Servitù e grandezza del cinema

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Servitù e grandezza del cinema

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Umberto Barbaro

Servitù e grandezza del cinema

Editori Riuniti

Copyright by Editori Riuniti, via dei Frentani, 4 - Roma, aprile 1962

Impaginatone e copertina di Giuseppe Montanucci

Indice

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Nota del curatore Incontri critici

II 32 54 73 93 99 106 109 117 121 126

Quel grande uomo che era Pudovkin Serghei Eisenstein maestro d’arte Chariot attore e regista Il mondo e i limiti di René Clair Bela Balàzs uomo sociale e libero Ricordo di S. A. Luciani La « verità » di Erich von Stroheim Buster Keaton e « La palla n. 13 » Due registi scomparsi: Crosland e Roberts Grandezza di Asta Nielsen La Duse e il film come arte La parte del cinema italiano

137 142 150 165 172 183 187 193 198 202

Nascita del film d’arte Un film italiano d’un quarto di secolo fa « L’histoire d’un Pierrot » Alcuni film italiani del 1939 Il 1913 e il cinema italiano Giuoco d’azzardo Sull’origine e sulla denominazione del film neo-realista La sceneggiatura del film neorealista Studi sul neo-realismo italiano Neo-realisti e no: promesse mantenute e speranze deluse

Indict

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La scuola realistica sovietica

311 315 320 330

Studiare il film sovietico Il cinema sovietico a Venezia Il cinema sovietico e il cinema italiano Dai Vassiliev a Ciukrai

Il cinema francese e l’equivoco naturalistico

349 352

Alcuni film francesi del 1939 Altri film francesi

393

Qualcosa che vale anche tra i film hollywoodiani di confezione

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Film dai quattro angoli d’Europa

557

Indice dei nomi

573

Indice dei titoli dei film

Nota del curatore

il presente volume, che segue a II film e il risarcimento marxista dell’arte, raccoglie una gran parte degli scritti di Umberto Barbaro d'argomento cinematografico di carattere non strettamente teorico; quasi, insomma, l’intera sua produzione di trentanni circa di partecipazione, vivace sempre ed oltremodo impegnata, ai problemi ed agli aspetti diversi del cinema. Non tutti, dunque, gli scritti di Barbaro sono stati rifusi in questo volume e ciò, ovviamente, ha implicato una scelta alla quale ho proceduto nella presunzione, se non di avvicinarmi, almeno di non allontanarmi troppo da quella che sarebbe stata la cernita dello stesso maestro ed amico scomparso, in ciò confortato dalle idee che Egli più volte ebbe occasione di esprimere, discutendo con me l’impostazione di consimili raccolte. Consegue al carattere stesso del volume l’esclusione dei primi ed anche dei più recenti scritti teorici, dallo stesso Autore, del resto, più tardi approfonditi, ampliati e messi a punto nelle opere e nei saggi che compongono II film e il risarcimento marxista dell’arte. Parimenti conseguente è l’esclusione degli scritti di critica d’arte e letteraria. Mi ì sembrato poi di poter trascurare, senza tradire il pensiero dell’Autore e senza nulla sottrarre alla sua produzione critica e saggi­ stica, gli scritti di preminente carattere informativo e gli interventi polemici per la piena comprensione dei quali si sarebbe dovuto render conto delle situazioni, spesso complesse, cui erano connessi. Degli uni e degli altri, laddove se ne è offerta l’occasione, è stata data notizia in nota. Un breve cenno appare opportuno premettere ancora al criterio seguito per la selezione, tra le molte che Barbaro ebbe modo di scrivere,

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Nota del curatore

delle recensioni ai singoli film. In questo caso, la scelta ha tenuto conto, di volta in volta, di elementi diversi. Sono state, in genere, eliminate le recensioni (quelle apparse su Via Via, ad esempio, ma anche, alcune su l’Unità di Roma e su Vie Nuove) consistenti, per esigenze di spazio, in un giudizio condensato in poche righe; altre volte, ma non sempre, l’esclusione è stata suggerita dall’irrilevanza, sottolineata dallo stesso Autore, del film recensito. La maggior parte delle recensioni qui rac­ colte sono state pubblicate su l’Unità di Roma e su Vie Nuove : l’elenco, quasi completo, di esse è stato a suo tempo compilato da Piero Anchisi (cfr. Filmcritica, n. 95, marzo, J960)‘. me ne sono proficuamente avvalso ed altrettanto potrà fare il lettore che desideri conoscere il giu­ dizio, sia pure conciso, di Barbaro su un altro notevole numero di film. I testi qui raccolti sono desunti, o dagli originali (manoscritti e dat­ tiloscritti), o dalle pubblicazioni che li hanno ospitati; questi ultimi, talvolta, corretti o modificati di pugno dall’Autore. I testi sono stati riprodotti nella loro integrità. Nell’ambito di ciascun capitolo, i testi sono stati ordinati cronolo­ gicamente. Le recensioni singole (ad eccezione di quelle relative ai film sovietici che rispettano l’ordine cronologico) sono state raccolte seguendo l’ordine alfabetico dei nomi dei rispettivi registi. Per quanto concerne i titoli dei film, mi sono attenuto, in genere, alla prassi, nor­ malmente seguita, di lasciare i titoli originali solo ai film che non hanno avuto un’edizione italiana, con l'eccezione, anch’essa di norma osservata, dei film sovietici e di quelli provenienti da paesi di lingua non agevolmente accessibile. Per il raffronto dei titoli, il lettore potrà comunque consultare il relativo indice.

L. Q.

Incontri critici

Quel grande uomo che era Pudovkin 1

È stata pubblicata in questi giorni a Leningrado la raccolta delle lezioni tenute da V. I. Pudovkin alla classe degli attori della Scuola statale di cinematografia di Mosca (V. I. Pudovkin, Actior v filine, GAIS). In Italia, dove sono già noti i saggi precedenti dello stesso regista (V. I. P., Film e fonofilm, Roma, 1935), desterà certamente un vivo interesse questo nuovo limpido libretto, che completa, integra ed anche corregge, in un certo senso, quanto l’autore aveva già scritto sull’argomento. E, giacché non si sa se la nuova opera, già annun­ ziata nella collezione Fonofilm, potrà vedere presto la luce tra noi1 2, 1 Con questo titolo, dall’A. dato all’ultimo degli scritti su Pudovkin qui riprodotti, raggruppiamo quattro dei molti saggi ed articoli da B. dedicati al grande teorico e regista sovietico; e precisamente, nell’ordine: Pudovkin attore e critico (Lo Schermo, a. Il, n. 6, giugno 1936); Il Pudovkin di ieri e di oggi (l’Unità dell’8 ottobre 1949); Pudovkin è il cinema (l’Unità del 2 luglio 1953); Quel grande uomo che era Pudovkin (apparso la prima volta su Vie nuove, lu­ glio 1953) nella stesura, modificata ed ampliata, con cui è stato pubblicato in Poesia del film (col titolo: Incontri con Pudovkin). Tra gli altri scritti di B. su Pudovkin, si vedano almeno: Gli anni della formazione (Filmcritica, nn. 26-27, luglio-agosto 1953, poi rifuso in Poesia del film col titolo: Pudovkin fino a a La madre»), omesso nella presente raccolta in quanto recentemente premesso con lievi varianti a: Vsevolod Pudovkin: La settima arte, a cura di Umberto Bar­ baro, Editori Riuniti, Roma, 1961; Un grande regista sovietico: Vsevolod I. Pu­ dovkin (Rinascita, a. X, n. 7, luglio 1953) qui omesso in quanto in gran parte assorbito dal citato Gli anni della formazione’, Arte e vita sovietiche nell’ultimo film di Pudovkin (Rinascita, a. X, n. 10, ottobre 1953); nonché la prefazione a Il cinema e l’uomo moderno, Le edizioni sociali, Roma, 1950 (n.d.r.). 2 II libro di Pudovkin ha poi avuto, come è noto, una versione italiana (L’at­ tore nel film a cura dello stesso B., prima per le edizioni di Bianco e nero (1939) e poi per le edizioni dell’Ateneo (1947). Si veda anche: Vsevolod Pu­ dovkin, La settima arte (n.d.r.).

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vale la pena di informarne con qualche larghezza coloro che non possono leggerla nell’originale. Certamente Pudovkin è uno degli scrittori più indicati a trattare il suo assunto: egli infatti, oltre ad essere l’autore di alcuni film memorabili e di indiscusso valore, è il teorico che ha orientato, in questi ultimi anni, le idee sulla cinematografia in tutta Europa; e la straordinaria forza persuasiva c pedagogica della sua personalità com­ plessa e ordinata è stata, senza alcun dubbio, uno degli clementi formativi più stimolanti della coscienza cinematografica dei migliori; tanto che, forse senza troppo esagerare, i suoi saggi sono stati, in Italia (da Jacopo Comin), messi accanto al Trattato della pittura di Leonardo e ai Dialoghi con Francisco de Hollanda di Michelangelo. Pudovkin è stato inoltre, prima che direttore artistico, attore cine­ matografico, sia pure per poco, e, benché in questo suo recentissimo scritto egli dica simpaticamente che quella sua prima attività «non può servire da modello a nessuno » (P., Actior ecc., p. 99), vale certo la pena di ampliare un poco le affrettate notizie che io ho dato delle sue interpretazioni (P., Film ecc., p. 237) per meglio chiarire la sua attuale posizione di fronte al problema. Posizione che a primo acchito può sembrare contraddittoria colle vecchie tesi dal Pudovkin stesso affermate, ma che in realtà non fa che ribadire e superare quelle pri­ mitive concezioni che avevano determinato la sua attività di attore e di direttore artistico. Io spero dunque che non saranno da nessuno considerate frutto di pettegola curiosità biografica le indicazioni preliminari sull’atti­ vità di attore del Pudovkin alle quali dà facile occasione, oltre al capitolo Esperienze personali del nuovo volume (P., Actior ecc., p. 96 e sgg.), uno scritto relativamente recente del regista Lev Kulesciov, che fu il primo iniziatore dell’allora ingegnere Pudovkin all’arte del film (cfr. L. Kulesciov : Nasci pervi opiti, in Sovietscoe Kino, nn. 11-12, 1934). Kulesciov, com’è noto, fu tra i primissimi ad applicare la pratica del montaggio americano, come si diceva un tempo in Russia e (che io ho dimostrato essere italiano almeno altrettanto quanto americano), nel film, anteriore alla rivoluzione, Il progetto dell’ingegner Prait, e ne approfondi poi, in esperimenti celeberrimi che ricorderò più oltre, il concetto. Durante la guerra civile egli era al fronte e riprendeva documentari insieme all’operatore Tissé, il futuro grande operatore di S. M. Eisenstein; teorizzava il montaggio e riusciva, a poco a

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poco, a convincere il Tissé, dapprima riluttante, che piani di mon­ taggio e montaggio possono e debbono esistere anche nella creazione di film dal vero. Fu cosi che in quegli anni Kulcsciov aveva una influenza che doveva essere decisiva sulla formazione del maggior cinecronista del mondo, Dziga Vertov. Iscrittosi poi, di ritorno dal fronte, alla Scuola di cinematografia, che era più o meno retta da V. R. Gardin, Kulesciov, dopo essere stato bocciato insieme a qualcuno dei migliori elementi che segui­ vano i corsi (tra cui la futura ottima attrice Ceculaeva), ebbe improv­ visamente il piacere di un pieno riconoscimento dei suoi meriti, rico­ noscimento che si concretò nell’incarico affidatogli di tener l’insegna­ mento in una classe della scuola stessa. Kulesciov allora, assai bene intendendo il suo compito, si trasferì immediatamente coi suoi alunni al fronte polacco e si dedicò con loro alla duplice degnissima esercitazione del riprendere documentari e del girare, sotto il fuoco della prima linea, un film narrativo sullo sfondo della guerra civile. Questo fu il primo film di propaganda fatto in Russia e fondeva, naturalmente, pezzi documentari e scene recitate. Tornati a Mosca, insegnanti ed alunni si dettero ad inscenare con cura meticolosa una serie di piccoli spettacoli sperimentali; i primi due furono: In via San Giuseppe 147 e La calza veneziana (1921). Nel secondo di essi ebbero parti importanti Cistiakov, un con­ tabile quarantenne che frequentava la Scuola e che doveva poi di­ ventare uno dei più forti interpreti dei film di Pudovkin, e Pudovkin stesso che aveva allora già sostenuto, come attore, piccole parti in film di Gardin e di Perestiani. La calza veneziana era una satira della gelosia e, dalla trama, ho l’impressione derivasse da un racconto di Avercenko, almeno per la trovata del disgraziato incolpevole ma­ rito che estrae la calza'dalla tasca provocando una scenata isterica da parte della moglie gelosa. Il carattere del lavoro era grottesco e la recitazione vi era addirittura acrobatica. Pudovkin aveva una parte di gagà e la calza veneziana gli serviva snobisticamente da cravatta. Quei primi saggi, come i successivi labloc’^o e L'anello, avevano un carattere e uno stile possiamo all’ingrosso dire avanguardistico c satirico come appunto voleva la moda di quegli anni (c’era già stata una produzione cinematografica d’avanguardia in Francia, ed anche parzialmente in Italia per opera di A. G. Bragaglia; ed in Italia c’era stato, già fin da 1913, il marinettiano Manifesto del ci­

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nema futurista con grottesco a palate: Omero, il cuore di Carducci sonnecchiarne che si gonfia come un pallone e vola sul Tirreno e Tosteria dello Scamandro Rosso). Comunque erano ben lontani quei saggi dal potente realismo che doveva poi dominare nel film russo. Il primo comparire di un’intonazione realistica presso il gruppo di Kulesciov si ebbe nel posteriore inscenamento di Oro che riprendeva, largamente rielaborandola, la trama di un racconto di Jack London: Un pezzo di carne. Nell’ultima scena tutti i protagonisti si uccide­ vano a vicenda. Pudovkin, che era uno degli attori, era ammazzato con un colpo di coltello e si abbatteva al suolo in modo impressionante. Successivamente Pudovkin ha recitato nel film di Kulesciov II raggio della morte e nell’altro, alla regia del quale ha collaborato anche lui, Le straordinarie avventure di Mister West nel paese dei bolscevichi (1924). È ben vero che Kulesciov attribuiva una grande importanza alla recitazione ma, in conseguenza della sua concezione del montaggio, si rivolgeva principalmente, se non unicamente, all’aspetto esteriore detrattore, ai suoi movimenti, alla forma di questi movimenti. Val la pena di accennare a qualcuna delle esperienze fatte in quegli anni per approfondire il concetto di montaggio, e da esse ri­ sulterà ben chiaro il sorgere di un particolare modo d’intendere l’at­ tore cinematografico. Già nel 1920 Kulesciov aveva teorizzata la geo­ grafia ideale del film, raccordando una serie di pezzi di pellicola di provenienza diversa in modo tale che lo spettatore avesse l’impres­ sione che essi costituissero una chiara azione unitaria (P., Film ecc., p. 100) preludendo cosi a quella piu completa concezione, dovuta al Pudovkin, della idealità del tempo e dello spazio cinematografico. Era venuto in seguito l’esperimento, famoso, di Pudovkin e Kule­ sciov (P., Fil.m ecc., p. 197) da cui risultò che uno stesso primo piano di un attore illustre, raccordato con tre diversi pezzi di pellicola (raf­ figuranti un cadavere, un piatto di minestra ed una ragazzetta che gioca con un bambolotto) stava perfettamente a posto, sembrava cioè assumesse, caso per caso, un’espressione particolare e idonea alla visione successiva. Questi esperimenti dovevano per fatalità sboccare a quella teoriz­ zazione del film che il Pudovkin andò elaborando via via nella serie di saggi noti. Per quanto si riferisce all’attore egli cominciò col ne­ gare la possibilità di ottenere mediante il truccaggio l’impersonarsi di un tipo, e stabili subito l’obbligo di trovare il tipo in quanto

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tale. Si trattava in sostanza di « scegliere, per ogni parte, la persona che nella realtà avesse i requisiti fìsici voluti dal personaggio pen­ sato» (P., Film ecc., p. 152). Dato che anche la recitazione dunque dipende dal montaggio che cosa chiedeva allora Pudovkin all'attore? Che «egli sapesse ripetere più volte gli stessi movimenti e quindi sapere come ottenere da sé certi movimenti, certi gesti, certe espres­ sioni e imparare, oltre che a ottenerli, a ricordarli con precisione » (P., Film ecc., p. 150). Queste erano le idee alle quali si ispirava la recitazione dei primi esperimenti di Kulesciov e Pudovkin. Oggi però Pudovkin giudica con una certa severità quei primi studi : « L'effettivo contenuto della recitazione dell’attore si manifestava costà (s’intenda: presso Kule­ sciov) nell’esteriore espressività, trattata semplicemente come un dato di fatto meccanico, una volta scelto l’attore e dettatigli, da parte del regista, i movimenti. Il montaggio della recitazione veniva ad essere una semplice incollatura di pezzi collegati tra loro solo come compo­ sizione temporale di piani schematici. Anche i movimenti di primo piano che sembrava dovessero esigere da parte dell’attore un grande lavorio interno, per lo piu si limitavano all’apprendimento della scom­ posizione dei movimenti del viso. Era consuetudinario, durante la ripresa, l’ordine da parte del direttore artistico di spingere in avanti la mascella, o di sbarrare gli occhi o di sollevare o chinare la testa» (P., Actior ecc., p. 96). Nel 1926 Pudovkin, sempre sulla linea dei precedenti esperimenti, realizzò La febbre degli scacchi in cui la figura del protagonista, il campione Capablanca, fu inserita per sola virtù di montaggio. E in quello stesso anno diresse La madre e vi interpretò una piccola parte: quella di un poliziotto che fa una perquisizione in casa di Paolo. Anche quella parte fu strettamente connessa al montaggio e la sonnolenta e annoiata figura dell’agente fu presentata in primo piano quando, secondo l’azione, « doveva apparire in lui un bar­ lume di interesse, quasi di bracco che fiuti una traccia ». Nel 1928 Pudovkin produsse i suoi celeberrimi La madre e Tempeste sull’Asia e in quest'ultimo fece recitare non solo attori non professionisti, ma addirittura mongolici. E tuttavia, ricordando oggi la sua interpretazione della parte di Fedia nel film di Ozep 11 cadavere vivente da lui sostenuta nel 1929, egli non può che criticare l’abbandono in cui erano lasciati gli attori. Quel film, in cui Pudovkin sostenne accanto a Maria Jacobini il suo ruolo più importante, è

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senza dubbio uno dei buonissimi prodotti di quegli anni (per curio­ sità si può ricordare che, sullo stesso soggetto, ridotto da P. A. Maz­ zolerò, era stato fatto un film in Italia nel 1932, dall’itala). Durante la lavorazione del Cadavere vivente Pudovkin non potè, come aveva fatto prima con Kulesciov, collaborare col direttore del­ l’intera creazione dell’opera, né partecipare ai piani di montaggio e quindi dare alla sua interpretazione una funzione capace di som­ marsi coerentemente al tutto, se non per il ricordo dell’opera lette­ raria da cui il film fu tratto; e fu come attore abbandonato a se stesso (P., Actior ecc., p. 98). E tuttavia il bisogno di uno stato d’animo interiore in cui met­ tersi e che determinasse il suo aspetto esteriore era sentito dall’attore Pudovkin (che quell’anno stesso scriveva Tipi e non attori). Egli ri­ corda infatti « la scena in cui io sto colla rivoltella accanto alla stufa e mi guardo attorno coll’aspetto semifolle di un uomo che è suù jrlo del suicidio. Per realizzare efficacemente quel pezzo io uscii dal campo di presa della macchina nascondendomi dietro la stufa e, puntata la rivoltella contro il cuore, non feci che ripetere ininterrottamente la frase di Kirilov de I demoni dostoievschiani : " Su me! su me ”• Esausto quasi a svenirne uscii quindi dall’angolo... ». Dice ancora che gli riuscì facile di provocare in sé sentimenti di dolcezza e di riguardo nei confronti di una attrice che faceva la parte della sorella. Sentire che egli doveva allontanarsi per sempre da lei, che do­ veva lasciarla sola in quella casa vuota, che, mentre avrebbe voluto aiutarla e sorreggerla era costretto a respingerla, gli fu facilissimo e semplicissimo perché quella giovinetta gli piaceva come donna nella vita reale, e perché la situazione era in parte analoga a quella reale e corrispondeva in tutto ai dati reali del suo carattere (P., Ac^'f ecc., p. 99). Evidentemente le necessità interiori dell’attore sostenute in questi ricordi erano dettate dalla sua prassi prima che fossero, come oggi, coscienti al suo spirito. Tanto è vero che come ho ricordato più sopra, proprio nel 1929, Pudovkin ribadiva col suo Tipi e non attori il concetto di una cinematografìa fatta da non professionisti. Ed esem­ plificava largamente in base alla sua esperienza di regista con esempi tratti dal suo Tempeste sull'Asia. Sostanzialmente si può dire, per concludere, che Pudovkin ha sempre ammesso la possibilità per gli attori di sentire e vivere la loro parte (P., Film ecc., p. 200), considerando però questo caso ideale

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come eccezionalissimo. Ed anche nei suoi primi scritti sull’argomento (P., Film ecc., p. 156): «Un attore anche dotato di un vero talento, che si lasci ispirare da una scena, non riuscirà mai a dar limiti tali alla sua opera che essa ne risulti un frammento della lunghezza e del contenuto necessari al montaggio. Questo caso si verificherebbe qualora l’attore avesse una coscienza piena ed assoluta del processo creativo del film cosi come deve averla il direttore artistico ». Nel suo nuovo libro in sostanza, considerando non piu esclusiva la teoria del lavoro con attori non professionisti, Pudovkin sostiene che l’attore deve avere coscienza del montaggio e di tutto il processo co struttivo del film si da collaborare strettamente col direttore artistico. In questo modo anche l’attore è ammesso a quella organica col­ laborazione che è tipica dell’arte cinematografica, collettiva, epperò modernissima e seducentissima arte1.

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A furia di leggere stampa venduta, molti piccoloborghesi, che hanno fatto le scuole, e cioè studiato il latino, che credono di ragio nare colla propria testa, che aspirano ad essere oggettivi, che vogliono 1 Si ricordano, sul tema dell’attore cinematografico e teatrale, i due impor­ tanti saggi di B.: Lattare cinematografico (di cui è stata riprodotta in Le ròte intellectual du cinéma, Parigi, 1937, la parte dedicata a II cinema senza attori Le cinéma sans acteurs) e Lettore creatore riportati in II film e il risarcimento marxista dell'arte. B. si occupò dell’argomento anche in altri scritti, tra cui: L'attore cinematografico (Quadrivio, 1936) sul libro di Pudovkin L'attore nel film, ribadendo quanto aveva già scritto in Pudovkin attore e critico; Pende al servizio della supermarionetta (Quadrivio, 1934) nel quale suggeriva « l’idea di servirsi per la scelta dei ruoli delle classificazioni recenti dei tipi fisici, per gli attori, secondo i dati della scuola freudiana e della scuola costituzionalistica itaJ?ma »; nonché II cinematografo e l'ideale della bellezza (Quadrivio, 1936), ampia recensione alla monografia del prof. Raffaello Maggi: La costituzione degli attori dc’\ icbwmo (Università cattolica del Sacro Cuore - serie quarta, Milano, 1936), nella quale auspicava « ancora una volta il sorgere, possibilmente da noi, di una cinematografia che abbandoni i modelli sia morali che fisici del film americano, che aderisca con più verità e con più umanità alla vita reale trasfigurandola con suggestioni ideologiche ben altrimenti elevate di quelle che ci propinano quotidia­ namente dal nuovo, vecchissimo mondo. E, per rientrare nello specifico problema degli attori, un cinema che abbandoni la povera e frivola illusione (residuata da una vecchia concezione teatrale che pareva sepolta) dell’attore dai cento volti, cioè dai cento possibili ruoli, per presentare tipi costantemente coerenti, nel com­ portamento voluto dalla loro parte, alla struttura costituzionale». Sul tema, si vedano anche: L'attore nel teatro e nel cinema (Cosmopolita, n. 21 del 24 maggio 1945) e la recensione al volume di A. Maceret: Aktior i kinodramaturg (Rinascita, a. XII, n. 12, dicembre 1955) (n.d.r.).

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considerare il punto di vista dei diversi partiti per poi farsi un’idea personale, finiscono, da queste aspirazioni legittime, col perderlo del tutto il loro latino, quando non finiscono addirittura col perdere la testa. E si condannano a una totale incomprensione dei fatti piu semplici: una incomprensione della quale i lavoratori sono al riparo per piti cause: per il loro sicuro istinto di classe, per la loro ben motivata fiducia nel partito che li guida, per la loro maggiore attività e capacità politica: tutte cose che vogliono dire in definitiva mag­ giore cultura, se per cultura s’intende qualche cosa di vivo di con­ creto e di operante, e non un peso morto e fine a se stesso di cogni­ zioni indigeste. Queste considerazioni mi venivano fatte, domenica scorsa, di fronte al travolgente entusiasmo dei lavoratori romani, convenuti all’Adriano per ascoltare la parola di Pudovkin. E la stampa? Come ha accolto il grande regista sovietico? Dal tempo delle circolari del Minculpop non si era ancor vista una unanimità cosi piena, nei confronti di alcun avvenimento; i giornalisti indipendenti, con trascurabili variazioni, hanno tutti svi­ luppato un unico tema: Pudovkin ha sconfessato la sua perfetta, ancor valida, ed anzi immutabile teoria dell’arte cinematografica; le ha sostituito la precettistica pratica e, peggio, politica del suo partito; egli è dunque finito, come artista e come teorico, è un apo­ stata, un rinnegato, un suicida. Le variazioni personali di questo ben diretto concerto non sono importanti. Documenti e dimostrazioni non ne ha dato alcun gior­ nale, e due criticuzzi che, nel coro, si distinsero per una singolare velleità di ingegnarsi ad argomentare, furono facilmente convinti di sofisma, da una mia notifica, apparsa su queste stesse colonne e intito­ lata Un teorico e due somari *. A chiarimento, uno dei due ha risposto che io sono un cretino c che lui non aveva affatto presupposto il ragionamento che mi sembrò implicito nel suo scritto: e, certo, at­ tribuendogli facoltà di ragionare, anche coi piedi, io temo di aver meritato la qualifica, che egli mi dà, di cretino. Per chiarire, a chi non li abbia troppo familiari, i termini della questione, basterà ridurla nella sua nuda essenzialità. La teoria este­ tica di Pudovkin, che con tanto clamore si dice ch’egli abbia ripu1 Su l'Uniti del 4 ottobre 1949 (n.d.r.).

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di a to, poggia su due punti essenziali: il film è anzitutto espressione di una idea, il film è il risultato di una collaborazione artistica. Anche il piu distratto allievo del Centro sperimentale di cine­ matografia sa che, fin dalla prima presentazione in Italia dei saggi di Pudovkin, questi due cardini della sua teoria sono stati, da me, connessi da un rapporto di interdipendenza: il solo mezzo perché una collaborazione artistica sia possibile è che il mondo poetico del film sia precedentemente formulato in forma concettuale, sia una idea. L’idea o tesi del film è « l’asse della collaborazione », è il solo mezzo per attuarla, ed è quindi la garanzia dell’artisticità del him. Questo è vero e acquisito: questa è quell’estetica, cui sono an­ date le lodi e gli osanna, anche dei critici della stampa gialla. E questa posizione Pudovkin non l’ha certo mai rinnegata: l’ha raf­ forzata e precisata. E a Perugia, ed a Roma l’ha ribadita, dicen­ doci, con ancor più forza, qual’è l’idea che anima i suoi film e i him sovietici in genere. Quei film propugnano un mondo pacifico c felice, un mondo liberato per sempre dalle crisi, dalle catastrofi (* dalle guerre della società divisa in classi: un mondo comunista. Non c’è contraddizione, non c’è apostasia: al contrario c’è coe­ renza di idee ed altezza di sentimento. E l’autocritica allora? Bisogna intendere, nel suo pieno valore, teorico e pratico, che cose l’autocritica. La critica e l’autocritica sono il mezzo che il Partito comunista ha indicato, non per escludere le contraddizioni (l’assenza di contraddizioni significherebbe la morte) ma per risol­ vere e superare le contraddizioni. Quelle che nella società capitalistica klioccano nelle crisi, nelle catastrofi, nelle guerre. La critica e l’auto­ critica sono l’espressione della libertà nel comuniSmo, e, non come si vogliono qui raffigurare agli ingenui, autodafé di accenditori di roghi. Contro che cosa è diretta l’autocritica di Pudovkin? Contro il suo avere una volta schematizzato certe soluzioni tec­ niche (in particolare di montaggio), contro il suo averle statuite quasi come valide in sé e in assoluto. Contrasto, analogia, paral­ lelismo non sono che regolamentazioni stilistiche e rettoriche, non sono che schemi formalistici. Questa regolamentazione dei modi di montaggio in astratto fu portata all’esasperazione dal teorico tede­

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sco Arnheim, cd ancor più dall’italiano May e — al limite — mostrò, fino al ridicolo, la sua vuotezza. Cosa pacifica e nota anche ai piu svagati lettori di giornali cine­ matografici. Questa normatività formalistica è la parte caduca della teoria di Pudovkin, la parte che egli, con piena ragionevolezza e coerenza, ha oggi respinto. E l’autocritica dei contenuti? Possono opporsi ad essa solo coloro che confondono, o fingono di confondere fascismo e comuniSmo; coloro che si dicono al di là del bene e del male; coloro che sperano, cosi, di nascondere il loro segreto optare per il male. Nel discorso al teatro delle Arti, Pudovkin ha dato un saggio esemplare della sua autocritica, mostrando come il difetto di con­ tenuto origini difetto di forma. Nel caso citato: come l’assurda sopravvalutazione di un episodio, estraneo all’idea, abbia generato sproporzione e disarmonia. Che possono replicare i pennivendoli c gli accenditori di roghi? Della sconcia gazzarra polemica non resta ad essi che la vergogna del non aver capito niente, o dell’aver scientemente mentito, e nell’uno e nell’altro caso, di aver ignominiosamentc ingannato i loro lettori. E la vergogna soprattutto dell’aver cercato di coprire di fango Pudovkin, teorico profondissimo c grande artista, alta intel­ ligenza e nobile cuore.

Con la morte di Pudovkin, che segue oggi, a pochi anni di distanza, quelle di Bela Balàzs e di S. M. Eisenstein, il triumvirato del cinema, la grande terna dei maestri dei maestri, è scomparsa: sono scomparsi coloro per i quali il linguaggio del film s’è fatto coscienza e s’è articolato in una serie di opere che non conosce di eguali nessun’altra attività artistica contemporanea. In pochi anni, dolorosamente e irreparabilmente, il cinema ha perduto i suoi auten­ tici classici. Agli scritti e ai film di Pudovkin si dovrà tornare sempre che si voglia intendere perché il film è un’arte e perché, oggi, è la piu importante delle arti. Già i primi metri di pellicola, messi insieme da Pudovkin nel 1922, e neanche girati da lui, costituiscono una rivelazione tolgo* rante: lo stesso immobile volto di un attore, ripreso in primo piano, sembra assumere diverse, ed adeguate espressioni, a seconda delle

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scene che lo seguono e che egli sembra, quindi, guardare: gaia tene­ rezza, desiderio, triste pensosità. Non c’è — credo — in nessuna università del mondo, facoltà di psicologia che non abbia citato e commentato questo stupefacente esperimento esemplare. Ma non un interesse psicologico muoveva Pudovkin nella sua ricerca, bensì un interesse artistico, la volontà cioè di giustificare, coll’identificazione del suo procedimento specifico, quell’artisticità del film, che fino a qualche anno prima, negli anni della scuola, egli aveva negato, aderendo alla risposta negativa, data dal poeta Maiakovski al refe­ rendum di un giornale cinematografico (1913) se il film possa con­ siderarsi un’arte. Quel procedimento fu identificato nel montaggio, che Pudovkin definì «idealizzazione di tempo e di spazio»; banalità, oggi, accat­ tata c ovunque ripetuta e insegnata, tra i primissimi princìpi della tecnica e dell’arte del film. Ma, a una piu attenta' riflessione, quella banalità si rivela essere una verità profondamente rivoluzionaria; che, sebbene ricercata in base a una esigenza teorica dei vecchi for­ malisti russi, la ricerca del priom, cioè del procedimento tecnico s|>ccifico di ogni singola arte, dava proprio a quella teoria un primo valido colpo di piccone, facendo consistere l’artisticità del film pro­ prio in quella struttura generale dell’opera, nella quale gli idealisti (c, in Italia, con particolare recisione Benedetto Croce) avevano visto l scadere dell’intuizione, al grado inferiore del pratico e del voli­ tivo, e quindi alla non-poesia. Uno dopo l’altro, i cardini della teoria del film elaborata da Pudovkin, contraddicono, senza forse vederlo, e senza volerlo deliIxrratamente, i princìpi delle estetiche idealistiche. Il film nasce da un’elaborazione plurale della materia, è un’opera collettiva; il film necessita di una tesi, di un'autocoscienza critica, nei realizzatori, del­ l’idea del reale nel suo movimento, di cui l’arte è il riflesso. E, già da queste affermazioni, svanisce, col soggettivismo lirico, la gra­ dualità dei distinti, nel cosiddetto cerchio della vita spirituale: ri­ torna cioè, all’arte, la dignità di un contenuto d’idea e di una finalità, moralità efficiente, che ne fa un precipuo strumento per la trasfor­ mazione e la rigenerazione del mondo. Tutte le derivazioni e deduzioni successive di questi cardini essen­ ziali si configurano in una teoria che, se pure asistematica, costituisce la base saldissima per la fondazione di una filosofia generale dell’artc, veramente adeguata e degna del grande processo di trasfor-

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inazione già in atto nell’URSS: la creazione di una società nuova, di una società senza classi. Mentre Pudovkin profonde a piene mani i tesori delle sue ricerche originali, indifferente al compito di organizzarli in un compiuto e sistematico organismo filosofico, lavora e si afferma come attore ec­ cellente, pieno di forza comunicativa e di magnetismo; lavoro che lo appassiona e lo attrae c al quale tornerà sempre, magari per piccole parti secondarie, che egli caratterizza e cui dà spicco efficace. E se non ci fosse che questo, già il debito del cinema verso Pudovkin sarebbe incommensurabile. Ma c’è invece la sua più alta fatica, il suo maggior raggiungimento : i suoi film. Mente e cuore aperti ai problemi e ai conflitti di un’epoca, tra le più radicalmente rivoluzionarie che la storia conosca, l’epoca della lotta tra l’imperialismo e il socialismo, Pudovkin riflette nei suoi film questo clima rovente, e canta ed esalta la vittoria del socialismo nel suo grande paese, preludio a nuove e continue vittorie ovunque. Nel ritmo molteplice della sua sintassi di montaggio, la nota lirica della storia individuale, che dà pretesto ai film, riecheggia echi lontani, risonanze profonde, mentre lo sfondo epico, come in chiave di basso, sottolinea senza equivoci le significazioni generali, gui­ dando lo spettatore a cogliere, nel particolare, l’essenza. In tutti i suoi film, siano essi i primi, indimenticabili, La madre, Tempeste sull’Asia, La fine di San Pietroburgo, sia nei posteriori film storici (la cui problematica contemporanea l’autore ha sempre apertamente dichiarato) Minin e Pogiarslfi, Suvorov, L’Ammiraglio Nakhimov, Giu^ovs^i, c un inconfondibile carattere: tutte le essenze, tutti i succhi, per cosi dire, della sua terra, tutti i modi di essere e tutte le espressioni del suo popolo si articolano in un linguaggio figu­ rativo nazionale di straordinaria pregnanza; e una profonda umana pietà coglie nell’infinitamente grande, nel monumentale, la figura più dimessa, la nota sentimentale più intima e riposta — si ricordino: la scena del soldato straniero condannato all’omicidio, all’esecuzione del piccolo mongolo, erede di Gengis Khan; e il pentolino con le patate in La fine di San Pietroburgo — creazioni indimenticabili, dove il pensiero e la fantasia si fondono naturalmente, sorrette da una forza di osservazione eccezionale. Quella capacità di osservazione che permise a Pudovkin, a distanza di dieci anni, di ricostruire la figura di un generale tedesco, fuggevolmente visto, durante la sua prigionia, nella prima guerra mondiale, nei pressi di Kiel.

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Il carattere limpido e aperto di Pudovkin, la sua lucidità mentale, si rispecchiano in tutti i suoi film, che sono sempre privi di residui inelaborati di intellettualismo, tutti materiati di una esemplare chia­ rezza, che li fa accessibili ai piu ignari e ai piu semplici, col loro carattere comune di grave c solenne certezza nella bontà e invincibi­ lità della grande causa del socialismo, alla quale Pudovkin ha dato il contributo notevolissimo della sua buona battaglia. « Il lavoro è impresa di onore e di eroismo; noi diciamo e cre­ diamo che, con questa parola d’ordine, riusciremo a costruire una vita felice per tutta l’umanità. » Sono parole che Pudovkin ha detto, tra noi, in Italia. In Italia, dove la comprensione del film come arte data dalla conoscenza dei suoi scritti e dei suoi film. Per cui uno dei nostri maggiori cineasti, Cesare Zavattini, al Convegno di Perugia del 1949, potè salutare il grande artista sovietico con queste semplici parole : « Pudovkin, per noi italiani, non è soltanto un grande regista. Pudovkin, per noi, significa il cinematografo ».

Ricordo, con grande vivezza, come m’incontrai, quando la mia vita era, ancor piu che non sia oggi, popolata di fantasie e premuta da urgenze di esplorazioni e di espansioni, col breve libro di Pu­ dovkin sul soggetto e la regia. Amavo il cinema e un po’ ne avevo anche scritto in certi curiosi periodici, diretti da Alessandro Blasctti, che era allora tutto teso a promuovere una ripresa della pro­ duzione italiana; conoscevo, conoscevamo tutti, i buoni film degli ultimi anni (buoni per i tempi) e le possibilità di quest’arte sugge­ stiva e capace di fare miracoli: di tessere sull'ordito di una trama qualunque evidenze stupende, di trarre, ad esempio, da un opaco c triviale Cape Forlorn, l’indimenticabile Fortunale sulla scogliera. E tuttavia quel libretto di Pudovkin fu una rivelazione. Il mondo del cinema, che osservavo con grande interesse da qual­ che tempo e sul quale avevo meditato e fatto già, forse, qualche osservazione non banale, mi parve essermi stato, fino a quel punto, sconosciuto ed estraneo; ed ora, invece, improvvisamente fattosi mio, mi si svelava tutto, senza piu zone d’ombra e mistero: come visto da dentro, quasi da un figlio d’arte, che vi avesse ogni cosa nota e familiare fin dalla nascita. Ma non fu neanche questa l’impressione piu forte: l’impressione piu forte era oltre il cinema stesso. Perche quel discorso piano di Pudovkin scompigliava, e proprio gettava all’aria, tutta una cultura

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della quale ero nutrito anch’io, sebbene ne fossi, da sempre, insof­ ferente. Tradussi quei saggi con un entusiasmo che, mi sembra, tra­ spare ancora dalla prefazione, che buttai giù gongolando. Arte a tesi, arte realistica, montaggio. Una grande strada dritta, un modo di intendere l’arte, diverso, ed opposto, a quello che dominava incon­ trastato in Italia e che, proprio per non essere nemmeno filosofia ufficiale e universitaria, appagava il vago ribellismo individualistico dei miei connazionali. Tanto strideva quel libro, non solo col clima del fascismo, ma con quello della cultura italiana più autorevole, che io lo considerai « inattuale » per noi e gli previdi un totale insuccesso. Fu, invece, una generale esplosione di entusiasmo. E la stampa dedicò a quel breve scritto recensioni osannanti: un articolo, che fu più volte ristampato, lo metteva addirittura accanto ai Dialoghi con Francisco de Hollanda di Michelangelo e col Trattato della pittura di Leonardo. E ci mettemmo tutti alla ricerca, difficile, dei film di Pudovkin; io, insieme a Roberto Longhi, giacché allo sguardo cri­ tico penetrantissimo del grande storico dell’arte era subito apparsa la statura artistica dell’autore de La madre e de La fine di San Pie­ troburgo. Non c’incontrammo con quei grandi film subito, ma con un film, il cadavere vivente, di cui Pudovkin, magnifico attore ner­ voso, era stato interprete accanto a Maria Jacobini. Come, qualche anno dopo, le teorie di Pudovkin siano state alla base dell’insegnamento del Centro sperimentale di cinematografia, fondato da Luigi Chiarini, e quanto quelli nsegnamen to abbia in­ fluito sul film italiano, è cosa troppo nota perché occorra insisterci. Ed io che, prima e dopo di allora, ho lavorato parecchio, e in campi diversi, ancora oggi, a più di vent’anni di distanza, sono rimasto per molti « quello che ha tradotto in italiano le opere di Pudovkin ». E non mi dispiace: anzi ne sono sempre assai fiero. Divenuto, alla caduta del fascismo, commissario e poi direttore del Centro sperimentale di cinematografia, che dovetti difendere da assalti, anche in forza e « dall’alto », per liquidare quell’istituto, io pensai che la riapertura dei corsi sarebbe stata degnissima se tenuta da quelli che erano stati i numi tutelari della scuola : Pudovkin e Béla Balùzs. Quest’ultimo venne, che io non ero già più a dirigere il Centro; Pudovkin, invece, mi rispose con una lettera in cui diceva che non poteva venire in Italia, ma che una delegazione di cineasti sovietici sarebbe venuta a Venezia; aggiungeva che un mio articolo, sul

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Maestro 1 di Gherassimov, era stato pubblicato, per sua intercessione, su di una rivista di Mosca. La lettera mi fece un’impressione grandissima: come se mi avesse scritto, firmando di suo pugno, che so io, Michelangelo Buonarroti Leonardo da Vinci. Nel 1948, a Wroclaw, nell’enorme salone che riuniva gli intel­ lettuali di tutto il mondo per la pace, durante un intervallo, io guar­ davo verso il tavolo della delegazione sovietica. Poco prima, il re­ gista Ciaureli mi aveva presentato a qualcuno dei maggiori scrittori sovietici: Erenburg, Sciolokov, Leonov. Nella mia vita ho avuto oc­ casione di avvicinare scrittori di tutto il mondo, anche di prima gran­ dezza, ma conversare con quegli autori risvegliava in me particolari risonanze. Erenburg era legato al ricordo di una delle sue Tredici pipe che, poco piu che ragazzo, io avevo tradotto c pubblicato, per l'anniversario della Comune (si trattava della Pipa di Paul Roux) sul giornale Fede di Damiani e Porcelli. Il giornale era stato sequesirato e della Pipa di Paul Roux avevo fatto un opuscolo che i fa­ scisti distrussero prima che uscisse dalla tipografia di via della Guar­ diola. Cocciutamente, ripubblicai quel racconto sulla Rivista di let­ terature slave, qualche anno dopo e indisturbatamentc. Di Leonov c di Sciolokov ricordavo piuttosto i primi volumi, I tassi e II placido Don, giuntimi per vie complicate e letti avidamente, con tutto il piacere delle cose proibite. Al tavolo della delegazione sovietica, mi colpi il viso largo di un personaggio irrequieto che ficcava ovunque i suoi occhi pene­ tranti. Mi pareva di conoscerlo: e lo fissai con qualche insistenza. E proprio quando riconobbi in lui « quel magnifico attore nervoso »che era stato il protagonista de 11 cadavere vivente, Pudovkin in carne ed ossa, quell’uomo, destinato ad apparirmi stupefacente anche nelle piccole cose, sentendosi cosi guardato, si volse verso di me ficcandosi nell’occhio, con naturalezza, un enorme monocolo. Re­ stai di stucco. Durante i lavori del Congresso non ebbi occasione di avvicinarlo. Ma, qualche giorno dopo, alla Scuola statale di cinematografia di Lodz, ascoltai una sua conferenza. La Scuola è una villetta un po’ in periferia, vicino alla piazza del Mercato del grande centro operaio^ che si chiamava una volta la Manchester polacca. Nell’aula magna,. 1 A p. 333 nel presente volume (».J.r.).

