Dimmi come ti chiami e ti dirò perché. Storie di nomi e di cognomi 8858106482, 9788858106488

Se pensi di scoprire in queste pagine quanto il tuo nome o cognome ti porterà fortuna oppure jella, se punti a sapere qu

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Dimmi come ti chiami e ti dirò perché. Storie di nomi e di cognomi
 8858106482, 9788858106488

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i Robinson / Letture

Enzo Caffarelli

Dimmi come ti chiami e ti dirò perché Storie di nomi e di cognomi

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione marzo 2013

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Edizione 5 6

Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0648-8

Indice

Prologo 3 Presentazione di un onomasta, p. 5 - Ma se io mi chiamo..., p. 7 - Consolatio nominum, p. 10

Storie di nomi

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Un problema aperto: il nome del nome, p. 12 - Le lingue d’origine dei nostri nomi, p. 13 - I nomi augurali e gratulatori, quelli del «buon cambio» e quelli del disappunto, p. 17 - Al festival delle grafie, p. 20 - Follie onomastiche e complicità mediatiche, p. 22 - Il mercato dei nomi personali, p. 27 - Asia e Andrea, due gatte da pelare, p. 29 - Quando il nome diventa tabù, p. 33 - Il repertorio non si riduce, p. 37 - Lo chiameremo Andrea (come migliaia di altre famiglie), p. 38 - Il concetto di moda onomastica, p. 42 - La sindrome della regina, p. 45 - Il declino di un nome, p. 46 - L’età media di un nome, p. 49 - Allarmi ingiustificati, p. 54 - Come scegliere il nome, p. 55 - Femminili da maschili e viceversa, p. 57 - Il significato dei nomi, p. 58 - La nostra vita influenzata da un nome?, p. 60

Storie di cognomi

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Attaccati al cognome come cozze allo scoglio, p. 64 - Come, quando, dove e perché sono nati, p. 66 - Se il cognome riacquista senso: «Questo nome non mi è nuovo...», p. 70 - Da dove derivano i nostri cognomi, p. 71 - La -i finale: il marchio italiano (ma fino a un certo punto), p. 79 - Nomi che perdono la testa e acquistano la coda, p. 80 - L’etimologia, ossia che cosa significa(va)no, p. 83 - La motivazione, cioè perché sono stati imposti, p. 87 - Il cognome tra appartenenza e alterità, p. 89 - Perché tanti cognomi in Italia, p. 91 - Dalla A alla Z, ma che razza di mestiere facevano i nostri avi?, p. 94 - La prepotenza del signor Mario Rossi, p. 97 - Cognomi migranti, p. 101 - I cognomi dei «nuovi italiani», p. 104 - Bricolage onomastico, p. 108 - Saperne di più, p. 118 ­­­­­V

Cambi, scambi, invenzioni

120

Quando il cognome inganna: apparenze e significati, p. 120 - I cognomi dall’accento fuori posto, p. 125 - Cognomi commestibili, geometrici, stellari, chimici, numerali, musicali, automobilistici..., p. 129 - Il cambiamento di cognome, p. 135 - Come cambiare il proprio nome, p. 138 - Nomi e cognomi inventati, p. 140 - Che fine fanno i cognomi?, p. 147 - Lessicalizzazioni e transonimie, p. 150 - Cognomi in strada, p. 155 - Cognomi nel vocabolario, p. 160 - Parole in viaggio, p. 165 - Ma i cognomi possono anche sparire, p. 170

Congedo 173 Chiusa, p. 173 - Cordiali saluti, p. 173 - Finale, p. 174 Finis, p. 174 - E allora... Amen, p. 174 - Salve, p. 176 - A presto, p. 176 - Ciao, p. 176 - Un abbraccio, baci, p. 176 - Buonanotte, p. 177 - Addio, p. 177

Dove trovare altre storie di nomi e di cognomi

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Dimmi come ti chiami e ti dirò perché

Prologo

Mario Rossi non è mai stata l’accoppiata nome-cognome più frequente in Italia. Il cognome Barési non esiste: in realtà va pronunciato Bàresi con tutt’altro significato da quel che si crede. Nel XX secolo sono stati assegnati in Italia 67 diversi diminutivi del nome inglese Kathreen, ciascuno almeno a 5 bambine. La -i finale, sempre statistiche alla mano, non è il marchio dominante del repertorio dei cognomi italiani. Cognomi come Lombardo, Greco, Albanese, ecc. non necessariamente indicano provenienza degli avi dalle terre indicate. Non tutti i discendenti di trovatelli si chiamano Esposito; i cognomi inventati a tavolino sono varie migliaia, compreso Eco. «Ma professore – potrebbe obiettare l’editore o anche il lettore –, se si brucia tutte le curiosità, se si gioca i jolly nella prima pagina, poi non val la pena leggere il libro». Non c’è da preoccuparsi. L’onomastica è talmente piena di sorprese e di curiosità che qualche notizia può essere data anche in apertura. E poi ogni affermazione andrà spiegata e motivata. Piuttosto, se pensate di scoprire in queste pagine quanto il vostro nome o cognome vi porterà fortuna oppure jella, se puntate a sapere quale numero giocare al lotto in base a come vi chiamate, potete fare una cosa sola: riporre delicatamente il volumetto nello scaffale della libreria. O abbozzare un sorrisetto di circostanza all’amico o amica che ve l’ha regalato, magari conservando la carta che lo avvolgeva (non si sa mai). Questo è un libro serio, non di onomanzia ma di onomastica. L’onomastica sta all’onomanzia come l’astronomia all’astrologia e la medicina prognostica alla cartomanzia. Dunque 3­­­­

il titolo è sbagliato? Lo sarebbe, fatta salva l’ironia, se fosse «dimmi come ti chiami e ti dirò chi sei». Quanto al perché, invece, l’onomastica può essere d’aiuto, rivelandoci su basi scientifiche – storiche, linguistiche, demografiche, statistiche, ecc. – tante informazioni sorprendenti che riguardano da vicino le nostre origini, il nostro posto nella società, il modo di parlare e di pensare, i rapporti affettivi che ci circondano. Alcuni nomi di battesimo, ad esempio, indicano con una buona approssimazione l’età di una persona. I cognomi segnalano da dove provengono i nostri antenati, dove il nome di famiglia si è formato e fissato: almeno una regione, una provincia, qualche volta perfino il comune. La stessa nascita del cognome s’intreccia con i mestieri, le cariche onorifiche, i nomi di luogo, l’aspetto fisico della persona da cui ha avuto origine, l’economia di una comunità. Nomi e cognomi ci narrano momenti precisi della nostra civiltà: l’evolversi nei secoli della vita sociale, dei culti religiosi, delle relazioni interpersonali, del valore stesso della vita. Sono parte delle nostre radici. E – come ripetono spesso sociologi, psicologi e pedagogisti – senza radici e senza passato è difficile capire il presente e progettare il futuro. Dunque possiamo sapere perché ci chiamiamo come ci chiamiamo? Verrebbe da rispondere: ovvio. Il nome l’hanno scelto i genitori. E i cognomi sono quelli dei progenitori e non si possono cambiare. Allora a che serve un libro come questo?, incalzerebbe l’amico del giaguaro. E in effetti: perché i genitori hanno scelto il nome che portiamo e non un altro? Tempo fa all’Università La Sapienza di Roma distribuii un questionario sul nome di battesimo. Tra le domande c’era proprio questa. Alcuni studenti mi chiesero di poterlo restituire, compilato, alla lezione successiva. Dovevano conoscere il motivo da papà e mamma. In venti o più anni non ci avevano mai pensato. E le risposte non furono sempre appropriate, anche se tutte in buona fede s’intende: molti, infatti, risposero «perché era un nome originale». Ma, liste alla mano, fu facile controllare che invece – negli anni di nascita degli 4­­­­

studenti – il loro nome era già tra i primissimi nelle graduatorie di frequenza. Certo, i genitori potevano benissimo non saperlo, o meglio non essersene resi conto. E ai progenitori com’è stato affibbiato il cognome che ancora portiamo? Perché avevano un soprannome o un nome di luogo o una denominazione di mestiere che si sono tramandati nei secoli? Perché alcuni nomi personali hanno generato decine o centinaia di cognomi differenti e altri neppure uno sparuto nome di famiglia? Perché certi luoghi e non altri? Perché certe attività artigianali o agricole sono largamente presenti nel repertorio dei nostri cognomi e altri mestieri no? Dipende dall’epoca in cui si sono formati i cognomi? Presentazione di un onomasta A questo punto, il lettore permetta che io mi presenti. L’anagrafe riporta per esteso: Vincenzo [virgola] Giuseppe Giorgio Raimondo Caffarelli; omette il titolo dei Baroni di Guzman, appartenente a un ramo collaterale della famiglia (concesso all’avo niente meno che da Filippo II re di Spagna con privilegio reale del 17 agosto 1658 e riconosciuto dallo Stato italiano nel 1910); omette, s’intende, anche la forma accorciata con cui ho scelto d’esser chiamato nella mia vita privata e pubblica: Enzo. Ebbene, delle voci che compongono la mia catena onomastica, Vincenzo è – come si sa – nome latino, dal participio presente vincens/-entis, divenuto nome di famiglia con il suffisso -ius, Vincentius ‘vincitore, che vince’. Giuseppe è ebraico e il suo etimo è il verbo yasaph ‘aggiungere, accrescere’, da cui il senso augurale e gratulatorio di ‘(Dio) accresca/ha accresciuto (la nostra famiglia)’. Giorgio proviene dal tardo greco e bizantino Gheoˉ’rghios, a sua volta dal greco antico georgós ‘agricoltore’. Raimondo è germanico, formato come ogni nome longobardo e franco da due basi, qui *ragin- o *ragan‘consiglio (divino)’ e *munda- ‘difesa, protezione’, dunque 5­­­­

col valore complessivo di ‘(chi, che) protegge con il consiglio (degli dèi)’. Caffarelli è cognome derivato da un nome arabo d’origine soprannominale, una forma alterata con -ello del personale Caffaro: la voce kafar valeva ‘infedele’ dal punto di vista musulmano, dunque ‘cristiano’. Infine, Guzman è forma iberica, giunta in Italia come nome di famiglia o predicato nobiliare, indicante un nome di luogo, un feudo della provincia di Burgos, forse a sua volta da un nome di persona germanico composto con *guth- ‘buono’ e *mann ‘uomo’. Quanto a Enzo, pur essendosi imposto in Italia quale forma raccorciata di Vincenzo (e, più raramente, di Lorenzo), corrisponde allo svevo Heinz, a sua volta da Heinrich (*haimi- + *rikja- col significato di ‘potente in patria’) e quindi equivalente a Enrico. Ora, casualmente dal punto di vista della singola catena onomastica individuale, però non casualmente nella prospettiva dell’onomastica personale italiana, secoli di storia e ben sei differenti strati linguistici si alternano e sovrappongono nei nomi che mi appartengono. Non basta: ciascuno di questi nomi esprime in modo esemplare lo spirito delle popolazioni e delle culture a cui fa riferimento e di cui l’onomastica risulta un riflesso fedele. In altre parole: Vincenzo contiene lo spirito di conquista e di vittoria che fu proprio dell’animus pugnandi di Roma antica, ereditato poi dai cristiani dei primi secoli nella quotidiana lotta contro il peccato e i pagani persecutori. Giuseppe richiama l’importanza vitale che per la società ebraica rivestivano la discendenza, la continuità e la crescita della propria famiglia, e ci ricorda come ciò fosse attribuito alla volontà divina. Giorgio rispecchia un’intera epoca, quella agricola, della storia della Grecia antica. Raimondo è un sigillo onomastico di popoli la cui esistenza fu segnata dalle polarizzazioni movimento/stanzialità e guerra/pace, legate alla protezione e al consiglio degli dèi che ne regolavano le decisioni. Caffarelli da Caffaro riflette, invece, la dualità fedele/miscredente che fu la molla dell’espansionismo religioso e politico delle popolazioni arabe medievali (e non solo). Guzman, infine, di6­­­­

venuto anche nome comune per ‘valoroso’ e dal Cinquecento per ‘nobile al servizio dell’armata reale’ o ‘soldato scelto’, cristallizza il ruolo e l’importanza del ceto nobiliare e di quello militare nel Regno di Castiglia e d’Aragona agli inizi dell’era moderna. L’analisi potrebbe farsi più articolata se si considerasse Caffaro derivato dal nome comune caffo ‘numero dispari’ e nell’italiano antico equivalente a ‘senza pari, unico’, e se, al contrario, Guzman non foss’altro che un Kuzman con cui gli Arabi rendevano il greco bizantino Kosmâs, ossia Cosma. Ma se io mi chiamo... Qualcuno obietterà che il signor – prendiamo un nome a caso – Mario Monti non offrirebbe le stesse possibilità di analisi. Si dirà: Mario è il maschile di Maria e Monti segnala che l’avo era sceso da un monte. Che altro aggiungere? Le cose, però, non stanno proprio così. Tanto per cominciare, Mario è nome d’origine etrusca – di significato non del tutto chiarito, forse legato a una carica sacerdotale – e non ha nulla a che spartire con Maria. Il che ci porta a notare quanti nomi appaiano strettamente legati ad altri simili senza esserne neppure lontani parenti. Martina non è il diminutivo di Marta: questo è un nome orientale e significa ‘principessa’; quello è il femminile del latino Martinus, ossia ‘devoto al dio Marte’, cugino stretto semmai di Marco, che deriva da Marticus dopo la caduta della sillaba centrale non accentata. Eva è un altro nome ebraico reinterpretato già nella Bibbia come ‘madre dei viventi’, mentre Evelina è normanno e vale più o meno ‘ringraziamento’. Rosalia viene dal mondo germanico, da Rocelin; non ne conosciamo il significato, ma certamente non è un composto di Rosa più Lia. Simone deriva dal greco símos ‘che ha il naso camuso’, per indicare una caratteristica del volto, mentre Simeone è l’ebraico Shime’on, da shama ‘ascoltare’, con valore di ‘(Dio ha) ascoltato’, sottinteso ‘concedendoci un figlio’. E il nome italiano più diffuso tra quelli adespoti, ossia privi 7­­­­

di un santo patrono, Enzo, non è – come abbiamo appena visto – parente di Vincenzo. Un nome come Mario ci dice, inoltre, che nel XXI secolo usiamo ancora i nomi ereditati dalle popolazioni che abitarono l’Italia prima dei Romani: Etruschi, Sabini, Umbri, Messapi. Nel Medioevo Mario scomparve, per riemergere in tempi di Umanesimo e Rinascimento. Ma ha dovuto attendere gli ultimi decenni dell’Ottocento per diventare un nome di moda (già, anche i nomi hanno le loro mode, ne parleremo distesamente più avanti). Se ne appropriò perfino un grande onomaturgo, un creatore di nomi come Gabriele D’Annunzio, che nel 1884 lo scelse per il suo primogenito, spiegando in una lettera all’amico Pepe: «Mi sarebbe parsa una posa mettergli un nome ricercato. Bellerofonte ti sarebbe piaciuto? O Draghignazzo o Zorobabele?». È vero che tra Mario e Zorobabele esiste qualche via di mezzo, ma tiriamo innanzi per dire che Mario ha conosciuto il massimo successo nella prima metà del Novecento. E nonostante l’elevata diffusione, non ha ancora subìto un degrado semantico, ossia non è sceso lungo la scala sociale (vedremo poi di che cosa si tratta). Se non forse in America: si dice che George Bush padre, avversario dell’ex governatore dello Stato di New York Mario Cuomo (cognome tipicamente campano, da Cosimo), ebbe l’idea di chiamarlo spesso non «governatore» o «Cuomo», ma confidenzialmente «Mario», nome che in una certa America rievocherebbe lo stereotipo fortemente negativo dell’italoamericano un po’ cafone e un po’ mafioso. In Italia – e non solo – invece il 2012 è stato l’anno dei Supermario: Monti, Draghi e Balotelli. E chissà che il successo internazionale di questi tre Mario italiani non riesca a rilanciare il nome verso i primi posti della Hit Parade onomastica. E veniamo al cognome Monti. Il significato è trasparente, ma la motivazione? Intanto potrebbe derivare da un nome di luogo oppure da un soprannome. Nel primo caso, non solo una montagna o un’altura generica, ma anche un pae8­­­­

se chiamato Montequalcosa: questo potrebbe essere uno dei motivi per cui i signori Monti in Italia sono così tanti – almeno 27 mila – e si trovano numerosissimi in Emilia-Romagna, Lombardia, Lazio e in genere nel Centro-Nord, con il valore più elevato a Roma (ma gruppi consistenti risiedono anche a Napoli e a Palermo). In alternativa, questo cognome potrebbe essere il risultato della riduzione di un nome più lungo: come i medievali Brunamonte, Chiaramonte, Fieramonte (dal francese Floramont, personaggio dell’epica cavalleresca), o come il soprannome Passamonte, assegnato a chi viaggiava per commerci traversando valichi di montagna. Infine – terza ipotesi – alcuni nomi in -mondo, d’origine germanica, come Raimondo o Alimondo o Baiamondo o Brunamondo, possono essersi modificati per l’influenza della terminologia geografica, riducendosi alle due ultime sillabe (la controprova è la presenza, numerosa, del cognome Alimonti nel Lazio e in Abruzzo, di Baiamonti in Sicilia, di Biamonti in Liguria, ecc.). Certo è che anche il solo Monte divenne nel Medioevo nome personale, favorendo l’ulteriore fissazione del cognome con -i finale. Già, perché non si deve pensare che un nome di famiglia sia nato una sola volta da un unico individuo e di lì si sia propagato in tutta Italia. Questo vale soltanto per i cognomi rari e in genere concentrati in un territorio ristretto. Nel caso di alte e medie frequenze, va invece ipotizzato che il cognome si sia fissato più volte nel tempo e nello spazio: è quel che si dice un nome di famiglia poligenetico. Non dovreste dar retta a certi computer sulle bancarelle delle fiere che pretenderebbero, dietro esborso di non pochi euro, di assicurarvi il luogo da cui dovrebbero con certezza provenire i vostri avi, anche nel caso portiate un cognome diffusissimo come Bianchi o Ferrari. Quand’anche Monti indicasse semplicemente il ‘montanaro’, si aprirebbe uno squarcio su una delle questioni più affascinanti del repertorio dei cognomi italiani (ed europei e occidentali in genere): la suddivisione tra cognomi d’inclu9­­­­

sione e cognomi d’esclusione. Ovvero le due polarità fra le quali si gioca tutto il sistema dei nomi di famiglia. Che in alcuni casi indicano appartenenza alla comunità, alla famiglia, alla vita sociale e alla normalità di un gruppo di persone. In altri, all’opposto, segnalano e ironizzano o stigmatizzano l’alterità, la provenienza da altrove, la devianza rispetto alla norma. Da questi due poli non si scappa, anche se – come vedremo in seguito – le ambivalenze e le eccezioni non sono poche. Consolatio nominum Fin qui ci ha condotti il nome + cognome Mario Monti. Ma dovete fidarvi: si potrebbe scrivere un libro come questo per ciascuno dei vostri nomi e cognomi. Scoprendo stranezze imprevedibili, errori di pronuncia impensabili, significati differenti dalle apparenze, che – in certi casi – possono anche alleviare il peso di un nome o di un cognome portati con fastidio e imbarazzo. Ma è questa la magia del nome che alcuni poeti e scrittori hanno decantato? No. Qui siamo ancora alla semplice etimologia. Qualcosa di fiabesco, tuttavia, possiamo trovarlo anche tra le pieghe dei dizionari e della storia della parole. Un giorno una studentessa si alza durante la lezione del corso di onomastica e mi fa, tra il depresso e l’incavolato: «Scusi professore, ma io mi chiamo Gioia Collabolletta. Cosa ci trova di tanto magico?». Un bravo onomasta può spiegare a memoria un migliaio di cognomi, consultando un buon dizionario può arrivare forse a 10-20 mila; però i cognomi italiani sono oltre 300 mila: il rischio di una brutta figura è dietro l’angolo. Ebbi una pausa d’esitazione, poi – insperato colpo di fortuna – l’intuizione: «Cara Gioia, non so che cosa le abbiano detto finora. Ma nel suo cognome si colgono due elementi. Còlla è una variante dell’italiano antico per ‘colle’. Del resto il diminutivo, in origine un aggettivo, si è fissato al femminile: collina. E bolletta è una forma suffissata di bolla, ossia polla, polla d’acqua. Dunque il suo nome di famiglia 10­­­­

