Sono come tu mi vuoi. Storie di lavori 9788842088431

Se il Novecento è stato il secolo dei grandi movimenti dei lavoratori, a cui si accompagnavano grandi narrazioni collett

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Sono come tu mi vuoi. Storie di lavori
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Contromano

ULTIMI VOLUMI PUBBLICATI

Cristiano de Majo Francesco Longo Vita di Isaia Carter, avatar

Muin Masri Ingy Mubiayi Zhu Qifeng Igiaba Scego Amori bicolori. Racconti

Massimo Nunzi Jazz. Istruzioni per l’uso

Beppe Sebaste Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne

Franco Arminio Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di paesologia

Marcello Fois In Sardegna non c’è il mare

Daniele Benati Paolo Nori Baltica 9. Guida ai misteri d’oriente

Marco Cassini Refusi. Diario di un editore incorreggibile

Gianrico Carofiglio Né qui né altrove. Una notte a Bari

Enrico Brizzi La vita quotidiana a Bologna ai tempi di Vasco

Angelo Ferracuti Viaggi da Fermo. Un sillabario piceno

C. Susani C. Raimo T. Pincio N. Lagioia S. Ventroni C. de Majo F. Viola P. Fiore M. Di Porto E. Trevi M. Rovelli M. Murgia S. Liberti E. Stancanelli A. Pascale A. Leogrande G. Meacci V. Mattioli G. Falco L. Caminiti Sono come tu mi vuoi. Storie di lavori DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE

Valerio Magrelli La vicevita. Treni e viaggi in treno

Carola Susani Christian Raimo Tommaso Pincio Nicola Lagioia Sara Ventroni Cristiano de Majo Fabio Viola Peppe Fiore Marco Di Porto Emanuele Trevi Marco Rovelli Michela Murgia Stefano Liberti Elena Stancanelli Antonio Pascale Alessandro Leogrande Giordano Meacci Valerio Mattioli Giorgio Falco Lanfranco Caminiti

Sono come tu mi vuoi Storie di lavori

Editori Laterza

© 2009, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2009

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel gennaio 2009 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8843-1

Indice

Inizio di Carola Susani Sono come tu mi vuoi di Christian Raimo Tanti piccoli me di Tommaso Pincio Un milione di euro di Nicola Lagioia Tutte le donne di Zara di Sara Ventroni I cancelli del mondo di Cristiano de Majo e Fabio Viola Non la reintegrano di Peppe Fiore Crocefissi a un euro di Marco Di Porto Riduzione del danno di Emanuele Trevi La giornata è quando si vede il sole di Marco Rovelli Il posto è la notte di Michela Murgia Il cliente va conquistato di Stefano Liberti L’uomo morto di Elena Stancanelli Promesse da manager di Antonio Pascale Mo’ pure i rumeni se so’ messi a fa’ i sindacalisti? di Alessandro Leogrande Fuori stagione di Giordano Meacci All’alba delle notti bianche di Valerio Mattioli

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Mondo macello di Giorgio Falco Fine di Lanfranco Caminiti Gli autori

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Inizio di Carola Susani

«Quando si va in due d’accordo, che la verdura che si raccoglie la si mette tutta assieme e si dividono poi i soldi, allora si va d’accordo» scrive Danilo Dolci in Racconti siciliani. È la testimonianza di Rosario che di mestiere fa lo spigolatore: «Ma se siamo due compagni che facciamo ognuno per conto nostro, l’occhio s’incomincia a correre perché quello vuole riempire il sacco prima e cogliere la verdura migliore. Mentre siamo tutti e due insieme, tu vedi una troffa di cavolicedde, corri per andarla a prendere prima: se non ci arrivi, arriva prima lui. E si fa tutta la vita così, fino a che non si riempie il sacco». Per mesi spostandomi in tram e in autobus tra un laboratorio di scrittura, un’intervista, due o tre ore di lavoro redazionale, mi portavo dietro Racconti siciliani. Succedeva due anni fa, più o meno, non ho una grande memoria, tengo il filo attraverso la successione dei lavori. Leggevo e mi veniva da sorridere. Mi sembrava che quello che nel ’63 era il racconto di una condizione marginale, neanche un lavoro, giusto un colpo di reni per reagire alla disoccupazione, in questi anni avesse preso forza metaforica e raccontasse lo spirito d’iniziativa e l’autosfruttamento di atipici e partite Iva, la concorrenza all’infiVII

mo livello, l’idiosincrasia verso la costruzione di forme di solidarietà, un camminar tentoni senza trovare capo d’imputazione, controparte da investire della responsabilità di una condizione; tranne il sistema, il mercato: suppergiù il destino. Se fino a pochi anni prima in Italia non s’era più letta o scritta letteratura sul lavoro, nel 2006 sembrava ormai non si parlasse d’altro: della trasformazione del lavoro e di precarietà. Sono di quell’anno Mi spezzo ma non m’impiego di Andrea Bajani (Einaudi), Il mondo deve sapere di Michela Murgia (Isbn), Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese… di Aldo Nove (Einaudi), Vita precaria e amore eterno di Mario Desiati (Mondadori). Era venuto alla luce alla fine il fenomeno che aveva diviso in due l’esperienza del ceto medio, tra più vecchi e più giovani, tra chi era assunto e chi no. Giornali e rotocalchi si rilanciavano questo nuovo protagonista, acquirente e merce, l’atipico, il precario. E c’era anche chi, tra politici e commentatori, tentava considerazioni ottimistiche sulla flessibilità, lo spirito d’iniziativa e la liberazione delle energie. Buona parte di coloro che poi si erano trovati a galleggiare nel pantano del precariato si era formata ancora, anche se stancamente, dentro istituzioni scolastiche che presumevano attitudini o addirittura vocazioni, ma l’esito del processo formativo era inesorabilmente frustrante. E per almeno un paio di generazioni la frustrazione era talmente interiorizzata che la possibilità di incidere sul proprio destino professionale era percepita non minima, ma poco interessante. Dolci avrebbe parlato di spreco. Sembra anacronistico in un momento in cui si cerca di cacciare indietro trasformatori e costruttori di ricchezza che partono dalle coste africane, ma non doveva suonare meno fuori luogo in anni in cui i contadini siciliani erano vigorosamente spinti ad emigrare. VIII

Avevo l’impressione che questa trasformazione del mercato del lavoro avesse fatto la sua parte nel formare, nel moltiplicare o solo nel concentrare l’attenzione su una particolare psicologia, su un preciso tipo umano: estremamente consapevole della propria impotenza, di una dolcezza esagerata, pietoso, dolorosamente strafottente, ostinatamente impegnato a far passare per casuale ogni attività intrapresa, ogni passione. Ai miei occhi, commovente. «C’è un modo di combattersi sfiniti, abbracciati contro le corde», scrive Andrea Bajani recensendo Vita precaria e amore eterno di Desiati su «Nazione Indiana», «che hanno soltanto i figli che adesso hanno trent’anni coi loro padri e le loro madri. È un modo di fronteggiarsi un po’ pesti, un buttarsi tra le braccia dei familiari che per metà vorrebbe colpire e per l’altra metà vuole soltanto chiedere asilo. E c’è un modo di fare o non fare recriminazioni che ha molto a che vedere con la rassegnazione, da una parte e dall’altra, e che diventa un po’ un colpire alla cieca. C’è, in definitiva, un modo di essere famiglia che non è mai stato così prima di adesso». Eppure. Ma anche perciò. È respirando l’aria del tempo, dove tutta la coscienza sembrava risolta in impotenza e il nodo tra cinismo e commozione si era fatto inestricabile, che nasce Sono come tu mi vuoi. I racconti che raccogliamo sono apparsi su una rivista, un mensile, «il maleppeggio-storie di lavori». Il «maleppeggio» è uscito per poco più di una stagione, tra il 2006 e il 2007. Si chiamava così per via della martellina usata in edilizia, ma certo era un nome che evocava più di un’ombra. La rivista l’aveva pensata Lanfranco Caminiti e ci aveva coinvolto: eravamo Emanuele Trevi, Elena Stancanelli, Tommaso Giartosio, Nicola Lagioia, Christian Raimo e io. Alis Thieck-Alami curava la parte fotografica. Avevamo un interlocutore nell’Assessorato al Lavoro della Regione LaIX

zio, perciò parlavamo di lavoro a Roma e nel Lazio, anche se ci tenevamo aperte finestre sull’Italia e l’Europa. Ci sembrava che la nostra posizione, di scrittori oggi nel mercato del lavoro, ci offrisse un’opportunità. Capitava forse per la prima volta, almeno per la prima volta collettivamente, che per noi scrittori parlare della trasformazione del lavoro, parlare dell’ottundimento, se non dello sfruttamento o dell’oppressione, non fosse un movimento verso gli altri, uno slancio come per Dolci, ma fosse parlare in primo luogo di noi. Parlare di noi era parlare del mondo e non di un privilegio. Se eravamo addirittura riusciti ad avvertire di tanto in tanto la necessità economica come condizione abituale, forse potevamo guardare alla condizione degli immigrati, per esempio, come se non fosse abissalmente distante dalla nostra. Era l’opportunità di spazzare via la tentazione della sacralizzazione del lavoratore, della mistificazione del disperato. Se lavorare poi non aveva più niente a che fare con attitudini, vocazione, professio, se smetteva di definire l’identità, e chi lavora diventava pedina, unità intercambiabile, indefinitamente ridislocabile, forse potevamo approfittarne per guardare al lavoro, per attraversarlo a partire da uno sguardo estraneo, singolare, con uno spirito etnografico o marziano. L’unico spirito che riuscivamo a possedere, soprattutto quando il lavoro di cui parlavamo era il nostro, uno qualunque dei lavori che facevamo per vivere. Sono come tu mi vuoi raccoglie racconti molto diversi, ma si possono tentare degli affratellamenti. Ci sono i racconti che parlano del mondo, della condizione della vita qui da noi in Occidente: Sono come tu mi vuoi di Christian Raimo, che dà il titolo all’antologia, isola il cuore della precarietà, mostrando l’idea di un lavoro che non spera di trovare contenuto, la X

voce narrante è Chiunque, fa l’effetto di un’anima cui è stata sottratta la possibilità di incarnarsi. Ricade nella stessa famiglia Tanti piccoli me di Tommaso Pincio: sulla scia della letteratura novecentesca della reiterazione e della noia, il personaggio si abbassa ancora. Non più un fallito che racconta di una crisi, ma uno specchio universale, l’immagine dell’umanità che va mandata nello spazio, noi tutti: tra l’uno e l’altro di noi l’intercambiabilità si è fatta completa. Mondo macello di Giorgio Falco e I cancelli del mondo di Cristiano de Majo e Fabio Viola scelgono due microcosmi che dicono del mondo intero: de Majo e Viola attraversano con senso del paradosso l’outlet che ricrea il cosmo, città ideale, convento regolato del nostro tempo; Falco racconta con un ritmo ossessivamente accusatorio i macelli, quelli attivi, catena di montaggio della morte, e quelli in disuso, trasformati in strutture dell’arte, del piacere, della leggerezza. All’alba delle notti bianche di Valerio Mattioli, argomentativo e immaginifico, giocando con lo stridore tra il deposito di moralità che si trattiene nella fatica delle braccia e la vacuità dell’estetica dell’effimero, elegge il costruttore di impalcature per grandi eventi eroe di una nuova epica. In Promesse da manager, Antonio Pascale legge le farragini dell’economia a partire dall’immaginaria e irreale capacità decisionale dei manager. Un milione di euro di Nicola Lagioia, attraverso l’andirivieni di orgoglio e frustrazione di una organizzatrice di eventi, racconta con precisione chirurgica lo sfruttamento della vanità e il misconoscimento del valore su cui si regge buona parte del mondo della promozione di cultura. Un secondo gruppo di racconti parla di lavori attraversati: Il posto è la notte di Michela Murgia, Non la reintegrano di Peppe Fiore, Tutte le donne di Zara di Sara Ventroni, Crocefissi a un euro di Marco Di Porto. Murgia racconta il vuoto inquieto delle notti traXI

scorse nella portineria di un albergo. Ventroni, con un ritmo implacabile, evoca veglie prima dell’alba per correre al capannone della catena di abbigliamento a basso prezzo a incastrare antifurto nei vestiti e immagina il probabile corto circuito: chi lavora è chi compra. Peppe Fiore descrive le dinamiche di uno studio televisivo dal suo punto di vista di stagista, con uno sguardo raggelato, eppure quasi dolce per quanto arreso, di fronte a meccanismi inesorabili e feroci che non hanno più responsabili. Marco Di Porto, per caso commesso in un negozio di oggettistica cattolica, si lascia turbare dall’umanità dolente che gira per questi posti. Un’ultima famiglia di racconti propone uno sguardo differente. Qualcosa cambia nel momento in cui si spostano gli occhi verso il lavoro degli altri. Pare che si faccia sentire una sete lungamente repressa, sete di epos. Si avverte in modo sorprendente in Riduzione del danno di Emanuele Trevi, dove il lavoro degli operatori delle unità di strada sulla tossicodipendenza, lo sforzo che fanno per salvare una vita o più semplicemente per la riduzione del danno, diventa uno scarto gratuito e misterioso, in un mondo – il nostro – in cui ogni gesto è logicamente, inesorabilmente, naturalmente gesto di sopraffazione. Si avverte nell’Uomo morto di Elena Stancanelli che racconta dei ferrovieri, provocando il suo sguardo, che si vuole smagato e tutto interno al presente, a incontrare l’immaginario eroico dei macchinisti, ma soprattutto il peso che riconoscono alle azioni, la responsabilità di cui si fanno carico di fronte alla vita e alla morte. Questa sete, ma anche riconoscimento, di epos è fortissima quando si parla del lavoro degli immigrati. Anche Giordano Meacci in Fuori stagione, come Stancanelli, si mette sotto scacco. Meacci si racconta come un turista concettuale, vuole sapere dove vanno gli stagionali quando finisce la stagione, è una domanda che XII

si pretende amena e che incontra il suo sberleffo nella presa di coscienza della necessità: gli stagionali quando la stagione finisce cercano lavoro. Se l’immagine dell’immigrato ci turba, mettendoci all’angolo, è perché il nostro bisogno di epos si incontra con un’epica reale. Stefano Liberti ha raccontato, con A sud di Lampedusa (minimum fax, 2008), più di una generazione di africani che parte verso l’Europa come verso la frontiera, con forza di spirito e coscienza del pericolo. Con quella stessa capacità di prestare attenzione, in Il cliente va conquistato Liberti racconta le strategie quotidiane di conquista del mercato di due ambulanti nigeriani. Lo sguardo cambia ancora quando con Marco Rovelli e Alessandro Leogrande si entra nel comparto edile. La giornata è quando si vede il sole di Rovelli racconta le condizioni di vita degli immigrati – che anche in regola rimangono clandestini potenziali – nei cantieri. Mo’ pure i rumeni se so’ messi a fa’ i sindacalisti? di Alessandro Leogrande parla degli stranieri che lavorando nei cantieri diventano delegati sindacali. Nella prossimità l’immagine degli immigrati si trasforma, si fa normale: persone che hanno le spalle al muro, costrette a rivendicare dei diritti. Qui non c’è più posto neanche per la sete di epica, le cose riprendono forma: ci sono condizioni che rendono possibile lo sfruttamento e sono leggi; ci sono responsabili dell’oppressione, sono italiani come stranieri e sono semplici da identificare. A fine lettura Sono come tu mi vuoi si scopre manifesto. Il manifesto di una generazione incapace di manifesti, che non sa neanche alzare la voce perché teme il ridicolo, che già si aspetta i colpi dall’inizio e rifiuta perciò di darsi peso. Eppure vede nelle pieghe, tra la vita quotidiana e il lavoro, tra i sentimenti e la necessità che preme, dove ci siamo ritirati. Sono come tu mi vuoi si scopre manifesto perché, con la stessa luXIII

cidità con cui narra la condizione di chi lavora e vive, non può fare a meno di evocare in controluce una vita in cui si può sperare, non può fare a meno di riconoscere, quasi con imbarazzo, epica, dignità e peso.

Sono come tu mi vuoi Storie di lavori

Sono come tu mi vuoi di Christian Raimo

Io sono specializzata in, che non riesco a capire se sia una qualifica che effettivamente vale nel mercato del lavoro ma, avendo cominciato a lavorare che avevo neanche, non mi posso lamentare del fatto che oggi a distanza di, la mia formazione è stata comunque articolata, piena di esperienze di tutti i tipi, come per esempio. Ma dovendo ripercorrere dall’inizio il mio curriculum e lavorativo e formativo, dato che le due cose si sono intrecciate molto di più di quanto prevedessi e in molti casi hanno combaciato, devo ritornare al momento in cui. Allora già frequentavo da un anno un corso regionale per diventare, mi alzavo tutte le mattine per andare da casa mia fino a, che si trovava dall’altra parte della, e già allora, mi ricordo, mentre studiavo, tenevo una copia di, proprio lì accanto, e sottolineavo tutti i giorni i vari annunci per. Inoltre mi ero iscritta alle liste dell’ufficio di collocamento qui, nella provincia di, passando non so quante mattinate e pomeriggi a fare la fila per capire come sbrogliarsi all’interno degli uffici e chiedendo a vari addetti quale fosse l’iter burocratico migliore, più utile, in modo da ottenere; ma indipendentemente dal mio impegno profuso a cercare lavoro, successe pro-

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prio che mentre mi barcamenavo tra tutte queste varie pratiche, spaesata, o al massimo orientandomi alla bell’e meglio, e non comprendendo neanche alla fine se tutto questo darsi da fare servisse a qualche cosa, potesse dare anche alla lunga un risultato, un giorno mi imbattei in un annuncio che diceva «Cercasi personale per»: così, senza troppo pensarci, contattai il numero e mi presentai al. Ed ecco arrivare il mio primo lavoro, firmai un contratto come: contratto che prevedeva. Questi che mi avevano preso erano una specie di società che si occupava di, anche se – c’è da dirlo – io non lavoravo strettamente alle loro dipendenze. Il mio impiego praticamente consisteva nel, secondo il piano che mi avevano assegnato; all’inizio con loro – non proprio come avevamo pattuito – venivo occupata per non più di, il che, contando le giornate, voleva dire totalizzare un misero monte ore di; e quindi dopo varie settimane in cui, nonostante le mie varie richieste, non avevo ricevuto risposta, mi decisi a parlare con il: se mi aumentavano le ore, bene, altrimenti. Ma questa fu una delle tante battaglie che si persero nel vuoto, perché mi spiegarono che se avessi voluto proprio occuparmi di, avrei dovuto acquisire formazione in un altro modo, per esempio frequentando un corso di, oppure essere assunta con un contratto diverso, che oggi però loro non proponevano più, e nel giro di un po’ di mesi comunque, sempre lì da loro, dovetti accettare di trasformarmi in – questo, per come me lo spiegarono, a causa di quelle multinazionali che operavano e offrivano servizi all’interno della. E così cominciai a lavorare ammonticchiando un quantitativo mensile di, che andavano da un minimo di fino al massimo di, a seconda del periodo dell’anno. Nel frattempo però mi ero anche iscritta all’università: non so se facendo valere più gli interessi personali o più una vi4

sione realistica del mondo del lavoro, alla fine mi ero decisa per la facoltà di. I soldi per le tasse li avevano pagati i miei (che a dir la verità continuavano e continuarono a finanziarmi buona parte del, se non tutto il), e nonostante fossi diventata a tutti gli effetti una studentessa lavoratrice, tutto questo non determinava niente più che. Dunque, all’inizio dell’anno successivo, quando stavo cominciando ad abituarmi al mio ritmo giornaliero, mi arrivò all’improvviso una lettera da parte della, che mi spiegava che, causa minori investimenti da parte delle diverse aziende e il conseguente rischio di perdita di competitività delle tariffe, loro non erano più in grado di garantire ai lavoratori la continuità del rapporto di lavoro: in sostanza. Ci rimasi male, anche se, dopo lo scoramento, dopo essermi chiesta se in realtà ero io in qualche modo ad essere in difetto, erano forse le mie competenze a non essere adeguate, cercai anche di non farmi scoraggiare del tutto e provai a trattare con loro, ma senza esito; e alla fine dovetti accettare le loro condizioni anche perché, e l’unica cosa che riuscii a ottenere fu. «Ma», mi dissero, «mi raccomando non dirlo agli altri tuoi». Nonostante il cambiamento di mansioni e di retribuzione, il lavoro era in definitiva sempre lo stesso, i turni venivano leggermente modificati, ma soprattutto aumentava la fatica, e insieme lo stress per un lavoro che non mi piaceva, che sicuramente non era il lavoro della mia vita, e per il quale mi sentivo molto spesso non possedere né le competenze né probabilmente la motivazione che invece era invocata da più parti come qualità essenziale, prerequisito specifico; e dall’altra parte, se dovevo considerare quello che ero riuscita a contrattare, dovevo constatare che non mi era riconosciuta né l’indennità di malattia tranne nei casi di, risultavo priva delle tutele di maternità, e rispetto alla rimunerazione delle ferie e ai contributi era previsto sol5

tanto che. Ma tra una cosa e l’altra, stringendo i denti, e facendo leva alle volte sul desiderio di dimostrare ai miei di non essere una fallita, riuscii comunque a resistere fino alla fine dell’anno, quando, preso atto di non poter più tollerare la situazione in cui mi trovavo – forse per colpa mia, viziata da aspettative false che mi ero creata, o più probabilmente incapace di relazionarmi concretamente con il mondo del lavoro – decisi di mollare e di comunicarlo allo: discutemmo un po’, ma la mia decisione non li sorprese, mi fecero un discorso che mi sembrò un po’ standardizzato sulle potenzialità e sulla determinazione e infine mi dissero che secondo loro io ero una persona di tipo, e per questo sarei dovuta essere più. Nello stesso periodo, con uno sforzo ulteriore da parte dei miei, riuscii a laurearmi: ci avevo messo la bellezza di, che però era effettivamente il tempo medio in cui tutti i miei amici si erano laureati; e a distanza di neanche pochi giorni dalla laurea, mi sbrigai a portare il curriculum, riscritto, ricompilato, aggiunto delle competenze informatiche sempre più necessarie, alle agenzie interinali, scegliendo soprattutto quelle che; avevo ormai optato anche per le agenzie interinali, laurea o non laurea, perché in quel momento, per quella che era la mia percezione, costituivano sicuramente una possibilità realistica, operativa (come si dice in gergo) di trovare lavoro, anche se dal momento in cui ti rivolgi a loro, devi in un modo o nell’altro acconsentire a tutte le offerte che ti propongono, anche se non è il tuo campo, devi essere sempre condiscendente e disponibile, e devi soprattutto essere propenso a spostarti da un posto all’altro, a ridefinire il tuo ruolo con grande agilità come stagista o come apprendista a seconda dell’ambiente in cui vieni collocato, ma quel che a me capitava sempre più spesso è che quando cominciavo a impratichirmi con un lavoro mi ritrovavo che il contratto era 6

già scaduto, e di punto in bianco ero di nuovo nella condizione di aspettare un’altra occupazione, che magari non arrivava subito, e così in quel lasso di tempo, tra un lavoro e l’altro, la maggior parte del tempo la passavo a. Il primo anno ho cambiato fino a, con uno stress indicibile: ogni volta mi trovavo di fronte a capi diversi, colleghi nuovi, contesti lavorativi diversi, e dovevo adeguarmi, stare attenta, non mostrare troppo i lati più eccessivi del mio carattere, perché magari bastava una telefonata per ritrovarti senza lavoro, o peggio senza un’altra minima possibilità di essere richiamati per avere altri. Quando mi stufai di questa situazione, mollai tutto e trovai lavoro in un, dove facevo di tutto, un posto dove, a dir la verità – me ne accorsi dopo poco – mi sentivo sfruttata più che in qualsiasi altro posto dove avessi mai lavorato, e anche lì riflettei se per caso fossi io ad avere tendenze masochistiche che mi spingevano sempre a trovare impieghi che non mi soddisfacevano e che come quello erano malpagati, o anche qui, se forse ero io a pensare per me un tenore di vita troppo alto, troppo slegato dalla realtà di me stessa, come se mi immaginassi un ruolo, una condizione economica che in realtà non potevo permettermi, che non era la mia, e così in definitiva – se dovevo fare un consuntivo – avevo sempre pressoché accettato le proposte di lavoro che mi avevano offerto, ma mi ero sentita sempre praticamente un’estranea, e così stavo finalmente considerando tutto da un’altra prospettiva: forse questo è un falso problema, perché sul lavoro non dovrei sentirmi estranea? Forse proprio lavorare vuol dire sentirmi estranea; ma al tempo stesso, ero preoccupata dal dover rendermi conto che invece di acquisire competenze, sentivo che erano soffocate le mie abilità a scapito di. E veramente in questo senso potrei fare mille esempi dei comportamenti dei 7

vari datori di lavoro nei miei confronti, comportamenti che forse sono improntati anche a una buona fede o a un fraintendimento di quelle che erano le mie. Attualmente sono disoccupata, anche se mi capita ogni tanto di lavorare nei, dove me ne accadono di tutti i colori, dalla tipa che mi manda via perché io, a quella che per risparmiare qualche euro sulla mia paga mi sostituisce con un’altra tipa che rispetto a me; e nel frattempo, nel resto del tempo della mia vita, in quello che almeno posso decidere di gestire come voglio io, o almeno mi illudo di farlo, diciamo che sto cercando di riequilibrarmi e almeno per adesso ho deciso questo: di staccare la spina, e che per un tot di ore al giorno, non ci sono per nessuno, faccio finta di non esistere, e se qualcuno mi vuole, deve venire qui, deve venire lui a cercarmi, e davanti a me, in faccia, deve dirmi per favore cosa sono.

Tanti piccoli me di Tommaso Pincio

Semmai un giorno vi capitasse di passare con la macchina per la tangenziale che porta fuori città, buttate un occhio all’edificio che si para alla vostra destra una volta oltrepassato il discount. Mi riferisco a quel coso brutto ed enorme che sembra un carcere di massima sicurezza. Buttateci un occhio, per favore, e cercate di mettere a fuoco la settima finestra da sinistra del penultimo piano. Magari a voi non interessa, sappiate però che dietro i vetri e le tende di quella finestra ci abito io. Spesso la gente si domanda a quale razza di sfigati possa mai saltare in mente di andare a vivere in casermoni privi di virtù geometriche abitabili. Ebbene, gente, adesso lo sapete. Non avete più bisogno di farvi domande. Io sono quella razza di sfigati. Dico «io» in senso paradigmatico, ovvio. Ovverosia nel senso che i tanti sfigati che abitano in simili immondi edifici possono essere considerati miei pari. Tanti piccoli me. Intendiamoci, visti da fuori nessuno di quei tanti piccoli me brilla sul piano della personalità. Quanto a carisma nessuno di loro è come me. Perché io sono uno che ha trovato uno scopo preciso nella vita. Il che mi colloca su un piano di-

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verso. Un piano più alto. Ma siccome mi sa che, a vedermi da fuori, neppure io emano chissà quale luce, siccome ho la sensazione che neppure io faccio una grande impressione agli occhi della gente, per semplificare le cose ho rinunciato a distinguermi. Per giunta c’è una questione di ingiusta lesione dell’immagine da considerare. Lasciatemelo dire, gente, si è fatta troppa cattiva informazione in merito al mondo dei casermoni tipo quello dove abito io. Ciò ha parecchio nuociuto all’immagine dei tanti piccoli me. È infatti a causa di certi servizi giornalistici sulle condizioni di vita nelle periferie se oggi la gente pensa che nei casermoni si faccia fare il bagno ai bambini nella lavatrice oppure che le partite di calcio che trasmettono in televisione siano di un campionato diverso da quello reale, nella fattispecie un campionato finto dove ogni tanto le squadre ultime in classifica battono le più forti nonostante gli errori arbitrali. Ciò non è bello per niente. È ingiusto e razzistico. Vi chiederete come io possa avere ancora uno scopo nella vita. È presto detto. Seguo l’esempio di Mohammed Alì. Faccio jogging tutte le sere. Tutte le sere, prima di mangiare, mi vesto da jogging, esco di casa e per una trentina di minuti corro sul ciglio della tangenziale. Proprio come il grande Mohammed Alì ai suoi tempi. In effetti, lui faceva jogging a Central Park, in un trionfo di alberi e scoiattoli. Ma bisogna fare i conti con quel che passa il contesto ambientale e qui dove abito io ci sono soltanto i casermoni e la tangenziale. In ogni caso il succo della faccenda non sono mica gli scoiattoli. Il succo è fare jogging al tramonto, perché fu proprio in una delle sue corse serali all’aperto che Mohammed Alì ebbe questa specie di illuminazione. Era lì tutto impegnato nella corsa quando a un certo punto qualcosa lo in10

dusse ad alzare lo sguardo al cielo e vide la luce. Pensate un po’, un globo sfavillante galleggiava nella volta celeste proprio in corrispondenza della sua capoccia. Lui disse che somigliava a una gigantesca lampadina e non trasse conclusioni. Rimase soltanto molto colpito. Io la vedo diversamente, ovvio. Io dico che quella non era affatto una semplice lampadina e ne ho tratto la conclusione che tra i tanti modi per riuscire nella vita quello più sicuro è farsi notare da chi davvero conta qualcosa nel nostro universo. Cosa credete? Non fosse stato per la faccenda della lampadina, Mohammed Alì non sarebbe andato da nessuna parte. È per questo che faccio jogging tutte le sere, perché voglio che un disco volante mi noti, si fermi sulla mia capoccia e mi spruzzi addosso un po’ della sua luce portentosa, una luce che fa venire allo scoperto le qualità nascoste delle persone. Io vorrei tanto non dover ricorrere a simili bassezze ma al giorno d’oggi se ci si vuole realizzare come esseri umani la procedura più sicura è entrare nelle grazie di chi conta davvero, e gli alieni contano un sacco nell’universo. Avere fiducia in se stessi, impegnarsi seriamente, lavorare sodo, farsi il culo, cercare di migliorarsi? Tutte balle. Forse in passato simili qualità hanno avuto il loro peso, non lo nego. Oggi però mica viviamo più al tempo dei cavalieri medievali. Lasciate che vi spieghi in che tempi viviamo. Io ci sono giorni che, per il lavoro che faccio, dopo sei ore ho guadagnato la bellezza di nove euro. Io ci sono mesi che quando mi metto a tirare le somme del lavoro che faccio, i miei servizi e la mia capacità di relazionarmi con il pubblico valgono la bellezza di settantadue euro al mese. Io, anche volendo considerare il lavoro che faccio al di là del feedback economico, sono uno che viene chiamato «scimmietta» dal suo team leader in quanto la cosa rientra in un discorso di senso dell’u11

morismo sulle dinamiche dei rapporti di vessazione che intercorrono tra dirigenti e sottoposti. Io, volendo entrare anche nel merito della questione «provvedimenti disciplinari», sono una scimmietta con sette richiami sul groppone essendo che da un po’ di tempo faccio fatica a prendere sonno la sera e la cosa ha conseguenze spiacevoli sul piano fisico, tipo che la mattina mi si bloccano le dita della mano, sicché non riesco a operare sulla tastiera come l’azienda si aspetta da me. Io, tra l’una e l’altra di tutte queste cose, il mese prossimo mi scade il contratto per il lavoro che faccio, ragion per cui c’è anche la possibilità che mi disattivano il badge cioè che io finisco disoccupato, e allora sì che sono cazzi. Giusto per darvi il quadro generale dei tempi in cui viviamo. Dice, ma di che ti lamenti? Accontentati, dice. Be’, io mi ci sono applicato perfino di buzzo buono su questa storia di accontentarmi. Applicato davvero. Solo che non mi viene spontaneo di accettare le situazioni. Accontentarsi non fa per me. Sul serio. Mi sento più portato all’insoddisfazione. Non per niente faccio jogging tutte le sere. Magari vi siete fatti l’idea che sono una persona venale, che stringi stringi tutto quello che mi aspetto dai dischi volanti è semplicemente guadagnare qualche soldo in più. Ebbene, gente, forse vi sorprenderà ma non è così. Non è al denaro che penso. Il mio scopo nella vita è di livello molto più romantico e sentimentale. Il mio scopo nella vita è di realizzarmi all’interno di una relazione stabile e passionale con una persona ben precisa che ho già individuato e della quale, se mi passate l’espressione, credo di essere innamorato. Purtroppo certe svenevolezze sono malviste nelle grandi aziende che operano nel settore delle telecomunicazioni. Ma che ne volete sapere, voialtri? Vivete nelle bambagia, mica nel mondo reale. Si vede dal modo in cui sfrecciate sulla tangenziale 12

che non dovete fronteggiare problemi veri. Vi renderò dunque noto un fatto, signori che sfrecciate sulle tangenziali, così magari imparate qualcosa su come funziona il mondo al giorno d’oggi. Quando si fa un lavoro come quello che faccio io nel settore delle telecomunicazioni, quando si è un operatore provvisorio pagato a cottimo imperfetto cioè retribuito non per quanto lavoro fai bensì in ragione del numero di clienti che ti chiamano, quando non fai che lavorare malgrado le dita bloccate, quel che succede è che il non avere diritti finisce per sembrarti la cosa più ovvia dell’universo. Per esempio. Avendo i soldi, a me piacerebbe tanto comprarmi un computer. Così la sera potrei comunicare con qualcuno e scambiare opinioni con altra gente e magari, chissà, conoscere perfino qualche ragazza del giro delle chat che si sente sola come me. Dice, ma perché non fai coppia con un tuo pari? Perché non ti trovi una sfigata come te? Ce ne sarà pure qualcuna in ’sto settore delle telecomunicazioni dove lavori. C’era, in effetti. E con ciò arriviamo allo snodo strappalacrime del mio discorso. Lei operava a poche postazioni dalla mia. Aveva ventotto anni ed era bella come certe ragazze giovani dei reality show. Quando parlava al microfono si premeva l’auricolare contro l’orecchio con un gesto che irradiava energie così positive che a volte mi si sbloccavano perfino le dita della mano. Sul lavoro era molto più efficiente di me. Non si impappinava mai, nemmeno coi clienti più rognosi, e stava sempre entro i tempi di conversazione richiesti dall’azienda. Infatti era l’unica a essere chiamata per nome dal nostro team leader, anziché scimmietta come tutti noialtri. Non so se si possa definire amore in senso tecnico, ma sentivo che con una donna così al mio fianco sarei potuto diventare una persona migliore. Io volevo comunicargliela, 13

questa sensazione. Volevo dirle che in sua presenza mi sentivo spruzzato di un’energia portentosa molto simile a quella dei dischi volanti. Volevo ringraziarla perché la sua presenza aveva l’effetto di sbloccarmi le dita e migliorare le mie prestazioni professionali, seppur in modo temporaneo. Volevo anche invitarla per un coffee break ai distributori automatici nei corridoi. Insomma, già intravedevo uno scopo e il suo raggiungimento. Già mi sentivo quell’uomo migliore che nel fondo dell’anima ero certo di essere, quando mi dovetti scontrare con un impedimento insormontabile. Sapete cosa mi ha fregato, signori che sfrecciate incuranti sulle tangenziali? Mi ha fregato il fatto che le scimmiette non possono parlare tra di loro durante l’orario di lavoro. Be’, potevi aspettare che l’orario finisse e poi le parlavi, no?, direte voi. Credete che non ci abbia pensato? Ci ho pensato sì. Solo che se le parlavo dopo l’orario di lavoro mica la potevo più invitare alla macchinetta del caffè. Dovevo invitarla fuori, dovevo. E chi me li dava, i soldi? Oppure l’avrei dovuta invitare a casa mia, nel casermone della tangenziale che voi sapete. Il che avrebbe potuto mal disporla nei miei confronti, visto che casa mia non è che faccia una bella impressione al momento. Inoltre avrebbe potuto pensare che avessi mire di tipo sessuale sbrigativo, il che avrebbe potuto mal disporla ancora di più nei miei confronti. Così ho aspettato che maturassero le condizioni ideali. Del resto, cos’altro potevo fare se non aspettare? A volte mi chiedo se non avessi potuto fare qualcosa di più, a parte aspettare. Mi chiedo se c’è un momento in cui bisogna smettere di attendere per passare all’azione, succeda quel che succeda. Mi chiedo quand’è che arriva questo momento 14

e come si faccia a riconoscerlo. Mi chiedo se questo momento mi è passato davanti e io non me ne sono accorto. Mi chiedo dov’è che avevo la testa quando è passato quel momento, e mentre me lo chiedo ci sono volte, sul lavoro, che mi capita di incantarmi. Lo sguardo mi si gira da solo verso il paesaggio che si vede fuori della finestra vicino alla mia postazione e si fissa. E allora mi ritrovo a parlare a me stesso con la trasmissione del pensiero. «Dov’è che hai la testa, pezzo di idiota?» mi dico. «Dove?» Tutto qua. Lei mi domanda la stessa cosa. «Dov’è che hai la testa?» Io scuoto il capo come fanno i cani quando escono dall’acqua. «Non lo so» dico. E lei, «Be’, vedi di rimetterla al suo posto». Io faccio cenno di sì con l’aria contrita, mi sistemo l’auricolare e rispondo a un cliente in attesa. «Ecco, bravo» dice lei. «Le seghe mentali, a casa. Qui si lavora, scimmietta». Avete capito bene, dice proprio «scimmietta». Un giorno di un mese fa lei si è alzata dalla postazione per andare in bagno. Io mi sono accorto subito che il nostro team leader se la stava squadrando con mire di sesso sbrigativo. Infatti quando è uscita l’ha convocata nel suo ufficio dove si sono trattenuti in lunga conversazione. Io non so se c’è un nesso diretto, ma dopo un po’ lui è sparito nei livelli alti dell’azienda mentre lei è diventata la nostra team leader. Oggi fa su e giù tra le postazioni, ci sorveglia e ci dice di abbassare i tempi di conversazione chiamandoci scimmiette. Proprio come il team leader di prima e quello di prima ancora. Ieri mi ha convocato. Mi è venuto spontaneo pensare che anche lei fosse sul punto di sparire nei livelli alti dell’azienda e che voleva sapere se per caso mi interessava diventare team leader al posto suo. Pensavo male. È saltato fuori che lei è esa15

sperata dai miei bassi indici di produttività. Dice che se non risolvo questa faccenda delle dita che mi si bloccano, il rinnovo del contratto me lo sogno. Senza contare tutti gli altri aspetti che depongono a mio sfavore. Tipo che non ho ancora capito che i tempi di conversazione coi clienti vanno abbassati. Tipo che mi incanto con lo sguardo fisso alla finestra. Dice pure che le piacerebbe sapere cosa mi passa per la testa. Dice tanto per dire. In realtà non è che gliene importi granché. Se davvero le importasse saperlo glielo direi, ma io sono sicuro che non le importa. Non che questo intacchi i miei sentimenti d’amore o pregiudichi la nostra possibilità di una relazione stabile e passionale. Per come la interpreto io, la sua indifferenza è una semplice forma di adattamento all’ambiente. Ho infatti maturato questa idea per cui nell’odierno mondo del lavoro flessibile meno te ne frega degli altri meglio è per te e per la flessibilità. Vi sembrerò presuntuoso, ma secondo me è molto esatta come idea. Lo si evince dal fatto che la gente alla quale non frega niente degli altri si fa strada e raggiunge determinati obiettivi diventando gente migliore di quella che è in realtà. Io, invece, che sono un tipo empatico il quale si identifica molto nei problemi altrui, io non ho ancora combinato un cazzo nella vita, e mi sa che se non venivo a sapere di Mohammed Alì e di come si è fatto notare dagli alieni facendo jogging a Central Park potevo anche scordarmi del tutto di combinare qualcosa. Tutto sommato sono fortunato. Io spero solo che qualcuno di voi non mi metta sotto con la macchina mentre faccio jogging. Per favore, pensateci quando passate per la tangenziale. Non fate quelli che vedono solo il proprio ego come solito vostro. Io vi conosco. Voi siete capaci di sfrecciare sulla tangenziale con la testa annebbiata nei fatti vostri e di spiaccicarmi sull’asfalto senza nem16

meno accorgervene. Pensate che tra i tanti piccoli me che abitano in quel casermone sulla destra subito dopo il discount ci sono anche io, uno che corre per uno scopo preciso. Poi spero pure che quella luce portentosa che spruzzano gli alieni dai loro dischi volanti quando notano un essere umano di belle prospettive non sia di quelle che fanno venire strane malattie. Hai visto mai, infatti? A guardare com’è messo oggi Mohammed Alì, devo dire che qualche ansia mi è venuta. Non sarebbe piacevole combinare qualcosa di buono nella vita soltanto per poi beccarsi il morbo di Parkinson.