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sedevano, accanto agli alunni, gli artisti e i tecnici del Film Polski e Daquin e Moussinac. La direttrice della Scuola, ora mia moglie, ci ■aveva offerto bellissimi fiori, e fiori erano ovunque, disposti con quel fine gusto che i polacchi dimostrano in queste cerimonie. Pudovkin non si rivolgeva a noi: dalla piccola cattedra egli par* lava ai giovani, che lo ascoltavano intenti. Parlava, con impeto stra­ ordinario, della libertà, della pace, del lavoro, dell’avvenire. Aveva gesti larghi e recisi : « Noi respingiamo con sdegno la calunnia del­ l’uomo che è alla base di un certo cinematografo... ». E il gesto di respingere tutto questo rovesciò la bottiglia e il bicchiere che erano sul tavolinetto. Pudovkin afferrò al volo la bottiglia, con un riflesso di incredibile prontezza e destrezza, e continuò a parlare brandendo c agitando in aria la bottiglia, incurante dell’acqua che ne colava copiosamente fino alle prime file degli ascoltatori. Al ristorante Sirena (la sirena, come è noto, è lo stemma di Varsavia) dove ci fu offerto un rinfresco, ero seduto vicino a Pu­ dovkin e parlammo lungamente: mi disse che i saggi che aveva scritto lo rappresentavano ormai solo parzialmente, che ne aveva in mente altri più densi; e, ridendo, parodiò, rivolgendosi anche ai redattori della Gazeta Filmava, che in quei giorni avevano pubblicato uno dei suoi primi scritti, le cretinerie e le calunnie della stampa "borghese che, nuovamente, parlavano di sconfessione di Pudovkin, di Siberia, di condanne e di colpi alla nuca. Del realismo socialista disse che non è una tendenza ma che comporta tutte le possibili ten­ denze, anche quelle che nuove opere possano eventualmente deter­ minare. Lodò i ponchi e le napoleonici e i pasticcioni al formaggio che ci servivano, e di cui facemmo strage, passando, con spigliatezza, da un tema all’altro. Aveva un’espressione molto seria, gesticolava molto e il suo sorriso era puntuto di arguzia. In una delle salette di montaggio del Film Polski proiettavano -un documentario sull’oro nero della Polonia, il carbone. Il film si •avvaleva della drammaticità dello sfondo nero della miniera e del carbone, sul quale spiccavano i corpi seminudi, ed unti, dei mina­ tori; con un ricordo abbastanza evidente, mi parve, de La tragedia della miniera di Pabst. Non mancava di una certa efficacia dram­ matica. Pudovkin sedeva accanto ai cineasti polacchi, io, coi cineasti fran­ cesi, nella fila dietro a loro. Durante la proiezione, Pudovkin era attentissimo, tutto occhi a guardare con serietà ed impegno evidente:

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un uomo intento al suo piu impegnativo e responsabile lavoro... Il film condensava, nel tempo e nello spazio, tutto ciò che c’è di dram­ matico e di impressionante nel lavoro della miniera: condizioni ef­ fettive e reali, condizioni solo possibili, condizioni di altri paesi, e tutto insomma ciò che di fatica, di disagio, di tragico c’è nel duro lavoro dei minatori. Quando si fece la luce, Pudovkin si alzò di scatto e tutti lo imi­ tammo, guardandolo, in attesa del giudizio del Maestro. Egli sen­ tenziò reciso: «Formalismo!». Vidi molti visi allungarsi e la luce di qualche sorriso interno c dissimulato. Che c’entra qui questo slogan del formalismo? Il film non è buono forse, ma che sia formalista è insostenibile. Anzi, sem­ mai, stracarico di contenuto. Pudovkin attenuò con un aperto sor­ riso la severità del suo giudizio. « Già la scena in cui... », comin­ ciava qualcuno condiscendentemente. « No, no. È formalista il film tutto intero, fin dalla concezione». Poi spiegò, come ha spiegato magistralmente in uno scritto dedicato proprio a quel film. Fu per noi tutti una buonissima lezione. Un’altra volta, a Varsavia, dopo la visione de L'ultima tappa di Wanda Jakubovska, ci trovammo in una saletta del Film Polski in via Pulawska. C’erano, oltre alla Jakubovska, Toeplitz e Enrique Amorin (l’autore del Carrettone che i lettori italiani conoscono nella traduzione di Attilio Dabini). Toeplitz annunciò che il Film Polski aveva intenzione di realizzare un film su Chopin (che fu poi fatto assai bene per la regia di Ford, La giovinezza di Chopin *). Pu­ dovkin mi riempi di piacere ed anche un po’ d’imbarazzo, chieden­ domi come l’avrei visto io un simile film. Dissi che la difficoltà per me consisteva soprattutto nel sottolineare, come mi pareva si dovesse, il carattere profondamente nazionale dell’opera di Chopin e di mo­ strare come proprio in ciò consista la sua grandezza e il suo uni­ versale valore. Pudovkin mi guardava in silenzio, immobile, come un medico a consulto, che debba pronunciarsi su di una difficile diagnosi. Poi afferrò una matita e cominciò a tracciare, su di un foglio, ascisse e coordinate, curve e frecce, parlando rapidamente. Si doveva connet­ tere, evidentemente, Chopin alla terra e al popolo polacco. Era rapido, senza esitazioni; si volgeva di scatto verso gli interlocutori, 1 Vedi la recensione al film a p. 542 (n.d.r.).

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gesticolando con grande vivacità ed ampiezza. Ogni tanto lasciava il francese per il russo. In quella gesticolazione c’era qualche cosa di piu che una sem­ plice sottolineatura delle parole che gli fluivano veloci dalla bocca espressiva: era un gesto che sembrava volesse difendere qualche cosa, volesse affermare un’idea da far trionfare, e che perciò doveva abbat­ tere e rovesciare pesanti ostacoli. Mi ricordai della bottiglia d’acqua rovesciata assieme al formalismo, alla evasione, al cosmopolitismo, alla calunnia esistenzialistica dell’uomo. La sua personalità, polemica e fantasiosa, s’esprimeva per me chiarissimamente in quell’ampia e bizzarra gesticolazione. E, mentre egli parlava, pensavo: ecco come si preoccupa della forma che dovrà prendere il pensiero che vuole esprimere. Mi rim­ proveravo di aver risposto quasi senza riflettere, dicendo una cosa giusta, certo, ma anche ovvia; e di averla esposta in forma intellet­ tualistica. Pudovkin, invece, già ricercava la forma artistica, il suo discutere era già un creare. Diceva : « Grandi pianure, in un succe­ dersi ritmicamente solenne » (c tracciava grandi rette parallele) ; « fiumi larghi dalla corrente quasi invisibile » (altre lunghe rette); « visioni statiche, lente, lunghi pezzi di montaggio ». Poi « il ritmo si muove : ruscelli vivaci, torrenti veloci, cascate precipitose » (e giu una pioggia di segni brevi sul foglio). « Il vento primaverile sulla cima degli alberi, le fronde percorse da lunghi brividi di vento; uno stormo di uccelli si leva c scompare nell’orizzonte sereno. Tutta la fo­ resta si anima » (e segni e segni, profondamente tracciati sul foglio). La punta del lapis si spezzò. Pudovkin gettò il lapis sulla carta: sor­ rise con l’aria tra il bonariamente ironico c il condiscendente. Una espressione popolaresca, mi sembrò, come di un pugilatore che uscisse da un'esibizione in palestra. Per lui, l’introibo all’opera, la prima grande sequenza era fatta. Ridivenne serio: «Il ritmo sarà studiato sulla musica». Continuò a parlare a lungo: disse come la musica dovesse non applicare meccanicamente il metodo wagneriano dei motivi condut­ tori, ma seguire una dialettica molto più complicata e complessa... A un tratto lasciò cadere l’argomento senza concludere. Rimase un po’ soprappensiero e poi, curvandosi sul tavolo, come se dovesse rivelarci un segreto, disse con voce calda e vibrante : « Noi dobbiamo combattere ogni spirito di evasione...». Amorin prese il foglio di carta e pregò Pudovkin di firmarlo e

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di darglielo. «Ai miei amici di Europa e di America sembrerà una favola che io abbia partecipato a una seduta di sceneggiatura insieme a Pudovkin. » Pudovkin lo guardò fuggevolmente, firmò e dette la carta. « Perché? — chiese sinceramente stupito. — Una favola? Che sciocchezza! » E si mise a ridere allegramente. Alla fine del 1949, Pudovkin partecipò, con l’attore Cirkov e col soggettista Papava (autore, tra l’altro, della biografia cinemato­ grafica di Pavlov) al Convegno internazionale di cinematografìa di Perugia. La piccola delegazione sovietica arrivò quando il Convegno avrebbe dovuto esser già chiuso, avendo avuto in ritardo i visti del governo italiano. Ma i lavori del convegno furono prolungati e po­ terono cosi arricchirsi di relazioni importantissime. Pudovkin era per la prima volta in Italia e tutto teso a scoprirla con un intenso e ininterrotto lavoro di osservazione : era tutto oltre il cinema. Nella hall dell’hótel Baglioni gli presentai Zavattini. Al nome Pudovkin, Zavattini arrossi leggermente, la sua espressione si apri a quel sorriso infantile e tenero che tutti gli conosciamo, poi disse, un po’ confusamente, che era felicissimo, sinceramente commosso. Era vero e lo si vedeva benissimo. Un attimo dopo, con naturalezza e voce chiara, Zavattini aggiunse : « Per noi italiani, Pudovkin non è soltanto un grande regista. Per noi Pudovkin significa: il cinema­ tografo ». Pudovkin aveva molta stima per Zavattini: ma rimase indiffe­ rente. Alle lodi, che gli venivano tributate da ogni parte, l’ho visto sempre indifferentissimo. Anche agli applausi del pubblico, pochi giorni dopo, a Roma, al teatro delle Arti. Invece mi sembrò com­ mosso alla ovazione tributatagli, al teatro Adriano, da una grande massa popolare, che egli aveva salutato in italiano. E sicuramente commosso fu all’omaggio di un enorme mazzo di garofani rossi, fattogli, qualche giorno dopo, dagli operai per la sua visita a Cine­ città. A Cinecittà gli fu offerto un banchetto. Un episodio di quel pranzo mi sembra interessante e gustoso. Eravamo all’arrosto, quando si avvicinò al nostro lungo tavolo un regista ungherese, che aveva conosciuto un’improvvisa (ed effìmera) notorietà internazionale, gi­ rando, su di un soggetto e con la collaborazione di Béla Balazs, un film sulla gioventù d’Europa, sbandata dalla guerra. Un film con

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alcune parti eccellenti, ma anche pieno di enormi difetti (Accadde in Europa). L’ungherese si avvicinò, chiese di essere presentato a Pudovkin, si mise di fronte a lui e cominci?» a parlare spigliatamente : che lui conosceva Pudovkin e lo considerava il piu grande regista del mondo, che gli scritti di Pudovkin sono la sola base estetica valida per la comprensione dell’arte del film, che i film di Pudovkin sono opere eccezionali, che bisogna studiarle fotogramma per fotogramma, che nessun regista e nessun cineasta può esistere se non si rifa, prelimi­ narmente, a Pudovkin. Pudovkin, alla presentazione, non aveva abbandonato il coltello, mostrando di non accorgersi della mano tesagli dal verboso interlo­ cutore. Aveva fatto un cenno discreto con la testa, ed ora il coltello l’affondava, quasi con violenza entusiasta, nella bistecca di filetto. L’altro, per nulla scoraggiato da quel silenzio evidentemente poco benevolo, riprese a parlare con volubilità: Pudovkin masticava, guar­ dandolo fisso severamente. Altra breve battuta d’arresto, nel fiume di parole del regista ungherese; il suo sguardo s’incontrò un attimo con quello di Pudovkin, che s’era fatto piu duro. I vicini comin­ ciavano ad essere imbarazzati. Pudovkin, infine, puntò l’indice verso l’interlocutore e gli chiese a bruciapelo : « Lei perché non lavora nel suo paese? ». L’altro, infine, si afflosciò. Si sgonfiò proprio fisicamente, come un palloncino bucato dall’indice teso di Pudovkin. Fece un gesto annaspante come di chi stia per affogare. Rimase a sedere, piccolo e confuso, come un alunno che, sicuro di sé, ha cominciato l’esame col trucco consueto del dire con sicumera quello che credeva potesse far piacere al maestro, e che si gela di colpo alla prima domanda precisa alla quale non sa che rispondere. Guardò Pudovkin come un cane frustato; sorrise e cercò di riprendersi e parlare ancora. Pudovkin, con la salvietta in mano, si alzò: s’inchinò cortesemente, poi, sempre con quel terribile indice teso, disse freddamente : « Le auguro di poter tornare al suo paese e di poter fare un film sulla edificazione della nuova Ungheria >». L’altro scomparve. Figurarsi che accoglienza ebbe un signore, ben vestito, che, du­ rante lo stesso pranzo, si avvicinò a Pudovkin e gli offri una cifra favolosa per girare in Italia un film, per conto di una casa di produ­ zione americana!

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Nella visita ai teatri, Pudovkin s’incontrò con René Clair, che girava allora una scena di ballo per il suo film La bellezza del dia­ volo'. si scostarono qualche passo da noi e conversarono brevemente. René Clair, minuto, fine, vestito con raffinata semplicità, ascoltava, guardando Pudovkin, con occhi chiari, come un poco sgomenti : accanto alla grande figura del regista sovietico dal gesto magnanimo» c perentorio, appariva come uno scriccioietto vicino ad un’aquila. L’ultima volta che ho visto Pudovkin fu, ancora a Roma, nel 1951 : egli tornava con l’interprete di Ivan il terribile e del Deputatodei Baltico, Cerkassov, da un viaggio in India. Il Circolo romano del cinema organizzò allora, in suo onore, una proiezione, al Capranichetta, dell’edizione sonora di Tempeste sull’Asia. In quel­ l’occasione si ebbe modo di apprezzare nuovamente il sottosegretario alla Presidenza, on. Andreotti, che autorizzò la proiezione a patto « che si trattasse di una manifestazione di cultura e ristretta ». Perché pare che, per il sottosegretario, se la cultura dovesse diffondersi sa­ rebbe un grosso guaio. La monda freschezza di Tempeste sull’Asia fece su tutto il pub­ blico una grandissima impressione. La sera fu offerta a Pudovkin una cena ai Tre Scalini, a Piazza. Navona. Erano presenti, tra gli altri, Umberto Saba, Libero Solatoli, Carlo Levi, Anibrogio Donini, Giuseppe De Santis, Pietro Ingrao,. Virgilio Tosi e Alessandro Blasetti. Blasetti, brindando a Pudovkin, disse : « Se oggi il cinema ita­ liano ha raggiunto risultati tanto importanti lo deve anche all’inse­ gnamento dei grandi maestri russi ». Pudovkin ringraziò, si mise a sedere e prese a parlare delle: danze indiane c della pittura italiana del Rinascimento. Era il febbraio 1951. E fu l’ultima volta che lo vidi.

Serghci Eisenstein maestro d’arte ’

Chi, come ogni spettatore non specializzato, conosca solo i fram­ menti di Lampi sul Messico c la prima parte di Ivan il terribile, proiettati nelle pubbliche sale in Italia, ha tuttavia potuto farsi un’idea chiara deH’alto valore di S. M. Eisenstein, il grande regista sovietico scomparso, appena cinquantenne, in questi giorni. Ma per chi conosca a fondo tutta l’opera realizzata e quella, vastissima, ri­ masta incompiuta, gli scritti teorici, i ricordi, i documenti e tutto insomma il travagliato processo creativo di Eisenstein, questa morte improvvisa è un lutto tristissimo che priva l’arte del film di uno dei suoi sostenitori e realizzatori piu grandi. Uno dei pochissimi per cui il cinema (dannato e costretto quasi sempre, nei paesi capitalistici, al livello dei romanzi d’avventure per ragazzi svogliati e dei romanzi d’amore per signorine scimunite) è •oggi la sola forma di arte, che arte effettivamente (se pure eccezio­ nalmente) produca. E che tanto sia avvenuto perché l’opera di Eisenstein è nata e si è sviluppata nel paese del socialismo è un’affermazione che si può fare con la piu sicura e tranquilla coscienza. Perché solo una cinematografìa come quella sovietica, svincolata dal torbido groviglio di interessi affaristici e dalla costante volontà di ingannare il pub1 Con questo titolo, corrispondente a quello dall'A. dato al primo degli scritti qui pubblicati, raggruppiamo: Serghei Eisenstein, maestro d’arte (l'unità del 14 febbraio 1948), Discussione su Eisenstein (Bianco e nero, a. XII, n. 6, {pugno 1951, riprodotto anche in Poesia del film, ed. di Filmcritica, Roma 1955), Ri­ torno del Potemkin (l’Unità del 16 novembre 1954), nonché due recensioni di B. al film Ivan il terribile (n.d.r.).

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blico, poteva permettere ad Eisenstein la sua ricca tematica rivolu­ zionaria e poteva dargli quella ricchezza di collaborazione, di tempo c di mezzi che erano necessari alle sue ricerche, alle sue elaborazioni, alle sue creazioni. Cosi Eisenstein potè essere costantemente al l’avanguardia, costan­ temente alla testa di quel movimento innovatore che portò il film da spettacolo da baraccone a fatto artistico. Fu Eisenstein anzitutto che, con Pudovkin e gli altri registi sovietici, pose coscientemente il montaggio quale base estetica del film. Le prime intuizioni e prime timide applicazioni di montaggio si hanno in Italia e in Francia; poi Griffith, in America, l’afferma e l’applica come potente e irre­ sistibile mezzo emotivo. Ma saranno gli artisti sovietici, e Eisenstein tra i primissimi, a creare una nuova forma di montaggio, a trasfor­ mare il montaggio da modulo fisso e regolamentato per dirigere l’inavvertito animo dello spettatore, a strumento di poesia. Il finale alla Griffith, eredità del romanzo deteriore e avventuroso, del ro­ manzo d’appendice o a dispense, e dei suoi continua, diventerà una ricetta ripetuta all’infinito, nel film commerciale, per stimolare il subcosciente degli spettatori piti ingenui: una progressione emotiva facile, fatta di attese, di sospensioni e di ansie. In una parola, la regolamentazione della non arte ai fini dell’immediato ed effimero successo. Per Eisenstein e per gli artisti sovietici il montaggio è l’arte stessa del film, espressione intesa non a commuovere, ma a parlare libera­ mente; c non a un gregge sonnolento e sconsolato in cerca di un’ora di illusione, ma ad un pubblico sveglio, cosciente e libero. Contro chi sciaguratamente e cinicamente considerava il cinema un’« arma » (c ormai sanno tutti contro chi fosse puntata e come fosse volta ad attentare alla integrità psichica e a forzare la libertà morale dello settatore) i maestri sovietici del film hanno contribuito a farne un’arte : secondo le parole di Lenin, « la piu importante delle arti ». All’avanguardia è ancora Eisenstein quando, per l’avvento del .sonoro, lanciò con Pudovkin e Aleksandrov, quel manifesto dcll’arjncronismo, che valse alla cinematografia di tutto il mondo l’aver evi­ tato gli scogli pericolosi di un ritorno alla teatralità; scogli in cui s'crano infranti i primi sguarniti vascelli hollywoodiani. Ma Eisen­ stein è all’avanguardia soprattutto con i suoi film: Sciopero, La co­ razzata Potemkin, La linea generale, Lampi sul Messico, Aleksandr

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Nevsbi, Ivan il terribile; tappe gloriose di una foga inesausta, di fervorose ricerche e di geniali creazioni. Ma una strada come questa non è mai delle piu rosee e più facili. La volontà di emancipare lo spettatore dalla servitù dei suoi moti incoscienti, provocati da una ben cosciente e chiara volontà di impressionarlo e agitarlo, portarono talvolta Eisenstein verso i mi­ raggi smaglianti di un formalismo traditore. Ma un uomo di cinema per cui l’immagine ha l’importanza che deve avere, un uomo for­ mato figurativamente sullo studio di Leonardo e di Michelangelo (chi non ricorda i peones di Lampi sul Messico?) rientrò sempre in sé ad intendere, come Eisenstein intese di fatto, che la pregnanza dell’immagine è quanto effettivamente le conferisce il valore, ogni valore: è la matrice unica della stessa forma. Cosi l’assunto, non ambizioso, ma nato da un effettivo bisogno di superarsi, di superare anche il tratto ch’era apparso caratteristico delia sua personalità, quel realismo significante, oltre la contingenza e l’aneddoto, portarono Eisenstein a concepire, recentemente, addi­ rittura un nuovo genere; una maniera sempre più corale di intendere il film, quasi facendone strumento di indagine storica. I piccoli luciferi dell’individualismo borghese, salottiero e cretino, Vintellighenzia al soldo degli industriali, le signore sfaccendate in cerca di brividi e moltissimi ingenui hanno parlato, a questo propo­ sito, di terrorismo ideologico, di censura tirannica, di dittatura, di costrizione, di Ghepeù e hanno rispolverato non si sa quanti altri mai ferri vecchi della logorrea fascistica. A quelli che in buona fede hanno creduto o credono a queste sciocchezze diciamo che il documento con cui Eisenstein fece suoi i rilievi e gli appunti del Comitato centrale sono — tra i moltissimi — non il più piccolo dei suoi titoli d’onore. Ma intendere tutto ciò è oltre le possibilità di chi non ha com­ preso l’abbaco di ogni sana estetica: che, non sdo il cinema, ma ogni arte, è un prodotto collettivo, una creazione oltre che un patri­ monio di tutti.

Come tutti i veri artisti, ed egli resta tra i maggiori della nostra epoca, S. M. Eisenstein fu un innovatore. Novità, in arte, a non temere di innalzare troppo il minuscolo Orsini, si potrebbe ripetere che vuol dire « aprire i vetri »; vuol dire cioè realtà e nuovi occhi per guardarla e per coglierla nella sua mutevolezza.

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Ed Eisenstein i vetri Ji frantumò addirittura, fragorosamente. Basti pensare alle date: nel 1926, anno di La corazzata Potemkin, in Italia Palermi era, ancora una volta, a Gli ultimi giorni di Pompei, Murnau, in Germania, tentava un Paust, mentre Fritz Lang impres­ sionava chilometri di pellicola colla cartapesta di Metropolis e, in Francia, Renoir si esercitava à la recherche du temps perdu, voglio dire al nobile divertimento di ingegnarsi a restaurare, con Nanà, il clima irripetibile del suo grande padre. E c’erano state, si, le rico­ struzioni, di un illusionismo quasi negromantico, di Stroheim, con tutta la loro surreale crudeltà e terribilità, nonché la grande dispe­ razione anarchica di Chariot; ma un solo campo lungo del molo o della scalinata di Odessa, brulicanti di folla, un solo primo piano di un marinaio teso nello sforzo, o di una intellettuale che guarda attraverso le lenti, incuriosita prima che commossa, una sola bocca spalancata in un urlo di disperazione, un solo fotogramma o un solo raccordo di montaggio del Potemkin, bastavano a risospingere tutti, i precedenti cinematografici, anche altissimi, nel passato di un’epoca, finita, e che non ha piu niente da dire artisticamente, e ad annun­ ciarne una nuova. Così come, piti di quattrocento anni prima, le bocche spalancate a urlare silenziosamente di Michelangelo da Cara­ vaggio, palesavano, già quasi manieristico, già quasi barocco, l’altro,, pur enorme Michelangelo, e incidevano così profondamente su tutta la pittura a venire. C’era una nuova realtà intorno al giovane Eisen­ stein; quella maturatasi colla Rivoluzione di Ottobre; e c’erano, e s’erano rinnovati per guardarla, gli occhi di Eisenstein; occhi da far apparire di colpo ciechi e monocoli i cineasti di tutto il mondo. E la critica, anche quando, rimessasi dallo scoppio dei primi giustifìcatissimi entusiasmi, troppo convinti e fervidi per controllarsi c per andar cercando il consueto pelo nell’uovo, si fece piu attenta a definire la grandezza di Eisenstein, e insomma a trovare dei limiti entro cui caratterizzarla, ed anche dopo quelle, tra le sue opere, che meno evidentemente si presentavano come ispirate alla realtà {Aleksandr Neutri e Ivan il terribile), non ha creduto mai di dover ritirare ad Eisenstein il riconoscimento ad honorem di ogni innova­ tore; e lo considera concordemente quale egli fu di fatto: un grande realista. Ma, nel tempo, la serie dei film semplicemente annunziati e non fatti, o iniziati e non portati a compimento, e il lungo intervallo nell’attività creativa, e il divario appariscentissimo tra la prima

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(Potemkin, La linea generale), la seconda (Lampi sul Messico) e la penultima (Nevsl^i) ed ultima (Ivan) sua attività, la dura, e giusta, critica del Comitato centrale del Partito comunista bolscevico, la sincera, inspirata, commossa — e commovente! — autocritica; tutto questo, e poi ancora, in occidente: le interpretazioni tendenziose e le contraffazioni dei gazzettieri pronti a dilatare ogni contraddizione, nella vita pubblica e privata dell’URSS, e a fingere di vederci, e a spingere a vederci, crepe profonde e fratture, entro le quali insinuare e contrabbandare veleni antisovietici, tutto ciò ha reso difficile la piena comprensione del film di Eisenstein, lo sviluppo e l’approfon­ dimento del primo, piano ed ovvio, giudizio critico: grande realista. Queste difficoltà e — si pensi alle date — la difficoltà, agli esordi di Eisenstein ancora, di accettare diffusamente e di capire il cinema come arte, hanno indotto, e quasi per la verità costretto, la critica a ripiegare sui pochi documenti, a fare anzitutto almeno i conti colla carta, stampata a valanghe subito, sulla personalità e sull’opera di Eisenstein, e a sprofondatisi dentro fino a soffocarne, fino cioè ad annullarsi come critica. I piu qualificati referendari: Léon Moussinac, il piu informato di tutti, nell’anno in cui scriveva (1928), si credeva tenuto a, soprat­ tutto, informare: e Béla Balazs, poco dopo, impegnato a giustificare, replicatamente e meglio, il cinema come arte, a rivelare lo spirito del film « per cui l’arte non è nemmeno la cosa più importante », e costretto perciò a subordinare i suoi acutissimi giudizi critici e le sue illuminanti osservazioni, ed anche quelli su Eisenstein, al suo assunto didascalico, esplicativo ed esemplificativo, del linguaggio cine­ matografico; gli stessi primi critici sovietici, impigliati gli uni nelle sopravvivenze astrattistiche e formalistiche, anche se rinverdite da Bogdanov come «cultura proletaria» e, annaspanti, altri, in teorie « marxiste » dell’arte, ancora immature e affrettate, ancora equivo­ canti materialismo dialettico e positivismo, alla Plechanov nel mi­ gliore dei casi, o, che è assai peggio, alla Bucharin, e coinvolti quasi tutti nelle stravaganze avanguardistiche di Tatlin, e magari di Lunaciarski, non ci hanno dato, di buona critica su Eisenstein, niente altro forse che le fulminee penetrazioni (anch’esse, purtroppo, solo incidentali) di Pudovkin. Poco e non resta da aggiungere che qualche saggio piu recente, qualche nota sull’ultima storia del film sovietico di Lebedev e sulle storie generali del cinema del Rotha e del Sadoul. Ci sono poi, piu importanti di quanto d’acchito non possa sembrare,

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le relazioni delle personali impressioni, non qualificate come critica, ma spesso pertinentissime, di tutta una serie di scrittori e artisti: di Gide, di Vildrac, di Feuchtwanger, di Cavalcanti e di Chariot per citare a memoria solo qualcuno dei nomi piu illustri; e, atteggiamento anch’esso critico ed ottima critica, l’entusiasmo delle masse elettriz­ zate di tutto il mondo. Questo il non sovrabbondante fardello di critica valida su Eisenstein; una critica, bene inteso, che per il suo carattere resta esclusa o soffocata nelle bibliografie eisensteiniane, ed anche in quelle più rinomate, per la sedulità dei compilatori, tipo Pasinetti o Pietrangeli, Viazzi o Aristarco. Oltre a questo è la pletora, le montagne e le valanghe periodiche di carta straccia, raccolta, catalogata c schedata da gente che, invece di impiegarsi all’Eco della stampa, ne trae motivo a nuovi diluvi di inchiostro. Sono essi, a mio avviso, i responsabili della recente abdi­ cazione critica dell’ultimo numero unico di Bianco e nero (anno XI, n. I, gennaio 1950) dedicato ad Eisenstein : dove non si hanno che docu­ menti (magari falsi) e interpretazione di documenti. Utili, senza dub­ bio, come materiale di studio, ma forse ancor piu — per le stravolte conclusioni — a dimostrare nuovamente come, nello studio dell’arte, sia indispensabile non dipartirsi mai dal diretto contatto colle opere. I princìpi della forma filmica di cui si dà qui una traduzione è apparso, come è noto, in una rivista messicana del 1931, che mi fu prontamente segnalata dalla cortesia di Emilio Cecchi, si che io potei affrettarmi a tradurre- quello scritto e a pubblicarlo, con qualche taglio, su L’Italia letteraria (1932). Io non ne sopravvalutai l’impor­ tanza, né allora né successivamente, tanto che, anche nel bel fervore di lavoro, di ricerche e di pubblicazioni, che caratterizzò l’esordio del Centro sperimentale di cinematografìa e della rivista Bianco enero, Chiarini ed io non pensammo mai né a completarne la tradu­ zione né a ripubblicarlo. Io mi limitai a spremere da quello scritto il nocciolo essenziale, la — ormai famosissima — definizione del film come la rappresentazione di «un conflitto in una idea». Utiliz­ zando più tardi quella definizione, per quel tanto di validità che |x>tcva avere, io cercai di caratterizzarla come riecheggiamento, per sentito dire, di formule estetiche motivate filosoficamente altrove, da parte di un regista che filosofo assolutamente non era e che non s’intendeva di filosofìa. Scrivevo (Soggetto e sceneggiatura *) : « Eisen1 Cfr. Il film e il risarcimento marxista dell’arte, p. 93 (n.d.r.).

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stein, con la mentalità dogmatica ed apodittica degli artisti, e con quel suo confusionario hegelismo da motociclista, come ebbe a dire una volta un suo acuto critico occidentale, ha definito il film la rap­ presentazione di un conflitto in una idea, definizione di sapore schellinghiano-hegeliano ecc. ecc. ». Il che voleva dire, ed avrebbe voluto far riflettere e controllare, che i pensieri di Eisenstein originavano da una cultura ancora idea­ listica e, aggiungo ora, anche assai vagamente idealistica, e proba­ bilmente di importazione, dato lo stadio e le condizioni della filosofìa russa, dove l’idealismo stricto sensu, non ha mai attecchito. Una impressione simile deve aver avvertito anche Béla Balàzs che retro­ cedeva ancora, fino a Kant, le sue presunzioni sui punti di partenza teorici di Eisenstein (cfr. Der Geist des Films): « Wenn Eisenstein nicht ein so rettungslos ^antianischer Dualist ware... ». Sono io, dunque, in qualche modo responsabile della frequente qualificazione del pensiero di Eisenstein come schellinghiano-hegeliano, giudizio che Aristarco replica anche nel citato numero unico di Bianco e nero (p. 52) il che, forzato cosi, certo è lontano dalla verità; come sarebbe lontano dalla verità credere che Eisenstein fosse davvero «kantiano inguaribile», giudizio che immagino si sarebbe regolarmente diffuso se la mia traduzione di Lo spirito del film 1 non avesse, per ragioni di censura fascista, soppresso tutto il capitolo Osservazioni ideolo­ giche, dov’è il citato apprezzamento di Béla Balàzs1 23. Cultura, dicevo, dunque, vagamente idealistica, e scarsa, e con­ fusionaria. E ad assicurarsene sarebbe bastato leggere attentamente qualche rigo della nota biografica (anzi certamente autobiografica) pre­ messa all’edizione tedesca della novella cinematografica La linea ge­ nerale (Berlin, Schmidt, s. d.) dove si dice che nel 1916 Eisenstein (dunque diciottenne) s’interessa della Rinascenza italiana e di Leonardo, che l’analisi di Freud su Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci lo porta allo studio della psicanalisi di cui sottoscrive ed accetta «la parte materialistica», che si occupa di teatro giapponese, che (verso il 1922) studia la dottrina di Marx, che « prende come base della sua 1 Qui e in seguito si cita (rispettando l’A.) col titolo italiano della prima, incompleta traduzione, il ben noto Der Geist des Films, Halle, 1930, che, nella tra­ duzione integrale italiana, curata dallo stesso B. nel 1954 per le Edizioni di Cul­ tura Sociale, ha avuto come titolo Estetica del film (n.d.r.). 2 Cfr. a p. 206 di Estetica del film: « Se Eisenstein non fosse cosi irrime­ diabilmente un dualista kantiano... » (n.d.r.).

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concezione del mondo, dopo aver attraversato tutte le fasi della filo­ sofìa idealistica » e che, nel 1922, studia anche la teoria di Pavlov, sui riflessi condizionati, e impiega questo «sistema materialistico pra­ ticamente e teoricamente per la sua creazione artistica ». Non è diffìcile vedere come Eisenstein, redigendo il suo curriculum culturale, ancora dopo le prove, di enorme genialità artistica, del Potemkin c di La linea generale, ci tenesse a pavoneggiare inge­ nuamente le sue civetterie culturali, rivelando, oltre a qualche am­ piezza di curiosità, da avido autodidatta, anche i limiti modesti della sua comprensione di quanto andava precipitosamente leggiucchiando. Se ciò non andasse a maggior merito della sua grandezza di artista, almeno in un certo senso, verrebbe quasi la voglia di scherzare su quello studio della Rinascenza italiana, fatto di certo sulle cartoline illustrate, e subito rivolto a curiosità psicologiche, ed anzi psicanali­ tiche; su quel rapidissimo — forse in treno — attraversare tutte le fasi della filosofìa idealistica, e quello studio di Marx che, c’era da giurarlo, diviene soltanto la base della sua personale concezione del mondo; e a giudicare dall’impiego, almeno pleonastico, della parola « materialismo » a proposito di Freud e di Pavlov, c’è da credere che non solo dei ristretti marxistici di Plechanov, ma anche delle opere di psicanalisi e di riflessologia Eisenstein sia andato poco oltre i titoli c il sentito dire. Invece di prendere tanto sul serio il mio accenno a Schelling e ad I kgel, sarebbe stato assai pid utile accogliere l’avvertimento, che io davo esplicitamente, che le teorie di Eisenstein potevano piuttosto confondere che chiarire le idee, che erano teorie confusionarie, per le quali, fermissima restando l’ammirazione per i film, io avevo fatta mia la qualifica da motociclista (verbale di Roberto Longhi) che mi sembrava oltremodo felice per definire quel che di sbrigativo e di strombazzante che la caratterizza. I primi scritti di Eisenstein non sono teorie estetiche e, anche quando Io pretendono, restano manifesti d*avanguardia, di quelli che, nei primi tempi dell’attività di Eisenstein, si scrivevano ovunque e molto anche in Russia: dei quali ultimi, a meglio intendere il clima culturale e artistico in cui si è formato Eisenstein, si possono leggere quelli che io, nel 1932, ho tradotto e pubblicato nella rivista romana il saggiatore', o almeno se ne può leggere qualche saggio esemplare, ad esempio Rompere la grammatica del poeta Vadim Scerscenovic,



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se ben ricordo. Perché, anche prima che ce ne parlasse Béla Balàzs, nella sua bella commemorazione di Eisenstein, qui alla Casa editrice Einaudi, si sapeva bene che Eisenstein era futurista, come dopo le manifestazioni marinettiane in Russia si qualificavano molti artisti russi di avanguardia. Cosa che si poteva capire anche solo guardando i ritratti di Eisenstein, con gli occhi spiritati, proprio alla Marinetti e, uno dei più celebri, con una giacchetta con certe lasagne di rigoni, da degradare i panciotti futuristi di Boccioni e perfino le cravatte di gelatina di Giacomo Balla. Oppure sarebbe bastata la più esterna osservazione dei suoi scritti, della composizione tipografica, con i frequentissimi a capo e con l’impiego di diversi corpi e caratteri di stampa: sopravvivenza, un po’ ritardata, di quella che Marinetti ed i suoi chiamavano tipografia-libero-espressiva. O (meglio) sarebbe stato utile curiosare un po’ sul clima artistico dei tempi in cui fu commissario all’istruzione Lunaciarski (che ha scritto il soggetto di un film L'orso1 che fu proiettato al primo cine-club di Roma, dove abbiamo potuto vederlo in molti e che ha scritto, nel 1928, un libretto sul Cinema in occidente e da noi), in cui Tatlin progettava la sua torre per la III Internazionale: sarebbe stato utile intendere un po’ di più il movimento interiore degli attori di Stanislavski e quello eccentrico di Meyerhold, dal quale ultimo derivarono, in parte, Eisenstein e la Fex (Fabbrica dell’attore eccentrico) dei giovanissimi Trauberg e Kosintzev; e studiare un po’ il movimento e le teorie della Proletfyult, un esponente della quale P. M. Kergenzev, autore di un volume 11 teatro creatore (pubblicato anche in Germania: P. M. Kergenzev, Das Schopferische Theater, Hamburg, 1922), è stato ambasciatore dell’URSS in Italia. Sarebbe stato bene conoscere un po’ tutte quelle, ormai lontanissime, stravaganze, almeno sulla scorta, se pure non sempre criticamente sicura, delle traduzioni e delle infor1 Su questo film c la sua proiezione al cine-club di Roma si veda anche: Solargli e Vento: Vita italiana del cinema sovietico (in Cinema sovietico, a. Il, n. 4, luglio-agosto 1955). Sulla scorta della Breve storia del cinema sovietico dì Glauco Viazzi (Rassegna sovietica, a. IX, n. 2, marzo-aprile 1958, p. 53) sembra peraltro che questo film sia da individuarsi in II matrimonio dell'orso (Medvezhia svadba) diretto, nel 1926, da Konstantin Eggert su scenario, appunto, di Grebner e Lunaciarski. Sempre secondo Viazzi, Il matrimonio dell'orso in Italia sarebbe apparso anche nelle pubbliche sale col titolo L’ultimo degli Skemmer, titolo che si ritrova anche nella Storia del cinema (p. 135) di Francesco Pasinetti (n.d.r.).