è un nome di luogo e indica provenienza da un’altura dove sgorga una sorgente». La studentessa sorrise, mi guardò con ammirato stupore, quasi l’avessi liberata da un pesante fardello. Per una volta mi sentii come il principe azzurro che aveva baciato la principessa dormiente sotto le spoglie di un rospo. E da allora ho scoperto il valore terapeutico dell’onomastica consolatoria. Quella che permette di offrire un piccolo sostegno psicologico-linguistico ai signori Feci, Puzzone, Lardo, Suino, Mezzasalma, Cazzato, Fallo, Pesante, Rosolia, Sesso, Muoio, e agli altri che incontreremo nel capitolo sui cognomi ingannevoli, che in realtà vogliono dire tutt’altro. Finalmente anche voi che portate questi sciagurati nomi di famiglia, dopo aver declinato le vostre generalità, potrete formulare la celebre frase che ripete chiunque sia scoperto a letto con l’amante: «Oh no, non è come sembra».

Storie di nomi

Un problema aperto: il nome del nome Il nome è una cosa serissima. Talmente seria che non sappiano neppure come chiamarlo. Il nome, intendo. Non esiste un termine unico e condiviso per intendere cosa siano Giuseppe, Maria, Giovanni, Antonio, Luca. Nell’italiano si usa generalmente e semplicemente «nome» («Mi dica nome e cognome», «Questo è il cognome, ma il suo nome?»). Tuttavia nome è una voce di significato più ampio, che comprende non solo i nomi propri, ma anche i sostantivi appartenenti al lessico di una lingua, ossia i nomi comuni. Per evitare equivoci, suol dirsi spesso «nome di battesimo» (e molti anglofoni parlano di Christian name). Ma se intendiamo il battesimo come sacramento e atto liturgico, è evidente che ciò vale in alcuni àmbiti e non in altri. Solo se consideriamo, metaforicamente, il battesimo come atto onomaturgico tout-court, possiamo ricorrere ovunque a questa definizione. Altre difficoltà insorgono usando primo nome (l’inglese first name, in opposizione al cognome che è il family name o il last name). In numerose lingue orientali, ma anche nell’ungherese, la rigida prassi è infatti quella di anteporre il nome di famiglia al nome individuale. C’è poi chi chiama il «nome» nome personale; indicazione utile ma anch’essa un po’ ambigua, perché nomi personali sono anche gli altri antroponimi (dal greco àntropos ‘uomo’, dunque ‘nomi di persona’): il cognome, il soprannome individuale e di famiglia, il nome d’arte, lo pseudonimo, ecc. La 12­­­­

formula prenome (francese prénom, tedesco Vorname, latino praenomen), se allude alla posizione nella catena onomastica, raccoglie le medesime obiezioni. Inoltre può dare l’idea di essere qualcosa che viene prima del nome anche in altro senso, come se ancora non fosse un autentico nome pieno di significato. Insomma, il nome non ha ancora un nome: è questa la magia dell’onomastica? Le lingue d’origine dei nostri nomi Consultiamo la classifica dei nomi imposti con maggior frequenza ai nuovi nati in Italia negli ultimi anni. Tra quelli femminili, Sofia ha origini greche, Giulia latine, Sara ebraiche, Alessandra asiatiche, Francesca è frutto delle parlate italiane medievali, che chiamavano francesco ciò che era francese, così come dicevano tedesco, o turchesco per ‘turco’ e perfino inghilesco per ‘inglese’. Altrettanto italiano è Chiara, mentre Emma è germanico per etimologia lontana, ma diffuso in tempi moderni attraverso l’inglese. Martina è il femminile d’un nome latino, ma è giunto a noi in anni recenti dai Paesi dell’Europa centrale, specie Germania e Francia (Martine, con diversa pronuncia ovviamente). In campo maschile, Matteo e Mattia, varianti dello stesso nome, sono ebraici così come altri nomi in -eo e in -ia che non hanno avuto la stessa fortuna (attenzione però all’ascesa di Elia), ed ebraici sono Gabriele, Daniele e gli altri in -ele, cioè Michele – anche quando diventa Michael e perfino, non di rado, Maicol –, Emanuele, Raffaele, Gioele, Ezechiele (l’ultimo con poche chances di raggiungere il grande successo, complice il lupo cattivo dei tre porcellini di Walt Disney). Ebraico è anche Simone; Andrea è d’origine asiatica, Luca greco, Marco latino, Federico longobardo. Insomma, il giorno in cui in Italia ai vertici delle classifiche troveremo, ormai radicati, anche nomi come Mohammed e la sua famiglia – lo zio Hamza, le mogli Kadija, Aisha e Zaynab, i nipoti Hosan e 13­­­­

Huseyn figli di Fatima e di Ali, i condottieri e califfi Khalid, Usman, Walid, ecc. –, magari con qualche -h- o -y- di meno, potremo dire: «nulla di nuovo sotto il nostro sole». La grandezza dei Romani, insegnano gli storici, fu anche quella di prendere il meglio di ogni civiltà con la quale venivano in contatto. Imponevano il loro potere e le loro leggi, ma attingevano alla cultura e ai costumi altrui. Anche all’onomastica degli stranieri. Fu così che vennero latinizzati tanti nomi dei popoli che abitavano il territorio italiano – in primo luogo i vicini Etruschi – e di popoli con i quali gli scambi d’ogni genere erano frequenti, soprattutto i Greci. E infatti sono etruschi molti nomi a noi molto familiari anche se non tutti chiari nel loro significato: Antonio, Camillo, Emilio, Fabio, Fabrizio, Mario, Orazio, Sergio, Tarquinio, Tullio. È punico-cartaginese non solo Annibale ma anche Cesare. Appartenevano ai Sabini Aurelio, Quirino e Tito; agli Oschi Alfio, Biagio, Clelia, Pompeo; ai Messapi Ennio. Poi i Romani ci hanno messo abbondantemente del loro: Adriano, Augusto, Cornelio, Emiliano, Fausto, Flaminio, Flavio, Fulvio, Giulio e Giuliano, Lucio e Luciano, Manlio, Marco con Marciano e Marcello, Martino e Marzio, Paolo, Pio, Quinto, nonché – più frequenti dopo il recupero umanistico-rinascimentale che nell’antichità – Attilio, Claudio, Livio e gli stessi Romolo e Remo. Intanto s’erano aggiunti i nomi tipici della devozione augurale dei primi cristiani, come Amabile e Amato, Colomba, Fedele, Felice, Fortunato, Generoso, Giustino, Liberato, Renato, Severo e, insieme a questi, i nomi greci della devozione cristiana: Agnese, Anastasio, Angelo, Calogero, Ciriaco, Cristoforo, Epifanio, Eusebio, Geronimo, Luca, Nicola, Teodoro, Stefano. Dal repertorio greco e asiatico vengono inoltre Alessandro, Dario, Damiano, Eugenio, Filippo, Ilario, Pancrazio, Sebastiano, mentre con la riscoperta umanistica dei classici furono riusati Achille, Agamennone, Aristotele, Cinzio, Ettore, Elena, Enea, Oreste, Ulisse, solo per fare alcuni esempi. 14­­­­

Un altro stock di nomi è quello d’origine ebraica o comunque asiatica, entrato nella lingua italiana attraverso il latino o il greco della liturgia e delle letture sacre: Daniele, Davide, Emanuele, Giacomo, Giovanni, Maria, Matteo e Mattia, Michele, Simone; sono invece rimasti per secoli legati soprattutto alle comunità ebraiche nomi come Abramo, Geremia, Esaù, Ester, Giosuè, Giuseppe, Isaia, Rebecca, Salomone, Samuele, Sara, Zaccaria. Solo alla fine del Medioevo, hanno avuto fortuna i nomi dei parenti di Maria (Anna, Gioacchino, Elisabetta) e quelli dei Magi (Baldassarre, Gasparre, Melchiorre). Nei nomi ebraici ci sono elementi ricorrenti anche se non sempre riconoscibili: ’El da ’Eˉloˉhıˉm è un modo di chiamare Dio e lo si ritrova in Elia, Elisabetta, Eliseo, Daniele, Emanuele, Ezechiele, Gioele, Michele, Raffaele, Samuele; lo stesso vale per Yah da Yaˉhweh, che incontriamo in Ezechia, Geremia, Gesù, Gioacchino, Gioele, Giosafatte, Giosuè, Giovanni, Isaia, Malachia, Mattia; ysh‘/hoˉshuˉa‘ significa ‘salvare, salvezza’ e compare in Eliseo, Gesù, Giosuè, Isaia; haˉnan ‘misericordia’ in Anna e Giovanni, matath ‘dono’ in Matteo e Mattia, haˉzaq ‘essere forte’ in Ezechia ed Ezechiele, ben ‘figlio’ in Beniamino e Ruben. Ma caliamoci nuovamente nell’atmosfera del Medioevo perché con i cosiddetti barbari – le popolazioni germaniche che invasero la penisola – sono penetrati sul suolo italiano centinaia di nomi, molti ancor oggi diffusissimi, altri sopravvissuti nei cognomi. In onomastica, si potrebbe dire, continuiamo a parlare ostrogoto, longobardo e franco (e poi normanno). La straordinaria diffusione di nomi come Federico, Ranieri, Roberto indica la profonda infiltrazione nell’onomastica del territorio, dovuta alla progressiva fusione – sul piano culturale e religioso – di quelle popolazioni con le popolazioni indigene. I popoli germanici, e su tutti i Longobardi, rappresentarono in ampi territori della penisola l’elemento dominante. I loro nomi furono percepiti come prestigiosi (gli invasori erano pochi, ma avevano il potere) e dunque furono adottati anche dalla popolazione indigena. La conversione 15­­­­

al Cristianesimo dei discendenti di Alboino e la presenza di numerosi santi con nomi germanici favorì la fusione delle due tradizioni onomastiche, quella pagano-germanica e quella latino-cristiana. Nella stessa famiglia il padre poteva portare un nome d’origine latina, il figlio uno d’origine bizantina e il nipote uno d’origine germanica. Allo strato longobardo si riconducono Adalberto, Aldo, Anselmo, Goffredo, Romualdo; a quello franco Alberto, Guglielmo, Ludovico, con Luigi, Carlo, Franco, Rinaldo, Umberto. A quello visigoto, giunto in Italia in epoca successiva attraverso la Spagna, Alfonso e Alvaro. In questo gruppo si collocano anche forme di varia origine, rese familiari in Italia dalla letteratura popolare dei cicli epico-cavallereschi, carolingio e bretone: Fioravante, Orlando e Rolando, Oliviero, Ruggero, Tancredi, Tristano. In genere tutti i nomi composti con -aldo (e -audo), -ando, -ardo, -baldo, -berto, -elmo, -lando sono tipici dello strato germanico. Questi nomi, infatti, sono formati perlopiù da due elementi, alcuni dei quali ricorrenti, in prima o in seconda posizione. Prendiamo ala che vuol dire ‘tutto, intero’. Lo troviamo in Alarico, Alberto, Alvaro; athala ossia ‘nobiltà di stirpe’ in Ada, Adele, Adalberto, Adalgisa, Adelchi; baltha ‘forte, audace’ in Arcibaldo, Garibaldo, Rambaldo, Tebaldo, Ubaldo, Baldovino, Baudolino; berhta ‘illustre, famoso’ in (Ad)alberto, Cuniberto, Dagoberto, Eriberto, Filiberto, Gilberto, Gualberto, Lamberto, Norberto, Rigoberto, Roberto, Uberto, Umberto, Bertoldo, Bertolaso, Bertrando; frithu ‘amicizia, pace, sicurezza’ in Alfredo, Chiaffredo, Goffredo, Loffredo, Federico, Fer(di)nando, Frediano, Frida; gair(a) ‘lancia, giavellotto’ in Garibaldo, Gerardo e Gherardo, Gertrude, Elvira, Berengario, Edgardo, Ruggero; hardhu ‘forte, valoroso, duro’ in Berardo e Bernardo, Everardo, Eraldo, Gerardo e Gherardo, Leonardo, Leopardo, Mainardo, Riccardo; hrot ‘fama, gloria’ in Roberto, Rodolfo, Rodrigo, Rolando e Orlando, Romilda, Romualdo, Rosmunda; hugu ‘pensiero, senno’ in Ubaldo, Uberto, Ugo; munda ‘protettore, difensore’ in Arimondo, Edmondo, Rai16­­­­

mondo, Rosmunda, Sigismondo; rikja ‘signore, re, potente’ in Alberico, Amerigo, Arrigo, Enrico, Federico, Teodorico, Ulderico, Rodrigo; walda ‘che domina, che ha il potere’ in Arnaldo, Aroldo, Bertoldo, Giraldo, Grimaldo, Rinaldo, Romualdo, Gualberto, Gualfredo, Valdemaro. Una fusione analoga a quella realizzata con i Longobardi e altri «barbari» non fu possibile con gli Arabi. Questi hanno influenzato in modo notevole il lessico italiano: navigazione (ammiraglio, darsena), commercio (dogana, gabella, magazzino, tariffa), astronomia (zenit, nadir), chimica (alambicco, amalgama, elisir), matematica (cifra, algebra), frutta e verdura (arancia, limone, albicocca, spinaci, carciofo), ecc. Ma non hanno lasciato tracce nei nomi di persona. Gli Arabi, infatti, non si fusero con le popolazioni indigene sul piano religioso e lo fecero in minima parte sul piano sociale. I loro nomi non si intrecciarono con quelli latini o greci o germanici, né vi furono santi cristiani con nomi arabi. L’elevato numero di cognomi d’origine araba ancora vitali, soprattutto in Sicilia, deriva dal lessico comune (mestieri, colori, oggetti, ecc.) più che da nomi personali. Anche se in realtà almeno un’eccezione c’è: Meschino, in origine nome di persona, poi degradato nel significato e abbandonato dall’onomastica. I nomi augurali e gratulatori, quelli del «buon cambio» e quelli del disappunto Il panorama dei nomi di persona medievali non sarebbe completo senza citare le formule soprattutto descrittive, augurali e gratulatorie, sia teoforiche (letteralmente ‘portatrici di Dio’, ossia contenenti il Suo nome) sia laiche, tipiche soprattutto della Toscana medievale e dell’Italia centrale. Dopo il 1000, e specie dal XII secolo, lo stock onomastico – ossia il repertorio a disposizione delle famiglie per dare un nome ai figli – si era drasticamente ridotto. Della classicità latina ci si era quasi dimenticati. I santi venerati erano un numero assai ristretto, con Giovanni (il Battista) in primo piano 17­­­­

per gli uomini e Maria per le donne. San Francesco e sant’Antonio dovevano ancora nascere e Giuseppe non sarebbe uscito dal ristretto àmbito delle comunità ebraiche almeno fino al Concilio di Trento (con una diffusione davvero ampia non prima del XVIII secolo). Anche i nomi dei sovrani popolari in tutta Europa si potevano contare sulle dita di una mano. I nomi germanici non godevano più del prestigio di un tempo: erano tramontati assieme al potere dei loro primi portatori, a meno che non fossero stati adottati da qualche santo. In attesa dei grandi santi degli ordini mendicanti – Francesco, Chiara, Bonaventura, Domenico, Antonio, ecc. – il popolo s’inventò nomi trasparenti, gratulatori e augurali. Nomi che segnalavano con parole del lessico comune la gioia della famiglia per il nuovo nato, l’augurio per una vita piena di successo, il conforto morale ed economico che l’ultimo arrivato rappresentava per i genitori. Si tratta di nomi come Amadeo, Crescimbene, Diotifeci, Graziadei, Ognibene, Receputo, Salimbene. Alcuni soprattutto descrittivi: Allegro, Altobella, Caradonna, Cortese, Fiore, Gemma, Grazia; altri allusivi al beneficio e all’arricchimento della famiglia grazie al nuovo arrivato: Amico, Bencivenga e Bencivenni, Benenato, Benincasa, Benvenuto, Bonaccorso, Bonagiunta, Bonaiuto, Boncompagno, Bonora, Buontempo, ecc. Un drappello di questi nomi ha un significato particolare. Lo ricostruiamo a partire da cognomi odierni quali Tornabene, Tornincasa, Recupero, Risalito, Rinato, Rifatto, Ritrovato, Ritorno, Ristoro, Conforto, Rimedio. Che cosa significavano? È noto che in epoca medievale le condizioni igieniche in cui versava gran parte della popolazione, le scarse risorse della medicina, il susseguirsi di carestie, epidemie e guerre rendevano molto elevata la mortalità infantile. Ebbene, tanti nomi dati ai secondo-, terzo-, quartogeniti, che venivano a sostituire le sorelline e i fratellini morti in precedenza, indicavano il risarcimento da parte di Dio o del destino rispetto a un figlio premorto. La restituzione di un bimbo prematuramente scomparso era un evento da ricordare per tutta la vita. 18­­­­