Un milione di euro di Nicola Lagioia

Ore due e trenta del pomeriggio, Arturo mi invita a un pranzo di lavoro. Siamo in un noto ristorante di piazza del Popolo i cui prezzi sul menù, sommati tra di loro, danno più o meno il quintuplo delle mie entrate mensili. Esclusi i vini. Mi dice: «Sara, abbiamo i finanziamenti...». Il suo sguardo invita a mantenere la suspense. Sorrido senza dire una parola. Tutto felice di circonfondersi nella luce di questa pausa scenica, riprende a parlare. Spara la cifra: «Un milione di euro». In mezzo ci sono il Comune di Roma, un paio di fondazioni, gli sponsor privati. Sarà un grande festival (teatro, musica, letteratura...) e io, io che sono la sua pupilla – non lo dice in tono confidenziale ma esplosivo, come si fosse ritrovato sotto casa una figlia scomparsa da anni –, io dovrò occuparmi degli artisti. Un paio di raccomandazioni. Per prima cosa, il festival dovrà ruotare intorno ai temi del lavoro e del dialogo tra i popoli. Secondo: pensare in grande. Patti Smith è alla nostra portata, García Márquez è alla nostra portata, Roberto Benigni è alla nostra portata... Prima di andare via, lascia una mancia di venti euro al cameriere.

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Arturo Arturo è un personaggio storico, quasi un’istituzione nel mondo della cultura. Basta sfogliare l’album dei ricordi per vederlo in compagnia di Federico Fellini, di Eduardo, di Moravia, di Carmelo Bene... La prima volta che sono andata a casa sua ha letto ad alta voce una lunga lettera che Giangiacomo Feltrinelli gli aveva spedito da Cuba nel 1963. Lo ascoltavo e mi tremavano le gambe. È stato come saltare il fosso intorno a cui avevo ruotato per tutti gli anni dell’università: dalla teoria dei manuali alla vita vera. Quando ha posato la lettera sul tavolo e mi ha guardato in faccia, deve aver rintracciato nei miei occhi un particolare bagliore a cui ha sentito di dover rispondere: «Faremo grandi cose insieme...».

Mio padre Telefono a mio padre, gli dico del festival. Lui chiede se anche questa volta c’è di mezzo Arturo. Lo chiede con un sospiro. So dove vuole arrivare: in cinque anni che lavoriamo insieme, Arturo mi ha passato uno stipendio variabile tra i tre e i trecentocinquanta euro mensili, e non ho mai visto lo straccio di un contratto. Cerco di smorzare la nascente polemica simulando un entusiasmo che a un certo punto riconosco come la mia unica risorsa. Dico a mio padre che ci saranno grandi nomi, che inviteremo quasi sicuramente García Márquez, gli faccio intendere che sarò proprio io a telefonare in Colombia, parlerò con il grande scrittore, il che è assolutamente implausibile dal momento che al limite tratteremo col suo agente, ma questi sono dettagli ai quali a un certo punto non credo più nemmeno io, invece alzo la voce, raddoppio l’entusiasmo, che ora non è più l’effetto di una simu19

lazione ma un sentimento cieco e autentico e rabbioso come certi atti di fede, ripeto García Márquez García Márquez García Márquez perché mio padre sappia, si convinca, possa raccontare a tutti che sua figlia è arrivata a un punto della vita in cui parlare confidenzialmente con un premio Nobel è all’ordine del giorno. Quando riattacco la mia testa è come spaccata a metà. Da una parte ho queste immagini di me che vado a prendere García Márquez a Fiumicino, lo porto a San Lorenzo a prendere un caffè e insieme chiacchieriamo del più e del meno mentre un amico che non vedo da tempo si trova a passare da quelle parti, ci vede e rimane stupefatto. Dall’altra non posso fare a meno di pensare che ho sempre odiato García Márquez: sin dai tempi dell’università mi sembrava folkloristico, consolatorio, per anni ho litigato fieramente con tutti gli apologeti dell’Amore ai tempi del colera, lettori la cui intelligenza ho sempre stimato al livello dei barboncini. Provo a mettermi a letto e non chiudo occhio. Maledico mio padre. Penso che la sua morte sarebbe una liberazione, ed è un pensiero che stranamente viaggia sulle stesse frequenze allucinate che trasmettono la radiocronaca del mio tête-à-tête con García Márquez. Subito dopo la scena di me che gli contesto L’amore ai tempi del colera e lui che ammette: «Sì, hai ragione, quel libro fa schifo...», vengo invasa da un altro sistema linguistico che, pur non appartenendomi, fa di me quello che vuole: pensando ai rotocalchi femminili, ai continui inviti all’autodeterminazione che emergono in questi supplementi settimanali, mi convinco che mettere Arturo al muro non mi costa proprio niente – lo prenderò in disparte per questa faccenda del festival, gli chiederò una retribuzione adeguata e lui sorriderà come non aspettasse altro. Dirà: «Figurati, non c’è nessun problema...», e a questo punto mi addormento. 20

Cristina Una pizzeria vicino piazza Re di Roma. Ceniamo insieme. Lei inizia a raccontarmi dei tira e molla con Vincenzo e io le dico di Mario, questo assistente alla produzione con cui esco da qualche settimana. Fa un mezzo sorriso, allunga il collo e mi domanda: «Ci sei già andata a letto?». Prima che io possa rispondere, dalle casse del piccolo stereo montate sopra il nostro tavolo inizia a passare una canzone di Vinicio Capossela. Non resisto alla tentazione, le dico che Capossela con tutta probabilità dovrò chiamarlo fra qualche giorno per il festival. Cristina mi racconta dei suoi casini all’Auditorium. A un certo punto l’enfasi delle nostre parole è come raddoppiata, Vincenzo e Mario svaniscono rapidamente oltre l’orizzonte del discorso. Cristina dice che la situazione lì da lei è disperata: tutti stagisti e contrattisti a progetto – contratti che di solito non vengono rinnovati –, ma le stagiste come lei non percepiscono neanche un rimborso spese e per un contratto a progetto farebbero pazzie, e allora scatta un meccanismo psicologico molto simile a quello che spinge i criceti sui tamburi rotanti: più gli stagisti non vengono pagati più si fanno il culo, nella speranza di essere notati da qualcuno iniziano a strafare, si autoraddoppiano l’orario di lavoro, moltiplicano le proprie competenze, si improvvisano maggiordomi, dogsitter, si offrono per sobbarcarsi qualunque tipo di rottura di coglioni... Dico a Cristina: «Che schifo...», cerco di consolarla, ma nel frattempo devo ammettere che il suo discorso mi ha fatto nascere nel cuore un sentimento molto prossimo alla gioia. Se c’è qualcuno che sta peggio di te, dice questo sentimento che non posso controllare, significa che non sei una totale cogliona. Vorrei adesso che Cristina mi raccontasse di tutte le umiliazioni che subisce sul posto di lavoro, la sua dispe21

razione sarebbe la mia salvezza temporanea, a un certo punto magari dovrebbe anche iniziare a piangere, stilare un lungo elenco di soprusi e situazioni degradanti, dovrebbe essere talmente dettagliata da farmi passare davanti agli occhi l’immagine di dieci stagiste che per zero euro al mese strisciano ai piedi dell’ultimo usciere dell’Auditorium. E voglio dire... Cristina è la mia più cara amica, darei la vita per lei, ma se decidessero di farle un contratto di assunzione all’Auditorium e per assurdo io potessi impedirlo, non esiterei a farlo. È un pensiero orribile, lo so. Allora mi sorprendo a desiderare che in pizzeria faccia irruzione un uomo armato, un uomo che dovrebbe iniziare a sparare tra la folla, magari proprio in direzione di Cristina. Io allora le farei da scudo col mio corpo e finalmente sarei libera.

Arturo Mi chiama che è già sera. Dice: «Abbiamo un problema con il catering...». C’è stato un vernissage alla galleria della Minardi e la ragazza addetta alla mescita del vino ha la febbre a quarantuno («quella deficiente», aggiunge). Gli dico: «Arrivo subito». Telefono a Mario, annullo la nostra serata. Dice: «Che succede?». La risposta mi viene fuori in automatico: «Un casino. Ha chiamato Arturo. Deve portare a cena Lars Von Trier e l’interprete ha dato buca». E lui: «Non sapevo parlassi il danese». E io: «Inglese. Parleremo in inglese. Arturo parla il francese, il russo, lo spagnolo ma non l’inglese. Io invece sì. Contento?». E lui: «A posto, è tutto a posto, non ti agitare...». In metropolitana penso che l’unico modo per riscattarmi rispetto a questa ignobile stronzata che ho rifilato a Mario è sfruttare la situazione, prendere Arturo in un momento di pausa e chiedergli un aumento. Ma poi, quando so22

no in galleria, impegnata a versare Nero D’Avola a professori universitari, artisti esposti al Moma, scrittori presenti con almeno dieci pagine sulle antologie scolastiche, e tutti mi trattano da pari a pari, mi hanno visto altre volte a fianco di Arturo, c’è come un senso di complicità, mi fanno quasi intendere che al posto mio, dietro il tavolo da buffet, ci sarebbero potuti stare loro, si sarebbero messi a disposizione se solo li avessero avvisati per tempo, tra una tartina e l’altra riesco addirittura a scambiare due opinioni sull’ultimo Von Trier con un critico cinematografico che spesso va in televisione, e lui mi ha detto: «Perfettamente d’accordo con te: parte con Brecht ma torna sempre a Ibsen», e insomma, in tutto questo clima parlare di denaro appare a un certo punto completamente fuori posto. Due ore dopo sono di nuovo in metropolitana. Puzzo di vino. Man mano che l’atmosfera della festa si dissolve inizia a montarmi nello stomaco un sentimento rabbioso: Arturo, la gallerista, gli scrittori antologizzati... tutti ignobili avvoltoi, penso. Di conseguenza, io? Io che cosa sono? Mi rannicchio sul sedile della metro, senza un briciolo di premeditazione mi prendo la faccia tra le mani e inizio a singhiozzare.

Internet Le quattro del mattino. Sul sito di «Repubblica», in prima pagina, c’è un link che porta alle «classifiche degli italiani per reddito annuale». Apro la pagina con una foga molto simile a quella con cui le adolescenti dei video porno affrontano questi negri nascosti da orribili passamontagna. Mi muove un divorante desiderio di rientrare nella media. Le fasce di reddito sono suddivise in questo modo: miliardari, facoltosi, agiati, benestanti, poveri, poverissimi. Ma poi ci sono le va23

riabili: allora inizio convulsamente a calcolare per età, residenza, titolo di studio, settore produttivo... Quando sono a due passi da un attacco isterico penso che forse potrei darmi una calmata masturbandomi oppure cercando un sonnifero nell’armadietto dei medicinali. Poi scopro un altro link: «Fasce di reddito nel resto del mondo». Verifico la situazione in Sudamerica, in Asia, nei buchi infetti delle città dell’Africa centrale. Scopro che in Mozambico, per esempio, si campa con 22 dollari al mese. Di nuovo questo strano sentimento di gioia... Ne deduco che, considerando il reddito pro capite a livello planetario, non posso essere considerata una miserabile. La globalizzazione serve a qualcosa. Mi addormento. Faccio dei sogni orribili. Al risveglio trovo un sms sul cellulare. È Mario. Mi invita a cena a casa sua.

Matteo Prima di andare da Mario prendo un caffè con Matteo. Ci conosciamo da dieci anni, è il mio ex fidanzato, l’ho lasciato io sei mesi fa. Come gli dico del festival scuote la testa: «Smettila di farti sfruttare da quello stronzo», dice. «Non tutti siamo dei raccomandati come te», rispondo come per un’autodifesa. «Nessuno mi ha mai raccomandato per niente», si difende a sua volta. «Scrivi su ‘Repubblica’» lo incalzo, «scrivi sul ‘Venerdì’ e sul ‘manifesto’: o hai dei santi in paradiso oppure ti sei messo a fare le marchette». «Ma li leggi i miei articoli?», qui alza la voce. «Vaffanculo! Raccomandato di merda!» mi esce dalla bocca. Matteo spacca tra le mani un bicchiere di plastica. E così cominciamo a litigare furiosamente, proprio come ai vecchi tempi, solo che all’epoca i motivi delle nostre urla erano totalmente diversi. Mi alzo di scatto dal 24

tavolo mentre con gli occhi rossi sta gridando: «Ma non capisci? Non lo capisci che in questo modo diventa tutta una lotta fratricida?».

Arturo Mi chiama al cellulare. Dice: «Scusami tesoro: un’altra emergenza...». Hanno anticipato di una settimana la presentazione del libro di Tullio Kezich. «Bisogna darci dentro con la faccenda degli inviti. Cerca di far venire più gente possibile». Verso l’ingresso della metro ho un giramento di testa. Mi fermo in un bar. Rimango seduta al tavolino per mezz’ora, senza ordinare niente.

La fine (l’inizio) Sono arrivata a casa di Mario in una condizione penosa. Lui è sembrato non accorgersene. Ha attaccato subito a parlare di non so bene quale film. Volevo tenere la conversazione a un livello decente, ma mentre provavo a concentrarmi sulle sue parole non ho potuto fare a meno di pensare che lui nel cinema ci lavora, conosce un sacco di gente in vista, se solo volesse spendersi un po’ per la presentazione del libro di Kezich, darmi una mano con la faccenda degli inviti... Non voglio che queste cose si mettano tra noi, mi sono risposta, e però c’è stata come una vocina, laboriosa come un ratto di fogna, che a un certo punto ha cominciato a sussurrare digli degli inviti, digli degli inviti..., così ho cercato di pensare ad altro, ho provato di nuovo a capire di che film stesse parlando, volevo godermi la cena ma la vocina di tanto in tanto faceva capolino tra i discorsi, e mi ha seguito nel salotto, dove abbiamo preso un whisky, e mi ha seguito in camera da letto, dove a 25

un certo punto, non so come, stavamo già facendo l’amore, ci sono stati inizialmente questi movimenti goffi, poi lui mi è entrato dentro, e mentre gli dicevo: «Mario...» in una parte della testa continuava a risuonarmi come da un pozzo senza fondo digli degli inviti, digli degli inviti..., era una voce del tutto svincolata dalla mia volontà, però, non so in che modo, lui deve avere sentito qualche cosa, come un segnale, un’autorizzazione o una richiesta patibolare, allora ha cambiato posizione, mi ha preso per il collo, ha cominciato a farmi forte, e la vocina, la vocina degli inviti lo ha misteriosamente assecondato attraverso il mio corpo, lui se ne è accorto, ha impresso più forza e regolarità ai movimenti, una regolarità che mi ha fatto pensare a un esercito di monache con le gambe tumefatte impegnate a sgranare un rosario recitando una statistica, a un certo punto non era più la fluidità di due corpi umani ma la perfetta relazione che il cilindro intrattiene col pistone, eravamo in un tunnel, eravamo nel fondo di qualcosa che non ha ancora un nome, ma alla fine di ogni tunnel, mi sono detta, c’è una luce, e la luce, l’ho capito come se fossi stata fulminata da una rivelazione, quella luce era lo sbocco fognario verso cui stanno andando il lavoro, le relazioni umane, la vita stessa, e così io ho urlato, una, due, tre volte, ho visto questo bagliore accecante proveniente dal futuro e mi è uscita dalla bocca una voce che non avevo mai sentito, una voce finalmente imprevista, il verso di una capra, di un gatto, di un vitello con una sparachiodi puntata sulla fronte. Ho urlato, cazzo, e poi non ho pensato a niente.

Tutte le donne di Zara di Sara Ventroni

Zara non educa, promuove la volgarità. Gianfranco Ferré

«È meglio se dormi vestita» aveva detto alla fine del discorso. Mentre lo ascoltavo mi chiedevo in che modo aveva perso i denti e perché non se li era ancora rimessi. Fabrizio, il boss del magazzino, stava seduto davanti a me. Mi aveva spiegato le tabelle di marcia, le tariffe dei turni feriali e festivi. Mi aveva offerto una sigaretta e adesso aspettava una risposta. Era la fine del 2004 e in quel periodo tenevo un diario di bordo che avevo intitolato La caduta delle illusioni, tanto per essere chiara sull’andamento delle cose. Un lavoro con contratto, un lavoro con stipendio, un lavoro a tempo pieno, un lavoro a tempo indeterminato, un lavoro con ferie e malattie pagate, un lavoro che... Avevamo preso a parlarne con deferenza e commozione, forse perché il lavoro – per come l’avevamo inteso finora – era diventato un mito del Moderno che restava solo da raccontare.

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SI RICERCA PERSONALE FEMMINILE DAI

18 AI 45 ANNI PER LA-

VORO NOTTURNO, SETTORE ABBIGLIAMENTO

A sinistra della rampa c’è una guardiola di vetro con una telecamera a circuito chiuso. Dalla guardiola si accede all’ufficio. È lì che Fabrizio mi spiega di cosa si tratta. Per due mesi pagano in ritenuta d’acconto. Se decido di continuare mi mettono in regola. Finché non sono in regola prendo 6 euro all’ora, 7 da mezzanotte alle sei del mattino. Nei giorni festivi sono 7 euro l’ora, 8 da mezzanotte alle sei. Dalle sei di mattina non è più fascia notturna ma tariffa ordinaria, a 6 euro l’ora. «Per me va bene», gli avevo detto alla fine. Con le mani tozze da gigante buono, Fabrizio aveva tirato fuori dal cassetto alcuni fogli prestampati per farmeli compilare e firmare, proponendomi di attaccare a lavorare la notte seguente. Poi si era alzato in piedi e mi aveva stretto la mano, impregnandola tutta di un profumo che saliva su per le narici, entrava in testa e mi costringeva a un’intimità forzata con i suoi umori corporali. Prima di restituirmi i documenti aveva dato uno sguardo ai fogli per controllare che fosse tutto a posto. «Ah, sei laureata» aveva esclamato con tono interrogativo. «E come mai cerchi lavoro qui?». Vogliono solo donne perché sono più svelte eppoi questo non è un lavoro da maschi. Le rumene stanno sempre per conto loro. Una è incinta di sette mesi e le si vede la pancia. Il Gatto con gli Stivali – una bionda con i pantaloni sempre infilati dentro certe galoscie alte fino al ginocchio – ha il broncio e l’aria da capetta del branco. È la donna del socio di Fabrizio, un rumeno sui cinquanta con la risata sguaiata e la pancia che gli sbuca da sotto il 28

maglione. È lui che trasborda il carico di vestiti dal tir al magazzino. Le rumene sono musone: tutte tranne Helèna, che ha un sorriso fresco e il profumo di pulito addosso. Helèna di giorno fa le pulizie alla Camilluccia per mantenere il figlio che studia Legge in Romania. Le africane, due sorelle del Senegal, non danno confidenza a nessuno e ti rivolgono la parola solo se devono rispondere a una domanda. Tra le italiane, Milena è quella che lavora da più tempo per Zara. Viene da non so quale borgata ed è una vera mitomane: una volta dice che da piccola è stata violentata, un’altra volta arriva piagnucolando perché ha scoperto che il suo cane ha un tumore, un’altra volta ancora racconta di quando il suo fidanzato l’ha fatta abortire a suon di botte. Sta sempre attenta a come taccheggiano le altre perché è convinta che se quelli di Zara trovano qualcosa che non va, poi se la prendono con lei. Tra le polacche, Jana si fa notare perché non sta mai zitta. Ossuta e segaligna, ostenta l’accento romano e fa la superiore con le altre straniere perché è arrivata in Italia undici anni fa. Si sente la più bella del magazzino e per questo crede di poter lavorare di meno. La notte che arriva il carico si cena presto, ci si lava e ci si mette a letto vestite. Le prime volte è difficile addormentarsi alle nove, ma col tempo viene naturale. La telefonata arriva verso le due di notte e bisogna essere pronte per trovarsi in magazzino entro mezz’ora, da qualsiasi parte della città. Dormire vestite è fondamentale anche per non sprecare un minuto di sonno. Quando si arriva al magazzino, il cancello di ferro di solito è chiuso, quindi si aspetta fuori, imbambolate dal sonno e intirizzite dal freddo, fumando una sigaretta dietro l’altra per fare 29

il pieno di nicotina. Quando Fabrizio viene ad aprire, tutte insieme si scende la rampa, si va in una stanzetta ad aspettare che arrivi il furgone e intanto ci si prepara. Gli zinali di solito non bastano per tutte: quelle che arrivano tardi devono costruirselo con le buste di plastica. Lo zinale nero si lega in vita ed è diviso in due grandi tasche. Una tasca sarà riempita da «biscotti» e l’altra da «chiodini». Il biscotto è un pezzo di plastica a forma ellittica che può vagamente ricordare un Plasmon o un Pavesino, con un minuscolo foro sul lato sinistro: in quel foro andrà infilato il chiodino. Una volta infilato lì dentro, il chiodino resta incastrato e non esce. Tra il biscotto e il chiodino va inserito il tessuto dei capi d’abbigliamento. Questo lavoro, in gergo, si chiama «taccheggiare» ed è quello che noi facciamo tutta la notte. Il tir che arriva dalla Spagna parcheggia in un piazzale non lontano dal magazzino. Fabrizio e il rumeno fanno la spola con un furgone più piccolo: caricano cartoni pieni di capi imballati e capi detti «stampellati» o «appesi» (cappotti, pantaloni, giacche ecc.). Il furgone entra nel magazzino in retromarcia e il rumeno apre il portellone posteriore: più velocemente che possono, le donne afferrano i capi stampellati e li trasferiscono sugli stand del magazzino, dividendoli per genere («uomo», «donna», «bambino») poi per tipologia (giacche, camicie, pantaloni ecc.) e infine per linea («Basic», «Trafaluc», «Winter Collection» ecc.). L’operazione di carico e scarico avviene più volte, fino a che il tir non è stato svuotato. Questa fase di lavoro si svolge a ritmi frenetici. Nel frattempo si creano i vari gruppi di lavoro divisi per genere e linea di vestiti. Dopo un certo periodo, viene naturale sviluppare quel «colpo d’occhio» in base al quale si riesce a stabilire, anche se è avvolto nel cellophane, se si tratta di un capo da donna, da uomo o da bambino. 30

La cosa più importante, però, è individuare subito una compagna con la quale si lavora bene, una capace di intuire quando non hai fantasia di parlare. A istinto ho scelto Helèna e non mi sono sbagliata: la prima sera, mentre per tutte le altre ero una trasparenza o un impiccio, Helèna è stata l’unica a rivolgermi la parola per spiegarmi quello che succedeva. Dopo lo smistamento generale le donne vanno a taccheggiare, ciascuna in un settore specifico. Io ed Helèna ci occupiamo dei «pezzi sopra» da donna, appesi agli stand – camicie, magliette, casacche, top ecc. Non so se è dovuto all’ignoranza o a un semplice equivoco linguistico, ma qui tutte dicono proprio «taccheggiare», anche se il verbo in realtà significherebbe proprio l’esatto contrario, ovvero: rubare della merce. Comunque sia, nel codice rovesciato del magazzino «taccheggiare» va inteso come «mettere i dispositivi antitaccheggio», un gesto meccanico che bisogna imparare a eseguire in fretta – perché c’è un ritmo da rispettare – e con precisione, per non bucarsi le dita con i chiodini, cosa che capita sempre le prime volte. Dividendo il lavoro nei gesti di cui si compone, si può individuare un movimento di base che, ripetuto per ore, dà vita ad una vera e propria sequenza ritmica: stampella-chiodino-collochiodino-biscotto-stampella / stampella-chiodino-collo-chiodino-biscotto-stampella... Per taccheggiare bene occorre sistemarsi a un capo dello stand, in posizione laterale; una mano tira la stampella e avvicina il capo, un’altra prende un chiodino dalla tasca del marsupio. A quel punto si tira giù un po’ di cellophane dal capo appeso, quel tanto da scoprire il collo (i capi vanno «presi alle spalle» per non taccheggiarli alla rovescia). Una mano infila il chiodino nel tessuto, di lato all’etichetta della taglia, mentre l’altra pesca il biscotto dalla tasca e lo applica al chiodino. L’al31

tra mano, a quel punto, con un gesto deciso fa scivolare sullo stand il capo appena taccheggiato e afferra per la stampella il capo successivo, facendolo avanzare. Finito uno stand se ne fa un altro e così via, stand dopo stand, ora dopo ora. Terminati i capi appesi, si passa ai cartoni. In questa seconda fase i vari gruppi si riuniscono e il lavoro assume più chiaramente il ritmo della catena di montaggio. I cartoni vengono allineati in una lunga coda e impilati uno sull’altro, ad altezzafianchi. Per tutta la lunghezza della coda, si creano due file di donne. Ciascuna fila è organizzata in modo che, ad alternanza, una donna «sbusta» (i capi sono piegati e chiusi dentro buste di plastica) e l’altra «taccheggia». Anche qui si può individuare un ritmo, anonimo e corale, che dà vigore a tutta l’operazione: sbusta-taccheggia / sbusta-taccheggia / sbusta-taccheggia / sbusta-taccheggia / sbusta-taccheggia / sbusta-taccheggia... Alle spalle delle due file, altre donne si danno da fare: prelevano i mucchietti di capi appena taccheggiati, li dividono per genere e linea, e li sistemano sugli scaffali. Si procede in questo modo fin verso le sei del mattino poi si va in pausa per un quarto d’ora, non appena il bar all’angolo tira su la saracinesca. Il tempo di un cornetto, un cappuccino, una sigaretta e si ritorna a taccheggiare, fino alle undici o a mezzogiorno o all’una, dipende dal carico. In una nottata di lavoro si taccheggiano in media quindici/ventimila unità, o anche di più. Le donne che lavorano al magazzino non superano mai la quindicina. Una volta finito di taccheggiare, resta da impilare i cartoni vuoti uno sull’altro, contro il muro. Dopo quest’ultima operazione si va nel gabbiotto a firmare, riportando l’orario di entrata e di uscita accanto al proprio nome. A quel punto si può tornare a casa. 32

Allora, ogni volta inaspettata, ti sorprende quasi con violenza. Dritta contro la faccia mentre sali la rampa, la luce ti si attacca agli occhi come una crema densa e acida. Dopo una notte passata in piedi a fare sempre lo stesso movimento – e dopo settimane di notti del genere – è del tutto naturale avere delle sensibili allucinazioni, o delicate deformazioni sensoriali, che possono riguardare la vista, quando inizi a vedere nuvole bianche correre rapidamente o, con la coda dell’occhio, delle ombre nere che veloci ti attraversano la strada, oppure l’udito. Alcuni rumori, per esempio quello dei pneumatici o del clacson, si lasciano dietro una lunga scia sonora amplificata, oppure si dilatano (come i versi dei piccioni, o le voci di bambini) con riverberi metallici, a cerchi concentrici, in un’eco storpiata che non vuole più uscire dalla testa. Anche prima del doppio turno di diciotto ore consecutive (in seguito al quale ho dormito un giorno intero, svegliandomi con le mani talmente gonfie da non poter piegare le dita) ho notato alcuni cambiamenti relativi all’intestino, alla circolazione, alla pressione, alla vista, all’udito, alla pelle. Questi, però, non sono che capitoli particolari di una disfunzione più generale che riguarda la percezione del mondo come organismo ritmico e armonico, basato sull’alternanza giorno/notte, veglia/sonno. Mi sono fatta l’idea che questa disfunzione, se protratta nel tempo, può dare vita a un sistema più articolato di allucinazioni e psicosi, quindi alla follia. Per il resto, non c’è molto altro da dire. Mentre si lavora alcune donne chiacchierano, altre ascoltano, altre ancora chissà a cosa pensano. Qualcuna ogni tanto va a fare la pipì: con la scusa fa due tiri veloci e butta la sigaretta a metà nel bagno alla turca, sempre sporco e con lo sciacquone rotto. Verso le sette e mezza di mattina il cancello di ferro si spa33

lanca e si richiude alle spalle dei furgoncini dello staff-Zara. Tre o quattro ragazze – lavate di fresco, truccate e pettinate – iniziano a girare ansiose tra gli stand controllando ora i vestiti, ora una serie di fogli spillati, segnati con codici e cifre. È la lista dei capi da prelevare, tra quelli appena taccheggiati, e da portare al negozio di Galleria Colonna per rimpiazzare quelli venduti il giorno prima. Anche questo passaggio è un anello della catena. Anche queste sono donne di Zara. E quella che a giorno inoltrato entra nel negozio e compra. Quella donna, che posto occupa?

Davanti alle porte automatiche, uomini in completo nero si sistemano l’auricolare e serrano la mascella, costretti alla posa di chi ha un’eleganza da difendere. Zara, imperatrice dell’abbigliamento a basso costo. Zara, protettrice dei nuovi poveri. Zara, McDonald dell’outfit. So di essere solo un’intrusa, come quando lavoravo la notte – due anni prima e intanto osservavo, mi guardavo intorno, prendevo nota. E in quello ero privilegiata, rispetto alle altre. Le commesse lottano – come fossero condannate a un supplizio arcaico – per mantenere un ordine che presto verrà vanificato. Con noia piegano camicette e maglioni, con rassegnazione li ripongono sugli scaffali mentre nuove orde di cavallette sono pronte a mandare all’aria tutto il loro lavoro. E via così, ancora e ancora. Ogni giorno ciascun capo viene toccato da migliaia di mani, sporcato con la cipria, annusato, fatto cadere, misurato, stropicciato, allungato, sgualcito, deformato, spiegazzato, impuzzolito. Durante i due mesi di lavoro notturno al magazzino, mi ero rifiutata di andare a vedere il negozio di giorno. Avevo paura di trovarmi contemporaneamente in due 34

luoghi diversi, di trovare due me – quella che aveva fatto dodici ore di lavoro e quella che stava al negozio a rovistare tra i vestiti – e di farle incontrare. Una specie di incubo a occhi aperti, generato dalla percezione dell’eterno presente del consumo. Non volevo essere un anello di congiunzione nel ciclo produttivo, l’erma bifronte che saldava la notte al giorno nell’universo cadenzato da una catena di vestiti a buon mercato. Lungo le strade di Madrid intravedo l’insegna con la coda dell’occhio, ma faccio finta di niente: Zara, so che dove sto andando non c’è posto per te. E continuo a camminare. Al cinquantotto di calle Serrano, Manolo Blahnik tiene in vetrina un solo paio di scarpe, un meraviglioso esemplare di Mary Jane rosso scarlatto, ciascuna scarpa ritta su un alto trespolo. Intorno a loro non c’è altro, solo il muro bianco; proprio come la Guernica al Reina Sofia. Dopotutto da Zara avevo imparato molto. Che anche il lavoro – quello vero – è diventato un bene di lusso. E che se proprio devo sognare ad occhi aperti, voglio qualcosa di bello davanti.