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mazioni di Ettore Lo Gatto, c almeno per pescarvi dentro l’autentica, poesia di Vladimir Maiakovski, del quale, già nel 1929, io mi atten­ tavo a tradurre l’epico inizio di 150.000.000 (Rivista di letterature slave). Ricondotta cosi entro i veri limiti c caratterizzata come avanguardistica, la scrittura di Eisenstein si sarebbe capito che si doveva non prenderla alla lettera, ma con largo beneficio d’inventario: per quell’aria di rifacitore del mondo, quel bisogno di colpire e d’impres­ sionare, quell’apodittica e quel dogmatismo, cui facevano proprio da correttivo la stravaganza, la leggerezza e la pregiudicatezza nei con­ fronti della vecchia e della nuova cultura e le pretenziosità culturali.. Per intenderci: vi immaginate davvero Marinetti talmente «controVenezia passatista» da volerne la distruzione? O che gli artisti di L’ésprit nouveau, che bandirono, nel 1921, un referendum per sta­ bilire se si dovesse dare il Louvre alle fiamme, fossero nella realtà tanto iconoclasti e incendiari quanto volevano sembrarlo? E, a non prendere Eisenstein per un uomo di cultura e per un teorico, adusato ad adoperare le parole c a pesare le parole, non bastava leggere questo Principi della forma filmica e a pescarci dentroa caso e con le molle, le citazioni alla diavola di Manevic e di Kaul­ bach, o di Léger, messo coi suprematisti sotto il segno del lineare, o la puerile analisi della « meravigliosa mobilità delle figure di Dau­ mier e di Lautrec » ? Dopo di che, e si potrebbe continuare a lungo, si stupisce, per lomeno, a leggere su Bianco e nero, a firma Dario Puccini, che Eisen­ stein « ebbe cultura vastissima » (p. 8) e che « era certamente prov­ visto della capacità intellettuale e della preparazione filosofica per intendere il marxismo e la poetica del realismo, ma non per tradurre sempre con serena coerenza le sue convinzioni culturali in altrettante emozioni ed espressioni poetiche » (p. 9); si stupisce che Dattrino • si sia affrettato a tradurre un tal Jan Leyda, che dichiara (ibidem p. 23) che Eisenstein ci ha lasciato con i suoi scritti una eredità « piu preziosa » che coi suoi film. E che altro ci si poteva aspettare, e perché tradurre un autore che, ricordando qualche citazione eisensteiniana da Puskin, da Milton e dal Greco, considera questi artisti, la cui conoscenza è patrimonio comune di tutte le persone civili, come « obliate ricchezze » ? Siamo giunti cosi al limite, alla aberrazione critica del negare:

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l’artista Eisenstein, grandissimo, per sostenere il teorico, inesistent quia talis1. Un altro esempio tipico di quanto sia pericolosa e deleteria 1 ■critica fatta sulla critica e che dimentica i film, ce l’offre, nello stesa fascicolo di Bianco e nero, Glauco Viazzi che si propone di chiarire il « Problema dell’evoluzione di Eisenstein » (ibidem, p. 60). Egl prende l’avvio da una frase di Eisenstein (che andava invece intesi ■col solito grano di sale, come una delle uscite pirotecniche e parados sali del tempo avanguardistico al quale, se non appartiene per data •certo appartiene per spirito) : « È nel Potemkin che ho fatto le pii grandi concessioni al metodo teatrale », e cerca di spiegarla con quante alcuni critici riferiscono della prima attività di Eisenstein, con Meye rhold e nella Proletfytlt, nonché dal titolo di uno dei primissimi •diciamo dunque, manifesti di Eisenstein sul teatro come « montaggi •delle attrazioni ». Certo l’attività teatrale, per la sua labilità, nor si può studiare alla lontana che su referti cartacei: ma non sarebbe stato meglio tradurre quel vecchio scritto di Eisenstein, e magar 1 A proposito dello scritto di Eisenstein Immagine e suono si può notare l'abbandono della forma del manifesto', della vecchia spregiudicatezza e leggerezze restano copiosi esempi, tra cui la tipica sbrigatività con cui a proposito del « sen riero dell'occhio» nelle arti figurative, si citano a casaccio opere appartenenti e •civiltà pittoriche diversissime e spesso opposte; ma qui è lo sforzo di apparire piuttosto sistematico nel razionalizzare gli imponderabili della creazione fantastica: l'accademismo è il pericolo di tutte le didattiche dell’arte e di quella cinematO' grafica in particolare, ed Eisenstein è stato uno dei maestri piu a lungo dediti all’insegnamento, nel WGIX (Scuola statale di cinematografia) di Mosca; dove però, assieme a questi sconcerti, ha portato la forza di irradiazione, stimolante ed •elettrizzante, che è tipica dell’insegnamento dei veri artisti (si pensi alle botteghe dei pittori) e che a me è stata dettagliatamente illustrata dagli appunti e dai rac•conti di una allieva, la signora Dreycr, che insegna sceneggiatura alla WSF (Scuola superiore di cinematografia) a Lodz, in Polonia. Quanto al problema, qui studiato, che è uno di quelli teoricamente piu cari al nostro S. A. Luciani, esso è stato risolto pienamente nei cartoni animati di Walt Disney. Quello che io ne penso l’ho già scritto a suo tempo (cfr. Soggetto e sceneggiatura)'. « la perfetta fusione del visivo col sonoro nel disegno animato nasce... da pura meccanicità: per questi film si incide prima la musica e, dallo schema grafico di essa sulla colonna sonora, si ricava lo schema compositivo dei singoli fotogrammi. Lavoro di pazienza e non di creazione... ed effetto piuttosto curioso che artistico». La conferma di quanto scrivevo si è avuta, qualche anno dopo, in una serie di brani musicali diretti dal maestro Stokovski e accompa­ gnati da immagini di cartoni animati di Walt Dsney che cominciava proprio colla proiezione della colonna sonora, assai meno fastidiosa dei grossolani disegni che venivano dopo.

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integrarlo con la traduzione del solo, che io sappia, scritto di ricordi autobiografici dell’Eisenstein stesso che, ancora nel 1934, quando fu edito, in occasione del Festival per il quindicennale del film sovietico, a Mosca, si intitolava bizzarramente La metà di tre (in Sovietscoe Kino, nn. 11-12, novembre 1934)? Forse Viazzi avrebbe potuto risparmiarsi tutta la sua analisi, sot­ tile fino al sofisma, e fino al risultato, immancabile per queste vie, di sofisticare la realtà, anzi di addirittura capovolgerla, come gli avviene; se pure con la mezza resipiscenza prudente della chiusa: «Ora la soluzione del problema e dell’evoluzione di Eisenstein non va intesa come un radicale capovolgimento delle posizioni della cri­ tica tradizionale... non voglio recisamente affermare che Eisenstein sia completamente realista in Aleksandr Nevs^i e in Ivan il terribile, c davvero completamente formalistico nel Potemkin e in La linea generale... » (p. 67) ma insomma : « Aleksandr Nevs e Ivan il terribile sono assai piu innanzi sulla strada del realismo che il Potembjn c La linea generale » (p. 68). Come è giunto il Viazzi a questa sorprendente affermazione? Per via di sillogismi : il teatro di Meyerhold era teatro eccentrico che ridu­ ceva ad « attrazioni » anche i classici, e, il teatro della Prolettult era il teatro di massa (sul tipo, per intenderci, di La strada della li­ bertà, rappresentato qualche tempo fa al Comunale di Bologna per la regia di Sartorelli e con cinquecento attori sulla scena): questo tipo di spettacolo assomiglia, ovviamente, di più al Potemkin che non Ivan il terribile-, ma Meyerhold è stato, giustamente, criticato come formalista, e la teoria del Proiettali anche, dunque Potemkin e La linea generale sono teatrali e formalistici. D’altro canto, Ivan e, in parte, anche Nevsth visti sotto l’angolo teatrale, sono più vicini al teatro di Stanislavski che non a quello di Meyerhold: e il MCHTA (Teatro dell’arte di Mosca) è stato sempre il tempio del realismo; ergo Ivan e Nevs^i sono opere realiste. Ahi, vanagloria dell’umana possa, quanto son difettosi i sillo­ gismi! Giacché, in questi due sillogismi del Viazzi, non si possono che approvare le premesse, et maiorem et minorem, ma le conseguenze sono sballatissime. Perché? Perché la generale tendenza del teatro d’avanguardia di tutto il mondo era, ai tempi di Meyerhold c del primo Eisenstein, di assimilare i metodi del fortunato rivale e concorrente, il cinema; e chi

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ne volesse saper qualcosa di piu sull’argomento può leggersi (o rileg­ gersi) almeno il primo capitolo di L‘attore nel film di Pudovkin, per quanto si riferisce alle esperienze russe più tarde, e il mio L’attore cinematografico1 per simili esperienze italiane; ed anche certi rab­ biosi giudizi di Meyerhold sul cinema riferiti nelle mie note al volume di Pudovkin2. E, sempre, almeno ab esterno, non è abbastanza elo­ quente il titolo del manifesto teatrale eisensteiniano: Montaggio delle attrazioni? Da dove venivano se non dal cinematografo, quella parola e quel metodo? Il montaggio delle attrazioni di La corazzata Potem­ kin non è che la carozzella cinematografica di ritorno, dopo la scam­ pagnata domenicale (se è vero, come dicono i tedeschi, che tali carrozze passano solo la domenica) nel teatro di Meyerhold, della Proletkult e in quale altro sia. Il formalismo di Eisenstein c piu sulle carte che nelle opere dove ogni fotogramma è di eccezionale pregnanza; e lo dimostra la piana, sufficientemente corretta, in genere, esposizione della « teoria di Eisenstein » che dà, nel fascicolo citato, Aristarco (pp. 51-59); che è una serie di suggerimenti e di proposte di metodi di lavoro che si affermano come tendenza artistica piu che non si unifichino come teoria generale dell’arte cinematografica. E negli scritti di Eisenstein è anche quella tendenza cosmopolitica che gli fu pure, e giustamente, rimproverata c che si appalesa nei sorprendenti accozzi di nomi di artisti e di teorici, l’un de l’autre etonné. Qui sono le gravi manchevolezze di Eisenstein, alle quali va ag­ giunta la incomprensione della realtà dei temi storici, Nevski c Ivan, e peggio del particolare, criticissimo momento in cui si trovava l’URSS e tutta l’umanità, quando egli ebbe a realizzarli. E soprat­ tutto l'incomprensione, o la non capita comprensione, di quanto una società socialista chiede agli artisti del cinema-, anche se i primi film di Eisenstein hanno effettivamente contribuito ad instaurare quella nuova civiltà e ad accreditarla. Questo mi pare il vero senso della critica del Comitato centrale del Partito comunista bolscevico, e questo spiega il commosso e dolo­ roso stupore di quella che è la migliore pagina scritta su carta da Eisenstein, dove pure nella piena e sincera sconfessione dei propri errori, egli tiene giustamente a salvare la purezza delle sue inten­ zioni, nel commovente esordio : « È difficile immaginare una sen1 Cfr. Il film e il risarcimento marxista dell'arte, p. 13 (n.d.r.). 2 V. Pudovkin: L'attore nel film, ed. dell’Ateneo, II ed., 1947, p. 202, nota 6.

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lineila che si perda talmente nella contemplazione delle stelle da dimenticare il suo posto... » l. Per intendere l’evoluzione artistica di Eisenstein e la sua ultima maniera, bisogna tener conto di tutta una serie di fatti nuovi, esterni ma decisivi, che ne sono stati causa: tra questi principalmente l’av­ vento del sonoro e del parlato, le discussioni e le polemiche dei cinea­ sti sovietici, intorno al 1935, il chiarimento e la definizione del realismo socialista. Alcuni di questi fatti, e per lo meno quelli di ordine tecnico, hanno avuto importanza anche sulle cinematografie occidentali: cosi che si sono visti, a poca distanza di tempo, dei film che, poco prima, sarebbero stati impensabili: Amanti perduti, che sembrava rinunciare ad ogni forma di sintesi per dilatarsi in un tempo singolarmente allentato; Enrico V di Laurence Olivier che trasportava sullo schermo con fedeltà, sconcertante nel risultato, la tragedia di Shakespeare; Alle sei di sera dopo la guerra di Pyricv, addirittura parlato in versi, e Ivan il terribile di Eisenstein, dove rimpianto epico dei suoi precedenti film cedeva il posto a una strut­ tura e ad una impostazione di personaggi da tragedia classica. La svolta non era dunque solo di Eisenstein ma di tutta la cinematografia : ed io credetti di doverla segnalare (con una formula che non mi è mai troppo piaciuta, ed ora meno che mai) come terza fase del cinema: e il fatto che molti ne abbiano scritto, e continuino ancor oggi a scriverne, dimostra che era stata colta una situazione carat­ teristica, che doveva pur essere chiarita. Oggi che la lista di quei primi film può essere accresciuta, non solo di Monsieur Verdoux, di Il giuramento di Ciaureli e di Miciurin di Dovgenko, ma di tutta o quasi la nuova cinematografìa sovietica, credo che il punto di par­ tenza che io vedevo comune a quei film possa essere confermato come la nuova strada che il film d’arte sicuramente percorrerà: ed è l’ab­ bandono deliberato del film che si rivolge al subcosciente dello spet­ tatore; l’intenzione degli autori di non stimolare fisicamente o sen­ timentalmente il pubblico, ma di parlare pacatamente alla sua sveglia coscienza. Questa esigenza e questa volontà sono indubbiamente già state altre volte soddisfatte: tutte le volte che il film era giunto ad essere creazione artistica. E in questo senso io avvertivo subito i limiti del1 È l'inizio della lettera ai direttori della rivista sovietica Cultura e vita con cui Eisenstein fece proprie le critiche rivoltegli dal CC del PC (b.) dell’URSS c il cui testo integrale si trova in Bianco e nero, a. XI, n. 1, gennaio 1950 (n.d.r.).

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l’espressione terza fase, che in definitiva voleva dire semplicemente arte del film (cfr. Ancora della terza fase, ovverosia dell'arte del fifa1)E allora? Allora bisogna intendere che il pubblico era il primo ad essere cambiato: non erano i veri artisti del film ad essere inquietanti, anche quando, come Eisenstein, costatavano che i loro film sembravano rivolgersi al subcosciente del pubblico. Era il pubblico, male avvezzo ad una produzione commercialistica, che cercava emozioni brute nei film; e che, via via affinandosi, cominciava a farsi più esigente; cominciava a maturare, a farsi intendere. Come quell’amatore di pittura che, dinnanzi ad una natura morta, non ha piu l’acquolina in bocca e non dice più « belle pere, fanno venir voglia di mangiarle ». Film nati nella fantasia creatrice degli artisti e rivolti alla fantasia del pubblico, cioè film nati come conoscenza e destinati alla cono­ scenza sono dunque tutti i film d’arte (e quelli di Eisenstein tra i primissimi): la sola svolta è nella piena coscienza, sempre più dif­ fusa, che una più elevata esigenza è nata negli spettatori, e nella volontà di coltivarla e di soddisfarla: è nella volontà di creare tutta una produzione in questo senso, tutta una produzione veramente ar­ tistica. Che vuol dire idealmente e moralmente degna: lontana dal vuoto formalismo, dallo spirito c dal linguaggio cosmopolitico, dalle suggestioni soporifere ddVevasione dalla realtà. Uno sprone efficace a riproporre il problema critico dell’opera di Eisenstein ci è offerto dalla recente pubblicazione (nella collana di Studi cinematografici, diretta da Luigi Chiarini, per le Edizioni Boc­ ca) che comprende la sceneggiatura de La corazzata Potemkin e ri­ produce 53 inquadrature della celebre, drammaticissima sequenza della sparatoria sulla scalinata di Odessa. Ai lettori ddVUnità non è necessario ricordare che La corazzata Potemkin, una delle maggiori opere di tutta la storia della cinematografia, è il secondo film di Eisenstein (dopo Sciopero) e fu prodotto nel 1925, in occasione del ventennale della prima Rivoluzione russa, di cui ricostruisce uno dei più significativi episodi, la rivolta, nel Mar Nero, dei marinai del­ l’incrociatore da cui il titolo al film. Si tratta di un’opera singolaris­ sima per tema, soggetto e stile, ma anche e soprattutto per valore artistico, per il suo sovrastare le produzioni cinematografiche, non 1 V. Il film ed il risarcimento marxista dell'arte, p. 191 (n.d.r.).

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solo del suo tempo e del suo paese, ma di ogni tempo e di ogni paese, si che ben pochi sono i film che possono starle vicino per concettosità c per splendore di forma. L’entusiasmo che ovunque ha salutato questo film non s’è intie­ pidito nel volger degli anni e tutta una vasta letteratura critica ne è nata ad esaltare quella geniale creazione del giovane Eisenstein. In che senso dunque, si deve considerare ancora aperto il problema, critico dell’opera di Eisenstein? Un breve esame della recente pub­ blicazione, dovuta alla cura di Pier Luigi Lanza, ce lo indicherà chiaramente. Il testo pubblicato dal Lanza non è il racconto degli avvenimenti del film in forma letteraria e distesa (come gli scenari che, accanto» alle sceneggiature tecniche, destinate agli specialisti, pubblicano dei loro film i sovietici, destinandoli a piu larghi strati di lettori) ma, appunto, una sceneggiatura: un testo cioè in cui l’azione del film è raccontata mediante la descrizione, scritta, delle visioni successive quali appaiono nel film; un racconto suddiviso quadro per quadro (o, con termine tecnico, inquadratura per inquadratura), con l’indi­ cazione delle singole angolazioni (per esempio dall’alto, dal basso, ecc.), dell’ampiezza del campo captato (per esempio campo lungo, o medio, o totale) o del piano (di figura: per esempio figura intera, piano americano, primo piano, ecc.) e con tutte le indicazioni neces­ sarie alla chiarezza, cioè a far intendere gli altri accorgimenti tec­ nici da impiegare nella ripresa. In questo caso si dovrà dire: accor­ gimenti tecnici occorsi alla ripresa, in quanto il testo de La corazzai# Potemkin edito dal Lanza non è dovuto ad Eisenstein ed ai suoi collaboratori, non è una sceneggiatura allestita per la ripresa, ma la sceneggiatura desunta a posteriori, dal film completo. Una sceneg­ giatura precedente la ripresa, de La corazzata Potemkin, non esiste e non è mai esistita, perché Eisenstein, agli esordi della sua carriera di regista, avversava quel metodo di lavoro che comincia con la suddivisione della materia in inquadrature, a previsione dei vari mezzi da mettere in opera durante la ripresa e a previsione della ricom­ posizione finale del montaggio; avversava la sceneggiatura e soste­ neva, per dirla con le sue stesse parole, che « una sceneggiatura, sud­ divisa in tanti numeretti, può dar vita ad un film, quanto i numeri, che li classificano, alla morgue, possono ridar vita ai cadaveri degli annegati ». In quei primi tempi Eisenstein girava senza sceneggia­ tura, cosi come, venti anni dopo, Rossellini.

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La sceneggiatura che pubblica il Lanza Tha dunque scritta lui stesso, desumendola dal him. Testo base la riedizione che, nel 1950, i sovietici hanno fatto a Mosca del Potemkin ( il Lanza ha soppresso alcune brevi interpolazioni a carattere esplicativo, al principio e alla fine del film) completata da poche inquadrature di edizioni pre­ cedenti, colle quali è stata messa a raffronto, e che esistono, di pro­ prietà o in deposito, presso varie cineteche: di Berna, di Londra, di New York; cosi che il Lanza può legittimamente concludere che « questa sceneggiatura non è molto diversa da quella che uno stu­ dioso avrebbe potuto desumere dal film nel 1925 », cioè, praticamente, dall’originale eisensteiniano. Un lavoro di seria filologia (tra l’altro il Lanza dà, col numero dei fotogrammi, la lunghezza di ogni inqua­ dratura) utilissimo agli studiosi del film a controllare i dati del proprio ricordo visivo. E, tuttavia, vien fatto di chiedersi se non sarebbe stato, per avven­ tura, piu utile un racconto letterario tratto dal film. La risposta a questa domanda risponde anche all’altra che sopra: perché è da considerare ancora aperto, in Occidente, il problema critico eisensteiniano? La risposta si trova ovviamente nella consta­ tazione della prevalenza che quasi sempre si è data, nella valutazione critica del grande regista, ai valori formali; e al fatto che questi va­ lori sono stati considerati, non a pienamente cogliere il significato profondo delle opere, ma in sé, come mezzi espressivi, magari anche per riconoscere ed esaltare la novità rivoluzionaria di alcuni di essi. In questo senso, oserei quasi dire che sarebbe stato preferibile un racconto letterario tratto dal film; un racconto che, tenendo per ne­ cessità in non cale i mezzi tecnici del film, avrebbe centrato l’atten­ zione del lettore sullo spirito dell’opera. Ciò non vuol dire che il lavoro del Lanza sia stato un lavoro di Sisifo, un lavoro inutile; anzi sull’altro, che qui gli si contrap­ pone, il suo ha certamente il vantaggio di dare qualche cosa di piu; oltre al montaggio narrativo, anche il montaggio analitico, cioè anche i particolari momenti di quel trapassare del pensiero in poesia, che fa l’opera d’arte. La sceneggiatura può ottimamente giovare, a chi sia tanto avanti, a condurre in questo senso la propria analisi dell’opera di Eisenstein. Ma, d’altro canto, a chi sia ancora fermo alle estetiche dell’arte pura e della forma (e sono ancora in molti) questa sceneg­ giatura dà proprio suggestioni a non dipartirsene; e, cosa ancora

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più grave, la prefazione, sobria e riflettuta, gli suggerisce addirittura spunti e pretesti a nuove indagini formalistiche. Il Lanza, ad esempio, sottolinea il fatto che, contrariamente a cpianto si è affermato, in questo film esistono movimenti di macchina (carrellate e panoramiche). Ma questa sottolineatura di un certo nu­ mero di tali movimenti non altera la verità sostanziale del parco uso che Eisenstein, c in genere anche gli altri registi sovietici del muto, hanno fatto di questo mezzo tecnico. Nei film successivi di Eisenstein, per esempio Ivan il terribile, carrelli e panoramiche sono molto piu frequenti che nei precedenti. Altra questione di lana caprina sulla quale il Lanza si sofferma c quella della teatralità o meno de La corazzata Potemkin; una questione che non sarebbe mai sorta senza la stramba e stupefacente asserzione di Eisenstein : « È nel Potemkjn che io ho fatto le piu grandi concessioni al metodo teatrale ». Confortato da questa dichia­ razione (che il regista ha fatto probabilmente per ragioni polemiche a sostegno delle fumisterie avanguardistichc del teatro di Meyer­ hold, col quale egli aveva lavorato) il Lanza sostiene che «il reali­ smo di questo film, per il quale molti non hanno capito la frase di Eisenstein, è il riflettersi (dialetticamente) nel montaggio, di una realtà (già interpretata nell’enunciazione del tema ed in sede di ripresa) al ài sopra di ogni considerazione naturalistica... Tutto il film è punteggiato di piani di speciale valore, vere attrazioni, me­ todo prettamente spettacolare, teatro ». Sillogistica che a me sembra basata su passaggi di parole, con diverse accezioni, la cui oscurità non basta a nascondere la sofistica assurdità. Se si vuol avvicinare al teatro l’opera di Eisenstein bisogna farlo solo in un senso: cioè nella constatazione del sempre più lato e pieno abbandono, da parte del regista, degli effetti; l’abbandono di quei mezzi del cinema piu propri a produrre, nel pubblico, sensa­ zioni ed emozioni brute, più che emozioni estetiche e pensieri; il ripudio, almeno de factu, del film inteso come un tempo Eisenstein l’intese « un passaggio dall’idea all’immagine e dall’immagine al subcosciente dello spettatore ». Eisenstein (e qui è il suo più vero progresso artistico, che gli fu facilitato dalle discussioni del ’35, dalle risoluzioni e dalla critica da parte del Partito comunista dcH’URSS, a cui fu sottoposto per il suo Ivan il terribile), nelle sue ultime opere, sempre più pienamente adoperò il film per parlare alla coscienza di



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spettatori coscienti c non per stimolare piacevolmente il subcosciente di un pubblico fannullone. Béla Balazs (uno dei pochi che abbia scritto sui film di Eisenstein con profondità degna dell’argomento) ha raccontato» in una sua con­ ferenza, che una volta fu fatto notare ad Eisenstein che i lastroni di ghiaccio di una scena che egli stava girando, portavano ancora, ben visibili, i numeri con cui erano stati contrassegnati per la costruzione dell’ambiente; c che Eisenstein rispose che la cosa non lo interessava affatto, che non gli importava un fico secco che quei numeri potes­ sero vedersi alla proiezione. Eisenstein pensava, io credo, ad un pubblico convenuto a vedere il suo film non per farsi suggestionare e ipnotizzare, ma ad un pub­ blico capace di accettare una convenzione spettacolare evidente (cosi come avviene sempre in teatro) e capace di richiedere al film non piacevoli, illusorie ed estenuanti sensazioni, ma conoscenza ed idee, cioè godimento artistico vero e proprio. In questa considerazione del film, e dell’arte in genere, come fatto conoscitivo, concordano tutti i cineasti sovietici. Ed una nuova, piu argomentata, documentata ed efficace affermazione se ne ha nel bel saggio di Sdan sul film scientifico-popolare \ che pubblica nel suo primo numero la rivista Cinema sovietico : una pubblicazione che informa criticamente di quel molteplice, complesso e grande fe­ nomeno artistico che c il film sovietico.

Vedremo prossimamente l’ultimo film, Ivan il terribile, di S. M. Eisenstein che, con Pudovkin, Room, Kulesciov, Dovgenko, è uno dei creatori della cinematografia sovietica. I suoi film, cui il fascismo vietò l’ingresso in Italia (se si eccet­ tuano i frammenti, manomessi da Guido Milanesi, di Lampi sul Messico), sono poco noti a noi, dove però hanno avuto qualche diffusione la sua teoria e la sua tendenza artistica che si possono sintetizzare nell’esigenza di un cinema cinematografico e nella forma di un rea­ lismo ispirato ma costantemente controllato da una vigile autocoscien­ za critica. Idee e tendenze cui Eisenstein ha dato forma in una serie di scritti di cui il piò importante, Principi della forma cinematografica definisce il film la rappresentazione di un conflitto in una idea sotto­ lineandone la potenza suggestiva in quanto diretto passaggio dall’im1 Cfr. V. Sdan, Il documento scientifico, in Cinema sovietico, a. I, n. 1» settembre-ottobre 1954 {n.d.r.).

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magi ne al subcosciente dello spettatore; a questo primo scritto hanno fatto seguito altri non meno importanti: il manifesto sull’asincronisino (elaborato, all'apparire del sonoro, assieme a Pudovkin e ad Aleksandrov) che, nella generale incomprensione delle possibilità del nuovo mezzo di cui si arricchiva il cinema, indicava le vie di un artistico impiego di esso, la dissociazione dei suoni e delle parole dalla visione della loro fonte (per esempio: qualcuno parla, si continua a sentirne la voce mentre sullo schermo si vede solo l’ascoltatore e la reazione espressiva che le parole provocano in lui); un saggio sulla sceneggiatura, che sostiene l’inutilità di questa previsione del futuro film e dei mezzi tecnici e artistici con cui realizzarlo, e le contrappone la novella cinematografica, intesa come « la narrazione concitata che farebbe uno spettatore dopo la visione del film » che ha il vantaggio di non vincolare la libertà di ispirazione dei realiz­ zatori. In una conferenza tenuta alla Sorbonne, Eisenstein ha soste­ nuto il cinema senza attori, cioè l’impiego di elementi occasionali, non professionisti ed ha illustrato i metodi del lavoro, in questo senso, de) regista c i risultati da lui stesso ottenuti. I principali film di S.M. Eisenstein sono Sciopero (1925), La co­ razzata Potemkin (1925), Ottobre (1927), Romanza sentimentale (1930), iMmpi sul Messico (1933). Ultimamente ha diretto Aleksandr Nevsì^i. Quello che ha avuto piu successo e risonanza e che, senza dubbio,, resta a tutt’oggi, la sua opera migliore è La corazzata Potemkin, rico­ struzione della rivolta dei marinai nel 1905 a cui si uni, solidale, il |x>polo di Odessa. Un’opera stupenda che tutti i cineasti del mondo hanno studiato come uno dei pochissimi, autentici classici della cinematografia. S. M. Eisenstein lo conoscevamo da anni, e lo riconoscevamo a colpo sicuro, dalla totale sua dedizione al tema del film, dai vibrati etico di Chariot che egli costringe, senza sforzo apparente, nel* repertorio delle allegre pagliacciate del circo c del music-hall. La sua grandezza come regista c come attore sta tutta in questa grandeconcretezza unitaria. Mai una contraddizione, mai un’uscita arbi­

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traria, nonostante la paradossalità delle vicende e la rarefatta mec­ canicità delle sue trovate. Ogni particolare ha un obiettivo preciso e coglie nel segno. Per vie piane e piacevoli si giunge e si oltrepassa insensibilmente la soglia della grande arte. Chi consideri i suoi film non può che stupirsi della evidente anticinematograficità di Chariot, ed infatti l’osservazione non è piu inedita ed è quasi diventata un luogo comune. Da che deriva questa strana caratteristica e come può coesistere coll’arte riconosciuta del Nostro? La risposta è più semplice che non si creda: Chariot è un individualista oltranzista e la sua posizione di fronte alla realtà non gli permette quell’impiego della macchina da presa — vicina c vicinissima — che solo chi crede nella vita c l’ama può avere. Per di piu Chariot è il soggettista, lo sceneggiatore, il gagman, il regista c l’attore dei suoi film. Il suo processo creativo non c quello normale del cinematografo: egli è solo ■e i suoi mezzi eccezionali gli hanno permesso di restar solo. Può seguire la sua ispirazione liberamente, può essere poeta senza Tinte* grativa qualità, indispensabile ai cinematografari, dell’autocritica costante. Fenomeno isolato c quasi unico, ha fatto del grande cinema ri* nunziando ai mezzi del cinema. Ed in questo suo ultimo film ha rinunziato naturalmente a rinnovarsi col rinnovamento della tecnica cinematografica. Il pubblico non lo ha seguito collo stesso entusiasmo. 11 pubblico cinematografico è, come si dice, abituato al parlato c non vuol più saperne di film muto; è vero forse solo fino a un certo punto. Certo, il film è apparso arcaico, come sciatto e mal rifinito, ma il segreto del suo relativo insuccesso non è li che va cercato. Tempi moderni è un’opera polemica, un’opera di critica serrata e cosciente; ora il film in quanto prodotto collettivo esige sempre una autocoscienza critica nei suoi creatori. Ma Chariot costituiva una eccezione, Chariot era l’ispirato Chariot, unico autore dei suoi film, artista spontaneo che quasi non sapeva lui stesso quello che faceva, che non conosceva la portata e i limiti della sua arte. Ed in un film come questo ho mostrato la corda. Per quanto egli sapesse bene quello che voleva dire, anzi data la sua personalità artistica, proprio perché sapeva bene quello che diceva, Chariot ha distrutto stavolta la continuità del film, continuità che qui esiste allo stato di intenzione, ed è anzi comprensibile più che in tutte le sue opere precedenti, concettualmente: ma ha perduto la continuità stilistica. U suo grande discepolo, affetto e bacato dalla stessa concezione anti*

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cinematografica, René Clair, certo assai piu intellettuale e autocri­ tico di Chariot, sa partire da un dato reale per assottigliarlo fino al piu astratto surrealismo; Chariot, artista spontaneo, costretto in questo film alla polemica, mescola il gag stupendo del cantiere — ironia perfettamente in tono col generale contenuto del film — alla morte del padre della ragazza e ad altre scene che stanno li come inela­ borati pezzi di natura e, per il loro realismo, non connettono colla deformazione lirica delle altre parti. Ahi, che nella polemica il pubblico ha creduto di riconoscere il trucco! E non c’era. Con un’opera piu cinematografica delle prece­ denti Chariot s’è tradito, s’è mostrato uomo e non più artista. E noi dell’uomo non volevamo saperne, se avesse lui o le sue molte mogli ragione, se fosse davvero un avaraccio, un egoista, un vigliacco, come molte indiscrezioni lasciavano supporre. Affari suoi. L’artista era importante, l’uomo non interessava. Oggi, nell’opera, è com­ parso l’uomo, e non più solo ispirato ma ragionante. E i conti di quel ragionamento non son tornati al pubblico. L’artista, per il quale sembrava quasi non ci fossero metri, con quest’opera, bella tuttavia e non indegna del vecchio glorioso Chariot del conte, deìVorologiaio, delle rotelle e della strada della paura, ha mostrato i suoi limiti. Anche se non concettualmente, sentimental­ mente almeno tutti li hanno sentiti. Dovrebbe ora esser chiaro, attraverso la lezione di questo grande attore e grandissimo regista, l’impossibilità dell’individualismo cine­ matografico. Un grande capitolo della storia del cinematografo, quello isolato ed eccezionale di Chariot e di René Clair, è forse chiuso per sempre.

Di tutti gli aneddoti, più o meno autentici, che circolano su Char­ iot nessuno, per me, è Canto significativo quanto la storia, inventata, credo, da lui stesso, del suo primo amore. Ragazzo, Chariot era in un circo equestre e possedeva un tesoro — una ciabatta che gli ave­ vano detto fosse stata di Napoleone a Sant’Elena — una vecchia e sudicia ciabatta che esalava un odore disgustoso c su .cui era facile fantasticare: disfatta, disfacimento, disperazione, Waterloo... Un giorno ('harlot è in un cantuccio dietro le quinte ad ammirare col fiato sospeso le pericolose evoluzioni a) trapezio di una bella ragazza di vent’anni più vecchia di lui; l’esercizio termina, la ragazza gli pre­ cipita come un bolide accanto, ansante, sudata, sorridente; le gettano

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addosso un mantello, scrosciano fuori gli applausi del pubblico, tol­ gono il mantello di dosso alla donna che esce di corsa, ringrazia, rientra di corsa; di nuovo le gettano addosso il mantello. Chariot guarda con grandi occhi ammirati; la ragazza lo vede, spalanca il mantello c « abbracciami » ordina sorridendo. Il piccolo si lancia perdutamente in quel mare di carne accaldata; il mantello si chiude ed egli, stretto in un abbraccio potente, sente — fortissimo e dispe­ rante come non mai — l’odore di Waterloo. Questo senso di disfatta e di decomposizione rimarrà per Chariot indissolubilmente legato all’idea dell’amore. Una storiella un po’ poetica e un po’ cattiva, un po’ audace e un po’ ingenua, un po’ sorridente e un po’ triste. E cosi son tutte le storie raccontateci in film da questo grande artista, da questo indi­ vidualista anarchico e disperato. Un simile senso di piccolezza c di disfatta, di perdizione e di disperazione, c costante in Chariot, anche di fronte alla società: e la sua origine è questo complesso di inferiorità dinnanzi all’amore. Ce lo dicono tutti i racconti e i poco edificanti pettegolezzi sui suoi amori, sui suoi matrimoni, i suoi divorzi, i ricatti e i processi. Ce lo dicono, con la gravità di un’accusa circostanziata, i ricordi di May Reeves, trascritti con così degna scrittura da Claire Goll; e lo dicono soprattutto i suoi film, poemi e inni all’irraggiungibile eterno femmi­ nino. La donna, idealizzata e angelicata, non può mai essere del vagabondo diseredato, ma sempre di altri, piu giovani, piu belli, piò eleganti, più ricchi. Il povero innamorato non può che amare, so­ gnare, sacrificarsi. Quando, come in Tempi moderni, la donna si decide a seguirlo, nel finale stupendo, già dopo i primi passi si stacca, si ferma, piagnucola: il film finisce cosi ma tutti già sanno che tra poco Chariot sarà nuovamente solo. L’imposizione esterna non è riuscita a rischiarare il suo mondo. A questo complesso d’inferiorità charlottiana, a questa sua fatale solitudine, un critico ha dato il nome di una delle sue prime partenaires: complesso di Edna Purviance. Anarchico sentimentale e intellettuale, Chariot si è condannato alla solitudine e la sua forza come artista è la critica e la condanna spietata, che in ogni suo film trova nuovi motivi e nuova efficacia, della società borghese. Vane le aspirazioni ideali : oggi la sua asocia­ lità non si placa (come ne II monello') nel sogno di un’umanità para­ disiaca dove anche ai bambini ed anche ai poliziotti siano spuntate

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ali d’angelo. Oggi {Monsieur Verdoux) anche il possesso dei beni della terra e della donna sono povera cosa. Chariot fuggiva alla vista dei poliziotti: oggi i poliziotti tremano dinnanzi a lui; le donne ridevano di lui ed oggi se lo contendono, lo amano, lo temono, svengono al suo apparire. Ma il mondo, esteriormente capovolto, non cambia. Nulla vale nulla: e Verdoux si fa condannare. Come un suicidio. Che resta in questo nulla pauroso? Una grande opera d’arte, tra le più alte di Chaplin. In cui il suo talento di regista supera perfino quello di attore come già si dimostrò, a suo tempo, nel perfetto Una donna di Parigi. E resta quello sguardo freddo e implacabile a denun­ ziare le miserie e le ignominie di una società senza giustizia. Resta una lezione solenne, per chi la intenda: il fallimento di ogni indi­ vidualismo, la necessità e la fatalità di una civiltà collettivistica. Le nostre tesi si dimostrano dunque anche per assurdo. E Chariot, involontariamente, indica anche lui la via da seguire: la via del comuniSmo.

Una delle più gustose e delle più celebrate situazioni del film Luci della città, che in questi giorni riprende un trionfale giro di programmazioni in Italia, può valere come chiave per una esatta in­ terpretazione del mondo morale e poetico di Charlie Chaplin. È la scena in cui il vagabondo Chariot salva dall’acqua il milio­ nario e l’incoraggia a desistere da propositi suicidi, perché la vita è bella, perché « domani canteranno gli uccellini ». Ma il gesto peren­ torio e sproporzionato, con cui il piccolo Chariot accompagna queste parole di enfasi enorme, battendosi il petto, gli rompe in una gra­ gnola di colpi di tosse, finché il salvatore stesso non inciampa e finisce anch’egli nell’acqua. Perché l’opera di un artista dica ciò che noi vorremmo, se chie­ diamo ragionevolmente la verità, e se essa è veramente un’opera d’arte, non ci è necessario forzarla: per la semplice ragione che essa la verità gzà la dice per il solo fatto di essere un’opera d’arte. L’arte non può esser bugiarda. Il modo più comune di forzare un’opera, da parte della critica, è quello che consiste nell’interrogare l’artista invece dell’opera; senza tener conto che tra ciò che dice l’artista c ciò che dice la sua opera può esistere, come spesso, un profondo divario. Lasciva nobis pa­ gina, sed vita casta non è però il motto dell’artista; il motto del­

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l’artista è, semmai, l’inverso. Giacché a noi la sanità o meno dell’artista non interessa, se non subordinatamente, mentre ci interessa, e moltis­ simo, la sanità dell’opera. Che un artista abbia del mondo una con­ cezione falsa non preclude alla sua opera, se essa è un’opera realista, cioè un’opera d’arte, di esprimere la concezione giusta e vera. E questo è il grande merito del realismo, cioè dell’arte, quale lo indicò chiaramente Engels, in una lettera famosa che c il cardine primo dell’estetica moderna. Ottimismo e solidarietà umana esistono nella coscienza di Cha­ plin ma non esistono nel mondo di Chariot. Nel mondo del mecca­ nicismo capitalistico non c’è posto per questi sentimenti e se essi vi compaiono sono destinati irrevocabilmente all’insuccesso e al falli­ mento. Nella società divisa in classi non c’è luogo né per la giustizia né per la felicità. Il realismo di Chaplin è, e resta, dalle prime brevi comiche a Luci della ribalta, realismo critico. Esso vale per l’assolutezza della sua condanna di tutto un mondo, per l’evidenza, mai smentita, con cui nc rappresenta la intollerabilità, per la spinta fortissima che ne viene allo spettatore, a fare qualche cosa. Anche se a Chaplin sem­ brasse che non c’c nulla da fare. Uno scrittore nazionalista francese, Henri de Monthérlant, e uno scrittore cattolico, René Schwob, hanno negato la grandezza artistica di Chaplin. Eppure la legge del piu forte, che Monthérlant pone a base della sua concezione del mondo, Chaplin non nega che esista; essa, nel mondo di Chariot, è tanto reale e conosciuta che è quasi noioso ripeterla o sentirsela ripetere; tanto che, nella capanna in bilico sul precipizio, de La febbre dell’oro, è il grande e grosso Giacomone che sale sulle esili spalle di Chariot, non il contrario. I due sono amici c il fatto avviene naturalmente come cosa ovvia e fuori di discussione. Ma se questo è un tratto di tragica realtà non è certo la lezione e il sugo dell’opera. Monthérlant non si lascia ingan­ nare: e per lui la nostra è un’epoca imbelle e meschina, tanto è vero che può scambiare per artista un miserevole « pitre de cinema nommé Chariot ». I film di Chaplin non hanno lieto (ine: sembra che non possa esserci felicità in terra; e per dire quelle opere anelanti la trascendenza non sarebbero neppur necessarie le acrobazie con cui Padre Morlion cerca di dimostrare che i film sovietici anelano la trascendenza. E

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non sarebbe vero. Ma il cristiano René Schwob non ci cade, egli respinge il messaggio di Chariot, lo nega anche come arte. Invece, nonostante il suo anarchismo disperato, i film di Chaplin sono salutati come grandi opere d’arte da coloro che vogliono un mondo migliore e piu felice. Ed è giusto, perché tutti i film di Chaplin, attraverso la critica spietata del mondo capitalistico esprimono l'esi­ genza di un mondo nuovo. Maggior ottimismo non si può chiedere né si deve attribuire all’opera di Chaplin, se non quello che nasce, per reazione, dalla rappresentazione veritiera, che egli ci dà, della spietatezza del mondo capitalistico. Di quel mondo che innalza monumenti alla Prosperità c che lascia che all’ombra della goffa statua bugiarda dorma l’affa* mato senza-tetto Chariot. Mondo crudele in ogni sua manifestazione, nel macchinismo di Tempi moderni (la macchina per mangiare!) e nella fredda ragioneria del delitto di Monsieur Verdoux. Nel finale leopardiano del Pellegrino, che si c battuto ingenuamente e leonina­ mente per difendere quel gretto miserabile mondo piccolo-borghese, che ha rappresentato con tanta severità da non salvarne neppure i bambini. Tutti uguali i finali di Chaplin : anche se considerati este­ riormente possono sembrare diversi. L’addio di Chariot alla cicca di Luci della città, ora che lei ha acquistato la vista c che quindi ogni loro sogno è impossibile; la ricca pelliccia non aderisce al corpo, mingherlino del patetico e bizzarro cercatore d’oro nella chiusa della febbre dell'oro', dalla lussuosa vettura che lo porta nel mondo lontano dei ricchi (Il monello) Chariot volge uno sguardo pieno di nostalgia verso il quartiere della miseria; sc Paulette Goddard l’accompagna per la strada solitaria c interminabile — che è poi quella stessa del­ l’ultima scena del Circo — in Tempi moderni, dopo pochi passi si ferma c comincia a frignare. Chariot resterà solo. Non è sottoscrivibile lo schematismo critico che pretende far enunciare in tutte le lettere a Chaplin ciò che i suoi film non possonoche suggerire. Non è giusto farne un campione della solidarietà umana, dello slancio virale, della lotta per un mondo migliore. Per comprenderlo e amarlo, come il grande artista che egli è, non ci c necessario falsarlo: egli è dei nostri per l’inflessibilità con cui denuncia l’intollerabilità della condizione umana nella società divisa in classi. Questa è la sua arma di lotta ed è un’arma efficacissima. Nessun artista esaurisce i compiti dell’arte. Altri verranno, anzi già esistono che, per vivere in una società diversa e migliore, possono»

cr l’Europa. Il film, piu ricco di trovate nella prima parte diviene, nella se­ conda, bellissima, piu sostanzioso e umano, terminando infine con accenti addirittura strazianti. È una delle piò impegnate e, a me Membra, una delle migliori opere di Chariot. £ un invito a riflettere, specialmente per tutti coloro che scam­ biano per limiti del film quelli della loro miope veduta, mal guidata «la conformistici paraocchi. ('erto i limiti di Chariot esistono, da sempre, e sono sempre gli stessi fin dai suoi primissimi film. Essi dipendono dalla sua forma mentis di individualista anarchico (e chi scrive non ha certo aspettato questo film per indicarlo apertamente), forma mentis che, mentre lo

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porta a denunciare le drammatiche assurdità e ingiustizie della vita sociale, non può fargli vedere con altrettanta chiarezza le vie per uscirne. Che certo non se ne può, purtroppo, uscire per la via della commozione partecipe e della sola bontà. Il messaggio di Chaplin è cosi tronco; e da ciò, poiché materia e idea, nell’arte determinano ed anzi in un certo senso, sono esse stesse la forma delle opere, anche i modi del racconto cinematografico di Chariot, che si è spesso defi­ nito anticincmatografico, senza spiegarsene il perché. Un discorso su cui occorrerà tornare. Quello che qui importa è la grandezza artistica della denuncia di Chaplin. Una grandezza che Un re a New Yorì^ conferma piena­ mente *.