E così la famiglia esprimeva, attraverso l’onomastica, la sua soddisfazione, anche misurando il valore della sostituzione: Paribono, Paribello, Buoncambio, addirittura Migliore. Da cui i cognomi Cambi, Parboni, Paribelli, Migliorini, Migliorati... Non sempre il nuovo nato era benvenuto, però. La prova è ancora una volta nei nomi: Perquezivenisti (ossia ‘perché ci sei venuto?’), che si legge in un documento toscano del Duecento, risponde a una formula decisamente antigratulatoria. Altri indicavano comunque rifiuto o accettazione controvoglia del nuovo nato: Aggravio, Malavolta, Maldonato, Malfatto, Maltempo, Nontivoglio, Soverchia, Orcibasta, Ultimo. A meno che non assumessero valore apotropaico, ossia di scongiuro e dunque, ancora una volta, di augurio. Uno solo tra questi «nomi del disappunto» è sopravvissuto fino al Novecento, quasi soltanto in Toscana: Finimola, ossia ‘smettiamola qui, tu sarai l’ultima’. Se incontrate il figlio o la figlia di una signora Finimola, chiedetegli/le quanti zii abbia. Un altro gruppo di nomi si deve alla popolarità della letteratura cavalleresca italiana, come Angelica, Fiordiligi o Rodomonte. A queste tipologie medievali si aggiungono più tardi i nuovi santi due-trecenteschi tra i quali Caterina. Poi i nomi di feste dell’anno liturgico o legati alla pratica del pellegrinaggio: Natale, Pasquale, Palma, Pellegrino, Romeo. E, qualche secolo dopo, quelli di una rinnovata devozione mariana: Addolorata, Annunziata, Assunta, Carmela, Concetta, Immacolata, Incoronata, Provvidenza, Purissima, Regina, Rosaria, ecc. Infine, specie nell’Ottocento e nel Novecento si sono diffusi nomi derivanti da personaggi della letteratura, del teatro di prosa e del teatro lirico – Aida, Amnèris, Desdèmona, Liù, Malvina, Ornella, Rossana, Vanessa, ecc. – e nomi derivanti da cognomi di personaggi della storia e della politica, da protagonisti dello sport e dello spettacolo, nomi ideologici da forme del lessico comune (Libertà, Riscatto, Idea, Avvenire, Progresso, ecc.) o da nomi di luogo a vario titolo significativi (Magenta, Solferino, Palestro, Marsala, Trento, Trieste, Pola, 19­­­­

Adua, Derna, Tripoli, ecc.), nonché i prenomi di moda d’origine francese, spagnola, inglese, tedesca, slava, scandinava. Troppi per ricordarli tutti. Ma vale la pena, in stile WWF, ricordare alcuni nomi in via di estinzione (almeno nel XX-XXI secolo, poi chissà): tra i greci e latini, Agàbito, Agamènnone, Caio, Epaminonda, Sallustio, Sempronio, Teseo, ecc.; d’origine ebraica o asiatica: Ananìa, Baldassarre, Maccabeo, Malachìa, Melchiorre, Salomone; germanici: Alamanno, Aldrovando, Annibaldo, Boccardo, Cuniberto, Einaudo, Farolfo, Garibaldo, Garimberto, Ghisoldo, Gimondo, Grimaldo, Guarniero, Lamperto, Lanfredo, Pandolfo, Rainero, Ribaldo, Rimoaldo, Sinibaldo, Sighinolfo, Tedaldo, ecc.; tutti quelli gratulatori e augurali del volgare medievale italiano: Accorso, Altobello, Avanzato, Benarrivo, Bentivegna, Bonacosa, Bonaiuto, Diotiguardi, Ricevuto, Ristoro, ecc. Se qualcuno di questi nomi vi risulta familiare, fateci caso: sono francamente scomparsi come nomi, ma sono ancora ben vivi come cognomi, qualcuno neppure raro. Al festival delle grafie Sara con -h finale e Sara senza. Debora con -h finale o senza. Ma anche Sahra, Sahara, Sarha, Debhora, Dehbora, e addirittura Deborach, Deborak, Deborath... con la -h- trasformata in una consonante a piacere. Anche Lahra, Thania, Nohemi. Ci sono nomi anagrafici modellati secondo il palato del singolo genitore. Viene in mente la richiesta di un cono gelato: «Con panna o senza?», chiede ritualmente il gelataio. Ed è come se qualcuno rispondesse: «Con panna, grazie. Ma a parte». Così con l’acca: l’ufficiale dello stato civile dell’anagrafe pone ligio la domanda. Il genitore si prende l’acca, gratho, e sceglie poi dove collocarla nella sequenza fonetica, anzi soltanto grafica, del nome della sua bambina. Che per tutta la vita dovrà specificare non solo «con l’acca», ma anche dove inserire quella lettera malefica che neppure si pronuncia. 20­­­­

Chiamarsi con un accorciamento inglese di Caterina, qualcosa come Katy o simili, è poi un rompicapo. Grazie ai dati del Ministero delle Finanze utilizzati nei due volumi I nomi di persona in Italia. Dizionario storico ed etimologico, scopriamo che all’anagrafe, nel corso del Novecento, sono state registrate non meno di 67 versioni differenti di questo diminutivo e ciascuna almeno 5 volte. Il semplice nome bisillabo slavo Katia, ossia un diminutivo di Caterina, è documentato nel XX secolo in Italia con 11 varianti – Catia, Cathia, Catja, Catya, Chatia, Cattia, Katja, Katya, Kathia, Kathya, Kattia – e con vari derivati e alterati – Katiana, Katica, Katina, Katinka, Katiuscia – l’ultimo dei quali registra addirittura 30 grafie diverse – per la cronaca: Catiuscia, Catuscia, Cadiuscia, Chatiuscia, Catiussa, Catyusca, Katuscia, Katusha, Katjuscia, Katyuschia, Katiuscja, Katiuscya, Katyuscia, Kathiuscia, Katiusha, Katjusha, Katyusha, Katiuschia, Katiussa, Katiusa, Katjusa, Katiuska, Katiuscha, Katyuscha, Katiuschka, Katjuska, Katiusca, Katuska e Katuschia – cui possono ancora aggiungersi Kate con altre 17 varianti (Katy, Kati, Katj, Kathy, Kathi, Katie, Kathie, Kety, Keti, Ketj, Katty, Kattj, Katti, Ketty, Ketti, Kettj, Kata). Aguzzate la vista, come fosse la «Settimana enigmistica», e provate a scoprire se ce ne sono due identici. Di fronte agli almeno 67 modi per dire Katia, e alle -h- vaganti di Sarah e Deborah, sembrano poca cosa le cosiddette grafie tendenzialmente fonetiche. Grafie che riprendono la pronuncia italiana di un nome straniero. Però forse val la pena di raccontare che si danno non pochi casi di Caren, Charon, Chelli, Daiana, Dilaila, Doroti, Genis, Gennifer, Laisa, Lusi, Monic, Quanita, Sindy, Stasy e poi di Ciarli (Braun, sì), Devid, Endriu, Entoni, Gheri (Cuper, ok), Saimon e Seimon, Semmy, Stiv e Stivi (Uonder, certo), Timoti, Uilliam (come Scecspir), ecc. Se una Cherolain mettesse su famiglia con un Maicol, possiamo suggerire i nomi dei figli? Recel e Raian parrebbero perfetti. D’altra parte dobbiamo abituarci a una certa liberalizzazione fonetica e grafica. Pensate che nel 2004, unico anno in 21­­­­

cui l’Istat ha computato i nomi di tutti i nuovi nati in Italia, le bimbe chiamate Sara(h) appartenevano a 47 nazionalità diverse. E non è difficile scoprire il perché: Sarah è ormai nome di consolidata tradizione americana e di qui è divenuto internazionale, come un Kevin o una Emma; dunque lo troviamo in Africa, tra gli ispanofoni, tra gli albanesi. Poi Sarah appartiene anche alla tradizione islamica, ed eccolo tra le neo­nate maghrebine. Infine, Sara è di moda in Italia: e quegli stranieri che adottano una strategia onomastica imitativa, per favorire l’integrazione dei figli, lo scelgono al pari di Chiara, Giulia o Martina. La distribuzione territoriale delle comunità straniere sul territorio italiano è, peraltro, non proprio uniforme. A Brescia nel 2009, fra tutti i residenti di cittadinanza non italiana, i nomi più frequenti erano Ahmed, Mohamed e Ali (tra i primi 10 anche Omar e Mohammed, Muhammad, Mohammad, ovvero sempre Maometto, ma le forme in -med sono maghrebine, quelle in -mad in genere pakistane, bengalesi e singalesi). A Venezia invece i più numerosi nel 2006 risultavano Ion, Vasile, Gheorghe, Andrei, Victor, ecc. con i rumeni prevalenti in modo netto sugli arabi. Follie onomastiche e complicità mediatiche Ma si può imporre a una bambina o a un bambino qualsiasi nome? I giornali si sono molto occupati, nel 2007, di una famiglia di Recco (Genova) che aveva dato al figlio il nome Venerdì. Non si usano i giorni della settimana! E allora Sabato e Domenica? Ma il venerdì è il giorno della penitenza secondo la tradizione cristiana. E allora i nomi della pietà cristiana e della devozione mariana, tra i quali, accanto a voci bellissime, spiccano anche Sterpeta (dal santuario di Maria SS. dello Sterpeto, compatrona di Barletta: l’icona della Vergine lì venerata sarebbe stata rinvenuta tra gli sterpi) o Riposa dalla Madonna del Riposo, nel Leccese, Finimonda, Canneta, 22­­­­

Fontina, Montagna, Catena e Inferma? (Si tratta comunque di prenomi rarissimi e non si dimentichi che neppure ai maschi sono stati risparmiati nomi bizzarri, in questo caso più di tipo politico-ideologico che religioso). Ma Venerdì era il servo di Robinson Crusoe nel romanzo di Daniel Defoe: un personaggio che, secondo i giudici, «pur elevandosi dal suo stato di creatura selvaggia, non arriva mai ad essere equiparabile all’immagine dell’uomo civilizzato»! E allora Jay Ar e Sue Ellen non sono meno imbarazzanti? (In effetti un recente tentativo di riproporre il serial Dallas si è interrotto dopo due puntate per mancanza di spettatori). Certo, Venerdì appare un nome ridicolo, non c’è che dire. Anziché ricorrere presso un tribunale italiano, la famiglia avrebbe dovuto rivolgersi direttamente alle Nazioni Unite. Già, perché per dieci anni, fino al 2006, ne era stato segretario generale il ghanese Kofi Annan. Nella sua etnia, gli Akan, come in molte altre dell’Africa, è normale assegnare nomi trasparenti che alludono al momento della nascita. E Kofi vuol dire proprio ‘nato di venerdì’ (e di venerdì Robinson Crusoe aveva visto la prima volta il suo fidato Friday). Come non ricordare, poi, il caso Varenne? Nel 2002 un uomo di Boscotrecase (Napoli) chiama il figliolo come il cavallo da trotto più veloce del mondo. La moglie non ci sta, e presenta al Comune un’istanza di rettifica. Il sociologo Franco Ferrarotti parla di banali mostruosità quotidiane e rampogna quel padre: «Che cosa gli augura, di correre a quattro zampe per tutta la vita?». Maurizio Costanzo ribatte che è il nome di un vincente: c’è pure qualcuno battezzato Ribot come un altro campione equino del passato, e poi Varenne non è meno censurabile di chi ha chiamato il figlio Ridge da Beautiful. Insomma, vada per un uomo chiamato cavallo. In Francia nel 1999 un giudice aveva stabilito che un piccolo Zébulon si chiamasse invece Bertrand. Per capire la sentenza occorre sapere che Zébulon era un personaggio comico della tv francese degli anni Sessanta, un baffuto giardiniere che aveva una molla sotto il sedere e si spostava a balzi. Per i 23­­­­

genitori era invece l’omaggio a un giovane scalatore dell’Himalaya, ma alla fine si sono arresi. Con la legge del 1993 la Francia è divenuta molto più permissiva e sono spuntati gli Zidane e i Jospin, le Lambada e le Caramel, i Braiane e i Dilane (goffi adattamenti grafici, anche oltralpe, alle pronunce di nomi americani). Con pochi interventi censori: un sindaco si è rifiutato di accettare il nome Felix Le Chat per un bambino e a un’altra coppia è stato impedito di battezzare i loro gemelli Starsky e Hutch. In America Latina alcuni governi sono intervenuti per frenare la fantasia o per opporsi alla povertà intellettuale dei cittadini. La guida telefonica di Rio de Janeiro offre un repertorio che va da Nostradamus a Waterloo, da Ben Hur a Rei da Televisão e si leggeva alla fine del XX secolo di bambini chiamati Xerox, Nausea, Colapso Cardiaco, Marafona (che vale ‘prostituta’). Notevoli i composti come Saddam Hussein, Michael Jackson e il meno vistoso (meno?) Concetta Trombetta Diletta. Nel 1990 un magistrato della città di Salvador aveva impedito a un operaio di dare al figlio il nome Rambo, rigettando anche il compromesso proposto dalla madre: Sylvester Stallone. Nessun ostacolo invece, da noi, per quel cittadino ghanese che ha chiamato il figlio Silvio Berlusconi, altro nome doppio, in segno di riconoscenza al governo italiano per il permesso di soggiorno ottenuto. Intanto, a causa del rifiuto di un pasticcere di scrivere sulla torta il nome del piccolo festeggiato, tutto il mondo ha scoperto nel 2009 che un bambino (allora di tre anni) di Greenwich (New Jersey) si chiamava Adolf Hitler. I genitori simpatizzano per un’organizzazione nazista e il padre, di origini tedesche, avrebbe scelto quel nome per puro piacere e perché nessun altro lo porta. Mentre il mondo s’indignava, la mamma Deborah (con l’h) raccontava che un’altra pasticceria si era offerta di preparare la torta al piccolo Führer. Talvolta il concetto di curioso, ridicolo e offensivo dipende dal luogo e dal tempo. Negli Stati Uniti il nome Ciara è avver24­­­­

tito come un richiamo alla figlia di Simba del cartone animato Il re Leone. In Irlanda, pronunciato con K-, rappresenta una delle forme tipiche del recupero di nomi tradizionali celtici. In Italia nessuno si sognerebbe di chiamare una figlia Salma (a meno che l’attrice Salma Hayek non faccia tendenza), ma se entrate in una scuola elementare di Roma o di Milano ne trovate parecchie: le maestre potrebbero spiegare agli altri scolari che in arabo quel nome vuol dire ‘salute, benessere’. Non è un dettaglio. Anche per il benessere psicologico della bimba. Abbiamo detto di genitori... qualsiasi. Se il padre e la madre sono famosi il nome buffo e unico rimbomba più forte. Ne abbiamo lette tante su Zowie Bowie, figlio del cantante David; Moon Unit, Dweezil e Ahmet Emuuka Roda Zappa, eredi del chitarrista Frank; Tallulah Bell, figlia degli attori Demi Moore e Bruce Willis; Swami Miccoli, figlia del calciatore Fabrizio; Peaches, Fifi Trixiebelle, Pixie e Tiger Lily, tutte di Bob Geldof; Tu, figlia dell’attore Rob Morrow, per comporre un improbabile tomorrow. Anche John Elkann e Lavinia Borromeo sono stati guardati strano per il secondogenito Oceano. Però Océane per le bimbe francesi è molto popolare e alle spalle c’è comunque un santo. Emma Thompson ha poi chiamato davvero la figlia Jane. Com? Qualche omonimo del proprio padre con 2.0 al posto di Junior è documentato. Danni collaterali degli sviluppi informatici. Giudichi il lettore se è normale che il calciatore cinese Zheng Zhi chiami il figlio @ e basta, la chiocciola della posta elettronica. Del bimbo si disse che sarebbe stato già fortunato a vedere la luce senza restare vittima del filtro antispam. Probabilmente D’Annunzio parlerebbe ancora di «pose», come per Draghignazzo o Zorobabele. In Messico un bambino è stato chiamato Brhadaranyakopanishadvivekachudamani (36 lettere, risparmiatevi la conta) mettendo insieme i nomi di due pensatori indiani. Idea del nonno, che aveva letto un dizionario di citazioni celebri. I genitori, che vivono nello Stato di Coahuila, sperano ora di veder registrato quel nome nel Guinness dei primati. Un otti25­­­­

mo motivo per mettere al mondo un figlio, non c’è che dire. Il Registro Civile di Coahuila ha avviato la campagna «Il mio nome è per sempre». I figli non sono bambole: papà e mamme scelgano nomi facili da scrivere e pronunciare. Ma a tutto c’è un limite. In Nuova Zelanda, caso forse unico nella storia, a una coppia di genitori di New Plymouth, nel 2008, è stata tolta la patria potestà per un... reato onomastico. L’avevano fatta grossa. La loro figlioletta si chiamava ufficialmente Talula does the Hula from Hawaii, anche se lei, evidentemente imbarazzata, preferiva semplicemente K. Per il giudice Talula balla la hula dalle Hawaii costituiva una disabilità sociale, analoga a una forma di abuso di minore. In genere i nomi inventati non si diffondono. Meno male. Ma un’eccezione clamorosa c’è, in America. Il cantante del gruppo rock cristiano P.O.D. Sonny Sandoval nel 2000 presentò in tv la figlia di pochi mesi che aveva chiamato Nevaeh, ossia Heaven, ‘paradiso’, letto al contrario. Per fortuna un nome normale, che circolava già da qualche tempo, e che alla fine del 2000 è esploso fino a raggiungere nel 2010 il 25º posto nella classifiche USA, con circa 8 mila bambine così chiamate in soli 12 mesi. Il calciatore David Beckham e la cantante Victoria Adams avevano cominciato una timida collezione, con Brooklyn, Romeo e Cruz che non sono poi così rari, ma al quarto tentativo hanno colpito nel segno, perché la piccola Harper Seven porta come secondo nome il numero della maglietta con cui il papà ha giocato a lungo nel Manchester United e nella nazionale inglese. In questo caso, però, le critiche non tengono conto che l’onomastica personale si è sempre nutrita di numeri. Il mondo latino e anche l’Italia fino ai primi del Novecento sono stati caratterizzati da nomi quali Primo, Secondo, Terzo e Terzina, Quarto, Quinto, Sesto, Settimio con una miriade di derivati. Il mio amico Paolo Poccetti, noto glottologo, ha scoperto che nella Roma antica i numeri non indicavano l’ordine di nascita, bensì il mese, cominciando da marzo. 26­­­­

