Tom, Micheal Powell, 1960), 27 Old place, The (Id., JeanLuc Godard e AnneMarie Miéville, 2006), 120n On Top of the Whale (Het dak van de Walvis, Raúl Ruiz, 1982), 27n Ophüls, Marcel, 86 Ophüls, Max, 85 Ordet - La parola (Ordet, Carl Th. Dreyer, 1955), 95, 178 Ovidio, 158 Pandora (Pandora and the Flying Dutchman, Albert Lewin, 1951), 97 Paolo di Tarso, 21, 97

Pärt, Arvo, 110 Pasolini, Pier Paolo, 20n, 97, 139, 157, 158, 176 Passeggera, La (Pasażerka, Andrzej Munk, 1963), 86, 87 e n, 88, 101 Passion (Id., Jean-Luc Godard, 1981), 141, 159 Peck, Gregory, 159 Péguy, Charles, 23, 71, 110 e n, 111n, 112 Perfidia (Les dames du Bois de Boulogne, Robert Bresson, 1945), 100 Perniola, Ivelise, 121n Picasso, Pablo, 90, 157 Piero della Francesca, 159 Pierrot le fou (Id., JeanLuc Godard, 1965), 17, 75, 105n, 141n Posto al sole, Un (A Place in the Sun, George Stevens, 1951), 90, 92 Pound, Ezra, 112 Powell, Micheal, 27 Power, Tyrone, 45n Prato di Bežin, Il (Bežin lug, Sergej M. Ejzenštejn, 1935-1937), 15, 26, 84, 177 Preda della belva, La (Outrage, Ida Lupino, 1950), 26n Prigione, La (Fängelse, Ingmar Bergman, 193

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1949), 94, 95 Private Hungary (Privat Magyarorszag, Péter Forgács, 1988-2002), 79, 156 Processo di Giovanna d’Arco, Il (Procès de Jeanne D’Arc, Robert Bresson, 1962), 95 Pudovkin, Vsevolod I., 17, 39 Quando la città dorme (While the City Sleeps, Fritz Lang, 1955), 16 Quattrocento colpi, I (Les 400 coups, François Truffaut, 1959), 105 Ramuz, Charles-Ferdinand, 47, 109 e n Rancière, Jacques, 18 e n, 49n, 51, 52n, 53n, 58n, 69n, 90n, 131 e n, 137 e n, 144n, 145 e n, 151 n, 171n, 173 n, Rapporto confidenziale (Mr. Arkadin, Orson Welles, 1955), 15, 30, 31n, 32 Ray, Nicholas, 17, 25 e n, 32, 33 Regola del gioco, La (La règle du jeu, Jean Renoir, 1939), 16, 28, 59, 86, 127

Rembrandt, 87, 95, 106n Renoir, Jean, 16, 42, 44, 86, 127 Resnais, Alain, 60, 86n, 103, 108 Reverdy, Pierre, 55 e n Ricoeur, Paul, 77n Rilke, Rainer M., 84 Rimbaud, Arthur, 112 Rivette, Jacques, 107 e n Rocha, Glauber, 177 Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945), 99, 157, 179 Rossellini, Roberto, 17, 25 e n, 28, 42, 44, 94, 100, 102, 115, 157, 158, 180 Rougemont, Denis de, 106, 161n, 180 Ruiz, Raúl, 27n Sartre, Jean-Paul, 103 e n Scala a chiocciola, La (The Spiral Staircase, Robert Siodmak, 1946), 68, 71 Scarlato, Alessio, 79n, 121n Scemama, Céline, 13, 83n Schindler’s List (Id., Steven Spielberg, 1993), 99 Scholem, Gershom, 104 Selznick, David O., 45n Senso (Luchino Visconti, 1954), 158

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Indice dei nomi e dei film

Sepolcro indiano, Il (Das indische Grabmal, Fritz Lang, 1959), 17, 37, 39 Serov, Valentin A., 145 Shakespeare, William, 30n, 46n Shearer, Moira, 16, 27, 31 Shoah (Id., Claude Lanzmann, 1985), 62n, 79 e n, 88, 104, 156 Signoret, Simone, 67, 70 Silvie et le fantôme (Id., Claude Autant-Lara, 1946), 99 Siodmak, Robert, 68, 71 Spielberg, Steven, 99 Stevens, George, 90, 91, 109, 148 Stevens, George Jr., 91n Stewart, James, 15, 29, 30, 46, 112 Stregoneria attraverso i secoli, La (Häxan, Benjamin Christensen, 1922), 46 Stromboli, terra di Dio (Roberto Rossellini, 1949), 158 Suarès, André, 109 Sussurri e grida (Viskningar och rop, Ingmar Bergman, 1973), 16 Taylor, Elizabeth, 91, 148 Tegelaar, Monica, 27n, 177

Tempi moderni (Modern Ti m e s , C h a r l e s S . Chaplin, 1936), 16, 28 Teorema (Pier Paolo Pasolini, 1968), 158 Terra trema, La (Luchino Visconti, 1948), 158 Testamento d’Orfeo (Le Testament d’Orphée, Jean Cocteau, 1959), 85 Thalberg, Irving, 25, 177 Tintoretto, 25n Tolstoj, Lev N., 99 Truffaut, François, 105, 180 Umberto D. (Vittorio De Sica, 1952), 158 Unknown Chaplin (Id., Kevin Brownlow e David Gill, 1983), 16n Valéry, Paul, 106, 180 Vangelo secondo Matteo, Il (Pier Paolo Pasolini, 1964), 97 Van Gogh, Vincent, 112 Velázquez, Diego, 160 Vermeer, Jan, 141 Vertov, Dziga, 83 Vesalio, Andrea, 148 Vidor, Charles, 46 Vidor, King, 75, 159 Virgilio, 18 e n, 126, 134, 158 Visconti, Luchino, 18, 42, 195

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44, 157, 158 Vogliamo vivere (To Be or Not to Be, Ernst Lubitsch, 1942), 59

Wellman, William, 75 Wenders, Wim, 17, 32 Wieviorka, Annette, 89n Wright, Teresa, 152

Warburg, Aby, 168, 170 e n, 176 Welles, Orson, 15, 30, 84, 109, 177

Zagdanski, Stéphane, 115n Zelizer, Barbie, 73n

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Indice dei film

Frontiere. Oltre il cinema AA.VV. Benjamin il cinema e i media Jacques Rancière, Il destino delle immagini Roberto De Gaetano, Tra-Due. L’immaginazione cinematografica dell’evento d’amore Alessandro Canadè, a cura di, Corpus Pasolini Alain Badiou, Del Capello e del Fango. Riflessioni sul cinema, a cura di Daniele Dottorini A. Cervini, A. Scarlato, L. Venzi, Splendore e miseria del cinema. Sulle Histoire(s) di Jean-Luc Godard Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni N. 0 Bíos N. 1 Mondo N. 2 Archivio N. 3 Trasparenza N. 4 Esperienza

N. 5 Limite N. 6 Natura N. 7 Desiderio N. 8 Visuale N. 9 Disaccordo

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Indice dei film

Stampato da Pellegrini Editore - Cosenza

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