1 Sul film di Chaplin, B. ebbe poi occasione di tornare, in una noticina po­ lemica, intitolata Chaplin e i critici, che qui riproduciamo: « Il grande avvenimento cinematografico della pubblica presentazione, in Italia, dell’ultimo film di Charlie Chaplin va molto oltre l’interesse stagionale, perché Un re a New York è sicuramente una delle più alte e importanti crea­ zioni di tutta la storia della cinematografia. Il boicottaggio, organizzato dall'alto, di quest’opera bella e generosa, non è riuscito a limitarne il gran successo di pubblico e sembra aver dato i suoi poveri frutti riflettendosi unicamente nelle troppe riserve, a strologare le quali si è affaticato miserabilmente lo scarso acume della critica dei tartufi. E, si badi, non è neanche del tutto vero che si tratti, ovunque, di conformismo e di servilismo: nella maggior parte dei casi si tratta semplicemente dell’esplicarsi naturale dell’incapacità costituzionale ad un giudizio retto e indipendente dei fatti dell’arte. « Nella carriera artistica di Charlie Chaplin ogni suo progresso suole apparire, ad un superficiale esame, un regresso; e tanto più sconcertante e deludente quanto più è vasto e profondo. Ciò doveva inevitabilmente avvenire anche per Un re a New York che è, probabilmente, il punto artisticamente più alto raggiunto, finora, dal suo grande autore. Al più approfondito mondo morale e alla più ricca sostanziosità di questo film, rispetto ai precedenti, corrisponde, infatti, come non poteva non avvenire, una più perfetta costruzione e un più perfetto equilibrio: una semplicità, classica e solenne, di racconto. Invece questa semplicità è apparsa stentatezza e la struttura compositiva, evidentemente diversa da quella che ci si attendeva, è sembrata viziata di discontinuità, disuguaglianza e sproporzione. Miopia assai mortificante per la nostra cultura cinematografica. Ma lo sconforto è largamente compensato dall’entusiasmo con cui il pubblico (sempre più intelli­ gente e migliore di quanto non si dica) ha accolto questo grande film » (n.d.r.).

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Sull’arte di René Clair, che tra i registri cinematografici di primo» piano è forse il piu diffusamente riconosciuto e apprezzato, grava tuttavia il peso di più di un equivoco che, se pure non ne falsa in foto il giudizio complessivo e generico, a palle nere e palle bianche, certo ne ostacola la piena comprensione. Si è, soprattutto, assai esagerato circa la portata e il senso del suo avanguardismo, a documentare il quale si sono a volte chiamati ’I due saggi su Clair qui riprodotti, insieme alle recensioni (apparse su Vie nuove) a due film del regista francese, sono entrambi, se non completamente, parzialmente inediti. Il primo, rintracciato dattiloscritto tra le carte di B.. privo di qualsiasi indicazione circa l’epoca della sua stesura, si può datare, sulla base di alcuni chiari riferimenti del testo, intorno al 1939, anno della prima edi­ zione italiana del libro di Seton Margrave Come si scrive un film. Se, quando e dove questo saggio sia già stato pubblicato, per quante ricerche abbiamo fatto, non ci è stato possibile stabilire; né di esso abbiamo trovato — o forse non siamoriusciti a trovare — traccia nelle varie bibliografie su Ciair. In ogni modo ritenintno che — almeno nella presente stesura — esso sia inedito. La copia del datti­ loscritto originale presentava, infatti, numerose varianti, cancellazioni ed aggiunte,, di pugno dcll’A., apportate — è lecito presumere — in vista di una eventuale nuova utilizzazione poi probabilmente non effettuata. Per quanto riguarda il se­ condo saggio, d consta personalmente che esso avrebbe dovuto costituire la « voce » René Clair di una enddopedia del cinema che un editore romano avevaluicnzionc di realizzare intorno al 1946. B. aveva approntato questa scheda ku Clair insieme a numerose altre di registi e attori, mai pubblicate per l’accan(oiHimcnto dell’iniziativa editoriale. Di esse non è stato possibile il ritrovamento, (.invila su Clair fu da B. consegnata, in copia, al curatore del presente vo­ lume per il controllo di alcuni dati. Lo scritto è, dunque, nella sua integrità, inedito. In gran parte però B. lo utilizzò per un articolo pubblicato su l'unitidel 31 ottobre 1946 (n.d.r.).

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in causa i suoi, non importantissimi, esordi letterari, e i suoi contatti personali coi gruppi artistici d’avanguardia. E nel mondo cinema­ tografico, che, salvo qualche nucleo particolarmente agguerrito, per le cose della cultura, anche contemporanea, è morto e sotterrato, i •cortimetraggi di Rene Clair si definiscono abitualmente come surrea­ listici. Classificazioni di questo genere, a parte il noto ed indubbio limite che implicano, abbisognano di un’attenta e puntuale revisione, non facilissima a distanza, mancando quelle dirette informazioni «che faciliterebbero grandemente la formazione di una chiara imma­ gine nella quale riassumere e precisare il mondo poetico dell’artista ■e la sua stessa personalità. Come è noto, il periodo di massima espansione e diffusione dei movimenti artistici d’avanguardia e il massimo di scambi di pub­ blicità e di esaltazioni reciproche coincide con il dopoguerra; quando .appunto il Clair esordiva come letterato e giornalista. L’avanguar­ dismo post-bellico francese e mitteleuropeo, è fatto di spiriti ama­ reggiati, tormentati, pieni di rancori e animati da tendenze distrut­ tive — specie nel gruppo surrealista, in cui si colorò anche di sensi sociali e politici — diversissimo per temperamento, dal futurismo italiano, di cui pure adottò i metodi e i sistemi fancamente reclami­ stici da tempo inaugurati da Marinetti. Mentre, Marinetti è, per ■costituzione e tendenze, un dannunziano ottimista attivista egocen­ trico sensuale puro, gli altri erano interiori riflessivi esausti c tenden­ zialmente piu o meno collettivisti. E se Marinetti, per puro autore­ clamismo e con una sublime indifferenza e leggerezza, era, ed è ■tuttora, disposto a qualificare suo «grande amico e genio tipicamente italiano » qualsiasi persona pronta a dichiararsi futurista, altrettanto facevano gli avanguardisti del dopoguerra, in odio e disprezzo per quella civiltà che si era conclusa con gli orrori della guerra. Cosi, se si pensa alla grande solidarietà internazionale e alla massima frequenza di scambi esistenti tra i vari gruppi d’avanguardia e anche tra i singoli artisti di ogni paese, se si pensa che ogni periodico portava lunghi elenchi di riviste internazionali con i nomi di diret­ tori, redattori e collaboratori, che in base a questi elenchi si organiz­ zavano le esposizioni d’arte nelle piu diverse città del mondo, che non si guardava per il sottile nell’attribuire la qualifica di avan­ guardista ad un artista e che, insomma, i movimenti erano organiz­ zati in maniera violentemente propagandistica, il fatto che in tutta questa pubblicistica il nome di René Clair non sia mai comparso

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dimostra che la sua opera letteraria ha avuto un’importanza piuttosto limitata. È molto probabile che Clair non abbia propriamente aderito a nessun gruppo o movimento artistico, per quella ritrosia che era allora comune a molti; e che li abbia semplicemente frequentati con simpatia e curiosità. Il fatto che egli, nel 1924, abbia realizzato un film tratto da Les mariés de la Tour Eiffel di Jean Cocteau, dovrebbe provare una intimità abbastanza stretta con quello che cominciava ad essere un esponente singolare dell’avanguardismo francese. In sostanza, mentre non abbiamo informazioni dirette per dichia­ rare quale sia la precisa posizione dei primi anni giovanili di attività letteraria del Clair, ci sembra che egli fosse piu degli altri distaccato, più schivo dispregiatore di notorietà e dei metodi usati per ottenerla c immaginiamo che, stretto dal bisogno, piuttosto che prostituire la propria arte, di cui un temperamento cosi chiuso e intellettualistico doveva avere un’altissima idea, abbia preferito fare l’attore cinema­ tografico. Probabilmente con lo stesso animo con cui si sarebbe messo a vendere le sardine. In un primo momento, pare, egli è ricorso al cinematografo come a un comodo guadagnapane, altrimenti avrebbe sicuramente teoriz­ zato nella nuova arte, come facevano molti intellettuali in quegli anni, in cui — iniziatore Picciotto Canudo — s’andava creando l’este­ tica dei film. Il passaggio da attore ad aiuto regista mise Clair a contatto con un caratteristico esemplare di letterato cineasta, tipo Luciano Zuccoli, Jacques de Baroncelli; il quale è rimasto nella storia del cinema per il suo La femme et le pantin (tratto dal romanzo di Pierre Louys)1, che doveva essere poi — con ben altre intenzioni — rifatto da Stern­ berg in Capriccio spagnolo. Siamo nel clima del cinema a tendenza letteraria e — in definitiva — sempre nell’orbita dannunziana (con i personaggi atteggiati a « fiera » a « bell’animale » ecc.) come il solo nome di Pierre Louvs ci conferma; e naturalmente, come sem­ pre, è la Spagna di Carmen che fa le spese del sangue, della voluttà c della morte. Anche Delluc, nonostante la sua ammirazione per il cinema americano e per le prime tendenze verso un cinema cine­ matografico, aveva scritto e realizzato La féte espagnole e i Drames 1 Può essere di qualche interesse ricordare che, dal romanzo di Louys, ha tratto, nel 1958, un film (Femmina) anche Julien Duvivier (n.d.r.).

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de ànima che sono, più o meno, tutti esotizzanti e dannunzieggianti. Ci piace immaginare che Clair sia stato un lungo periodo a fre­ quentare l’ambiente cinematografico, avendo evidentemente a dispo­ sizione pochi metri di pellicola e pochissimi mezzi. Probabilmente in quegli anni avrà collaborato a soggetti e sceneggiature: è già stato reso noto il fatto che il soggetto già tardo di Miss Europa (che rimane, checché si voglia dire, il piu bel film di Genina) è di Clair. Anche se non si vuol credere quello che noi immaginiamo, — che cioè il cinema francese, essendo in mano, più o meno, a dei pompieri dell’intelligenza, René Clair vi avesse una posizione in sottordine e dovesse conquistarsi a fatica la concessione di qualche centinaio di metri di pellicola — bisogna pur dire che i suoi primi film non hanno intendimenti artistici, pur essendo assai attraenti e svelando una personalità cinematografica spiccatissima. Sono, piuttosto, film nei quali è evidente la volontà del regista di conquistare il linguaggio del cinematografo, contro il cinema teatrale e letterario che aveva trionfato durante la guerra in Francia e in Italia e che, riapertisi i mercati e riapparsi i film americani con Douglas e i westerns, creò una situazione di grande disagio. Clair non sarà mai più orientato altrettanto che in questi suoi primi film, verso un cinema che impieghi sperimentalmente tutti i suoi mezzi espressivi; infatti — volendo anticipare un giudizio com­ plessivo — per quanto il suo non sia certo un cinema letterario, come quello in cui ha esordito come attore e aiuto regista, rimane pur sempre un cinema intellettualistico. Sembra che in questi primi film ci sia da una parte la volontà di conquistare un mestiere e di saggiarne le possibilità, dall’altra una certa ironia e quasi una sfiducia che si riversa sul mestiere stesso: ed essi non sono, a ben guardare, che un pretesto per elencare, esem­ plificandoli, i mezzi espressivi tipici del cinematografo, soprattutto quelli di uso meno comune come la marcia indietro, l’inserto di foto fisse, l’acceleratore, il rallentatore, le sovraimpressioni, lo schermo tripartito e chi più ne ha più ne metta. René Clair ha scelto come soggetto del suo primo film di grande impegno e di metraggio normale (Il cappello di paglia di Firenze, 1927) una farsa di Labiche: questa scelta, non essendo certo casuale, è altamente indicativa della sua posizione: una farsaccia si nobilita attraverso i mezzi espressivi specifici del cinema; d’altra parte la farsa, l’ironia ecc. rappresentano, senza bisogno di citare Croce, il distacco,

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il disinteresse di fronte alla materia, e, in fondo, il modo di nascondere l’intenzione di un personale intervento c di un giudizio morale. Tuttavia, pur essendo partito da questo bisogno di « nascondersi » e pur avendo dovuto scegliere un soggetto la cui commercialità fosse sicuramente comprovata, la sua più vera e intima umanità si mani­ festava ugualmente e proprio nella creazione di indimenticabili per­ sonaggi borghesi. Questo amore alla realtà, questo acume di osservazione che sa di essere acuta e quindi di poter valorizzare il puro documento e che si rivelerà poi sempre in tutti gli altri suoi film, persino nei più avan­ guardistici e nei più ironici e scanzonati successivi, caratterizzano l'arte di Clair. Nei suoi primi film d’avanguardia, Clair appare quindi un formalista, volto alla ricerca di effetti formali, allo studio del modo di ottenerli, e al calcolo dell’impressione che possono produrre indi|)cndentemente da un qualsiasi contenuto. La formula dubbia per cui la moralità sta nella perfezione for­ male non tocca questi film in cui un problema non si pone, nemmeno |)cr ottenere una risposta del genere di questa più sopra. René Clair non è un formalista: i suoi film successivi sono la configurazione di un mondo morale e lo esprimono pienamente. Per quanto elegante c scanzonato egli sia, ha sempre un contenuto su cui definirsi o, almeno, esercitarsi. La stessa «comicità» che, come sappiamo da Bergson e da Croce, nasce da una posizione intellettualistica e da un automatismo, può bastare a chiarire tutto Clair. Quel che di preordinato, di meccanico e quasi di automatico c’è nelle sue sim­ metrie e nelle sue cadenze, è una posizione morale, una convinzione sociale, una visione del mondo e una presa di posizione rispetto ad esso; la quale, semmai, ha spesso il torto di non volersi esprimere di non esprimersi dichiaratamente. Dove più chiaramente si esprime è in Per le vie di Parigi che è stato giudicato da alcuni il suo miglior film; proprio perché questo qualcuno ha sentito il suo timbro più autentico, meno congegnato. D’altro canto non ci è permesso di essere crociani al punto di condannare tutto l’umorismo come non artistico. Diremo piuttosto che negli stessi film avanguardistici, che non ci sentiamo di considerare come il sancta sanctorum della cine­ matografia, questo suo modo si esprime qua e là frammentariamrntc. I film avanguardistici di Clair sono qui considerati quindi come

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pura esercitazione» non escludendo, a consolazione dei loro ammira­ tori, il fatto che qua e là emerga la personalità dell’artista in fram­ menti e notazioni di reale contenuto espressivo. Ma, poiché questo contenuto espressivo non appare che saltuariamente e, nel complesso» può dirsi non esistere, si dovrebbe, per considerarli « avanguardisti », trovare delle analogie con le forme proprie di qualcuno dei movi­ menti d’avanguardia. Ora, è bene evidente la distanza che separa Le ballet mécanique di Léger, in cui pure sono messi in opera tanti dei mezzi tipici del cinematografo per cui doveva essere tanto ammirato da Eisenstein, da questi film brevi di Clair. Le ballet mécanique è dichiaratamente fatto da un pittore cubista: ci sono inquadrature che possono sem­ brare quadri di Léger, di Albert Glaizes o di Metzinger e c’è, infine, la scomposizione del pupazzetto di Chariot in piani e la disposizione di essi su di un unico piano, che è una specie di a b c del cubismo. Altrettanto lontano da questi primi film di Clair è L’étoile de mer di Man Ray, che è un film tendente a un valore pittorico e piu propria­ mente impressionistico: anche se il grande fotografo si sia definito dadaista e anche se il film, in qualche immagine particolare e forse anche nel suo complesso, può sembrare una manifestazione di sub­ cosciente, del genere di quella manifestazione predicata dai surrealisti. Tutt’al piu i primi film di Clair potrebbero dirsi dadaisti per quella specie di nichilismo che li caratterizza, ma sarebbe anche questa una definizione imprecisa, perché nel dadaismo è sempre implicito un certo infantilismo e primitivismo. D’altro canto Clair non potrebbe essere logicamente avvicinato a quelle tendenze che superano l’avanguardismo propriamente detto e che, all’ingrosso, potrebbero essere caratterizzate con i nomi di Joyce e di Proust, proprio perché — coerentemente alla piu classica tradizione francese — Clair è un creatore di caractères*. i suoi perso­ naggi sono addirittura maschere e mai, nemmeno occasionalmente, accennano alla varietà di piani psicologici dei protagonisti della più recente narrativa europea ed americana. Chi conosce i film di Clair avrà fatto una semplice e ovvia constatazione: che in nessuno di essi mai affiora un motivo tragico. Là dove c’è un fatto drammatico (in Sotto i tetti di Parigi, ad esem­ pio) esso non è raccontato con i mezzi espressivi che comunemente ne esauriscono le speciali condizioni emotive della «drammaticità»; la morte della madre di Annabella, ad esempio in Per le vie di Parigi,

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è trasferita sul piano dei fatti patetici. E i toni patetici non sono, infrequenti: basti per tutti il momento in cui dal polso di Marchand in A me la libertà goccia il sangue che rievoca l’incidente della pri­ gione : rievocazione e conseguente commozione ottenute con una simmetria di gesto e con il ritorno del motivo musicale. Il patetico tocca solo i personaggi che sono cari all’autore e anche loro con sensibile parsimonia. Il ridicolo, invece, tipico dei personaggi cattivi, odiosi, non lascia, immuni neanche i simpatici. È solo una questione di gradi: gli uni sono blandamente ironizzati con comprensione, indulgenza e cor­ dialità verso le loro debolezze: queste debolezze appaiono per lo più inevitabili e inerenti alla qualità positiva fondamentale che li rende simpatici all’autore e al pubblico. Ad esempio il protagonista di Per le vie di Parigi è un ragazzo istintivo e semplice e sono proprio queste sue qualità che lo portano a traviarsi. Clair non capovolge mai i valori della morale tradizionale; e non è neanche originalissimo il fatto di ornare di tante virtù sola­ mente gli umili: essere poveri per Clair significa anche essere disin­ teressati, essere semplici, essere generosi, essere istintivi, amare i fiori,, gli uccelli, la campagna e la libertà. Sono tante virtù tradizionali che senza il lieve pimento della blanda ironia che ne accompagna la rappresentazione, facilmente apparirebbero qualità retoriche. Ma la nota fondamentale di Clair è d’essere un osservatore ful­ mineo : le sue notazioni psicologiche sono, cosi sottili che non fanno risaltare troppo evidentemente lo schematismo costruttivo in cui sono condizionati i personaggi. I vilains e gli antipatici sono ridicolizzati con una cosi giusta visione, con tanta evidenza dei loro aspetti carat­ teristici, che il critico apprezzamento di essi fa quasi sembrare che l'autore, se pure non li assolva, li guardi almeno con una dichiarata indulgenza. Si potrebbe sentir ripugnanza di fronte al riccone che va ad ubriacarsi nei locali notturni e, armato di rivoltella, distribuisce biglietti da mille; tuttavia una cretineria costituzionale è cosi traspa­ rente da quel viso di milionario ben educato che quasi si sospette­ rebbe nell’autore una volontà di assolverlo o, per lo meno, di con­ cedergli l’attenuante delia semi infermità mentale. Cosi il barbuto padre di famiglia potrebbe apparire esecrabile nella maschera di di­ gnità piccolo-borghese con cui cammina impettito per via e meschine r sjxrrche le intenzioni con cui guarda la piccola Annabella; ma dietro quegli sguardi c’è tanta materiale e morale miseria, un cosi

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grande sacrifìcio alla propria parte di vita non saputa vivere, da indurci quasi a pensare che egli non abbia potuto viverla, e che sia da assolversi per totale infermità di mente. E il sorvegliante di A me la libertà coi suoi badi alla Guglielmo II è cosi piccolo quando si mette davanti alla porta del presidente della fabbrica e guarda il padrone con occhi cosi assolutamente e servil­ mente canini, che quasi non si riesce a rimproverargli il suo essere cane con gli operai. Chi rimprovera a un cane di essere cane? E potrebbe forse la moglie di Cordy vestire diversamente da come veste, avere degli amici diversi, non avere un amante? Certo non potrebbe. In sostanza, tutto René Clair — se un vero artista come lui potesse essere costretto in una formula — sta da un lato in questa compren­ siva e cordiale umanità che inclinerebbe volentieri a mettere su uno stesso piano di indulgenza ogni creatura umana e dall’altro nella ■intelligenza troppo raffinata che glielo vieta. Questa indulgenza sbocca in uno scetticismo di buon senso popo­ lare: — il mondo è sempre andato cosi — né potrà mai cambiare, come si vede benissimo in A me la libertà nell’ironia dei soli del­ l'avvenire alla Wells, in cui le fabbriche producono da sole mentre gli operai ballano e fanno scampagnate. Quanto diverso dalla visione di un’umanità conciliata nello stupendo sogno del Monello di Chariot, popolato di angioli e di angiolesse in cui diventano cherubini anche i poliziotti. La differenza tra Clair e Chariot è che quest’ultimo è un vero anarchico, profondamente corrosivo delle basi della società, mentre il primo è un anarchico intellettuale. In comune essi hanno una spiccata forma mentis, l’individualismo; a conferma di questa sta il fatto che si saccheggiano vicendevolmente le trovate o, meglio, non si saccheggiano ma questa base comune gliele fa con tanta prontezza riscoprire o assimilare. Qualcuno sarà tentato di sostenere che la differenza sta nel fatto «che Clair è francese e la parentela tra Clair e Chariot può sembrare meno stretta che quella tra Clair e Max Linder, come si può vedere -soprattutto nel Cappello di paglia di Firenze. Max Linder infatti, con il suo naso all’insu, con i suoi baffetti, la sua aria francesissima, è scettico e leggero, e di fronte alla smorfia ■del sorriso di Chariot resta nella nostra memoria come il sorridente Max Linder. Ma non si deve dare troppo valore a questa distinzione ■costruita sulla base della nazionalità. In arte, francese non vuol dire

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niente in quanto l’arte non si misura né si racchiude in termini geografici: non sarebbe, ad esempio, altrettanto francese — e proprio nella strada maestra della tradizione — la volitività melanconica che siamo soliti chiamare cornelliana quando ci capiti d’incontrarla? Cosi, con piu chiare parole, se dietro René Clair possiamo, per cordialità ammirativa, vedere addirittura l’ombra tutelare di Mon­ taigne, dietro il certamente non meno comprensivo e tanto più pro­ fondo Renoir quella di Corneille. Ora, lo scetticismo di Clair è quello che gli fa accettare le con­ venzioni del cinematografo verso il quale, come mezzo espressivo, egli regge il suo comportamento in quella posizione scettica di cui abbiamo già tentato una descrizione parlando del suo cosidetto avan­ guardismo. Abbiamo visto come nel René Clair più profondamente artista c meno programmatico, i buoni e i cattivi siano avvolti da uno stesso alone di bonaria critica e indulgente simpatia. Questo mondo tipicamente francese e parigino — che l’autore mostra di conoscere cosi perfettamente e col quale simpatizza in modo così palese, «anche laddove programmaticamente sembra voler condannare — non si configurerebbe quindi in due schiere distinte cd opposte se la necessità della narrazione di quel conflitto chiaro e definito che si esercita nei fenomeni non glielo imponesse: da una parte i disinteressati, dall’altra i calcolatori, dall’una gli istintivi, dall'altra i complicati, dall’una i malvestiti eleganti, dall’altra i ricca­ mente vestiti cafoni, e, in sostanza, come in ogni film che possa aver successo e piacere ai produttori e al pubblico, da una parte i Intoni e dall’altra i cattivi. Nessuna tipicità e originalità di concezioni, ma l’accettazione — sia pure con una strizzatina d’occhio allo spettatore — di un conflitto anche comune e normale o letterario; nessuna grande idea da procla­ mare e difendere se non quel nudo e puro ideale di libertà che c insopprimibile in tutti gli uomini. Questa semplicità, questa purezza di intenzioni, questa man­ canza di un « doppio fondo » — nonostante il così palese intellettua­ lismo — questo mordente ironico che non arriva mai all’osso, questa programmaticità così evidentemente programmatica, questa elusività di fronte alle impostazioni problematiche e agli approfondimenti psicologici, sono in sostanza il tono bon enfant di Clair, ed è proba­ bilmente il più forte motivo del suo fascino.

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Parigino, per lui si possono usare i termini che più frequente­ mente ricorrono nella conversazione parigina: chic, charmant, tordant e — quando l’ha combinata più grossa — epatant. Anarchico intellettuale quale è, non rischia di poter essere giudi­ cato per il contenuto morale, il quale è leggero, di tenue consistenza ideologica e, nel peggiore dei casi, tutto di superficie. Oserei anche supporre, a un certo momento, che appunto in quest’urto tra la sua condizione di anarchia intellettuale c, al tempo medesimo, di infaticabile e spietato buon senso (la superficialità apparente dei suoi contenuti morali o moralistici può ben essere definita « buon senso») risieda una delle ragioni concrete del suo umorismo, quale comunemente è risentito dallo spettatore meno accanito nell’indagine, meno esperto. Vivo e vegeto quale c e speriamo che sia ancora per lungo tempo, sarà certamente molto interessante vedere con quali nuovi occhi saprà guardare il vecchio mondo che crolla e il nuovo che sorge. Qualche titolo che è stato annunziato ci riempie di curio­ sità e di aspettativa. Quand’anche in queste sue nuove produzioni il suo talento natu­ rale lo portasse ad ignorare i problemi urgenti dell’ora o glieli facesse risolvere in maniera inaccettabile, l’umanità dovrebbe essergli sempre grata c ammirarlo per quello che è. Gli ammiratori di Clair si dividono in due categorie: quelli che considerano lì milione il migliore dei suoi film, e quelli invece che ritengono esserlo Per le vie di Parigi. Evidentemente il giudizio può oscillare fra i due termini di confronto. Ma, a una indagine più matura o almeno più riflessiva, non appare molto decisiva una pos­ sibilità di scelta tra l’uno e l’altro dei film: essi si affermano invece cosi nettamente discosti e cosi sostanzialmente diversi, da far rite­ nere che ogni paragone o preferenza non superi i risultati di una superficiale attività del gusto. I due film infatti, oltre che diversi per la speciale mozione spirituale che li informa, appaiono subito di una diversa consistenza tecnica. Da quanto abbiamo sopra detto risulta chiaro che essi sono due prodotti di due strati diversi della fantasia di Clair: una che potremmo chiamare — con un termine proprio alla fisiologia — « corticale » (quella che produce II milione), e l’altra più istintiva e sotterranea (che ci dà Per le vie di Parigi). La creatività del primo film è vigilata da una costante c sveglia coscienza critica, nell’altro l’espressione confina quasi con l’effusione sentimentale. Per quanto sbrigliato, sbarazzino e liberissimo appaia 11 milione, non v’è

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dubbio — per chi ci rifletta — che questa grande facilità, libertà ecc. sono frutti di una costruzione faticosa, controllata, cosciente. E, per quanto Per le vie di Parigi appaia meno facile e, allo spettatore quotidiano, magari un po’ stanco e laborioso, pure esso è frutto di una libera e incontrollata attività. Tanto c vero — una volta di piu «he in arte la naturalezza è una conquista faticosa. Perfino il più sprovveduto cineasta potrà dire che 11 milione è un prodigio di montaggio e anche le servette e i soldatini, che sono il pubblico dal giudizio piu immediato, diranno che Per le vie di Pa­ rigi è bello e noioso. È propria dunque di Clair una, a suo modo perfetta, tecnica di montaggio : ma se guardiamo più da vicino, ci accorgeremo che questo montaggio non ha niente a che fare con il montaggio di un Dupont o col montaggio dei russi. È piuttosto un montaggio preve­ duto a tavolino, in sede di sceneggiatura, volto a disporre la materia c a coordinarla attorno ad una serie di effetti e con una progressività studiata e calcolata per lo più contenutisticamente. Più che « pezzi brevi » e « pezzi lunghi » questo regista — che qualcuno ha scam­ biato per un rigido formalista — adopera, per le sue previsioni di montaggio, i mezzi e i termini dell’aspettativa, tensione, e sorpresa: volto, dunque, sempre alla previsione non tanto della struttura for­ male o figurativa del film, quanto alle reazioni che la visione del film stesso può provocare nel pubblico. Artifici? Certo, o come si dice nel gergo cinematografico, « scaricatrappole », il più comune dei quali è quello di un oggetto — nel caso, il biglietto della lotteria — die passa da una mano all’altra. È il motivo per cui — per ridicole «he possano sembrare queste affermazioni — il Ventaglio di Goldoni sembra più cinematografabile de 11 bugiardo o — poniamo — del Campielo. Una riprova di questa attenzione di Clair per la struttura narra­ tiva del film — scaletta, trattamento, sceneggiatura o, se preferite, montaggio degli episodi e delle scene — sta nel fatto che dei suoi pochissimi scritti di estetica cinematografica, il migliore e il più lonosciuto è quello sul Ritmo1. Altra prova esterna di questa atten/lonc ci sembra quella per cui l’edizione della sceneggiatura de 11 1 René Clair, Rytbnte, su Let Cahiers du Mois, numero speciale sul cihviiiu. 1925 (n.d.r.).

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fantasma galante, fatta da Seton Margrave, porta l’indicazione della lunghezza di ciascuna inquadratura fino al fotogrammal. Non si può schematizzare, ma, volendo tentare di farlo, il proce­ dimento narrativo di Clair ha precedenti in altre forme di spettacolo e soprattutto nel vaudeville. E, se dal montaggio narrativo passiamo al montaggio in senso strettissimo, alla sua accezione tecnica, cioè dal montaggio delle scene al montaggio delle inquadrature, e nella previsione, dal trattamento alla sceneggiatura, ci accorgeremo che i ritmi, le sospensioni, le cesure e le cadenze, gli attacchi e i pas­ saggi, che ne costituiscono i problemi, non sono dati tanto dal variare delle posizioni di macchina e dall’alternarsi dei piani e dalla tendenza di un fotogramma a completarsi costruttivamente nel sucersonaggi. A questa tenerezza con cui Clair guarda il mondo e l'accarezza in particolari di trepida simpatia egli deve gli squarci migliori della sua opera e l’intero suo capolavoro Per le vie di Parigi-, ed anche nelle forzature americaneggianti e hollywoodiane di Ho sposato una strega le scene migliori sono quelle della confidenza della s[>o$a, piena di una gentile c tenera intimità, e quella finale in cui i genitori, dinnanzi alla piccola cavalcatrice di scope, trepidano al­ l’idea di qualche tratto materno che possa esser ereditato dall’incan­ tevole bimbetta. L’esordio di René Clair come attore, in film di Feuillade, il creatore dei nnéromans vittorughiani o addirittura di Fantomas, e Vapprentissage presso il letterario e dannunzianeggiante Baroncelli, non hanno inciso in lui che come svegliarino delle curiosità tecniche; che si son manifestate col passaggio tipico, nella regia, dal docu­ mentario Paris qui dort (1923) al film d’avanguardia (Entr’Acte, 1923). Ai film d’avanguardia si sogliono e si possono far appartenere anche Le jantóme du Moulin Rouge (1924), Le voyage imaginaire (1926), Il cappello di paglia di Firenze, l due timidi (1929). Qui Clair, mentre progressivamente apprende ad articolare il racconto cinematografico, impara la tecnica che tenta in ogni senso e fino in fondo e, dalla serie di immagini sorprendenti e fine a se stesse del­ l'allegro tirocinio, passa quasi insensibilmente a riinventarla in fun­ zione espressiva. Mentre Entr’Acte è pieno di grazia sbarazzina c non ha alcuna intenzione significativa e vuol solo comunicare uno shi|>orc vagamente inquietante per le stupefacenti sorprese di cui abIxmda (le gambe e la gonna della ballerina inquadrata dal basso, criferia, col popolino generoso c dinoccolato, colle donnaccole e le comari, infagottate e infreddolite, coi proprietari e gli avventori dei bistros all’antica, magari ancora col banco di zinco, i rivenduglioli che razzolano tra i rifiuti, i droghieri c i pizzicagnoli, gli indemoniati ma adorabili ragazzini, i bulli strappacuore e le adolescenti bellocce di montaggio sarà profondamente teorizzato da Pudovkin solo piu tardi, nel 1926) ma per esigenze espressive di una storia che, fin dal prologo, Gente che gode e gente che soffre, s’impernia decisamente ed esplicitamente su una contrapposizione di classe. 1 Roberto Bracco, Poesie (Ed. Carabba) in Opere, voL XXII. a Su Raffaele Viviani, si veda Umberto Barbaro, La grande arte di Viviani nacque dal contatto col popolo, neU’Umrà del 23 marzo 1950 (n.d.r.). ’ Cfr. Bracco, op. cit., p. 7.

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Non è qui luogo a ripetere un’analisi critica di quel vecchio film che io ho già fatto minutamente altrove; ciò che importa sottolineare è il fatto che esso riflette un fondamentale elemento della vita ita­ liana: lo spirito socialista. Uno spirito che per essere in quel film ancora tanto vago, utopistico e umanitaristico, per essere insomma ancora all’acqua di rosa, non manca tuttavia delle sue caratteristiche essenziali di grande generosità e nobiltà. Le manifestazioni cinema­ tografiche di quello spirito sono ancora immature, si tratta di una cinematografia spesso marginale, perché ovviamente non legata al grande capitale; i film come Sperduti nel buio non conoscono i suc­ cessi trionfali ed effimeri delle grandi ricostruzioni storiche e dei drammi borghesi, non vanno all’estero... Solo dopo la guerra di Liberazione e la disfatta del fascismo quello spirito si riafferma, con Roma città aperta e con II sole sorge ancora, e con la corrente neorealistica che porta oggi la cinematografia italiana sugli schermi di tutto il mondo.

Gioco d’azzardo1

Nell’attuale declino, speriamo momentaneo, del neorealismo ci* nematografico italiano, si vede affiorare, come teoria e come pratica, una vecchia tendenza, già da tempo giudicata e condannata, che vuole apparire anch’essa come realismo e anzi come progresso e appro­ fondimento delle posizioni realiste già conquistate; ma che, in ve­ rità, se ne scarta tanto da costituire, del realismo, precisamente l’op­ posto. L’illusione di approfondire, per questa via, il realismo (talvolta, bisogna dirlo, non si tratta tanto di illusione, quanto del desiderio e della speranza di illudere) parte dalla premessa che il film debba, sempre di piu, avvicinarsi alla vita vera; debba documentare, ma­ gari retrospettivamente, fatti veri, fatti di cronaca; della cronaca nera c drammatica, ed anche di quella bianca, cioè banale e quotidiana. Riducendo al minimo, e quasi totalmente eliminando, l’opera del sog­ gettista e del regista, assieme alle quali cadrebbero dunque anche la finzione e la falsificazione dei documenti i quali ormai, nel nuovo c approfondito realismo, dovrebbero apparire nudi e crudi. Questa posizione dimostra come chi la segue non abbia capito che realismo è « presentazione di personaggi tipici in circostanze tipiche » (Engels); e che il tipico della realtà è precisamente il contrario dell’ecce­ zionale e dell’abnorme della cronaca nera, non solo, ma il contrario anche del banale quotidiano; il tipico « non c ciò che s’incontra piu di frequente», ma «dò che esprime, col massimo di pienezza e di rilievo, la essenza di una data forza sociale » (Malenkov). 1 Pubblicato su l'Unità del 9 agosto 1953 (w.d.r.).

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Meraviglia che da noi siano caduti in equivoci di questo genere cineasti anche tra i piu dotati: specie se si ricorda che un simile ingenuo equivoco (o calcolo deliberato) ha già portato fuori strada, più che venti anni fa, tanto il film tedesco che la letteratura tedesca: a quel vicolo cieco che si chiamò allora la nuova oggettività, la neue Sachlichkeit. Béla Balàzs, nel suo fondamentale scritto, che resta sempre Lo spirito del film, ha denunciato la mistificazione del realismo, e l’occultamento della realtà che sono caratteristiche di quella tendenza, che egli bene definisce «capovolgimento del roman­ ticismo piccolo-borghese » e « ideologia della politica dello struzzo, che consiste nello sprofondare la testa in una quantità di particolari reali, per poter non vedere la realtà ». I film di allora si chiamavano Cosi è la vita e Uomini nella domenica-, certi film italiani recenti li ricordano, anche nei titoli. Talvolta i protagonisti di quei film tedeschi erano persino operai; ma come ha acutamente osservato un critico di allora, S. Kracauer, la loro vita e i problemi della loro vita venivano determinati e ri­ solti piuttosto dal destino che dal sindacato. I cineasti sceglievano i protagonisti operai tra quelli staccati dalla loro associazione e dalla loro classe e mostravano come un felice e benevolo destino riuscisse, quasi come guiderdone, a strapparli dall’inferno della miseria, della disoccupazione e della lotta, per portarli, senza difficoltà, magari con un ricco matrimonio di amore, a far parte — finalmente! — della classe privilegiata. Cosi l’oggettività si rivela essere tutt’altro che oggettiva, il reali­ smo si rivela essere tutt’altro che realismo. Menzogna, sia di sostanza che di forma, che tradisce al primo esame la propria miserabile finalità. Destino o sindacato? Ammettere un destino significa ammettere una forza superiore ed esterna, che regola le cose umane, e contro il quale è vano (e può apparire eroico o stupido, a seconda dei punti di vista) conten­ dere. Ammettere un destino significa dunque togliere all’uomo ogni libertà. E, siccome i moventi del destino sono insondabili e siccome la sua opera è, per definizione, arbitrio cicco, ammettere un destino significa togliere ogni senso alla vita. Significa minare le fonti del­ l’energia umana, spezzare le molle di ogni sano slancio vitale, inari­ dire tutta quanta la vita. La vita, non vissuta nell’impegno di rea­

Gioco d'azxardo

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lizzarsi tutta in cosciente attività, si trasforma in un’avventura, nella posta di un gioco d’azzardo impegnato col cieco destino. Abdicando l’uomo alla propria dignità di uomo libero e conseguentemente at­ tivo, la vita, disancorata dalle altre vite, diviene tutta indeterminata» tutta casuale: un gioco d’azzardo. E non il sano gioco che è meritato riposo dopo il lavoro e la lotta, non il gioco che è caratterizzato dal massimo disinteresse. Un gioco al contrario, che è giocato per il massimo degli interessi, per la volontà accanita di vincere. Non effusione sana, fiduciosa e disin­ teressata; ma calcolo, furbizia, inganno. Gioco di avventurieri e di bari. La promessa e la speranza illusoria, che i film denunciati di sopra vorrebbero far balenare dinanzi agli occhi del proletariato, ab­ bagliandola colla visione della vita fastosa dei privilegiati e promet­ tendo all’individuo di potervi un giorno partecipare, si riduce dun­ que all’invito a sottrarsi alla lotta, colla speranza di poter forse un giorno sottrarsi anche, individualmente, alle drammatiche difficoltà della classe. Propongono fughe, che sono, peggio che diserzioni, vero c proprio tradimento. E che, quando ne è protagonista qualcuno che si atteggia a guida della classe, diviene un tradimento ancora piu basso ed abietto. Come se una guida alpina si sottraesse alle fatiche c ai pericoli di una cordata nella tempesta, sganciandosi dalla corda — e che gli altri precipitino, tanto peggio per loro! Un tradimento che le guide alpine non compiono mai, ma che compiono invece, con trista coscienza, molti sedicenti guide del proletariato. Ma que­ ste avventure c questi tradimenti sono sempre, anche per loro, illu­ sori e deludenti: e sempre di piu lo diventano quanto più forte si fa la classe che essi tradiscono. Nel sindacato si attua l’unione della forza operaia: quell’unione che è la condizione essenziale perché la classe non sia vinta, ma vinca, e che perciò è, per ogni lavoratore, il bene più prezioso da difendere e salvaguardare con tutte le forze; e che è perciò il punto contro il quale si dirigono, apertamente o subdolamente, tutti gli attacchi degli avversari. I lavoratori lo sanno e perciò non credono al destino e credono nei sindacati. Il lavoratore non gioca la sua vita e quella della sua classe con il cieco destino. Il lavoratore, quando può riposare e giocare, gioca sanamente alle boccie coi suoi compagni e la posta è una sana mezza

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« fojetta » di vino. Non gioca per guadagnare e per vincere, ma per giocare. Per vincere, assieme ai compagni, studia e lavora e lotta. Studia le leggi dello sviluppo della natura e della società, aiutato dalla prò* pria avanguardia, dai partiti della propria classe; per vincere elabora la linea politica e sindacale, che è la conseguente applicazione di «quelle leggi. Per vincere non si isola, non gioca col destino; ma lavora, nel partito e nel sindacato. Perciò i film cosiddetti oggettivi e realistici, colla loro cronaca nera, o bianca, o giallo-rosa, non sono né oggettivi né realistici; e proponendo allo spettatore l’avventura e il gioco d’azzardo col cieco «destino, tentano di disarmarlo nella lotta per la vita, tentano di disto­ glierlo, con bugiarde concezioni del mondo, dal sindacato e dal par­ tito, cioè dalle organizzazioni che lo aiutano e lo guidano alla rea­ lizzazione del compito storico della classe

1 Questo scritto ha dato luogo ad una garbata polemica tra B. e Luigi ‘Chiarini. Per l’intervento di Chiarini, si veda Cinema nuovo dell’l settembre 1953; per la replica di B.: Cicalata sulla cabala in l’Unità del 23 settembre 1953. Giova forse ricordare che Gioco d’azzardo appartiene agli scritti della rubrica Modelli di stagione da B. curata per l’Unità di Roma tra il 1953 e il 1954. Non tutti i mo­ delli di stagione sono stati riprodotti in questo volume. Tra gli omessi: Sangue sul Parnaso (l’Unità del 6 settembre 1953); La donna gatto e l’uomo pesce (l’Unità •dell’l novembre 1953); Occhi aperti (l’Unità del 17 febbraio 1954); Il destino degli eroi (l’Unità del 30 marzo 1954); Lo stato di grazia (l’Unità del 29 giugno 1954); oltre al citato Cicalata sulla cabala (n.d.r.).