I cancelli del mondo di Cristiano de Majo e Fabio Viola

Attraversare le porte della percezione L’ingresso è un portale con tre archi alto una decina di metri, illuminato da luci viola e blu sintetico. La prospettiva è un lungo viale che confluisce in un’ampia piazza su cui troneggia una costruzione che sembra l’edificio centrale di una stazione ferroviaria, con un gigantesco orologio tipo rosone al centro (ma quando abbiamo saputo che la costruzione viene chiamata «Il Municipio» abbiamo pensato che in effetti poteva anche somigliare a un municipio). Nella piazza c’è una pedana di legno coperta da tendoni (lo Spazio Eventi), una fontana con zampilli che ricordano le perfezioni acquatiche dell’Alhambra. Poi panchine e una mappa nello stile delle mappe comunali che a Roma servono a indirizzare il turista disorientato. Dalla piazza si dirama Il Mondo (lo chiameremo così da questo momento in poi). Un pianeta di strade orizzontali e di piccoli edifici a due o al massimo tre piani. Una terra un tempo vergine ma ora colonizzata da negozi al 95 per cento di abbigliamento. Ci sono palazzetti in arenaria con scala esterna anti-incendio in puro stile newyorkese. E fulgidi esempi di architettura finlandese (o lettone?). E case coloniali con balla-

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toio ricoperte di finti gerani. E modernissimi parallelepipedi con spigoli riflettenti alla Potsdamer Platz. E souvenir rinascimentali a grandezza naturale. E tetti a pagoda in vetroresina1. In giro pochissime persone. Le strade sono pulite e silenziose (ma è solo venerdì2). E sembra quasi di camminare in un plastico (passateci l’affermazione anche se è chiaro che nessuno di noi due può aver mai camminato in un plastico). Praticamente una specie di utopia3. È l’outlet di Valmontone.

Cos’è Il Mondo: considerazioni circa l’utopia Il Mondo è opera di Fashion District, un’azienda che si autodefinisce «il più grande gruppo italiano specializzato nella creazione di strutture di shopping ed entertainment», che l’ha costruito e lo gestisce. Oltre Valmontone, Fashion District ha progettato e realizzato in Italia altri due outlet: a Mantova e a Molfetta. 1 E infatti nella brochure scaricabile dal sito http://www.fashiondistrict.it viene espresso a chiare lettere il concetto che tutte le scelte estetiche sono direttamente riconducibili alla tradizione e alla cultura italiana: «Tradizione che è stata quindi trasferita direttamente negli outlet e si è espressa attraverso le scelte architettoniche, la cura dei particolari e lo stile con cui vengono proposti i servizi e accolti i clienti». 2 Tutte le Unità Umane di Vendita che abbiamo intervistato ci hanno riferito di incommensurabili masse di persone che invadono Il Mondo durante fine settimana e giorni di festa. A riguardo la frase che abbiamo ascoltato più volte è: «Devi chiedere il permesso per passare». Unità Umana di Vendita 3 ha parlato di code che possono anche incominciare a qualche chilometro dall’uscita autostradale e che il giorno dell’inaugurazione hanno raggiunto i 7 km. 3 Per chi non sapesse cos’è un outlet, viene in soccorso sempre la brochure scaricabile: «La formula dello shopping nell’outlet è basata su un concetto che offre ai clienti la possibilità di scegliere tra tantissimi marchi specializzati nel campo della moda e non solo, a prezzi ridotti fino al 70% rispetto ai listini dei tradizionali negozi».

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«L’outlet si colloca all’interno del progetto del Polo Turistico Integrato di Roma Valmontone». In questo famigerato PTI nel 2007 verranno ultimati i lavori del «più grande Parco a tema d’Italia, realizzato da società collegate a Fashion District». L’outlet occupa 45.000 mq di superficie commerciale e contiene 110 negozi. Nel 2005 ha avuto 3,2 milioni di visitatori. Il fatturato stimato all’anno è di 600 milioni di euro con un assorbimento occupazionale di 3000 addetti. Insomma questa realtà pulita e sgargiante esiste ed è a portata di mano nella provincia di Roma. È un mondo dove la criminalità è stata finalmente sconfitta4. Non c’è neanche un angolo dove si spaccia droga. In questo spicchio di universo, la disoccupazione è una parola sconosciuta. Qui a differenza che da noi sono presenti «servizi e strutture d’intrattenimento di altissimo livello»5. E viene concepito lo svolgimento di due sole attività, cioè quelle che questi extraterrestri devono aver considerato nella loro saggezza avveniristica le uniche degne di qualche senso: comprare e lavorare. Poi, è vero, ci sono anche diverse similitudini. Ad esempio c’è la gravità. Ad esempio si respira ossigeno. Ad esempio le persone fanno alcuni dei lavori che si fanno anche fuori. Vediamo commesse e commessi; bariste e baristi; vigilanti; addette alla pulizia. Viene da chiedersi se le loro condizioni di lavoro sono improntate a questo benessere rilucente. Ma dev’essere per forza così. 4 Questo viene propugnato come uno dei principali valori aggiunti della formula «shopping nell’outlet». Sempre dalla brochure informativa: «Inoltre il consumatore si sente protetto dal poter effettuare gli acquisti in strutture dotate di un servizio d’ordine interno, a differenza di quanto avviene nei negozi delle città». 5 Vedi brochure.

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Unità Umana di Vendita 1 - la pasoliniana Non è difficile avvicinare l’Unità Umana di Vendita 1 (o UUdV1), barista del Fashion Café, perché il locale è vuoto (è pur sempre venerdì). Forti della confidenza guadagnataci qualche minuto prima a causa del malfunzionamento di bevanda nerastra alla spina, che ci ha fatto su suo consiglio ripiegare sulle lattine, la affianchiamo mentre spolvera il portellone appannato delle bibite. Le chiediamo due parole per un’intervista sul lavoro nel Mondo, perché è di questo che ci interessiamo noi. Ci spacciamo per scrittori. UUdV1 dimostra di saper gestire le emozioni e reprime l’imbarazzo che finisce per manifestarsi con un vago, rapido rossore sulle gote. La seguiamo al bancone ed è là che, a sorpresa, ci racconta tutto ciò che la riguarda o quasi. Ha venticinque anni e fa la barista dalla maggiore età. È separata. Ha due figli. È di San Cesareo. Risiede a San Cesareo. Lascia i figli con sua madre. Guadagna circa mille e duecento euro al mese e non ha diritto a ferie pagate né a giorni di malattia perché – ecco il primo scoop – lavora in nero. Il lavoro UUdV1 l’ha avuto grazie a sua sorella, regolarmente assunta nello stesso Fashion Café, ed è questo che le impedisce – ma c’è una certa serena rassegnazione nella voce di UUdV1, la vena polemica più che sopita o inespressa è inibita a un livello che non esiteremmo a definire genetico – di fare causa al suo datore di lavoro: metterebbe nei guai sua sorella oltre che se stessa. Ci viene in mente che per un imprenditore assumere consanguinei potrebbe essere la strategia giusta per risparmiare sui costi del personale: uno regolare e uno in nero. Niente cause, niente controversie. Tra le parti si instaurerebbe un legame dalla forte connotazione emotiva, per cui tutto tenderebbe a restare esattamente com’è a oltranza; il la39

voro che come motivazione ha lo status quo, anzi lo status familiae. Certo che le piacerebbe cambiare lavoro, ci dice, anzi è una cosa a cui pensa spesso, ma non sa dire cosa le piacerebbe fare. Non ne ha la minima idea, il suo è un impulso, un istinto più che un progetto. Tra una frase e l’altra ci mette in attesa per servire i pochi clienti del bar. È proprio durante una di queste pause che ascoltiamo un commento di UUdV1 su un ragazzo con una maglia gialla con su scritto il numero 54 che è appena uscito dal bar. Capiamo che si tratta del Responsabile della Lotto e sentiamo UUdV1 dire che gli romperebbe volentieri un bicchiere in faccia. Non lo può vedere. Ma non ci spiega perché.

Unità Umana di Vendita 2 - il self made man Ci perdiamo nell’intrico di vicoli, non distinguiamo più un negozio dall’altro, una fontana da un posacenere, una persona da un’insegna. Stavamo seguendo un’altra Unità Umana di Vendita ma l’abbiamo persa. Ci troviamo spaesati davanti all’unico negozio di articoli video e musicali dell’intero outlet: Star Music. All’ interno, dato che è venerdì, non c’è nessuno a parte un ragazzo alla cassa. Ci basta uno sguardo e siamo dentro. In effetti UUdV2, il ragazzo alla cassa, non è un semplice commesso ma il titolare, e ha un insopprimibile desiderio di parlare con noi. Sembrava che ci stesse aspettando. Da mesi. E infatti quello che UUdV2 fa è parlare, ininterrottamente per mezz’ora. Ci dice che ha trent’anni è sposato ha un figlio ed è di Roma Roma, Roma Centro, dell’Alberone. Quando aveva ventuno anni guadagnava cinque milioni al mese installando sistemi d’allarme anti-terrorismo per gli aeroporti e poi si è ritrovato a ventinove, con famiglia e tutto, a guadagnar40

ne mille e quarantaquattro, pur continuando a fare «l’Uomo Ragno sui piloni» ad altezze vertiginose. Quindi, alla luce del fatto che i suoi datori di lavoro giravano in Porsche Cayenne con l’azienda in fallimento, aveva deciso di dare una svolta alla sua vita. Il 12 dicembre 2005 si era dimesso e nel giro di pochi mesi si era ritrovato titolare dello Star Music dell’outlet di Valmontone. Ma come?, gli chiediamo. UUdV2 con nonchalance tutta italiana dice che la suocera è assessore e che anche il suocero «lavora nello Stato». Assessore a Valmontone?, chiediamo. Un po’ dappertutto, dice lui. Al Fashion District UUdV2 si trova bene, è autonomo, può gestirsi da solo (o quasi, il negozio è co-gestito da sua sorella), e nel complesso è ben contento del cambiamento. Ciò che non gli piace è l’invadenza dell’organizzazione che gestisce il complesso. Ha orari molto rigidi su apertura e chiusura del negozio. Le telecamere sono piazzate pressoché dappertutto, ci racconta con un gesto onnicomprensivo delle braccia, e se apri in ritardo ti beccano e sono cinquecento euro di multa. Però, ci dice, anche quello è un problema che si può eludere: basta masterizzare i cd a quelli della sorveglianza. UUdV2 si accorge che trasaliamo nel momento in cui nomina la pirateria musicale e ci tiene a sottolineare che è solo una piccola illegalità che preserva un equilibrio più grande. Non si può dichiarare guerra a tutto l’outlet, meglio dare un po’ a tutti. È irritato anche dai report settimanali che vengono redatti su tutti gli esercizi, con volume di vendite e attività, allo scopo di produrre una classifica mensile di chi ha lavorato di più. Paragona il tutto al Fantacalcio, secondo logiche che in parte ci sfuggono. Ci rivela che di affitto paga trecento euro l’anno, Iva inclusa, al metro quadro. Ovvero, per il suo negozio di circa centoquaranta metri quadri, quarantaduemila euro all’anno. Ci 41

lascia intravedere non tanto il suo volume d’affari (sta per andare in pari con l’investimento iniziale, ci confida) ma quello dei negozi veramente grandi sparsi per l’outlet. La rottura di coglioni, dice, è la fideiussione che l’organizzazione pretende da qualunque titolare e spara una cifra enorme, impossibile. Poi, come un treno in corsa, dice che l’outlet l’hanno progettato quelli di Eurodisney e realizzato quelli di Cinecittà (il suo edificio in particolare è opera di quelli che hanno fatto i Five Points in Gangs of New York); che vuole farsi la villa a Valmontone perché nel giro di tre anni qualunque investimento si triplicherà; che vorrebbe organizzare una festa clandestina notturna nella piazzetta con fontana antistante il suo negozio manomettendo le telecamere della sorveglianza, «perché si può fare»; che quasi tutti i secondi piani degli edifici sono finti tranne alcuni che ospitano le terrazze d’ispezione. Per dare un filo logico a tutto questo, prima di andarcene gli chiediamo del Responsabile della Lotto. Se lo conosce. Se lo odia. Risponde che gli pare sia uno di Bari e quando gli chiediamo se sa perché ci sono persone che lo odiano, lui ci dice che è sempre la stessa storia: ci sono quelli che lavorano non aspettando altro che venga il giorno che l’azienda paga lo stipendio, mentre gli altri come lui che hanno le responsabilità sono odiati perché desiderano solo che le cose vengano fatte e bene. UUdV2 indossa una felpa della Lazio.

Unità Umana di Vendita 3 - la vice-responsabile Prima di parlare con UUdV3, ventiseienne di Colleferro impiegata presso la profumeria Idea Bellezza, capitiamo di fronte al negozio della Lotto. Inevitabilmente, ci mettiamo a scrutare l’interno e vediamo lui, il Responsabile («quello con la maglia numero 54»), armeggiare davanti ad alcuni scaffali. Vogliamo 42

capire il perché di tanto odio nei suoi confronti. Accanto a lui c’è un commesso che lo aiuta. Lo immaginiamo, il commesso, sottomesso, umile, lì che porge le maglie a lui, il Responsabile, che le ripone sullo scaffale. Gli sta mostrando come si ripongono le maglie. Il commesso non le aveva riposte bene e ora lui gli sta insegnando a farlo come si deve, immaginiamo. Il silenzio del negozio quasi vuoto rende tutto così umiliante, pensiamo, anche se non ci sono clienti. Fuggiamo da quel mondo di soprusi immaginati con un senso di inquietudine, acuito dall’oscurità che è calata anche sul Fashion District e si appresta a inghiottire gli ultimi clienti rimasti. Dobbiamo dire che anche UUdV3, come UUdV2 e come UUdV1, non si fa molti problemi a parlare e raccontarci le cose. La reticenza non è di questo mondo. E, dopo le solite lamentele sui turni massacranti e il lavoro nei giorni festivi, ci rivela che l’outlet di Valmontone è, tra i tre di proprietà di Fashion District, quello con meno giorni di chiusura all’anno, che è stato aperto anche a Pasquetta e che per l’outlet la gente fa cose umilianti. Il primo maggio scorso mucchi di persone si sono accampati a fare pic-nic fuori, sui pratoni che circondano la struttura e addirittura nei parcheggi6. Dal 2 al 6 agosto scorsi ci sono stati i fuochi d’artificio e quindi la ressa per andare a vederli invece di andare in ferie. Quelle erano le ferie, pensiamo. Dopo altre confidenze, fondamentalmente gossip sulla barista in nero, il Responsabile della Lotto e il suo gioviale predecessore che avrebbe fatto carriera a Molfetta, UUdV3 ci il-

6 Una scena che per disperazione/ricerca di felicità ci ricorda in qualche modo quelle dei barconi di immigrati che arrivano sulle nostre coste: i consumatori che premono sulle mura del Mondo, che cercano l’invasione. (Ma Il Mondo, sia chiaro, non concede permessi di soggiorno a nessuno.)

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lustra la figura del Direttore dell’outlet. Ne dà un’immagine abbastanza poco connotata, sottolineando anzi come l’assenza di connotati sia la sua caratteristica principale. UUdV3 non si capacita di come sia arrivato a quella posizione di responsabilità visto che l’esercizio da lui diretto in passato, quello del «Municipio», è l’unico di tutto l’outlet a essere fallito. Il Direttore gira per i negozi, entra e fa domande, sorveglia, controlla, ispeziona a suo piacimento. Ciò, possiamo capire, le causa una sorta di irritazione mista a frustrazione. Così come il suddetto report settimanale, quello di cui ci aveva parlato anche UUdV2, i cui criteri sono incomprensibili e il cui risultato è inutile. Per non parlare, continua a raccontarci UUdV3, di quelli della Barani, cioè gli uomini della security, che riprendono e multano anche per questioni di immagine, per esempio se fumi una sigaretta fuori dal negozio. Ma a parte tutto ciò, a UUdV3 il lavoro da Idea Bellezza «piace». Ci incuriosiscono i cartelli che contrassegnano i vari reparti della profumeria. Scritte come Profumo di Passione e Progetto Uomo campeggiano giustapposte al di sopra delle colonne di scaffali. Progetto Uomo, cos’è?, l’hai ideato tu?, le chiediamo. Ci risponde che esistono intere équipe di specialisti del marketing che ideano quel genere di cose e che per idearle si fanno studi appositi, così come gli studi che lei aveva fatto, parallelamente al corso di laurea in Scienze Politiche con indirizzo Relazioni Internazionali, tuttora portato avanti, per lavorare all’outlet. UUdV3 difatti per trovare lavoro nel Mondo aveva frequentato un corso che definire apposito è addirittura riduttivo: il corso per «Sales Promoter per l’Outlet di Valmontone» organizzato dalla Regione Lazio. Si studia per un certo lavoro in un certo posto. Come fare un corso da conducente per l’autobus 628. O da bidello per il liceo Visconti. O da editor ma solo per Fazi. Prima di uscire, giac44

ché ci siamo, ci preoccupiamo di chiedere una consulenza a UUdV3 sui prodotti di bellezza per uomo. Come possiamo fermare l’invecchiamento della pelle causato dal fumo? Quale deodorante non irrita le ascelle? Quali creme asciugano i fianchi e scolpiscono gli addominali? UUdV3 ci risponde con la solita cortesia e dice che lei comunque consiglia sempre di abbinare la palestra.

La luce come apparato simbolico E poi ci viene il dubbio che anche il buio sia un effetto speciale controllato dai sistemi computerizzati del Fashion District. Ora, a una ventina di minuti dalla chiusura (sono le 20:30), Il Mondo più che a un centro commerciale assomiglia a un quartiere residenziale di una colonia venusiana. Le luci sono soffusi raggi sintetici che addolciscono il ritorno a casa. Gli esseri umani rimasti, davvero pochissimi, si muovono scivolando sui pavimenti appena ripuliti e brillanti come i corridoi di un albergo di lusso. C’è un senso di grande pace. Ed è, in tutta evidenza, una manifestazione esteriore, atmosferica, di quello che ogni consumatore dovrebbe provare al termine di una giornata di acquisti. Questo genere di corrispondenza emotivo-sensoriale è da ammirare per la sua perversione intenzionale.

Perché i cancelli rossi assumono un significato simbolico fuorviante I cancelli rossi di cui non abbiamo ancora parlato sono cancelli rossi, appunto, che interrompono la sequenza degli edifici uno attaccato all’altro a circa metà di ogni strada oriz45

zontale. I cancelli rossi fanno uno strano effetto7. Disturbano l’ambientazione perché interrompono bruscamente questo viaggio sensoriale, la pacchiana artificiosità trasmessa dalle architetture sintetiche e dalle luci policrome del Mondo. D’altra parte i cancelli rossi costituiscono la più evidente linea di demarcazione tra Il Mondo e il nostro mondo. Sembrano volerci dire che ciò che è dentro è dentro e ciò che è fuori è fuori, senza contaminazione. Ma è chiaro che quest’asserzione estetica è assolutamente contraddetta dai fatti. Ora lo sappiamo e ne siamo quasi sollevati: Il Mondo fa parte del nostro mondo. Tanto è vero che nel Mondo si ritrovano le stesse situazioni che proliferano al di là dei cancelli rossi: precariato, lavoro in nero, sfruttamenti in varie forme, la famiglia come agenzia di collocamento. Ci viene da pensare che per evitare la permeabilità del Mondo, invece dei cancelli rossi (decisamente valicabili), avrebbero dovuto fare come in The Truman Show8: installare una cupola di vetro (ma probabilmente neanche quella sarebbe bastata).

Un finale alternativo Se Il Mondo fosse un vero borgo laziale, l’ingresso/portale si chiamerebbe Porta Romana, e la via che costeggia i parcheggi all’esterno e conduce all’uscita del complesso si chiamerebbe via Roma. Ci sarebbe il selciato. Ci sarebbero costruzioni in 7 Ricordate nel film The Truman Show, la scena in cui Truman (Jim Carrey) decide di fuggire dall’allegra cittadina e inizia ad attraversare su una barca quel lago artificiale che lui crede essere un oceano fino a che la punta della barca non va a sbattere contro qualcosa di solido, quando allora Truman scopre che in realtà l’orizzonte è una cupola di vetro? Ecco i cancelli rossi fanno più o meno quell’effetto. 8 Vedi nota precedente.

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tufo tutte affastellate e appoggiate una all’altra. Ci sarebbero anziani seduti al bar con l’emporio di fronte, una cartolibreria, un piccolo ufficio postale recentemente ristrutturato. Invece la via che porta fuori dall’outlet non solo è priva di nome, ma è un vialetto lastricato e gradinato innaturalmente pulito, le cui estremità laterali sono composte dalle vetrine dei negozi di abbigliamento. Siamo in chiusura, e l’ultima forma di assembramento è rappresentata da impressionanti nugoli di moscerini all’interno del negozio Miss Money Money. Rimaniamo imbambolati davanti a questa parodia di una piaga d’Egitto mentre ci chiediamo se fuori da qui saremo usciti dalla rappresentazione di un centro commerciale o saremo usciti solo da un Pezzo sul Lavoro per una rivista. Domande che ovviamente ci portano al front-office, un anfratto la cui posizione, appena a lato del maestoso ingresso, è timidamente rivelata dalle deboli luci interne. È di informazioni che abbiamo bisogno in questo momento. La ragazza alla reception, che per comodità e ignoranza chiameremo Ragazza della Reception (o RdR), ci accoglie con un sorriso facendoci cenno di attendere mentre – caso strano – finisce di spiegare al telefono che lei con i moscerini non ha nulla a che fare, perché lei dà solo informazioni al front-office. Poi la telefonata prende una piega strana. Come se stesse rispondendo a domande poste da noi, la RdR dice che è una delle poche dipendenti dirette del Fashion District e aggiunge, non senza una certa stizza, che la gente va da lei a chiedere dove sono i bagni. Ci guardiamo incuriositi fingendo di sfogliare i depliant informativi. Ma certo, continua la RdR, questo ufficio diventerà presto un ufficio turistico che fornirà informazioni sull’intera zona di Valmontone, sì, un ufficio turistico per il polo turistico, quindi lei di moscerini non sa nulla e non può aiutare nessuno. La sua voce è simile a una voce preregistra47

ta di una compagnia telefonica. Continuiamo ad aspettare annotando segretamente parti della sua conversazione finché non attacca il telefono e, riprendendo il sorriso interrotto, si rivolge a noi. Le diciamo che stiamo scrivendo qualcosa sui centri commerciali e vorremmo farle qualche domanda. Alquanto inaspettatamente il sorriso le si spegne in bocca. Siamo stati scorretti, dice la RdR e ci rimprovera preventivamente di essere andati in giro a curiosare e fare domande mentre, seguendo l’esempio di una ragazza che qualche tempo fa doveva fare la tesi di laurea, avremmo dovuto chiedere l’autorizzazione al Direttore. Non facciamo in tempo a giustificarci, a spiegarle che a noi interessa lei, il suo lavoro all’outlet, il suo vissuto personale al limite, che, con un cenno assassino, allerta due uomini della security che proprio in quel momento stanno firmando il foglio d’uscita sul bancone della reception. I due, in un tempo non cronometrabile, si avvicinano a noi e ci conducono verso l’arco. Ci vogliono espellere dal Mondo. Gli chiediamo se sono della Barani ma non rispondono. E ormai siamo fuori. Ma lo siamo? No, sul serio.

Non la reintegrano di Peppe Fiore

20 dicembre Un mercoledì. Inizio domani i miei tre mesi di stage alla produzione del tg di un canale nazionale. Vengo da una laurea in scienze della comunicazione col massimo dei voti e un anno di anticipo sul piano di studi. Un master in economia dei media con borsa di studio. Esperienze lavorative in varie produzioni, sempre ruoli diversi (regia, redazione, post-produzione). Ho fatto pure il ricercatore, il coordinatore di un laboratorio di scrittura creativa, il redattore di un sito d’arte. Lo sceneggiatore, il soggettista. Il contratto più lungo: 5 mesi. Ho venticinque anni. Per adesso mi mantengono ancora i miei, però sul mio MacBook Pro 15′′ posso usare tranquillamente Avid o Final Cut, Photoshop Cs2, Illustrator, Quartz Composer. 21 dicembre Esternamente il palazzo dove lavorerò è anonimo dentro una schiera di altri palazzi anonimi, tutti, compreso il mio, grigi specchiati. Sta in Prati, dove si concentra il cuore di quasi tutto quello che a Roma è televisivo e perciò, per me, impenetrabile. Stamattina si vedono le enormi padelle Rai di via Teu-

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lada stagliarsi nell’atmosfera, contro una biacca immobile. Ho appuntamento a mezzogiorno con un direttore di produzione, una donna. Sento friggermi qualche cosa nello stomaco un momento prima di entrare dalla porta a vetri. Un gatto enorme grigio perla è fermo sull’ingresso. Sono in anticipo di tre quarti d’ora. In produzione c’è una ragazza incinta, si chiama Monica: la sua forma sferica sforza un maglione azzurro, è la prima cosa che si vede entrando. Sembrano tutti attorno ai trenta. Il direttore di produzione si chiama Giovanna: quando arriva è alta, ferina, maschile e molto sessuale assieme. Io vengo presentato come lo stagista. Ma mi hanno tutti già visto fermo per tre quarti d’ora nella chiazza di luce sul pianerottolo, tra la macchinetta del caffè e la bacheca con l’annuncio di una moto in ottime condizioni. Io rattrappisco le mani in tasca, sorrido, quando qualcuno mi chiede perché non mi sono presentato. 22 dicembre Il telegiornale funziona su cinque grandi aree: regia, redazione, produzione, archivio, rvm/montaggi. La regia è al quarto piano: lavora solo nell’eruzione della messa in onda, il resto è attesa. La redazione al secondo e al terzo piano, i giornalisti cinguettano su e giù per le scale. La produzione, il terzo piano, organizza e coordina il lavoro di tutti. La parte tecnica è al primo: quattro sale montaggio più gli rvm. Durante le ore di inattività i tecnici transumano dall’ascensore al cesso, dal cesso all’ascensore. L’archivio sta al piano –1. L’ascensore non funziona, pare che sia cronico. 23-26 dicembre A Laurenzana (un grumo sperso nel profondo potentino) a casa di mia zia Lucia per le vacanze di Natale, inquinate dal 50

pensiero persistente del mio stage che fa un riverbero velenoso sul retro del cervello. Lunghe passeggiate digestive con papà su e giù per il corso del paese. Nebbia grassa nelle valli in fondo alla scarpata, il Pollino che trascolora alla cerniera dell’orizzonte eccetera. I paesani alle ringhiere come tanti quarti di manzo. Lontani gli studi Rai, lontanissimo il mio telegiornale. Papà si è fatto tutta una carriera in banca: partito da impiegato semplice oggi è un quadro intermedio. Verso la banca ha sviluppato un rapporto ambivalente, ne parla sempre in astratto, la maledice, maledice i suoi capi, schiuma, poi la difende, è una grande istituzione, poi promette di lasciarla, come una malattia che gli è cara. Non ci vedevamo io e papà da almeno un mese. Queste passeggiate sono il momento buono – penso – per spiegargli nei dettagli come funziona la macchina televisiva. Gli ingressi, gli sbocchi, gli sviluppi, le possibilità di carriera. La nuova televisione, la tv via internet, il sistema delle esternalizzazioni, le case di produzione. Papà annuisce a tutto quello che dico (sta invecchiando, la fronte ha fatto le macchioline rosse). Gli spiego la differenza che c’è tra fare il produttore, fare il regista, fare l’autore. Sembra capire: in effetti sono molto convincente. Mi convinco anch’io che quello che voglio dalla mia vita è questo. Alla fine mentre beviamo un Campari e gli sto spiegando cosa fanno le concessionarie di pubblicità, mi interrompe e dice che comunque sia, si fida di me. Nel cicalio dei videopoker dei paesani, mi dice che se è l’unica, proprio l’unica cosa da fare per entrare nel mondo del lavoro va bene anche, all’inizio, lavorare gratis.

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27 dicembre Torno al mio stage col primo turno: 7:30 – 16:00. La metropolitana presa alle sei di mattina al buio: i rumeni addormentati con le borse da lavoro ai piedi. Entro come un siluro nel mondo del lavoro alle sette e un quarto, con una specie di alba in seconda battuta, una colata lattea, che si apre in alto nel cielo all’uscita della metro Cipro. In quanto stagista non ho un account sul computer, non ho una password. Devo chiedere la cortesia ogni volta a qualcuno, che me lo sblocca. Sono tutti molto gentili: digitano nome utente e password, mi sbloccano il computer, digitano un altro nome utente e un’altra password, mi aprono iNews (la preistorica piattaforma software che viene usata per gestire le scalette delle edizioni), mi lasciano davanti allo schermo inerme, senza niente da fare. 28 dicembre Sentita per la prima volta la parola E-work. La pronuncia Danilo, un ragazzo alto, rasato, coi modi lenti, a Monica – quella incinta – davanti alle macchinette del caffè. Segue risatina: tra i denti, però sofferta. Ancora non so che cosa significa. Torno a casa in autobus, assurdamente stanco dopo otto ore di lavoro contemplativo, come se avessi lavorato davvero. 1° gennaio All’improvviso qualcuno mi fischia tra i denti, tra una rampa di scale e l’altra, che l’azienda è una merda, licenzia i dipendenti con una settimana di preavviso e tiene la produzione cronicamente sott’organico. Per cui c’è bisogno di personale, personale già formato cioè, devo stare tranquillo che i presupposti per il contratto post-stage ci sono tutti: basta avere 52

pazienza. Non so chi sia costui, mai visto, si dilegua all’istante. 3 gennaio Mi sono laureato in semiotica nel 2005 con una tesi in cui applicavo i modelli dinamici elaborati lungo la prima metà del ’900 dallo strutturalista estone Jurij Lotman alla televisione di flusso. Mi sono sempre interessato di semiotica interpretativa, la branca della disciplina che fa capo al filone di studi echiano/barthesiano (l’altra branca, quella generativa, è più ortodossa: risale dallo strutturalismo puro di matrice proppiana agli studi di Saussure, a Greimas, giù giù fino a Genette). Una parte della mia tesi è stata pubblicata in Mutazioni Audiovisive, a cura di Isabella Pezzini e Romana Rutelli, per le Edizioni ETS, Pisa. Trancio in due con il coltello un petto di pollo e quello manda un gemito gommoso: è adagiato su un letto di insalata che sa di polistirolo. Sono a pranzo con due colleghe, circondato da impiegati in una specie di pub prefabbricato a via Teulada. Loro hanno i ticket restaurant, io sono costretto a pagare sette euro e cinquanta in contanti. Per tutto il pranzo le ho ascoltate parlare del Milan. La mezza minerale è compresa nel prezzo. 7 gennaio Sterminati laghi di noia nel pomeriggio, tra il rientro dal pranzo e le manovre per preparare l’edizione della sera. Dalle due e mezza alle cinque sono ore di nulla: si guarda interminabilmente la posta su hotmail, si fanno i brutti giochini on line compilati con flash, si parla di ex colleghi, di collant col risvolto, di affinità e repellenze tra segni zodiacali. Io guardo in silenzio, mi annoio, mi pare di sudare a volte. 53

9 gennaio Per mia scelta, oggi turno di notte: 17:00 – 2:10 circa. Si cena, subito dopo l’edizione delle venti, riadattando una delle grandi scrivanie a rotelle del nostro ufficio produzione. Mangiamo così, da dentro dei cartoni di alluminio che siamo andati a prendere in un ristorante qua vicino ingiustificatamente caro, dove la pasta, qualunque sia, ha tutta lo stesso sapore. Pagano tutti coi ticket restaurant, io nove euro. Con noi anche due giornalisti. Uno dei due condurrà l’edizione della notte: sta già nel suo assurdo gessato e bretelle, un profilo pleonasticamente greco, coi capelli ricci brizzolati e la muscolatura da animale da monta, grosso, complicato, taurino. Ha preso i tonnarelli cacio e pepe, come me. Scherza con Cristina, del coordinamento di produzione, che invece ha scelto gli straccetti alla rucola. Questi giornalisti televisivi hanno qualcosa di televisivo che gli permane addosso sempre: una specie di qualità artificiale della carne, come se fossero in onda anche adesso che semplicemente masticano. 15 gennaio Mi telefona da Pozzuoli mio zio Franco, fratello gemello di papà. Vuole farmi i complimenti per il nuovo lavoro. Gli dico immediatamente che non è un lavoro: è uno stage. Dice che il mio tg ogni tanto se lo vede, vuole che lo avviso quando mandano una mia notizia. Gli spiego che mi occupo di tutt’altro, che non ci sono notizie scritte da me, che sto facendo uno stage in produzione e che scrivere le notizie non mi interessa. Dice che non devo preoccuparmi, per fare carriera in televisione basta avere le amicizie giuste: per esempio Maurizio Costanzo. Io piacerei moltissimo a Maurizio Costanzo – dice – perché parlo bene, ho un’ottima capacità d’e54

spressione, non per niente sono sempre stato il primo della classe, dalla prima elementare all’ultimo anno di liceo: se ce l’ha fatta Tonon perché non io? Gli rispondo che diventare un personaggio televisivo non mi interessa, e che il mondo della televisione è molto più grigio di quello che sembra. Dialogo tra sordi: zio Franco dice che ho ragione, che è bene accontentarsi di quello che si ha, che è già tanto se ho trovato un lavoro, perché di questi tempi già il solo fatto di lavorare è una fortuna. Gli dico che non è un lavoro: è uno stage e, in quanto tale, non retribuito. Alle parole «non retribuito» segue un lungo, penoso ronzio. 18 gennaio APTN 9:00, APTN 11:00, SNTV 13:00, APTN 14:00. Di nuovo quel nome: E-work. Stavolta me lo dice Simona, mentre digeriamo in sala visori (una stanzetta con tre video e tre beta): mi pare di capire che c’entra col loro stipendio, o con particolari modalità di accredito dei soldi. Detto così, sembra il nome di un’infezione. Poi continuo a scartocciare una pila di quaranta cassette e applicare sopra queste etichette che non so cosa significano. APTN 19:30, APTN 22:00, APTN 22:30, APTN 23:00. 22 gennaio Come riceviamo i servizi da fuori? La formattazione delle scalette è compito nostro? Chi comunica i sottopancia al chyronista? Come si chiede il materiale d’archivio? Quando si fa l’inventario del magazzino? Di cosa si occupa il coordinamento di rete? Chiedere. Ormai ho capito: quello che convalida la mia presenza al mondo, la mia funzione non retribuita dentro il corpo aziendale è l’atto di chiedere informazioni. Chiedere 55

chiedere chiedere. Uno stagista esiste solo fintanto che chiede. So di essere molesto, ma con me sono tutti pazienti al limite della pietà, mi assolve il fatto che non vengo pagato. Chi è il responsabile del coordinamento? Quando verrà digitalizzato l’archivio? Come è possibile che c’è solo un Avid? Dove si archiviano i master delle edizioni del giorno? Se qualcuno mi dà corda nell’amnios di questi pomeriggi, sproloquio interminabilmente – io che sto sempre zitto se non è per domandare – sulla mia vocazione televisiva, sicura come la morte. Dico che mi interessa la televisione come meccanismo industriale (è vero solo in parte), che i contenuti non mi interessano (non è vero), che attualmente la mia priorità è conseguire il titolo del master (falso: la mia priorità è risolvermi in qualcosa), che nella vita ho sempre avuto la fortuna di fare le cose che mi ero scelto (falso), che sono convinto che se si è bravi e molto determinati in qualcosa alla fine si riesce (falso. Falso, falso, falso). Loro annuiscono, fanno una battuta, io sono serissimo, di quella serietà dei bambini piccoli quando si devono convincere della realtà dei loro giocattoli perché così è più bello. Dicono di stare tranquillo, che ci sono buoni presupposti per un contratto post-stage. 28 gennaio Incontro alcuni colleghi del mio master, oggi stagisti in varie aziende. Andiamo a mangiare una pizza a San Giovanni: è tutto specchi marmi superfici riflettenti. Quella che adesso sta alla comunicazione di Capitalia è diventata nervosissima, affilata, sbaglia a ordinare la pizza e chiede un’insalata che non mangia, si dispera, dice che domani deve svegliarsi prestissimo, le cade il telefonino a terra. Una che sta alla mia stessa tv, ma su un programma in re56

dazione, dice che negli ultimi due mesi ha molto fotocopiato, e che la prima cosa che le hanno detto quando ha cominciato, ancora prima di conoscerla, è stata che non c’erano speranze di entrare, nessuna speranza, mai, nel modo più assoluto e inderogabile, come se lei glielo avesse chiesto. Un paio di persone devono ancora iniziare: però chiedono, si informano, criticano l’organizzazione del master che ancora non le ha proiettate ai margini del mondo del lavoro. Nel frattempo una fa la segretaria di un amministratore di condominio. Mentre aspettiamo le ordinazioni a un certo punto ci ritroviamo per caso in silenzio tutti quanti. Anche a lezione per quasi un anno siamo stati sostanzialmente degli estranei. Una volta erano venuti a fare un intervento i vertici Rai: Cappon, Leone, Balestrieri, Morrione. Giancarlo Leone disse che quello che affossa l’industria dei media in Italia è la mancanza di un management forte, appositamente formato, e che quindi era felice dell’esistenza di questi master che formano i manager di domani. Felice. Pochi giorni dopo c’era una sua foto se non sbaglio su «Prima Comunicazione» vestito da golfista: felice anche lì, vestito di bianco perso nel verde, felice perché il golf è la sua passione. Quando arriva un piatto gigante di fritti io e i miei colleghi stagisti ci scongeliamo, abbiamo un argomento comune: chi vuole il supplì, chi vuole la frittatina, chi vuole l’oliva ascolana. 3 febbraio Telefonata al produttore esecutivo, è Monica, la ragazza incinta che torna adesso dal ginecologo. Non verrà più, complicazioni con la gravidanza. Commozione tra i produttori: le due amiche più care le telefonano immediatamente, le dico57

no di non agitarsi, appena sgravata l’agenzia interinale la reintegrerà senz’altro. Adesso stia tranquilla e pensi solo al bambino. Ciao. Invece sono tutti convinti che non verrà reintegrata, l’E-work troverà una sostituzione, non la reintegrano, hanno sempre qualcuno con cui sostituire: lo dicono anche le due amiche che le hanno appena parlato. Non la reintegrano, dice il produttore esecutivo, non la reintegrano, dicono quelli del coordinamento, sicuramente non la reintegrano è il tetro mormorio consono di tutti i lavoratori, l’80 per cento contrattualizzati E-work. Non la reintegrano, mi sibila in un orecchio un collega dieci minuti dopo nei pressi del cesso, ed è colpa sua perché lo sapeva: aumentano vertiginosamente i presupposti per il mio contratto post-stage, mi dice mentre il pomeriggio ci si congela attorno in una morsa.