A volte possono essere anche numeri molto più alti, almeno in letteratura. «‘L’hai trovato martedì, chiamalo martedì’. Danny ci pensò un po’. Poi sorrise: ‘È un’idea buona, Sam. L’ho trovato nel primo giorno di questo nuovo, fottutissimo secolo, no? Lo chiamerò Novecento’. ‘Novecento?’. ‘Novecento’. ‘Ma è un numero!’. ‘Era un numero: adesso è un nome’» (Alessandro Baricco, Novecento, 1994). Il mercato dei nomi personali Tutto sommato, una manciata di personaggi famosi che per follia o calcolo si abbandona a scelte sciagurate non è poi così preoccupante. Oltretutto, qualche figlio, raggiunta la maggiore età, si affretta a cambiare il proprio nome. A preoc­ cupare molto di più è l’aggressione dei mercati. Anche in questo settore? Sì, persino per i nomi di persona. Nel Nord America alcune industrie sono arrivate ad acquistare nomi di bambini: pagano i genitori e ottengono che il figlio o la figlia, almeno per un certo periodo di tempo, siano chiamati con il loro marchio o con il nome commerciale di un loro prodotto. E finché i media daranno risalto ai singoli casi di questo mercato onomastico, la pubblicità è assicurata. Alcune volte non c’è neppure bisogno di pagare. Negli anni Novanta, mi capitò di pubblicare la notizia che tra i nomi curiosi e unici documentati a Roma figurava una Lufthansa. Fui interpellato dalla compagnia aerea tedesca. «Ci dia per favore il telefono della famiglia: vogliamo darle un premio». Avendo consultato una semplice banca dati anagrafica, non sapevo nulla di più; anche in caso contrario, avrei fatto di tutto per evitare che la sciagurata decisione onomastica avesse ulteriori ripercussioni. Nessuno ha pensato, invece, a chiamare la figlia Alitalia: con la crisi degli ultimi anni, sarebbe stato un segno di speranza. Negli Stati Uniti un ufficiale dell’anagrafe è riuscito all’ultimo momento a dissuadere i genitori dal chiamare la figlia Nicorette. Non avevano bisogno di smettere di fumare. Sem27­­­­

plicemente, da stranieri immigrati, avvertivano quel nome come piacevole e forse legato a Nick, Nicole e simili. Nessuno ha fermato invece le coppie che hanno chiamato le figlie Dior oltre che Chanel (come i coniugi Francesco Totti e Ilary Blasi) e addirittura Courvoisier, Denim, Fanta. E in attesa di incontrare qualche Nutella, posso ricordare che negli Stati Uniti, dove la liberalizzazione onomastica è massima, il fenomeno più vistoso è quello delle centinaia di bambini chiamati ogni anno Armani, in questo caso tutti maschi: nel 2010 hanno superato i Marc, i Tommy, i Brendon, i Bobby, gli Steven, i Neil, i Marlon, i Ray e i Frankie. Qualche trovata geniale (si fa per dire) risulta anche in Italia, dove del resto in vari comuni si è parlato di nomi di strade messi in vendita per rimpinguare le casse municipali. Un cittadino paga un tot e una bella strada porta il nome di suo zio. Oppure, in cambio del nome della nonna, s’impegna a curarne a proprie spese la manutenzione. A Renate, piccolo centro dell’alta Brianza, nel 2006 il parroco offrì una cifra consistente a quei genitori che avessero battezzato il loro figlio Carpoforo, come il santo patrono. Negli ultimi 12 anni erano nati nel paesino ben 27 bambini, dei quali 15 maschi, e nessun Carpoforo! Pur essendo il nome di almeno quattro santi, non c’era da dubitarne: non se ne trova uno in tutta Italia nel corso dell’intero XX secolo. Ancora più curioso il caso dei nomi in coppia dei coniugi Mussolini: nel 2009 il segretario lucano del Movimento Sociale-Fiamma Tricolore ha raccolto dei fondi per premiare chi avesse imposto nel corso dell’anno, in uno dei comuni della Basilicata più a rischio di spopolamento, Benito a un maschietto e Rachele a una femminuccia. Ma, fervido sostenitore della democrazia, quel dirigente aveva dato un’altra possibilità di scelta. Giorgio e Assunta, come Almirante, storico leader del Movimento Sociale, e la sua vedova. Non si sa come sia finita, ma certo il bonus bebé lucano rischiava di costar caro, perché Giorgio e Rachele sono oggi tutt’altro che infrequenti tra i nuovi nati. 28­­­­

Pensare che ottant’anni prima si faceva a gara per dare al figlio il nome Benito. E pensare alla reazione dopo il ventennio. Un fatto del 1951: il settimanale fascista «La lotta politica» informa di un grave scandalo accaduto in un comune pugliese. Un cittadino ha chiesto allo stato civile di registrare il figlio col nome Benito, ma l’impiegato gli ha risposto che è vietato dalla legge. Il giornale non esita ad accusare di faziosità il vigente governo democratico, evocando il fantasma del Partito d’Azione e del Comitato di liberazione nazionale, insinuando perfino collusioni contro natura fra Stalin e De Gasperi. Caspita! Il fatto è che lo zelante impiegato comunale pugliese aveva semplicemente fatto valere una legge fascista, non abrogata dalla democrazia (fino al 1966), secondo la quale era vietato imporre ai neonati un nome straniero. E Benito, forma spagnola per Benedetto, poteva ben essere considerato tale. Asia e Andrea, due gatte da pelare Ma da una ventina d’anni ormai gli ufficiali di stato civile delle anagrafi comunali italiane hanno soprattutto due gatte da pelare. Le gatte si chiamano Asia e Andrea. La legge prescrive che non si possono dare nomi geografici come nomi personali. Com’è noto a chi si interessi di cinema, Dario Argento non riuscì a chiamare ufficialmente la figlia Asia, che per l’anagrafe è Aria, come molti sanno (e lo sapeva bene il suo ex compagno Morgan, al secolo Marco Castoldi, quando cantava: «Voglio aria / niente è come lei / ho un desiderio per aria»). Ma anche Lidia o Saverio (dal basco Exteberri, ‘Casanova’) sono in origine nomi di luogo, Giordano è un fiume. Perfino Chantal è un luogo, il titolo nobiliare della baronessa Giovanna Francesca Frémiot, fondatrice di un ordine di religiose, suora e santa. Maddalena deriva dalla cittadina di Magdala citata nella Bibbia, Galileo dalla Galilea, Gaetano da Gaeta, Francesco vuol dire ‘francese’, e Belen Betlemme. E poi c’è 29­­­­

Romolo: non è stato lui ad aver dato il nome a Roma, bensì il contrario. Che poi abbia dato nome anche alla città del festival della canzone è un’altra faccenda. Già, perché San Remo è solo un equivoco onomastico; il comune ligure in realtà era San Romolo. Romolo fu vescovo di Genova nel IV secolo e venne sepolto non lontano da dove sorge la città dei fiori e del festival. Solo che Romolo, nel dialetto locale, si dice Römu, e da questa pronuncia è nata la confusione che perdura fino ai giorni nostri. Senza contare che Asia, inoltre – e soprattutto – prima d’essere la designazione d’un continente, è il nome della ninfa figlia di Oceano e di Teti e madre di Prometeo, ricordata da Virgilio. Inoltre può considerarsi la forma raccorciata di nomi germanici come Adelasia (= Adelaide) o Alasia (che vuol dire ‘nobiltà’ ed è parente di Alice). Infine, potrebbe rappresentare una riduzione di Aspasia, Comasia, Eufrasia, Nicasia, forme anagrafiche tutte documentate in Italia, o delle pur rarissime Attanasia, Gelasia, Gervasia. Torniamo ai divieti. Che dire dei nomi ideologici dovuti al vezzo di chiamare i figli come le città e le regioni dell’irredentismo e delle rivendicazioni italiane (Trento, Trieste, Gorizia, Istria, Dalmazia, Fiume, Pola, Tolmino, ecc.), i teatri di battaglie (Adamello, Adige, Asiago, Aspromonte, Goito, Isonzo, Lepanto, Magenta, Mentana, Montebello, Nervesa, Piave, Sabotino, ecc.), i luoghi delle guerre e delle conquiste italiane in Africa (Addis Abeba, Adua, Ain Zara, Asmara, Bengasi, Bumeliana, Cirene e Cirenaica, Derna, Dogali, Etiopia, Gondar, Libia, Neghelli, Sirte, Tripoli e Tripolitania, ecc.)? Il divieto è molto ballerino, perché se questi sono i nomi dei nonni o dei bisnonni che si vogliono ricordare, come impedirlo? Peraltro a norma di legge neppure i cognomi possono essere usati come nomi. Ma se un padre vuol dare al figlio o alla figlia il nome dell’avo o dell’ava, siano essi Alfieri, Alighieri, Ariosto, Cartesio, Caruso, Dannunzio, Deledda, Duse, Girardengo, Lincoln, Nelson, Nobile, Oberdan, Sonnino, tutti peraltro documentati in qualche anagrafe nel corso del Novecento? 30­­­­

Nel Medioevo italiano erano assai frequenti nomi di persona desunti da nomi di luogo, con spirito campanilistico o per il ricordo di viaggi legati soprattutto a traffici commerciali: Cordova, Galizia, Fiorentina, Lombardia, Parma, Piacenza, Sorrenta, Tolosa, ecc. E ancora nel XX secolo possono contarsi alcune migliaia (complessivamente) di Amalfi, Belgrado, Cesena, Damasco, Dublino, Firenze, Genova, Irlanda, Londra, Losanna, Milano, Napoli, Nizza, Olanda, Orvieto, Palermo, Ravenna, Rovigo, Sicilia, Siena, Svezia, Taormina, Tirana, Varsavia, Veneto, Venezia, Viterbo, Zelanda. Le motivazioni alla base delle scelte non sono sempre spiegabili se non con l’eufonia (il «bel suono» del nome), con la ricerca di un effetto esotico o con ricordi legati alla vita personale delle famiglie. Un altro rompicapo per le anagrafi, o almeno per gli ufficiali dello stato civile particolarmente pignoli, è il caso di Andrea femminile. Qui la vicenda è più complessa ed è giunta più volte in un’aula di tribunale. Com’è noto in Italia (e quasi solo da noi) Andrea è maschile, mentre per esempio i tedeschi chiamano Andreas i maschietti e Andrea le femminucce. I sostenitori di Andrea femminile si appellano dunque al fatto che questo nome è già in uso in molti Paesi per le donne e pertanto non può essere negato in Italia. Gli oppositori fanno presente che la legge vieta nomi che possano creare confusione sul genere del portatore e hanno buon gioco nel dimostrare che 99 Andrea su 100, nel nostro repertorio onomastico, sono uomini. I supporter di Andrea femminile, quando sono storici o linguisti, segnalano che nel Medioevo Andrea era anche un nome femminile largamente documentato. Gli avversari ribattono che, col tempo, convenzionalmente il nome è divenuto maschile. Ma i primi non si arrendono e, citando un dizionario ricco di numeri come I nomi di persona in Italia di Alda Rossebastiano ed Elena Papa, replicano che l’Italia è piena di ambigeneri. Nel Novecento le anagrafi hanno registrato, tutte femmine, 5.524 Mattia, 3.278 Nicola, 860 Battista, 838 Leonida, 757 Cosma, 402 Disma (il nome del buon ladrone evangelico secondo una tradizione apocrifa), 31­­­­

314 Enea, 287 Bonaventura, 284 Saba, 282 tra Giambattista e Giovanbattista, 185 Geremia, 139 Barnaba, 118 Nikita e 86 Vanja, 115 Tobia, 109 Evangelista, 97 Fidia, 79 Babila, 47 Esdra, 46 Zaccaria, 32 Epaminonda, 29 Giona, e perfino 52 Balilla, 24 Attila e 18 Foca. Naturalmente non mancano, specularmente, maschi chiamati Clio, Consuelo, Ero, Saffo. E ambigeneri sono numerosi nomi uscenti in -e: Amabile, Amante, Avvenente, Bramante, Brillante, Celeste, Clemente, Cortese, Costante, Docile, Dolce, Fedele, Felice, Piacente, Ribelle, Sapiente, Umile, Verde, Vigilante, Vitale. Di questa reinterpretazione di maschili classici si ha traccia in alcuni cognomi del tipo Colabella, Colabona, Colavecchia, in cui l’accorciamento di Nicola è accompagnato da un aggettivo femminile. E visto che con Colabona (e Guardalavecchia) siamo entrati nel territorio di Totò (Chi si ferma è perduto, film del 1960), l’errore di chi ritiene femminili tutti i nomi in -a è ben esemplificato nell’episodio di una rivista teatrale del 1937 (Uomini a nolo): Totò, travestito da balia nel personaggio di Cirillo, scambia per femmina il bambino del padrone di casa e, a sentirne il nome, Epaminonda, insiste nelle sue ragioni: «Epaminonda? Vedete che è femmina?». Non manca qualche caso letterario: Battista Piovasco è la sorella del protagonista del Barone rampante di Calvino; Enea Cucco vedova Bolenfi è una casigliana in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda, nativa di Castiglione dei Pepoli nel Bolognese. E Andreo è chiamato il barone Andrea del Castelluccio da Ferdinando II di Napoli nel Re burlone di Rovetta. Ma torniamo appunto ad Andrea. Negli ultimi anni presso le anagrafi hanno prevalso due tendenze. La prima è quella che potremmo definire pilatesca: facciano come credono, ormai le Andrea femmine sono migliaia anche in Italia. La seconda è quella che cerca di armonizzare legge, buon senso e desiderio della famiglia: si metta pure il nome Andrea, ma lo si corredi di un altro nome chiaramente femminile, tipo Giulia Andrea o Andrea Sofia, onde evitare qualsiasi equivoco. 32­­­­

La resa tuttavia è vicina. Nei secoli e nei dialetti si è cercato di risolvere la questione con un femminile che piacesse. Nei documenti possono leggersi Andreozza, Andreuola, Andreetta, Andreana, Andreina (il più fortunato), Andreea con due -ee perfino Andreaa con due -a- finali. Tutto inutile. A fine 2012 ci ha pensato la Corte di Cassazione, chiamata a esprimersi sul caso di una bambina costretta dalla Corte di Appello di Firenze a premettere Giulia ad Andrea. Il nome Andrea, ha sentenziato, «ha natura sessualmente neutra nella maggior parte dei Paesi europei, nonché in molti extraeuropei». Niente di male, beninteso, che Andrea sia anche femminile. Del resto la lingua (anche per quanto riguarda i nomi propri) dipende dall’uso e non da leggi o decisioni prese dall’alto una volta per tutte. Ma notate la stranezza. Gli indiani e pakistani sikh, che vantano in Italia la quarta comunità del mondo per numero di individui, portano quasi tutti il cognome Singh se sono maschi e Kaur se sono femmine. Singh vuol dire ‘leone’, Kaur ‘principessa’. Sono simboli di genere precisi, oltre che portatori di valore religioso, culturale e sociale. Ebbene, se un signor Singh assume la nazionalità italiana e ha una figlia, questa dovrà necessariamente chiamarsi anch’essa Singh. Da un lato ci preoccupiamo che le fanciulle sikh non siano costrette a rinunciare alla propria identità onomastica, dall’altro lato ci accapigliamo perché alle bambine italiane venga imposto un nome che vuol dire, secondo la tradizione, ‘virile’ ovvero ‘uomo per eccellenza’. Andrea, appunto, che viene dal greco anèr, andrós, ‘maschio’. Quando il nome diventa tabù I principali casi di tabuizzazione onomastica vengono dalla politica e dalla storia. Benito e Adolfo sono praticamente spariti dopo la seconda guerra mondiale. Ma anche figure letterarie hanno esercitato la loro influenza. Rodrigo non era granché diffuso nel primo Ottocento, ma certo la popolarità dei Promessi sposi ne ha determinato il definitivo tramonto. 33­­­­