Sull'origine e sulla denominazione del film neo-realista1

Non deve essere troppo facile, fuori d’Italia, farsi un’idea chiara del significato e dell’importanza di quel gruppo di film italiani che si son chiamati neo-realisti. Tanto piò che una unanimità di valuta­ zione, su di essi, non esiste neanche in Italia, dove (anche a prescin­ dere dalla lotta, accanita e senza limitazione di colpi, che la rea­ zione conduce contro questi film) il disaccordo è massimo, anche tra coloro che fervidamente li sostengono. Questo disaccordo comincia dalla stessa denominazione neo-reali­ smo, che per alcuni non è appropriata; quelli poi, che la conside­ rano appropriata, sono in disaccordo tra loro sull’interpretazione del­ l'elemento nuovo, che dovrebbe giustificarla. Ancor piu si acuisce il dissidio sull’origine di questa fioritura improvvisa del film italiano, che sembra quasi non averne alcuna, quasi un fungo, nato d’un tratto dopo la pioggia benefica della Liberazione dal fascismo e dal suo alleato occupante nazista. Infine disaccordo e dissidio culminano sul concetto generale di realismo e sulla sua estensione: giacché, per qualcuno, realismo s’identifica con arte, e comprende quindi anche opere che, nell’accezione tradizionale della parola non potrebbero definirsi realiste; mentre che, per altri, il realismo resta, come un tempo, una delle possibili tendenze dell’arte, valida alla pari di tutte le altre. Ulteriori punti di discussione sono i metodi, la tecnica particolare, più o meno costantemente connessa alla realizzazione dei film neo­ 1 Questo articolo, la cui stesura è agevole datare al 1954, è stato scritto da B. per una rivista straniera, non individuata. Esso è forse rimasto inedito (».d.r.).

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realisti: e le divergenze piu grandi toccano il problema della sceneg­ giatura, se essa debba esser compiuta e finita come un testo letterario o se possa essere un semplice abbozzo, una semplice traccia di lavoro, quello degli attori, professionisti o non professionisti, quello degli ambienti, se le riprese debbano essere dal vero o ricostruite in studio e cosi via. Se tanto si dibatte, in Italia, in sede teorica, non meno avviene in sede critica, quasi a smentire il vecchio adagio per cui iter, per exempla, breve et efficax. Alcuni fanno, dei film neo-realisti, una lista ristretta e bloccata; altri allungano questa lista, magari fino a comprendervi opere, che sono esattamente agli antipodi da quelle sulla cui definizione, come neo-realiste, non vi sono in nessuno dubbi o esitazioni di sorta. Uno degli esempi più clamorosi di questa diver­ genza, nella valutazione critica di singole opere, è dato dal caso re­ centissimo del film di Luchino Visconti Senso, che ha suscitato de­ cise stroncature ed enormi entusiasmi e che ha diviso, nel giudizio, anche gruppi organicamente uniti: giacché il film trova, tanto nelle destre reazionarie, quanto nelle sinistre progressiste, ammiratori fa­ natici e oppositori irriducibili. Divergenze di questo genere non possono meravigliare se si tiene presente il particolare stadio della vita sociale e della cultura italiana, l'accanita lotta tra il vcchio che muore e il nuovo che sorge, e le inevitabili contraddizioni anche del nuovo a definirsi e a mantenersi rigorosamente tale; se si tiene conto, in altri termini, della diversità delle lingue e delle voci, che partecipano a questo appassionante di­ battito. Da una parte ci sono gli autori e i registi, i quali giudicano, ovviamente, secondo il proprio temperamento e le proprie inclina­ zioni artistiche, che hanno la tendenza a porsi come assolute e esclusive; e che giudicano anche secondo opportunità pratiche, che nel migliore dei casi sono ideali e politiche, ma che talvolta (come è quasi inevitabile in una società capitalistica, e per di più in declino) nascono anche da opportunità personali e da opportunismi, primo tra tutti quello di non perdere il lavoro e di non farsi ridurre al silenzio. Ci sono poi i teorici dell'arte ed i critici : divisi dal fatto che, gli uni applicano i propri sistemi e, per amor di coerenza, cadono facilmente nell’astrattismo, dimenticando proprio le opere, nell’atto stesso di giudicarle, perché queste opere diflkihnente si lasciano ridurre e costringere entro i loro schemi estetici. E i critici, d’altro canto, dall’utile e fruttifero contatto coi fatti artistici, sono spesso in-

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dotti a giudizi di gusto, empirici e soggettivi, indifferenti ai significati c dimentichi deile idee. Per orientarsi in questa torre di Babele (la quale per altro, almeno fino a un certo punto, è una riprova, per la molteplicità dei contra­ stanti interessi ideali e materiali, della vitalità della battaglia cultu­ rale in Italia) occorre anzitutto trovare chi parli la propria lingua; cioè chi, fuori dalla consumata metafora, guardi il fenomeno dal punto di vista che consideriamo giusto; allora sarà possibile interro­ gare le opere, con le stesse domande e con la stessa comprensibile lingua, sarà possibile intendersi e giungere ad una comune e valida conclusione. In questa sede è quasi superfluo dire che il punto di vista certis­ simamente e inconfutabilmente giusto per la comprensione e per la azione, nei confronti di tutti i fenomeni della realtà, e quindi anche dei fenomeni artistici, è quello del marxismo-leninismo. Il marxismoleninismo arma il critico per intendere, analiticamente e sintetica­ mente, la realtà e gli suggerisce le vie per agire su di essa, trasfor­ mandola e rigenerandola; in particolare, esso offre alla critica d’arte i mezzi adeguati per caratterizzare concretamente il clima storico e il tessuto sociale in cui i fatti artistici affondano le proprie radici; offre una compiuta e profonda teoria dell’arte, quale realismo, e la distingue con efficace precisione, dalla pseudo-arte, che è sempre irrealistica nella varietà dei suoi camuffamenti formalistici, cosmo­ politici, naturalistici e cosi via. L’estetica marxista permette di defi­ nire il carattere specifico delle manifestazioni particolari, cioè delle singole opere, il grado di realismo di esse, che è determinato dal terreno sociale in cui esse nascono e dalla particolare posizione dei singoli autori di fronte alla realtà: permette di cogliere, attraverso le molteplici mediazioni, il processo espressivo dell’artista, la sua via j)cr la conoscenza della realtà; tenendo sempre per fermo (come insegna una memorabile pagina di Lenin, che non si è buoni critici se non si conosce a memoria) che la realtà è sempre in movimento c che lo specchio, che la riflette, è in movimento esso stesso; che la via per la conoscenza della verità non è piana e diretta, ma « a zig-zag ». In altre parole, la critica ispirata al marxismo-leninismo è la sola che porti alla retta valutazione delle opere, nella loro com­ plessità e nella interezza della loro significazione ideologica e della loro influenza e importanza sociale, non meno che del loro effettivo valore d’arte.

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Considerando il neorealismo italiano del film da questo punto di vista, si dipana abbastanza agevolmente l’intricata matassa delle contraddizioni e dei dispareri e si giunge, senza troppa fatica, a coe­ renti e giuste soluzioni, a coerenti e giusti apprezzamenti. £ stato detto che la denominazione neo-realismo è ingiustificata nella presunzione, che implicherebbe, di affermare una novità che al film italiano del dopoguerra non può spettare. Ed è una critica che, almeno fino a un certo segno, potrebbe essere giustificata, qua­ lora questo fosse il senso deU’espressione neo-realismo. Ma non è cosi. L’espressione neo-realismo indica semplicemente la connessione cosciente del cinema italiano prodotto dopo la Liberazione, con unaantica tendenza della cinematografia italiana, che risale al 19)3; tendenza che, sebbene sia stata, piu di ogni altra, vitale e positiva, non ha goduto, per molto tempo, gli appoggi ufficiali né le lodi (salvo qualche eccezione) della critica; ed è passata per anni e anni in secondo piano rispetto alla produzione piò spettacolare, ma inconsistente e vacuamente retorica delle grandi ricostruzioni pseudo-storiche, che vanno da Quo vadis? (1912-1913) e Cabiria (1913) a Scipione VAfricano (1937) ed al recentissimo Ulisse (1954); film che costituiscono una diversa c opposta tendenza, la peggiore c piu negativa tendenza della cinematografia italiana. Dal primo dopoguerra, fino all’avvento del sonoro, il film italiano attraversò una lunga crisi : non ci fu praticamente alcuna produzione. L’interesse per il film si riaccese, intorno agli anni 30, anni in cui ci fu una ripresa produttiva, ma, cosa assai piu importante, un vasto fervore di studi e di ricerche teoriche sul film. Apparvero i prinv saggi teorici di Pudovkin in traduzione italiana ed entrarono in Italia i primi film sovietici Quei film furono proiettati quasi esclu­ sivamente ai Festival veneziani e in sedute private, ma esercitarono una grandissima influenza sui cineasti italiani: le teorie ed i film sovietici indicarono ai cineasti italiani la strada maestra del realismo. La cultura italiana era, in quegli anni, sotto il segno dell’idea­ lismo filosofico e, in particolare, il campo dell’arte era dominato dal­ l’estetica di Croce. La poesia e la letteratura, salvo qualche eccezione, era tutta formalistica, dalle chiassate futuriste all'ermetismo ed alla poesia pura. La produzione cinematografica era soggetta alle di­ rettive della propaganda fascista. Le basi estetiche del film, statuite dai cineasti sovietici contrad­ dicevano, in tutto e per tutto, le forme di vita c le manifestazioni

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culturali dell’Italia di allora, erano radicalmente anti-fasciste ed antiidealiste. L’impossibilità di una produzione cinematografica piena­ mente ispirata a questi principi indusse i migliori cineasti d’Italia a rinunciare all’attività artistica nella produzione di film e si rivolse alla teoria c alla fondazione di una cultura cinematografica italiana, che divenne il veicolo di una profonda e decisa, se pur dissimulata cr liberarsi e giustificarsi » (p. 23); ammette, sebbene relegando l'osservazione in una nota e sorvolando, l’influenza decisiva del film sovietico « del quale il neo-realismo costituisce una diretta trasfor­ mazione» (p. 31, n. 1); polemizza, con piena giustificazione, con « la critica meno avveduta », che considera il realismo italiano « la rinascita di un nuovo clima morale, del realismo letterario e popu­ lista francese, del periodo tra le due guerre » (p. 15); afferma che « i film di Blasetti son troppo vicini alla consuetudine epica per |>otcr investire, o anche semplicemente annunciare, la complessa po­ sizione morale e narrativa implicita nella poesia del neo-realismo» (p. 24). E in quest’ultima affermazione egli dimentica, ingiustamente, il preannuncio in I860 — a quei tempi straordinario — di quella

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unità nazionale, popolare e progressiva, che è il vero introito alla morale e alla poesia del neo-realismo; anche se il Rondi mostri, qua e là (segnatamente a p. 79) di dubitarne. Nel valutare le opere, Brunello Rondi dà il posto preminente che spetta loro a quelle di Rossellini, del quale analizza minutamente, dedicandogli un intiero capitolo, Paisà, che egli considera il capolavoro del regista e di tutto il neorealismo (cap. X, pp. 139-159); e fa una serie di osservazioni interessanti su Zavattini, De Sica, Visconti, Castellani e su altri. Bene, ad esempio, è riconosciuto il carattere realista di Miracolo a Milano e benissimo è detto che «il realismo può elevarsi a qualunque atteggiamento di poesia (favola, finzione assoluta, apologo, balletto)»; di Castellani è individuata con sicurezza la « linea intellettualistica, di raro autentica e sincera ». Meno persua­ siva è la valutazione, che da varie notazioni emerge, dell'opera di Visconti, che, in verità e ad onta dei suoi valori, cade fuori dal realismo; stupisce che l’Autore che, nelle prime battute del suo libro, aveva indicato il carattere letterario (epperò, si aggiunga, irrcalistico) della produzione francese tra le due guerre, non veda che proprio là risalgono i motivi e le fórme essenziali dell’opera del Vi­ sconti, e che egli frustri cosi la sua prima felice osservazione. E, allo stesso modo : come, dopo aver acutamente indicato « l’assenza di disperazione » come l’elemento, anzi come « il substrato spirituale e morale del secondo dopoguerra, nelle sue voci piu vive », si può includere tra queste voci, quella, ora fessa ed ora chioccia, che enuncia clamorosamente la disperazione, nei film di Fellini? Non troppo importante, data l’esiguità e la, relativamente, scarsa rilevanza dell’argomento, è il capitolo (III, da p. 52), dedicato al Realismo inglese, dove è indubbia la sopravvalutazione di certi docu­ mentaristi, già del gruppo di Grierson, ma dove è pure un’indicazione assai interessante, l’appello « a una poesia e ad una filosofia del la­ voro umano » che « mancano per ora nel neo-realismo, nonostante la sua prospettiva umanistica » (p. 54, n. I). Assai migliore è il capitolo (II, da p. 31) sul Realismo russo, del quale purtroppo non può qui esser discussa, come meriterebbe, la vasta problematica; bi­ sogna però dire che non è vero affatto che « il cinema italiano sembri riprendere il discorso lasciato a metà dal cinema russo» (p. 19) e che ne sia «un superamento» (p. 31, n. 1): questa c proprio una di quelle confusioni tra neo-realismo e realismo socialista, che il Rondi deplora. Egli vede giustamente, nel neo-realismo, una de­

Studi sul neo-realismo italiano

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nuncia della « mancata coerenza e vicinanza nelle vite umane e della abissale deformazione che l’uomo aveva fatto dell’altro uomo», vede cioè il carattere critico del neo-realismo, il solo che la situazione sto­ rica consentisse e consenta: qui dunque il discorso, per necessità, è lasciato a mezzo, qui le soluzioni dei problemi sono soltanto una prospettiva, una aspirazione o, per dirla colle stesse parole del Rondi, « un richiamo verso l’idea della società vera, verso la spinta dell’amore ccc. » (p. 20). Un discorso integrale è invece nelle punte piu alte del film sovietico, per esempio in quel Ritorno di Vassili Bortnikov al quale proprio il Rondi ha dedicato, una volta, uno studio assai com­ prensivo. Una serie di capitoli sul «neo-realismo e l’estetica» (pp. 93-139) mostrano come il Rondi sembri avviarsi a intendere modernamente l’arte fuori dalle pretese di una assurda autonomia, come complessa risultante di azione, di pensiero e di poesia. Bisogna però dire che le parti piu propriamente teoriche di questo suo libro non sono esenti da sconcerti e da contraddizioni, e certo attendono, e meri­ tano, ulteriori ripensamenti e approfondimenti, da parte dell’Autore. La scrittura del Rondi, in genere un po’ troppo sofisticata ed este­ nuata dalla sua stessa densità, qui si fa ancor più faticata e faticosa: la fatica dello scrivere diventa fatica anche del leggere. Un libro, comunque, serio ed onesto e, caso raro a questi lumi di luna e per questi argomenti, anche un libro interessante ed utile.

Neorealisti e no: promesse mantenute e speranze deluse

.Le amiche

Nel dibattito sul realismo cinematografico, Michelangelo Anto nioni ha esplicitamente sostenuto, ed ha cercato di dimostrarlo fin dai suoi primi film, che il realismo non è necessariamente legato alla tematica della miseria, degli stracci e dei tuguri, ma che si può, e si deve, senza trasgredirne i postulati, descrivere, purché con conte­ nuto ed accento di verità, anche il mondo borghese. Antonioni di­ fendeva, con energia, e giustamente, il diritto dell’artista a scegliersi ì mondi e i soggetti più confacenti al proprio temperamento e alle proprie idee. Era sincero, ma, in genere, non fu creduto; molti con­ siderarono la sua affermazione come un’astuta scappatoia, da met­ tersi in un sol fascio con quella di tanti altri che, stanchi di battersi, c decisi, per convenienze pratiche, ad abbandonare la via larga e diritta del realismo, non ne volevano tuttavia abbandonare l’etichetta; quell’etichetta che s’era dimostrata capace di attrarre i pubblici più diversi. Più di uno credette che Antonioni volesse applicare l’etichetta « realismo » a contraffazioni commercialistiche, contrabbandando sotto di essa vuotezze e stupidità, abiti eleganti e belle donne, auto­ mobili fuori serie e telefoni bianchi. Antonioni invece era sincero e, se i suoi film, ad onta delle spiccate qualità e delle abilità tecniche che vi rifulgevano, fallivano artisticamente, ciò era dovuto alla sua pesante incomprensione del mondo che descriveva; alla sua fedeltà scrupolosa a certi particolari, ma alla costante confusione del quadro generale, che, guardato dal suo punto di vista, s’ingarbuglia e con­ fonde cosi che il giudizio, persino troppo accentuatamente morali-

Neo-realisti e no : promesse mantenute e speranze deluse

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stico dell’Antonioni, finisce coll’apparire ingiustificato c non per­ suade. La borghesia italiana è sicuramente in sfacelo: ma non è perciò, individuo per individuo, tutta e irrimediabilmente, guasta e corrotta come sembra all’Antonioni, che non riesce a vedere il guasto c il marcio nel sistema. La spietatezza della condanna del regista resta perciò parziale ed ingiusta e, sostanzialmente, non toccando il sistema, non dimostra e non convince. Con Le amiche, che è un film che descrive, con bella perizia e bravura, tutta una ricca galleria di ben riusciti ritratti femminili, Antonioni ha fatto il suo massimo sforzo di oggettività e di sincerità; ma l’interesse, la vivezza e il bel rilievo che egli riesce a dare a qualcuno dei suoi personaggi, non riescono a salvare il film. Il per­ sonaggio che, nel corso della storia, sembra spinto dagli avvéniménti fuori da quel mondo in sfacelo, e che egli condanna, con la stessa recisione dell’Autore, quando si accorge di poter rientrare nel clima e nell’ambiente, che cosf bene conosce e che cosf decisamente detesta, non ha incertezze o esitazioni: rientra nel suo mondo sacrificando quanto un altro, e opposto, mondo sembrava offrirgli, l’amore, la sanità morale, la serenità e la gioia di vivere. E l’Autore non sa dargli torto, perché neanche lui sa vedere l’inesauribile varietà e ricchezza degli effettivi valori della vita.

Il grido Michelangelo Antonioni è uno dei registi italiani che padroneggia come pochi il linguaggio del film e che l’adopera con singolare raffi­ natezza; è una personalità sensibile e fine e che s’impegna seria­ mente nelle sue opere, che tendono tutte alla realistica presentazione di ambienti, e di personaggi soprattutto, e alla denuncia delle loro tare e delle loro crisi. Antonioni crede che il neo-realismo italiano sia viziato di schematismo, che i suoi protagonisti esistano solo in funzione di una tesi da dimostrare e che, insomma, siano piò mario­ nette che personaggi; egli crede, inoltre, che la denuncia di quei film sia unilaterale e incompleta. Naturalmente Antonioni ha torto r questa sua incomprensione lo avvia e lo tiene costantemente su strade sbagliate: egli ambisce ad un piu vero realismo, dove gli uomini siano caratterizzati dalla propria individualità e non dalla propria classe o categoria sociale, e dove la denuncia sia, non solo

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dell’ingiustizia sociale, ma investa tutto intero l’assurdo e disordinato caos dell’esistenza. È chiaro che il preteso passo avanti, oltre le posizioni del neo­ realismo, in verità non è che un regresso, non di uno ma di moltis­ simi passi, che non porta affatto, come vorrebbe, ad un piu appro­ fondito e vero realismo, ma proprio al suo opposto. Astraendo, per idolatria del feticcio del soggettivismo, dal fattore sociale storie e personaggi, Antonioni li priva di ogni realtà e tutta la sua pena umana e tutta la sua cruda sincerità neH’esprimerla non sboccano che in una vuota e disperata agitazione di ombre prive di vita. Il protagonista, ad esempio, di questo suo recentissimo II grido è un operaio dello zuccherificio di un paese della Valle Padana, Aldo (Steve Cochran); ma egli assomiglia solo esteriormente a un operaio; potrebbe benissimo appartenere ad un’altra categoria sociale, anzi il suo comportamento è piuttosto quello di un intellettuale deca­ dente che non quello di un lavoratore autentico. Che egli sia un operaio è un dato esterno, deciso, non si sa perché dal regista; forse per dire che certi conflitti e certi drammi non sono propri della borghesia ma di tutti gli uomini. Allora, forse a sostegno di questa molto discutibile tesi, Antonioni ha dotato quest’operaio di caratte­ ristiche che non sono tipiche neanche della borghesia, ma di una parte di essa. Sebbene di media età, Aldo ha conservato, si direbbe, una mentalità di adolescente, come per un drammatico arresto di sviluppo psichico: fissato in un individualismo oltranzista egli agisce, sostanzialmente come un sognatore ribelle, che non si rivolta contro nulla di definito, ma contro una fatalità, che non è che il frutto fantasticato della propria astrattezza. Non si vuol negare che esistano in questo personaggio d’eccezione tratti particolari di qualche auten­ ticità, ma essi non si sommano a creare un carattere. Aldo, abbandonato dalla donna con la quale conviveva (Alida Valli) da anni e dalla quale aveva avuto una figlia, prende a vaga­ bondare per la Valle del Po, proprio allo stesso modo, assurdo da noi, del protagonista di Ossessione, nel film di Visconti, c senza avere la scusa di questo, di derivare da un romanzo americano. Inu­ tilmente égli torna ad una sua antica fiamma, Elvia (Betsy Blair), inutilmente si avvicina alla « benzinara » Virginia (Dorian Gray); nulla vale a esorcizzare il ricordo ossessivo della prima donna, di Irene. Quando egli torna al paese lo trova in piena agitazione di protesta contro l’esproprio di alcuni terreni a scopo militare. Ma

Neo-realisti e no : promesse mantenute e sperante deluse

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questo avvenimento ha tutta l’aria di essere casuale e introdotto come demento decorativo: non fa corpo con la storia e, se voleva avere un significato di denuncia, lo perde diluendolo nd generale concetto di un fatale disordine di tutta la vita. Constatata la perdita definitiva di Irene, che frattanto ha avuto un altro figlio, Aldo si reca alla sua vecchia fabbrica e si getta dal* l’alto della torre. Il grido di Irene, che lo vede, chiude il film. L’intensa emozione del regista non tocca lo spettatore, anche se traspare oltre la squisitezza formale del film, in più di un brano.

Un giorno nella vita

Attraverso la rappresentazione, realistica a volte fino alla crudezza, di un drammaticissimo e tragico episodio della bestiale cruddtà na­ zista, durante la guerra di liberazione italiana, gli ideatori del nuovo film di Alessandro Blasetti, Un giorno nella vita, si son proposti — probabilmente — di dimostrare la vanità di ogni umana e terrena agitazione. Assunto da cristianesimo primitivo, che si esprime nella battuta finale del film («non sanno quello che si fanno») inteso ad esaltare, nell’implicito contrasto, la trascendenza. Nello svolgimento del film, questo tema iniziale, affidato alla narrazione di strambe storie di un romanzesco sovraccarico — per le quali ovvio nome che viene alla mente è quello di Carolina Invernizio — è passato in sottordine di fronte ad una piu terrena proble­ matica che ha determinato una stratificazione complessa d’intenzioni e di significati: sembra che si sia voluto considerare la posizione dei fascisti ravveduti e il loro riscatto colla partecipazione alla guerra antitedesca o la loro irriducibilità nel perseverare, anche nei nuovi panni, nei metodi consueti e loro caratteristici di ladri e di profittatori; c discutere dell’individualismo e dell’apoliticità. Motivi e problemi che costituiscono, nelle soluzioni accennate, un quadro tematico di struttura reazionaria e di grave e persino stravagante incomprensione storica, che stride di inesattezze pungenti, come — per non altro citare — quella del cerimonioso lei che si scambiano tra loro gli strani e quasi inauditi partigiani del film. Cosi l’amara incompren­ sione dell’antico assassino fascista « sarò sempre dalla parte sbagliata della barricata» è presentata come superiore e poetica; ed indulgente c pieno di una simpatia, che rasenta l’omertà, è il sorriso e la piace­

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volezza con cui è guardata la colpevole c trista ignavia dello sventu* rato marito partenopeo, razziato dai tedeschi il giorno stesso del­ l’inconsumato matrimonio. Fortunatamente nei fatti artistici, e in particolare quelli collet­ tivi, di cui il film è tipico esempio, s’esprime a volte una visione del mondo che va oltre, o addirittura in contrasto, con le intenzioni di­ mostrative dipendenti dalla volontà. Ed è quanto si è verificato in questo film di Blasetti che, per i suoi valori, soprattutto figurativi e sonori, è senz’altro da classificare nelle poche opere d’arte dello scher­ mo. Qui, al di là, dell’inverosimiglianza dei fatti straordinari che si narrano, al di là della macchinosità delle vicende romanzesche e del­ l’eccezionale e del peregrino profuso a iosa, ed al di là soprattutto delle tesi reazionarie, quello che effettivamente si afferma è proprio l’esaltante valore del bene in lotta senza quartiere col male. E cioè, oltre la rinunzia e la fuga dal mondo, la sana fiducia nella vita. Cosf fatto s’inverte tutta la morale preconcetta, proponendo il film di fatto, ed efficacemente, una giusta esaltazione dei più alti valori umani. Un giorno nella vita è un film che documenta anzitutto la feli­ cità quasi costante dell’ispirazione figurativa: in tagli, angolazioni e inquadrature personalissime, in cui la luce, colla accentuazione giusta, dà rilievo a particolari che, nell’irreversibile istanza formale, trag­ gono allusività e significazioni impensate. Film bellissimo dunque, nonostante tutte le riserve che era do­ veroso premettere. E nuova prova, nel successo entusiastico che ha ovunque riscosso, non solo della maturità della nostra cinematografìa, ma di quella del nostro pubblico.

Peccato che sia una canaglia Validamente coadiuvato dalla grande maestria di Vittorio De Sica, dalla grazia di Sophia Loren, e da un impegno fino ad ora scono­ sciuto in Mastroianni, Alessandro Blasetti ci ha dato, col suo ultimo film, Peccato che sia una canaglia, una commedia spassosissima e intelligente nella sua scanzonata levità. È la storia di un autista di piazza (Mastroianni) che s’innamora di una bella ragazza (Sophia Loren), figlia di un abilissimo ladro di

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professione (De Sica) e che ne calca, non senza destrezza, le orme: gloriose. Una serie di equivoci e di bisticci ed un’altalena vivace di. attrazione e di repulsione, conducono i due, con allegra speditezza,, al bacio finale a lungo metraggio, sulla pubblica via. A maggior merito di Blasetti, e dei suoi attori, va detto subito che il soggetto è, nel complesso, sconclusionato e poco peregrino; che la situazione­ centrale deriva da un vecchio film di Mario Camerini, con Assia Noris, Batticuore, con qualche ricordo di un film di Lubitsch con Marlène; e che esso è sceneggiato scombiccheratamente con la sola-, risorsa di un sistematico saccheggio di trovate e di battute nei film comici europei e americani. Ad onta però della scarsa originalità e della mediocrità del sog­ getto e della sceneggiatura, il film è assai ben riuscito per la bellis­ sima padronanza di uno snodato ed espressivo linguaggio cinemato­ grafico, da tempo ormai proprio del Blasetti, per la scelta e la felice caratterizzazione dei personaggi principali e secondari — il funzio­ nario della Cassa del Mezzogiorno che, a mezzogiorno, non è ancora in ufficio, i turisti americani, il personale del commissariato. Feli­ cissima tra tutte e di grande rilievo la figura creata da De Sica: un ladro stavolta non in guanti gialli, ma vestito della dignità e del decoro piccolo-borghese, tra il professorale e il curialesco; tanto piu divertente in quanto qui non sfoggiati nei piccoli crocchi dei valle di periferia, tra impiegatucci e pensionati, ma uniti a un piglio canagliescamente sicuro, conformistico nei confronti di quella mo­ rale che sembra dover dedurre da un mondo in sfacelo. Il film è gradevole soprattutto per il suo aspetto figurativo, per l'angolazione, per le inquadrature, per i ben scelti esterni, per i ben caratterizzati ambienti e personaggi, per il modo con cui i perso­ naggi agiscono, gesticolano e s’esprimono. Ma c’è di più: al di là della trama, convenzionale nella sua inverosimiglianza stentata, al di là delle deformazioni proprie del genere, e pur nelle reiterazioni e nella rigidità meccanizzata delle psicologie e degli accadimenti, al di là di tutti questi, che sono it lasciapassare d’obbligo, il bagaglio indispensabile al conseguimento di una immediata comicità, il film ha un piu profondo senso; dalla sua freschezza leggera sembra spirare un’aria fine di satira sottile e di feconda intenzione. Che, nella girandola dei paradossi comici» riesce a insinuare qualche tratto saliente della realtà italiana di oggi.

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La fortuna di essere donna

La piccola borghesia bottegaia, cosi spesso presa in giro e calun­ niata, per quella che è la sua triste divisa: voglio e non posso, si prende qui (La fortuna di essere donna, regia di Alessandro Bla­ setti) nella persona della sua prosperosa e giovane rappresentante (An­ tonietta: Sophia Loren), una clamorosa rivincita. Ché Antonietta può e non vuole; e cioè, giunta rapidamente, e senza guasti ecces­ sivi, al cacume della felicità, alla gloria delle copertine in rotocalco a colori e alla munificenza dei contratti cinematografici, sa trovare in se stessa l’eroismo necessario a compiere il gran rifiuto, paga di averne in cambio un piu alto ed effettivo valore umano, l’amore; un amore ricondotto, con un improvviso ritorno d’impetuosità popola­ resca, sulla retta via, a gran selciate e minaccia di mattonate in testa, persuasivi argomenti dinnanzi ai quali ogni scetticismo e ogni ci­ nismo svaniscono come nebbia al sole. Soggetto dunque, questo de La fortuna di essere donna, di im­ pianto tradizionale, sviluppato da un nucleo tematico chiaro e, sep­ pure non nuovo, sano e accettabile; che comportava, a sostegno della tesi centrale, l’analisi e la contrapposizione di due mondi, l’uno di onesto e serio lavoro, l’altro di vacua fastosità e di esteriore brillan­ tezza, ma di sostanziale miseria morale e di corruzione. Disgraziatamente, a svolgere questo tema brillantemente, come hanno creduto di dover fare gli autori del soggetto (Ennio Flaiano e Suso Cecchi D’Amico), invece di esplorare la realtà degli ambienti della storia, dal punto di vista del loro semplice e giusto assunto iniziale, se ne sono discostati enormemente, paghi di sollecitare la propria memoria, frugando e attingendo, a piene mani, nel bagaglio farraginoso della loro, diciamo pure, cultura: rimanipolando spunti, poniamo, del Pigmalione di Shaw, tradotti in immediato e sguaiato dialetto, rifriggendo situazioni e trovate, già rese celebri da prece­ denti film e battute di dialogo, trasportate di peso da qualche Alma­ nacco « Pro Familia » di cinquanta anni fa. La contrapposizione dei due mondi che doveva dar forza di verità alla storia e alla sua morale e che, in sostanza, doveva costituire il contenuto profondo del film, è data come un fatto noto e accertato, al punto* da non meritare alcun approfondimento e — peggio — dando, con grave sconcerto, il senso che gli autori non credono affatto a ciò che affermano. Con un simile scenario, tra i piò sprovvisti di qualsiasi inventività

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c qualità, il regista, Blasetti, ha fatto, inutilmente, quel miracolo, che ormai egli è in grado di compiere da tempo (lontanissime le incer­ tezze de La Duchessa di Parma) ed è riuscito a dare a una materia di accatto disordinata e inconcludente, una costante dignità formale; attraverso una virtuosità tecnica mirabilmente dissimulata, Blasetti è riuscito a dare scorrevolezza piacevole anche ad un racconto cosi frammentario, incerto e scombinato. Amore e chiacchiere

L'ultimo film di Alessandro Blasetti, Amore e chiacchiere, su soggetto di Cesare Zavattini, è piu timido e debole di quella che fu probabilmente la prima felice ideazione di esso, da parte dei suoi autori: un ospizio di vecchi, che il Comune di un bel paesino italiano ha deciso di costruire e che non può costruirsi per non privare della bella vista di un panorama suggestivo la terrazza della villa di una famiglia di nuovi ricchi. Se ne ha il senso, e quasi la certezza, anche solo dal titolo, dove è patente l’intervento didascalico degli autori, a dirci subito, in tutte lettere, che essi condannano le chiacchiere, menzognere, interessate c crudelmente nocive, cui si contrappone l’amore — il vero amore, il grande amor — che, dacché mondo è mondo, supera e vince ogni cosa, riportando la giustizia nel mondo. Il titolo precedentemente proposto, per il film, Salviamo il panorama, lasciava al pubblico il «ompito di scoprire, dietro la sua sonorità di generoso proposito e programma, la sua ignobile essenza di chiacchiera, intesa a celare il meschino interesse privato e personale, di goffa aspirazione ad una astratta bellezza, da mantenere e difendere, come ogni altro privi­ legio, accanitamente e senza quartiere, indifferenti al sacrificio e alla sofferenza degli altri. Il primo titolo sta al secondo, come la satira sociale, che voleva c rghese, come nei vecchi romanzi per signorine della Werner o della Dolly. Il contrasto tra l’abitudine retorica di questa bellettristica e di questa cinematografia e la mentalità realistica e chiara di De Sica, ha generato il completo fallimento artistico del film e del suo intento inorale. Perché la tenue storiella del film stesse in piedi la protagonista doveva apparire di ben altra stoffa morale. Questa (la cui vuotezza ha reso diffìcile, alla brava interprete, di confermare la sua bravura) appartiene invece alla categoria delle «civette coniugate», per dirla con Cesare De Lollis, che le considerava la peggior specie femminile; che non si lascia mai travolgere dalla passione, ma che si diverte ad accendere negli uomini passioni destinate a restare insoddisfatte, |xr il tempestivo rifugiarsi al riparo della famiglia. Per tenere in piedi la storia, bisognava che la famiglia fosse vista tome il primo nucleo umano sano e felice. E qui, invece, della fami­ glia si parla con la stessa blanda ironia con la quale la protagonista parla, senza alcun imbarazzo, con l’innamorato, del proprio marito: non dice che è un galantuomo, ma che è un ragazzone indifeso, una s|K-cie di babbeo insomma. E il compito della moglie, nella famiglia, e sana battaglia di tutto il film.

•Calabuig

Lo scienzato atomico Jorge Hamilton durante un viaggio, che •dovrebbe condurlo ad una segretissima base militare del Mediterra­ neo, scompare misteriosamente, suscitando una ondata di curiosità nella stampa internazionale e di nervosismo e panico nel suo paese, •dove si teme che egli possa rivelare a potenze straniere i suoi segreti militari. Lo scienziato invece, che è un bonario e simpatico vecchie­ rello, è sbarcato a Calabuig, paesino di uno sperduto isolotto di con­ trabbandieri, dove, scambiato da costoro per uno di loro, è incaricato ■di trasmettere un pacco ad un tal Langusta, che si trova in prigione. Perché bisogna sapere che Calabuig è un paesetto tutto speciale e felice, dove, ad esempio, i prigionieri girano liberamente tutto il .giorno, suonando la tromba e proiettando film, come il nominato Langusta, salvu a riturnare nella linda cameretta, che funziuna da •carcere, entru una certa ura della sera, pena, in casu cuntrariu, di trovar la purta chiusa e di passar quindi la notte sotto le stelle. Il vecchio Hamilton è accolto amichevolmente da tutti e viene •cosi a conoscenza dei semplici casi degli abitanti, della maestrina del villaggio, della figlia del doganiere, che si è andata ad innamorare proprio di un contrabbandiere. Tanto piana e felice scorre la vita a Calabuig, che il telefono vi serve unicamente per la quotidiana par­ tita di scacchi, che il parroco gioca, da casa sua, col guardiano del faro: non senza accanimento, né senza reciproche accuse di barare,

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cioè di consultare, prima di « muovere », un manuale e non senza contestazioni per il ritiro d’una mossa sbagliata, giacché « pezzo telefonato pezzo mosso ». Qui, per la festa, giunge, su di un camion sganghe­ rato, un torero, con un suo vecchio toro, che in verità è tanto poco combattivo che, costretto a giostrare sulla spiaggia, trasformata per l’occasione in arena, s’affatica, sbuffa, suda e scappa in mare, bu­ scandosi un solennissimo raffreddore. Hamilton è sedotto dalla vaghezza idilliaca della vita di Calabuig ed è deciso a rimanervi. La sua scienza gli servirà solo a creare spettacolosi fuochi d’artifìcio, girandole, razzi e petardi, che scop­ piano, in cielo, iscrivendovi luminosamente il nome del paese: Calabuig. È cosi che egli viene scoperto e arriva all’isoletta un’intera squa­ dra navale militare. Invano gli abitanti di Calabuig preparano una disperata e grottesca difesa, armandosi di vecchi fucili da caccia c di picche ed elmetti da teatro, il vecchio dovrà ad ogni costo ripartire. La sua scienza però, egli assicura, mentre un elicottero lo riporta al suo mondo e al suo lavoro, non sarà mai a servizio della distru­ zione e della morte. Il film, diretto da Luis Berlanga, è interpretato dall’attore in­ glese Edmund Gwenn (di cui si ricordano Parnell, Toma a casa, Lossy, Il miracolo della 34.a Strada) accanto a Valentina Cortese e a Franco Fabrizi. Come si può intendere anche solo dal succinto rac­ conto della trama che ne abbiamo fatto, si tratta di una commedia, alla quale manca, in verità, la forza mordente che il grave tema as­ sunto a base del film richiedeva, e dove l’intenzionale realismo sventa e svapora in un clima di troppo zuccherino, e artificiale, ottimismo. Commedia, tuttavia, assai gradevole per l’intenzione morale che l’ha ispirata e per la grazia gentile delle sue gaie trovate.