Crocefissi a un euro di Marco Di Porto

A settembre, dopo tre anni e mezzo passati a fare il giornalista, l’azienda per la quale lavoravo mi ha licenziato. Ufficialmente, mi è scaduto l’ennesimo contratto di collaborazione – il quinto da quando ero lì. In pratica si tratta di un licenziamento in piena regola, visto che in tutti questi anni ho lavorato con vincoli di orario e di subordinazione. Per un giornalista, oggi, trovarsi disoccupato e senza conoscenze rilevanti equivale a una iattura. Anche se sei giovane come me, ricollocarsi è estremamente difficile. Ho l’acqua alla gola: come ben sa chiunque non abbia soldi di famiglia o entrate extra, vivere a Roma con mille euro al mese dovendo pagare l’affitto è arduo, e in assoluto non consente di mettere risparmi da parte. Così, nonostante io abbia una laurea e sia iscritto a un albo professionale, inizio a evitare gli annunci di lavoro nel mio campo e punto più in basso. Compro «Porta Portese». Faccio un po’ di telefonate. Un negozio a San Pietro cerca «ragazzo prima esperienza» che sappia l’inglese. Vado a presentarmi. Il proprietario è un tipo grasso e liscio. Mi accoglie nel piccolo ufficio sul retro, tra pacchi di magliette e scatole marroni accatastate l’una sull’altra, fino al soffitto. Quasi non c’è spazio per muoversi.

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Mi guarda. È perfettamente quadrato, perfettamente calmo e presente a se stesso, a suo agio nei cento chili che a occhio pesa. Io sono piuttosto agitato, invece. «Che esperienze hai?» mi fa. Ci penso su mezzo secondo, poi mento: «Ho fatto il commesso in due negozi al centro, so l’inglese e anche un po’ di spagnolo». «Sei studente?» chiede. «No». «Va bene» dice. Ha un dentino di quelli aguzzi, che spunta non appena muove le labbra. «Sei religioso?» Veramente sono ebreo, dovrei confessargli. «Non molto» rispondo. «Meglio» dice. «Sai, qui ci vuole un gran rispetto per la fede, ma bisogna anche saperla, come dire?, maneggiare...» «Certo» dico, ammiccando. «Qui intorno è tutto del Vaticano» dice. «Gran parte dei nostri clienti sono preti e suore. Ma noi siamo commercianti. Evitiamo di farci coinvolgere più di tanto. Attaccano certe pippe...» e attacca a ridere. «Chiaro» rido. Smette di ridere. «Ti faccio sapere» dice, mostrando il dentino. «Okay» faccio. E aggiungo, grave: «Senta, ho davvero bisogno di un lavoro. Cerchi di aiutarmi». «Mo’ vedemo» dice, bonario. Uscendo do un’occhiata alla merce che dovrei vendere. C’è una gran quantità di statue della Madonna, di natività, di immagini sacre. Ci rifletto di nuovo: sono ebreo. La mia religiosità è estremamente blanda: a casa mia siamo talmente assimilati che alla Pasqua ebraica giochiamo a tombola. Ma so60

no comunque un discendente di coloro che si rifiutarono di vedere in Gesù Cristo il Salvatore. Mi domando: c’è qualcosa di male nel vendere articoli religiosi cattolici? Ho bisogno di un lavoro, mi rispondo. Questo è un lavoro. E quando lavori onestamente non sbagli mai, mi dico, rispolverando le parole di mia madre. Qualche giorno dopo mi richiamano. «Si inizia lunedì» dice il proprietario. «Perfetto» rispondo. E così inizio. Innanzitutto imparo che i commessi dei negozi di souvenir non fanno praticamente niente a parte fare cassa e sorvegliare che i clienti non rubino. Questo perché la gente entra e si serve da sola dalle decine di vaschette ed espositori contenenti portachiavi, medagliette, pinocchietti, accendini, angioletti, bambinelli, acquasantiere, collanine, braccialetti, adesivi, toppe, bandane, fascette, gladiatori di piombo e di plastica, presepi grandi, piccoli, piccolissimi, minuscoli, luci di Natale, souvenir di Murano, monumenti romani di gesso, di resina, di plastica, di legno, piatti decorativi, orologi intarsiati, di vetro, composti a mosaico col cinturino di metallo, di pelle, di plastica, magneti, bamboline di porcellana, libri e vhs e dvd con la storia di Roma e del Vaticano, segnalibri, cavatappi, apribottiglie, buste, tappi, borse, borsette, benedizioni apostoliche, portafogli e portamonete minuscoli contenenti un mini-rosario con tanto di Ave Maria, megapresepi con luce e senza luce, prodotti alimentari – olio, vino, grappa – e, tra le confezioni di pasta a mezzo metro dalle statuette dei santi, con mio grande stupore ci sono pure i «cazzetti», un tipo di pasta a forma di membro maschile e questo mi turba e anche mi fa ridere. E poi bicchierini e macchinine Burago e sciarpe e zuccotti e felpe in «pile» abbastanza anonime 61

con o senza la scritta «Roma», e caleidoscopi e minuscoli cannocchiali per bambini con dentro le foto, e perle finte, e spille, e cd con i canti gregoriani, e uova di alabastro, nonché una quasi profana quantità di crocefissi. Passo le giornate in piedi, quando entra un turista lo saluto e lui fa tutto da solo. I primi giorni è anche divertente, poi diventa un’esperienza iperreale. È come un film ad alta definizione, pregno di significati e di materia. Maneggio questi crocefissi con estrema attenzione, li impacchetto meglio che posso, li porgo con rispetto ai clienti e alla grande quantità di religiosi che comprano da noi. Allucinante è il cosiddetto «Calendario romano», che vendiamo a cinque euro e che troneggia all’entrata, accanto ai canovacci da cucina: dodici pose, per dodici mesi, di sedicenti preti cattolici in atteggiamenti sospetti. In uno scatto un chierichetto è ripreso nell’atto di mangiare l’ostia: quasi la lecca, prono e languido, l’effetto è così disturbante che ogni volta che lo vedo non posso pensare che a uno scherzo. Ma non lo è. Se i modelli non indossassero l’abito religioso, sarebbe un calendario gay. Il contrasto tra la sobrietà che immagino sia un dovere nell’abito dei preti veri, le notorie voci sull’omosessualità in ambienti ecclesiastici, e questo assurdo calendario da corto circuito mentale è rivelatore e scabroso. È come una deriva inconscia e di cattivo gusto del sentire comune, portata ai livelli più infimi dell’iconografia nazional-popolare (i calendari). Eppure si vende. Ogni volta che qualcuno lo compra lo squadro da capo a piedi per capire se l’atto è ironico – un regalo divertente – oppure se fa sul serio, se si appenderà in cucina quella roba senza percepire l’evidente incongruenza. Incontro un sacco di gente. Scopro che i polacchi, ancora fedelissimi a papa Wojtyla, vengono a Roma a frotte, più dei tedeschi, più dei sudamericani. I sudamericani sono quelli 62

che spendono di più. Ci dev’essere una nuova generazione di ricconi, in Sudamerica. Di americani U.S. manco l’ombra. L’euro è diventato molto caro, per gli americani U.S. Quelli che vengono, fanno una cosa rivelatrice: chiamano gli euro «dollars», refrattari all’idea del rifiuto, quasi che il dollaro dovesse essere considerato unanimemente infallibile, adatto a comprare tutto e ovunque ben accetto. Vengono anche molti orientali. Scopro che il mega-rosario fluorescente con i grani grossi come mandarini è un cult per i filippini, che lo appendono al muro. I giapponesi sono dotati di una certa sicumera: entrano, scelgono, sorridono molto, se ne vanno in quattro e quattr’otto. E poi c’è una gran folla di arabi, di cinesi duri, di russi, di gente dalle dita grosse di lavoro agricolo in gita su pullman stracarichi provenienti da paesi post-sovietici; di preti neri molto dignitosi; di signore della buona società planetaria e apolide che di fronte a certa paccottiglia turistica storcono il naso salvo poi chiederti lo sconto; di irlandesi bonari che comprano generosamente; di italiani che entrano subito in confidenza, sentendosi a casa loro più degli altri, meno timidi e meno ingenui. Intorno a San Pietro c’è un viavai continuo di un’umanità che non si distingue in nulla dai flussi turistici in altri posti tranne che per un aspetto: per il cinquanta per cento è gente che viene qui per motivi in qualche modo legati alla fede. Deduco la percentuale dal calcolo a occhio della merce che vendiamo, per metà articoli religiosi. Passa un mese, un mese e mezzo, si avvicina il Natale. È un lavoro che si fa in piedi, e io che ero abituato alla scrivania mi ritrovo con le gambe doloranti, l’umore altalenante che scende a volte sottozero, in picchiate dolorose e spaventevoli di vero e proprio terrore. All’inizio è anche una specie di esperienza antropologica, le situazioni nuove mi incuriosiscono. Ma la novità è un diversivo temporaneo. Mi ritrovo tutte le 63

sere stanco e infreddolito e non riesco a capire se dovrei gettare la spugna, arrendermi, oppure continuare così per chissà quanti mesi, senza il tempo di fare altro, di costruire altre opportunità. Un giorno due donne si siedono sul pavimento del negozio e scartano tutti e dieci i presepi da un euro che hanno deciso di comprare, per vedere se sono fallati. Ci mettono mezz’ora, occupando tutto lo spazio, inginocchiate ed espanse in giubbotti ingombranti e dozzinali. Aprono i presepi, si guardano, si consigliano, ormai fa un freddo cane e la scena mi mette una tristezza, per la povertà e lo zelo di quei gesti, l’essere inginocchiate come due pazze al centro di un negozio, con i commessi che ti guardano perplessi e non trovano il coraggio di dirti: Alzati! Avranno sessant’anni e chissà che genere di vita alle spalle, m’immagino una specie di lungo corpo a corpo col dolore, non so perché. Quei dieci presepini da UN EURO comprati per chissà chi, controllati fino all’ultimo pezzo di plastica... è una scena che mi fa scattare una specie di disagio fino a quel momento sopito. Tutti i giorni, puntuale a mezzogiorno, viene un tale con lo sguardo folle e ci dice che siamo degli stronzi, che non dovremmo lucrare sul sacro. Luana, la commessa che lavora con me, neanche lo sta a sentire. Io invece lo prendo sul serio e mi dico: un sacco di gente desidera questi oggetti. Per un sacco di gente, questa roba ha un valore. Anche se il materiale di cui le statuine sono fatte è talmente scadente che le facce a volte si deformano, il fatto è che il vecchio contadino con la terza elementare che decide di regalare un Padre Pio di resina a sua nipote, lo fa con tale disinteresse e affetto sincero che, be’, pure il volto semiliquefatto che fa sembrare il santo di Pietrelcina una maschera grottesca diventa un acquisto sensato – per certi versi un acquisto parecchio più sensato di tanti altri. 64

Nella strada tutti i negozi vendono souvenir e hanno un nemico comune: Cherubini. Cherubini è un esercizio storico, è lì che le guide turistiche portano le comitive, è lì che avviene il business, qualcosa come il trenta per cento di tutto il commercio della strada. Cherubini, si dice, compra la merce a un prezzo speciale perché ne ordina quantitativi industriali. È ultracompetitivo, avido, scorretto. Sta aperto dodici ore al giorno, tutti i giorni. Se potesse starebbe aperto anche a Natale. Natale che lentamente, con la lentezza tipica dei periodi difficili, sta arrivando a falcate sospese, come in slowmotion. Giornate di pioggia e grandine, quella grandine violenta e improvvisa che capita a Roma, città dove non nevica mai, si ferma sempre sul punto di, e la via è un’esplosione di facce e corpi da tutto il mondo che arraffano a piene mani, frettolosi e compulsivi, cappotti lisi, pellicce, giacche di pelle, forfora, occhiali bifocali, scarpe alla moda, scarpe vecchie, scarpe sformate, accattoni e zingari con i volti lividi, acconciature azzardate o informi o perfette, gentilezza e ruvidezza e una babele di lingue che domandano il prezzo e lo sconto, ragazze belle, brutte, timide, arroganti, ragazzini ricchi o figli della povertà e gente che chiede anche solo un sorriso che salvi dal freddo di un albergo scadente, di una fila interminabile ai Musei Vaticani, di prezzi da rapina a mano armata, mentre io me ne sto lì, a rispondere a tutti, circondato da pareti gremite di facce appartenenti a un altro universo teologico... finché non rimango paralizzato e la mia carriera di giovane commesso si interrompe, almeno per il momento. Un pomeriggio, verso le quattro, mi piego in due dal dolore per una fitta alla schiena che sembra una rasoiata a freddo. Quasi non riesco a ruotare sul bacino. Stringo i denti fino alla chiusura, poi prendo il motorino e corro verso casa. Quando arrivo mi tuffo nel letto. 65

Il mattino successivo non riesco neanche ad alzarmi. Chiamo al negozio, Luana mi dice che non c’è problema. Il dottore mi intima di stare a letto per qualche giorno e mi segna delle punture inframuscolo. «Non è solo il freddo. È che sei tutto teso. Ti do pure un miorilassante» dice. «Mi sembra un malore da stress». «Punture?» chiedo. «Punture e riposo» dice. Al negozio sono tornato solo una volta, il 31 dicembre, per prendere i soldi. Avevo telefonato al proprietario poco prima di Natale, dicendo che avrei mollato. Io e Luana ci siamo fatti gli auguri, sospesi come nei tre mesi precedenti in una bolla rilucente di lampade al neon e immagini sacre. Ho scoperto che alla fine uno si affeziona a tutto, pure a un negozio zeppo di paccottiglia. Prima di andarmene ho gettato uno sguardo alla parete dei crocefissi, pensando al genere di messaggio evocato da tutto quel dolore manifesto. D’improvviso ho capito la grande fortuna di una religione il cui simbolo è l’immagine di un uomo sulla croce. È assolutamente umano. Interpreta in modo immediato e profondo la percezione che la maggior parte della gente, nei secoli e oggi, ha della vita: un duro percorso. Il cristianesimo nasce dal dolore, quello stesso dolore ineluttabile che la stragrande maggioranza degli esseri umani sperimenta e si porta appresso; quel dolore che è alla base della crescita di ognuno, accettato consapevolmente da qualsiasi persona un minimo risolta. Guardare un crocefisso è un po’ come incontrare qualcuno che ti capisce. Essendo ebreo, non è che ci avessi mai riflettuto granché. Ma mi aspettavano mesi molto duri e precari e questi pensieri, in fondo, erano piuttosto adeguati alla situazione. 66

Riduzione del danno di Emanuele Trevi

Il mio tema: la Vita Come Dipendenza. Vorrei scrivere con ordine di Gino e degli altri ragazzi di Villa Maraini, che caricano i loro due camper, ogni giorno dell’anno, di siringhe nuove e fialette d’acqua distillata e preservativi, oltre all’occorrente per preparare il tè e per cucinare una pasta, quando viene l’ora di pranzo. Le postazioni: piazza dei Cinquecento, fino a mezzanotte circa, e Tor Bella Monaca, nella pinetina (non più di dieci fusti stenti e rachitici) che si apre sul viale poco prima della stazione della TEXACO. Sono in nove o in undici e nessuno è un volontario, l’assistenza ai tossici e l’attività di raccolta delle siringhe usate è un’attività, per così dire, piena di incertezze e contrattempi. Tanto per affermare poi una cosa sorprendente, d’inverno può fare molto freddo e d’estate troppo caldo. Gino, che viene da Trastevere e ha fatto la strada per più di vent’anni prima di disintossicarsi a Villa Maraini e in seguito iniziare a lavorare nei camper, mi ha detto che le eventuali risse bisogna farle sfiammare senza mettercisi troppo in mezzo. Per il resto, le relazioni sono fondate su un solo elemento essenziale, che è il rispetto. Innanzitutto, rispetto per la regola basilare: una siringa nuova in cambio di una vecchia, da buttare nell’apposito contenitore.

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Chiunque conosca almeno solo in qualche aspetto la tossicità e il tipo di relazioni umane che si sviluppa attorno alla tossicità, ha già capito che la regola, fatalmente, conosce decine di eccezioni. Perché comunque, alla fine, distribuire spade nuove è sempre meglio di lasciare quelle vecchie in circolazione. Ma è importante lo stesso che tale regola, esistendo, non può essere del tutto elusa. Puoi esserti dimenticato le siringhe vecchie, ma non puoi, almeno, evitare di parlarne. Questo solo fatto conferisce ai rapporti tra chi sta nel camper e i tossici una incontestabile base di realtà. La realtà è la radice della lealtà. Nella dotazione delle unità di strada, oltre alle siringhe da 1 e 2 cc, alle fialette d’acqua distillata, ai preservativi, c’è sempre l’occorrente per i casi di overdose: Narcan e pallone Ambu. Ma questa roba serve solo nei buoni, vecchi casi di overdose da eroina (oggettivamente, l’overdose migliore della storia del cinema è quella di Uma Thurman in Pulp Fiction). Adesso, però, che ha iniziato a dilagare la cocaina in vena, non si sa proprio cosa fare. Non lo sanno bene nemmeno i medici al Policlinico. L’eroina in confronto era ’na manna – la conclusione di Gino ha la sua necessità. Anche se mai nessuna cosiddetta «fonte ufficiale» e tantomeno nessun politico si esprimerà in questi termini, bisogna ammettere che, tra tutte le infinite forme della dipendenza e dei bisogni connessi, quella da oppiacei non è la più intollerabile – anche per lunghissimi segmenti della vita. Oltre che essere il capolavoro letterario che tutti sanno, Le Confessioni di De Quincey sono piene di informazioni pratiche al riguardo. Dovrebbe essere un libro di testo obbligato per tutti i medici che si occupano di dipendenza. In questo periodo, facendo le ore piccole e a volte arrivando alla mattina, ho letto un’intera biblioteca sulla dipendenza. La grande Famiglia del Papavero: l’oppio e il romantico laudano, la morfina e l’eroina – l’ulti68

ma venuta, la più prepotente, la più bisognosa di cure, infine la più amata. Ho letto gli appunti di Jean Cocteau nella clinica di Saint-Cloud (seconda disintossicazione: dicembre 1928 – aprile1929). Ho riletto Il pasto nudo e La macchina morbida, che mi avevano così sconvolto e illuminato a quindici anni. Soprattutto, ho letto Il libro di Caino di Alexander Trocchi, che da Glasgow si trasferì a Parigi e da Parigi andò a farsi le pere a New York, lavorando (quanto e come poteva) su una chiatta ormeggiata al molo 72 del porto di Flushing. Il suo libro è uscito nel 1961. Evidentemente, se questi libri si trovano più o meno tutti ancora in giro, se qualcuno li ristampa e li traduce, ciò vuol dire che c’è ancora qualcuno che li legge. In effetti, dal lato filosofico, il punto di vista dell’esistenza ridotta a dipendenza è in qualche modo illuminante. Oltre a questi libri ho trovato anche un bel pezzo d’oppio da fumare, un tipico genere di conforto invernale, che in effetti, nella sua stagnola, fa pensare a uno di quei cioccolatini dal dorso ruvido e lievemente gommosi. A parte il suo inconfondibile odore dolciastro (che mi ha sempre fatto pensare alla ciliegia), la caratteristica più impressionante dell’oppio è la sua umidità. Non esiste al mondo sostanza più umida. In confronto, anche l’hashish più fresco potrà apparire come qualcosa di secco. Provate a fumare l’oppio con una cartina da sigarette e osservate come si riduce dopo pochi secondi. Questa umidità è il segno, e se così si può dire l’emblema, il crisma regale dell’oppio all’interno del pantheon delle droghe. È il sigillo del suo mana, della sua potenza ayurvedica, del suo fondamentale carattere femmineo. Oppia, mi viene da scrivere. Mi piace preparare una rudimentale pipa ad acqua con un bicchiere, due cannucce, un tappo di carta argentata. Infilzo la pallina d’oppio sulla punta di una forcina e intanto arrovento un altro pezzetto di ferro per produr69

re il fumo. Farlo da soli è complicato e un po’ buffo, sei il cliente della fumeria e insieme un premuroso e silenzioso cinese che prepara le pipe ai clienti. Tutto sta a coordinare i movimenti per non sprecare il fumo. «Pazienza del papavero» scrive Cocteau. «Chi ha fumato fumerà. L’oppio sa aspettare». E «corregge i suoi tiri», affermazione che mi sembra tanto arcana quanto veritiera. Così passano varie notti invernali. La prima sera che vado al camper davanti alla Stazione Termini, cade una pioggia sottile e fastidiosa, né fredda né calda. Acqua, freddo e paura, mi dice Antonio, lo psichiatra dell’unità, sono gli elementi primari della vita di un tossico durante la brutta stagione. Penso alle operazioni alchimistiche necessarie a trasformare questo impasto di elementi oscuri, ostili, coriacei alle manipolazioni. Fino a che dall’acqua, dal freddo e dalla paura emerga il contrario salvifico, il mercurio vivo, la pietra scintillante e liquida. Gino distribuisce il tè caldissimo e molto zuccherato nei bicchieri di plastica. Il baratto delle siringhe nuove con quelle vecchie continua con le solite raccomandazioni e le solite giustificazioni. Nel libro di Alexander Trocchi che mi tengo nello zainetto e si è tutto inumidito e arricciato agli angoli c’è una frase terribile che ho sottolineato – «Nel mondo dei tossicomani ci sono molte gocce che fanno traboccare il vaso». Questa lieve modificazione (dal singolare al plurale) del modo di dire coglie perfettamente nel segno, riguardo alla vita dei tossici, poiché in tale vita non c’è mai una sola goccia che fa traboccare il vaso, anche se questa basterebbe come basta per tutti, se non che nella vita dei tossici, e parlo dei tossici di strada, di esseri umani in costante stato di privazione e di pericolo, i vasi traboccano perpetuamente sotto un costante diluvio di ultime gocce. Ed è proprio la continuità della catastrofe a costi70

tuire la ragione, terribile e paradossale, dell’incredibile fibra e resistenza di certi vecchi tossici sdentati e incanutiti – specialmente in provincia. Mi piace la maniera di trattare la gente che hanno Gino e gli altri qui sul camper. Un ragazzo mulatto, coperto dal cappuccio grigio di una felpa, scambia diligentemente due spade vecchie con due nuove e racconta una storia molto complicata di coabitazione con due donne una gelosa dell’altra. Antonio è d’accordo con Gino: le nuove droghe sono più pericolose delle vecchie. La cocaina provoca ictus e infarti. Il ciclo dell’astinenza è rapidissimo e ci sono ragazzi che vengono al camper a chiedere una siringa nuova ogni quarto d’ora. Per ore. L’ecstasy invece crea delle vere e proprie psicosi, bipolarità e disturbi della personalità. C’è la chetamina e le metamfetamine. Forme di dipendenza lisergica praticamente equivalenti alla follia. E soprattutto, c’è la tendenza a mischiare tutto. Quanto alla gente che viene al camper: non solo i tossici che vi immaginate. Di questo mi rendo conto ancora meglio alla luce del sole, la mattina dopo, durante le ore passate alla postazione di Tor Bella Monaca. Qui viene gente anche da Palestrina, dall’Aquila. Arriva un tipo vestito bene, che lavora in banca e viene a farsi prima di entrare e durante la pausa pranzo. Una ragazza in tailleur blu, come la potresti trovare nello studio di un notaio o in un concessionario di macchine di lusso, scende da una Smart nuova di zecca. Questa umanità molto più variegata del previsto ha un’età variabile, a occhio, tra i venti e i cinquant’anni. Gino mi dice di non capire perché una persona che soffre di anoressia, per esempio, viene curata e giustamente rispettata e incoraggiata, mentre un tossico, cioè una persona che soffre di un’infermità altrettanto violenta e rischiosa, deve vergognarsi di sé e sentirsi senza tregua braccato e minacciato. 71

Di fronte al camper, dando le spalle al viale, si vede un terrapieno, sostenuto da un vecchio muro, e sovrastato da un declivio erboso punteggiato di alberelli che, almeno in questa stagione, sembrano più morti che vivi, come quelli dei cimiteri nei manifesti dei film horror di una volta. Nelle intenzioni, come si vede dalla presenza di un paio di vialetti e dei monconi di una panchina, questo doveva essere una specie di giardinetto, prima di diventare una terra di nessuno irta di siringhe, cartacce, stronzi umani e canini, rimasugli indefinibili di materie plastiche. Più oltre, dopo il profilo del dosso, si vedono le cime di certi casermoni da venti piani ricoperti di parabole e panni stesi. Lì abitano molti spacciatori. Chiamano cavalli quei tossici che, raccolti un po’ di soldi, salgono su a prendere la roba per tutto il gruppo. Dopo esserci mangiati una pasta preparata nel cucinino, accompagno Gino a fare un giro attorno al camper. Molti parcheggiano la macchina a pochi metri, sfruttando la piccola radura, perché sanno che se qualcosa va male qualcuno del camper li aiuterà. L’andare male delle cose è comunque solo una questione di tempo, e sarebbe fin troppo bello che questo tempo, corto o lungo che sia, potesse passare senza mai smettere di essere fatti. Ci spostiamo sul praticello e Gino, armato di un contenitore sterile e di una specie di lunga pinza, perlustra i cespugli a caccia di siringhe, ce ne sono decine. Il muro del terrapieno si interrompe in corrispondenza dell’apertura di una grotta, dalla volta non più alta di un uomo in piedi e abbastanza profonda. Queste grotte, innumerevoli nella campagna romana, fino a tempi non troppo remoti erano utilizzate dai pastori, e un’immaginazione romanzesca, nemmeno troppo lontana dal campo delle probabilità effettive, può facilmente immaginare convegni di briganti e contrabbandieri dei tempi dello stato pontificio. 72

Di fronte all’entrata della caverna ci sono tracce di fuochi, escrementi, cumuli di mondezza oggi gonfi di acqua piovana, domani secchi come scheletri di animali estinti, di specie impossibili da immaginare. All’interno della caverna, che in questo momento del giorno è deserta, qualcuno ha sistemato un materasso, tutto sdrucito e istoriato di macchie di varie tonalità e dimensioni. Mentre Gino raccatta con la sua lunga pinza qualche spada abbandonata nella penombra, mi sorprendo a elencare tra me e me tutte le secrezioni e le fuoriuscite che possono generare delle macchie su un materasso in una grotta usata da tossici molto spesso a un passo dalla morte – vomito piscio muco sperma sangue di mestruo e di ferita merda cerume sudore... Come si dice che nessuno sa elencare i sette nani, manca all’appello sempre l’ultimo, anche in tutte le liste che si fanno per qualunque motivo c’è sicuramente un’assenza – il numero mancante, e supremo perché mancante, che fa turbinare tutti gli altri e li riduce a zero. Nella mente del tossico si insedia e regna (anche per anni e anni) la convinzione mai apertamente dichiarata, e tanto più forte quanto più oscura, che della vita si possa fare a meno e da parte sua la vita, sentendosi abbandonata e ricacciata in una specie di infanzia, si riduce ai suoi elementi essenziali che da sempre sono il bisogno e la paura e la necessità di lasciarsi dietro, come Pollicino nel bosco con le sue molliche, innumerevoli macchie. Vengono da molte città, soprattutto dell’Europa dell’Est, a imparare con noi questo lavoro delle unità di strada e della riduzione del danno, mi racconta Gino mentre torniamo al camper, circondato da nuove macchine. Dopo i sussulti dell’ora di punta, a metà mattina il rombo che proviene dalla Casilina si è fatto uniforme, simile alla risacca di una marea. Piazzare un’attività quotidiana di assistenza in un posto del 73

genere non è un lavoro semplice. La cosa più triste delle società umane, è che appare semplice e accettabile a prima vista e necessario solo ciò che poggia sull’esercizio della violenza. E se fai una cosa che non poggia su tale principio, sei tu che devi spiegarlo agli altri, sei tu che devi dimostrare che quello che fai non è un delitto. Chiunque, riassume Gino, può alzarsi e dire voi aiutate i tossici, non li giudicate, in caso di bisogno arrivate con il Narcan, gli regalate i preservativi. E quindi basterebbe una carta bollata o il colpo d’ingegno di un politico idiota per mandare all’aria tutto questo lavoro. Guardando le cose come stanno, cioè guardandole nell’orrore e nell’ingiustizia che sono, quello della tossicità e della dipendenza è un mondo che funziona perfettamente da sé, non tollerando intrusioni di nessun tipo. Ha solo bisogno di spacciatori, di poliziotti e di tossici. Considerato in questa quintessenza, in questa purezza d’espressione e d’intenti, esso non sembra tanto un mondo fra gli altri, ma il mondo, l’ordine delle cose così come stanno, così come vanno. Il vento che viene da oriente straccia un poco la nuvolaglia facendo filtrare effimeri fasci di luce dorata. Inizia un nuovo pomeriggio, qui alla pinetina di Tor Bella Monaca: uguale a tutti i pomeriggi precedenti, a tutti quelli che verranno. Avrà tanti difetti, la realtà, ma non si può dire che non le piaccia mostrarsi: tutta intera, così com’è, anche nel più infimo dei particolari. Come un eroe di Beckett, tira fuori la testa dal suo bidone della mondezza, e ricomincia a intonare il suo monologo senza né capo né coda.

La giornata è quando si vede il sole di Marco Rovelli

«Arriverà la fine del tempo, sì o no?» «Può essere. Ma non finirà la vita». «Come no? C’è l’inizio, o no?» «Non ci credo, all’inizio». «Come non credi nell’inizio?» «No». «...e qualcosa che ha un inizio ha una fine». «Appunto, io non credo all’inizio. L’uomo si illude di poter arrivare a un’origine, a qualcosa che è là, da cui è nato tutto, senza rendersi conto che tutto è già qui davanti». «Pensa al big bang. Il big bang è l’inizio, no? E il big bang è scritto nel Corano. Nel Corano si dice che la creazione è nata con la condensazione di tutti i gas». «Hassan, non mi convertirai!» «No, verrà un giorno! Arrive un jour! Viene il giorno che ti converti!» «Suona come una minaccia, Hassan». «Un filosofo ha detto: una persona che ha una grande scienza va direttamente a Dio, poca scienza allontana da Dio». «Era la sua maniera di glorificarsi, no?»