Mutatis mutandis, il calo di frequenza del nome Monica negli Stati Uniti a partire dal 1998 è attribuibile allo scandalo Lewinsky. Esiste anche un altro tipo di tabù che, all’opposto, viene a crearsi quando troppo elevata è la popolarità del portatore di un certo nome. Un esempio: c’è chi ritiene che negli anni Sessanta il successo di Brigitte Bardot abbia portato al successo quel nome, rarissimo da noi nella forma Brigida. Non fu così. Brigitte era di moda prima del successo della Bardot, nome conformista dalla metà degli anni Cinquanta (anche se rarissimo nel 1934, anno di nascita dell’attrice) e in declino proprio in parallelo ai grandi successi di BB. Nel 1966 il nome era già classificato come démodé. Ma intanto una casella era occupata in modo straripante. Nessuna attrice avrebbe potuto scegliere Brigitte come nome d’arte all’epoca (e nell’America innamorata della Monroe, Marilyn Pauline Novak, origini ceche e forme simili alla rivale, dovette ribattezzarsi in arte Kim: per «la donna che visse due volte» non fu certo un problema). Qualcosa del genere potrebbe essere accaduto in Italia con Sofia. La popolarità della Loren deve averne ridotto la diffusione. Tant’è che la (ri)scoperta di Sofia è recente e dunque coincide con l’inevitabile diradarsi delle apparizioni della signora Scicolone: Sofia arriva piuttosto dall’estero. E se proprio vogliamo parlare di attrici, non vi sorprenda il fatto che avrà avuto un’influenza più positiva Elena Sofia Ricci. La prova? I nomi formati da due o più elementi si distinguono in «composti» e «multipli». I «composti» sono quelli tradizionalmente abbinati e radicati nel repertorio: molti composti con Maria primo nome, poi Anna Maria, Francesca Romana, Annalisa, e altri ormai fusi così bene che neppure li consideriamo più composti, come Marianna o Marisa. I «multipli» sono invece gli accostamenti casuali, dettati dall’esigenza di coniugare il desiderio di un nome di moda con quello della nonna o del prozio, o di mettere insieme l’eufonico con l’agionimico, ossia il nome bello (ma attenzione: il concetto di «bello» cambia rapidamente con il tempo) con il 34­­­­

patronato di un santo. Aurora Rita o Emma Paola appartengono evidentemente a questo gruppo. Ora, l’accoppiata Elena Sofia è passata in pochi anni da nome multiplo, cioè casuale com’è stato per la bravissima attrice toscana, a nome composto, tante sono state le bambine che hanno ricevuto ultimamente questo doppio battesimo. Ma Sofia è il numero uno in Italia come lo è dal 2010 – o poco prima o poco dopo – anche in Canada, Stati Uniti, Inghilterra e Galles, Scozia e Irlanda del Nord, Olanda, ed è tra i più diffusi anche in Australia, Spagna, Norvegia, Ungheria... Non c’è Loren e non c’è Ricci che tenga. È un nome in­ternazionale, e la cronologia si limita a indicarci che in Francia (e in Germania) Sophie ha preceduto di qualche decennio il successo di cui stiamo parlando, essendo considerato nome conformista negli anni Settanta e già démodé negli ultimi anni del Novecento. Allora la moda giunge dai francesi? C’è davvero un’influenza diretta e rintracciabile che conduce da un Paese all’altro? Oppure la motivazione è come l’ONU o il Fondo Monetario Internazionale, cioè sovranazionale? E, in questo caso, chi sarebbe il grande vecchio che muove i fili dell’onomastica e determina il successo di questo o quel nome? Una precisazione: quando diciamo conformista, démodé e – potremmo aggiungere, secondo le indicazioni francesi – dans le vent, à la train, ecc., stiamo parlando di una specie di annuario pubblicato per oltre vent’anni, La cote des prénoms, che di ogni nome delineava la «storia sociale» in Francia, in base alle frequenze annuali e perfino alle classi sociali di maggiore o minore appartenenza. Il bello è che a realizzare questa indagine non s’erano messi insieme due studentelli in cerca di fortuna, ma niente meno che gli omologhi francesi del presidente dell’Istat e del direttore generale del CNR! Che differenza di interesse per l’onomastica tra le istituzioni della gran parte delle altre nazioni e quelle italiane, sorde perfino al fatto che certi dati hanno una risonanza mediatica e dunque gioverebbero all’immagine dell’istituzione stessa! 35­­­­

Ma l’Italia è comunque il Bel Paese e i nostri nomi fanno il giro del mondo. Le paure di essere invasi e sopraffatti dai gusti esterofili sono assolutamente esagerate: per trovare nomi stranieri non adattati nelle classifiche del XXI secolo dobbiamo scendere intorno alla 30a posizione con Nicole ed Erika e oltre la 100a per scovare Jennifer. Tra i primi 50 nomi maschili figurano solo C(h)ristian, Thomas, Manuel e tra i primi 100 Daniel, Mirko, Kevin, Alex, Samuel, Michael, Gabriel, Nic(h)olas e Den(n)is: alla gran parte basta restituire la vocale finale o togliere una -h- o un -k-, per recuperare una forma italianissima o pienamente acclarata da secoli nella nostra tradizione linguistica. In compenso esportiamo nomi. Ci credereste che Enzo è tra i primi 3 in Francia tra i maschetti nati dopo il 2000? L’Oltralpe che fu solo pochi anni fa terra di conquista di Kevin è passata oggi a Enzo, Hugo, Lea e Leo (con grafia Léa, Léo), Laura, Matteo, Lisa, Clara. Clara è ai primi posti anche in Svezia, Ida in Norvegia, Simona in Slovacchia, Klaudia (sia pure con K-) in Polonia e in Ungheria, mentre in Finlandia è il momento di Roosa (si scrive con due -o, secondo la lingua locale, ma è nome italianissimo). E poi c’è il caso degli Stati Uniti, il più evidente. Isabella (che non è il francese Isabelle né lo spagnolo Isabel) risulta nº 1 fino al 2010, Emma subito dietro, Gabriella, Arianna, Amelia, Gianna, Valeria, Angelina (vabbè, que c’est jolie!) fra il 30º e il 100º posto, e poi Natalia, Liliana, Adriana, Stella, Daniela, Eliana, Clara, Valentina, Aurora, Bianca tra i primi 200. Si dirà che qualcuno già appartiene alla tradizione anglosassone, qualcuno è anche ispanico e qualcuno è d’uso interno alle comunità italiane d’America. Ma è forte l’impressione che i nuovi ragazzi di Obama abbiano guardato massicciamente al nostro repertorio in quello che pochi anni fa era il regno delle Madison, delle Abigail, delle Brooklyn, delle Brianna, delle Megan e delle Savannah, oltre che dei Bush.

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Il repertorio non si riduce C’è un’altra paura che alcuni nutrono. Ne hanno parlato anche illustri linguisti: il nostro repertorio di nomi personali andrebbe drasticamente riducendosi, avremmo cioè superato il livello di guardia della concentrazione ossia dell’omologazione. Saturi di pochi nomi che si replicano senza pietà. Non è vero nulla. Chi pensa questo è in buona fede, ma ha una visione miope, senza prospettiva, dell’evolversi dei patrimoni onomastici. Se utilizziamo ogni nostra conoscenza, e dunque consideriamo tutti insieme i nomi dei nostri figli e nipoti, dei genitori e dei nonni e dei bisnonni, oltre a personaggi storici di altri secoli, otteniamo quel che si dice un repertorio diacronico: che attraversa il tempo, e somma generazioni a generazioni. Non è quindi possibile un confronto con i nomi scelti per i bambini che nascono oggi, perché si tratta di una sola generazione, ossia di un repertorio sincronico, necessariamente più povero. Oggi nascono in Italia decine di Anastasia, Clio, Corinna, Cosimo, Dafne, Demetrio, Elettra, Enea, Giuditta, Nausicaa, Olimpia, Sibilla, e centinaia o migliaia di Adele, Beatrice, Camilla, Elia, Emilia, Ginevra, Jacopo, Lucrezia, Ludovica, Matilde, Mattia, Niccolò, Sebastiano, Samuele, nomi che avreste definito fino a pochi o pochissimi anni fa «d’altri tempi». Singolare il caso di Emma: fino a qualche tempo fa talmente legato a bisnonne e prozie che in Germania la formula «negozi della zia Emma» identificava quelli a conduzione familiare, con antiquati prodotti artigianali. Ora Emma è un fenomeno internazionale, un nome di bimba per eccellenza. Perché i nomi, come vedremo tra poco, tornano a rotazione. La presenza nelle liste anagrafiche del 2000 di Brenno, Calogero, Elisèo, Ercole, Folco, Olga, Primo, Riziero, Solidèa, Tazio o Zeno – prossima allo zero – non è affatto inferiore a quella che nei primi decenni del Novecento registravano Alessio, Aurora, Barbara, Chiara, Claudio, Daniela, Dario, 37­­­­

Federico, Gabriele, Luca, Patrizia, Roberta, Sara, Simone, Sofia, Valentina e tanti altri che nel corso degli ultimi cent’anni avrebbero via via raggiunto i vertici della graduatoria. Se coloro che oggi denunciano l’impoverimento e la superconcentrazione dei nomi personali fossero vissuti un secolo fa, avrebbero lanciato lo stesso grido disperato colpevolizzando l’egemonia di Mario, Giuseppe, Luigi, Alfredo, Umberto, Elena, Elvira, Iolanda, Margherita e Rosa. Ogni generazione ha i suoi nomi privilegiati e le sue forme rare e curiose, i suoi nomi provenienti dall’estero e avvertiti come esotici ed estranei. Ai primi del XX secolo saranno stati Oscar, Ines, Jole, Dolores, ecc. Ai primi del XXI sono Nicole, Nicholas, Jennifer. Lo chiameremo Andrea (come migliaia di altre famiglie) Nel 1972 uscì uno degli ultimi film diretti da Vittorio De Sica, interpretato da Nino Manfredi e Mariangela Melato. I giornali meno avvertiti hanno scritto per anni che fu quel titolo, Lo chiameremo Andrea, a far nascere la moda del nome Andrea. Ma chi guardasse le classifiche del 1971 si renderebbe conto che Andrea era già numero uno a Roma e in altre città. Proprio nel 1972 avrebbe tolto il primato nazionale a Giuseppe, che lo manteneva da tempo immemorabile (e francamente incalcolabile). Fu De Sica, o chi per lui, a ispirarsi alla realtà. Lo chiameremo Andrea, insomma, come decine di migliaia di famiglie vere. E ciò conferma che spesso è la finzione – nomi di personaggi letterari, teatrali, cinematografici, canzonettistici, nomi d’arte e nomi d’invenzione in genere – a copiare la realtà e non viceversa. Anche se la pellicola avrà certo funzionato da spot per le successive fortune del nome. Il nome fittizio o quello del figlio del cantante o dell’attrice in voga raramente producono un’autentica moda. È vero oltre ogni ragionevole dubbio – e le date poi coincidono – che quei (pochissimi) genitori che hanno chiamato i loro figli Geiar o Suellen si sono ispirati alla serie televisiva Dallas. O 38­­­­

che quanti, in Italia, hanno chiamato i loro figli Irish o Mandy hanno tratto il nome da due canzoni rispettivamente dei New Trolls e di Barry Manilow. Il fatto è che con una decina o una ventina di presenze non si crea una moda. Però le canzoni italiane con un nome personale, soprattutto di donna, nel titolo sono tante. Un collega dell’Università di Genova, Lorenzo Coveri, le sta censendo e ha raggiunto quota 400. Rispecchiano la realtà: Maria è in testa con 41 titoli (senza contare i composti di Maria); seguono Anna con 29, Giulia con 13 e Teresa con 12. Tra coloro che ne hanno scritte o interpretate di più, prevale Ivan Graziani con 16 canzoni, seguito da Antonello Venditti con 14 titoli. Venditti è stato molto attento all’onomastica reale, scegliendo nomi adeguati ai suoi personaggi. Ha usato anche vezzeggiativi, come Lilli, e perfino un soprannome, Penna a sfera, quando volle mettere alla berlina un bravo giornalista che aveva portato alla luce, in un articolo, le contraddizioni tra certe prese di posizioni politiche del cantautore romano e le sue ricche tournée estive in alberghi di lusso. Ma da allora son passati quasi quarant’anni e la faccenda non ci riguarda (più). Un caso molto particolare è quello di Sabrina. Il nome era praticamente sconosciuto in Italia fino agli anni Cinquanta, quando giunse anche da noi il fortunatissimo film di Billy Wilder con Audrey Hepburn e Humphrey Bogart, Sabrina appunto. Accostato erroneamente a Sabina, è un antico nome celtico di difficile interpretazione. Bene, non si può negare che il successo straordinario di Sabrina per le nuove nate in Italia sia legato alla pellicola. Solo che il nome non è esploso negli anni Cinquanta, insieme al film, ma soltanto tra il 1962 e il 1963. Come spiegarlo? Con la teoria del fuoco lento, che arde sotto la brace. Il nome entra nella coscienza e si deposita nella memoria, ma viene scelto da un numero ristrettissimo di genitori, nel nostro caso soprattutto in Toscana. Poi scoppia la scintilla e coloro che erano adolescenti nei primi anni Cinquanta, e poco tempo dopo fanno figli, incontrano qualche Sabrina piccina e 39­­­­

ricordano quel nome e quel film. Che dunque genera la moda (fatto comunque eccezionale) quando la massa può toccare con mano che Sabrina è un nome da bambina. Quel che nessuno può spiegare, invece, è cosa abbia generato la scintilla nei primi anni Sessanta. Sabrina, inoltre, è un nome senza tradizione. Come lo sono stati, negli ultimi decenni, altri nomi di grande successo, per esempio Cinzia, Debora o Jessica (che è d’origine ebraica, da Iskah, una sorella di Abramo, e comunque usato da Shakespeare nel Mercante di Venezia). La loro parabola discendente è stata rapidissima, tanto quanto quella ascendente. Perché? Appunto per la mancanza di un magazzino storico e familiare. Quando Elvira è uscito di scena, lo ha fatto con un lungo strascico perché, pur passato completamente di moda e dunque non più considerato bello e socialmente prestigioso, c’era pur sempre una nonna, una zia, una madrina da onorare o da commemorare. Ma nonna Debora o zia Jessica non esistevano, neppure a cercarle col lanternino. E passata la festa, gabbato lo santo, come dice il motto popolare, anche se il santo in questo caso neppure esiste. In genere gli autori letterari, e ancora più quelli cinematografici e televisivi, sono portati a seguire le mode, a scegliere per i loro personaggi – quelli positivi – i nomi che appaiono più belli e dunque promozionali per le opere in cui si muovono. Prendo il caso dei film di Carlo Verdone, perché è esemplare. Verdone ha quasi sempre tratto i nomi delle protagoniste femminili dei suoi film dalla moda, nomi in quel momento tipici di bambine e non di donne adulte. Così Alice e Valentina in Stasera a casa di Alice, la Camilla di Maledetto il giorno che t’ho incontrato, l’Arianna di Perdiamoci di vista, la Federica di Compagni di scuola, ecc. Perfino Jessica, il nome della moglie «coatta» di Ivano di Viaggi di nozze (1995), quello che le propone per un eventuale figlio maschio i nomi Kevin e Alan, non è adeguato come 40­­­­

sembrerebbe: appropriato sotto il profilo sociale, perché Jessica si è diffuso in particolare (anche se non solo) nelle classi popolari meno acculturate; ma non sotto il profilo cronologico: di Jessica dell’età dell’attrice Claudia Gerini ce ne sono una ventina in tutta Roma, un numero irrisorio; le altre poco o molto più giovani. Verdone si è ripetuto in Gallo cedrone del 1999. La venticinquenne cognata poi amante del protagonista si chiama Martina, nome che a Roma risulta tra i primi 5 negli anni Novanta, ma che alla fine dei Settanta, quando è nata l’interprete Regina Orioli, ha denominato appena una manciata di bambine; nel 1976, precisamente 15 nate su oltre 15.000. Quando, di fronte alla curiosità di alcuni giornalisti, ebbi a spiegare perché i nomi delle donne di Verdone non fossero adeguati, il grande attore e regista mi rispose per le rime, adombrato e irritato. Ma non c’era nessuna critica. Un autore è libero di dare ai propri personaggi i nomi che vuole. Uno studioso di statistica onomastica è altrettanto libero di far notare certe incongruenze che – diciamolo francamente – lasciano il tempo che trovano. Però ci sono stati anche attori e registi che hanno scelto in modo più oculato o, se preferite, realistico. Uno di questi fu Alberto Sordi con i suoi registi e sceneggiatori. I personaggi di Sordi avevano quasi tutti la funzione di rappresentare l’uomo qualunque, dal giovanotto americanofilo al cocchiere in disarmo. E i loro nomi erano i più frequenti negli anni intorno al 1920, data di nascita dell’attore romano. Dunque adeguati: come Fernando e Nando, Antonio, Agostino, Romolo e Remo, Giulio, Silvio, Dante, Amedeo, Armando, Guido, Alfredo, Franco; nonché, ovviamente, il più volte riusato Alberto. Simili discrepanze accadono in altri Paesi. Nei telefilm americani specie i personaggi femminili, magari trentenni o quarantenni, portano spesso i nomi di ultimo grido. Prendiamo qualche serial poliziesco. La protagonista di Cold case si chiama Lilly (Rush), nome apparso nelle anagrafi d’oltreocea­ no solo negli ultimissimi anni. Per quella di Law & Order – 41­­­­