...E il cielo rispose Un film che sia come certi libri « che possono andare nelle mani di tutti », che possa cioè esser visto anche dai minori di sedici anni, è un fatto da segnare albo lapillo cioè con una matita bianca: in omaggio, dunque, oltre che al suo candore, alla sua eccezionalità. Il candore è sempre desiderabile, particolarmente nelle opere cinema­ tografiche che per destinazione naturale si rivolgono ad un pubblico,

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indifeso proprio in misura proporzionale alla sua vastità. Il candore, nei fatti dell’arte, non è di per se stesso segno di insipidezza o di stu­ pidità; e non è neanche segno di sprovvedutezza o di poca consape­ volezza, tutt’altro ché anzi generalmente succede che tanto piu il film risulta candido, tanto piu maliziosi sono i suoi autori. Questo mi pare il caso di ... E il cielo rispose, una produzione spa­ gnola che, nell’originale, era intitolata Hisioria de la radio e che è stata realizzata dal regista Saenz de Heredia per l’interpretazione di Juan Calvo, Francisco Rabal c Margarita Audrey. Dopo tanto veleno e sangue, propinatoci dagli altri spettacoli ci­ nematografici, sentiamo meno quel tanto, e non poco, che di stucche­ vole, e persino di leggermente stomachevole, c’è nel lattemiele di quest’esile e un po’ asmatico filmetto. E siano pure i tre raccontini che lo compongono esemplari, nel senso ccrvantesiano, cioè edificanti e intesi a contrabbandare, col mezzo di una comicità di lega piuttosto grossa, misticismi e miracoli, il suo ottimismo non ci dispiace e ci trova consenziente la sua esaltazione dell’altruismo e dell’umana so­ lidarietà. Il film non manca di inventiva e di trovate graziose. Nel secondo episodio un annunciatore della radio, pescato a caso un numero telefo­ nico, comunica all’abbonato che egli può passare da lui e riscuo­ tere un discreto premio in denaro; la comunicazione è intercettata da un povero diavolo di ladruncolo occasionale, che vede aprirsi la possibilità di procurarsi un po’ di denaro con un mezzo meno diso­ nesto e ciò dà luogo ad una tenue vicenda che ha il torto di assumere, coll’intervento di un pio sacerdote, un tono troppo fastidiosamente predicatorio. Migliore di gran lunga degli altri due e il terzo episodio, che narra di un poverissimo paesetto sperduto tra i monti, nel quale vive un ragazzo affetto da una grave malattia che può essere guarita solo mediante un difficile intervento operatorio, intervento che può esser fatto solo da un grande specialista svedese. Il medico, interpel­ lato per lettera, si dichiara disposto ad operare gratis il ragazzo, ma allora sorge il problema, apparentemente insolubile, del denaro neces­ sario per il lungo viaggio. Una sottoscrizione, nonostante lo slancio di tutto il paese, dà una cifra ancora assai lontana da quella occorrente; ma un buon carabiniere ha una geniale trovata, il maestro del villaggio parteciperà al concorso della radio lascia o raddoppia, vincerà e cosi risolverà il problema. E cosi avviene infatti, con la mediazione di al­ cuni santi, ai quali son rivolte le preghiere fervidissime di tutto il

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paese, raccolto in piazza attorno ad un altoparlante che trasmette le domande e le risposte del maestro, fino all’ultima, che è una sorpresa felice ed evidentemente miracolosa. Qualche ricordo sembra avvertibile dai film neorealistici italiani, in particolare, salvo errore, da Miracolo a Milano. L’ultima speranza Non si capisce bene per quali misteriosi calcoli e intrighi di noleg­ giatori e di esercenti un film bellissimo, come L’ultima speranza, passi alla chetichella, e quasi di contrabbando, mentre il pubblico accorre, s’affanna e s’accalca alla porta di altri locali, fa intervenire la Celere e fa, nientedimeno, deviare il traffico delle principali arterie della Capitale. Non ci vengano a dire che il nostro pubblico è frivolo e sciocco perché, nonostante i pubblicitari imbonimenti di crani, nonostante l’inflazione dei piu diseducativi, soporiferi e stupefacenti predoni cinematografici, propinatigli in dosi spropositatamente forti, esso con­ serva tuttora un suo intuito naturale, che lo guida senza esitazione, ed in genere abbastanza bene, nelle sue simpatie cd antipatie, nei suoi amori cinematografici. Un intuito che gli farà, sono certo, abbandonare l’ingiustificata diffidenza verso questo nuovo film di Lindtberg e, pro­ babilmente, decretare il piò lusinghiero successo. È questo un film asciutto e oggettivo, drammatico e assai diver­ so dal precedente dello stesso regista, il delicato e fine Lettere d’amore smarrite, a ricordare il quale qui sopravvive un gusto, forse perfino un po’ troppo insistito, degli esterni dal vero ed una ricerca, forse troppo preziosa, di valori formali. Ma non c su questi difetti per eccesso, se tali possono dirsi, che può soffermarsi lo spettatore, che qui, finalmente, assiste ad un rac­ conto pieno di verità, ad un tragico racconto di guerra, privo di for­ zature, schivo di facili effetti cd in cui, con simpatia c comprensione, mirabile per uno straniero, è intesa e lumeggiata l’umanità del nostro popolo, la sua sofferenza c la sua resistenza al nazifascismo: dalla aperta lotta coraggiosa dei partigiani della Val d’Ossola, al sacrifìcio eroico, senza pose c senza enfasi, di un degnissimo curato di cam­ pagna.

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Verginità

Ncll’infuriare dei film mediocri, che la stagione estiva ci ha do­ viziosamente ammannito e nella interminabile serie di desolanti re­ pliche all’infinito dei soliti motivi comico-sentimentali che sono brutta caratteristica della produzione commerciale americana, è un gran sol­ lievo rivedere Verginità, il bel film di Otakar Vàvra, che fu presentato, nel 1938, alla Mostra cinematografica di Venezia. Un film finalmente che, invece delle soporifere e oppiacee storielline di ragazze che sposano affasci­ nanti giovani milionari, o per amore delle quali rinunciano a troni operettistici i principi consorti, ci racconta la crudele condizione umana in cui la società capitalistica costringe la donna, in una storia corag­ giosamente sgradevole e priva degli allettamenti e lenocini che sono i soavi licori con cui i cinematografari sono soliti aspergere gli orli dei vasi che, eccezionalmente, contengono succhi amari ancorché sa­ lutari. 11 rispetto e l’amore per la verità con cui sono descritti i personaggi e l’ambiente di questa periferia cittadina, mettono il film su di un piano di alta moralità artistica che nulla toglie all’interesse e alla com­ mozione della patetica vicenda.

La giovinezza di Chopin La giovinezza di Chopin, diversamente dalle precedenti biografie, cinematograficamente romanzate, del grande musicista polacco (se ne ricorda una con Pierre Blanchar, La valse d’adieu e un’altra hollywoo­ diana (L’eterna armonia), non è un’indiscreta e offensiva rievocazione e falsificazione degli amori di Chopin. Qui in primo piano è Chopin musicista, vera protagonista del film è la musica, e la trama del film potrebbe dirsi: la genesi della musica di Chopin. Attraverso la pre­ sentazione, non solo scrupolosamente fedele e storicamente esatta, ma intensamente suggestiva, degli elementi formativi, delle fonti di ispi­ razione di quella musica, che ha radici cosi profonde nella terra e nello spirito della Polonia. Alla vigilia del grande risveglio nazionale d’Eu­ ropa, nasce in Polonia una grande musica nazionale, che fonde ed elabora tutti i motivi nazionali e popolari del Paese e li innalza a valore universale. Dove ha parte la melodia triste, cantata con voce rauca e stentorea dalla mendicante all’angolo della strada, la monotona ca­

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denza dell’organetto, il violino del vecchio zigano cieco e quello del grande Paganini. Dove è il ricordo dei lunghi filari di betulle e lo stormire delle fronde dei giganteschi salici piangenti, le grandi di­ stese di neve scintillante e l’opaca solennità delle foreste. Dove si fondono la gaiezza tumultuosa e travolgente delle feste e dei balli po­ polareschi, la dolcezza del primo amore, con la sua grazia e freschezza, le urla di dolore dei contadini fustigati e i primi spari della rivolu­ zione. Rievocando il piò grande artista del suo Paese, Alexander Ford lo ha idealmente imitato: dandoci, con un’opera cinematografica di rara intensità e bellezza, un atto di amore alla patria e al popolo po­ lacco.

L’ottavo giorno della settimana

L’ottavo giorno della settimana del celebre regista polacco Ale­ xander Ford, è giunto al Lido1 preceduto da vivaci polemiche : è noto che esso era stato presentato a Cannes e che, dopo alcune dichiarazioni, a Parigi, dell’autore del racconto da cui è tratto il film, Marek Hlasko, è stato ritirato da quella manifestazione. Qui esso è presentato dai coproduttori tedeschi1 *3, cosa che ha provocato una protesta ufficiale della Polonia. Guardando oggettivamente, questo film non aggiunge nulla alla reputazione (anzi quasi la compromette) del regista, che è l’autore di quel sorprendente ed ottimo Fiamme su Varsavia, che pro­ prio ad una Mostra veneziana, ottenne, qualche anno fa, il premio della presidenza del consiglio3. In questo Ottavo giorno della settimana l’impossibilità di una cop­ pia di giovani innamorati a trovare un alloggio, magari anche solo di fortuna e momentaneo, per concretare il loro sogno d’amore, tende a diventare weltschmerz, dolore universale, impossibilità eterna a rag­ giungere la felicità: la felicità esiste solo nell’ottavo giorno della setti­ mana : proprio come diceva D’Annunzio (e non so se mi spiego) nel fa­ moso verso « la piu grande gioia è sempre all’altra riva ». È chiaroche una morale della favola cosi vieta e decadente costituisce, già di 1 La recensione fa parte di una corrispondenza di B. da Venezia in occa­ sione della Mostra cinematografica del 1958 (n.d.r.). 3 Si ricorda che il film è una coproduzione tedesco-polacca (n.d.r.). 8 Alla Mostra veneziana del 1948 dove fu presentato col titolo La strada', di confine (n.d.r.).

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per sé, un impedimento insormontabile al raggiungimento del livello dell’arte, e ad abbassar ancora il livello raggiunto dal film e a scartarlo dalla piana c diretta visione della realtà, nella sua essenzialità signifi­ cativa, si c aggiunta l’ambientazione a Varsavia, qui vista, per dar qualche parvenza di attendibilità alla storia, in ambienti marginali e da bassifondi, cosi sordidi, materialmente e moralmente, da degradare quelli dei piu screditati romanzi del naturalismo ottocentesco e dei loro sottoprodotti, di Sue o De Montepin. Tutto ciò a prescindere da un tono moralmente un po’ sporco di tutto il film, anche sull’amore, che voleva essere poetico, dei due protagonisti : e da un gusto, piu che dub­ bio pessimo, di molte situazioni e scene, influenzato dalla cinema­ tografìa tedesca del primo dopoguerra, nei suoi prodotti minori. Il talento di Ford (al quale non si può che augurare una pronta e piena rivincita) e la buona fotografìa del giovane Jerzy Lipman, la discreta recitazione di Sonja Ziemann non salvano L'ottavo giorno della settimana da una catastrofe piena.

/ dannati di Varsavia

Un tono da referto imparziale e documentario è ormai diventato di prammatica nella recente cinematografìa di qualche impegno e, in particolare, nei film di guerra. Un ottimo esempio ne dà il film polacco 1 dannati di Varsavia, del valoroso regista esordiente Andrzej Wajda; film che premiato al Festival di Cannes lo scorso anno, ottiene un buon successo, in questi giorni, sui nostri schermi. Vi si narra la tra' gica epopea di una compagnia di partigiani che, durante la insurre­ zione contro l’occupazione nazista, resiste fino all’ultimo in un quar­ tiere periferico e poi, paurosamente decimata, tenta, in obbedienza agli ordini del comando, di raggiungere il centro della città, ultimo baluardo della Resistenza. Nel disperato tentativo di raggiungere l’obiet­ tivo, attraverso le fogne, tutti i personaggi della vicenda trovano la morte: e il tenente, che ha guidato la spedizione ed è finalmente riuscito all’aperto, ridiscende nei sotterranei, alla ricerca dei suoi uo­ mini, che egli crede abbiano perduto i collegamenti e che» invece, usciti da un altro cunicolo, sono stati catturati e fucilati dai nazisti. L’impianto narrativo del film non è dunque nuovo neanch’esso, basato com’è sulla situazione di un pugno di uomini, tesi in uno sforzo, morale e fisico, spinto oltre i limiti concepibili del potere e delle pos-

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sibilila umane, e che soccombe proprio nel momento in cui sembra esser fuori da una situazione di incubo. Ma, rispetto alla maggior parte dei film di questo tipo, che si son visti fino ad oggi, I dannati di Var­ savia presenta qualche cosa di profondamente diverso e produce un di­ verso effetto sull’animo dello spettatore. E c’è proprio una lezione molto profonda e sottile da ricavare dal confronto di questo film po­ lacco e altri di simile schema narrativo e di simile soggetto, come se ne son prodotti con frequenza, negli ultimi tempi, a Hollywood. Una differenza che, per essere differenza di forma, lo è anche di sostanza ìntima. La forma della rappresentazione artistica oggettiva, nel mondo bor­ ghese, è di per se stessa una rinunzia: è la rinunzia a quella soggetti­ vità, che fu per tanto tempo conclamata come caratteristica essenziale dell’arte. Ma l’oggettività in arte è il segno e la conseguenza di un piu vasto e totale fallimento, quello di tutta una ragione ed un modo di essere: della concezione idealistica della soggettività del mondo reale. L’oggettività dell’artista borghese è, di conseguenza, macchiata in partenza da quei segni di naufragio e di angoscia che la filosofìa borghese ha teorizzato, come superamento dell’idealismo, nelle va­ rie forme di esistenzialismo. Da qui il risultato, sempre abortito, dei conati realistici dell’arte borghese; da qui la tendenza a rappresen­ tazioni in cui gli sforzi piu eroici risultino ineluttabilmente condannati al fallimento : da qui il senso di disperazione o di rassegnazione dolo­ rosa, che emana da queste opere. Poiché un ordinamento sociale crolla evidentemente, non c’è piu ordine possibile: poiché la classe domi­ nante perde il potere non c’è piu potere, nell’uomo, a dominare il caos dell’esistenza. Il fìlm di Wajda, nonostante la fortissima rappresentazione del caos della guerra maledetta, nonostante l’agghiacciante ecatombe di tutti i protagonisti, riafferma il sopravvento e il trionfo della forza morale dell’uomo:.la condanna della guerra, oggettiva e spietata, non travolge qui sullo stesso piano di bestialità tutte e due le parti conten­ denti, tutta quanta l’umanità. Coloro che difendono il proprio paese e la libertà possono morire; e ciò non perché il mondo si è sommerso nel caos, o è sempre un caos, che solo la guerra ci fa vedere appieno, nella sua estensione e totalità: ma perché da questo caos possa nascere un ordine nuovo e migliore. Qui l’oggettività non è rinuncia esasperata o cupa rassegnazione: c la forza spontanea, possibile e necessaria, perché l’assunto ideologico

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possa esprimersi efficacemente. 11 successo artistico è la conseguenza della fedeltà piena al reale; vista dall’angolo' ideologico giusto, la realtà stessa parla, con forza straordinariamente persuasiva. Come voleva De Sanctis: le lagrime sono delle cose. E il significato emerge chiaro, dalle visioni indimenticabili di questo film, dall’arido bian­ core accecante e calcinoso della città distrutta e fumante, dall’oscu­ rità sotterranea, sempre più cupa e sorda, come un presagio di morte.

Un pedino di terra

Lo sforzo della migliore critica ungherese è volto costantemente a combattere, accanto ai residui di formalismo e di cosmopolitismo, gli errori di indirizzo, solo apparentemente opposti, del naturalismo e dello schematismo. È in Un palmo di terra, per la regia di Frigyes Ban, che questi di­ fetti sono pienamente superati; tanto che di esso Pudovkin potè dire: « Un palmo di terra vale come una critica per i precedenti film unghe­ resi ». Il regista, nato nei primi anni del secolo, ha alle sue spalle una lunga carriera cinematografica: si ricordano di lui Una notte in Transilvania, che fu premiato ad una delle Mostre cinematografiche di Ve­ nezia (1939) e La guardia di frontiera n. 5, premiato, nel 1946, al Fe­ stival di Basilea. Io ho assistito, una volta, al suo lavoro: girava una scena drammaticissima di un film, successivo a Un palmo di terra, Battesimo di fuoco. Ne fui molto colpito. Frigyes Ban lavora con una calma attenta e meticolosa, pur atteggiata a distacco leggero e persino ironico: mi sembrò che prevalessero in lui le attitudini critiche su quelle fantastiche, che è, a mio avviso, un valido passaporto per fare del buon cinema. Girata una prima volta la scena, il regista disse che andava bene, che gli attori erano stati bravi, che però era forse meglio ripeterla tutta. Poi si alzò, disse qualche cosa che non capii e che fece ridere tutti; si avvicinò all’attrice c le parlò a lungo sottovoce, sempre con tono amichevole e, pareva, leggero; altrettanto fece con l’attore. Tornò alla macchina, della quale aveva studiato in precedenza, col­ l’operatore, il non facile movimento del carrello e di panoramica. In­ fine: Luce! Motore! Azione! E la scena, in tutto uguale alla prece­ dente, era diventata, ma non si sa come, un’altra cosa: piu stretta di ritmo, va bene, ma anche, misteriosamente, piu intensa e piu vera.

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Mi sforzai di cercare le varianti apportate, di ricostruire i suggerimenti dati delicatamente e amichevolmente agli attori: erano invenzioni, minute, apparentemente trascurabilissime. Mi sembrò, il suo, uno stile, esemplare di collaborazione e di perfetta intesa tra collaboratori di alta qualità e capacità tecnica; quanto ammirai quell’inventiva chenasce da una iniziale posizione costruttivamente critica! La fusione del concettuale coll’inventivo fantastico mi apparve il fondamento» della intesa perfetta tra i collaboratori, tutti capaci, evidentemente^ non solo di capire il proprio compito, ma anche di ottenere dai pro­ pri strumenti espressivi, con naturalezza e spontaneità, un’esatta esecuzione. Una vera e propria lezione di regia cinematografica, a saperla intendere, che conteneva in sé, fatti già normale pratica di la­ voro, gli elementi essenziali di un’estetica sana. Un palmo di terra è dunque un’opera in cui l’idea traspare piena­ mente dalla vicenda umana e semplice che racconta con grande schiet­ tezza e felicità. Il film narra la storia di una ragazza contadina, rapita dall’uomo che ama, il giorno delle sue nozze forzate col figlio del pa­ drone. La giovane coppia ne avrà tutta la vita impegnata in una lotta continua e durissima, contro la schiacciante forza padronale. Il film è pieno di miseria, di sofferenza; ma anche pieno della poesia eterna della gioia di vivere, nonostante tutto, nel lavoro e nell’amore. « Co­ me due melodie parallele di un classico contrappunto musicale, i due motivi principali del film esprimono, l’uno il pesante e opprimente fardello che è la vita del contadino povero, l’altro la sua forza invin­ cibile e la sua ferma volontà. Ed è questa forza, questa fiducia del­ l’eroe, che alla fine batte al nostro cuore. Ecco perché il film Un palmo di terra è un’opera epica e monumentale». Cosi ha scritto del film Béla Balazs, che analizzandone i vari momenti, ha potuto concludere che : « Questo film rude e amaro, è tuttavia pieno di incanto e di grazia ». Questa prima vittoria del realismo, pienamente inteso, afferma ovunque il nome del regista : il film riceve il premio Kossuth e, a Marianské Lazné, il gran premio del lavoro (1949); nell’URSS ottiene un grande successo di pubblico e di critica (e si nota, tra le critiche piu favorevoli, quella del regista Aleksandrov, sulla Pravday, nei paesi oc­ cidentali impressiona fortemente i pubblici più vari, specie in Francia dove se ne dà una lunga serie di visioni; in Italia entusiasma i fre­ quentatori dei circoli del cinema, i soli che abbiano potuto vederlo. Sulla scia di questo successo, Frigyes Ban produrrà ancora due

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film di ambiente contadino Terre liberate (1950) e Battesimo di fuoco (1952) ottimi film, che confermano le grandi doti del regista del lineare c profondo Palmo di terra

Accadde in Europa

Uno dei primi, e nonostante le riserve che gli possono muovere, uno dei migliori fìlm della cinematografìa ungherese è Accadde in Europa : un nobile forte atto di accusa e di esecrazione contro la guerra. Il fìlm è stato girato, nel 1947, da Geza Radvany, su soggetto e con la collaborazione di Béla Balàzs. Va detto subito che il film non rispec­ chia la cristallina e ispirata chiarezza degli scritti del grande teorico del cinema : pur restando un’opera di grande valore artistico e umano, una opera pienamente positiva, esso, invischiato com’è in disuguaglianze e confusioni strane e a volte quasi indecifrabili, non traduce del tutto le intenzioni che l’hanno ispirato. Vi si narra di una banda di ragazzi, dispersi dalla guerra, in un non identificato paese d’Europa, i quali, recatisi a rubare in un castello solitario, vi trovano un vecchio artista, un musicista pieno di compren­ sione e di umanità, pieno di esperienza e di saggezza (l’attore Arthur Somlay) che li aiuta, li indirizza, li corregge e li sorregge, nell’organiz­ zazione di una piccola comunità, libera e felice. La volontà di attingere universalità, non nella specificazione, ma nell’indistinto dell’ambiente, e la fantasiosità della situazione, almeno nei toni estremi cui è immediatamente sospinta, postulano una inter­ pretazione che illumini la simbologia del film e ne faccia trasparire le intenzioni ideologiche: ma la stravagante struttura generale di tutta l’opera, il montaggio asimmetrico e scalèno, miscuglio mai amal­ gamato di tratti profondamente e commoventemente reali e di formali­ smi espressionistici nell’inquadratura e negli attacchi, oscurano tutta l’opera e ne rendono la significazione nel complesso astrusa e contro­ versa, cioè anche di dubbia efficacia. Il film ha avuto piu successo in Oc­ cidente (fu proiettato ed ha fatto furore al Festival cinematografico di Edimburgo nel 1948) che non in Ungheria. In Ungheria lo hanno in­ dubbiamente sottovalutato, ma in Occidente lo hanno se non sopravvaDa Sviluppo del cinema ungherese (Filmcritica, nn. 30-31, novembre-di­ cembre 1953) (n.d.r.).

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lutato, certo apprezzato soprattutto per i suoi difetti, in Occidente oscu­ rità essendo ancora quasi un attributo indispensabile dell’arte. La collaborazione dell’autore del soggetto con quella del regista non è stata felice : la pregnanza ideologica di certe scene bellissime è sicura­ mente tutta da attribuirsi a Béla Balàzs, del quale sono certi tagli, magari di un gusto un po’ sorpassato, legato cioè a ricordi dell’espres­ sionismo, ma che raggiungono l’attualità per la bellezza e la potenza emotiva. Il pensiero e la forza espressiva del maestro si riconoscono in quei brani, dove una perfetta icastica condensa in immagini, rischiose e spericolatissime, un intero senso di vita. Che è il nostro. Chi dimenticherà l’ammissione, finalmente ottenuta, del piu piccolo bimbo sperduto petulantemente e disperatamente accodatosi alla banda dei piu grandicelli e significata dal gesto quasi rituale, carico di una accentuata e maliosa generosità con cui il ragazzo piu grande gli tende, senza degnarlo d’uno sguardo, l’ultimo avanzucolo della mozza che stava fumando? O lo stupefacente inizio del film: un lungo con­ voglio nero, un convoglio di deportati percorre una campagna scon­ finata; un braccio emerge a un tratto dallo spioncino di un vagone piombato, la mano stringe qualcosa (uno straccio? un asciugamano?), lo libra un poco nell’aria poi lo scaglia lontano, mentre il treno si perde in lontananza : è un bambino... L’infanzia: perduta e abbandonata della guerra1.

La ragazza Ditte

Il pubblico della Mostra del cinema123, che anche domenica sera, letteralmente gremiva la Corte dei Dogi, dove hanno luogo le proie­ zioni, ignorava per la piò gran parte il grande romanziere comunista Martin Andersen Nexo ed il suo romanzo La ragazza Ditte da cui Bjórne Henning Jensen ha tratto l’omonimo bellissimo film. E non ha potuto quindi valutare quanta parte del felice e solenne impianto narrativo e delle minute realistiche e drammatiche analisi di questa riuscita opera cinematografica spetta allo scrittore: una parte indub­ biamente preponderante per il successo artistico del film. 1 Recensione desunta da Sviluppo del cinema ungherese (Filmcritica, nn. 3031, novembre-dicembre 1953) (n.d.r.). 2 Si tratta — ricordiamo — della Manifestazione cinematografica del 1946 (n.d.r.).

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Il film, la cui vicenda si svolge in campagna, nella grande rudezza e durezza dell’avidità che ai contadini deriva dalle condizioni sociali ed umane, difficili ed aspre se non terribili e raccapriccianti, narra la sto­ ria di una ragazza, figlia, come suol dirsi, naturale, che a sua volta, a vent’anni, sarà madre di un bimbo, figlio anch’esso dell’amore. Se­ condo la tradizione della cinematografia scandinava, l’andatura del racconto è lenta, piana e di una semplicità esemplare che è il frutto di ■una spigliata selezione dei modi e dei mezzi espressivi. Esterni bellissimi, scelta di attori già costituzionalmente eloquenti, espressioni di ben intonati caratteri, sono in questo film il primo salva­ condotto della parte artistica; lo sgranarsi degli episodi — il cui ca­ novaccio, solo apparentemente tradizionale, è perfetto nel raccordare l’episodio al tutto — ed anche la fotografìa saggiamente esentata da ambizioni formato gabinetto, tutto ciò fa de La ragazza Ditte un’opera indimenticabile. Un’opera seria e bella come da tempo non se ne ve­ devano.

Ordet

Sebbene un abile imbonimento pubblicitario e il ricordo del vecchio e stupendo La passione di Giovanna d’Arco gli avesse creato una enorme aspettativa e una disposizione quanto mai favorevole, il nuovo fìlm di Dreyer, Ordet, ha disorientato il pubblico sin dall’inizio, e lo ha, nel complesso, profondamente sconcertato e offeso. Pochi e poco convinti gli applausi, rinnovatisi, con tiepida cortesia all’accendersi della luce e all’appari re della figura spiritata del vecchio regista. La trama del fìlm è indubbiamente sconcertante: vi si tratta di una con­ tadina che muore di parto e che il cognato, affetto da una mania reli­ giosa, che gli fa credere di essere Gesù Cristo, tenta invano di far re­ suscitare; miracolo che, infine, compirà, non la sua fede fervorosa e pazzesca, ma quella ignara ed innocente d’una bambina, figlia della morta, la quale risuscita infatti e rivive tra le braccia del marito, libero pensatore che si con verte in quell’occasione, e al quale ella elargisce immediatamente, assieme a teneri baci, piccoli morsi delicati, di un prematuramente risorto erotismo. Trama caratteristica del regista da­ nese (è un libero adattamento di un dramma di Munk) che, traviato da un temperamento quanto mai atrabiliare e iettatorio, e guastato da un fumoso e pretenzioso irrazionalismo, nella dozzina di fìlm che

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costituiscono la sua carriera artistica, ha narrato sempre storie incredi­ bilmente bizzarre, torbide e terrorizzanti. Agli esordi, sulle orme di Griffith, le incarnazioni del diavolo, in diverse epoche storiche (nel­ l’ultima il maligno si faceva commissario del popolo sovietico) e poi storie di streghe, di vampiri, di padrone di casa, di verziere, di esor­ cismi, di pogroom, di torture e di roghi. Oggi, in Italia, i film di Dreyer, come II vampiro o Dies irae sono concordemente giudicati, dagli intenditori, come goffe, pretenziose e ridicole espressioni di una impotenza artistica che tenta invano di surrogarsi con isteriche ma­ nifestazioni sadistiche. Con l’eccezione di Giovanna d’Arco che è agli antipodi di tutta la produzione del regista e che, ragionevolmente, deve esser considerata il frutto singolare e fortunatissimo di una collabora­ zione che ha soverchiato la mano del regista: in terra di Francia, cioè con una clarté, che è agli antipodi della malsana sensualità e del­ l’irrazionalismo del Dreyer. Nel film Ordet, oltre qualche tratto di naturalezza, che per altro stride col pazzesco comportamento dei per­ sonaggi della storia, non c’c niente, nemmeno tecnicamente, da ammi­ rare: non la facile crudezza fotografica da film giallo, non la preten­ ziosità delle inquadrature, non l’insistenza su particolari inutili, non il generale simbolismo, né la struttura compositiva sghemba e spro­ porzionata. La scena del parto, vista con inutile glaciale spietatezza, ci fa inoltre udire interminabilmente tutta la gamma dei gemiti, degli urli, dei lamenti e dei rantoli della puerpera; e persino i tagli secchi della forbice chirurgica che fa a pezzi il bambino per liberare la ma­ dre. Una scena intollerabile che può essere indicata come l’esempio massimo, forse in tutta la storia della cinematografìa, della totale mancanza di rispetto per la vita, per l’uomo e per la dignità umana. Assurdo e degradante.

L’ultimo ponte Sdo oggi, passa sui nostri schermi, il film, di produzione jugoslava, diretto da Helmut Kaiitner e da Gustav Gavrin, L’ultimo ponte'. solo ora, e in questa stagione, sebbene esso sia stato insignito da una notevole serie di importanti segnalazioni internazionali: Pre­ mio Selznick, 1954, Premio di Cannes, 1954, Premio cattolico inter­ nazionale, 1954; ai quali va aggiunto un secondo Premio di Can­ nes, anche del 1954, alla protagonista Maria Shell, per la sua inter­ pretazione.

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Un’infermiera aggregata all’esercito tedesco, prigioniera de# partigiani che lottano eroicamente per la liberazione, l’indipendenza e l’unificazione del proprio paese, si convince che la propria missione è quella di curare e di assistere i feriti e gli ammalati c quanti possono aver bisogno di lei, sia dell’uno che dell’altro dei due campi avver­ si; quando, nel piccolo settore partigiano, scoppia un’epidemia di tifo, il suo generoso prodigarsi, nell’assistenza dei malati, tocca l’abnega­ zione: tanto piu che il suo desiderio struggente, e non nascosto, è quello di tornare tra i suoi, tra i soldati della sua patria; cosa che riesce ad un altro prigioniero, un giovane ufficiale tedesco che, sebbene fe­ rito, fugge e raggiunge il proprio distaccamento. Il tifo frattanto miete vittime nel campo partigiano, dove mancano i medicinali : quando giunge la notizia che ne porterà un soldato inglese che sarà paracadutato nel campo; cosi infatti avviene, ma il soldato è caduto, gravemente ferito, in zona tedesca, dove è raccolto e nascosto da un contadino. Un ragazzetto sordomuto del paese, che ha assistito al fatto, avverte i partigiani, che mandano una loro combattente, assieme alla ragazza tedesca per ritirare i medicinali. Le due donne sono, come tutti gli abitanti del paese, razziate dai tedeschi e addette ai lavori di costruzione di una strada. Approfittando del momento in cui sta per brillare una mina e quindi tutti si allontanano, la giovane partigiana tenta la fuga ma muore nell’esplosione. E sarà la tedesca a portare a compimento la missione. Frattanto però il comando partigiano ha ordinato al gruppo di attaccare le forze tedesche del paese; cosi che, mentre l’infermiera attraversa il ponte che separa le due zone, ha ini­ ziò la battaglia; la donna cade ferita. Riconosciuta dalle due parti, per un tacito accordo, cessa il fuoco*, la donna si rialza, raggiunge i par­ tigiani, consegna le medicine e si avvia per tornare. A metà del ponte s’abbatte, morta al suolo. E la battaglia ricomincia. Girato in gran parte in esterno, dal vero, e con un folto gruppo di attori non professionisti, forse anche per influenza del neorealismo italiano, il film ha, nel complesso, un bel timbro di autenticità. Anche se la fotografia pecca di eccessivo « documentammo » e rivela cosi (per esempio nei neri bruciati delle verzure e degli alberi) una non compiuta abilità, o almeno una certa mancanza di pazienza, negli operatori, a scegliere le ore adatte alle riprese.

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Gli assassini sono tra noi Gli assassini sono tra noi, primo fìlm della Germania nuova è in­ dubbiamente un documento importante, una testimonianza di ieri oltre che del travaglio morale e materiale del popolo tedesco nel do­ poguerra. Crollate le folli ideologie nazistiche, sopravvivono tut­ tora i criminali esponenti, che, mentre gli onesti si battono in tremende crisi e pazze isterie, badano unicamente a ricostruirsi una vita di ru­ berie e di privilegi. Due medici incarnano nel fìlm i due termini del conflitto: Hans; il protagonista incapace di liberarsi dali’incubo della guerra e dalla, ossessione del nazismo, incapace di riprendere il ritmo assennato e sano di vita, incapace perfino, di amare; e un suo collega, subdolo e abile, che industriandosi disonestamente, riesce a crearsi una vita lus­ suosa, pur nel generale sfacelo. Due volte Hans, vedendo in lui il legittimo erede mostruoso del nazismo, tenta di ucciderlo per vendicare in lui tutto il paese distrutto,, ma tutte e due le volte ritorna in sé; la prima perché chiamato di ur­ genza in una casa, in quanto medico, a portare la sua opera umanitaria; la seconda è distolto dal suo proposito dalla donna che l’ama. Cosi’ il rapporto si fa significato: il lavoro e l’amore, sole fonti di salvezza,, tanto degli individui che dei popoli. Un film come si vede, concepito con intelligenza e nobiltà di in­ tenti. È, nella realizzazione, almeno dignitoso anche se di gusto biz­ zarro, fatto di ricordi della vecchia cinematografiia tedesca e di certi tratti caratteristici di quella russa, di tecnica, dunque un po’ antiquata, ma non banale, forzata negli effetti fotografici non meno che in quelli, sonori, e sovraccarico nell’espressionistica recitazione degli attori ingenere e del protagonista in particolare. Un film imperfetto, ma sano» e simpatico1. La ragazza Rosemarie

La ragazza Rosemarie è stato presentato alla Mostra di Venezia* dell’estate scorsa come una considerazione fieramente autocritica del cosiddetto « miracolo economico » della Germania occidentale, e, come­ si è detto e pubblicato, la sua presentazione a quella mostra ha dovuto» 1 La regia di Gli assassini sono tra noi è di Wolfgang Staudte (n.d.r.).

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superare varie resistenze e difficoltà da parte del governo di Bonn. L'accoglienza della stampa italiana è stata delle piu lusinghiere: il film è stato insignito del Premio Pasinetti e i critici sono stati una­ nimi nel lodare e nel dare compiaciuto rilievo alla sua sostanza pole­ mica. Ci hanno trovato : « sferzante sarcasmo » (Corriere della Sera) « accenti pungenti » (La stampa), « impeto generoso, impegno ideo­ logico e protesta contro la società » (Resto del Carlino), che ne avrebbe fatto « un film vivo e pungente » (Giorno), « aspro e tale da suscitare veementi discussioni » (L’Italia) c simili. Le veementi polemiche, dunque, non ci sono state affatto, anzi se qualche lieve riserva è stata ■ avanzata sulla fattura e la qualità artistica del film, la sua fiera pro­ testa sociale ha provocato un generale gongolar di entusiasmo. Questo entusiasmo della stampa dei borghesi e degli industriali per un film tanto « rivoluzionario » lascia molto perplessi e quasi quasi indurrebbe a pensare che quell'aperta e insistita professione, almeno di anticonformismo, non costituisca che una forma raffinata di lancio pubblicitario, una sottile e scientifica operazione di persua­ sori occulti. Tanto che, se io non conoscessi da tempo il convinto spi­ rito di accenditore di roghi di Gian Luigi Rondi, sarei quasi indotto a pensare che anche il suo recente attacco contro la tiepidezza (pensate un po') della censura, per aver concesso il visto di programmazione ad una intera serie di opere immorali e oscene, tra le quali primeggia La ragazza Rosemarie, non sia che un rincalzo di persuasione occulta, in­ tesa a scuotere l'indifferenza con cui il pubblico sembra accogliere quest’opera strombazzata. A onor del vero il solo retroscena del «miracolo economico» che il film illustra è il fatto che gli artefici di questo miracolo, stanchi delle proprie insopportabili mogli e stanchi anche, non si capisce perché, delle consuete segretarie private, cercano svaghi, spassi e distensioni presso ragazze squillo e sgualdrinelle da strada e scacciano l'angoscia della solitudine esistenziale confinando loro segreti politici e industriali e piccole pene domestiche. È vero che queste fornicazioni meschine culminano nel film in un delitto, ma è anche vero che questi magnati tedeschi sembrano qui derisori e rimbambiti piccoli borghesi. La storia di spionaggio, che porta al delitto, è cosi poco attendibile che sembra fatta apposta per non esser creduta, al solo scopo di divertire: e, se un sale voleva esserci, nel film, esso si è totalmente disciolto in una generale tiepidezza. La storia è questa: una spia francese si serve di una ragazza, Ro-

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semarie, per carpire certi segreti industriali e politici, inducendola a piazzare nella propria alcova, frequentata da grandi industriali, un magnetofono. La ragazzetta pensa quindi di servirsi di quei na* stri magnetici cosi compromettenti per concludere, con un «ricco matrimonio d’amore», la sua brillante carriera mondana. I rammol­ liti magnati dell’industria, a questo punto, incapaci di svincolarsi dai lacci tesi loro da questa dissennata ragazzetta, si ricordano di essere gente spietata c cinica. F. si lascia immaginare allo spettatore che siano proprio loro a far uccidere, non si sa né come né da chi, la ragazza. Per tutto il film circolano due suonatori ambulanti che sono due coerenti mascalzoni e un esangue studente, che distribui­ sce foglietti propagandistici della spiritualità e della fede religiosa: un personaggio questo troppo allocco e antipatico per poterlo cre­ dere portatore dell’idcologia del film e troppo scialbo e infaceto per essere una caricatura. Più che rappresentare corruzione e cinismo il film sembra espri­ mere un proprio cinismo, se non compiaciuto, per lo meno divertito. Che però non vuol dire affatto divertente: nonostante le allures da vaudeville e il continuo plagio da L’opéra de quat’sous di Pabst e da II milione di René Clair. Graziosa l’interprete femminile Nadia Tiller e abbastanza effi­ cace Peter van Eyk, l’agente segreto francese: un attore tedesco di cittadinanza americana, già « ufficiale di controllo informazioni » in Francia e in Germania1.

i La regia del film è di Rolf Thiele (n d.r.).

Indice dei nomi

Adams Dawn, 69. Aimée Anouk, 359. Alarcon Pedro Antonio de, 102. Albert Eddie, 442. Albertini Luciano, 137. Aldo G. R., 243. Aldrich Robert, 395. Aleksandrov Grigori, 33,51,318,547. Alessandrini Goffredo, 169, 316. Alighieri Dante, 212, 326. Allegret Marc, 231. Altman George, 8, 335 n. Amidei Sergio, 238. Amorin Enrique, 27, 28. Anderson Michael, 517. Andreon Franklin, 398. Andreotti Giulio, 31. Andrews Dana, 478. Annabella, 164. Annibale, 177. Antongini Tom, 177. Antonioni Michelangelo, 202-204, 306 n., 308, 320. Apollinaire Guillaume, 125. Archimede, 177. Aristarco Guido, 37, 38, 44. Arletty, 388. Arnheim Rudolf, 20, 104, 117, 118. 146, 512.

Ashley Ray, 400 n. Asquith Anthony, 519. Astor June, 374. Astruc Alexandre, 352, 353. Auber Brigitte, 434. Audrey Margarita, 540. Auric Georges, 379. Auriol Jean-George, 530. Autant-Lara Claude, 354, 356, 357_ Avercenko Arkadi T., 13. Aymé Marcel, 355. Bacall Laureen, 495. Bacchelli Riccardo, 127, 254. Bach Johann Sebastian, 458. Bacon Lloyd, 118 n. Balias Béla, 20, 24, 29, 36, 38, 40„ 50, 93-98, 104, 118, 122, 123, 128,, 130, 140, 150, 184, 191, 256, 305,. 326, 327, 398, 430, 442, 460, 529 n.> 547-549. Balbo Italo, 454. Baldini Antonio, 176. Balistrieri Virginia, 144, 147, 18K Balla Giacomo, 40. Ballerini Piero, 170. Balzac Honoré de, 291, 369. Ban Frigyes, 546, 547. Bancroft George, 151.

,560

Servitù e grandezza del cinema

Baragli padre, 381. Baranovskaia Vera, 130. Barattolo Giuseppe, 154. Bardèche Maurice, 150, 167, 365. Bardem Juan A., 534, 535. Barnet Boris, 313. Baroncelli Jacques de, 75, 87. Barrault Jean Louis, 361. Bartoccioni Vincenzo, 96. Bataille Henri, 407. Battistello, Caracciolo G. B., detto il, 169. Baxter Ann, 478. Beccaria Cesare, 507. Becker Jacques, 357-359. Beissier Fernand, 156, 176. Bell Marie, 388. Bellonci Goffredo, 102, 104, 127, 140, 153. Bennett Joan, 448. Benvenuti Gina, 144. Berellini Bruno, 261. Bergson Henri, 77, 85, 88, 112, 199, 454. Berke William, 400. Berlanga Luis, 537, 539. Bernanos Georges, 417. Bernard Raymond, 350. Bernhardt Sara, 130, 150. Bernstein Henry, 407. Bersezio Vittorio, 292. Berti Marina, 213, 253. Bertini Francesca, 137, 138, 144, 151154, 156, 163, 176, 177. Billon Pierre, 359. Blair Betsy, 204, 535. Blanchar Pierre, 542. Blasetti Alessandro, 23, 31, 199, 205210, 277, 307, 317. Blom A., 124. Boccioni Umberto, 40, 129. .Bogart Humphrey, 417, 486, 495, 502, 505, 510.