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«...come si chiamava quel filosofo... Non ricordo il nome adesso. Quante cose mi scordo... Mi dispiace, tutti i miei libri, tutti i libri che ho a casa mia... Ma qui non c’è mai tempo per leggere. Rientri a casa stanco, prepari da mangiare, vai a dormire... Vorresti leggere un po’, ma non ce la fai... Non c’è tempo per leggere, qui. Sempre lavorare. Non c’è tempo». Non c’è tempo. La fine di questo tempo senza tempo, Hassan non riesce a vederla. Non viene mai il settimo giorno, o il venerdì della creazione, il giorno del riposo e del respiro. C’è un fiume uniforme di ore impastato di calce e ricoperto di mattoni. Hassan lavora nei cantieri edili, e la sua è una storia ordinaria, assolutamente normale. È un normale moderno proletario, o sottoproletario, le definizioni le lasciamo da parte, in attesa di una riparametrazione. È certo che le centinaia di migliaia di Hassan sono unità produttive decisive per le sorti dell’economia italiana, per quel che resta delle sue sorti progressive. L’edilizia tira, è uno dei pochi settori produttivi che cresce, e crescendo dà respiro al Prodotto Interno Lordo del paese. Il respiro che gli dà è precisamente quello che toglie ai mille e mille Hassan. Dal 1999 al 2005 il settore dell’edilizia ha incrementato la sua produttività del 23 per cento, a fronte di un aumento complessivo del Pil dell’8,6 per cento. Negli ultimi cinque anni gli investimenti nell’edilizia sono stati di 138 miliardi, il 10 per cento del Pil. E le aziende edili arrivano quasi al 30 per cento sul totale delle imprese italiane. Sono le microimprese a far gonfiare il dato, quelle microimprese dove trabocca il lavoro nero migrante e che prosperano grazie all’attuale legislazione sugli appalti: dai committenti il lavoro viene scaricato a valle, in una lunga catena di subappalti, ogni volta trattenendo una quota di profitto, fino ad arrivare appunto alle microimprese che, per avere anch’esse la loro parte di profit76

to, usufruiscono largamente di quella che una volta si chiamava «esercito industriale di riserva». I clandestini, o potenziali tali. Anche se non ha tempo di leggere i suoi libri, Hassan è in grado di leggere lo sfruttamento che gli si scrive nella carne. Eppure lui non è un clandestino. È regolare, con regolare permesso di soggiorno, da quattro anni. Ma il regolare non è che un potenziale clandestino. Non può permettersi di perdere il lavoro, altrimenti addio permesso di soggiorno. E allora deve chinare il capo, e accettare ogni condizione di lavoro. Hassan legge nella sua carne la potenza del dispositivo messo in opera dalla legge Bossi-Fini, dalle leggi sul mercato del lavoro, dalla legislazione sugli appalti, dall’assenza di controlli efficaci sull’impiego di lavoro nero. Hassan non è stato schiavizzato sui monti siciliani, costretto a tenere le pecore dormendo tre ore per notte e mangiando solo pane secco, come è accaduto a un ragazzo che ho conosciuto in Sicilia. Non è caduto da un tetto e abbandonato sul ciglio della strada in fin di vita, come è accaduto a un ragazzo marocchino che ho conosciuto a Milano. Non è stato minacciato con la pistola di andarsene senza reclamare i soldi dovuti, come è accaduto a dei ragazzi eritrei che ho conosciuto in Puglia, o a dei ragazzi marocchini che ho conosciuto a Reggio Emilia. Quella di Hassan è una schiavitù ordinaria. Quando è arrivato in Italia, passando la frontiera a Ventimiglia mentre per i doganieri era l’ora di cena, era l’ottobre del 2002. Gli avevano detto che si preparava una sanatoria, era l’occasione di mettersi in regola, da un anno stava in Francia senza permesso, faceva il muratore ma da clandestino, an77

che se fare il muratore clandestino in Francia è sempre meglio che farlo in Italia. Però l’Italia adesso offriva una possibilità. Non avrebbe comunque messo a frutto la sua laurea in biologia, ma a quello Hassan ci aveva già rinunciato. È subito sceso in Sicilia. Sua cugina è sposata con un italiano; abitano in provincia di Agrigento. Anche Lampedusa è in provincia di Agrigento. Hassan è stato nella sua Lampedusa per sei mesi. Dopo tre mesi ha trovato lavoro in una stalla. Lavoro nerissimo, clandestino appunto. Quattrocento euro al mese, tutto il giorno, anche sabato e domenica, per tre mesi di seguito. Nella stalla ci dormiva, una piccola stanza di quattro metri quadrati con lettino fornello e bagno ricavata in un angolo vicino all’entrata. Dare da mangiare alle vacche, mungere a mano, pulire. Erba, latte, merda, Hassan aveva a che fare con gli elementi primordiali del ciclo della vita. Forca e carriola, tirar su il concime, portarlo fuori, su un camioncino, disperderlo nei campi del padrone. Hassan stava lì tutto il giorno, il mangiare glielo portavano, erano pure bravi che gli portavano carne halal, così gli restava tempo anche per lavorare nei campi, potare gli olivi, zappare, costruire muri e muretti. A disposizione. Era lì che aspettava, la clandestinità coincide del resto con l’attesa, l’attesa di una luce e di un nome che non vengono mai, e se vengono vengono come viene la grazia. Aspettava di essere messo in regola, Hassan, sua cugina gli aveva trovato un altro padrone, un padrone virtuale che lo aveva assunto. Per avere il permesso di soggiorno ho dovuto pagare quasi tremila euro, dice Hassan. Duemila euro al finto padrone, e ottocento allo Stato italiano. Le cose si sommano, non stiamo parlando di mele e di pere, qui sempre di taglieggiamento si tratta. Il finto padrone Hassan non lo ha mai visto, gli ha fat78

to i documenti come domestico, come badante di suo padre. Hassan ha preso i documenti, li ha messi in una busta, alla posta, ha fatto il vaglia di ottocento euro, ha mandato tutto a Roma. Intanto continua a lavorare nella stalla. Quando gli arriva il permesso, il 31 marzo, saluta e se ne va. Ha lavorato tre mesi ed è già in perdita di milleseicento euro. Hassan torna nei cantieri, prima Modena e poi La Spezia. In Italia ti sfruttano di più, dice. Qui ci sono più clandestini a lavorare nei cantieri. E capita spesso che il padrone non ti paghi. In Francia è difficile. E là non ci sono la discriminazione e il razzismo come qui. Sono preoccupato, dice Hassan, e non pensa più ai suoi libri, ma alla fame. A casa ho in carico due figli, la moglie, mia madre. Devo accettare qualsiasi tipo di lavoro. Anche nero. Adesso sto lavorando in nero. E quelli che lavorano con me sono clandestini. Quando lavori regolare, invece, ti danno l’assegno. Se inizi il lavoro il primo del mese, ti pagano il 15 dell’altro mese, a trenta giorni. Il mezzo nero, quello è diffusissimo: ti iscrivono a Inail e Inps, ma non alla cassa edile. Non essere iscritto alla cassa edile significa non avere ferie, tredicesima, malattia. Mettiamo che ti ammali, l’Inps paga solo dopo il terzo giorno. E mettiamo che ti infortuni sul lavoro – e questo capita spessissimo nei cantieri – l’Inail ti paga solo il 60 per cento dell’assicurazione sugli infortuni, il resto dovrebbe pagarlo la cassa, ma tu la cassa non ce l’hai... A La Spezia, ad esempio, sui 3500 uomini adulti immigrati, dei quali la grande maggioranza sono muratori, solo 1200 sono iscritti alla cassa edile. Ma tante volte non sei pagato dalla cassa edile anche se sei iscritto: è capitato a un sacco di amici miei, dice Hassan, 79

il loro padrone non versava i soldi alla cassa. Un amico mio ci ha perso quattromila euro. Sui ponteggi, nel pieno centro della città, sono in quattro, tutti marocchini. Prima tolgono l’intonaco vecchio – stonacano –, poi rovesciano i sacchetti di calce bastarda nella betoniera, che mescola e partorisce l’intonaco nuovo, che loro portano sul ponteggio. Finita l’intonacatura c’è da pitturare. Prendono da trenta a quaranta euro a giornata. La giornata va dalle sette e mezzo fino a quando non vedi più la cazzuola. Quand’è la giornata? Quando si vede il sole. È il destino del clandestino, la sua vita è regolata dal venire della notte. Nei cantieri del Nord, o nei campi del Sud, è il sole a regolare la vita di questi uomini. Sono come le piante, questi uomini neri, agli occhi dei cittadini che vivono regolati dagli orologi. Uomini di un’altra epoca, per cui viene naturale provare un odio razziale se reclamano di esistere come persone e non solo come oggetti di natura. Se gli chiedi quali sono i problemi, Hassan pare che reciti una lezione, punto per punto, come fosse un ordine appreso giorno dopo giorno. E lo è, in effetti. La lingua è la prima cosa, dice. Se non parli italiano non ti fanno lavorare, perché la comunicazione in un cantiere è importante. Devi conoscere i nomi degli attrezzi: Cazzuola, Martello, Livello, Bolla, Gomma. Immaginare un linguaggio significa immaginare una forma di vita. (Sarà un caso che Wittgenstein ha iniziato le sue Ricerche filosofiche sul linguaggio partendo proprio dall’esempio di un cantiere?). La seconda cosa, dice, i pensieri: e anche se trovi lavoro hai sempre pensieri. Posso avere i soldi alla fine della giornata? Posso avere il permesso? I genitori che ti chiamano, come 80

stai? E la casa. I clandestini non possono fare un contratto per la casa. Ce ne sono tanti che abitano in otto, dieci persone. Paghi 150 euro al mese a testa, magari, e li paghi in nero al padrone di casa, oppure a quello che è regolare e ha fatto il contratto, che lui così non paga l’affitto e ci guadagna pure su. E se non paghi alla fine del mese ti mandano via, ma se il padrone non ti paga? Capita spesso, che il padrone non ti paghi quando sei nero. Magari ti dà cinquanta euro oggi, cento domani, venti euro domani l’altro, poi arriva la fine del mese e devi avere ancora centinaia di euro, il lavoro è finito, e lui non ti cerca più e non si fa più trovare, e allora capisci che quei soldi non li vedrai più. Terza cosa il razzismo, dice. Quando lavoro con due italiani, per esempio, e siamo tutti allo stesso livello, i lavori duri devo farli io, non si discute. Sono io che devo scavare col piccone, sono io che devo tirare la carrucola, sono io che devo portare il cemento o la sabbia dal primo piano fino al quinto. Non è che ti dicono per piacere. Anzi, ho sentito, Oh asino, vai a tirare la carrucola! Del resto, il 70 per cento degli stranieri sono inquadrati al primo livello contrattuale, come manovali. Ci sono aziende che hanno solo manodopera straniera, e sono tutti inquadrati come manovali. È ovvio che non costruisci un palazzo senza specializzati e senza capocantiere, ma certi palazzi è come se fossero edificati dagli angeli... Quarta cosa, la discriminazione. Vai a cercare lavoro all’agenzia, a Obiettivo Lavoro, a Generali Industriali, a Manpower, loro ti danno i fogli da compilare, ti dicono: Guardi, in questo momento c’è crisi, non c’è lavoro. Ma quando ci va un italiano lo mandano subito a lavorare. Obiettivo Lavoro mi ha mandato al cantiere navale, con altri tre compaesani, gli italiani li hanno messi al settore dove fanno le barche, in81

vece noi ci hanno messi a tagliare il ferro con il flessibile senza darci nemmeno i guanti e gli occhiali. L’enumerazione è finita, ma i problemi eccedono qualsiasi ordine. Gli affetti, poi, le più intime relazioni, sono l’eccedenza assoluta. Non c’è considerazione, per l’intimità di una macchina produttiva. In Marocco Hassan ha due bimbi di cinque e due anni, e li vede due volte all’anno, ad agosto e a Natale, quando torna per un paio di settimane. Non può fare diversamente. L’intimità – che per lui si chiama ricongiungimento familiare – gli è negata. Per far venire in Italia la sua famiglia dovrebbe avere, oltre al contratto d’affitto, un reddito annuale di novemilaseicento euro, e soprattutto un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Eccola qui, la grande ipocrisia, per essere assimilato a una persona (parola che equivale a «cittadino»), un immigrato deve avere un contratto che nemmeno gli italiani, ormai, riescono a ottenere. Le cose, si badi bene, stavano così prima della Grande Legge Schiavistica Bossi-Fini, era già la Turco-Napolitano a prevederlo. Ma con chi protesti, se nessuno ti ascolta, se non hai voce? Chi vuole ascoltare la voce di una macchina che non porta voti di cinque anni in cinque anni, ma tutt’al più ne può togliere? Per i corpi ridotti a macchine produttive tutto fa problema, anche le cose minime, e neppure per le cose minime puoi protestare. La pioggia, ad esempio. Quando piove non si dovrebbe lavorare, in un cantiere. Invece si lavora, e per quel giorno tu in busta paga vedi solo i 5 euro e 85 che l’Inps paga come giorno di non lavoro. Prendi 7 euro e 34 in meno rispetto a un giorno di lavoro, e il padrone così ha un giorno di lavoro gratuito. Ma non puoi protestare, perché se protesti 82

non ti fa più lavorare, e tu immigrato devi lavorare, se no non ti rinnovano il permesso di soggiorno. E se protesti troppo, ti picchiano, conosco tanti casi del genere, ma anche chi viene picchiato se ne sta zitto, tanto più se è clandestino, che se va in questura intanto lo rimandano al paese. Figuriamoci poi l’orario di lavoro, protestare per quello è inimmaginabile, non si conosce tempo, il tempo di un immigrato è tempo per il lavoro, resta la notte, se va bene, e la notte è fatta per dormire. «Arriverà la fine del tempo? Sì o no?»

Il posto è la notte di Michela Murgia

Ma che domanda è, se mi piace il mio lavoro? Il mio è un lavoro che è meglio non cominciare nemmeno a farlo, se non sei pronto a cambiare completamente il tuo modo di vivere. Molti cominciano a farlo da giovanissimi, sei mesi l’anno negli alberghi di Cortina, ma io ho una moglie e un bambino di tre mesi, la situazione peggiore per fare il portiere di notte. Ho pensato di chiedere il congedo parentale per godermi i primi mesi dopo il parto, ma il datore di lavoro ha già un altro dipendente assente per maternità, e chi rivendica questo tipo di diritti è visto come uno che non prende sul serio il suo mestiere e vuole incasinare gli altri. Così me ne faccio una ragione e corro il rischio della notte, quello di vivere una vita che non si incontra mai con le altre. In teoria questo non dovrebbe accadere, perché la legge dice che a ogni tre notti di veglia consecutive devono seguire tre giorni di riposo, compreso lo smontante. Però negli hotel piccoli a gestione semifamiliare nessuno è disposto a pagare due persone che si avvicendino, ne basta una che dorma meno, che sarei io. Non mi lamento, comunque. Trovare lavoro qui è già una fortuna. Ho fatto le stagioni per anni a Livigno, so cosa vuole dire stare lontani; non stai a discutere su tutte le condizioni che ti

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danno, se hai il lavoro vicino casa. Anzi è meglio fare tutte le notti consecutive, altrimenti a star svegli non ci si abitua mai. Pensa che quando ho iniziato a fare il portiere ero convinto che il mio posto di lavoro sarebbe stato il banco della reception, di legno e pietra arenaria. Invece il portiere più che in un luogo lavora in un tempo: è la notte il mio posto di lavoro. Ventitre-Zerosette, due numeri che fanno la differenza anche sullo stipendio alla fine del mese, perché per fortuna non tutto il tempo ha lo stesso valore. Non c’è da farsi illusioni, io figuro come receptionist; la differenza me la dà fuori busta, altrimenti dovrebbe assicurarmi per un importo molto più alto. A me sta bene così, l’importante è che mi restino i soldi. Mi vien da ridere se penso che c’è un mucchio di gente che considera il mio un mestiere affascinante, tema di canzoni e romanzi. Invece di notte io faccio poche cose, e quasi tutte noiose: porto fuori la raccolta differenziata, timbro le schede di registrazione, sbrigo qualche formalità amministrativa. Soprattutto leggo. Comincio dopo che sono tornati tutti, quando lascio accese solo le luci essenziali. Leggo anche quattro quotidiani, ma a volte capita che faccio degli incontri interessanti, i clienti sono gente imprevedibile. Scendono le scale con la scusa di una camomilla e finisce che ti raccontano quello che nemmeno sapevano di voler dire. L’altra sera è venuto giù un vecchio medico in pensione a cui la figlia non rivolge la parola da dieci anni. Quando ha finito di dirmi il perché, erano passate sei ore e mi ha ringraziato della chiacchierata con cento euro di mancia. E di cosa mi ringraziava? Ha parlato solo lui. Di mance ne ricevo parecchie; l’hotel serve un golf club vicino e sono in molti a passare la notte arenati al banco del bar come delfini spiaggiati, rispondendo a domande personali che di sicuro io non gli ho mai fatto. Mi sono convinto che è perché sto zitto che mi lascia85

no la mancia. Per fortuna però ci sono anche notti che non scende nessuno e il silenzio è rotto solo dai suoni dei frigoriferi che attaccano e staccano. Quelle sono le migliori, leggo in pace e il tempo mi vola via. Studio anche, sto imparando lo spagnolo, anche se di lingue ne parlo già bene due. Ogni tanto vedo cose che sarebbe meglio non vedere. Dico balle a mogli che chiamano per avere informazioni riservate, nego cortesemente risposte a datori di lavoro altrui. Mi hanno insegnato che il portiere ideale ha ottimo spirito di osservazione e pessima memoria, e che il mio mestiere a volte è anche dire bugie; o forse no, non la metterei così, son bugie se le dici gratis, se ti pagano è segreto professionale, non è così che si dice? La mia memoria labile riguarda soprattutto ragazze dell’Est in compagnia di clienti italiani affezionati. Così affezionati che non serve nemmeno chiedere i documenti. La cosa più difficile è imparare a dire di no. All’inizio pensi di avere il dovere morale di fare tutto quello che il cliente ti chiede, se è in tuo potere farlo. Non sempre lo capisci subito, dove sia il confine tra il servizio e la servitù, ed è perché siamo sardi. Per la nostra educazione l’ospite è sacro, è difficile ricordarsi che il fatto di avere tutte le chiavi non fa di questo posto la mia casa. Prima di imparare a distinguere tra un ospite e un cliente, ho trascurato decine di volte di dire che l’hotel non prevede servizio in camera la notte; ho custodito sotto la sua responsabilità oggetti preziosi di natura spesso ignota; ha persino prestato l’auto a un cliente – che me l’ha riportata fuori orario, e ammaccata. Il cliente pensa che gli sia dovuto tutto, che se dici di sì è perché evidentemente rientra nelle tue competenze, per cui non si sente nemmeno in dovere di essere grato. Tu fai parte del servizio. Quando l’ho capito, dire no è diventato molto più facile. Alla fine si sta tutti meglio se si fa solo ciò per cui si è veramente pagati. Ma di 86

solito custodire la notte per gli altri non è nemmeno interessante, e molti si limitano a corteggiare l’arrivo dell’alba tra televisione e internet. Soprattutto internet, tanto che alcuni colleghi faticano a staccarsene anche quando non lavorano. Puoi metterci un bel po’ di tempo a capire che c’è qualcosa di sbagliato se non hai mai sonno o fame e trascorri in chat la maggior parte delle tue ore. Chi fa un lavoro notturno isolato è infatti tra le categorie a maggior rischio di dipendenza, da quando l’internet addiction disorder è stato identificato come una patologia. Per un po’ ci sono cascato. Poi arrivano i figli, e capisci che certi sbagli rischi di farli pagare agli altri. Adesso al massimo faccio giochi con le carte, di quelli gratis che sono già nel pc. Però il maggior pericolo che si corre a fare il portiere non viene dallo schermo del computer. Se gli alberghi più grandi hanno la guardia giurata, in quelli piccoli come questo ci si deve arrangiare, sperando non capiti mai la situazione in cui arrangiarsi potrebbe non bastare. Non è infrequente che dalla porta spunti uno sbandato, un ubriaco o qualcuno con problemi mentali e una certa confidenza con la notte. Mandarli via non è sempre facile: a volte basta un invito energico, altre volte ci vuole un piccolo aiuto. Nel cassetto ho un bastone di legno di pero, non ridere ti prego. Lo preferisco, perché la scacciacani che la direzione voleva darmi non l’avrei presa nemmeno per scherzo, che se uno vede una pistola pensa che sei disposto a usarla e lì può davvero succedere di tutto. Quando sono tornati tutti io blocco la porta scorrevole: se vogliono entrare devono suonare, e così li vedo prima. Certo, la misura di sicurezza non serve quando la persona molesta è ospite pagante dell’hotel. È soprattutto per questo, più che per gli orari, che non ci sono molte donne a fare questo lavoro. I direttori del personale cercano qualcuno che all’occa87

sione possa riportare un cliente in camera, non necessariamente sulle sue gambe; qualcuno che i clienti maschi non considerino un potenziale invito alla molestia per il solo fatto che è femmina. Quella che c’era prima di me faceva venire il marito a farle compagnia perché aveva paura, le capitava ogni tanto che i clienti ci provassero. Ha fatto lo sbaglio di lamentarsene con il direttore e da allora non prendono più donne. Se non sai cavartela è meglio che non lo fai questo lavoro. L’imprevisto può avere la faccia di un cliente abbastanza ubriaco da considerarti suo amico, ma anche quella di una stanza allagata alle quattro del mattino, di una coppia che ha anni di rancori da far sentire alle camere vicine, di un lavandino otturato da un oggetto prezioso che non deve andar perso. In otto anni ho visto un po’ di tutto, ma la gente ti sorprende sempre per i casini nuovi che sa inventare. Ho cominciato che avevo ventitré anni e mi serviva un tranquillo lavoro notturno per finire gli esami di giurisprudenza. Poi l’università è finita senza finire e il lavoro è rimasto, perché nel frattempo è arrivata Laura, il bambino... lavorare ha smesso di essere una scelta di comodo. Se torno indietro non lo rifaccio, mi cerco un altro lavoro che mi permetta di dormire ogni notte con mia moglie. Ecco, vedi? Sono le quattro, a quest’ora io chiamo sempre il fornaio e la pasticceria per ordinare la roba per la colazione. Fuori comincia a fare luce, le sagome delle auto assediano il piazzale come un esercito di automi spenti. Per uno che fa questo lavoro è l’ora peggiore, l’abbiocco arriva adesso. Certo che guadagno tanto, ma quello che cedo vale di più. Non è solo per via del sonno. È che la notte poi cambia anche il giorno, ti abitui a stare solo, al silenzio, alle abitudini scandite dalle ore. Gli altri non sempre lo capiscono, mia moglie dice che questo mestiere mi ha cambiato, che la gente mi piace meno. Credo abbia ragione, ma 88

cerco di non farglielo pesare per quanto posso. Non è che non mi piaccia la notte, è molto più tranquillo alla fine, non ci sono rumori, stress di gente che va e viene. Ma del lavorare di notte mi secca che non imparo niente, dato che la maggior parte del tempo sono pagato solo per esserci. Se non riscatto quelle ore facendo qualcosa per me stesso, è una marea di tempo sprecato. Non importa se è pagato, il tempo buttato via non te lo paga nessuno veramente, perché non puoi ricomprartelo, è andato. Vuoi un altro caffè? Sennò pulisco la macchina. Arriva già giorno, vedi come viene in fretta. Prima di andare via devo spegnere le luci della hall, ma la cosa buffa è che non cambia nulla, in realtà tutti gli alberghi che ho visto sono posti dove non sembra fare giorno né notte, come se vivessero in un tempo per conto loro. Anche la sera succede così: quando arrivo io, è li che comincia la notte. Io adesso stacco, però volevo dirti che ti ho risposto solo perché volevo farlo, non fa parte del mio lavoro, anche se sei cliente dell’hotel. L’ho fatto perché quando mi ricapita che per una notte quello che parla sono io. Però scrivilo, che se vuoi una vita normale questo lavoro è meglio non cominciare nemmeno a farlo. Scrivilo.

Il cliente va conquistato di Stefano Liberti

Tovaglie, calzini, canovacci. Ti serve qualcosa? Uno sguardo appuntito che si apre a tratti in un sorriso fugace, due spalle robuste per sostenere un borsone stracolmo, un broken english inframmezzato da quelle poche parole italiane che conosce, Bright deambula a caso cercando di catturare l’attenzione dei passanti e rifilare loro un paio di calzini di nylon. O una tovaglia di plastica illustrata con frutti colorati. O un canovaccio giallo a righe rosse per le pulizie di casa. Senza documenti, con scarse prospettive e zero euro in tasca, il giovane nigeriano ha la costanza del militare: non salta un turno. Ogni giorno che viene sulla terra, esce alla stessa ora. Lascia la sua camera alla Borgata Finocchio, in fondo alla Casilina dopo il raccordo anulare, e si incammina sulle vie del lavoro. Si muove quasi sempre solo; a volte, quando l’umore non è alle stelle, se ne va in coppia con Francis, il suo compagno di stanza che è presto diventato un «brother» nell’intimità forzata di un letto doppio da dividere ogni sera. «In due si lavora peggio, ma si soffre meno». Nella topografia della vendita al dettaglio nella capitale, ai nigeriani è toccato il settore calzini-mutande-tovaglie. Que-

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stione di contatti, di reti commerciali che si intrecciano alle reti migratorie. Ma anche di un difetto di partenza: accompagnati dalla pessima reputazione di facinorosi e delinquenti, i nigeriani hanno avocato a sé il commercio meno pericoloso. Non i cd pirata o le finte borse di marca, in mano ai più esperti senegalesi, che vanno a Napoli a prendere la merce e la rivendono sulle lenzuola di fronte a Castel Sant’Angelo o, in quartieri meno centrali, su banchetti di legno più o meno tollerati dalla polizia. Non le rose rosse, appannaggio degli immigrati bengalesi, la cui apparenza mite e la scarsa insistenza non intimoriscono né i gestori né i clienti dei ristoranti. Non i robotici accendini a luce lampeggiante, che giovani donne cinesi smerciano silenziose tra i tavolini dei bar di piazza Navona. In questa divisione naturale del mercato, ai nigeriani è rimasto il compartimento meno florido, quello che garantisce i guadagni minori. Loro lo sanno e se ne fanno una ragione. Sanno che il centro è off limits: vanno quindi nei quartieri periferici, o addirittura in provincia, dove a volte riescono anche a ottenere un «posto fisso», quando la benevolenza del capoccia di turno permette loro di esporre la merce su un carrello all’uscita di un supermercato. Apparentemente casuale, la loro peregrinazione tra i quartieri della città risponde in realtà a una logica precisa, che è la regola aurea di questo mestiere: variare ogni giorno, ma tornare con cadenza quasi fissa negli stessi posti, in modo da farsi riconoscere, fidelizzare eventuali clienti, capitalizzare lo sguardo amichevole, lo scambio di battute, il cenno di saluto. Far leva sulla compassione del più ricco, che la seconda volta sborserà, invece del sorriso, qualche euro sonante. Così, Bright si è dato una vera e propria tabella di marcia: il lunedì Casal de’ Pazzi, il martedì Circonvallazione Cornelia, il 91

mercoledì Ostia, il giovedì Portuense, il venerdì Tiburtina, il sabato Civitavecchia. Sono rare le eccezioni a questo timing ordinato. La sua gestione del tempo è ferrea. La sua perseveranza, imperturbabile. In qualche modo, questa routine pare rassicurarlo: gli dà l’impressione di svolgere un regolare lavoro. Lo occupa, impedendogli di cadere nella spirale del nulla. Così, il sabato impiega quattro ore per arrivare al supermercato di Civitavecchia dove ha stabilito il suo luogo di vendita e, dopo cinque ore di lavoro, rifà la stessa strada a ritroso per arrivare a casa intorno alle sette. Un pendolarismo apparentemente astruso, ma che si riempie di senso alla luce di una frase che ripete con un’insistenza martellante, quasi a volersi giustificare: «I need to feel myself in action». «Ho bisogno di sentirmi attivo». Più che da una logica di guadagno, Bright sembra mosso dalla necessità di non arrestarsi mai. Come un pescecane nell’oceano, cui non è concesso riposo, nuota frenetico tra le vasche della metropoli. Se si ferma, teme di sentirsi perduto. E allora tanto più è lungo il percorso sui mezzi pubblici, tanto più breve sarà la sua giornata. Il ragazzo, che non ha mai visto il Colosseo né la basilica di San Pietro, conosce la periferia e l’hinterland della capitale come le sue tasche. Si muove agile tra i vialoni di Montesacro; snocciola a memoria percorsi e orari degli autobus blu del Cotral che vanno in provincia; fornisce una mappa precisa di tutti i supermercati della zona Boccea-Pineta Sacchetti. In una geografia immaginaria della città, ha stabilito una sorta di tassonomia dei potenziali clienti: vicino alla Circonvallazione Cornelia ci trovi più donne di mezz’età con il carrello della spesa che comprano i canovacci; a Ostia si incontrano giovani interessati al massimo ai calzini; sulla Tiburtina i bambini che curiosano tra le tovaglie colorate. Bright sceglie la merce in base al luogo in cui va: dall’enorme sacca di plastica che cu92

stodisce sopra l’armadio della camera, definisce il target ed estrae ogni sera gli articoli più appetibili per il quartiere di destinazione dell’indomani e li infila nel suo borsone di lavoro. La sua stanza – una decina di metri quadri dai muri scrostati, con una tapparella sfondata che non lascia mai filtrare la luce del giorno – sembra un deposito. Accanto alla televisione con tanto di dvd, al frigorifero e al letto, cumuli di valigie troneggiano sul pavimento come tante piramidi instabili. Sono vestiti suoi, di Francis, della cugina partita per la Francia, di qualche altro amico che non ha più un tetto. I bagagli sempre pronti sono il marchio della quotidianità precaria, i cui ritmi posticci servono a esorcizzare quella che è la principale preoccupazione: arrivare a fine mese a mettere insieme i 400 euro per pagare l’affitto. Come il suo nome vuole, è un tipo solare Bright. Solo guardando la merce invenduta, all’improvviso s’incupisce: la stagione sta cambiando, i pacchi di calzini sono condannati a giacere in fondo all’armadio fino alla prossima primavera. Il calcolo di investimento iniziale si è rivelato sbagliato. Non si dà pace: «Sono stato troppo ottimista. Ho dato retta ai consigli di Udoma. Non dovevo fidarmi». Udoma è il suo fornitore, un gigante nigeriano che gestisce un minuscolo negozio dalle parti di Piazza Vittorio. «Mi vende i calzini a tre euro; le tovaglie a due euro e cinquanta, le mutande a due euro. Io rivendo tutto a due euro in più. Ma i margini sono bassissimi». Ultimo anello di una catena che comincia ben più lontano, Bright è al limite della sussistenza. «Alcuni giorni guadagno dieci euro, altri venti. Quando va bene, ne faccio trenta. È una questione di fortuna: ci sono giornate in cui torni a casa a mani vuote; altre in cui magari incontri una persona generosa che ti regala venti euro e neanche prende nulla». 93

Bright è appena agli inizi. In mancanza di alternative, si è inserito nel settore della vendita ambulante solo da qualche mese. Emmanuel invece è un veterano. Originario dell’est della Nigeria, ha cominciato a commerciare in calzini e stoffe circa tre anni fa, muovendosi sempre nella zona di Roma Nord, tra Cesano e Viterbo. Oggi vive in una casupola all’Olgiata, a pochi passi dalla stazione ferroviaria: due stanze dignitose in un seminterrato che divide con un connazionale. Sulla strada di casa, saluta cordialmente una coppia di anziani vicini affacciati alla finestra, che ricambiano il sorriso. Emmanuel ha fatto il gran salto: graziato dall’ultimo decreto flussi, è finalmente uscito dalla clandestinità. Ora ha un permesso di soggiorno di due anni rinnovabile e un regolare contratto d’affitto. Due fogli di carta che sono percepiti come un vero cambiamento di status: aggirandosi tra le stradine del suo quartiere, ostenta la sicurezza che deriva dalla stabilità. Emmanuel ha un’espressione energica. Quando parla, ti guarda fisso negli occhi. Quando ascolta, assume un atteggiamento serio, aggrottando le sopracciglia rade. Il suo italiano è buono, anche se a tratti scivola per pigrizia, per stanchezza, in espressioni inglesi. Nel descrivere i trucchi del mestiere declina un vero e proprio codice di comportamento: «Il cliente va conquistato. Deve essere avvicinato con garbo. Deve essere incuriosito dalla tua merce. E, allo stesso tempo, deve essere messo nella condizione di non poter rifiutare l’acquisto». Emmanuel ha una specie di portafoglio di acquirenti abituali, che lo conoscono e lo riconoscono, gli chiedono articoli particolari e a volte, quando hanno bisogno di lui, lo chiamano addirittura sul cellulare. «L’importante è creare un rapporto stabile con le persone». La tecnica è la stessa di Bright, ma più affinata: tornare sempre negli stessi luoghi, ren94

dersi reperibile. Ma, soprattutto, cercare il «posto fisso». Il «veterano» conferma: per l’ambulante, il passaggio verso una proto-stanzialità rappresenta un salto di classe. «Il punto fondamentale è guadagnare la fiducia dei gestori dei supermercati, in modo che ti lascino stare fuori con i tuoi prodotti esposti. Piazzato lì davanti, sei un appendice del negozio. La tua presenza non impaurisce i clienti. E riesci a vendere molto più facilmente di quanto faresti girando per strada e fermando i passanti». A differenza di Bright, Emmanuel non riempie il suo tempo, lo sfrutta. Riduce gli spostamenti al minimo indispensabile, capitalizza i contatti, diversifica anche i prodotti venduti. E abbatte i costi di acquisto: saltando diversi passaggi, si rivolge direttamente ai grossisti. I suoi referenti sono alcuni cinesi che si sono immessi nel mercato alcuni anni fa. Quando ha bisogno di uno stock, va a trovarli nel retrobottega del loro negozio ad Anguillara: una scatola di cartone «chiavi in mano», stracolma di calzini, mutande e stracci per la cucina, costa 100 euro. Emmanuel non sa dire da dove provenga la merce, ma ha stabilito un rapporto di fiducia con i fornitori asiatici, normalmente diffidenti verso gli africani. Paga cash e non fa domande: il rapporto è chiaro e ognuno ha il proprio tornaconto. «Se vendo tutto al prezzo di mercato, posso anche tirare su cinquecento euro. È l’unico modo per riuscire veramente a guadagnare: comprare in grosse quantità, fare piccoli investimenti». A volte, lui stesso si improvvisa grossista e rivende partite di merce ad altri «brothers» nigeriani, che hanno deciso di lanciarsi nel business. «Ma è una cosa che faccio soprattutto per amicizia: si guadagna molto meglio vendendo direttamente al consumatore» sottolinea con voce seria, assumendo un tono profondamente professionale. 95

Emmanuel lavora duro, «sei giorni alla settimana, dalle sette di mattina alle sette di sera», senza concedersi pause. Con costanza e spirito di abnegazione, è riuscito a trasformare quello che era solo un modo per impiegare il tempo in un mestiere. Alla fine del mese, può dire di aver guadagnato discretamente. «Più o meno, soprattutto durante la bella stagione, quando è più facile lavorare, riesco a mettere insieme cinquanta euro al giorno. Spero, nel giro di altri cinque anni, di avere abbastanza soldi per costruirmi una casa nel mio paese». Possiede un’imprenditorialità che va al di là della mera sopravvivenza. Per limitare al massimo gli sprechi, ha messo anche in piedi insieme ad altri connazionali una specie di società mutualistica autogestita. Sono in dodici: la domenica, ogni membro del gruppo versa 100 euro. A turno, spetta a uno di loro accaparrarsi tutto il montante: 1.200 euro sonanti. Un piccolo gruzzolo, che può rappresentare un capitale di partenza per ulteriori investimenti. «Questo permette di darsi un rigore ed elimina la tentazione di spendere il denaro guadagnato in stupidaggini», spiega. Emmanuel, che quando è arrivato in Italia era un assiduo frequentatore di night club, oggi si è dato regole di vita molto più austere. La sera non esce quasi mai; al massimo si concede qualche birra la domenica, insieme agli altri amici nigeriani di Cesano. I suoi movimenti sono meccanici: borsa in spalla, passaggio in treno e sguardo proteso al futuro. E il futuro torna in ogni sua frase: «Ho perso troppo tempo negli anni scorsi», ripete in modo ossessivo. Emmanuel sembra avere un grande terrore: essere in ritardo rispetto ai ritmi del mondo, ritrovarsi tra le fila dei perdenti. «Ho visto troppi amici andare appresso a feste e giochetti e arrivare a trent’anni con nulla in mano». Per non essere un loser, si è dato una precisa scadenza dei tempi: entro un anno far venire il fratello piccolo dalla Nigeria, «così 96

almeno smette di assillarmi chiedendomi soldi». Entro due anni, sposare una donna italiana, per coronare il sogno di una stabilità definitiva. Ma queste due tappe non sono altro che le stazioni intermedie di un obiettivo ben più grande, che persegue con una cieca ostinazione: arricchirsi, crescere, tornare a casa da vincitore. «Sono in una sorta di parentesi, che devo chiudere il prima possibile: l’importante non è sopravvivere, ma evolvere, fare le cose, bere al calice della vita». Bere al calice della vita: Emmanuel, l’imprenditore ambulante, si vede già altrove, a ripensare forse con una punta di lontana malinconia al periodo in cui, per riuscire a sbarcare il lunario, doveva alzarsi alle sei di mattina e battere la provincia di Viterbo proponendo calzini e tovaglie ai passanti che dicevano no grazie.