Unità vittime speciali si è scelto Olivia (Benson), di moda altrettanto recente: non lo si sentiva dai tempi di Braccio di Ferro (se si esclude la Newton-John di Grease); e quella di Senza traccia si chiama Samantha (Spade), nome che ha toccato il vertice della parabola in America solo dopo il 1990 (ma quella serie ha una storia particolare, essendone nomi e cognomi ispirati ai film con Humphrey Bogart nei panni degli investigatori privati Philip Marlowe e appunto Sam Spade nei film Il grande sonno e Il mistero del falco). La moda è talmente oppressiva che in certi telefilm made in USA s’incontrano personaggi attempati chiamati Ethan o Aidan o Jaydan o Elijah o Joshua, tutte scoperte o riscoperte degli anni Novanta e del XXI secolo. Ed è un po’ come vedere panciuti e stempiati sessanta-settantenni in calzoncini corti e con un palloncino legato al polso. Il concetto di moda onomastica I nomi dunque seguono le mode. Più o meno come l’abbigliamento, i colori e la foggia delle pettinature o come i luoghi dove trascorrere le vacanze. Le mode onomastiche sono per un verso un processo recente, databile dalla fine dell’Ottocento o al primo Novecento. Per un altro verso sono sempre esistite. Nel mondo antico e in quello medievale erano legate all’incontro-scontro tra popoli e religioni e ai movimenti di riduzione o ampliamento dei repertori di nomi. Uomini e donne dei popoli resi schiavi dai Romani assumevano un nome latino insieme alla cittadinanza romana. Tra i primi cristiani correva l’uso di adottare un nome d’umiltà, che per esempio richiamasse un animale di nessun prestigio. Gli abitanti dei territori dominati dalle popolazioni germaniche acquisirono i nomi dei nuovi dominatori mescolandoli ai propri. Agli inizi del secondo millennio, come abbiamo visto, il popolo iniziò a coniare le voci augurali e gratulatorie. Dunque le mode non sono un’invenzione moderna. Oppure sì? La differenza sta nel fatto che oggi non si tratta più 42­­­­

di assumere repertori in blocco e di distribuirli un po’ a caso, ma di apprezzare singoli nomi per un arco cronologico preciso, che viene a costituire una parabola in funzione delle frequenze e del tempo. Facciamo un esempio a partire da un nome che in questi anni è in testa alle classifiche e scegliamo Emma. Oggi in Italia oltre 4 mila bambine l’anno vengono chiamate così. Il loro numero è inferiore solo a Sofia (quasi 9 mila), Giulia*, Sara*, Martina*, Giorgia*, Chiara*, Aurora e Alice. I nomi segnati con asterisco sono in lenta discesa, avendo già espresso il loro massimo potenziale. Nel giro di 3 o 4 anni, Emma potrebbe entrare tra le prime tre. Meglio se sostenuta da qualche sponsor, troppo tardi per Emma Thompson, magari Emma la cantante (Marrone). La sua popolarità crescerà e il nome resterà per qualche anno ai vertici della graduatoria. Poi altri nomi si faranno avanti e pian piano i genitori si renderanno conto che ormai ci saranno troppe Emma in giro. Il nome perderà il suo potenziale distintivo, perché troppo comune e inflazionato. E sarà sempre più associato alle classi inferiori, perché ormai dilagato, al prezzo però di perdere prestigio. Oltretutto, già alcune mamme si chiameranno Emma: dunque il nome non verrà più associato a modelli imitabili, ossia ai bambini, ma alla generazione dei genitori e più tardi a quella dei nonni. È l’inizio del declino, che sarà lento o rapido, ma nel giro di qualche decennio condurrà questo nome a connotare persone adulte e anziane: dunque Emma non sarà più un nome da bambina e non risulterà più attraente. Fidatevi: non sarà più un nome «bello», anche se oggi questa affermazione può sembrare poco verosimile. Verrà accostato a nonne, zie e prozie e pressoché dimenticato. Sarà il punto più basso della parabola. Ma fra un secolo o poco più, il nome passerà dallo status di «vecchio» a quello di «antico»: dalla soffitta al salone dell’antiquario, insomma, con una patina di raro e prezioso. Qualcuno si ricorderà della bisnonna o della trisavola; avvertirà Emma eufonico e innovativo, per43­­­­

ché qualche bambina comincia nuovamente a portarlo. Qualche artista lo sceglierà come nome d’arte, qualche regista o scrittore lo assegnerà alle protagoniste delle proprie fiction (o quel che ci sarà dopo l’anno 2100). La parabola tornerà a salire e il ciclo ricomincerà. Il lettore, legittimamente, si chiederà: come è possibile prevedere tutto questo? Semplice. Perché è già accaduto, sebbene con altre date: tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i giorni nostri, proprio con Emma. E con altri nomi. Certo, le parabole non sono tutte della stessa altezza (pochi entrano nelle Hit Parade onomastiche) e della stessa lunghezza: esistono anche sempreverdi che galleggiano a metà classifica, senza alti né bassi. Poi ci sono gli effetti-traino che alterano i ritmi: per esempio negli ultimi tempi i maschili Giorgio e Giulio hanno avuto un rilancio precoce rispetto ai 120-140 anni prescritti del ciclo e il motivo è nel grande successo dei rispettivi femminili. Poi accadono gli eventi che creano un tabù: il crollo di Adolfo dopo il nazismo non sarebbe stato prevedibile fino al 1940. Talvolta la moda è condizionata dalla storia locale e ha dunque diverso andamento in questa o quella città. Roma per esempio si distingue per il recupero, ben più vivace che altrove, dei nomi dell’era classica. Specie al femminile: si può ironizzare sul fatto che fa tanto chic chiamare la figlia come una via consolare (Flaminia, in Italia, è quasi esclusivamente romano) o altre strade a lunga percorrenza (Domiziana). Tempo fa lessi che Domitilla o Priscilla sono ottime scelte per chi gestisca un’avviata catacomba. All’opposto, Camilla ha conosciuto una nuova diffusione anche nella capitale, sì, ma in ritardo rispetto alle altre grandi città. Infatti a Roma è ancora vivo il motto popolare che mette in guarda dall’essere «come la sora Camilla, che tutti la vonno e nissuno la piglia». Eco delle presunte vicissitudini sentimentali della sorella di papa Sisto V, che pare dicesse d’aver avuto un numero indefinito di spasimanti, pur essendo rimasta zitella. Un nome poco augurale, insomma. 44­­­­

Quanto detto, beninteso, vale ormai per tutti i cosiddetti Paesi occidentali e non solo per l’Italia. E dall’analisi del ciclo vitale del nome si deduce come anche questo sia, nella società attuale, un oggetto di consumo, e in quanto tale subordinato alle regole imposte dal mercato. Ma c’è una differenza con gli altri oggetti di consumo: per quanto sia in un certo senso obbligatorio, è un bene assolutamente gratuito. Gratuito nel duplice senso che non costa nulla e che la sua scelta non è determinata da un valore oggettivo o da proprietà intrinseche. Questo è ciò che separa la scelta del nome proprio da ogni altro atto di consumo ed è questo che lo rende, si potrebbe azzardare, l’oggetto di moda per eccellenza. La sindrome della regina In tutto questo quanto contano i portatori illustri di un nome? In realtà i personaggi pubblici più in vista – nello spettacolo, nello sport, ecc. – più che ispirare le scelte del popolo con il proprio nome, le influenzano quando danno un certo nome ai propri figli. Il bambino, in altre parole, deve avere un nome da bambino. Sono gli altri bambini che influenzano le scelte. Una volta una coppia di genitori che avevano chiamato Federica la figlia mi raccontò: «Avevamo scelto Valentina da mesi. Ma una settimana prima della nascita abbiamo conosciuto una piccola Valentina così capricciosa, lamentosa e antipatica che abbiamo deciso di orientarci diversamente». Accanto agli aneddoti spiccioli, fa testo Giacomo Leopardi con il suo Zibaldone. Quando scrive del nome Teresa, si esprime così: «Io da fanciullo ho conosciuto familiarmente una Teresa vecchia, e secondo che mi pareva, odiosa. Ed allora e oggi che son grande provo una certa ripugnanza a persuadermi che il nome di Teresa possa appartenere ad una giovane, o bella, o amabile: o che quella che porta questo nome, possa aver questa qualità: e insomma sentendo questo 45­­­­

nome, provo sempre un’impressione e prevenzione sfavorevole alla persona che lo porta». Forse anche per questo volle ridenominare Silvia la donna amata, che pare si chiamasse proprio Teresa. Si diceva della gente comune che guarda ai personaggi famosi e ne imita le scelte. Ebbene, nel 1901 nacque la principessina Jolanda, primogenita del neo re d’Italia Vittorio Emanuele III (il padre Umberto era stato assassinato l’anno prima) e della regina Elena di Montenegro. Chi compilasse la classifica dei nomi più frequenti tra le nuove nate a Roma in quegli anni, scoprirebbe che nel 1900 neppure una Jolanda figura nei registri parrocchiali, mentre nel 1901 il nome balza al secondo posto assoluto, preceduto solo da Maria. È quella che mi piace definire la «sindrome della regina». Per una volta nella vita, noi poveracci senza soldi, senza potere e sconosciutissimi, possiamo fare una cosa degna di un re e di una regina, dare a nostro figlio o a nostra figlia lo stesso nome del principino o della principessina. Ancora una nota leopardiana. Perché Leopardi aveva già scoperto, ai primi dell’Ottocento, uno dei meccanismi portanti delle mode onomastiche. La sua riflessione nello Zibaldone prosegue, infatti, così: «E ordinariamente l’idea che noi abbiamo dell’eleganza, grazia, dolcezza, amabilità di un nome, non deriva dal suono materiale di esso nome, né dalle sue qualità proprie e assolute, ma da quelle delle prime persone chiamate con quel nome, conosciute o trattate da noi nella prima età». Il declino di un nome Non si tratta di un semplice fatto numerico: nel 1950 nascevano in Italia circa 10.000 Maurizio l’anno, oggi ne nascono 200. No, c’è qualcosa di più nel tramonto di certi nomi. Qualcosa che fa pendant con quel fenomeno che, per le voci del lessico, va sotto il nome di slittamento semantico. In sintesi, si tratta di parole che indicano una persona o un oggetto di 46­­­­

un certo prestigio ma che, col passare del tempo, delle mode, del potere di popoli e gruppi che usavano quelle parole, sono discese nella scala sociale. Faqwim in origine era il teologo degli Arabi, quando questi dominavano nel Mediterraneo. Con il progressivo ridursi del loro potere (in Sicilia furono anche fatti schiavi da Federico II e deportati in Puglia), il teologo era più semplicemente la persona colta che sapeva scrivere. E poiché gli Arabi vivevano soprattutto di commercio, furono addetti a registrare e far di conto nelle dogane. Infine, quando in certe comunità gli Arabi erano ormai gli ultimi della scala sociale, nei porti e nei mercati era necessario soprattutto trasportare le merci: e alla fine il nostro faqwim divenne un facchino. Analogamente, l’aguzzino (algozin) era in origine, pensate un po’, il ministro della Giustizia presso gli Arabi. Mentre presso i Longobardi, lo spiedo era un’arma da combattimento, la stamberga una normale abitazione, lo sguattero un soldato, lo sgherro un capitano... Naturalmente ci sono anche parole che hanno compiuto un percorso opposto, come cancelliere, colui che chiudeva i cancelli del tribunale, in tempi moderni Primo ministro (almeno in alcuni Paesi). Ma torniamo ai nomi di persona. Quando un nome è avvertito come troppo diffuso e banale, o appartenente a un mondo, una lingua, una cultura ormai lontani, può scendere almeno quattro gradini, e sono gradini pesanti. Primo: diventa sinonimo di uomo e donna qualunque. Un verso del XIII canto del Paradiso di Dante suona così: «Non creda donna Berta e ser Martino». Quei nomi sono usati proprio come oggi noi diremmo Tizio e Caia. Secondo: il nome dà origine a voci di lessico, ossia nomi comuni di scarso prestigio o addirittura stigmatizzabili: monello, che un tempo aveva un significato molto più negativo di oggi, viene da simonello, piccolo Simone. Terzo: il nome di persona viene applicato al mondo della natura, in particolare a quelle specie vegetali o animali ritenute misteriose, contigue a entità soprannaturali, di cui potreb47­­­­

bero godere della protezione o rappresentare le incarnazioni o i messaggeri; o ad animali considerati, per varie ragioni, pericolosi o dannosi. Nei dialetti del Cremonese, per esempio, questi nomi detti parentelari sono applicati al tritone, giuanì, al baco della frutta, barbagiàcom, alla coccinella, caterina, alla vespa, martinél, ecc. Ma ogni territorio, ogni comunità ha dato i suoi nomi di persona alla natura. Quarto e ultimo gradino, che riguarda soprattutto nomi del tutto fuori moda o tabuizzati per gli esseri umani, è la loro imposizione a personaggi d’invenzione, pupazzi, animali domestici, veicoli, oggetti di vario tipo. Insomma, sempre più in basso nella scala che vede in cima l’uomo e la donna e in fondo gli esseri inanimati. Pensate a Carolina, nome di grandissima moda nell’Ottocento, ma un secolo dopo divenuta la mucca di plastica che veniva regalata a chi raccoglieva i punti dei formaggini Invernizzi. Un buon esempio sono certi nomi greci non più usati per i bambini, e non da ora. Ulisse e Calimero sono stati due fortunatissimi cartoni animati della pubblicità televisiva. Nelle storie di Topolino compaiono il fedele cane Pluto (che non parla, mentre l’altro cane Pippo, con un nome ancora in uso, è antropomorfizzato) e lo strampalato inventore Archimede Pitagorico. Menelao Strarompi, Patroclo e il professor Aristogitone erano figure comiche della radiofonia. Nestore era il cavallo protagonista di un film di Sordi. Fidia, Xantia, Ulysse e Clio sono modelli automobilistici. Minerva un marchio di cerini. Hercules un aereo militare, Ajax (Aiace) un detersivo, Adonis e Icaro denominazioni di cocktail. Se apriamo qualche romanzo di fine Ottocento o del Novecento, Argo è il cane da caccia del protagonista di Senilità di Svevo. Minerva una cagnetta nel Fu Mattia Pascal di Pirandello. Niobe la vecchia serva delle Sorelle Materassi e Leonida, Licurgo, Orfeo, Telemaco e Zobeide altri vecchi o strambi o scorbutici personaggi di Aldo Palazzeschi. Paride è un pastore nella Ciociara e Dirce, Egisto, Egle, Eunice, Milone figure di basso profilo sociale dei Racconti romani di Alberto Moravia. 48­­­­

Ci si può ribellare al fatto che un nome scenda lungo la scala socionomastica? In California, nel 1983, è nata un’associazione per la difesa dei Fred, nome frequente ma offuscato dal grande successo di Fred Flinstone, protagonista del cartone animato (poi anche film) di Hanna & Barbera Gli antenati. I soci disponevano di un bollettino periodico, la «Fred Connection». In Italia nel 1996 un ingegnere abruzzese ha organizzato il raduno dei Mario, ma per quanto dagli anni Sessanta del XX secolo il nome non risulti certo fortunato come nei decenni precedenti, non siamo al livello della foca monaca o del panda cinese. Basta entrare in un pubblico ufficio o salire su un autobus per incontrare qualche Mario e, se lo si desidera, provare a socializzare. Sarebbe più logico che nascessero le associazioni degli Abelardo, degli Adalgiso, degli Adelmiro, degli Agamennone, degli Agapito, degli Agesilao, degli Alcibiade, degli Alfeo, degli Amilcare, degli Anacleto (e siamo solo a metà della lettera A). L’età media di un nome Ci sono nomi senza età e nomi ben collocabili in un arco cronologico più o meno ampio. Ma se, come abbiamo visto, la frequenza e diffusione dei nomi è in funzione del tempo (e dello spazio), possiamo anche valutare che età abbia un nome in una certa data e in un dato luogo. Calcolo semplice (con un programma efficiente, s’intende, e con una banca dati anagrafica aggiornata): per ciascun nome si sommano le età dei portatori e si divide il totale per il numero dei portatori. Se nel vostro condominio vivono una Rita di 70 anni e una Rita di 30, l’età media di Rita in quel condominio sarà 50. Il Comune di Trento, per esempio, ha calcolato che alla fine del 2009 nella sua popolazione femminile il nome più anziano era Ida con quasi 75 anni e mezzo, seguito da Pia, Irma e Lina, tutti over 70. Il più giovane: Sofia, con poco più di 10 anni, poi gli «adolescenti» Arianna, Martina, Alessia e di 49­­­­

poco «maggiorenni» Giorgia, Aurora e Veronica. Tra i maschi, nessun nome ultrasettantenne, ma Lino a 69, Italo e Gino quasi a 67, Remo a 66 e Livio a 65. Il nome «bambino» per eccellenza era Samuele con meno di 10 anni; più grandicelli Nicolò, Jacopo, Mattia, Simone, Daniel, Tommaso e Thomas, comunque «minorenni». A Bolzano all’inizio del terzo millennio i nomi più giovani sono risultati Aylin, Clarice, Leah e Annalena, e tra i maschi Jeremia, Noah, André e Nick, compresi tra i 2 e i 3 anni. I nomi di donna più vecchi: Modesta, Friederika, Theresa e Speranza. Uomini: Adelio, Amleto, Arduino, Olindo e Quinto, tra i 71 e i 77 anni. Questi dati confermano (ma ce n’è ancora bisogno?) che esistono nomi per bambini, per giovani, per adulti e per anziani. Il lettore avrà infatti riconosciuto in quelli con l’età media più bassa nomi oggi di gran moda e, viceversa, tra quelli con l’età media più avanzata, nomi non più di moda. Certo, non è tutto così semplice. Pensate a quante bimbe si chiamano oggi Giulia o Sara. Ebbene, questi nomi a Trento presentavano un’età media di quasi 22 anni. Il che significa – non c’è bisogno d’essere esperti di statistica – che per ogni nuova Giulia che nasce dovrebbe esistere una Giulia quarantaquattrenne o 22 Giulia ventitreenni. Poi ci sono nomi trasversali alle generazioni. Che età potrebbero avere Francesca o Giuseppe? A Trento 31 anni e mezzo e quasi 58, rispettivamente; Maria quasi 65, Mario 62. Va da sé che l’età media cambia di anno in anno e di città in città. Col passare del tempo tutti i portatori di un nome valgono un punteggio più alto, ma entrano nel conto i nuovi nati con valore 1 ed escono i deceduti sottraendo alla somma numeri perlopiù elevati. Il solito nome Emma oggi avrà un’età media assai più bassa di vent’anni fa: son passate a miglior vita le tante donne così chiamate che erano nate tra fine Ottocento e primo Novecento ed è spuntata una nuova generazione di piccole Emma. Nel 1992 ebbi modo, tabulati anagrafici alla mano (gentilmente concessi dal Comune), di calcolare l’età media dei no50­­­­