Bogdanov A., 36. Boito Arrigo, 297. Boni Carmen, 243. Bonnard Mario, 140, 152, 175. Bonnemain Marguerite, 387. Booth, 499. Sorelli Lyda, 137, 140, 175. Borissov Aleksandr, 279 n. Bosé Lucia, 279. Boulanger G. E., 387. Bourget Paul, 106, 248, 317. Bourvil André, 355. Bracco Roberto, 144, 180, 181. Bragaglia Anton Giulio, 13, 100, 101, 128. Brahm John, 402. Brancati Vitaliano, 302, 303. Brando Marion, 420, 435, 463. Brasillach Robert, 150, 167, 365. Brasseur Pierre, 90. Brazzi Rossano, 525. Brennan Walter, 478. Bresciani padre, 429. Brignone Guido, 154, 242. Britt May, 420. Brooks Richard, 404 n., 405, 406, 409, 416. Brown Clarence, 316. Brynner Yul, 410. Bucharin Nikolai, 36. Buonarroti Michelangelo, 12, 24, 25, 34, 35, 105. Burckhardt I., 126. Burov, 328. Cain James, 448, 501. Calamai Clara, 211, 300. Calamandrei Piero, 265. Caldwell Erskine, 464, 465, 481. Calvo Juan, 540. Camasio Sandro, 242. Camerini Mario, 86, 102, 170, 171,

Indict dei nomi

207, 211, 212, 217, 256, 276, 277, 278 n. Campanile Achille, 152. Campanile Mancini G., 155. Campogalliani Carlo, 242. Camus Albert, 460. Cantor Eddie, 110. Canudo Ricciotto, 75, 94, 127, 144. Capablanca José, 15. Capodaglio Wanda, 260. Capra Frank, 170, 410, 413, 453, 501. Capuana Luigi, 144, 246. Caracciolo Luigi, 180. Caravaggio, Michelangelo Merisi, detto il, 35, 105, 169. Carboni-Talli Ida, 154, 155. Carco Francis, 350. Carducci Giosuè, 14, 101. Carey Mac Donald, 508. Carlo IV di Spagna, 249. Carmi Maria, 127, 144, 147, 148, 181. Carminati Tullio, 154, 155. Carnè Marcel, 53, 231, 349-351, 360363, 372. Camera Primo, 485. Carotenuto Mario, 285. Carradine John, 478. Caruso Pietro, 288. Casavola Franco, 100. Caserini Mario, 154, 156, 174-176. Casiraghi Ugo, 318. Cassini A., 154, 155. Castellani Renato, 200, 213-215, 253, 321, 461, 499. Castelli Enrico, 409. Castello Giulio Cesare, 121. Caterina di Russia, 259. Cavalcanti, 326. Cavalcanti Alberto, 37, 350. Cayatte André, 274, 275, 363. Cecchi Emilio, 37, 171 n., 341.

56i

Cechov Anton Pavlovic, 128, 321 338, 341. Ceculaeva, 13. Cegani Elisa, 210. Celano Guido, 222. Centa Antonio, 237. Cerkassov N. K., 31. Cernicevski Nikolai Gavrilovic, 458. Cervi Gino, 210, 250. Chaplin Charles Spencer, 35, 37, 5472, 78, 80, 85, 88, 89, 91, 97, 101, 110, 111, 113, 118 n., 139, 144, 150, 172, 173 n., 235, 286, 390, 391, 444, 453, 454, 485. Charell Eric, 530. Charensol Georges, 137, 142, 165, 378. Chariot vedi Chaplin C. S. Chartier, 153. Chateaubriand Franfois-René de, 179. Checchi Andrea, 211, 285. Chenal Pierre, 108, 365, 366, 423. Chiaramente, 139. Chiarelli Luigi, 155. Chiari Mario, 298. Chiarini Luigi, 37, 46, 132, 142, 166, 186 n. Chomette Henri, 86. Chopin Frederic, 27, 542. Churchill Winston, 64, 65. Ciaffi, 164. Ciampi Yves, 366. Ciaureli Mikhail, 25, 45, 279, 296. Cinelli Delfino, 102. Cini, 176. Cirkov Boris, 29. Cistiakov, 13. Ciukrai Grigori, 330, 343. Clair René, 31, 59, 73-91, 242, 350, 356, 379, 387, 555. Clément René, 369, 370 n.

5&2

Servitù e grandetta del cinema

Clouzot Henri-Georges, 231, ' 316, 371, 372. Clouzot Vera, 373. Cochran Steve, 204. Cocteau Jean, 75, 373, 374, 380, 475. Colacicchi Luigi, 171. Colette, 356. Collo Alberto, 138, 151, 152, 154, 155. Colman Ronald, 120. Comencini Luigi, 216. Comin Japoco, 12. Consolini Adolfo, 261. Cooper Gary, 120. Corneille Pierre, 81. Corradini Enrico, 257. Cortese Valentina, 285, 286, 539. Costa Mario, 144, 156, 176. Coward Noel, 524. Crain Jeanne, 492. Crawford Broderick, 492. Crawford Joan, 396. Cretinetti, 55. Croce Benedetto, 21, 76, 77, 97, 190, 197, 224, 246, 272, 326, 329, 454. Cromwell John, 411, 412. Crosby Bing, 469, 492, 493. Crosland Alan, 117-119. Cukor George, 413.

Dabini Attilio, 27. D’Alba duchessa, 249. D’Ambra Lucio, 139, 153, 166, 171. Damiani, 25. D’Amico Cecchi Suso, 208, 280, 298, 300. D’Annunzio Gabriele, 84, 100, 126, 127, 141, 151, 176, 177, 243, 543. D’Annunzio Gabriellino, 130. Da Parma Ildebrando vedi Pizzettì Ildebrando. Daquin Louis, 26. Darcey Janine, 376.

D’Aroma Nino, 325. Dassin Jules, 376, 377, 379, 414, 415, 416 n. Dattrino Giacomo, 41. Daumier Honoré, 41, 361. Davidson Paul, 124. De Amicis Edmondo, 424. Debenedetti Aldo, 276, 278, 291. Debussy Claude, 199. De Ferrari Gemma, 151, 152. De Filippo Eduardo, 228. Dégas Edgard, 199. De Giorgi Elsa, 277. De Heredia Saenz, 544. Delannoy Jean, 374. De Laurentiis Dino, 258. De Leva E., 144. De’ Liguoro Rina, 155. Della Francesca Piero, 317. Della Porta Giacomo, 140. Della Volpe Galvano, 199, 326. Delluc Louis, 55, 75, 94, 127, 163. DeUy, 225, 248, 399. De LoUis Cesare, 225. Del Poggio Carla, 219. Del Rio Grazia, 155. De Lullo Giorgio, 291. De Marchi Emilio, 251-253, 429. De Mille Cecil B., 109, 138. Demongeot Mylene, 476. De Nittis Giuseppe, 169. De Roberto Federico, 144. De Rossi, 154. D’Errico Corrado, 67. De Sanctis Francesco, 326, 383, 546. De Santis Giuseppe, 31, 218, 219 221 296. De Sica Vittorio, 171, 200, 206, 207, 210, 216, 217, 222-228, 272, 276, 317, 390. De Virgilis Attilio, 153. Dickens Charles, 534. Dietrich Marlene, 207.

Indict dei nomi

56s

Di Giacomo Salvatore, 144, 168, 181. Engel Morris, 400 n. Engels Friedrich, 62, 183, 312, 369. Di Marzio, 154. Disney Walt, 42 n., 467. Epstein Jean, 350. Dmytryk Edward, 416-418, 420, 435, Erenburg Ilia, 25, 335 n. Ewell Tom, 453. 487. Eyk Peter van, 555. Dollmann, 288. Donini Ambrogio, 31. Fabrizi Aldo, 288. Doniol-Vakroze Jacques, 434. Fabrizi Franco, 539. Donnay Maurizio, 242. Fairbanks Douglas, 76, 149 n. Donskoi Mark, 331, 332. Falcone Aniello, 169. Doria Luciano, 155. Fattori G., 105. Dostoievski Fedor, 66, 245, 246, 298Fatty, Arbuckle, 55, 110. 300, 318, 359, 409, 410 n., 431. Faulkner William, 119, 410, 481» Douglas Kirk, 212. Dovgenko Aleksandr, 45, 50, 279, 483, 484. Faure Elie, 55. 318, 334. Fellini Federico, 200, 235, 236» Doyle Conan, 432, 485. Dreiser Theodore, 319, 410, 500, 550, 306 n., 321, 414, 534. Fergusson Francis, 132. 551. Dreyer Carl Th., 341. Ferida Luisa, 237. Ferrer Mel, 442. Dreyer Regina, 42 n. Du Gard Roger Martin, 475. Ferrero Anna Maria, 260, 261. Ferzetti Gabriele, 241, 285. Dullino, 169. Festa Campanile Pasquale, 287. Dumas Alexandre, 154, 399. Dunne Philip, 422 n. Feuchtwanger Lion, 37. Dupont Ewald Andreas, 119, 242, Feuillade Louis, 87, 173, 350. Feyder Jacques, 366, 369, 388. 351, 366, 430, 449, 513, 531. Dupuis-Mazuel Henri, 350. Fini Leonor, 214. Fiorentino Rosso, 253. Duse Eleonora, 126-133. Fiori, 155. Duse Vittorio, 219. Duvivier Julien, 230-232, 286, 316, Flaiano Ennio, 208, 240, 273. 349-351, 365, 378, 379, 388, 422, Fleischer Richard, 467 n. Flynn Errol, 442. 423, 445. Dwan Allan, 166 n. Fogazzaro Antonio, 417. Ford Alexandr, 27, 543, 544. Ford Glenn, 492. Eberlein, 125. Ford John, 109, 423427, 509. Eggert Konstantin, 40 n. Eisenstein Serghei M., 12, 20, 32- Formia Lia, 276. 53, 78, 121, 130, 195, 196, 311-313, Fosco Piero vedi Pastrone Piero. 318, 322, 327, 328, 333, 340, 500. France Anatole, 357. Francesco Giuseppe, 178. Ekk Nikolai, 317. Franciolini Gianni, 237, 238, 240» Eliot T. S., 199, 329. 306 n., 399 n. Emmer Luciano, 233, 234, 399.

564

Servitù e grandezza del cinema

Franciosa Anthony, 250, 484. Franciosa Massimo, 287. Frcsnay Pierre, 384. Freud Siegmund, 38, 39, 226, 299, 409, 448. Frik Martin, 218. Fumagalli, 459.

Gabin Jean, 355, 362. Gad Urban, 122-125. Cade Sven, 123. Galilei Galileo, 321. Gallina Angelo, 151, 152. Gallone Carmine, 103, 170, 316. Gance Abel, 350. Garbo Greta, 125, 147, 154, 253, 412, 413. Gardin Vladimir, 13, 311. Gardner Ava, 250, 442. Garibaldi Giuseppe, 321. Gauguin Paul, 363. Gavrin Gustav, 551. Gazzolo Lauro, 169. Genina Augusto, 76, 88, 119, 144, 153, 163, 170, 171, 242-244, 256, 276, 316. Gentile Giovanni, 322. Germi Pietro, 245-248, 274. Gherassimov Serghei, 25, 279 n., 320, 321, 335-337, 339 n., 340, 445. Ghione Emilio, 138, 144, 151-154, 163, 176. Giachetti Fosco, 237. Gide André, 37, 359, 398, 475. Gigli Beniamino, 307. GiUiat Sidney, 522. Gioì Vivi, 219. Giolitti Giovanni, 175, 178. Giorgione, Zorzi da Castelfranco, detto il, 105. Giotto, 409. Giovanetti Eugenio, 140. Giradoux Jean, 380.

Girotti Massimo, 219. Glaizes Albert, 78. Gobetti Piero, 129, 408. Goddard Paulette, 57, 63, 65. Goddin Nelson, 506. Goebbels Joseph, 325. Goethe Wolfgang, 328. Gogol Nikolai, 254, 257, 285, 286. Goldoni Carlo, 83. Goll Claire, 60. Golovnia Anatoli, 328 n. Gordon Richard, 533. Gorki Maksim, 130, 181, 475. Gotta Salvator, 213. Goya Francisco, 249. Graham Barbara, 506. Gramsci Antonio, 273, 326, 327. Grant Gary, 434. Grasso Giovanni, 144, 146, 147, 169, 181. Gravina Carla, 210. Gray Dorian, 204. Grebner, 40 n. Greco Cosetta, 261. Greco, el, 41. Greene Graham, 417, 418. Grierson John, 200, 328 n.. Griffith Andy, 439. Griffith David Wark, 33, 108, 140, 141, 145, 149 n., 151, 153, 156, 166, 177, 179, 180 n., 312, 313, 339, 375, 380, 381, 419, 440, 442, 551. Gromo Mario, 139. Guareschi Nino, 231. Guarini Alfredo, 306 n. Guazzoni Enrico, 126, 143, 149 n., 150, 152, 174, 179. Guesde Jules, 387. Guglielmo II, 178. Guillaume Paul, 55, 138, 143, 144, 150, 152. Guillermin John, 524.

Indice dei nomi

Guinncs Alee, 450. Guitry Sacha, 380. Gwenn Edmund, 539. Gyp, 399. Gys Leda, 156, 164.

Habay André, 154. Hale Georgia, 85. Hawks Howard, 495. Hayward Susan, 507. Hecht Ben, 455. Hegel Wilhelm, 39. Heidegger, 128. Hemingway Ernest, 410, 441, 442, 481, 494-496. Hennequin, 155. Henning-Jensen Bjórne, 549. Henry O., 452. Hepburn Audrey, 502. Hepburn Katerine, 525. Hermat A., 155. Hesperia, 138, 153-155, 162. Hitchcock Alfred, 213, 429-434. Hlasko Marek, 543. Holden William, 450, 492, 493, 502. Holliday Judy, 414. Holt Felix, 444. Homeier Skip, 508. Hopkins Miriam, 119. Hossein Robert, 376. Hudson Rock, 405. Hugo Victor, 95. Hunte Otto, 166 n. Hunter Evan, 403. Huston John, 435. Huston Walter, 478. Ignazio di Loyola, 214. Ingrao Pietro, 31. Ingres Jean-Auguste, 105. Invernizio Carolina, 205. Irolli Di Rebbiata, 153.

565

Isvitskaia Isolds, 345. Ivens Joris, 398.

Jacobini Diomira, 151, 154, 155. Jacobini Maria, 15, 24, 154, 155, 213, 422. Jacques Norbert, 448. Jaffe Sam, 373. Jahier Valerio, 167. Jakubovska Wanda, 27. Jannarelli Angelo, 171 n. Jannings Emil, 146, 147, 523. Jaurès Jean, 387. Joannon Léo, 381. Jolson Al, 97, 117, 118. Jones James, 510. Jones Jennifer, 412. Joyce James, 78, 199, 496. Jurgens Curd, 373. Jutkievic Serghei, 311. Kafka Franz, 286, 373. Kant Immanuel, 38. Kaufmann Fritz, 123. Kaulbach, 41. Kaiitner Helmut, 551. Kazan Elia, 435, 437, 439 n., 487. Kean Edmondo, 181. Keaton Buster, 55, 88, 109-116, 453. Kelly Grace, 433, 434, 492, 493. Kerenski A. F., 327. Kergenzcv P. M., 40. Kerr Alfred, 122. Kerr Deborah, 476. Kesserling loseph, 410. Kettlehut Erich, 166 n. King Henry, 440, 442. Kleine George, 150. Knott Frederick, 432. Kosintzev Grigori, 40, 311, 335. Koster Henry, 249 n., 250. Koundouros Nikos, 471. Kracauer Siegfried, 184.

$66

Servitù e grandezza del cinema

Krag Thomas, 124. Kri-Kri, 55, 138, 150. Kubrick Stanley, 444 n. Kulesciov Lev, 12-16, 50, 311, 333.

Labiche Eugène, 76. Lafargue Paul, 387. La Fayette Georges, 292. La Fouchardier, 446. Lake Veronica, 89 n. Lamb Charles, 64. Lancaster Burt, 444. Lane Abbe, 285. Lang Fritz, 35, 166 n., 445-449, 509. Langlois Henri, 167. Lanza Pier Luigi, 47-49. La Rocca Renato, 153. La Rue Jack, 119. Lattuada Alberto, 251-259, 306 n. Laughton Charles, 479. Lavrenev Boris, 343. Lawson John Howard, 328 n. Lazis Villis, 342. Lean David, 449, 451, 452 n., 524, 526 n. Lebedev Nikolai A., 36, 333. Le Bon Gustave, 435. Lc Breton Auguste, 375. Le Chanois Jean-Paul, 382. Ledoux Fernand, 377. Lefebvre Henri, 97 n. Léger Fernand, 41, 78. Lehar Franz, 108. Lenin Vladimir Ilic, 33, 189, 311, 312, 332, 338, 339 n. Leonardo da Vinci, 12, 24, 25, 34, 38, 140, 222, 361. Leonov Leonid, 25. Leopardi Giacomo, 56. Le Roy Mervyn, 425. Lessing Efraim, 103. Levi Carlo, 31.

Levin Henry, 453. Levitan, 342 n. Lewis Jerry, 453-456. Leyda Jan, 41. L’Herbier Marcel, 307, 350, 423. Lind Alfonse, 154. Linder Max, 55, 80, 89. Lindtberg Leopold, 541. Lipman Jerzy, 544. Lizzani Carlo, 260, 262, 263, 306 n., 308. Lloyd Harold, 453. Lo Duca, 328 n. Lo Gatto Ettore, 41. Lollobrigida Gina, 216, 217, 388, 530, 532. Lombardi Dillo, 144, 147, 148, 181. London Jack, 14. Longhi Roberto, 24, 39, 105. Loren Sophia, 206, 208, 228, 288, 472, 473, 530. Lotti Mariella, 251. Louys Pierre, 75. Loy Nanni, 284. Lualdi Antonella, 260, 353. Lubitsch Ernst, 125, 138, 139, 166, 170, 207, 211, 248, 280, 284, 413, 457, 458, 502, 518, 530. Luce Claire, 403. Luciani Arturo Sebastiano, 42 n., 94, 99-105, 127, 156, 335. Lukics Gyorgy, 97, 127, 199, 328. Lukov Leonid, 342. Lumière Louis, 140, 142, 166. Lunaciarski Anatoli, 36, 40. Maceret A., 17 n. Machaty Gustav, 291, 523. Maciste, 155. Mac-Orlan Pierre, 350. Madsen Holger, 123. Maggi Raffaello, 17 n.

Indict dai nomi

Magnani Anna, 130, 218, 288, 308, 467, 473. Maiakovski Vladimir, 21, 41. Maiorana Totò, 144. Makarova Tamara, 338. Malenkov Ghcorghi, 183. Mamoulian Rouben, 513, 523. Manetti, 154. Manevic L, 41. Mangano Silvana, 212, 222, 228. Mankiewicz Don, 506, 507. Mankiewicz Joseph L., 459, 461, 462, 464. Mann Anthony, 464. Mann Daniel, 467. Mann Delbert, 469. Mann Heinrich, 146. Manuel Robert, 376. Manzoni Alessandro, 253, 312, 316. Marais Jean, 374. Marangoni Matteo, 105. March Fredric, 411. Marey Étienne Julius, 140. Margadonna Ettore M., 137, 165, 365. Margrave Seton, 73 n., 84. Mari Febo, 131. Mariani Dell’Anguillara, 102. Marinetti F. T., 40, 41, 74, 101, 178. Maritain Jacques, 373. Marotta Giuseppe, 227. Marquand Christian, 353. Marshall George, 455. Martoglio Nino, 138, 144, 145, 149 n., 150, 174, 180, 181. Marx fratelli, 454, 455. Marx Karl, 38, 39, 97, 312. Marzi Franca, 240. Maselli Francesco, 265, 266 n., 267269, 306 n., 308. Masina Giulietta, 235. Mason James, 463. Massalitovna, 318.

567

Mastroianni Marcello, 206, 240, 261, 298. Matarazzo Raffaello, 242. Matteotti Giacomo, 261. Maupassant Guy de, 240, 353, 479. Mauriac Francois, 417. May Renato, 20. Mazzolotti P. A., 16. McCarcy Leo, 469. Mecheri Giovacchino, 144, 151, 154. Medina Patricia, 508. Méliès Georges, 84, 350Menichelli Pina, 137. Menjou Adolph, 457. Menzies William Cameron, 166 n. Mercanton Louis, 150. Mercouri Melina, 377. Merlini Marisa, 216. Meyerhold Vsevolod, 40-44, 49, 128131, 408. Meyner Geronimo, 210. Milanesi Guido, 50. Milland Ray, 470. Miller Arthur, 70. Milton John, 41. Miranda Carmen, 454, 455. Miranda Isa, 364. Modigliani Amedeo. 358, 359. Mohner Cari, 376. Momigliano Attilio, 326. Monet Claude, 199. Moneta Vittorina, 144. Monicclli Mario, 269, 272. Monroe Marilyn, 530. Montaigne Michel Eyquem de, 81. Montaldo Giuliano, 260. Montale Eugenio, 199. Montepin Xavier de, 350, 544. Montgomery Edward, 506. Monthérlant Henri de, 55, 62. Monti, 152. Montuori Carlo, 227, 278 n. Morand Paul, 485, 518.

568

Servitù e grandezza del cinema

Nilsen Vladimir, 333. Ninchi Carlo, 211. Niven David, 476. Noris Assia, 171, 207.

Morandi Giorgio, 293. Moravia Alberto, 139, 238, 240. Morelli Rina, 414. Morgan Michèle, 90, 240. Morlion Felix O. P., 62, 247. Mosjukin Ivan, 164. Moskvin Andrej, 52. Mounier, 199. Moussinac Léon, 26, 36. Mozart Wolfgang Amadeus, 458. Munk Kaj, 550. Murat Jean, 374. Murnau Friedrich Walter, 35. Muscetta Carlo, 111. Musco Angelo, 181. Musso Jeff, 351. Mussolini Benito, 65, 339 n., 435.

Oberon Merle, 422. O’Connor Donald, 109. Odets Clifford, 492. Olescia Juri, 65. Olivier Laurence, 45, 53, 274, 460462, 519, 528, 529 n., 530, 531. Omero, 14, 101, 212. Ondra Anny, 139. O’Neill Eugene, 424. Orkin Ruth, 400 n. Ostrovski Nikolai, 318. Ozep Fedor, 15, 162, 311.

Nalato Carlo, 101. Naldi Filippo, 102. Napoleone I, 59. Natoli Aldo, 97 n. Natteau Jacques, 355. Nazzari Amedeo, 250. Neal Patricia, 439. Neame Ronald, 527. Negri Pola, 139. Negroni Baldassarre, 140, 144, 151155, 162, 163, 174, 175, 242. Negulesco Jean, 471. Nelli Piero, 320. Nerone, 179, 180. Newfeld Max, 155. Newman Paul, 484. Nexo Martin Andersen, 549. Niccodemi Dario, 154. Niccoli Garibalda, 155. Niccoli Raffaello, 155. Nichols Dudley, 478. Nicoll Allardyce, 462. Nielsen Asta, 121-125, 150, 163, 173, 177, 460. Nietzsche Friedrich, 374.

Pabst Georg Wilhelm, 26, 123, 125, 213, 225, 286, 366, 457, 458, 555. Padovani Lea, 250, 359. Paganini Niccolò, 543. Pagherò Marcello, 272-275, 276 n., 385, 386. Palazzi Ferdinando, 459. Palermi Amleto, 35. Palmer Lili, 359. Paolella Roberto, 121. Paolo III, zar, 259. Papava Mikhail, 29. Parmigianino, il, 359. Parodi Luigi, 176. Pascarella Cesare, 302. Pasinetti Francesco, 37, 40 n., 112, 118 n., 167, 426 n. Pasteur Louis, 279. Pastrone Piero, 126, 139, 140, 143, 149 n., 151, 156, 174, 177. Patterson Robert, 416. Patti Ercole, 102. Paulon Flavia, 316. Pavanelli Livio, 153, 155. Pavese Cesare, 199.

Indice dei nomi

Pavlov Ivan, 29, 39. Pavolini Corrado, 139, 167. Peck Gregory, 527. Pedrazzini, 102. Pellegrinetti Margot, 153. Pellegrini Glauco, 257, 277-280. Perestiani Ivan, 13, 311. Perier Francois, 384. Perilli Ivo, 102. Petrascevski M. V., 299. Petrolini Ettore, 151. Petrov Vladimir, 318. Pezzana Giacinta, 127, 128. Philipe Gérard, 90, 359. Picasso Pablo, 359, 514. Pietrangeli Antonio, 37, 280. Pinelli Bartolomeo, 161. Piperno Ugo, 155. Pirandello Luigi, 114, 272, 273. Pittaluga Stefano, 102, 155. Pizzetti Ildebrando, 156, 177. Pizzirani Luigi, 179. Plechanov Gheorghi, 36, 39. Poggioli F. M., 155. Poitier Sidney, 405. Polidor vedi Guillaume Paul. Pontecorvo Gillo, 281, 283. Porcelli, 25. Porter Edwin S., 140. Power Tyrone, 442. Pozzi Bellini Giacomo, 171. Pratolini Vasco, 260, 262, 305. Preminger Otto, 474-476. Preobragenskaia Olga, 311, 318. Preti Matteo, 169. Prévert Jacques, 360, 361. Procida Saverio, 146. Prokofiev Serghei, 52. Protazanov Jakov, 339 n., 343. Proust Marcel, 78, 225. Prus Boleslaw, 179. Psilander Valdemar, 150. Puccini Dario, 41.

569

Puccini Gianni, 284. Pudovkin Vsevolod I., 11-24, 26-31, 33, 36, 44, 50, 51, 65, 102, 130, 131, 139, 140, 145, 166 n., 180 n., 181, 190, 191, 195, 218, 277, 279, 290, 296 n., 311-314, 317, 319, 322, 327, 328, 333, 334, 369, 399, 451,. 462, 523, 546. Pugaciov Emelian, 259. Purviance Edna, 60. Puskin Aleksandr, 41, 259, 260. Pyricv Ivan, 45, 339 n.

Quinn Anthony, 235. Rabal Francisco, 540. Racine Jan, 388. Radaelli Giuseppe, 156. Radiguet Raymond, 354, 475. Radvany Geza, 548. Ragghiami Carlo Ludovico, 93 n.,. 126. Rahn Bruno, 123, 125. Raimu, 360. Raisman Julius, 279 n. Rascel Renato, 285, 286. Ravel Maurice, 199. Ray Man, 78. Ray Nicholas, 477 n. Reed Carol, 531. Reeves May, 60. Reinhardt Max, 148, 460. Réjane Gabrielle, 130. Remarque Erich Maria, 411. Renoir Auguste, 199, 361 n., 479Renoir Claude, 353. Renoir Jean, 35, 81, 108, 231, 238,. 349, 350, 369, 372, 386, 387, 446448, 451, 478-481. Respighi Ottorino, 100. Richter Hans, 513. Ridolini, 56, 110.

■57°

Servitù e grandetta del cinema

Ricnto Virgilio, 216. Ricpin Ilia Efimovic, 342 n. Rigadin Prince, 55. Righelli Gennaro, 154, 242. Risi Dino, 287, 306 n., 308. Rite Martin, 482 n., 483. Rizzoli Angelo, 68, 69. Roberts Stephen, 117, 119, 120. Robinson Edward G., 426, 446-448. Robson Mark, 486 n., 487 n., 489 n., 505. Romano Marisa, 171 n. Rondi Brunello, 198-201. Rondi Gian Luigi, 215, 554. Room Mikhail, 50, 279, 332, 340. Rooney Mickey, 453. Roosevelt Franklin D., 64, 413. Rosay Franfoise, 88, 388. Roscial Grigori, 279. Rosini Giovanni, 446. Rossellini Roberto, 47, 198, 200, 255, 264, 288, 289, 290 n., 306 n. Rotha Paul, 36, 137, 165 n. Rotunno Giuseppe, 298, 299. Rouse Russel, 492. Ruark Robert C., 404. Rubinstein Ida, 130. Russo Ferdinando, 181. Russoio Luigi, 104. Rutherford Margaret, 524. Ruttmann Walter, 109, ISZ, 253. Ryan Robert, 464.

Saba Umberto, 31. -Sabatello Dario, 365. ■Sadoul Georges, 36, 172, 178, 180 n., 328 n., 372, 378. Sagan Franjoise, 475, 476. Sala Franz, 155. ■Salgari Emilio, 424. ■Sambucini Kelly, 154. ■Samsonov Serghei, 340, 341. Sardou Victorien, 154, 457.

Sartorelli, 43. Sartre Jean-Paul, 385. Scaramella, 154. Schall Heinz, 123. Schelling Friedrich, 39. Schiller Friedrich, 328. Schubert Franz, 279, 280. Schwob René, 54, 62, 63. Sciolokov Mikhail, 25. Scott Walter, 399, 429. Sdan V., 50, 328. Seaton George, 492. Seberg Jean, 476. Sennett Mack, 55, 85, 110, 453. Serandrei Mario, 162. Serao Matilde, 225. Serato Massimo, 250. Serra Renato, 100. Servais Jean, 376. Sety Gérard, 373. Shakespeare William, 45, 64, 214, 215*, 407, 459-463, 499, 528, 529 n. Shaw George Bernard, 208. Shaw Irvin, 418. Shell Maria, 298, 300, 353, 370, 410. 551. Shentall Susan, 214. Siegel Don, 493. Sienkiewicz Henryk, 178. Signorini, 155. Simenon Georges, 350, 379 n., 430. Simoneschi, 152. Sinatra Frank, 474. Siodmak Robert, 495 n. Sjostrom Victor, 167 n., 168 n. Solari Pietro, 55. Solaroli Libero, 31, 40 n., 317. Soldati Mario, 102, 142, 290-292, 318, 499. Solinas Franco, 283. Solinas Jone, 279. Sologne Madeleine, 374. Somlay Arthur, 548.

Indict dei nomi

Sordi Alberto, 240. Soutine, 358. Spaak Charles, 273, 363. Spadaro Micco, 169. Spillane Mickey, 213. Stalin Josif V., 312. Stanislavski Konstantin, 40, 43, 130. Staudte Wolfgang, 553 n. Sternberg Joseph von, 75, 146, 213, 388, 500. Stevenson Robert Louis, 363. Stiffer Magnus, 123. Stiller Mauritz, 167 n. Stokovski Leopold, 42 n. Stoppa Paolo, 279. Strawinski Igor, 199. Strigenov Oleg, 345. Strindberg August, 125. Stroheim Erich von, 35, 106*108, 121, 357. Sturges John, 495, 496. Sue Eugène, 66, 544. Sullivan Margaret, 411. Suvorov A. V., 259. Tati Jacques, 255, 389-391. Tatlin, 36, 40. Taurog Norman, 456. Tedesco Jean, 350. Teliini Piero, 293, 294. Terzano Massimo, 211, 276. Thiele Rolf, 555 n. Thomas Ralph, 533. Tilgher Adriano, 273. Tiller Nadja, 555. Timoscenko Semion, 140, 141, 333. Tinti Gastone, 260. Tissé Eduard, 12, 13, 52. Todd Michael, 512. Toeplitz Jerzy, 27. Tolstoi Aleksei, 318. Toma Gioacchino, 169. Tommaseo Niccolò, 316.

571

Tontolini vedi Guillaume Paul. Toren Marta, 244. Tosi Virgilio, 31. Toso Otello, 211. Totò, Antonio De Curtis, 228, 269, 270, 285. Toulouse-Lautrec Henri de, 41, 361. Tracy Spencer, 497. Trauberg Leonid, 40, 311, 335. Tumiati Gualtiero, 291. Turpin Ben, 110. Twain Mark, 526, 527.

Uccello Paolo, 317. Ucicky Gustav, 316. Ulmanis, 342. Ustinov Peter, 373. Uzès duchessa, 387. Valli Alida, 204, 291. Vallone Raf, 258 n. Van Dine S. S., 399. Vanek Pierre, 377. Vanel Charles, 434. Vanicek Èva, 260. Vassiliev fratelli, 279, 330, 339 n. Vavra Otakar, 542. Velasquez, Diego Rodriguez de Syl­ va, 169. Vento Giovanni, 40 n. Venturi Lionello, 105. Verdinois Federico, 178, 179. Verga Giovanni, 144, 168, 256. Vergano Aldo, 296. Verne Giulio, 467. Vertov Dziga, 13, 307, 311, 369, 398. Véry Pierre, 357.’ Viazzi Glauco, 37, 40 n., 42, 43, 54 n., 313, 318, 320, 343 n. Vich Vaclav, 291. Vidor King, 104, 505, 509. Vigo Jean, 365.

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Servitù e grandezza del cinema

Vigorelli Giancarlo, 263. Vildrac, 37. Vincent Cari, 167. Visconti Luchino, 105, 188, 200, 204, 265, 297-300, 306 n., 308. Vitiello Elena vedi Bertini Fran­ cesca. Vittorini Elio, 199. Viviani Raffaele, 181. Vlad Roman, 214. Vlady Marina, 279. VoUbrecht Karl, 166 n. Voltaire, Eran^ois-Marie Arouct, 286.

Wagner Richard, 364, 374. Wajda Andrzej, 544, 545. Webb Robert, 497. Welles Orson, 396, 445, 460, 484, 498, 499. Wells Herbert George, 80, 442. Werfel, 440. Werner Elizabeth, 225, 399. Wiene Robert, 123, 409. Wilde Oscar, 130.

Wilder BiUy, 500, 501. WiUiams Tennessee, 406, 407, 437. Wilson Richard, 503. Wince Rcdicz, 155. Wise Robert, 505, 506. Witney WiUiam, 508. Woodward Joanne, 484. Woolf Virginia, 496. Wyler William, 509, 510.

Za La Mort vedi Ghione Emilio. Zampa Luigi, 301, 302, 304, 306 n. Zavattini Cesare, 23, 29, 200, 209, 210, 224, 227, 228, 265, 306 n., 307, 308, 320, 390, 399. Zborowski, 358. Zelikovskaia Ludmila, 341, 342. Zerlett Hans H., 155. Zieman Sonja, 544. Zinnemann Fred, 510, 514 n. Zola Emile, 154, 246, 279, 368, 369. Zorzi Guglielmo, 153. Zuccoli Luciano, 75, 251. Zukor Adolph, 150. Zurlini Valerio, 305.

Indice dei film

ABC dell’amore, L’ (Das Liebes ABC), 123. Abisso, L’ (Afgrunden), 122, 124, 150. Abuna Messias, 169. Abwege vedi Crisi. Accadde in Europa (Valahol Europaban), 30, 548. Accadde una notte (It happened one night), 170, 410. Acciaio, 109, 162, 253. Accidenti che ospitalità (Our hospitality), 112. Achtc Wochentag, Der, vedi Lottavo giorno della settimana. Acque del sud (To have and have not), 441 n., 495. Admiral Nakhimov, vedi L’ammiraglio "Nakhimov. Adrienne Lecouvreur, 130. Adventures of Tom Sawyer, The, vedi Le avventure di Tom Sawyer. Afgrunden, vedi Labìsso. A guardia d’una maestà, 153. Aigrette, L’, 154. Air de Paris, vedi L’aria di Parigi. Alba tragica (Le jour se lève), 349, 351, 362. Aleksandr Ncvski (Aleksandr Nevski), 33-36, 43, 44, 51, 316. Alibi (Alibi), 108. Alla frontiera, 153. Alla porta del carcere (Ved fengslets port), 150, 173. Alle sei di sera dopo la guerra (V 6 vecerom poste voiny), 45, 339, 34v. Amanti perduti (Le? enfants du paradis), 45, 53, 339 n.j 360, 361 n. Amazzone mascherata, L’, 151, 153. Ambasciatore, L’, 155. A me la libertà (A nous la liberté), 79, 80, 85, 87-89, 91, 316. Amère victoire, vedi Vittoria amara.

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Servitù e grandezza del cinema

Amiche, Le, 203. Amleto, con Asta Nielsen (Hamlet), 123, 125, 460. Amleto, di Olivier (Hamlet), 460, 531. Ammaliatrice, L’ (The flame of New Orleans), 89. Ammiraglio Nakhimov, L’ (Admiral Nakhimov), 22, 218, 279, 317, 319. Ammutinamento del Caine, L’ (The Caine mutiny), 416, 435, 476. Ammutinamento dell’Elsinore, L’ (Les mutinés de l’Elseneur), 366. Amore e chiacchiere, 209. Amore e il diavolo, L’ (Les visiteurs du soir), 362. Amore in città, 265, 266 n., 306-308. Amore vigila, L’, 153. Anake, 151. Anche i boia muoiono (Hangmen also Die), 446, 447. And then there were none, vedi Dicci piccoli indiani. Angelo (Angel), 457. Angelo azzurro, L* (Der Blaue Engel), 146. Angelo del male, L’ (La bete humaine), 238, 349, 351, 369, 479, 481. Angioletto (Engelein), 123. Anima del demi-monde, L’, 153. Animali pazzi, 318. Anna, 254. Anna Bolena (Anne Boleyn), 170. Anna Karenina (Anna Karenina), 316. Anni facili, 301, 302. A nous la libcrté, vedi A me la libertà. Architecture, 365. Arcolaio di Barberina, L’, 171. Aria di Parigi, L’ (L’air de Paris), 362, 363. Arma bianca, 155. Arme Jenny, Die, vedi La povera Jenny. Arsenico e vecchi merletti (Arsenic and old Laces), 410. Arte di arrangiarsi, L’, 302, 303. Assassini sono tra noi, Gli (Die Mòrder sin unter Uns), 553. Assedio dell’Alcazar, L’, 243, 316. Assunta Spina, 101, 126, 144, 169, 177, 191, 324. Atlantide (Atlantide), 286. Attack!, vedi Prima linea. Autumn leaves, vedi Foglie d"autunno. Avant le déluge, vedi Prima del diluvio. Avvenne ...domani (It happened tomorrow), 89. Avventure di Tom Sawyer, Le (The adventures of Tom Sawyer), 526. Avvoltoio, L’, 153.

Indice dei film

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Baby Doli (Baby Doli), 436, 437. Baby Riazanskie, vedi II villaggio del peccato. Balletdanserinden, 124. Ballet mécanique, Le, 78. Bandéra, La (La bandéra), 388, 422. Bandito, I), 251-253. Bandito senza nome, li (Somewere in the night), 458. Barefoot contessa, vedi La contessa scalza. Bataille du rail, La, vedi Operazione Apfellfem. Bàtir, 365. Battaglia dei sessi, La (The battle of the sexes), 151. Battaglia di Stalingrado, La (Stalingradskaia bitva), 318. Battaglia per l’Ucraina sovietica, La (Bitva za nasciu sovietskuiu Ukrainu), 334. Battesimo di fuoco, 546, 548. Batticuore, 207. Battle of the sexes, The, vedi La battaglia dei sessi. Beatrice Cenci, 155. Beauté du diable, La, vedi La bellezza del diavolo. Becky Sharp (Becky Sharp), 316. Belcet parus odinokij, vedi Biancheggia una vela solitaria. Belle M.me Herbert, La, 155. Bellezza del diavolo, La (La beauté du diable), 31. Bellissima, 300. Bengasi, 316. Ben-Hur di Niblo (Ben-Hur), 138. Benvenuto Mister Marshall! (Bienvenido Mr. Marshall!), 536, 537. Berg ejvind och haus hustru, vedi, I proscritti. Bernadette (Song of Bernadette), 440. Best years of our life, The, vedi I migliori anni della nostra vita. Bete humaine, La, vedi L'angelo del male. Bez viny vinovatje, vedi Colpevoli senza colpa. Biancheggia una vela solitaria (Beleet parus odinokij), 313. Bidone, II, 235. 236. Bienvenido Mr. Marshall!, vedi Benvenuto mister Marshall!. Big heat, The, vedi II grande caldo. Big knife, The, vedi II grande coltello. Bimbi lontani, 155. Bitter victory, vedi Vittoria amara. Bitva za nasciu sovietskuiu Ukrainu, La, vedi La battaglia per l‘Veroina sovietica.

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Blackboard jungle, vedi II seme della violenza. Blaue Engel, Der, vedi L'angelo azzurro. Blé en herbe, Le, vedi Quella certa età. Blithe spirit, vedi Spirito allegro. Bonjour tristesse (Bonjour tristessc), 475, 476. Born jesterday, vedi Nata ieri. Boy from Oklahoma, The, vedi Lo sceriffo senza pistola. Boy on a dolphin, vedi II ragazzo sul delfino. Breaks the news, vedi Vogliamo la celebrità. Breve incontro (Brief encounter), 109, 225, 248, 399, 524, 525. Bridge on the river Kwai, the, vedi 11 ponte sul fiume Kwai. Bridges at Toko-Ri, The, vedi I ponti di To\o-Ri. Brief encounter, vedi Breve incontro. Broadway Bill, vedi Strettamente confidenziale. Broken Blossoms, vedi Giglio infranto. Bronenosez Potemkin, vedi La corazzata Potemkin. Brothers Karamazov, The, vedi Karamazov. Brute force, vedi Forza bruta Cabiria, 101, 126, 137, 138, 140, 141, 143, 151, 156, 166, 174, 177-179, 190, 324. Caccia al ladro (To each a thief), 433, 434. Caccia tragica, 217, 218, 324. Cadavere vivente, Il (Givoi trup), 15, 16, 24, 25, 164. Caine mutiny, The, vedi L!ammutinamento del Caine. Calabuig (Calabuch^ 538. Calle Mayor (Calle Mayor), 534, 535. Cameraman, The, vedi Io e la scimmia. Camicia nera, 324. Camille, vedi Margherita Gauthier. Cammino della speranza, II, 246-248. Campane d’Italia, Le, 162. Campione, Il (The champ), 485, 505. Cantante di jazz, Il (The jazz-singer), 117. Cantante pazzo, Il (The singing fool), 118. Cantieri dell’Adriatico, I, 105 n. Cape Forlorn, vedi Fortunale sulla scogliera. Capkov povidky, vedi I racconti di Ciape^. Cappello a tre punte, II, 102, 211. Cappello di paglia di Firenze, Il (Le chapeau de paille d’Italie), 76,80,87,89 Cappotto, II, 254, 285. Capriccio spagnolo (The devil is a woman), 75.