L’uomo morto di Elena Stancanelli

La cabina di guida dell’ETR 450, costruita dalla Fiat (come gran parte delle scocche dei treni), è quella di un aereo. Non nel senso che gli somiglia, ma perché è proprio lei, la stessa, adattata a un’altra destinazione. Al posto delle due poltrone dove siedono i piloti ci sono due sgabelli, scomodissimi. Seduti sui quali i macchinisti seguono alcuni strumenti dall’aspetto rudimentale. Pochi rispetto a quelli che consentono di guidare un aereo, ma non così pochi da poter essere seguiti da un uomo solo accanto a un uomo morto. È questa la battaglia che conducono da alcuni anni i nostri macchinisti, nonostante la stessa battaglia sia già stata persa in quasi tutta l’Europa. La cabina di guida dell’ETR 450 è piccola, e ha tre finestrini davanti. Su quello a sinistra c’è una strisciata di sangue. Un piccione, mi spiegano. I segnali da seguire sono tutti a sinistra. Ce n’è uno che chiamano «la marmotta», che ha un set di lucine. Verticali significano via libera e orizzontali stop. Poi ci sono i semafori, col loro carnevale di colori. Perché il treno possa entrare in stazione ad esempio deve scattare il rosso più giallo, mentre

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il rosso da solo significa stop. Vorrei chiedere se non sarebbe più semplice che adottassero il verde, ma sono un po’ intimorita. Sono serissimi i macchinisti, concentrati e silenziosi. Oggi è una giornata facile, col sole e tutto, su un treno facile, garantito da un sistema di sicurezza che pare infallibile. Sono le cosiddette «boe gialle», strani oggetti grandi poco più di un libro e sistemati a distanza di qualche chilometro sui binari. Passandoci sopra il treno acquisisce informazioni sulla linea. Nell’incidente di Roccasecca (20 dicembre 2005, due morti e 70 feriti) i binari erano attrezzati per trasmettere informazioni ma la cabina di guida dell’automotrice diesel 663 non era attrezzata per riceverle, mentre a Crevalcore (7 gennaio 2005, 17 morti e 50 feriti) il treno era perfetto ma la linea non era in grado di trasmettere informazioni. Ma allora c’era nebbia e brutto tempo, le condizioni ideali per un errore che, cinicamente, viene definito «umano». Oggi c’è il sole. Alle spalle della postazione del macchinista, nella cabina di guida dell’ETR 450 in servizio da Rimini a Roma Termini, c’è un adesivo rotondo, rosso e bianco. Il segnale di divieto d’accesso, adottato ormai nel lessico della protesta col significato di rifiuto. Dai cani ai fasci, da Prodi ai coltelli, il cerchio bianco e rosso significa senza possibilità di equivoco «no». Questo in particolare dice: no all’uomo morto. E ancora: l’uomo morto uccide anche te. A chi non sapesse niente della battaglia che stanno sostenendo da qualche anno i ferrovieri italiani, sembrerebbe soltanto un meraviglioso gioco di parole. Il manifesto di una società patafisica, il blasone di qualche circolo di eccentrici. Lapalissiana filastrocca per chi voglia protestare contro l’ingiustizia della finitezza della vita. 99

L’uomo morto, tecnicamente chiamato VACMA (Vigilanza Automatica e Controllo del Mantenimento dell’Attenzione), è invece il nomignolo affettuoso di un congegno di sicurezza che i macchinisti non amano e non vogliono. È un semplice pedale, un meccanismo di allarme all’incontrario: se resta premuto va tutto bene, in caso contrario il treno si blocca. Serve a significare che l’uomo che sta guidando, quello si presume sia vivo, ha ancora abbastanza energia da poter premere un pedale, e quindi è effettivamente vivo. Ma poiché non è escluso che l’uomo vivo possa svenire, o morire, mantenendo il piede nella stessa posizione, ogni minuto circa il pedale deve essere rilasciato, per qualche secondo, e poi premuto di nuovo. In questo modo l’uomo morto testimonia senza possibilità di errore che l’uomo, l’altro, è vivo. Ed è quindi in grado di guidare il treno con sicurezza e senza errori. Si chiama uomo morto perché non c’è, è assente, manca. È il vuoto la cui forma dovrebbe servire a evidenziare il pieno. Ma anche se l’aggettivo vorrebbe significare soltanto senza vita (e non abbandonato dalla vita), ha in sé un presagio funesto, c’è poco da fare. Dovrebbe, con la sua presenza-assenza, sostituire una persona viva, il secondo macchinista che tradizionalmente occupa la cabina e garantisce l’assistenza al primo in caso di bisogno. I ferrovieri sostengono che non può farlo, che l’uomo morto non può sostituire l’uomo vivo. Ci sono da prendere decisioni di fronte a un’emergenza, a un guasto. Anche la stanchezza dicono, va letta in faccia. Può produrre una disattenzione che solo l’esperienza e la presenza di un collega può leggere e sorreggere. I macchinisti ritengono che l’unico modo per garantire la sicurezza su un treno, è far viaggiare due persone in cabina di guida. Entrambe vive. 100

L’uomo morto, che l’azienda cerca di spacciare come un ritrovato all’avanguardia, non plus ultra di tecnologia e affidabilità, è un marchingegno di epoca fascista. Non so se anche allora si intendesse usarlo per aprire la strada a una riduzione del personale o se, per l’epoca, si trattasse davvero di una rivoluzione. Qualunque fosse la sua funzione, la mancò, e presto l’uomo morto sparì. Al suo posto continuò a viaggiare il secondo macchinista. Luca (nome di fantasia) che guida l’ETR 450 con l’adesivo del divieto di accesso appiccicato nella cabina, è uno dei cinquanta macchinisti che ha messo in atto la protesta in maniera inequivocabile: si rifiuta di portare locomotori attrezzati con l’uomo morto. Mi mostra un librone nel quale sono segnati tutti i suoi turni da qui alla fine dell’anno. Sarebbe comodo, dice, saprei esattamente cosa devo fare e come regolarmi. Per quanto eccentrici e commisurati per forza a un’eterna erranza e alla necessaria copertura di tutte e ventiquattro le ore, i turni vengono infatti assegnati con comodissimo anticipo. Sono turni di dieci ore di giorno e sette la notte, distanziati di sedici ore l’uno dall’altro. Più gli eventuali straordinari. Ma noi della vecchia generazione (Luca ha 50 anni e guida i treni da 25) non li facciamo. È pericoloso. La stanchezza è una cattiva consigliera per chi guida un mezzo che pesa 435 tonnellate e viaggia a 250 chilometri l’ora. Ci teniamo i nostri 1800 euro al mese al massimo dell’anzianità. Ma per i ragazzi è diverso. I nuovi assunti non si fanno scrupoli e hanno bisogno di soldi. E nessuno di loro protesta. Luca mi mostra i suoi turni: sarebbe comodo, dice, ma per me è diverso. C’è scritto a che ora partirò ma questo libro non sa dirmi su quale treno e con quale destinazione. Mi presen101

to, e se il treno che dovrei guidare è uno di quelli sui quali è stato montato il VACMA, vengo spostato su un altro. So quando parto, ma non so dove andrò. Nella borsa, la classica borsa nera rigida dalla pelle consunta, capiente e austera, i macchinisti tengono i loro libri. – Gli FCL (Fascicoli di circolazione delle linee). In questi manuali c’è scritto che tipo di trazione ha il treno che si apprestano a guidare (elettrica o diesel), che tipo di segnalamento c’è sulla linea (blocco automatico, blocco conta assi), che segnali incontreranno. – I regolamenti, gli IPCL (Istruzioni per il servizio del Personale di Condotta delle Locomotive). – I libri di condotta del locomotore, per far fronte agli eventuali guasti. Quando iniziamo il turno, noi romani, racconta Luca, andiamo allo scalo San Lorenzo dove c’è il deposito. Qui facciamo la preparazione del treno. Controlliamo le apparecchiature, i freni, l’aria condizionata, l’illuminazione, il dispositivo di apertura delle porte. I treni vanno in deposito ogni giorno e vengono lavati e riparati. Ogni mese fanno invece una revisione approfondita. Circa mezz’ora prima della partenza li portiamo a Termini. Gli addetti alla ristorazione lo caricano mentre noi «cambiamo banco», cioè andiamo a occupare la postazione opposta: siamo arrivati stando davanti e dobbiamo ripartire stando davanti di nuovo. Aspettiamo i moduli di prescrizione, che descrivono le circostanze eccezionali della linea (lavori, rallentamenti ecc.) e partiamo. Perché quando il treno ritarda, o si ferma, a noi viaggiatori non ci dicono niente? chiedo a Luca. Lo so, è una doman102

da idiota, ma non sono riuscita a trattenerla. Odio quel cicaleccio tra viaggiatori in cui si alimentano leggende, monta il panico come bagnoschiuma sotto il getto dell’acqua. Luca ride. I capotreno, mi spiega, hanno ordine di non dire la verità fin quando è possibile, e anche in quel momento di addolcirla fin quasi a renderla irriconoscibile. Perché? Non sarebbe più semplice sapere che starai fermo tre ore piantato nella terra di nessuno, così da poter avvertire tua moglie che sta partorendo, scendere a comprare la siringa di insulina, prendere la giusta dose di Toradol? Probabilmente no. Perché nessuno può dire davvero, con certezza, che quel treno starà fermo tre ore, o due, o sette. Perché noi siamo abituati ai miracoli e anche a tutte le volte in cui i miracoli non avvengono. Ma soprattutto perché se il mondo fosse esatto, dovremmo esserlo anche noi. Non esisterebbero le scuse, le bugie dette al telefonino. Se nessun capotreno avesse mai detto una bugia, non avremmo a nostra volta il coraggio di mentire sul ritardo, e dovremmo ridare indietro quella mezz’ora, quell’ora che ogni tanto rubacchiamo alle agende. Nella quale facciamo l’amore con gli amanti, mangiamo un gelato in silenzio, dormiamo e basta. I tempi vuoti che non sarebbero esistiti se qualcosa non fosse accaduto. Qualcosa che, tutto sommato, è meglio non sapere e non dover calcolare. Nel 2002 l’azienda Trenitalia decide di rimontare sui treni una macchina di circa settanta anni fa e, per giustificare una decisione apparentemente insensata, ma che risponde invece con esattezza allo scopo di dimezzare il personale viaggiante, la spaccia per un dispositivo di sicurezza all’avanguardia. Più o meno come se Tronchetti Provera prima di dimettersi avesse proposto un piano di risanamento dell’azienda basato sulla vendita di Tim ma anche di Telecom, puntando tutto sui 103

piccioni viaggiatori. E si fosse presentato davanti agli azionisti stupefatti mostrando un pennuto imbalsamato col suo anellino alla caviglia, mentre alle sue spalle un filmato su megaschermo LCD seguiva un volo da Shanghai a New York, con un cronometro per evidenziare che durava, udite udite, poco meno di una settimana. È evidente che all’uscita avrebbe trovato un paio di signori in camice e un’ambulanza col motore acceso. Questo non accade a nessuno dei componenti dei vari Consigli di Amministrazione delle numerose società che amministrano le ferrovie italiane (Rfi Spa, Trenitalia Spa, Italferr Spa, Ferservizi Spa, Fercredit Spa, Grandistazioni Spa, Centostazioni Spa). Che godono dell’indulgenza plenaria offerta a chi dichiara di agire nel bene dell’azienda, dentro una politica di diminuzione delle spese che significa tagli. Negli ultimi vent’anni le ferrovie italiane hanno tagliato circa 120.000 dipendenti. Ma considerato che invece i dirigenti sono aumentati da 962 a 1200 negli ultimi dieci anni, è facile dedurre che l’eccidio dei dipendenti sia servito a finanziare gli stipendi dei nuovi dirigenti. Quindi, per ridare fiato all’azienda, ci voleva una nuova idea. Ed ecco che qualcuno da un cassetto ha rispolverato l’uomo morto. I macchinisti sono seri e silenziosi, sopportano la responsabilità con fierezza, ma hanno anche il crisma dell’anarchia, come nella canzone di Guccini che riecheggia sul piazzale antistante la stazione Termini durante i quattro giorni di presidio per la sensibilizzazione dei passanti alla battaglia contro il VACMA e contro il licenziamento di Dante De Angelis. Il 4 febbraio 2006, alla stazione di Bologna, l’Eurostar 9311 rimane fermo sui binari per 86 minuti. Il macchinista, 104

Dante De Angelis, si rifiuta di guidarlo perché, essendo dotato del famigerato dispositivo, e quindi sprovvisto del secondo macchinista, non sarebbe stato idoneo sul piano della sicurezza. L’azienda lo invita a lasciare il treno. Il tempo passa e la faccenda diventa più grave. Qualche giorno più tardi De Angelis, che è anche delegato sindacale per la sicurezza, viene licenziato per interruzione di pubblico servizio. Il giorno prima Trenitalia era stata multata dalla Asl di Bologna per l’utilizzo del VACMA, giudicato pericoloso, inosservante in materia di igiene e sicurezza sul lavoro: «Il Vacma nuoce alla salute dei lavoratori ed è potenzialmente pericoloso per la sicurezza ferroviaria, quindi anche per i viaggiatori... introduce nuovi elementi di ripetitività, monotonia e costrittività, fonte di fatica psichica e stress... obbliga i macchinisti ad assumere posture incongrue in postazioni di lavoro già carenti da un punto di vista ergonomico. È plausibile che possa favorire la riduzione della vigilanza esterna, derivante dalla costrizione a una maggiore attenzione verso l’interno della cabina di guida». Mica male per un dispositivo di sicurezza. I macchinisti sono seri, silenziosi e un po’ anarchici. Ad esempio non portano quasi mai la divisa. Il problema, mi spiega Luca, è che la durata del turno noi la trascorriamo interamente sul treno o nelle sue vicinanze. Prima l’azienda ci mandava un sarto a prendere le misure e poi ce le consegnava confezionate. Adesso pretenderebbero che andassimo noi, nel nostro tempo libero a ordinarle. E così noi non le indossiamo. Per guidare il treno Luca manovra una leva, che è quella della potenza, e una ruota con una maniglia, che serve a frenare. I freni dei treni sono ad aria compressa, nel senso che un tubo scorre lungo tutte le carrozze e 105

si dirama in un sistema di ganasce che arpionano le ruote. La maggiore o minore pressione dell’aria, testimoniata da un manometro, determina la frenata. Avete presente quella maniglietta rossa protetta dal vetro, con scritto «azionare solo in caso di emergenza»? Se la tirate, il tubo si scarica di colpo ed entrano in azione tutti i freni con la massima potenza possibile. Senza che nessuno, compreso il macchinista, possa intervenire. La qualità della frenata distingue un bravo macchinista da un avventizio. Niente scossoni, e una sola, lunga e lieve, diminuzione di velocità che termina sui paraurti della stazione. Un treno deve posarsi laggiù come un petalo su un prato, nonostante le sue centinaia di tonnellate. Tra gli strumenti, pochi, che consentono la guida del treno, c’è un regolatore di velocità con un quadrante digitale. Serve a impostare il limite. Tre spie una sopra l’altra certificano la situazione all’orizzonte. Nel tratto della direttissima, che va da Roma a Firenze, se non è previsto niente di significativo nello spazio di 5200 metri, il treno viene spinto a duecento all’ora. Ma a Settebagni il treno rallenta, arriva più o meno a sessanta all’ora. Gli scambi diventano evidenti, fino a quando, in vista della stazione Termini, sono loro a comandare. Lentissimo, il treno si incanala verso il binario d’arrivo. Neanche il macchinista sa quale sarà. Si limita a controllare quella gimcana dall’alto, mentre i controllori in stazione prendono le decisioni. Il treno frena, si posa. L’ultimo gesto del macchinista è l’apertura della scatola nera, dalla quale estrae un rullo di carta che somiglia a un elettrocardiogramma. È la biografia dettagliata del viaggio, da consegnare una volta che il treno abbia raggiunto il deposito, a San Lorenzo. Sono le undici di mattina e Luca ha iniziato il turno stanotte alle quattro. 106

Promesse da manager di Antonio Pascale

Tra la fine degli anni Ottanta e metà degli anni Novanta, i senegalesi cominciarono ad arrivare in Italia. Si sistemarono in case diroccate e presero a lavorare come ambulanti o come braccianti. Faticavano assai, questa è la prima cosa, e forse l’unica, che si capì di loro: uscivano presto la mattina, quasi sempre al buio, e si ritiravano solo la sera quando la città era già a tavola. Nei rari giorni liberi, quei senegalesi, andavano da un fotografo e insieme a lui mettevano su una specie di book fotografico. La raccolta veniva, poi, spedita in Senegal, a casa, ai genitori, ai parenti. In pratica, un messaggio, una cartolina, un modo di dire: come potete vedere sto bene. Oppure, sto così in forma che potete raggiungermi (mogli e figli). Ora, spesso, le fotografie li ritraevano in una particolare posa che via via fondava un modello, un paradigma imitativo per i connazionali: l’uomo era ritratto dietro la scrivania (quella del fotografo) con un telefono in mano. Giacca e cravatta all’occidentale, o vestito tradizionale da festa, sorrideva all’obbiettivo e contemporaneamente faceva finta di parlare al telefono. Quei senegalesi (che io ho conosciuto) amavano farsi ritrarre nella tipica posa del manager, posa e atteggiamento, modus vivendi, che, tra l’altro, andavano molto di moda in quegli anni.

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Il manager è molto impegnato, sempre on line (per questo parla al telefono), sta lì lì per decidere (per questo parla al telefono) e dunque, siccome stabilisce e decide, è anche responsabile di un’intera comunità. La decisione, però, non gli pesa, piuttosto per lui è un processo naturale, fisiologico, quasi si rilassa. Sorridendo, mentre lavora, alimenta un mito, quello del felice manager autosufficiente. Del resto per molti di loro, quel sogno conservava una parte di concretezza. Perché non è che tutti i senegalesi aspirassero al posto fisso, in cantiere o in fabbrica. No, al contrario, per qualcuno (non pochi) il posto (più o meno) fisso era un passaggio intermedio: bisognava infatti aspirare all’autonomia, almeno contabile, amministrativa. Insomma, partita Iva, telefono e scrivania, come nelle foto. Con il tempo poi, qualche mio amico senegalese, dopo aver lavorato nelle fabbriche a Brescia, nei cantieri edili, o, se era fortunato, in qualche cooperativa marchigiana come bracciante, dopo, insomma, che si era sistemato, aveva davvero lasciato il posto fisso per tornare al mercato, come ambulante. Alla ricerca dell’indipendenza economica. Nei miei ricordi, il mito del manager, diciamo così, alla senegalese, ha cominciato a imporsi con prepotenza a metà degli anni Ottanta. L’avvento del manager coincide con la scissione del ceto medio. Il corpo del ceto medio era di natura impiegatizia, si muoveva all’unisono, a stipendio fisso corrispondevano gesti fissi, monotoni. Quel corpo ha subito una specie di ondata sussultoria, quando alcuni dei suoi membri hanno cominciato a teorizzare l’indipendenza economica, quasi un proclama: impiegati di tutto il mondo buttatevi nell’iniziativa privata, diventate manager, avete da perdere solo le vostre catene. Dunque, il ceto medio si divise, una parte degli impiegati tentò di mettersi in proprio, aprire un’attività, come si diceva allora. Alcuni ci riuscirono e crearono una sorta di pic108

colo mito, quello dell’atipico self made man, uno che viene dal lavoro impiegatizio e diventa lavoratore autonomo, responsabile di una ditta. Prima dei senegalesi, era toccato ai membri del ceto medio sognare di spedire ad amici e parenti una foto così. Dietro una scrivania, al telefono e sorridenti. Tutto questo immaginario, ben ci predispose ad applaudire ogni richiesta di privatizzazione. A metà degli anni Ottanta quasi nessuno sopportava gli impiegati. Quasi nessuno sosteneva più la pubblica amministrazione. Il pubblico doveva cedere il passo al privato, perché una nuova figura stava avanzando: il manager. Lo volevano quelli che aspiravano a mettersi in proprio e quelli che mai l’avrebbero fatto, ma, in fondo, preferivano che fosse un manager a gestire il loro lavoro. Al manager cominciò ad essere affidata la sorte economica della nazione. Naturale che fosse così, bastava guardarli, i manager erano uomini coraggiosi, si erano liberati dai vincoli della burocrazia e per questo erano attenti al nuovo che sulla soglia era pronto a bussare. Sapevano come aprirgli la porta. Soprattutto, decidevano. E sorridevano al fotografo. Certo, il settore pubblico in quegli anni era seriamente malato, tutti ne parlavano male, a cominciare dagli impiegati. Leggi ambigue, continue circolari per spiegare interpretazioni autentiche di norme, politica ingombrante, atti che giacevano per tempi immemorabili, archivi troppo pieni. Tutto questo tendeva a dividere lo Stato dal cittadino. Le due parti non comunicavano, non si rispecchiavano, non si amavano. Il rapporto era tra Amministrazione e amministrato, tra chi comanda e chi esegue. In quegli anni, la frase che sentivo più spesso era: se fossimo nel privato, tutto questo non accadrebbe. In questo clima, era naturale che il manager avesse la meglio. Prometteva efficienza, efficacia, trasparenza, capacità decisionale, produttività, meritocrazia. 109

Sulle pagine economiche dei giornali cominciarono a uscire strane richieste di lavoro. In tutte c’era la parola manager. A questa, poi erano associate altre funzioni lavorative. Quelli del vecchio ceto medio ne scorrevano i titoli senza capirci niente. Chi era, per esempio, un product manager? Certo, pensavamo in quegli anni, dovrà essere una persona in gamba, per avere un titolo così, per forza dovrà saperne più di noi, sarà efficace, produttivo ecc. Poi, tempo dieci anni, avremmo scoperto che era tutto un inganno, quei titoli, quelle parole inglesi sostituivano il latino di una volta, il vecchio classico azzeccagarbugli. Il vuoto di conoscenza che si copre con la retorica. Cominciammo ad avere dei dubbi quando dai giornali venimmo a sapere che grandi aziende, forti corporation, erano fallite dall’oggi al domani, lasciando sulla strada migliaia di persone. E tutto questo nonostante il manager. Ma come, ci cominciammo a chiedere, non era affidato a lui, alla sua capacità decisionale e quindi alla sua responsabilità individuale, il buon esito della politica aziendale? Doveva essere così, c’erano pure le foto che lo ritraevano dietro una scrivania, con il telefono in mano, deciso e sorridente. Il fatto è che, almeno a leggere i testi di sociologia, l’etica del capitalismo fa rima con lo spirito calvinista: gli individui devono subordinare il proprio interesse a quello della comunità. Il manager è, o dovrebbe essere, il gran cerimoniere, quello capace di garantire l’interesse della comunità, piccola o grande che sia, contro il prepotente interesse del singolo. Bene, in pratica, tutto questo è solo un’altra foto, un altro mito. Forse quell’etica calvinista, ammesso che sia mai esistita, ha fatto il suo tempo. Il mondo su cui poggiano la grande azienda privata e il manager ha poco a che fare con l’immaginario comune: responsabilità individuale, capacità decisio110

nale, gioco di squadra sono solo termini astratti, dei paraventi. Delle foto. Col tempo ho conosciuto dei manager e per ragioni di amicizia ho frequentato persone che lavoravano in grandi aziende. Sono stati incontri e discussioni interessanti, ho capito qualcosa, per esempio, sulla struttura sociale del lavoro manageriale. Adesso mi dispiace rovinare l’immaginario che propongono quelle foto, ma l’idea che il manager sia una persona che fa le sue mosse e decide su tutto, anche sui dettagli, non regge. Nella generalità dei casi, i manager non amano impartire istruzioni dettagliate ai loro sottoposti. Sembra strano. Sì, è vero, parlano al telefono e sorridono, ma spesso non lo fanno per spiegare ai sottoposti come muoversi. A quello all’altro capo del filo, si limitano a indicare il traguardo. Non come raggiungerlo. Non è compito del manager. Questo modo di operare viene ufficialmente motivato con l’intento di valorizzare al massimo l’autonomia. Ma altro non è che un modo di sbarazzarsi dei dettagli più noiosi. Insomma, i manager di mia conoscenza mi dicevano tutti la stessa cosa: se io dico a qualcuno cosa deve fare per filo e per segno, ne deriva, e se ne deduce, che costui riuscirà a raggiungere l’obiettivo. E fin qui, tutto bene. Ma se invece non ci riesce, vuol dire che ho investito parte di me nel suo lavoro. Se io manager dico che cosa tu, mio dipendente, devi fare, non ti posso, poi, fare il cazziatone se le cose non vanno. Ecco perché un sacco di capi non danno direttive esplicite. È chiaro, rimproverare gli altri, esercitare l’autorità non è l’unico movente. Il motivo principale è proporre un modello decisionale basato sull’ambiguità morale. Come dire, meglio che dall’alto si trascurino i dettagli su come raggiungere un obiettivo, basta che in basso lo si raggiunga, come e a scapito di chi non importa. È questa l’ambiguità morale che il manager del tipo suddetto propone. Lui salva la faccia (dunque può 111

farsi fotografare), gli altri no. Il manager porta a casa la coppa e si limita a sorvolare sul tipo di percorso fatto per ottenerla. La dichiarazione «non voglio saperlo» gli permette, infatti, di sollevare il trofeo senza perdere il sorriso. In questo modo il manager non difende l’interesse della comunità dalla prepotenza del singolo. Se davvero lo facesse dovrebbe non dico decidere, ma per lo meno regolare e seguire tutto il percorso che la sua comunità compie per raggiungere un obiettivo. In questo modo il manager può giocare sporco senza saperlo, il che è una bella possibilità. L’altra cosa che ho imparato riguarda proprio questa benedetta capacità decisionale. Caratteristica che, ricordo, impressionava molti impiegati. Era un punto di rottura. Nella pubblica amministrazione le cose si trascinavano per mesi perché, appunto, mancava la figura del manager. Il dirigente infatti era messo lì per ragioni politiche e quindi ai politici doveva rispondere, tutto poteva fare, ma certo non pretendere in autonomia delle decisioni. Quelli del ceto medio che tendevano a mettersi in proprio, su questa questione si prendevano una fissazione. La frase «qui (nel pubblico) non cambia mai niente» diventava un tormentone, un mantra. Per molti di loro, la voglia di mettersi in proprio nasceva proprio dall’esigenza di slegarsi dalle ruffianerie politiche. E decidere autonomamente, con la propria testa. Quindi, potete capire la mia sorpresa quando una sera un amico manager, a tavola, mi confidò la seguente cosa: è dura per i manager prendere una decisione. Come è dura? Non siete pagati per questo? Quello che capii grazie a quella discussione è che i manager spesso sono così stressati da essere incapaci di decidere. Insomma, fanno finta di parlare al telefono, in realtà, la loro azione è cristallizzata, proprio come in un fotogramma. Quello che il mio amico, quella sera, mi riferì, suonava pressappoco così: oggi avevo bisogno che un giovane 112

manager (suo sottoposto) prendesse una decisione che comportava un esborso di 100 mila euro, ma lui non voleva. A mio giudizio la questione era limpida come l’acqua, ma lui non voleva prendere alcuna decisione. Così gli ho detto che ci saremo rivolti al suo capo, voglio dire che se un manager non riesce a decidere su una questione di sua competenza, io lo scavalco e vado oltre. Ma lui ci ha risposto: «Non fatelo, perché tanto vi rimanda da me». Quel giorno la questione non si era risolta, e non si sarebbe risolta nemmeno tempo dopo, perché né il manager né il capo del manager volevano accollarsi la responsabilità di una scelta. Può davvero sembrare strano, ma i manager quando si confessano con gli amici, durante le cene non di lavoro, ammettono di far fatica a prendere decisioni. Soprattutto, svelano che questa difficoltà è un mal comune. Sulla carta sono istruiti su come prendere decisioni nelle società complesse, quali integrali usare, ma si rendono poi conto che l’uso dell’integrale non risolve niente. Quello che risolve la questione è un sì o un no. Semplice, chiaro e pesante da sopportare. Per questo si sentono stressati e fanno di tutto per rimandare le decisioni. Per questo le loro scrivanie sono ricoperte da pile di carte. Un indizio dalla paralisi in cui si trovano, roba da rivalutare i vecchi ministeriali. C’è una cosa però in cui i manager, pare, eccellano. Visto che le decisioni pesano ed è meglio non fissare l’attenzione sulla strada da fare per raggiungere un obiettivo, tanto vale specializzarsi nel fare promesse: i manager sono bravi a vendere quello che ancora non hanno. Faccio per dire, come si fa oggi a valutare un’azienda? Una volta era facile, tutti quelli della vecchia generazione ne sarebbero capaci, due o tre formule d’estimo: capitale fisso, più investimenti futuri e il gioco era fatto. Adesso ci sono di mezzo le azioni. Il manager deve pensare all’utile dell’azionista. Dunque più varranno le 113

azioni più sarà quotata l’azienda. Sì, ma quanto vale un’azione? Come se ne calcola il valore? È ancora un mistero, un gioco da iniziati. In pratica, una società vale quanto si è disposti a pagarla oggi calcolando però quanto incasserà domani. Il tutto si basa su una promessa di miglioramento. Ovvero, se la nostra società varrà tre miliardi fra sei mesi, vuol dire che già oggi vale tre miliardi. Il futuro torna per definire il presente. Il manager oggi è uno scrittore di fantascienza che si occupa del futuro per valutare il presente. Deve promettere un miglioramento futuro per convincere ora a investire. Il manager se parla al telefono come nelle foto, parla facendo sfoggio di retorica, illustrando analisi comparate, promettendo sì, ma scientificamente. Per esempio, ho una macchina con sei posti. Prometto che in futuro ne avrà dieci. Quindi devi pagarla come se già ne avesse dieci. Se questo meccanismo funziona allora la mia macchina ha già nel presente dieci posti e acquisterà valore. Perché se tu ci credi, poi ci crederà anche l’amico tuo e l’amico dell’amico. Tutti a comprare questa macchina da dieci posti. Un’illusione personale diventa un sentimento collettivo. Il caro buon vecchio mimetismo. Il valore sale, finché un giorno si scopre che la promessa era appunto un inganno, il manager ha dichiarato, giurato, ma poi magari non è riuscito, stressato com’era dalle troppe parole spese, a prendere una decisione. Oppure la colpa è del suo sottoposto che non è riuscito a svolgere le sue mansioni. Il valore della macchina crolla e gli azionisti di base perderanno soldi. Il manager verrà licenziato? A volte, considerando la buonuscita che si è contrattualmente assicurato, non conviene. Altre volte, il manager licenziato farà il colloquio presso un’altra azienda e prometterà un aumento di capitale, ecc. ecc. Il gioco funziona quasi sempre, l’immaginario esiste, è forte. E le foto funzionano. 114

Mo’ pure i rumeni se so’ messi a fa’ i sindacalisti? di Alessandro Leogrande

Ci ho messo un bel po’ per arrivare a Daniel. Nel Nord, mettiamo a Brescia o a Padova, ci si imbatte in delegati di fabbrica provenienti dall’Africa subsahariana. È un processo abbastanza lineare: c’è la fabbrica, gli operai sono in maggioranza immigrati dall’estero, i loro rappresentanti sono quindi di origine straniera. Ma a Roma, nel Lazio, in tutta l’Italia centromeridionale non è così. Perché le fabbriche o non ci sono o sono diverse, perché l’immigrazione è una cosa diversa, perché i lavori sono lavori diversi. Allora ho capito che bisognava cercare nel mondo dell’edilizia, tenere conto di quanti fossero i lavoratori stranieri e dedurre se questi fossero in grado di superare lo stadio della delega ai sindacalisti italiani. A volte diamo troppo peso alle associazioni di carattere etnico o religioso, come se il compito di rappresentare il mondo migrante spettasse solo a loro. Lo facciamo senza renderci conto dei guasti che produce questo pregiudizio, questo modo di interagire. Perché gli immigrati sono innanzitutto forza lavoro, in gran parte sfruttata. Il primo anello di congiunzione con la società italiana è il loro sudore quotidiano, ed è proprio sulla base di questo sudore che stanno emer-