mi dei residenti a Roma, basandomi su una ventina di annate campione tra 1901 e 1991. In quel caso, la differente metodologia fece emergere un gran numero di nomi giovanissimi: Jessica appena 2 anni e mezzo in media, Martina 3 e mezzo, Noemi poco più di 4, Ilenia, Gaia, Marta, Giorgia e Veronica tra 7 e 8. All’opposto, Olga era il più vecchio con quasi 74 anni medi, seguito dagli ultrasessantenni Elvira, Italia, Amelia, Bianca, Iolanda e Fernanda. Parallelamente, Mattia era il nuovo nato per eccellenza, con 3 anni e mezzo, poi Jacopo 4 e qualcosa, Matteo 6, Manuel 7, Mirko meno di 10, Valerio, Alessio e Simone meno di 11. L’antica Roma non era più di moda: i nomi più «vecchi» risultavano Remo (66 e mezzo) e Romolo (quasi 59), poi Gino, Fernando, Aldo e Cesare. Dai semplici dati numerici si possono trarre piccole curiosità. Avrete notato la differenza tra Mattia e Matteo: significa che Matteo ha preceduto sia pure di poco il successo della sua variante, oppure che a Roma i Matteo adulti e anziani sono più numerosi dei Mattia coetanei (alzando così la media). Una certa tendenza per le grafie esterofile emerge dalla tabella completa. Mirko è più «giovane» di Mirco, così come Christian e Cristian lo sono di Cristiano, Manuel ha 5 anni meno di Emanuele. Dopo vent’anni possiamo presumere che il nome Bianca si sia ringiovanito non poco, e che tra breve sarà la volta di Amelia e di Iolanda. Italia o i due gemelli della lupa, al contrario, sono sicuramente invecchiati, probabilmente di vent’anni tondi tondi. Ci si può anche sbizzarrire in analisi più raffinate. Il Comune di Torino ha messo in rete la classifica dei nomi più frequenti dei suoi cittadini e le somme sono ripartite per classi anagrafiche. Così di Maria, in testa con 43.750 portatrici, scopriamo che oltre 9.000 hanno tra i 60 e i 69 anni; più di 4.000 tra i 30 e i 39; solo 400 tra 0 e 9 anni. A contribuire alla 4a posizione di Rosa (dietro ad Anna e a Francesca, ma davanti a Giuseppina, Angela e Laura) sono 1.500 sessantenni e appena 22 bambine sotto i 10 anni. Per Giuseppe, che prevale in campo maschile, si passa da oltre 3.700 sessantenni e poco 51­­­­

più di 300 bimbi 0-9 anni. Invece per Francesco, che si piazza 2º davanti a Giovanni, Antonio, Marco e Andrea, la distribuzione è più equilibrata: quasi 1.100 nella classe più giovane, oltre 1.600 fra i trentenni, 1.930 tra i sessantenni. Se avete buoni amici al vostro Comune, chiedete di eseguire qualche calcolo per voi. Magari potreste scoprirvi onomasticamente più giovani di quel che dice la carta d’identità. Proviamo a seguire nel tempo la Hit Parade di una ­città. Donne a Venezia: la classifica generale del 2006 indicava nell’ordine Maria, Anna, Francesca, Laura e Paola. Maria risulta prima tra le ultranovantenni, davanti a Giuseppina, tra le ottantenni precedendo Bruna, tra le settantenni davanti a Luciana e tra le sessantenni superando Gabriella e Paola (sempre con scarti abissali). Ma tra le cinquantenni Maria ha perso il primato, conquistato da Daniela seguita da Marina. Per le quarantenni veneziane il primo nome è Monica, su Roberta e Antonella, per le trentenni Silvia davanti a Francesca e Barbara. Nuovo cambio per le ultime generazioni: Giulia è costantemente prima, superando Elisa tra le cittadine dai 21 ai 30 anni, Sara tra le 11-20 anni ed Emma e Anna tra le 0-10 anni. Sempre a Venezia, la classifica generale maschile si snocciolava così: Andrea, Marco, Roberto, Alessandro, Giovanni. Tra i cittadini con oltre 90 anni primeggia Mario su Giuseppe e Antonio. Tra gli ottantenni il nº 1 è Giuseppe, tra i settantenni Paolo, tra i sessantenni Roberto su Maurizio, tra i quarantenni Andrea davanti a Stefano; poi Marco prende il sopravvento e domina per tre decadi, con Andrea fisso al 2º posto. Solo tra i bambini 0-10 anni, Matteo – che da tempo era 3º – conquista il primato seguito da Tommaso. Spostiamoci a Napoli. Nomi femminili calcolati ogni quarto di secolo: Anna era il nome imposto con maggior frequenza nel 1925, nel 1950 e nel 1975 con Maria in 2a posizione, e Carmela, Concetta, Assunta e Annamaria subito dopo; nel 2000 graduatoria rivoluzionata: 1a Martina, poi Alessia, Fran52­­­­

cesca, Federica e Chiara. Ci si può chiedere come mai proprio in una città caratterizzata da grande devozione mariana (lo stesso accade per Salerno), Maria non sia stato il primo nome almeno nella prima metà del Novecento, quando lo era nel resto d’Italia. La risposta è semplice: tanta è appunto la marianità dell’onomastica partenopea che a Maria si è spesso unito un secondo nome, così che la sua presenza si è frammentata. Basti pensare che nel 1950 Mariarosaria figurava al 3º posto (mai così in alto altrove nella storia italiana). Mentre Venezia è stata nel XX secolo una città all’avanguardia nella scelta dei nomi di battesimo, con Napoli ci troviamo in una città conservativa per eccellenza: tra i nomi maschili si alternano in testa Vincenzo (1925), Antonio (1950 e 2000) e Salvatore (1975); e, con Giuseppe, con Francesco e con Giovanni i primi 5 sono praticamente gli stessi per tutto il secolo. Anche nel 2000 i primi posti spettano a Francesco e Vincenzo, poi Giuseppe e, unica novità, Andrea. Bari è risultata altrettanto tradizionalista sino alla fine del secolo: Maria era nº 1 nel 1925, nel 1950 e nel 1975, con Anna, Angela, Rosa e Teresa stabilmente dietro. Solo nel 2000 tutto è cambiato con il primato di Alessia e i posti d’onore a Martina, Giorgia e poi Francesca e Roberta. Quest’ultimo nome riflette una scelta che data agli anni Cinquanta e che altrove si è ormai esaurita. In effetti, con la parziale eccezione della Sicilia, si può dire che il Centro-Nord (in particolare nelle grandi città) precorra le mode, con il Meridione e i centri più piccoli puntualmente in ritardo. Così come in molti casi – ne abbiamo già fatto cenno – le classi più istruite e socialmente benestanti aprono la strada a nomi che poi dilagano in quelle medie e basse. Il che, tradotto, vuol dire che una Cinzia, una Patrizia o una Daniela nate negli anni Cinquanta (meno giovani si contano sulle dita di una mano) hanno molte probabilità di essere più colte, più ricche, più settentrionali e più metropolitane delle omonime venute al mondo venti o trent’anni dopo (ma non sessanta: potrebbero essere le loro altolocate nipotine). 53­­­­

Allarmi ingiustificati Tempo fa in una trasmissione radiofonica mi è stato chiesto: «Come mai, oggi, molti nomi non vengono più attribuiti ai bambini in base a un particolare significato, una particolare appartenenza geografica, una discendenza genealogica, ma sono mutuati da oggetti o personaggi di fantasia, come dimostrano tristi esempi nel mondo dello spettacolo (per esempio Francesco Totti e Ilary Blasi che hanno chiamato la propria figlia Chanel)? È un’evoluzione o un’involuzione della lingua?». Quella domanda raccoglieva molti stereotipi che si basano sul sentito dire, su dati mediatici e non statistici, su paure immotivate. I nomi che diamo ai nuovi nati sono sempre numerosi: il repertorio non si sta prosciugando. Si tratta per la stragrande maggioranza di nomi della tradizione italiana e comunque di passaggi da una lingua all’altra è piena la storia. I nomi di fantasia, inventati per il puro divertimento di genitori incoscienti (qualcuno poi si pente), corrispondenti a marchi commerciali, a oggetti o a espressioni curiose, sono talmente pochi da finire sui giornali. Eccezioni perlopiù stigmatizzate, aneddoti da cronaca rosa, sicuramente non destinati a lasciare traccia. Non conosciamo più il significato dei nomi, è vero, ma non è un fenomeno recente. Quando nel 1182 Pietro di Bernardone tornò in Umbria dalla Francia trovando il figlio neonato che la madre aveva chiamato Giovanni gli impose invece il nome Francesco, ben sapendo che voleva dire ‘francese’. Ma chi, fin dalla prima fama e venerazione del santo d’Assisi, ha più associato quel nome a quella provenienza? Certo, la tradizione di assegnare i nomi dei nonni o di altri parenti si è fortemente ridotta, con la parziale eccezione del Meridione d’Italia; ma che l’eufonia e la bellezza di un nome (concetti effimeri, meglio dire: la moda) rendano poco attraenti i nomi delle persone anziane non è di per sé né un bene né un male. Può darsi che in futuro si tornerà a custodire la tradizione familiare attraverso un repertorio rinnovato di nomi. 54­­­­

E non è poi così vero che i nomi dei santi della religione cristiana siano sempre più rari. Maria e Giuseppe sono in declino rispetto ai primati mantenuti per secoli, ma nomi come Anna, Pietro, Giovanni, Antonio sono di nuovo molto frequenti. E poi i nomi biblici che dominano l’Italia e il mondo occidentale appartengono quasi tutti a santi: Andrea, Marco, Matteo, Luca, ecc. È vero, invece, che in molte famiglie queste scelte sono banalmente di moda e sganciate dall’invocazione di un patronato religioso. Ma la questione della secolarizzazione della società va ben oltre l’onomastica. Gli allarmi, insomma, sono ingiustificati. E lasciamo in pace Totti e consorte (e lo dico da convinto laziale). Come scegliere il nome Non esistono regole, meglio precisarlo subito. Occorre prendere in considerazione una massa di informazioni e combinarle tra loro. Una specie di indagine. Ci vorrebbe un esperto di intrighi. E difatti con la questione si sono cimentati ben due giallisti, Carlo Fruttero e Franco Lucentini, che nel 1969 – prima ancora di occuparsi di fantascienza e di inventarsi La donna della domenica – pubblicarono un classico di onomastica divulgativa: Il libro dei nomi di battesimo. Fruttero e Lucentini si preoccupavano in particolare dell’abbinamento nome e cognome. I loro consigli sono ancora preziosi: le rime vanno bene in poesia, ma in tutti gli altri casi hanno qualcosa di infantilistico e stucchevole, perfino volgare. Un cognome cortissimo andrebbe compensato da un nome con un numero ragionevole di sillabe e viceversa. Chi ha un doppio cognome non carichi la prole con un nome doppio. Meglio evitare le ripetizioni sillabiche: Alba Barbieri, Enrica Caruso, Ida Damiani; per iscritto va tutto bene, ma provate a pronunciarle. Ricalcare il nome sul cognome è un vezzo, una forzatura, una discutibile freddura: se vi chiamate Benedetti, meglio evitare per la neonata il nome Benedetta. E se il cognome è Rossi o Bianchi, meglio escludere Mario o Ma55­­­­

ria: significherebbe gettare il figlio o la figlia in pasto ai leo­ ni dell’equivoco burocratico, del disguido postale e perfino dell’errore giudiziario. Per non parlare dell’assoluto grigiore onomastico a cui li condannereste. Poi ogni famiglia fa la sua scelta sulla base anche di altre considerazioni. Una volta fui invitato a cena da una coppia di amici che dopo Giovanni e Giacomo, aspettavano il terzogenito maschio e stavano riflettendo sul nome da dargli. Aldo era escluso in partenza. Ma la richiesta era articolata: nome trisillabo, possibilmente sdrucciolo, con la stessa -g- iniziale degli altri due; non troppo di moda e neppure troppo raro. Dopo un rapido studio, pur sapendo di non poter accontentare la richiesta nella sua interezza, proposi Giuliano. Non è il più banale Giulio, anche se da quello deriva; ha tre sillabe, una frequenza bassa ma, come altri nomi in -ano (Adriano, Sebastiano, ecc.) in lieve ascesa. Alla fine scartato in favore del più classico Giuseppe (dopo un breve ballottaggio con Giordano). La realtà è che se dico Giuliano non ci s’immagina un bambino, perché i bambini con quel nome sono pochissimi. Viene piuttosto in mente il pancione di Giuliano Ferrara, la caricatura topesca di Giuliano Amato, i segni del tempo sul volto dell’attore Giuliano Gemma. Ed è sempre così. Un nome richiama le persone che conosciamo. Leopardi docet. Ecco perché si formano le mode: preferiamo un nome perché ci sembra adatto a un bimbo o una bimba; e ci sembra adatto perché tanti piccoli lo portano. Il gatto si morde la coda: scegliamo un nome perché è di moda e si forma la moda perché tanti continuano a sceglierlo. È la regola del mercato. Jacques Attali, consigliere di François Mitterrand e tuttologo, da giovane s’era occupato di musica e di dischi. Per mostrare come veniva a formarsi la Hit Parade delle vendite, citava la pubblicità di un’auto che diceva pressappoco: «È la migliore. Volete una prova? È la più venduta». Beninteso, la percezione della diffusione di un nome è in genere scarsa. Nessuno consulta le classifiche di frequenza 56­­­­

delle riviste specializzate o bussa agli uffici anagrafici per verificare le liste. Dicevo alcune pagine fa che, rispondendo a un questionario, numerosi giovani scrissero che i genitori avevano scelto per loro un nome «originale», che però in real­ tà non lo era, ed era anzi diffusissimo in quel periodo. Appunto, non ve n’era la percezione da parte di quei genitori. Oggi se all’uscita di una scuola elementare vi metteste a chiamare «Giulia» si rivolterebbe non solo la metà delle scolarette, ma anche la metà delle madri in attesa di recuperare le bimbe: Giulia è stato il nº 1 in Italia dal 1991 al 2010; vent’anni di regno incontrastato, a Roma e altrove già dai primi anni Ottanta. Eppure nel 2012 nascono ancora quasi 8.000 nuove Giulia: chissà se i loro genitori scelgono il nome considerandolo originale. Femminili da maschili e viceversa Per quanto esistano, come ampiamente visto, vari nomi ambigeneri, il più delle volte il maschile si distingue dal femminile per la terminazione. O anche per la suffissazione. Almeno in passato. Per esempio, i nomi maschili in -e, -i o -a trovavano corrispondenza in femminili con -ina o -etta: Andrea/Andreina, Ettore/Ettorina, Ercole/Ercolina, Luigi/Luigina (oltre che Luisa), Giuseppe/Giuseppina, ecc. Ma anche ad altri nomi in maggioranza maschili corrispondeva un femminile suffissato. Enrichetta era ben più frequente di Enrica, Antonietta di Antonia e – nell’Ottocento e nel primo Novecento – Paolina di Paola, Angelina di Angela e Albertina di Alberta. A proposito, per quanto possa sembrar strano, le mode favoriscono non solo certi nomi, ma anche certi suffissi. Se le nostre bisnonne si chiamavano appunto Angelina, Albertina, Paolina, Annetta, Enrichetta, già le nostre nonne e poi le nostre mamme hanno portato – dagli anni Venti-Trenta in poi – le corrispondenti forme piene, non diminutive. Il caso più clamoroso è un po’ più recente e riguarda Simonetta, rimpiazzata a metà degli anni Sessanta da Simona. La differenza 57­­­­

è così netta che, se una donna di 50 o più anni oggi si fa chiamare Simona, al 99% sui documenti sarà una Simonetta. Provare per credere. Poi tra qualche tempo torneranno in auge i nomi in -ina e in -etta, statene certi. Nella seconda metà del XX secolo abbiamo assistito a una liberalizzazione dei generi. Nomi che un tempo erano solo maschili sono divenuti frequentemente femminili: così Roberta, Stefania, Federica. Alla base del genere unico o quasi per un nome vi era quello del santo corrispondente: se il santo era uomo il nome era per tradizione maschile e viceversa. Tuttavia, nel Novecento sono rintracciabili – e destano curiosità – maschili e femminili rarissimi rifatti sul genere opposto nel quale invece sono estremamente diffusi. Sono registrati, ad esempio, 18 Tereso e 16 Anno. Femminili inconsueti di maschili popolari sono 7.264 Cira, 4.950 Biagia, 1.556 Corrada, 1.294 Diega, 1.197 Massimiliana, 919 Sergia, 573 Massima, 323 Rema, 117 Uga, 64 Marca, 15 Danta e altrettante Annibala, ecc. Maschili rari di femminili ben noti: 1.677 Ido, 1.588 Loredano, 1.538 Grazio (con 156 Graziello), 557 Vando, 514 Elviro, 480 Rito, 402 Rosino (con 54 Rosetto e 11 Roso), 330 Nadio, 321 Iolando, 250 Cecilio, 227 Diano, 213 Bianco, 139 Evo, 126 Eliso, 109 Eleno, 106 Immacolato, 88 Anito, 82 Marianno, 67 Emmo, 59 Claro, 44 Eleonoro, 32 Chiaro, 27 Perpetuo, 19 Violetto, 10 Serenello, 9 Alicio, ecc. Né mancano cambiamenti di genere in nomi esotici – ben 129 Luano –, esterofili – 20 i Tanio – o di introduzione moderna derivanti per esempio dal teatro lirico, come testimoniano 56 Aido e 5 Normo. Il significato dei nomi Siamo ormai avvezzi a considerare etichette opache, di cui non sappiamo – e spesso non ci chiediamo – più il significato, i nomi come i cognomi. Naturalmente non si pretende che l’uomo della strada conosca il significato di Asdrubale o di Prosdocimo. Ma che Paolo significhi ‘piccolo’, Claudio 58­­­­