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Caravaggio, 105. Carnet di ballo (Un carnet de bai), 307, 317, 378, 422, 423. Carpaccio, 105n. Casa dei pulcini, La, 211, 276. Case sul mare, Le (Das Haus am Meer), 123. Casta diva, 170, 316. Castel Sant’Angelo, 171 n. Castelli in aria, 170, 171. Cat on a hot tin roof, vedi La gatta sul tetto che scotta. Cavalleria, 169. Cavallo d’acciaio, Il (The iron horse), 423. Celiuskin (Celiuskin), 318. Cclui qui doit mourir, vedi Colui che deve morire. Cenere, 126, 130-133. C’era una volta una bimba (Zita bila devocka), 318. Cerchio nero, Il 151. Champ, The, vedi II campione. Chapeau de paille d’Italie, Le, vedi 11 cappello di paglia di Firenze. Chariot soldato (Shoulder arms), 67, 68. Chicos de la noche, Los, vedi I figli della notte. Chienne, La, 447, 448, 481. Chimere, 155. Ciapaiev (Ciapaiev), 279, 313, 314, 317, 318, 324, 330, 481. Cicala, La (Poprigunia), 340, 341. Cielo sulla palude, 243, 244, 247, 257, 316. Cinque minuti con la carta d’Europa, 171n. Girano De Bergerac, 171, 242. Circo, II, di Aleksandrov (Tsirk), 313. Circo, II, di Chaplin (The Circus), 56, 63. Citizen Kane, vedi Quarto potere. Città che scotta, La (F.B.I. girl), 400. Città nuda, La (The naked city), 377, 414. Città sotto inchiesta (Town on trial), 522. City lights, vedi Le luci della città. Colosso d’argilla, Il (The harder they fall), 485, 486, 505. Colpevoli senza colpa (Bez viny vinovatje), 318. Colpo di pistola, Un, 213, 317. Colui che deve morire (Celui qui doit mourir), 376, 377. Com’era verde la mia valle (How green was my valley), 424. Come svaligiare una banca (A nice little bank that should be robbed), 452. Compagno P, 334. Congresso si diverte, Il (Der Kongress tantz), 530.

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Constant husband, The, vedi Sette mogli per un marito. Contessa scalza, La (Barefoot contessa), 463. Convegno d’amore (One sunday afternoon), 120. Convict 13, vedi |L« palla n. 13. Corazzata Potemkin, La (Bronenosez Potemkin), 33, 35, 36, 39, 4244 4649, 51, 52, 311, 312, 314, 324, 399. Corbeau, Le, vedi II corvo. Corsaro, II, 171, 242, Corvo, Il (Le corbeau), 371, 372. Cosi finisce la nostra notte (So ends our night), 41L Country girl, The, vedi La ragazza ài campagna. Crime et chàtiment, vedi Delitto e castigo di Chenal. Crime vithout passion, vedi Delitto senza passione. Crisi (Abwege), 225, 457. Cronache di poveri amanti, 260. Cure, La, 154.

Dannati di Varsavia, I (Kanai), 544, 545. Da quando te ne andasti (Since you went away), 412. Da qui all’eternità (From here to eternity), 435, 476, 510. Day’s pleasure, A, vedi Una giornata ài vacanza. Defroqué, Le, vedi Lo spretato. Delitto di Giovanni Episcopo, II, 254. Delitto e castigo, di Chenal (Crime et chàtiment), 366. Delitto e castigo, di Wiene (Raskolnikofi), 409. Delitto Karamazoff, Il (Mòrder Dimitri Karamazoff), 409. Delitto perfetto, Il (Dial m. for murder), 431, 432. Delitto senza passione (Crime vithout passion), 455. Demi paradise, vedi Nuovo orizzonte. Demoniaco nell’arte, II, 409. Deputato del Baltico, Il (Deputat Baltiki), 31, 313, 317, 318. Dernier milliardaire, Le, vedi L'ultimo miliardario. Dernière chance, La, vedi L'ultima speranza. Dernière jeunesse, vedi Ultima giovinezza. Derrière la facade, vedi Dietro la facciata. Det hede blod profetar pigen, 124. Deux timides, Les, vedi I àue timiài. Devil is a woman, The, vedi Capriccio spagnolo. Diable au corps, Le, 354. Dial M. for murder, vedi II àelitto perfetto. Dieci piccoli indiani (And then there were none), 89. Dies irae (Dies irae), 319, 551.

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Dietro la facciata (Derrière la facade), 351. Dirnentragodie, 123, 125. Disparus de S. Agii, Les, vedi Gli scomparsi di Sant’A gii. Disperate hours, The, vedi Ore disperate. Dittatore, II, (The great dictator), 64. Ditte Menncnskebarn, vedi La ragazza Ditte. Doctor at sea, vedi Un dottore in alto mare. Doctor in the house, vedi Quattro in medicina. Doktor Mabuse der Spieler, vedi 11 dottor Mabuse. Domenica, d'agosto, Una, 399 n. Don Bosco, 169. Don Camillo, 230, 231, 378. Donna abbandonata, La, 155. Donna dai due volti, La (Le grand jeu), 388. Donna del giorno, La, 267, 268. Donna della Montagna, La, 213. Donna del miracolo, La (The miracle woman), 170, 410. Donna del ritratto, La (Woman in the widow), 447, 448. Donna di cuori, La, 154. Donna di Parigi, La (A woman of Paris - The public opinion), 61,139,457. Donna di platino, La (Platinum blonde), 410. Donna nella luna, Una (Die Frau im Mond), 446. Donne di Riazan, Le, vedi II villaggio del peccato. Dottore in alto mare, Un (Doctor at sea), 533. Dottor Jekyll, Il (Dr. Jekyll and Mr. Hyde), 513, 523. Dottor Mabuse, Il (Doktor Mabuse der Spieler), 445, 448. Double indemnity, vedi La fiamma del peccato. Dough boys, vedi Io e la guerra. Douloureuse, La, 242. Dov’è la libertà, 255. Dr. Jekyll and Mr. Hyde, vedi II dottor Jekyll. Dracos, vedi L'orco di Atene. Du rifili chez les hommes, vedi Rififi. Duchessa di Parma, La, 209. Due cuori felici, 155. Due lettere anonime, 87, 211. Duello mortale (Man hunt), 445, 446. Due mondi (Two worlds), 119. Due soldi di speranza, 321, 538. Due sorelle, Le, 152. Due timidi, I (Les deux timides ), 84, 87, 88.

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...E il cielo rispose (Historias de la radio), 539, 540. Easy street, vedi La strada della paura. Egy éiszaka Erdélyben, vedi Una notte in Transilvania. Eliana c gli uomini (Eliane et les hommes), 386, 387, 481 n. Elisabetta regina d'Inghilterra (La reinc Elisabeth), 150. End of the affair, The, vedi La fine deiravventura. Enfants du paradis, Les, vedi Amanti perduti. Engelein, vedi Angioletto. Enrico V (Henry V), 45, 53, 273, 339 n., 461, 462, 527, 528, 529 n. Entr’acte, 87, 88. Erede di Gengis Khan, L’, vedi Tempeste sull’Asia. Ereditiera, L’, 153, 154. Eroi della stratosfera, Gli (On the threshold space), 497. Eroi sono stanchi, Gli (Les héros sont fatigués), 367. Eterna armonia, L’ (Song to remember), 542. Eterna illusione, L’ (You cant’ take with you), 410. Eternel retourn, L’ vedi L’immortale leggenda. Etoile de mer, L*, 78. Eugenia Grander, 290, 291. Evasi, Gli (Les évadés), 382, 383. F.B.I. girl, vedi La città che scotta. Face in the crowd, A, vedi Un volto tra la folla. Fantasma galante, Il (The ghost goes west), 84, 89. Fantomas, 87, 173. Fàntome du Moulin Rouge, Le, 87. Fari nella nebbia, 237. Fastest gun alive, The, vedi La pistola sepolta. Faust, 35. Febbre degli scacchi, La (Sciakhmatnaia goriacka), 15. Febbre dell’oro, La (The gold rush), 54, 56, 62, 63, 85, 145. Femme et le pantin, La, di de Baroncelli, 75. Femme et le pantin, La, di Duvivier, vedi Femmina. Femmina (La femme et le pantin), 75 n. Femmine folli (Foolish wives), 107, 108, 121. Ferroviere, II, 248. Féte «spagnole, La, 75. Fiamma del peccato, La, (Double indemnity), 500, 501. Fiamme su Varsavia (Ulica Graniczna), 316, 543. Fibra del dolore, La, 155. Figli della notte, I (Los chicos de la noche), 171 n. Figlio di M.me Sans-Géne, II, 155, 163.

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Fille de l’eau, La, 479. Filo della vita, II, 155. Fin du jour, La, vedi I prigionieri del sogno. Fine dell’avventura, La (The end of the affair), 417. Fine di San Pietroburgo, La (Konets Sankt-Peterburga), 22, 24, 334. Finestra sul cortile, La (Rear window), 432. Fiore di pietra, Il (Kamenni svetok), 313. Flame of New Orleans, The, vedi Uammaliatrice. Flammeo, 248. Foglie d’autunno (Autumn leaves), 395. Foolish wives, vedi Femmine folli. For whom the bell tolls, vedi Per chi suona la campana. Forbidden, vedi Proibito. Forbidden paradise, vedi La zarina. Foreign correspondent, vedi II prigioniero di Amsterdam. Forestiero, IL (The million poud note), 526, 527. Fortuna di essere donna, La, 208. Fortunale sulla scogliera (Cape Forlorn), 23, 513. Forza bruta (Brute force), 377, 414-416. Frau im Mond, Die, vedi Una donna nella luna. Freccia nel fianco, La, 251, 252. Freudlose Gasse, Die, vedi La via senza gioia. From here to eternity, vedi Da qui all'eternità. Fronte del porto (On the waterfront), 435, 437, 439 n., 476. Fu Mattia Pascal, II, 365-367. Fuoco, II, 140. Furia (Fury), 446. Furia omicida (The man is armed), 397. Fury, vedi Furia. Gabinetto del dr. Caligari, Il (Das Kabinett des Dr. Caligari), 122, 162. Gangsters, I (The killers), 494, 495 n. Gatta sul tetto che scotta, La (Cat on a hot tin roof), 406, 407. Gelosia, 145, 246, General, The, vedi Io e la guerra. Germoglio, 155. Gervaise (Gervaise), 368-370. Gheneralnaia linia, vedi La linea generale. Ghost goes west, The, vedi II fantasma galante. Giacomo l'idealista, 251-253. Giglio infranto (Broken Blossoms), 485. Gioie del focolare, Le, 155.

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Giornata di vacanza, Una (A day’s pleasure), 67. Giorni d’amore, 219, 220. Giorni perduti (The lost weekend), 500. Giorno di paga (Pay day), 67, 68. Giorno nella vita, Un, 205, 206, 317. Giovani leoni, I (The young lions), 418-420. Giovanna, 281. Gioventù bruciata (Rebel without a cause), 476, 477 n. Gioventù perduta, 274. Giovinezza di Chopin, La, 27, 542. Giovinezza di Massimo (Junost Maksima), vedi Trilogia di Massimo. Girotondo degli 11 lancieri, 11, 171. Giuditta (Judith of Bcthulia), 151. Giukovski (Giukovski), 22. Giulietta e Romeo, 214, 461. Giulio Cesare (Julius Caesar), 459, 461, 462. Giuramento (Kljatva), 45, 279, 314, 318. Givoi trup, vedi II cadavere vivente. God’s litdc acre, vedi II piccolo campo. Going my way, vedi La mia via. Gold rush, The, vedi La febbre ddl'oro. Goupi mains Rouges, 357. Go west, vedi Io e la vacca. Gran momento, Il (Im grosscn Augenblick), 122, 123. Grand jeu, Le, di Feyder, vedi La donna dai due volti. Grand jeu, Le, di Siodmak, vedi II grande gioco. Grande caldo, Il (The big heat), 448, 449. Grande cittadino, Il (Veliki grazdanin), 313. Grande coltello, Il (The big knife), 395. Grande gioco, Il (Le grand jeu), 388, 389, 495 n. Grande illusione, La (La grande illusion), 108, 451, 481. Grande luce, La, vedi Mantevergine. Grande parata, La (The big parade), 104. Grande strada azzurra, La, 283, 284. Grande svolta, La (Veliki perelom), 313, 318. Grande terra, 336 n. Grandi magazzini, 170. Grandi manovre, Le (Grandes manoeuvres), 90. Grandi speranze (Great expectation), 524. Great dictator, The, vedi II dittatore. Great expectation, vedi Grandi speranze. Great train robbery, The, 140.

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Greed, 1G6, 108, 121. Grido, II, 203, 204. Groza, vedi L'uragano. Guardia di frontiera n. 5, La, 546. Guerra e pace, 258.

Hamlet, con Asta Nielsen, vedi Amleto con Asta Nielsen. Hamlet, di Olivier, vedi Amleto di Olivier. Hangmen also Die, vedi Anche i boia muoiono. Harder they fall, The, vedi II colosso d’argilla. Haus am Meer, Das, vedi Le case sul mare. Henriette (Henriette), 377, 378. Henry V, vedi Enrico V. Héros son fatigués, Les, vedi Gli eroi sono stanchi. Histoire d’un Pierrot, L’, 149 n., 150-152, 155, 156, 161-164, 170, 174-176. Historias de la radio, vedi ...E il cielo rispose. Ho sposato una strega (I married a witch), 87, 89. Homme au chapeau rond, L’, vedi Nathalie. How green was my valley, vedi Com'era verde la mia valle.

I married a witch, vedi Ho sposato una strega. I want to live!, vedi Non voglio morire. Idillio nei campi, L’ (Sunnyside), 57. Idillio tragico, 151. If I had a milion, vedi Se avessi un milione. Im grossen Augenblick, vedi II gran momento. Immortale leggenda, L’ (L’eternel retourn), 373, 374. In old Chicago, vedi L’incendio di Chicago. Incendio di Chicago, L’ (In old Chicago), 440. Indimenticabile 1919 (Niezabyvaiemy 1919), 314. Indomiti, Gli (Nepokorjonnjc), 318, 331, 332. Informer, The, vedi 11 traditore. I.N.R.I., 123. Intolerance (Intolerance), 101, 108, 138, 140, 156, 419. Io e il ciclone (Steamboat junior), 112. Io e la guerra (The General • Dough boys), 112. Io e la scimmia (The Cameraman - The Operator), 111, 112. Io e la vacca (Go west), 112. Isola della morte, L’ (Sorok Pervii), 343 n. It happened one night, vedi Accadde una notte. It happened tomorrow, vedi Avvenne... domani. It should happen to you!, vedi La ragazza del secolo. Ivan il terribile (Ivan Grozni), 31, 32, 34-36, 43-45, 49-53, 339 n., 340, 360.

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Jazz-singer, The, vedi II cantante di jazz. Jenny, 351. Jou-jou, 154. Jour se lève, Le, vedi Alba tragica. Judith of Bethulia, vedi Giuditta. Julius Caesar, vedi Giulio Cesare. Junost Maksima, vedi La trilogia di Massimo

K novomu beregu, vedi Verso la nuova riva. Kabinett des dr. Caligari, Das, vedi 11 gabinetto del dottor Caligari. Kamenni svetok, vedi II fiore di pietra. Kameradschaft, vedi La tragedia della miniera. Kanal, vedi l dannati di Varsavia. Karamazov (The brothers Karamazov), 408, 409. Kentuckiano, Il (The Kentuckian), 444. Kermesse eroica, 316, 350. Kid, The, vedi II monello. Killers, The, vedi I gangsters. King in New York, A, vedi Un re a New Yorl^. Kleinstadtsunder, 125. Kljatva, vedi Giuramento. Konets Sankt-Peterburga, vedi La fine di San Pietroburgo. Kongress tantz, Der, vedi II congresso si diverte. Lacrime e sorrisi, 152. Ladri di biciclette, 224, 228, 230, 231, 265, 324, 378, 391. Ladro di Bagdad, con D. Fairbanks (The thief of Bagdad), 138, 166. Ladro di Bagdad, inglese (The thief of Bagdad), 360. Lady for a day, vedi Signora per un giorno. Lampi sul Messico (Que Viva Mexico!). 32-34, 36, 50-52, 121. Lassie come home, vedi Torna a casa Lassie. Lassù qualcuno mi ama (Somebody up there likes me), 503, 505. Last time I saw Paris, vedi L'ultima volta che vidi Parigi. Legittima difesa (Quai des orfèvres), 371, 372. Lenin nel 1918 (Lenin v 1918 godu), 279, 313, 332, 333, 340. Lettere d’amore smarrite (Die Missbrauchten licbcsbriefe), 541. Letztie Chance, Die, vedi L'ultima speranza. Letzste Brucke, Die, vedi L'ultimo ponte. Liebes ABC, Das, vedi L'ABC dell'amore. Limelight, vedi Luci della ribalta. Linea generale, La (Gheneralnaia linia), 33, 36, 39, 43, 318. little foxes, The, vedi Le piccole volpi.

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Little fugitive, vedi II piccolo fuggitivo. Living it up, vedi Più vivo che morto. Lodger, The, vedi II pensionante. Long hot summer, The, vedi La lunga estate calda. Long voyage home, The, vedi Viaggio senza fine. Lost patrol, The, vedi La pattuglia sperduta. Lost weekend, The, vedi Giorni perduti. Lue smerti, vedi II raggio della morte. Luci della città, Le (City lights), 55, 61, 63. Luci della ribalta (Limelight), 62, 69, 110, 113. Luciano Serra, pilota, 169. Lunga estate calda, La (The long hot summer), 483, 484. Lupo scomparso, II, 117. Lydia (Lydia), 422, 423. M, il mostro di Dusseldorf (M, Eine Stadt Sucht einen Mòrder), 446. Ma l’amor mio non muore, 140, 156, 174, 175. Macbeth (Macbeth), 460 Madame Dubarry (Madame Dubarry), 138, 170. Madame Sans Gène, 130. Madchen in Uniform, vedi Ragazze in uniforme. Madchen Rosemarie, Die, vedi La ragazza Rosemarie. Maddalena, 241, 243, 244, 316. Madre, La, di Negroni, 153. Madre, La, di Pudovkin (Mat), 15, 22, 24, 130, 311, 313, 314, 324, 328, 399. Maestrina, La, 152. Maestro, Il (Ucitel), 25, 313, 317, 321, 333, 335, 336 n., 337,338 n., 339 n., 340, 445. Magnificent Amberson, The, vedi L’orgoglio degli Amberson, Maja desnuda, La, 249, 250. Malombra, 140. Maman Colibrì, 422. Mamma!, 307. Man alone, A, vedi Ostaggi. Man from Del Rio, vedi La pistola non bastsa. Man hunt, vedi Duello mortale. Man is armed, The, vedi Furia omicida. Man of Aran, vedi L'uomo di Aron. Man vith the golden arm, The, vedi L'uomo dal braccio d'oro. Man with the gun, vedi Sangue caldo. Man who broke the bank at Montecarlo, The, vedi L'uomo che sbancò Montecarlo.

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Manon (Manon), 372. Marcella, 154. Marcia nuziale (Wedding march), 108. Margherita Gauthier (Camille), 154 n. Mariés de la Tour Eiffel, Les, 75. Marito per Anna Zaccheo, Un, 219. Marocco (Morocco), 388. Marriage circle, The, vedi Matrimonio in quattro. Marrying kind, The, vedi Vivere insieme. Marsigliese, La (La Marseillaise), 479. Marty, vita di un timido (Marty), 467, 468, 469 n., 481, 508, 535. Maschera dell’onestà, La, 153. Mat, vedi La madre, di Pudovkin. Matrimonio dell’orso, II, vedi L’ultimo degli Slemmer. Matrimonio in quattro (The marriage circle), 139. Medvezhia svadba, vedi L’ultimo degli Slemmer. Mentre il pubblico ride, 151. Merry widow, The, di Lubitsch, vedi La vedova allegra, di Lubitsch. Merry widow, The, di Stroheim, vedi La vedova allegra, di Stroheim. Mese mariano, 144. Metropolis (Metropolis), 35, 138. 166, 445-447. Mia via, La (Going my way), 469. Miciurin (Miciurin), 45, 279, 313 Midsummer night dream, A, vedi Sogno di una notte di mezza estate. Migliori anni della nostra vita, I (The best years of our life), 509. Milione, Il (Le million), 82, 83, 85, 88, 89, 555. 1860, 199, 277. Million poud note, The, vedi 11 forestiero. Minin e Pogiarski (Minin i Pogiarski), 22. Mio figlio professore, 213. Miracle des loups, Le, vedi II miracolo dei lupi. Miracle on 34th street, vedi II miracolo della 34* strada. Miracle woman, The, vedi La donna del miracolo. Miracolo a Milano, 200, 224, 324, 391, 538, 541. Miracolo dei lupi, Il (Le Miracle des loups), 350. Miracolo della 34s strada, Il (Miracle on 34th street), 539. Miserie del signor Travet, Le, 292. Miss Europa, 76, 88, 119, 163, 171, 242, 244. Missbrauchten liebesbriefe, Die, vedi Lettere d'amore smarrite. Mister Roberts (Mister Roberts), 425. M.me flirt, 155. Modern times, vedi Tempi moderni.

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Mod Lyset, 123. Mogli e le arance, Le, 171. Mondana rispettosa, La (La P... respectuese), 384, 385. Monello, Il (The kid), 60, 63, 64, 66, 67, 80. Monsieur Verdoux (Monsieur Verdoux), 45, 61, 63, 67. Montevergine, 169. Montparnasse, 358, 359. Morder Dimitri Karamazoff, vedi U delitto Karamazoff. Mòrder sin unter Uns, Die, vedi Gli assassini sono tra noi. Morocco, vedi Marocco. Morsa, La, 154. Morti di paura (Scared stiff), 453, 455. Mr. Smith va a Washington (Mr. Smith goes to Washington), 410, 411. Mrs. Miniver, vedi La signora Miniver. Mulino sul Po, II, 254. Muraglia cinese, La, 263, 264. Mutinés de TElseneur, Les, vedi L’ammutinamento delfElsinore. Naked city, The, vedi La città nuda. Nani, 35, 369, 479. Nata ieri (Born yesterday), 414. Nathalie (L’homme au chapeau rond), 359, 360. Nave, La, 130. Nel nido straniero, 153. Neobyciainye prikiiucenia mistera Westa v strane bolscevikov, vedi Le straordinarie avventure di Mr. West nel paese dei bolscevichi.

Nepokorjonnje, vedi Gli indomiti. Nevi del Kilimangiaro, Le, (The snows of Kilimanjaro), 441. Nibelunghi, I (Die Nibelungen), 445-447. Nice little bank that should be robbed, A, vedi Come svaligiare una banca. Niezabyvaiemy 1919, vedi L’indimenticabile 1919. Ninotchka (Ninotchka), 457, 518. Nju (Nju), 523. No down payment, vedi Un urlo nella notte. Non c’è pace tra gli ulivi, 219. Non tradirmi con me (Two-faced woman), 412, 413. Non voglio morire (I want to live!), 506. Nostri giorni, I, 336 n. Notte in Transilvania, Una (Egy éiszaka Erdélyben), 546. Notti bianche, Le, 298, 300 n., 301 n. Notti bianche di San Pietroburgo, Le (Peterburgskaia Noe), 318.

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Servitù e grandezza del cinema

Notti di Cabiria, Le, 235, 236. Nuova Babilonia, La (Novy Babilon), 52, 335 n. Nuovo orizzonte (Demi paradise), 518, 519. Oklahoma! (Oklahoma!), 512, 513, 514 n. Okraina, vedi Sobborghi. Oktiabr, vedi Ottobre. Old man and the sea, The, vedi 11 vecchio e il mare. Ombre bianche (White shadows in the south seas), 363. Ombre rosse (Stagecoach), 423, 424, 427. On the threshold space, vedi Gli eroi della stratosfera. On the waterfront, vedi Fronte del porto. Once in a blue moon, 455. Onorevole Angelina, L’, 218, 304. Opera de quat* sous, L’, 555. Operazione Apfelkern (La bataille du rail), 370 n. Orco di Atene, L’ (Dracos), 471, 472. Order, 550, 551. Ordine di uccidere (Orders to kill). 519. Ore disperate (The disperate hours), 509. Ore X: colpo sensazionale, vedi Avvenne... domani. Orgoglio degli Amberson, L’ (The magnificent Amberson), 498, 499. Orizzonti di gloria (Paths of glory), 442, 443, 444 n., 450. Oro di Napoli, L’, 227. Orso, L’, vedi L'ultimo degli Slemmer. Ossessione, 204, 218. Ostacolo, L’, 153. Ostaggi (A man alone), 470, 471. Ostami etap, vedi L'ultima tappa. Otello (Othello), 460. Ottavo giorno della settimana, L’ (Der achte Wochentag), 543, 544. Ottobre (Oktiabr), 51, 318. Our hospitality, vedi Accidenti che ospitalità! Pacifico Don, Il (Tichi Don), 318. Padri e figli, 270, 272 n. Padrone delle ferriere, II, 171. Paisà, 200, 289, 290 n., 296 n., 316, 324. Palla n. 13, La (Convict 13 - Scherlock junior), 109, 111, 113, 114, 116. Palmo di terra, Un (Talpalatnyi fold), 546-548. Palude della morte, La (Swamp river), 478. Pane, amore e fantasia, 215, 216.

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Panenstvi, vedi Verginità. Panico (Paniquc), 379 n. Papà, mammà, mia moglie ed io (Papa, maman, ma femme et moi), Ì75r 382. Pappagallo della zia Berta, II, 151. Paris qui dort, 87. Parnell (Parnell), 539. Parola di ladro, 284, 285. Passeggiata, La, 285, 286. Passione di Giovanna d’Arco, La (La passion de Jeanne d’Arc), 550, 55L Paths of glory, vedi Orizzonti ài gloria. Pattuglia sperduta, La (The lost patrol), 423. Pay day, vedi Giorno di paga. Peccato che sia una canaglia, 206. Peccatori di Peyton, I (Peyton Place), 487, 489 n. Pellegrino, Il (The pilgrim), 56, 57, 63, 67, 68, 391. Pensionante, Il (The lodger), 402. Per chi suona la campana (For whom the bell tolls), 441. Per le ve di Parigi (Quatorze fuillet), 77-79, 82, 83, 87, 89, 379. Perdizione (Story of Temple Drake), 119, 483. Perfido incanto, II, 101. Perle della corona, Le (Les perles de la couronne), 380. Petcrburgskaia noe, vedi Le notti bianche ài San Pietroburgo. Pètr Pervyi, vedi Pietro il granàe. Peyton Place, vedi I peccatori ài Peyton. Pianto delle zitelle, II, 171. Piccole volpi, Le (The little foxes), 509. Piccolo campo, II, (God’s little acre), 464. Piccolo fuggitivo, Il (Little fugitive), 255, 398, 399, 400 n. Piccolo hotel, 170. Piccolo lord, II, 276. Pietro il grande (Pètr Pervyi), 318. Pilgrim, The, vedi II pellegrino. Pioggia, 398. Pistola non basta, La (Man from Del Rio), 491. Pistola sepolta, La (The fastest gun alive), 489, 491. Più vivo che morto (Living it up), 456. Platinum blonde, vedi La àonna ài platino. Ponte sul fiume Kwai, Il (The bridge on the river Kwai), 449-452, 526 Ponti di Toko-Ri, I (The bridges at Toko-Ri), 486, 487. Propigunia, vedi La cicala. Porte de lillas, La, vedi Quartiere àei lillà.

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Servitù e grandigia dii cinema

Porto delle nebbie, Il (Le quai des brumes), 351. Potomok Cinghis-Khana, vedi Tempeste sull'Asia. Povera Jenny, La (Die arme Jenny), 123. Poveri ma belli, 287. P... respectuese, La, vedi La mondana rispettosa. Prigionieri del sogno, I (La fin du jour), 349, 351, 378, 422 Prigioniero di Amsterdam, Il (Foreign correspondent)^ 428, 429. Prima del diluvio, (Avant le dìluge), 274, 363, 365. Prima di sera, 293. Prima linea (Attack!), 395, 443. Primavera (Vesnà), 319. Principe e la ballerina, Il (The prince and the showgirl), 529. Principessa di Bagdad, La, 154, 155. Progetto dell’ingegner Prait, Il (Proekt inzhenicra Praita), 12. Proibito (Forbidden), 170, 316, 410. Promessi sposi, I, 212. Proscritti, I, (Berg ejvind och haus hustru), 167 n. Public opinion, The, vedi La donna di Parigi. Pugno di polvere, Un (Ten north Frederick), 420, 422. Punto nero, II, 154. Putevka v zizn, vedi Verso la vita.

'Quai des brumes, Le, vedi II porto delle nebbie. Quai des orfèvres, vedi Legittima difesa. -Qualcosa che vale (Something of value), 404, 405. Quand l’amour meurt, 144. 'Quarantunesimo, Il (Sorok Pervii), 343, 344. Quartiere dei lillà (La porte de lillas), 90, 92. Quartiere di Vyborg, Il (Vyborgskaia storona), vedi La trilogia di Massimo. •Quarto potere (Citizen Kane), 445, 499. •Quatorze Juillet, vedi Per le vie di Parigi. Quattro in medicina (Doctor in the house), 533. •Que Viva Mexico!, vedi Viva il Messico. Quella certa età (Le blé cn herbe), 355. 'Qull’incerto sentimento (That uncertain feeling), 457. -Questa terra è mia (This land is mine), 478, 479. -Quo vadis?, di Zecca, 174. •Quo vadis?, di Guazzoni, 126, 137, 143, 150, 166, 174, 178-180, 190, 324. Racconti d’estate, 239. Racconti di Ciapek, I (Capkov povidky), 218, 307. Racconti romani, 238.

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Ragazza del secolo, La (It should happen to you I), 413. Ragazza di campagna, la (The country girl), 492. Ragazza Ditte, La (Ditte Mennenskebarn), 549, 550. Ragazza Rosemarie, La (Die Madchen Rosemarie), 553, 554. Ragazze di San Frediano, Le, 305. Ragazze d’oggi, 304. Ragazze in uniforme (Madchen in Uniform), 535. Ragazzo, 325. Ragazzo sul delfino, Il (Boy on a dolphin), 471, 472. Raggio della morte, Il (Lue smetti), 14. Raskolnikoff, vedi Delitto e castigo, di Wiene. Re a New York, Un (A king in New York), 69, 70, 72. Rear window, vedi La finestra sul cortile. Rebel without a cause, vedi Gioventù bruciata. Reine Elisabeth, La, vedi Elisabetta regina d’Inghilterra. Rififi (Du rifili chez les hommes), 375, 377, 414, 415. Riot in celi block 11, vedi Rivetta al blocco n. 11. Riso amaro, 219. Ritorno alla vita, 171 n. Ritorno di don Camillo, 230, 231, 232, 379 n. Ritorno di Massimo (Vozvrastcenie Maksima), vedi La trilogia di Massimo. Ritorno di Vassili Bortnikov, Il (Vozvrastcenie Vasilia Bortnikova), 201, 313. 314, 399. Rivolta al blocco n. 11 (Riot in celi block 11), 493. Rivoluzione in sleeping constant husband), 521. Set-up, The, vedi Stasera ho vinto anch’io. Shoulder arms, vedi Chariot soldato. Si Versailles m’était conté, vedi Versailles. Siamo donne, 306-308. Signorina Giulia, La, 125. Signora dalle camelie, La, 154. Signora Miniver, La (Mrs. Miniver), 509. Signora per un giorno (Lady for a day), 411. Signora senza pace, La, 155. Silenzio è d’oro, Il (Le silence est d’or), 89. Since you went away, vedi Da quando te ne andasti. Sinfonia d’amore, 279. Sinfonie in bianco, 171 n. Singing fool, The, vedi II cantante pazzo. Sirena (Sirena), 218, 316. Snows of Kilimanjaro, The, vedi Le nevi del Kilimangiaro. So ends our night, vedi Cosi finisce la nostra notte. Sobborghi (Okraina), 313. Sogni nel cassetto, I, 215 n. Sogno di Butterfly, II, 170. Sogno di una notte di mezza estate (A midsummer night dream), 460.

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Sogno nero, Il (Den sorte Dròm), 122, 124. Sole, 317. Sole negli occhi, II, 231, 280. Sole sorge ancora, II, 182, 218, 256, 294, 296, 324, 481. Sole sorgerà ancora, Il (The sun also rises), 441, 442. Somebody up there likes me, vedi Lassù qualcuno mi ama. Something of value, vedi Qualcosa che vale. Somewhere in the night, vedi II bandito senza nome. Song of Bernadette, vedi Bernadette. Song to remember, vedi L'eterna armonia. Sorok Pervii, di Ciukrai, vedi II quarantunesimo. Sorok Pervii, di Protazanov, vedi L'isola della morte. Sorte Dròm, Den, vedi II sogno nero. Sospetto (The suspicion), 430, 431. Sotto i tetti di Parigi (Sous le toits de Paris), 78, 88, 89. Southerner, The, vedi L'uomo del sud. Spartaco, 174. Sperduti nel buio, 101, 126, 138, 139, 141, 143-146, 148 n., 149 n., 150, 169, 174, 180, 182, 190, 191, 199, 324. Spiaggia, La, 252, 254, 255, 257 n. Spie, Le, 372, 373. Spirito allegro (Blithe spirit), 524. Spretato, Lo (Le defroqué), 381. Squillo di tromba, 120. Stacka, vedi Sciopero. Stagecoach, vedi Ombre rosse. Stalingradskaia bitva, vedi La battaglia di Stalingrado. Staroe i novoe (Il vecchio e il nuovo), vedi La linea generale. Stasera ho vinto anch’io (The set-up), 505. Stazione Termini, 223, 224, 227. Steamboat junior, vedi Io e il ciclone. Story of Temple Drake, vedi Perdizione. Strada, La, 236 n., 321, 414. Strada della paura, La (Easy street), 57, 64. Strada scarlatta, La (Scarlet street), 446, 447. Straordinarie avventure di Mr. West nel paese dei bolscevichi, Le (Neobyciainye prikiiucenia mistera Wcsta v strane bolscevikov), 14. Stranger at my door, vedi Uno sconosciuto alla mia porta. Stravagante Mister Morris, Lo (Will any gentleman?), 517. Strettamente confidenziale (Broadway bill), 170, 411, 453. Summertime, vedi Tempo d’estate. Sun also rises, The, vedi II sole sorgerà ancora.

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Servitù 6 grandezza del cinema

Sunday afternoon, One, vedi Convegno d'amore. Sunnyside, vedi Idillio nei campi. Suspicion, The, vedi Sospetto. Suvorov (Suvorov) 22, 279. Swamp river, vedi La palude della morte. Talpalatnyi fold, vedi Un palmo di terra. T’amerò sempre, 86, 87, 277. Taras Scevcenko (Taras Scevcenko), 313. Tel pére et fils, Un, 378. Tempesta, La, 258, 260. Tempeste sull’Asia (Potomok Cinghis-Khana), 15, 16, 22, 31, 324. Tempi moderni (Modern times), 56-58, 60, 63, 65, 66, 444. Tempo d’estate (Summertime), 524, 525. Ten north Frederick, vedi Un pugno di polvere. Teresa Raquin (Thérèse Raquin), 126-128, 369. Terra, La (Zemlia), 313, 318. Terra trema, La, 300. Terre liberate, 548. Terza liceo, 233, 234. Terzo uomo, Il (The third man), 531. Testamento del dottor Mabuse, Il (Das testament von Dr. Mabuse), 445, 446. Testimone, II, 245. Tetto, II, 227, 229. That uncertain feeling, vedi Quellincerto sentimento. Theodora, 166. Thérèse Raquin, vedi Teresa Raquin. Thief of Bagdad, The, con Douglas Fairbanks, vedi II ladro di Bagdad, con D. Fairbanks. Thief of Bagdad, The, inglese, vedi II ladro di Bagdad, inglese. Third man, The, vedi II terzo uomo. This land is mine, vedi Questa terra è mia. Tichi Don, vedi II pacifico Don. To each a thief, vedi Caccia al ladro. To have and have not, vedi Acque del sud. Tol’Able David, 440. Torna a casa Lassie (Lassie come home), 539. Totò e Carolina, 231, 269. Town on trial, vedi Città sotto inchiesta. Traditore, Il (The informer), 109, 423, 426.

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Tragedia della miniera, La (Kameradschaft), 26. Traktoristy, vedi I trattoristi. Tram che si chiama desiderio, Un, 437. Tramonto, 153. Trapezio (Trapeze), 531, 532. Trappola, La, 102. Trattoristi, I (Traktoristy), 313. Traversata di Parigi, La (La traversie de Paris), 353-355. Tre sentimentali, I, 242. Trilogia di Massimo, La, 313, 335 n. Tristano c Isotta, 102. Trois chantiers, 365. Tsirk, vedi II circo, di Aleksandrov. Tutta la città ne parla (The whole town’s talking), 423, 426. Tutto il mondo ride (Veselye rebiata), 313, 318. Two-faced woman, vedi Non tradirmi con me. Two worlds, vedi Due mondi. Ucitel, vedi II maestro. Ulica Graniczna, vedi Fiamme su Varsavia. Ulisse, 190, 212. Ultima giovinezza (Dernière jeunesse), 351. Ultima nemica, L’, 105 n. Ultima speranza (La dernière chance - Die letztie Chance), 541. Ultima tappa, L* (Ostatni etap), 27. Ultima volta che vidi Parigi, L’ (Last time I saw Paris), 405. Ultimi giorni di Pompei, Gli, 35, 174. Ultimi zar, Gli, 155. Ultimo atout, L’, 153. Ultimo degli Skcmmer, L’ (Medvezhia svadba), 40 n. Ultimo miliardario, L’ (Le dernier milliardaire), 87, 89. Ultimo ponte, L’, (Die letzste Brucke), 551. Umberto D, 228, 324, 391. Unmogliche liebe, 125. Uomini che mascalzoni. Gli, di Camerini, 171, 211, 276, 277. Uomini che mascalzoni, Gli, di Pellegrini, 257, 277. Uomini e lupi, 220, 221. Uomo che sbancò Montecarlo, L’ (The man who broke the hank at Mon­ tecarlo), 120. Uomo dal braccio d’oro, L’ (The man with the golden arm), 473, 475. Uomo del sud, L’ (The southerner), 317, 478-481. Uomo di Aran, L’ (Man of Aran), 316, 317.

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Servitù e grandezza del cinema

Uomo di paglia, L’, 247, 248. Uragano, L’ (Groza), 318. Urlo nella notte, Un (No down payment), 481, 482 n.

V 6 vecerom posle voiny, vedi Alle sei di sera dopo la guerra. Vacanze del signor Hulot, Le (Les vacances de Monsieur Hulot), 255, 356, 389, 390. Valahol Europaban, vedi Accadde in Europa. Valse d’adieu, La, 542. Vampiro, Il (Vampyr), 551. Varieté (Varieté), 523, 531. Vecchio c il mare, Il (The old man and the sea), 441, 495. Vecchio e il nuovo, Il (Staroe i novoc), vedi La linea generale. Vcd fengslets port, vedi Alla porta del carcere. Vedova allegra, La, di Lubitsch (The merry widow), 457. Vedova allegra, La, di Stroheim (The merry widow), 108. Veliki grazdanin, vedi II grande cittadino. Veliki perelom, vedi La grande svolta. 20.000 leghe sotto i mari (20.000 leagues under the sea), 467. Vergine moderna, 274. Verginità (Panenstvi), 542. Verità, La, 398. Versailles (Si Versailles m’était conté), 380. Verso la nuova riva (K novomu beregu), 342. Verso la vita (Putevka v zizn), 313, 317. Vertigine, 155. Veselye rebiata, vedi Tutto il mondo ride. Vesnà, vedi Primavera. Vestire gli ignudi, 272, 273, 386. Vetturale del Moncenisio, II, 155. Via della luce, La, 154. Via senza gioia, La (Die freudlose Gasse), 123. Viaggio senza fine (The long voyage home), 423, 424. Vie, Une, vedi Una vita. Villa Borghese, 399 n. Villaggio del peccato, Il (Baby Riazanskie), 318 n. Visiteurs du soir, Les, vedi L'amore e il diavolo. Vita, Una (Une vie), 352, 353. Vita senza scopo, La, 155. Vitelloni, I, 534, 535. Vittoria amara (Bitter victory - Amère victoire), 443, 451. Vivere in pace, 304.

Indica dei film

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Vivere insieme (The marrying kind), 414. Vizio atavico, 153. Voce nella tempesta, La (Wuthering heigts), 509. Vogliamo la celebrità (Breaks the news), 89. Volto del passato, II, 155. Volto tra la folla, Un (A face in the crowd), 438, 439 n. Voyage imagìnaire, Le, 87. Vozvrastcenie Maksima, vedi La trilogia di Massimo. Vozvrastcenie Vasilia Bortnikova, vedi II ritorno di Vassili Bortnikov. Vyborgskaia storona, vedi 11 quartiere di Vyborg.

Wedding march, vedi Marcia nuziale. Weissc rosen, vedi Rose bianche. White shadows in the south seas, vedi Ombre bianche. Whole town’s talking, The, vedi Tutta la città ne farla. Wild one, The, vedi II selvaggio. Will any gentleman?, vedi Lo stravagante Mister Morris. Woman in the widow, vedi La donna del ritratto. Woman of Paris, A, vedi La donna di Parigi. Wuthering heigts, vedi La voce nella tempesta.

You cant’t take with you, vedi L’eterna illusione. Young lions, The, vedi I giovani leoni. Zarina, La (Forbidden paradise), 139, 457. Zemlia, vedi La terra. Zigomar, 173. Zila bila devocka, vedi C'era una volta una bimba. Zokroscik iz Torzhka, vedi 11 sarto di Torsgio^.