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gendo nuove forme di rappresentanza che la politica italiana stenta ancora a intercettare. Sono nascoste, poco evidenti, eppure ci sono, mi sono detto... Partendo da queste premesse, ho fatto una gran quantità di telefonate, chiacchierate e interviste preliminari. Ho circoscritto il campo, e mi sono accorto che davvero tra gli edili c’erano delegati stranieri che ogni giorno si scontravano con i caporali. Così ora mi ritrovo nella sede di via Buonarroti. In due isolati sono concentrate le principali sedi di tutte le categorie laziali della Cgil, la Fillea (Federazione italiana lavoratori legno edili e affini) occupa l’intero secondo piano di un palazzone usurato che affaccia direttamente sulla strada. Via Buonarroti, con un po’ di retorica, è spesso considerata la «via del sindacato». Al secondo piano del civico 12, mi imbatto nei soliti poster e nei soliti calendari appesi alle pareti, intervallati qua e là da annunci scritti in più lingue per i lavoratori di origine straniera. Percorro il corridoio, ed entro in una stanza dove mi attende Elena Schifino che ho sentito più volte per telefono. Mi aspettavo un «alto» dirigente, invece è una ragazza dai lunghi capelli castani. Quando riconosco nel suo accento una lieve inflessione meridionale, mi dice di essere di Rionero, in Lucania. Si è traferita a Roma e poi, tra una cosa e l’altra, è arrivata al sindacato. Ci lavora da diversi anni e ora, nonostante sia giovanissima (ha soli trent’anni), è già segretario. Poiché sono pugliese, di Taranto, e i miei nonni si sono trasferiti in città da un paese delle Murge a pochi chilometri da Matera, ci mettiamo a parlare della Lucania, dei giovani che se ne vanno, degli operai di Melfi, del freddo di Potenza che d’inverno gela le ossa... fino a quando non arriva Daniel. Entra di scatto, quasi trafelato, e mi saluta con una stretta di mano decisa. Mi colpiscono subito i suoi occhi azzurri, i capelli 116

corti chiari: come la maggior parte dei rumeni, il suo volto è un crocevia di tratti balcanici e mitteleuropei, eppure in lui prevalgono i tratti «nordici». È il «rappresentante straniero» che devo intervistare. Mi chiede di cosa si tratta, così gli espongo lo scopo dell’intervista. Daniel, che di cognome fa Grigoriu («Mi chiamo Daniel Grigoriu. Daniel è il nome, Grigoriu il cognome...»), è stato delegato sindacale dei lavoratori della sua impresa. Oggi è addetto al controllo dei cantieri di «Roma centro» (e per «Roma centro» si intende tutto ciò che è all’interno del raccordo anulare). Nella Fillea Lazio – precisa – i delegati immigrati sono una ventina, dodici fanno parte del comitato direttivo, due sono funzionari: lui è uno di questi. Daniel è in Italia dal 1995. Era un militare dell’esercito rumeno, ma nel marasma del post-comunismo a un certo punto – dice – ha capito che era arrivato il momento di emigrare. Non gli va tanto di parlare di Ceaus¸escu e della «rivoluzione», di come la sua vita sia cambiata in quegli anni convulsi. Mi dice solo – tagliando corto – che con un regolare permesso per motivi di studio è arrivato a Roma, dove già da due anni vivevano suo fratello e sua madre. All’inizio ha provato a conciliare università e lavoro, ma poi non ce l’ha fatta: quando stai 14-15 ore al giorno su un cantiere, ci tiene a specificare, non hai poi la lucidità necessaria per aprire un libro... A differenza di altri, ha cominciato subito a lavorare nell’edilizia: «Sono stato fortunato. Sono arrivato qui venerdì sera alle 11:00, e lunedì mattina alle 9:00, con il permesso di soggiorno in mano, ero già al lavoro. Sono andato a fare un impianto elettrico in una chiesa». Quando dice di avere 37 anni, gli rispondo che ne dimostra di meno, non lo dico per piaggeria; è che il suo volto pri117

vo di rughe, gentile quanto inflessibile, appare quasi non logorato dagli anni. Ma non è d’accordo. «Ne dimostro cinquanta» ribatte. «Nella foto che stava sul passaporto quando sono arrivato sembravo un ragazzino. Dopo cinque anni, quando mi sono fatto le foto per rinnovare il permesso di soggiorno, sembravano passati vent’anni. Vabbè, questa è la vita...» A questo punto Daniel si interrompe, lo chiamano alcuni rumeni che sono lì nel corridoio, e cominciano una fitta discussione che ovviamente non posso seguire. Mi par di capire però che si tratti di una vertenza, di una questione di contributi o di qualcosa del genere. Parlano uno alla volta, fino a quando le loro richieste, i loro dubbi, non finiscono per sovrapporsi e accavallarsi. Daniel risponde calmo alle loro domande, ha il tono di chi dà delle dritte, di chi scioglie quei dubbi provando a spiegare le leggi. Mentre è ancora nel corridoio, Elena mi dice, guardandolo, che questo lavoro di interlocuzione è importantissimo. «Il 33 per cento degli iscritti in cassa edile – aggiunge – sono immigrati. Sono oltre 11.000, con molteplici difficoltà legate alla cittadinanza: il problema non è solo lavorativo, è anche sociale. In genere quando arrivano qui da noi è perché sono all’ultima spiaggia. Arrivano al sindacato quando non ce la fanno più, sono stati sfruttati oltre ogni limite. Ieri sono giunte le vertenze di lavoratori che avevano dei permessi di lavoro falsi. I permessi erano apparentemente regolari, con il timbro della questura e tutto il resto, però i nomi e i cognomi scritti sopra non erano i loro. Ti rendi conto allora di che pasta sono fatti certi datori di lavoro. Ti rendi conto che ci sono operai che lavorano di notte e che dormono sul posto di lavoro... Chi utilizza manovalanza immigrata lo fa essenzialmente perché vuole risparmiare, la loro retribuzione è in media inferiore del 30 per cento. Spesso l’impresa risulta formalmente 118

un’impresa seria, con gli iscritti alla cassa edile, i lavoratori regolarmente denunciati, ma poi c’è tutta un’altra parte di dipendenti che lavora in nero e che fornisce il vero profitto». Quando Daniel rientra in stanza riprende il discorso da dove l’aveva lasciato. Mi dice che, dopo il duro inizio, per sette anni ha lavorato in una grossa ditta, l’Icogi, e che si è trovato abbastanza bene. È entrato in contatto con il sindacato proprio all’Icogi. Dopo un po’ è diventato delegato e, successivamente, è passato in Fillea. Qui il lavoro è diventato più duro. Perché monitorare tutta Roma vuol dire farsi un’idea delle imprese in nero e dei cacicchi che spesso le guidano con piglio da negrieri. Così mi racconta la sua giornata tipo: «Ogni mattina, dalle 8:00 alle 14:00, sto sui cantieri. Arrivo lì e presento il mio bigliettino. C’è quello che rimane a bocca aperta perché sono straniero e che dice: ‘Mo’ pure i romeni se so’ messi a fa’ i sindacalisti...’ Ma ci sono anche quelli che capiscono, e che non mettono in dubbio che pure noi possiamo fare ’sto lavoro. Poi trovi anche lo stronzo che ti manda via, che non ti fa neanche entrare. All’inizio entrare in un cantiere è difficile se non trovi nessun operaio che ti dà fiducia...» Nelle situazioni di maggiore sfruttamento, gli chiedo, quante ore al giorno si lavora? «La media degli irregolari è di 14-15 ore al giorno, anch’io all’inizio, ti dicevo, ho lavorato così. Il discorso dello sfruttamento è però un altro: se tu vieni pagato per quanto lavori, se ti mettono gli straordinari dicendoti che il lavoro deve essere finito in una settimana altrimenti va a un’altra ditta, può anche andare bene. Il problema però è che lavori 15 ore per avere sempre 30 euro al giorno». Immigrati pronti a scioperare contro tali condizioni non esistono. Nelle grandi ditte, quelle regolari, le assemblee all’interno del cantiere, magari per tutta la giornata, ci sono; e 119

magari in quel caso vengono coinvolti anche gli immigrati. Ma in quelle piccole, sotto i quindici dipendenti, non c’è neanche il rappresentante sindacale. «Il rapporto numerico tra italiani e stranieri sui cantieri è cambiato negli anni. Prima possiamo dire che era di 1 a 1. Ora in alcuni casi ci sono dieci stranieri per un italiano. La maggior parte dei cantieri è così, tranne ovviamente i grossi cantieri statali, quelli finanziati dal comune o dagli enti pubblici. Lì la metà, o più della metà, sono italiani. Ma nelle piccole imprese il 90 per cento sono stranieri». Eppure le piccole aziende sono tantissime, e lavorano anche in pieno centro, magari in subappalto per ditte più grandi che allungano la filiera per aggirare i controlli dell’ispettorato. Molte sono rette da stranieri e sono spesso le peggiori, in un sistema perverso che scarica verso il basso il problema della sicurezza. «I peggiori – mi dice – non sono i datori di lavoro italiani, ma i padroni rumeni o albanesi. E questi li chiamo volutamente padroni, perché si sono impadroniti dei loro connazionali. Quando escono di casa la mattina, trovano subito due-tre persone da portare al lavoro. Costano poco, tante volte non costano niente. Vanno davanti a un altro smorzo, e ne trovano altri che lavorano per ancora meno. E se gli operai non li denunciano, quelli non corrono alcun rischio: prendono lavoro a costo zero». Le minacce e le intimidazioni nei confronti dei delegati stranieri che provano a stabilire un contatto diretto con gli operai di queste piccole aziende sono all’ordine del giorno. In genere piovono nell’ombra, al di fuori del sindacato non se ne viene quasi mai a conoscenza, eppure ci sono, e il loro esserci rivela la natura della lotta in corso. Due-tre anni fa, per giunta, è cominciato il giochetto della partita Iva. La maggior parte dei datori di lavoro ha cominciato a dire ai dipen120

denti più sprovveduti: «Se non ti fai la partita Iva vai via, perché non ti posso più tenere». Così le partite Iva sono spuntate come funghi, e gli imprenditori si sono liberati di ogni responsabilità. «Tu non ti puoi più ammalare come prima, non hai più tutti i diritti di prima. E ora questa cosa l’hanno imparata pure gli stranieri, sono diventati tutti quanti imprenditori: su cinque immigrati uno è imprenditore. Io abito a Marcellina. Quando ci sono arrivato, c’erano solo dieci stranieri; ora siamo in 2200, e quasi la metà sono imprenditori...» Certo, gli imprenditori-modello, anche tra gli stranieri, non mancano. Eppure siamo in forte ritardo nell’intercettare gli altri, e con loro le nuove divaricazioni sociali che sorgono nel mondo delle emigrazioni. Generalmente gli italiani pensano che gli albanesi siano tutti uguali, che i rumeni siano tutti uguali, che i maghrebini siano tutti uguali. Ogni gruppo viene percepito come un mucchio indistinto, un metallo perfetto, irreale, privo di venature. Ma qui ci sono rumeni che fanno i padroni e rumeni che fanno gli schiavi, e chi difende i secondi rischia la pelle... Nell’Italia multiculturale e multirazziale la frattura tra sfruttati e sfruttatori non contrapporrà comunità a comunità, etnia a etnia. Ma le attraverserà tutte spaccandole in due come mele. Ad avere occhi per vedere, questo sta già avvenendo. Questa disparità, questa forbice che si allarga e si fossilizza sgomenta tanto quanto le condizioni di insicurezza in cui si lavora. Tanto quanto gli infortuni gravi, quelli mortali e quelli invalidanti, che riempiono le statistiche del sindacato di categoria anno dopo anno. Allo stato attuale, con il permesso di soggiorno legato al contratto di lavoro, denunciare il lavoro nero vuol dire ancora causare l’espulsione dei lavoratori immigrati. E il migrante che si autodenuncia rischia ugualmente l’espulsione. 121

Quanto ai rumeni, dal 1° gennaio 2007, con l’ingresso del paese d’origine nell’Unione europea, la loro sorte in Italia è cambiata. Nonostante nei loro confronti si sia scatenata una dura campagna xenofoba, che non tiene conto delle enormi differenze interne al loro mondo, quelli che non sono in regola non rischiano più l’espulsione come tutti gli altri immigrati non comunitari. Non devono sottostare al solito ricatto del rimpatrio, e questo è un piccolo tassello nella lotta contro la precarietà. Eppure, per capire quanto il passato sia ancora prossimo, e come – fino a quando la Bossi-Fini non verrà effettivamente modificata – il loro passato sia il presente di molti, basta ricordare un nome e un cognome, un colpo secco, la fine di un’esistenza. Il 31 ottobre 2006, dopo tre mesi di ricovero, è morto in ospedale Stefan Dumea, rumeno «irregolare», vittima di un infortunio. Mentre lavorava alla ristrutturazione di una palazzina del quartiere dei Cappuccini, a Civitavecchia, è rimasto fulminato da una scarica elettrica. Aveva ventitré anni, e per due mesi, per due soli mesi, non ha fatto in tempo a festeggiare l’ingresso della Romania nell’Unione. È crepato da clandestino. Elena ha appeso sulla bacheca alle spalle della sua scrivania l’elenco dei morti nei cantieri del Lazio. Sono venti, venticinque ogni anno, e quasi la metà sono stranieri. Ci sono i loro nomi, e mi par di capire anche i recapiti dei parenti. Quando le chiedo se è in contatto con le famiglie, mi dice di no, che non sarebbe giusto entrare in quel dolore privato. Nel momento in cui si sa che uno è morto, ci si limita ad andare sul cantiere, accertare il fatto, segnalarlo e denunciarlo. Ma il dolore, che è incommensurabile, non va toccato, per questo non dà mai ai giornalisti i numeri dei famigliari delle vittime. È una strage lenta, silenziosa, con una frequenza implacabile, quella nei cantieri. Ma a Roma la cosa indigna doppia122

mente. Perché questa edilizia è il sistema nervoso dell’economia cittadina, di un Pil che tutti vantano essere tre volte quello nazionale. Perché sono molti, italiani e stranieri, quelli che si arricchiscono sullo sfruttamento. E perché spesso si muore e ci si ferisce nel silenzio generale. C’è chi resta menomato a vita cadendo da un’impalcatura tra scheletri di palazzoni anonimi. E c’è chi resta menomato a vita cadendo da un’impalcatura nel cuore della città, a poche centinaia di metri da una statua del Bernini o da una tela del Caravaggio. Ed è questo che è insopportabile: lo stridore della morte, delle ferite in un contesto che sfida la grazia con somma ipocrisia.

Fuori stagione di Giordano Meacci

Un quarantenne su una Mercedes grigia, parcheggiato insieme alla macchina, parla dal finestrino con un amico. «Oggi so’ stato a Roma. Ho ggirato du’ ore ‘mmezzo ar traffico. Se ‘mme daveno ‘na revoltellata era mejo». Landi: una frazione del comune di Genzano. Un bar carico di stemmi, effigi, poster e gagliardetti della Lazio, un emporio, un negozio di attrezzi agricoli e mangimi, una chiesa in mattoni rossi che si sviluppa in orizzontale, adeguandosi alla piana inequivocabile dei campi intorno. Lo slargo pieno di automobili e ventenni che parlano di calcio è piazza delle Lotte contadine. Da secoli, più o meno, tutto comincia da qui. Sono arrivato a Landi seguendo la strada che dalla linea alta dei Castelli Romani – Marino, Albano; poi Ariccia, Genzano, Nemi – cade e si avvalla nella Nettunense, fino a perdersi in mezzo ai campi: da un lato l’orizzonte piatto della pianura pontina e dall’altro il mare; in una corsa di vigneti e olivi e stabilimenti chimici che sembrano, sempre, una versione contadina dell’idea eterna di periferia: una modernità perennemente fuoritempo indossata dal paesaggio come una giacca da matrimonio con il cartellino del prezzo ancora attaccato alla manica. «Kiwi. Adesso è il tempo della raccolta

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dei kiwi» m’ha detto il signor Cherubini, il proprietario del negozio di macchinari per l’agricoltura. È con la voce di mio nonno – boscaiolo, vetraio e contadino – che ho parlato con lui, disquisendo di «vendemmia conclusa da tempo e raccolta delle olive agli sgoccioli». Finché non mi ha confermato che la raccolta dei kiwi continuava ancora, a fine novembre. «Ma non prenda via dei kiwi, mi raccomando. Quella è praticamente l’unica dove non ce ne sono per niente». Siamo stati per mezz’ora a fumare davanti all’entrata del negozio e a parlare della morte dell’agricoltura. Una messa da requiem al gusto di camel light che s’incupiva a mano a mano che il discorso si posava sulla giovinezza perduta, la speculazione sui finanziamenti pubblici, la repentina trasformazione del vino da prodotto reale a etichetta per l’esportazione: il «crudele Frascati» che per secoli ha ubriacato i versi delle osterie romane, ormai privo di appezzamenti in proprio e costretto ad attingere trebbiano e malvasia dai vigneti dell’agro pontino. «Qui, sono tutti piccoli proprietari. Tre, quattro ettari al massimo. Ma non ci si vive più. Non vale la pena, una fatica del genere, per essere a rischio di sopravvivenza». E il nostro fumare ha attirato le chiacchiere degli avventori. Una signora (sorridente, con la tuta e i capelli profumati di shampoo) spiega che è impossibile riuscire a vivere della vendita delle raccolte (e intanto, in lontananza, un crepuscolo improvviso si appoggia sulle linee sbalzate dei filari come un telo nero). «Anche la manodopera, ormai. Non c’è più nessuno di qui. Tutti i lavoranti sono rumeni. O indiani. Quasi tutti in nero. Perché gli stranieri in regola con il permesso di soggiorno, naturalmente, non vogliono andare a lavorare nei campi a venti euro per otto ore e più. Se possono, si fanno assumere nelle fabbriche, negli stabilimenti sulla Pontina». E così, dopo i saluti, mi sono appostato all’entrata del125

l’emporio. Perché io sono arrivato a Landi portato da una domanda: «Dove vanno gli stagionali l’inverno?» Cosa fanno, una volta conclusa l’ultima raccolta, quando non lavorano? La paradossale ricerca della pausa nel lavoro di chi è provvisorio per definizione. Una sorta di corrispondenza tra i contratti a tempo determinato e la sopravvivenza spicciola fondata sull’aleatorietà costrittiva della meteorologia. Ho comprato un pacchetto di sigarette (l’emporio è insieme supermercato di paese, edicola e cartoleria) e ho visto, tra i quotidiani («Il Messaggero», «Il Tempo» e «Il Giornale») una pila di «Ziarul românesc». Sto aspettando che qualcuno ne compri una copia. E infatti, dopo una decina di minuti – sono sospetto; da dentro, ogni tanto, la vecchia proprietaria mi dedica un’occhiata dubbiosa – escono due uomini con una sporta di scatolame e il giornale sottobraccio. Mi avvicino cautamente (per due tre secondi la mia domanda di stupido osservatore occidentale deflagra in tutta la sua rozzezza – scusate siete rumeni?). «Posso farvi una domanda?» E scopro che Mario e Nicola – questi i nomi che mi hanno detto – lavorano in una segheria dalle parti di Latina: hanno un contratto annuale. Però conoscono parecchie persone che lavorano nei campi, costrette – come loro, fino a due anni fa – a un avantindietro continuo tra la Romania e l’Italia. Mario è parecchio più anziano di Nicola (che sembra un Kurt Cobain più timido e meno macerato, il viso intrappolato nel cappuccio di una felpa verde): ma non saprei dire con esattezza quanti anni hanno, tutti e due. Nicola mi spiega che dal gennaio 2007, con l’entrata parziale della Romania nell’UE, i problemi con il permesso di lavoro aumenteranno: un numero imprecisato di timbri e di controlli da bossifini al quadrato che (dalle prime avvisaglie che ne ha avuto, con l’ultima sbozzata di documenti da fare) renderanno la vita impossibile ai non-ita126

liani. Vivono a Pomezia, in affitto, insieme ad altri immigrati. Penso alle gradazioni di significato di «vita impossibile» con in testa le fatiche di una mia amica – spagnola, comunitaria – anche solo per avere una risposta precisa da un impiegato del suo municipio. Mentre me ne vado, Mario mi chiama con un oh internazionale; e da lontano mi fa segno con le dita di scrivere. Io annuisco: però so già che mi sono perso qualcosa di fondamentale, magari, che invece andava salvato. Con Pasquale D’Uva – i nomi sono il faro che ci conferma nelle scelte di rotta, alle volte – ci siamo dati appuntamento per stamattina, a sessanta ore da piazza delle Lotte contadine. Negli ultimi due giorni ho vagato per le aziende agricole e i campi al confine tra Genzano e Aprilia, in cerca di persone occupate a raccogliere kiwi. Quando sono arrivato alle «Assicurazioni Generali Venezia» – in macchina, forzando le sospensioni sul fango smosso di una carrareccia – il fattore mi ha detto che avevano già finito la raccolta. E infatti per ettari ed ettari tutto attorno c’era un silenzio innaturale. La campagna è fatta di mattine sabbiose, e guazza: e alla fine del lavoro, in quella pausa imposta che da una raccolta porta all’altra, o agli innesti, o alle potature, le persone si muovono con lentezza incantatrice; come se fossero loro a portarlo, il silenzio, riservandosi i trucchi diffusi di uno schiocco, un latrato, il brusìo di un trattore che ritorna nella rimessa: solo con un gesto della mano. Ho viaggiato per chilometri in tondo lungo i confini sbiaditi dei campi. Gli impianti di irrigazione per i kiwi, a fine raccolta, sono strutture tristi cariche di foglie secche, un marrone rimescolato e inconsolabile che ti accompagna la coda dell’occhio per tratti lunghissimi. Mi sono fermato praticamente a ogni cancello, una volta accolto dall’eco del campanello dalle stanze di una casa colonica; un’altra inseguito da un cane minuscolo e cattivo che non ha 127

smesso di abbaiarmi contro prima della marcia indietro. Questo finché un settantenne metà uomo e metà Fiorino (sembrava che dalla vita in giù fosse parte integrante dell’abitacolo) non mi ha indicato una strada laterale, nascosta. «Ma stia attento, che la prendono pe’ uno dei controlli». E infatti per quasi un’ora è stata una ripetizione di soste davanti al filo spinato, cani da guardia poco affettuosi. E però dai campi, oltre gli steccati, si sentiva chiarissimo un rumore di macchine in moto, voci e schianti inconfondibili. Su istigazione di una vecchina, seduta su una panca di marmo in un’aia, sono riuscito a parlare con il suo vicino di casa. «Sta a lavora’, sta a lavora’, vada, vada»: tutto detto con il tono gratuito e livoroso delle spiate tra confinanti rivali. Il vicino, chiamato dalla figlia, mi ha squadrato in silenzio per una decina di secondi, non mi ha voluto dare la mano e ha giurato che la raccolta era finita. Quando gli ho chiesto il nome ha risposto solo: «Arrivederci. Vada dellà. Dellà lavorano. Arrivederci». Ed è così che ho incontrato Pasquale D’Uva, più o meno alla mezza, da solo, su un trattore, alla fine di una catena irrisolta di dellà. «Domani o dopodomani finiamo. Se vuole può venire al lavoro con noi, domattina alle nove arrivano i camion». Ed è da qui che ricomincia il presente: con la signora Antonietta Capozzi in D’Uva, titolare dell’azienda agricola che mi ospita per gli ultimi scampoli di raccolta. Non hanno problemi a parlare con me semplicemente perché non hanno lavoratori in nero. Sono nove, dieci persone: un’intera famiglia alle prese con un terreno di quattro ettari. «’Stracomunitari no», mi ha detto Pasquale D’Uva. «Perché è troppo ‘n problema. L’anno scorso il vicino mio janno fatto quattordici mila euro di multa. Poi evidentemente lui ha dato ‘na picconata all’agente, ma così te rovini». Centinaia e centinaia di ettari 128

di lavoro in nero dei «poveri di dovunque» e io sono nell’unico campo a conduzione interamente familiare. Sono tutti gentili, con me. Anche Loris Venturini, l’autista romagnolo che aiuta il genero del signor D’Uva a caricare le casse di kiwi. Prima del mio viaggio nell’agro pontino, le mie conoscenze sui kiwi si limitavano soprattutto a un ricordo remoto di Fabio Testi, negli anni Ottanta, fiero coltivatore a Limone sul Garda durante un’intervista televisiva. «I primi kiwi, quasi trent’anni fa», mi spiega Pasquale D’Uva, «sono stati coltivati a Latina, nel basso Lazio, nel Sannio. Borgo Flora, per esempio. E Cisterna. Cisterna è ancora la capitale laziale dei kiwi». All’inizio si guadagnava molto bene, quando i kiwi erano una primizia esotica. «Anche cinquemila lire al chilo, al produttore. E pensi che adesso ogni chilo ce lo pagano cinquanta centesimi». Un calcolo veloce mi conferma dell’enormità dell’aumento lungo la filiera: in quattro passaggi (produzione, raccolta centralizzata, distribuzione, vendita) un chilo di kiwi aumenta di più del seicento per cento. «Non c’è una vendita al dettaglio, facciamo tutti parte di cooperative. I dirigenti della cooperativa fissano i prezzi. E pensare che nel ’77 uno di Benevento, con due ettari ha guadagnato settanta milioni». Luigi Capozzi, il cugino della signora Antonietta, mi dà tre kiwi. Uno da assaggiare, due da mettere in tasca per dopo. «Quest’anno è stata un’annata bona. Per noi è andata bene. Quattro ettari, quattrocento quintali a ettaro». Tolte le spese di irrigazione, le sementi, la manutenzione, «vengono fòri du’ bone mesate». Pasquale D’Uva è nato a Santa Croce del Sannio, in provincia di Benevento, nel ’42. Per quattordici anni è stato emigrante: a Berna, «costruttore. Imprenditore edile». Poi è tornato in Italia con la moglie, s’è stabilito ad Aprilia. Nel 1985 hanno trasformato una piccola vigna in una coltivazione di 129

kiwi. Quando produrre kiwi era il boom agricolo: prima che la febbre del kiwi arrivasse anche in Spagna e in Grecia. Il campo dove siamo l’hanno comprato nel ’98, «parecchio dopo la crisi del 1992». A metà mattinata lascio la famiglia D’Uva alle prese con il lavoro di trasporto e mi allontano, a piedi, oltre un ponticello davanti all’entrata dell’azienda. Su un palo della luce c’è un cartello artigianale con su scritto «VENDESI scrofe gravide», con tanto di cellulare, che mi dà la cifra esatta del tempo che sto cercando. Da una parte e dall’altra sono tutti vigneti o campi di kiwi. Mi inoltro tra i filari, parlotto con due contadini (uno in bici, molto grasso, mi scruta come se da un momento all’altro dovesse dare voce alla doppietta), poi arranco lungo la strada asfaltata inseguendo l’eco compressa dei rumori. Dopo trecento metri, di là da un recinto, vedo una decina di ragazzi; hanno lasciato le felpe e i maglioni contro il freddo delle sei appesi alla rete metallica. «Scusate...» (l’incipit standard da dentro un fossatello, le dita uncinate alla rete). Dal gruppo si stacca un ragazzo che potrebbe essere Luke Skywalker nella prima Trilogia, e invece si chiama Hristov – «Cristoforo», mi spiega – ed è polacco. Viene da Grudziadz. Ha lavorato durante la vendemmia, poi nella raccolta delle olive. Mi dice che ancora ne avrà per due settimane, poi è probabile che dovrà tornare in Polonia. È vago sul permesso di lavoro, per sé e per i suoi compagni, che lo chiamano da sotto i graticci. Gli chiedo se posso entrare a parlare un po’ con loro e lui è d’accordo, sì, mi dice di andare al cancello principale e di «chiedere al padrone». Provo a suonare cinque o sei volte il campanello, ma non risponde nessuno. Dopo un po’ vedo un tappetino, poi una mano, poi un braccio, che escono da una finestra del pianterreno. Il braccio scuote il tappetino e lo riporta dentro. Ri130

peto scusi e miscùsi fino a farli diventare un mantra; fino a quando esce di casa una donna, accigliata, che mi dice che non le serve nulla. «Scusi, mi potrebbe far entrare? Vorrei parlare con i ragazzi che raccolgono i kiwi». «Non vogliono niente», mi dice lei. «Non sono uno dei controlli» – in questi casi la brutalità delle affermazioni è tutto, mi dico – ma lei urla «Non vo-glio-no niente»: e lo scandisce, stavolta, come se parlasse a uno straniero sordo. «Vorrei parlare soltanto» ripeto, maledicendo la mia scelta di comunicazione lineare. A questo punto la signora si piazza al centro del vialetto, punta i piedi e gesticola: «Ha capito o no che so-no-trop-po-ò-ccùpà-tiii?», e se ne va, lasciandomi solo dietro le sbarre. Ritorno da Hristov e dagli altri, sperando che la signora non decida di sguinzagliarmi contro il mastino di famiglia, o il marito. Hristov si avvicina di nuovo, gli spiego che non mi fanno entrare, che se vuole dirmi qualcosa dobbiamo stare così, come in un parlatorio a cielo aperto. «Il problema» mi racconta, «è che quando finisci devi tornare. Se non c’è lavoro devi tornare a casa». Lui e gli altri prendono sui venti euro al giorno; io insisto per capire bene, gli chiedo dei passaggi dalle viti, alle olive, ai kiwi; che cosa farà di qui a due settimane, quando avrà finito. E Hristov, che ha capito perfettamente, nonostante le incertezze della lingua, che io sono lì per parlare, che il mio lavoro è questo, parlare, che sono interessato soltanto a capire dove andrà, quest’inverno, prossima stagione, ecco, Hristov mi chiede, semplicemente, dopo gli ultimi che farai, che farete, con la naturalezza di chi si riservi l’unica domanda plausibile: «Perché? Ti serve qualcuno? Ti serve qualcuno per lavorare?»

All’alba delle notti bianche di Valerio Mattioli

Stati Uniti d’America. Secolo Ventesimo. Nel 1905, l’imprenditore William H. Reynolds compie il capitolo finale della saga Coney Island: è Dreamland, il terzo parco-divertimenti su cui precipita l’isola degli svaghi di New York. Assieme a Steeplechase Park e Luna Park, Dreamland conia la prospettiva di un artificio che durerà decenni. Un’allucinazione che è al tempo stesso pietra d’angolo per l’intero sentire occidentale. Il divertimento. Il salto di scala. L’Evento. All’inizio fu la fiera campionaria di Philadelphia. E poi quella di Chicago. E poi quella di St. Louis. Eventi transitori inscenati tra quinte precarie, mostre-fantasma, già lontane parenti di quelle europee, dalle quali traevano quantomeno l’oggetto, il tema della trattazione: le nuove meraviglie della tecnica, il progresso della scienza, il futuro dell’umanità. Teatri di cartone da assemblare e smantellare nel rapido volgere di un soffio di calendario, al termine del quale non restavano nemmeno le macerie. Come erano state montate, così venivano smontate. A Coney Island, giusto di fronte a Manhattan, Steeplechase, Luna e Dreamland commettono l’azzardo: replicare il senso del meraviglioso, l’apoteosi emozionale dell’Evento in chiave ludica, edonistica. Le strutture precarie, le

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quinte di cartone che erano servite a illustrare al mondo ascensori e telefoni, diventano il fondale su cui muovere altre meraviglie, altri colpi a effetto. Montagne russe. Tunnel dell’amore. Repliche in scala di Venezia, di Pompei, con tanto di Vesuvio fumante. Teatri, sale da ballo, simulazioni di disastri. Orchestre. Cantanti. Nani, ballerine. È un circo malandato e fasullo, che si tiene in piedi su impalcature barcollanti. Le pareti sono pannelli scrostati buoni per mezza stagione, gli ambienti null’altro che trucchi scenografici: il parco-divertimenti non è fatto per durare. Cambia, si amplia e si restringe, muta a seconda delle esigenze del pubblico. È una fantocciata, e un’esibizione infima, bassa, e alla gente piace. Dalla fondazione di Dreamland, l’ultimo dei tre grandi parchi della Coney Island che fu, è passato un secolo. Tutto è cambiato. Anzi no. Quello che rimane di Coney Island adesso verrà demolito. Lo show di cartapesta del parco-divertimenti arrugginisce sotto decenni di superfetazioni edoniste: altri sono diventati gli svaghi e i sollazzi dell’Occidente moderno, e la gara alle montagne russe più alte si è chiusa da tempo. Eppure, a restare intatta, immutata nel suo abbaglio, c’è l’idea. Quella di una grandeur posticcia, appiccicata a forza su uno scheletro di miseria e finanche squallore. Tutto si è concentrato, si è smaterializzato, è collassato su se stesso: il fallimento del parco-divertimenti sta in una transitorietà che non è realmente tale. Steeplechase, Luna, Dreamland, stavano lì, 24 ore al giorno, 365 giorni l’anno. Inevitabilmente, hanno finito per soccombere alla stessa negazione della loro provvisorietà. Nel 1911 basterà una scintilla, e l’intera Dreamland prenderà fuoco. Il gioco era durato fin troppo. Un’emozione, per essere veramente tale, deve avere i minuti contati. 133

Pianeta Terra. Secolo Ventunesimo. Il Grande Evento Unico (G.E.U.), l’episodio che come un uragano sconvolge le sinapsi urbane nel recinto costretto di poche ore, prima di svanire nel nulla come dal nulla era apparso, ha sostituito la retorica della meraviglia parco-divertimenti. Nelle piazze, di fronte ai monumenti, sotto i cieli della metropoli diventata essa stessa luna park gigante, si levano all’improvviso le impalcature del mordi-e-fuggi, del partecipa ora o non parteciperai mai più. Puntate di una storia che si svolge a intervalli regolari, con una maestosità che fa da contraltare alla prassi liquida del quotidiano. Esaltazione parossistica dell’emotività, i G.E.U. sono al tempo stesso una monumentale manifestazione di primitivismo. Le loro impalcature, le loro quinte di cartone, i loro turbinii circensi, replicano all’infinito l’ooooooh! stupefatto della meraviglia fieristica. Davanti a tanto sfarzo, il pubblico viene prima proiettato, e poi risucchiato nella sfera del fantastico. Dietro ai fasti, invece, sempre loro: le quinte di cartone, le impalcature-fantoccio, e un intero popolo che a questa allucinazione dà vita. A Roma, il William H. Reynolds in sedicesimo che alimenta la gazzarra fantastica del G.E.U., si chiama Marione. Non è il responsabile spettacoli del Comune, non è l’addetto alla programmazione culturale della Regione, né un impresario audace e lungimirante. È, semplicemente, l’uomo che presta le materie affinché lo spettacolo si possa celebrare. I pannelli, le impalcature, i ponteggi, e soprattutto loro: gli uomini. Il secolo è il Ventesimoprimo. Il paese è l’Italia. La sua capitale, innamorata di americanismo dai tempi del «tu m’hai provocato: io me te magno», tenta non solo l’adeguamento, ma il sorpasso del modello principe. Ricostruisce la meraviglia da dove era stata interrotta, e lo fa di slancio, immolandosi alla liturgia del G.E.U. non come evento accessorio, ma 134

come ragione fondante dell’amusement urbano. Riparte da Dreamland. Indietro negli anni, nei decenni, all’alba delle Feste, delle Fiere e delle Notti Bianche. Per farlo, ha bisogno di braccia. Le braccia dei marioniani. È una macchina del tempo. Tutto, dalle parti di Marione, procede a ritroso. E non solo per l’implicito ritorno al mito di fondazione, all’ideologia che sottende gli assunti materici del luna park per poi partorire, in un’ultima istanza, il G.E.U. È anche una discesa storica, antropologica, classista. Gli operai alle dipendenze di Marione lavorano quattordici, sedici ore al giorno, senza sosta, perché il Grande Evento non ammette ritardi e nemmeno un secondo può andare perso. Schiavi come lo erano gli schiavi delle piramidi, prima meraviglia proto-luna park, eseguono il lavoro in fretta, in un tripudio di bestemmie da cantiere. Pagati poco, senza garanzie, al termine di fatiche tragicomiche, si fanno chiamare marioniani. Pronunciano il termine con un misto di orgoglio e senso di appartenenza. Tra le loro fila, vigila una gerarchia d’altri tempi, e un senso del mitico che sa di fierezza preindustriale. Svolgono il loro lavoro con le mani. Letteralmente, costruiscono un mondo. Un mondo aleatorio, condannato a disintegrarsi a scadenze regolari, ma pur sempre un mondo, un pianeta. Di cui loro, oltre che gli artigiani (altri sono gli artefici), sono i primi abitanti. 1905: la Dreamland di Reynolds non era solo un parco per far passare una bella nottata ai newyorkesi. Era anche e soprattutto un esperimento sociale. All’interno del parco-divertimenti i lavoratori erano al tempo stesso soggetto e oggetto della meraviglia. Vivevano lì, dentro i confini di questa fetta ultraterrena, replicando da lavoratori dipendenti un simulacro di vita sociale. L’esempio più celebre era Lilliputia, 135

un intero villaggio in stile finto-tirolese popolato da nani. I nani di Lilliputia non erano solo un’attrazione tra le tante: abitavano il luogo secondo regole precise, costretti a credere che quello fosse il solo universo in cui stabilire norme e valori dell’esistenza in comune. La loro percezione della stessa idea di scelta, era alterata per sempre. I lillipuziani dei Grandi Eventi romani sono loro, i marioniani. Da qualche parte, sanno che la vita passata sui ponteggi di un qualche palco per concerti è null’altro che un’accelerazione senza appigli con la realtà. Ma quando si tratta di lavorare, di lavorare per Marione, l’introiezione del fantastico segna lo scarto. Nel quadro di un’ipotetica graduatoria dello sfruttamento, i marioniani occupano una posizione intermedia. Non sono gli ultimi diseredati della terra, ma al tempo stesso non possono vantare uno status lavorativo degno. Pagati in nero, senza protezioni sul cantiere a meno di una detrazione sulla paga, costretti a turni massacranti, rappresentano una categoria del tutto singolare di schiavitù. E se è vero che molti tra loro sono immigrati, senza diritti, reietti gettati ai margini, è altrettanto vero che molti altri sono rifiuti di una borghesia andata a male, oppure studenti, giovani alla ricerca di un lavoro veloce e, nel suo piccolo, remunerativo. L’universo marioniano è fatto a strati: c’è chi sale, c’è chi scende, e c’è chi resterà per sempre fermo. Su tutto veglia lui, Marione, una sorta di entità mitologica, un demiurgo da cui tutto dipende, l’uomo che concede quel senso di appartenenza tanto estroso quanto necessario. «Marione ha fatto questo», «Marione ha detto quest’altro». Tutto riconduce a lui, l’uomo che manovra le masse, l’uomo che col sudore dei suoi applica sul corpo morto della città l’abbaglio del G.E.U., come una protesi provvisoria. Per Marione, nei giorni di montaggio e 136

smontaggio, si dà l’anima. «Dai la vita per quei dieci giorni, ed è fatta» mi ha detto un giorno un marioniano. «Dai la vita»: come i nani di Lilliputia, se la realtà ti è stata sottratta, occorre che ti adegui a quella che ti hanno proposto. Costretti a condizioni di lavoro infami, sono loro, i marioniani, che le rendono accettabili per una sorta di convincimento inerziale, con addirittura la sua etica. Se stai con Marione, devi lavorare, nel senso più nobile del termine: devi essere serio, non puoi fermarti, non puoi lamentarti. Prenditi questo pannello in braccio, e muoviti. Mica Marione ti paga per stare fermo, no? L’adesione al sistema valoriale del marioniano è condizione necessaria affinché in quel mondo tu possa esistere, e non solo: essere più marioniani di Marione, ecco qual è il trucco. Preoccuparsi, dannarsi, svenarsi, spaccarsi la schiena affinché il lavoro sia fatto non come dice Marione, ma addirittura meglio. Perché Marione, il Grande Evento, lo progetta ma non lo abita. I marioniani invece sì. Quando Dreamland andò a fuoco, nel 1911, i lavoratoricoscritti delle sue baracche-giochi si precipitarono in una fuga disastrosa, con le bestie del circo sperdute assieme a loro. Solo una piccola enclave resistette: Lilliputia. I nani che la abitavano, accorsero in massa nella piccola caserma-pompieri del loro villaggio finto-tirolese, tentando disperatamente di fermare le fiamme. Non volevano che il loro mondo di cartone bruciasse. Nel tentativo di salvataggio, morirono in molti. Per Marione, che io sappia, non è mai morto nessuno. Ma il senso di abnegazione che si respira durante il montaggio di un palco, di una fiera, di una sfilata, vale la devozione dei lillipuziani. I marioniani sono coscienti che solo attraverso di loro prende forma l’estasi dell’Evento. Sono loro che, mate137

rialmente, montano le tavole su cui sfileranno modelle famose, su cui canteranno cantanti miliardari, su cui verranno esposte macchine di lusso. Il fascino mitologico di Marione sta proprio nell’essere lui l’anello di congiunzione con quel mondo che le masse anelano da fuori, mentre chi ci lavora, anche se nella più misera delle posizioni, vive dal di dentro. Una volta un marioniano mi ha raccontato di come, poco prima di un Primo Maggio a San Giovanni, si imbatté nel retropalco in un Caparezza in evidente stato ansiogeno, emozionato per l’occasione. Ebbene, fu lui, il marioniano, a consolarlo e a dargli coraggio. Lui, il marioniano, che fino a cinque minuti prima si era fatto il culo a montare i pannelli dei camerini, a dare abbondanti pacche sulle spalle al famoso cantante di Mtv. Vi lascio immaginare che emozione. A Roma, oltre a Marione, altri ci provano. Ci sono i fratelli Pinna, che con Marione hanno un proficuo scambio di facchini, e che si occupano più che altro degli allestimenti alla Fiera, in un inferno di stand riciclati e moquette marcescenti. Le condizioni, più o meno, sono le stesse. Ma quando alla Fiera lavora qualche marioniano, quando qualcuno di quelli si è abbassato a un lavoro tanto indegno, la prima reazione è di rispetto. Nei gironi grotteschi delle miserie facchinesche, il marioniano si porta appresso un’aura che gli deriva direttamente dal luccicante universo dell’Evento, roba che i Pinna non possono permettersi. Perché coi Pinna, il viaggio a ritroso arriva allo stadio della mediocrità. Come le fiere di Chicago e Philadelphia vennero fagocitate dallo slancio immaginifico di Coney Island, così gli allestimenti di Roma Sposa o della Fiera del Fumetto non valgono il miraggio del Fantastico Marioniano. Che è, d’altronde, anche un fantastico chimico, biologico e fisico. Come a sottolineare che il montaggio di un palco è più di un lavoro, è un’esperienza, alcuni tra i ma138

rioniani più fedeli ricevono la paga in cocaina. Un’opzione che quasi fa sorridere, nella sua apparente giustificazione di «il cantiere è un lavoro duro, serve qualcosa che ci tiri su», come un’eco distorta di certe perversioni andine. No, non è la fatica, non è lo sforzo, a reclamare a gran voce gli additivi della droga. È lo studio scientifico di un’alterazione portata al compimento ultimo, è l’adesione psichica, oltre che fisica, ai valori alterati della sofisticazione G.E.U. Come le montagne russe di Dreamland, esattamente. A guardare le foto dell’incendio del 1911, i resti del parcodivertimenti di Reynolds sanno di cortocircuito. Un cumulo di ferraglie ridotte a terra, un’architettura spettrale del fantastico che fu. Quel giorno, Dremland – e Coney Island con lei – finì. Ma quelle ferraglie, quelle impalcature, quelle quinte semidistrutte, erano già pronte ad allungare la loro ombra su quello che sarebbe venuto, già disposte – per intima essenza – al riciclo continuo, all’assemblaggio sotto altre forme degli originari propositi che per tanto tempo le avevano tenute in piedi. Ora: andate, andate a vedere i preparativi di un montaggio, sotto i palchi di San Giovanni, delle Feste del Cinema, dei Cornetti Music Festival, delle Notti Bianche. E poi date un’occhiata ai resti di Dreamland, quel cimitero di montature e ponteggi. Tutto a terra, inanimato, inerte. Eppure con un che di precario, di provvisorio, di instabile. Sta lì, inquieto. Tutto in attesa. Pronto per essere rimesso in piedi alla prima occasione: quando, un secolo dopo, la veemenza dell’Evento ordinerà all’Urbe l’ennesimo sommovimento interno, adoperato sul sudore e sui muscoli dei marioniani e del loro Re – allucinazioni comprese. Il Grande Evento Unico è un tentacolo che, a furia di autoreplicarsi, occupa la categoria tempo dipanandosi in un calendario eterno. Di questa 139

città fantastica, che un giorno esiste e il giorno dopo non c’è più, restano gli abitanti, uniche entità tangibili della carne su cui il fantastico è costruito. I marioniani. Nani sulle cui spalle si reggono i giganti.

Mondo macello di Giorgio Falco

Apriamo la prima porta, il nostro bovino entra nel nostro box zincato, muggisce, non vuole proseguire, il nostro operatore lo spinge verso ciò che noi chiamiamo stordimento, la parola morte non esiste, anche fuori, è una litania di è mancato, è venuto a mancare, è scomparso, è uscito di scena, se ne è andato, ci ha lasciati, siamo autorizzati dal linguaggio quotidiano collettivo, chiamiamo stordimento un proiettile sparato in fronte, apriamo la porta idraulica laterale, contemporaneamente abbassiamo il basamento inferiore, permettiamo al nostro bovino di uscire, apriamo nuovamente la prima porta, entra un altro nostro bovino, il nostro operatore lo spinge, abbiamo quattordici dipendenti e duecentoventi operatori appaltati da società esterne, italiani licenziati dopo l’emigrazione di una fabbrica, europei di un indistinto Est, asiatici, sudamericani, arabi, il nostro bovino possiamo prepararlo anche coi dettami religiosi islamici o ebraici, abbiamo sempre più richieste, in questo caso il nostro bovino entra in un altro nostro box, non abbiamo nemmeno bisogno del nostro operatore, un nostro automatismo, una piccola scarica se necessario spinge il nostro bovino verso la parte anteriore del nostro box, blocchiamo il collo del nostro bovino e lo ruotiamo ver-

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so la lama per lo stordimento, tagliamo la giugulare al nostro bovino, apriamo la porta idraulica laterale, contemporaneamente abbassiamo il basamento inferiore, il nostro bovino esce, apriamo nuovamente la prima porta e ricominciamo, un altro nostro bovino e un altro ancora, sembra ripetitivo ma è lungo il percorso verso la bistecca che riposa al secondo piano del congelatore, dopo lo stordimento c’è il dissanguamento, l’aspirazione del sangue misto acqua e detersivo cola dentro i pozzetti di scarico antiratto, appositamente pensati per evitare la proliferazione di topi all’interno del nostro stabilimento ma abbastanza generosi per filtrare una sostanza shakerata apprezzata dai roditori che attendono sotto il pavimento, avanti, continuiamo il trasferimento del nostro bovino sulla giostra, il nostro bovino risale il movimento catarroso dei nastri trasportatori, la prescuoiatura e la scuoiatura del nostro bovino appeso disponibile a un ulteriore movimento, due nostri operatori sopra il trabattello scuoiano il nostro bovino dall’alto verso il basso, azionano a quattro metri d’altezza il rullo sul quale si arrampica la pelle del nostro bovino scuoiato che, finalmente, rivela un abbozzo di carne, prima dell’eviscerazione, del taglio dello sterno, della spaccatura, del camice rassicurante di un veterinario cinquantenne, della doccia rigeneratrice. Noi non produciamo solo carne bovina, investiamo anche in realtà radicate localmente grazie alle quali assicuriamo una totale copertura per tutto ciò che concerne il mondo macello, maiali, cavalli, agnelli, conigli, polli, tacchini, senza dimenticare la piccola ma interessante nicchia di mercato degli struzzi. Il nostro capitale sociale è 10.000.000 di euro, ripartiamo gli utili e le perdite tra i soci ma noi le perdite non sappiamo cosa siano e gli utili netti, risultanti dopo prudenziali am142

mortamenti, li dividiamo tra le azioni, salvo che l’assemblea li destini al miglioramento degli impianti, all’incremento dei servizi. Il nostro consumatore vive mediamente settantasette anni e mangia millequattrocento nostri animali, la carne non è solo abitudine, è ancora una conquista, l’ombrellone in sesta fila, la zanzariera, il videocitofono, il climatizzatore, il preliminare di Champions League, per settantasette anni il nostro consumatore mangia i nostri animali affettati nelle pappine, nelle prigionie dei seggioloni, affettati nei pianti asmatici degli asili, dei refettori, delle mense scolastiche presto rassegnate ai pomeriggi e alle schermaglie amorose dei piccoli bar universitari, affettati dentro i matrimoni, nelle esalazioni delle prime case di nuova costruzione, dei battesimi, delle comunioni, affettati nelle trattorie con le tovaglie a quadretti segnalate dagli inserti dei quotidiani, affettati nell’irrinunciabile bene rifugio delle seconde case in posizioni strategiche pagabili con un minimo anticipo, affettati nelle corsie degli ospedali esempi di mix tra pubblico e privato, affettati nei rinfreschi di commiato. Noi assicuriamo il mantenimento della grande tradizione italiana nel mondo macello, la continuità con la civiltà contadina scomparsa ma rivitalizzata dalla nostra veloce azione quotidiana, noi assicuriamo ai nostri consumatori ciò che le strutture pubbliche non danno, gli ex macelli comunali sono solo metri quadrati, spazi appetibili per le posizioni divenute centrali dopo l’allargamento delle città verso i bordi dove tutto è centro. Le grandi città ma anche i capoluoghi di provincia, i comuni di venticinquemila abitanti e perfino quelli più piccoli – dove il ballottaggio alle elezioni è tra due Liste Civiche dai nomi Insieme Per o Presente Con – hanno ex macelli, sono aree abbandonate, muri diroccati, attraenti super143

fici per manifesti abusivi che pubblicizzano esibizioni acrobatiche con auto rosse scarburate le cui marmitte esalano una malinconia azzurrognola; sono muri diroccati, attraenti superfici per manifesti abusivi che pubblicizzano circhi dove il domatore stacca con eleganza i biglietti all’ingresso; sono aree di riqualificazione per il recupero urbano improntato alla vivacità sociale, alla rinascita di una nuova fase; sono spazi polifunzionali sedi di laboratori teatrali, corsi bisettimanali che scandagliano le infinite possibilità di un’umanità allo sbando ma non sconfitta; sono porzioni adibite a centri psichiatrici per il recupero dell’individuo all’interno di una struttura snella ed efficiente; sono spazi amplificati per concerti di gruppi emergenti che fanno della militanza e dell’impegno politico i loro indiscussi fondamenti, valori rappresentativi di uno spaccato giovanile, fedeli testimoni del disagio rappresentato da una nuova frontiera di sonorità intriganti; sono spazi espositivi per le opere di artisti il cui valore, nell’ultimo anno, è sensibilmente cresciuto; sono spazi di architetti che si interrogano quotidianamente sul senso abitativo del reale in una dimensione interetnica stratificata e potenzialmente conflittuale; sono loft su due livelli, le travi a vista verniciate, un impregnante naturale dona ai soffitti una lucentezza unica accentuata dalla pioggia luminosa che precipita dai grandi lucernai e rimbalza sui riflessi dolciastri del parquet per ritornare ammaestrata in alto, prima di adagiarsi lentamente ovunque, fino ai giardinetti indipendenti piantumati, ricavati dalle antiche tripperie; sono spazi proposti da agenti immobiliari, sbirciano l’orologio sotto il polsino consumato della camicia, i piedi gonfi nelle scarpe nere stringate allacciate da dieci ore; sono parcheggi a pagamento, la terza domenica del mese diventano sede per i mercatini che propongono salumi biologici, riso integrale, farro, miglio, cerea144

li dai volti umani, sporadici scontrini; sono parcheggi di supermercati e striduli lamenti di rotelle, i carrelli trotterellano verso l’opaca voracità dei bagagliai, operazioni di carico e scarico di muletti gialli sui quali brillano nitidi tricolori; sono feste di partito, ristoranti multietnici, osterie, pizzerie, fettuccinerie, il paradiso terrestre della pasta fatta in casa, piadinerie, creperie, enoteche, bar cubani, stand di associazioni che autogestiscono e coordinano preziosi luoghi di confronto e di dibattito anche virtuale oltre ai video autoprodotti, alle presentazioni giornaliere di libri, mentre stand colorati restituiscono la vitalità e la gioia degli acquisti; sono spazi totalmente ristrutturati, inaugurati alla presenza di sindaci armati di forbici, alla presenza compiaciuta di assessori baffuti con le maniche di camice arrotolate, di giornalisti locali, di fotografi amatoriali, di pensionati attivi nel sociale, di ex maestre traballanti, punti di riferimento per otto generazioni di scolari; sono luoghi per convegni, un ciclo di conferenze su temi normalmente trascurati dall’attualità scottante e che, proprio per questo, trovano un motivo di ulteriore e approfondita riflessione dentro i luoghi di antica produzione; sono aule magne di università, penne e matite rollate tra le dita annoiate delle ragazze che quasi pronte invecchiano all’inizio di un’attività lavorativa, forse. Nonostante la vita quotidiana neghi fortemente la morte, – sebbene la morte sia dappertutto, nelle notizie, nei copertoni, sui parabrezza, nelle nuvole, ovunque ci siano ferite disponibili, la morte è talmente dappertutto da essere svilita – noi ci assumiamo la responsabilità della morte, la morte a norma, nel totale rispetto delle leggi vigenti, delle più scrupolose disposizioni igienico sanitarie condivise con l’Unione europea. Noi offriamo una gestione informatizzata della carne, ogni nostro operatore svolge il proprio compito e nient’altro ma 145

questa non è una specializzazione della mansione, è distanza disossata del respiro che separa dal resto del processo produttivo, da se stesso così sostituibile, la neutralità della morte, sì, noi siamo un’organizzazione leggera, trasferiamo la morte lontano dai soporiferi centri storici, ridotti a squallidi merchandiser rinascimentali, la conduciamo nel paesaggio di mezza età delle tangenziali, l’emoglobina terrestre dei reticoli che come rettili strisciano sulla prigionia asfaltata della circolarità planetaria, ah, se potessimo avere un promontorio, un precipizio sul bordo a picco di noi stessi e invece niente, sfiancati dalla crudeltà della geografia viviamo nei consigli di amministrazione, all’interno di palazzi e stabilimenti ornati da alberi vanitosi cinti dal compromesso di un verde pignolo alto non più di due centimetri, un verde intermittente stretto dalla cancellata e sorvegliato in bianco e nero nei monitor, prima dell’allagamento di camion refrigerati, gasolio e sangue. Eppure anche noi non potremmo vivere soltanto con la gestione programmata della morte, il mondo macello non è certamente il nostro core business. Noi siamo mercati ortofrutticoli all’ingrosso, un forte knowhow in settori a tecnologia avanzata, siamo fibre ottiche, manifestazioni fieristiche, innovative realtà espositive, siamo l’osservatorio per le politiche di rappresentanza, un’offerta di servizi centrati su una proposta formativa strutturata, l’ascolto, la tempestività nelle risposte, siamo linee guida, studi di storia moderna, siamo numerosi articoli e pubblicazioni, siamo partiti dell’opposizione, della maggioranza, siamo associazioni dei consumatori, siamo relazioni e consulenze in manifestazioni congressuali, siamo associazioni che curano i rapporti con la Cina, siamo fondazioni bancarie che operano con filantropia nel patrimonio culturale, scientifico, ambientale, siamo azioni responsabili di valore aggiunto caratterizzate dai sicuri 146

profili dell’efficacia, siamo iniziative pilota, bisogni emergenti che si basano sulla solidità della tradizione, del risparmio gestito, siamo un ambito assicurativo, l’area dei servizi alla persona, l’integrazione lavorativa dei disabili, siamo il miglioramento della qualità dei malati cronici, delle aree verdi se protette, siamo il recupero delle vie d’acqua interne come canali, rogge, siamo società di leasing, la gestione dell’aeroporto, siamo un servizio privato strategico di pubblico interesse, uno snodo irrinunciabile per la vita collettiva, un contesto creativo che favorisce la contaminazione per realtà professionali di respiro internazionale, siamo i professionisti dello spettacolo aperti a ogni contributo sul terreno della cultura, siamo le tensioni ideali che permeano la società civile, mentre il nostro bovino entra, sempre, e il nostro consumatore deve solo pensare a vivere tranquillamente e svagarsi perché noi vegliamo sempre su di lui e gli prepariamo la bistecca, lo stipendio, il finanziamento agevolato per l’auto a metano conveniente, il corso d’inglese alla fine assolata di settembre, il volo economico di un penultimo momento, sette giorni su sette, ventiquattro ore al giorno, a Natale, a Ferragosto, sempre, anche in quelle sere nelle quali la piccola amarezza quotidiana scompare brevemente per la voglia di festeggiare qualcosa, un campionato, un figlio, un ballottaggio, la voce seriale dell’ultima cantante in autoradio, la paletta di una gelateria, sempre, ci occupiamo della morte e delle sue dirette conseguenze, la gestione di stoccaggio di tutte le materie prime grezze semilavorate, intestini, stomaci, lo scarico del rumine del pacco intestinale e pezzi di corpi nemmeno utilizzabili per i cibi dei cani, dei gatti, e poi finalmente anche noi fuggiamo dai liquami dei pensieri, ci rifugiamo sulle barche e dalla prua panoramica il mare appare ancora molto bello, ci commuoviamo per la fragilità delle montagne, per il tepore terminale dei ghiacciai, dei 147

nostri purosangue custoditi nei maneggi, abbiamo un prestigioso team di cavalli strappati alle corse di galoppo, alla fama popolare degli ippodromi, cavalli adatti alle improvvise accelerazioni che rendono eccitante un pomeriggio, l’assolo degli zoccoli nel vento, la silenziosa dignità del balletto di un pesce quando muore.

Fine di Lanfranco Caminiti

Una rivista – come è stato «il maleppeggio» e come lo era «accattone», quasi la stessa redazione – presuppone e mette in opera una attività di cooperazione fra chi vi partecipa, uno scambio, un luogo e uno spazio di pensieri, idee, intenzioni che si fanno «comune». Rispetto alla «solitudine» dello scrittore è qualcosa di più e qualcosa di meno: di più, ha la varietà e la differenza degli apporti linguistici, delle specificità dei punti di osservazione, delle singolarità e sensibilità che si confrontano; di meno, ha quella necessità della mediazione nel «prodotto» – nell’oggetto «rivista» – che a volte sembra mancare di unitarietà, di compattezza, a volte sembra dare una sensazione di troppa frammentarietà. D’altra parte non c’è racconto di lavoro, nella pur copiosa produzione recente, che non dia sensazione di frammentarietà. Come una ripetizione, una riproduzione, un rispecchiamento. L’ascolto di suoni non riconoscibili e non immediatamente comprensibili, un rumore di fondo, quasi un ritorno all’oralità. D’altra parte, una rivista è la forma propria di una sperimentazione, di una raccolta delle voci, delle testimonianze, rispecchiamento di una difficoltà e di una ricerca, di una

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apertura al mondo, di una faticosa elaborazione d’una lingua comune. Forma di passaggio, forse. Si collabora per un po’, ci si lascia, ci si riprende. Una intenzione di «prestazione occasionale», un tentativo di rovesciamento in una forma cosciente e voluta. Questa è la rivista. Questo era «il maleppeggio». Qui si parla di una cosa residuale, marginale nelle nostre vite: il lavoro. Del lavoro, non impipa a nessuno. Le nostre vite non si raccontano attraverso il lavoro – come era appena trenta, cinquanta anni fa, quando sapienza, appartenenza, fierezza erano sentimenti comuni al lavoro. Il lavoro – eccessivo e scarso nello stesso tempo, ora eccessivo per alcuni e scarso per altri, e poi eccessivo per gli altri e scarso per gli alcuni – assilla le nostre vite, le piaga, ma non le occupa. Una volta avuto, il primo pensiero è come liberarsene, come tenerlo in disparte, come non farsene travolgere. Una volta avuto, ci si chiede come reiterarlo. Il lavoro appartiene alle nostre ansie, ai nostri incubi; tutto il resto della nostra vita appartiene ai nostri sogni, ai nostri tormenti. Il lavoro ci appare per quello che è: banalità. E nessuno può riconoscere la propria vita come una banalità. Nessuno, direi, ne ha neppure il diritto. Quello che raccontiamo per dire di noi, per comunicarci agli altri, le nostre ambizioni, i nostri progetti, qualcosa cui teniamo particolarmente, quel particolare «fare» intorno a cui giriamo i nostri pensieri, non appartiene al lavoro. Lì non troviamo una trama degna d’essere raccontata. Il lavoro non è la trama delle nostre vite e non è la trama delle nostre narrazioni quotidiane. Il lavoro non è più la nostra «linea d’ombra», il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, dalla spensieratezza al senso di responsabilità, dall’irrequietezza alla maturità. Il lavoro ci tiene in un «non tem152

po», un tempo reversibile, un tempo circolare. E senza tempo non c’è una storia. Del lavoro parliamo per dire delle bollette, del fitto o del mutuo, di un qualche bollo da rinnovare, di quello che vorremo comprare e non possiamo, di qualcosa insomma che appartiene al nostro pudore e ci svergogna. Del lavoro parliamo per parlare di soldi, di quello cioè che è davvero centrale nelle nostre vite. Il lavoro perciò è una metonimia, quella figura retorica in cui un dettaglio o un concetto sono usati per evocare un’idea o rappresentare un oggetto a essi correlato, in base a un principio di contiguità. Il lavoro è contiguo al denaro. A un equivalente generale capace di selezionare specifiche differenze, a individuarci, a dettagliarci, come il lavoro non è più in grado di fare. E senza dettaglio non c’è una storia. Qui si parla di una seconda cosa residuale, marginale nelle nostre vite: la scrittura, la narrazione. Della narrazione, non impipa a nessuno. La narrazione è mercato, è spettacolo, è corso creativo universitario o scuola a pagamento, è sceneggiatura cinema televisione fiction, ma non è più – in generale – quella straordinaria capacità di raccontare, di rappresentare un tempo e gli uomini e le donne di quel tempo. La scrittura sembra essere diventata esercizio, esperimento, biografia, una specializzazione tecnica alla portata di tutti. Una sovrabbondanza di frammenti disseminati senza mettere insieme una storia. Un eccesso di figurine senza personaggi. E senza personaggi non c’è una storia. Qui si parla perciò di due cose marginali, lavoro e scrittura. Quando si incontrano costruiscono un genere, come il noir, il rosa. I libri che parlano di lavoro ormai sono un genere, diffuso non quanto il noir, ma sempre un genere. A me 153

in libreria è capitato talvolta di trovare narrazioni di lavoro negli scaffali del reparto «Sociologia». Nei libri di lavoro, che spesso sono singole o plurali biografie, non è mai la storia del lavoratore che parla però, ma quella del lavoro. La lingua del lavoro è diventata tutt’intera lingua del lavoratore, e questa lingua, questo linguaggio si travasa nel racconto, nella storia, così com’è. Come fosse una presa in diretta. È una traccia, ma non è un’invenzione letteraria. Quando Fenoglio scrisse Il partigiano Johnny inventò una lingua che potesse raccontare quei luoghi sempre immutati e improvvisamente accelerati, dilaniati, quelle vite sempre uguali e improvvisamente scaraventate di qua o di là. Quando Bianciardi scrisse La vita agra impastò nell’amarezza, nella delusione di una generazione la sua scrittura brusca di modi e ridondante di sentimenti. Quando Pasolini scrisse Una vita violenta lavorò sul romano, sulla lingua delle periferie, dei coatti, dei ragazzi di vita, su storie capaci ancora di rappresentare un mondo, su una lingua capace di tracciare ancora, di distinguere un qua e un là, un mondo di qua e un mondo di là. La reinventò, la distillò. Ne fece letteratura. Quando Balestrini scrisse Vogliamo tutto lavorò sul racconto di Alfonso Natella, operaio meridionale della Fiat, tagliò, cucì, incollò, combinò, diede un prima e un dopo, un tempo, costruì una forma per un flusso. Oggi è il flusso linguistico del lavoro che si travasa direttamente nella scrittura del lavoro, senza mediazioni, documentale. L’irruzione del linguaggio nel lavoro, attraverso le macchine, attraverso i processi di progettazione e produzione, ne ha modificato il «campo»: il lavoro è soprattutto un ambito lin154

guistico e non c’è più ambito linguistico che non sia anche lavoro. La tecnica e le tecnologie hanno costruito un ambito relazionale delle macchine produttive con gli uomini basato sul linguaggio, senza il quale non funzionano. L’ambito relazionale di applicazione non è più solo l’energia umana ma il linguaggio, la codifica, il canone, la comunicazione. Il flusso linguistico. Il linguaggio, l’espressione umana per eccellenza, è stato messo al lavoro. Il lavoro è lingua, e per questa via la relazione applicativa fra uomo e macchina assorbe tutta intera la capacità – la sensibilità, l’immaginazione, l’anima – di ogni singolo individuo: non c’è recesso, a meno di pensarsi muti o di una umanità silente. Il lavoro, dunque, è ancora narrabile? O, piuttosto, il lavoro – come la vita quotidiana – si è «narrativizzato»? In realtà, la riduzione della complessità linguistica a codifica, a elementi simbolici per la tecnica e per le tecnologie, mortifica la lingua umana, la lingua della relazione fra gli uomini e del pensiero di ogni singolo uomo, e nello stesso tempo ne costituisce grammatica. Il canone, le codifiche, stanno prima, e si implementano attraverso la nostra applicazione e sensibilità: la codifica richiede ripetizioni ma vuole anche versatilità e virtù d’ognuno. Così, la relazione applicativa uomo-macchina è instabile e precaria. Sono come tu mi vuoi. Per questo verso siamo moltitudine – la grammatica, il canone unico delle relazioni ci fa moltitudine – e individui seriali – l’uso identico della simbologia per comunicare ci fa seriali. Tutto l’opposto, cioè, della narrazione, della letteratura. La precarietà e occasionalità linguistica, la versatilità linguistica segnano il nostro tempo. Non c’è umanesimo – lingua, letteratura – versus tecnica. La tecnica, attraverso la lingua, è diventata umanista. Per questa via, è anche tradizione. 155

Non c’è più un «prima», «un tempo», «una volta», «un mondo» da contrapporre a questo. Però, solo il lavoro è il luogo universale della lingua e quindi il luogo dove ritrovare l’individuo. Solo il lavoro è «globalizzazione», dove ritrovare l’umanità. Tutto il resto – religione, politica – è «regionalizzato». Ma scrivere di lavoro dovrebbe essere come per l’amor cortese del Duecento, una «invenzione linguistica» capace di costruire nuovi comportamenti sociali, nuove società. A modo nostro, si è provato. Roma, settembre 2008

Gli autori

Lanfranco Caminiti (Messina 1959). Collabora con numerose testate giornalistiche e ha pubblicato o curato diversi saggi in libro o rivista: tra gli ultimi usciti l’inchiesta storica in tre volumi Gli autonomi, insieme a Sergio Bianchi, edito da DeriveApprodi. Tra il 2003 e il 2004 è stato direttore della rivista mensile «accattone – cronache romane» e tra il 2006 e il 2007 de «il maleppeggio – storie di lavori». Il suo sito-laboratorio è www.lanfranco.org. Cristiano de Majo (Napoli 1975). Ha pubblicato il racconto lungo Sistema elefante (Punctum, 2007) e il reportage narrativo insieme a Fabio Viola Italia 2 (minimum fax, 2008). Per Laterza è autore, con Francesco Longo, di Vita di Isaia Carter, avatar (2008). Marco Di Porto (Roma 1979). Ha pubblicato racconti su varie riviste e antologie. Nel 2007 per Pequod è uscita la raccolta Kaddish 95 e altre storie. Giorgio Falco (Milano 1967). Pausa caffè è il suo primo romanzo (Sironi, 2004). Il suo secondo uscirà a breve con Ei-

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naudi Stile Libero. Ha pubblicato in varie antologie, tra cui Euforie curata da Giulio Mozzi e Marina Bastianello (Edizioni Il Poligrafo, 2001) e I racconti del capanno (DeriveApprodi, 2006). Peppe Fiore (Napoli 1981). Ha pubblicato racconti su varie antologie e collabora come giornalista culturale a «Liberazione». Ha scritto L’attesa di un figlio nella vita di un giovane padre, oggi (Coniglio, 2005) e Cagnanza e padronanza (Gaffi, 2008). Nicola Lagioia (Bari 1973). Dopo l’esordio con Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi), pubblicato da minimum fax nel 2001, nel 2004 ha pubblicato Occidente per principianti (Einaudi). Nel 2005 sono usciti: per Einaudi Stile Libero, 2005 dopo Cristo, romanzo scritto insieme a Francesco Pacifico, Francesco Longo e Christian Raimo e firmato con il nome collettivo di Babette Factory; per Fazi il saggio Babbo Natale. Ovvero come la Coca-Cola ha colonizzato il nostro immaginario collettivo. Dirige Nichel, la collana di letteratura italiana di minimum fax. Alessandro Leogrande (Taranto 1977). Vicedirettore del mensile «Lo Straniero», collabora con varie testate giornalistiche. Per l’Ancora del Mediterraneo ha scritto il reportage narrativo Un mare nascosto (2000), l’inchiesta Le male vite. Storie di contrabbando e di multinazionali (2003), e Nel paese dei viceré. L’Italia tra pace e guerra (2006). Nel 2008 è uscito per Mondadori Siamo uomini o caporali? Stefano Liberti (Roma 1974). Giornalista del «Manifesto», ha collaborato a diverse testate e programmi televisivi. Ha 158

scritto insieme a Tiziana Barrucci il saggio Lo stivale meticcio (Carocci, 2005), mentre del 2008 è il suo reportage A sud di Lampedusa (minimum fax). Valerio Mattioli (Roma 1978). Lavora come giornalista culturale per il quotidiano «Liberazione», per il magazine di Repubblica «XL», ed è stato curatore del libro-rivista «Catastrophe» (ex «Torazine»). Redattore di «Blow Up», cura la rubrica su musica e nuovi media «Allcrackedmedias». Giordano Meacci (Roma 1971). Ha scritto il reportage narrativo Improvviso il Novecento. Pasolini professore (minimum fax, 1999), il saggio Fuori i secondi. Guida ai personaggi minori (Scuola Holden-Rizzoli, 2002) e nel 2005, sempre per minimum fax, la raccolta di racconti Tutto quello che posso. Con l’Accademia degli Scrausi ha pubblicato La lingua cantata (Garamond, 1994), Versi rock (Rizzoli, 1996) e Parola di scrittore (minimum fax, 1997). Michela Murgia (Cabras 1972). Ha pubblicato Il mondo deve sapere (Isbn, 2006), romanzo-inchiesta da cui sono stati tratti una piéce teatrale e il soggetto del film Tutta la vita davanti di Paolo Virzì. Nel maggio 2008 ha pubblicato, per la casa editrice Einaudi, Viaggio in Sardegna, undici percorsi nell’isola che non si vede. Nel 2009 è prevista l’uscita del suo nuovo romanzo. Antonio Pascale (Napoli 1966). Cresciuto a Caserta, vive e lavora a Roma. Nel 1999 ha pubblicato per l’Ancora del Mediterraneo La città distratta (riedito da Einaudi nel 2004). Sempre per Einaudi sono usciti, nel 2003 la raccolta di racconti dal titolo La manutenzione degli affetti, nel 2005 il suo 159

primo romanzo Passa la bellezza. Del 2006 sono S’è fatta ora (minimum fax) e Non è per cattiveria: confessioni di un viaggiatore pigro (Laterza). Tommaso Pincio (Roma 1964). Ha esordito nel 1999 con M, ha pubblicato nel 2000 Lo spazio sfinito (Fanucci). Poi per Einaudi Un amore dell’altro mondo (2002) e La ragazza che non era lei (2005). Nel 2006 è uscito per Fazi il suo saggio narrativo Gli alieni, mentre il suo ultimo romanzo Cinacittà. Memorie del mio delitto efferato è stato pubblicato da Einaudi nel 2008. Christian Raimo (Roma 1975). Ha scritto due raccolte di racconti per minimum fax: Latte nel 2001 e Dov’eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro? nel 2004. Insieme a Nicola Lagioia, Francesco Longo e Francesco Pacifico, sotto lo pseudonimo collettivo di Babette Factory, ha pubblicato il romanzo 2005 dopo Cristo (Einaudi, 2005). Per Mup nel 2006 è uscito il libro per bambini La solita storia di animali? Marco Rovelli (Massa 1968). Ha pubblicato il libro di poesie Corpo esposto (Memoranda, 2004) e le due inchieste narrative Lager italiani (Rizzoli, 2006) e Lavorare uccide (Rizzoli, 2008). Come musicista, dopo aver fatto parte dei Les anarchistes, ha da poco dato vita a un suo progetto solista. Elena Stancanelli (Firenze 1965). Ha esordito per Einaudi nel 1998 con Benzina. Del 2001 è il suo secondo romanzo, Le attrici. Nel 2006 per Laterza ha pubblicato Firenze da piccola e nel 2007, per minimum fax, A immaginare una vita ce ne vuole un’altra. 160

Carola Susani (Marostica 1965). Nel 1995 ha esordito con Il libro di Teresa (Giunti). Sono seguiti, per Feltrinelli, La terra dei dinosauri (1998) e i romanzi per ragazzi Il licantropo (2002) e Cola Pesce (2004). Nel 2006 è uscita per minimum fax la raccolta di racconti Pecore vive. Per Laterza è autrice del reportage L’infanzia è un terremoto (2008). Emanuele Trevi (Roma 1964). Ha scritto i saggi Istruzioni per l’uso del lupo (Castelvecchi, 1995) e Musica distante (Mondadori, 1997) e il romanzo I cani del nulla, pubblicato da Einaudi nel 2003. Per Laterza è autore dei reportage Senza verso. Un’estate a Roma (2004) e L’onda del porto. Un sogno fatto in Asia (2005). Sara Ventroni (Roma 1974). Come poetessa ha pubblicato in varie riviste e antologie. Come performer ha partecipato ai maggiori festival nazionali e internazionali di letteratura, e ha vinto il primo poetry slam italiano. Per No Reply ha pubblicato nel 2005 l’opera teatrale Salomè. Per la collana Fuori Formato dell’editore Le Lettere è uscito Nel gasometro (2006). Nel 2009 è prevista per Rizzoli l’uscita del suo primo romanzo. Fabio Viola (Roma 1975). Ha scritto diversi racconti pubblicati in antologie e curato per Giulio Perrone Effetti collaterali. Dal caso Ricucci a Vanna Marchi. Con Cristiano de Majo ha scritto il reportage narrativo Italia 2 (minimum fax, 2008).