‘zoppo’ (avete presente claudicante?) o Irene ‘pace’ dovrebbe esser parte della nostra cultura condivisa. Alcuni nomi corrispondono a voci di lessico e allora sono palesi: Gloria, Vittoria, Serena, Letizia, Gaia, Gioia, Costanza, Speranza, Aurora, Selvaggia, e poi Rosa, Viola, Mimosa, Margherita, e ancora Giada, Ambra, Perla, Gemma... Ma anche nomi maschili come Libero, Giusto, Felice, Pacifico, Modesto, Placido, Severo, Valente... Però senza un dizionario o una cultura linguistica specifica è ben difficile sapere che Maria vuol dire ‘l’amata’, Matteo ‘dono di Dio’, Susanna ‘giglio’, Roberto ‘illustre per la gloria’, Bernardo ‘forte come un orso’, Giovanni e Anna ‘(Dio ha avuto) misericordia’, Carlo ‘uomo di condizione libera’, Simone ‘dal naso camuso’, Emanuele ‘Dio è con noi’, ecc. Da questa perdita di trasparenza hanno origine curiose tautologie: il musicista Eugenio Bennato è un doppione onomastico, perché Eugenio vuol dire ‘ben nato’ e lo stesso vale per lo scrittore Daniele Del Giudice, in quanto Daniele significa ‘giudice’ (per essere più precisi: ‘chi è giudice, sottinteso: se non Dio?’). Così rappresentano una ripetizione abbinamenti come Stefano Corona, Paolo Piccoli, Claudio Zoppi, Franco Libero, Biagio Balbo (due volte balbuziente), Rocco Corvo, Maria Amato, Silvio Boschi, Ugo Senno, Susanna Giglio, Tommaso Gemelli, Margherita Perla, Flavio Biondo e tanti altri. Ma in altre lingue e culture i nomi sono invece trasparenti, eccome. Prendiamo il Burundi. Non solo i nomi risultano comprensibili a tutti – i parlanti la lingua kirundi, s’intende – ma sono anche testimoni della storia che raccontano. Dicono della paura della gente, degli odii razziali e della guerra civile (tra Utu e Tutsi, dal 1993 al 2005, con centinaia di migliaia di vittime). Una donna ha chiamato il primogenito Nzikobanyanka che vuol dire ‘io so che ci odiano’. Il nome di un venditore di caffè è Ntezahorigwa, composto di tre elementi che combinati significano ‘mi aspetto che accada qualcosa di brutto’; i suoi fratelli e sorelle sono Nkinahamira ‘sto giocando sulle 59­­­­

sabbie mobili’, Nicayenzi ‘sono tranquillo, ma consapevole di trovarmi in pericolo’, Bakanibona ‘loro stanno progettando cose cattive, ma Dio mi proteggerà’. Altre volte richiamano la fine del colonialismo (Burikykiye: ‘il Burundi è divenuto indipendente’), la carestia (Ndikiminwe: ‘ho davvero poco nelle mani da offrire’), le invasioni di insetti (Nzige: ‘cavalletta’). Normale che quando nel 2005 si è presentato alle elezioni Pierre Nkurunziza, che vuol dire ‘buone notizie’, lo abbiano fatto capo del governo, senza neppure la promessa di un milione di posti di lavori o di abolire la tassa sulla prima casa. Un nome, una garanzia. Ma c’è poco da scherzare: in Burundi la corruzione è addirittura più alta che in Italia e la democrazia più apparente che reale. La nostra vita influenzata da un nome? Un nome può influenzare la vita di una persona? Se parliamo del suo significato, del numero di lettere, di combinazioni cabalistiche, no. O almeno non per chi non crede nell’onomanzia, parente stretta della cartomanzia e della più frequentata astrologia. Però... Però proviamo a chiederci: il naso può influenzare la vita di una persona? Una delle più note commedie di Pirandello, Uno, nessuno e centomila, inizia con il protagonista Vitangelo Moscarda (nome su cui sono stati scritti fiumi di parole) che si guarda allo specchio e su indicazione della moglie scopre che il naso gli pende verso destra. È evidente che se a qualcuno non piace il proprio naso, avrà difficoltà ad accettare il proprio volto, proverà disagio in certe situazioni, ahinoi si sottoporrà a un intervento di chirurgia plastica, potrebbe diventare timido e schivo, complicarsi le relazioni affettive. Con il nome è più o meno lo stesso. Anche se non pende davanti a uno specchio. Un nome troppo banale può favorire l’inserimento sociale, l’accettazione da parte del gruppo – si parla soprattutto di bambini e adolescenti –, ma anche condannare a essere confuso con altri o ad avere tra gli ami60­­­­

ci sempre qualche omonimo più popolare, nella cui ombra vivacchiare. Un nome molto originale può favorire complessi di superiorirà o di inferiorità. Uno studio inglese ha mostrato che il portare un nome particolarmente eccentrico, specie nelle classi culturali ed economiche più elevate, può essere un segno distintivo al punto da rafforzare l’autostima del portatore. Se è il ricordo di un bisnonno e si tratta di un nome obsoleto, può suonare come un nome da vecchio; e per questo curioso, sconosciuto ai coetanei e deriso. E poi occorre verificare il nome nei rapporti familiari. Perché è stato scelto quel nome? Uno psicologo dell’Università di Torino, Franco Quaglia, ha messo a confronto un gruppo di ragazzi difficili, ospitati presso una comunità di accoglienza, e un gruppo di coetanei con buoni rapporti in famiglia e a scuola. Ebbene, si è scoperto che nel caso dei ragazzi difficili era più alto il numero dei nomi scelti da un genitore da solo. Come dire che la scarsa armonia familiare era iniziata fin dalla nascita del bambino o della bambina. Un amico psicanalista argentino, Francisco Mele, mi raccontava delle sofferenze che può provare un bambino e poi ragazzo al quale sia stato dato il nome del fratellino premorto. Potrebbe convincersi che, se l’altro fosse vissuto, lui non sarebbe stato desiderato e non sarebbe mai nato. Potrebbe avvertire il peso del continuo confronto. Potrebbe trovarsi dinanzi alla tomba del fratello e specchiarsi in quell’identico nome e cognome. Il nome può essere oggetto di discriminazione. Negli Stati Uniti per esempio, se confrontate le classifiche dei nomi più diffusi nei quattro grandi gruppi etnici – caucasici, afroamericani, ispanici e asiatici –, noterete singolari differenze. Ci sono, è vero, nomi trasversalmente di moda, ma anche nomi tipici di un solo gruppo. Con qualche curioso incrocio: a New York, all’inizio del XXI secolo, Kimberley (o Kimberly) era tipicamente ispanico, Alexis spopolava tra i neri, Michelle ai primi posti tra gli asiatici. 61­­­­

Ebbene, nel 2003 una ricerca condotta dall’Università di Chicago e dal Massachusetts Institute of Technology (il famoso MIT: all’estero, giova ripeterlo, l’onomastica è una scienza presa molto sul serio) ha confermato l’ipotesi. Sono stati inventati 5.000 curricula di giovani in cerca di lavoro con identiche credenziali e inviati alle aziende che richiedevano personale tramite annunci sui quotidiani «The Boston Globe» e «Chicago Tribune». I curricula con nomi personali tipici dei bianchi hanno ottenuto il 50% di risposte in più di quelli con nomi caratteristici dei neri. I Neil, Brett, Greg, Emily, Anne hanno riscosso insomma molto più successo dei Rashed, Tamika, Ebony, Aisha, Kareem. Talvolta la discriminazione è inconscia. In un classico esperimento condotto un quarto di secolo fa all’Università Cattolica di Milano da Ferdinando Dogana, gli stessi temi svolti da studenti delle elementari erano stati giudicati (da un gruppo di adulti) ottimi se firmati con un nome alla moda come Marco o Alessandro; appena sufficienti se i nomi posti in calce erano fuori moda, tipici di generazioni anziane, come Bortolo o Gerolamo. Un’inchiesta simile è stata svolta nel 2009 nelle scuole elementari tedesche, ma con risultati parzialmente differenti. Astrid Kaiser dell’Università di Oldenburg ha stabilito che, di fronte a un nome non tradizionale, nella maggioranza dei maestri scatta un pregiudizio. I tradizionali Jacob, Lucas, Simon, Maximilian, Alexander, Hannah, Sophie, Charlotte, Marie sono associati dalla gran parte degli interpellati alla figura del bravo scolaro, disciplinato e impegnato. Il contrario capita ai nomi meno tradizionali e più legati a personaggi dello spettacolo – Kevin, Chantal, Angelina, Mandy, Justin, ecc. La differenza non sta nel nome in sé, ma nel fatto che a imporre i nomi dei divi del cinema e della televisione sono in genere le famiglie meno istruite e meno abbienti. Evidentemente la scuola ha poca voglia, consciamente o inconsciamente, di investire su questi bambini; non ha fiducia nelle loro potenzialità e così – indipendentemente dal loro impegno – i Kevin e le 62­­­­

Chantal renderanno sicuramente meno. Che fare? La Kaiser avanza alcune proposte (e con quel cognome le sue richieste diventano ancor più convincenti): primo, non ispirarsi alle celebrità nelle scelte onomastiche; secondo, educare gli insegnanti a superare i loro pregiudizi. Un’altra ricerca condotta in Pennsylvania nel 2008 ha mostrato che, se un nome non suona virile per un ragazzo, i coetanei possono vedere il portatore in una luce ambigua o negativa, riducendone l’autostima. Il che capita soprattutto con i nomi ambigeneri del tipo di Ashley. Altri studi hanno rilevato come tra gli adolescenti autori di reati alcuni nomi siano più frequenti di altri. La spiegazione, ancora una volta, non sta nel nome-destino: più semplicemente, quei nomi risultano particolarmente numerosi nelle comunità caratterizzate da minor cultura, scarse possibilità economiche, deprivazioni sociali, ecc. Insomma: non è il nome, imbarazzante o strano che sia, a condurre alla violenza e alla delinquenza, ma l’ambiente sociale nel quale per motivi etnici, culturali o altro, quel nome è più usato. Quando poi i nomi e i soprannomi diventano cognomi, la questione è simile. Di certi cognomi imbarazzanti s’è detto e ancora si dirà. Ma alcuni hanno superato brillantemente la prova. A un ragazzo che voleva diventare un bravo portiere di calcio, oltre mezzo secolo fa, fu detto: con quel cognome non andrai da nessuna parte. Si chiamava Pier Luigi Pizzaballa, parò molto tra i pali dell’Atalanta, della Roma, del Milan e del Verona e giocò perfino in nazionale (mezza partita nel 1966). L’idraulico più noto di Frascati, presso Roma, si chiama Senzacqua ma ha ugualmente molti clienti. Lo stesso, immaginiamo, varrà per la ditta di riscaldamento Freddi e quella di imbiancature Neri. Ed è probabile che non tutti i Senzadenari e i Senzaquattrini se la passino male dal punto di vista economico. In compagnia di questi signori possiamo finalmente traversare il guado ed entrare nel mondo (magico?) dei cognomi.

Storie di cognomi

Attaccati al cognome come cozze allo scoglio Nella primavera 2004, il quotidiano «Metro» pubblicava nella rubrica Nome x Nome la seguente notizia, intitolata La nuova legge sui cognomi: «Ormai pronta per l’approvazione in Parlamento, la nuova legge sui cognomi presenta come maggiore novità quella che prevede che i cognomi non potranno essere più lunghi di due sillabe (e di otto lettere). La decisione è stata presa in vista del risparmio di testi in ogni atto burocratico e in particolare per sveltire le procedure di informatizzazione e in Internet. Entro il 1º aprile 2005, a un anno da oggi, tutti i cognomi più lunghi verranno tagliati dalle anagrafi e limitati a due sillabe a scelta del cittadino. Un signor Scognamiglio, per es., si chiamerà in futuro soltanto Scogna o soltanto Miglio, Pappalardo dovrà optare per Pappa o per Lardo, anche il comunissimo Esposito potrà scegliere tra Espo e Sito. I Lombardi e Lombardo saranno conguagliati in Lomba (o in Bardi). I Brambilla si chiameranno Brambi, i Fumagalli Fuma, i Cattaneo Catta. Dalla norma saranno esentate, finché in carica, le più alte autorità dello Stato: non avremo dunque, per il momento, nessun Berlus». Un professore della Facoltà di Scienze politiche della Sapienza di Roma scrisse all’autore della nota che, dopo aver letto della decisione, infuriato, aveva cambiato il contenuto della lezione che avrebbe dovuto tenere quel giorno in aula, impostandola sulle prevaricazioni della politica più bieca e stupida nei confronti dei cittadini, oltre che sulla perdita del 64­­­­

patrimonio onomastico che la nuova sciocca norma avrebbe comportato. Intanto il forum internet dello IAGI, l’Istituto per l’Araldica e la Genealogia Italiano, si riempiva di proteste. La discussione, ancora oggi leggibile in rete all’indirizzo , prese il via dalle parole scandalizzate di Michele Tuccimei di Sezze: «Con questa ridicola legge perderemo tutti un patrimonio storico-personale-familiare che, per molti, dura inalterato da secoli e secoli. Mi domando che fine faranno i cognomi storici. Mi domando con che riguardo della Costituzione, di cui il diritto al nome è uno fra gli inviolabili, si pensa di emanare una legge del genere senza il consenso dei cittadini. Mi domando a cosa serviranno dunque i cognomi, visto che lo scopo per cui sorsero fu quello di distinguere le varie gentes... in questo modo altro che confusione, molti cognomi ‘accorciati’ sarebbero uguali ad altri, i rischi delle omonimie aumenterebbero vertiginosamente! Il problema di fondo è che tutto questo verrà fatto per ‘risparmiare’ sulla burocrazia. Ecco a cosa siamo giunti. Viva la libertà!». Finché... uno degli studenti non fece notare a quel professore – e un altro appassionato di araldica e genealogia a quel nobil signore – che, essendo il primo di aprile, avrebbe potuto trattarsi di uno scherzo. E che scherzo giornalistico fu posso testimoniarlo senza ombra di dubbio, essendo stato io l’autore (fui redarguito severamente dal direttore del giornale, che non avevo preventivamente informato). Ma la reazione indignata – anche da parte di professori e di esperti – mi sembra molto significativa. Da un lato conferma la scarsa fiducia degli italiani nella classe politica e quindi la verosimiglianza di leggi inutili o controproducenti; dall’altro dimostra che l’individuazione di ciascuno di noi con il classico «nome e cognome» è sentita oggi come a rischio. Rita Caprini, nel suo bel saggio del 2001 Nomi propri, ha annotato, allarmata, che la progressiva perdita di significato dei nomi propri può condurre a una trasformazione del nome 65­­­­

in qualcosa di puramente astratto e meccanico, come il codice fiscale; e allora sì, privo di qualsiasi senso, interscambiabile, senza identità. Differente è la situazione presso le civiltà indigene sparse nei vari continenti, dove il nome ha ancora un suo significato trasparente, viene imposto con funzioni specifiche e non per semplice eufonia o moda e a maggior ragione nelle culture prive – o quasi – di scrittura. Ma in effetti tutti noi siamo già una sigla alfanumerica di 15 elementi e ciò che rimane del nome e del cognome nel codice fiscale sono sei lettere: com’è noto, le prime tre consonanti del cognome e la prima, la terza e la quarta consonante del nome, salvo conguagliare con le prime vocali i cognomi poveri di consonanti. BRLSLV è il nome «fiscale» di uno dei nostri più recenti capi del governo, NPLGRG quello del presidente della Repubblica Italiana tra il 2006 e il 2013 e BFFGLG quello del capitano della nazionale di calcio. Ma c’è solo il fisco, c’è solo l’informatizzazione dei codici, ci sono solo l’ABI, il CAB e l’IBAN a profilare all’orizzonte una rivoluzione onomastica? Come, quando, dove e perché sono nati La nascita dei cognomi in Italia, dal punto di vista cronologico e delle modalità, rappresenta uno degli interrogativi che più incuriosiscono e avvincono anche il ricercatore professionista, il quale è ancora ben lontano dal poter dare risposte sicure. Quand’è che, nella catena onomastica con cui una persona viene designata, si può parlare effettivamente di cognome in senso moderno? Presso i Romani il cognomen (< cum nomen) accompagnava il praenomen individuale e quel nomen che fu per secoli il più importante elemento della catena onomastica, indicando il gentilizio, cioè l’appartenenza a una gens. Ancora oggi nomi largamente usati derivano appunto dai nomi delle gentes, e non da quelli individuali: così Claudio proviene dalla gens Claudia. Il cognomen era piuttosto un sopranno66­­­­

me individuale: Cicerone (‘porro’) era prima di tutto Marco Tullio; Cesare (‘elefante’?) era in origine Gaio Giulio; Plauto (‘dai piedi piatti’) si chiamava Tito Maccio; e appartenevano rispettivamente alla gens Tullia, Iulia e Maccia. Sparito il sistema dei tre nomi latini, i primi secoli del Medioevo furono caratterizzati dal «nome unico». Un solo nome portavano i cristiani dei primi secoli; uno soltanto i popoli germanici che si stanziarono in Italia. Con l’inizio del secondo millennio, i maggiori spostamenti delle popolazioni, i commerci, la crescita dei centri abitati, la regolamentazione di compravendite, i testamenti e le donazioni si scontrarono con un elevatissimo tasso di omonimia. Vennero così assegnati alle persone secondi nomi. Il nome aggiunto al primo poteva essere un soprannome, il patronimico o il matronimico (ossia il nome di uno dei genitori), il mestiere esercitato o il luogo di provenienza del nominato. Si trattava, più che di un cognome, di un secondo nome individuale. Soltanto in rarissimi casi si trasmetteva di padre in figlio, e questa trasmissione poteva peraltro interrompersi all’altezza di una qualsiasi generazione. Si può parlare di vera diffusione dei cognomi intorno al XIV-XV secolo, e quasi esclusivamente per le famiglie nobili o comunque ricche e potenti: il nome «trasmesso» era un simbolo di appartenenza, di collocazione nella società e nella gerarchia familiare. Veniva talvolta esibito come uno stemma o un palazzo o una torre. Era insomma un affare economico e perfino politico. I motivi per cui un cognome comincia a trasmettersi sono infatti legati all’eredità, ai commerci, allo status sociale. A seconda del luogo e del tempo, il nome di famiglia diventa ora garanzia sociale, ora marchio di eccellenza – nobiltà, potere politico, potere economico –, ora meccanismo utilizzato per conservare il potere dei propri ascendenti, ora strumento con il quale indicare i criteri per la trasmissione dei beni. Certo è che il nome di famiglia, o meglio le catene onomastiche formate da più elementi, alcuni dei quali ricorrenti, 67­­­­

tendono a comparire prima nelle classi sociali elevate e solo in tempi successivi (sempre con meccanismi e in spazi temporali che variano da situazione a situazione) vengono utilizzate anche dalle classi medie e infine da quelle meno abbienti e acculturate. Il passaggio si verifica per semplice imitazione, o per necessità distintiva. Talvolta per imposizione dall’alto: è il caso dei vari membri delle comunità ebraiche che – privi di nomi di famiglia, in Italia come all’estero – si videro obbligati ad assumere un cognome. Insomma, alla domanda «Quando sono nati i cognomi?» non si può rispondere con precisione. Il processo che porta da un nome di famiglia assente – oppure oscillante, alternante, declinabile – sino al cognome immutabile di tipo moderno non è stato un processo lineare. È stato, al contrario, un movimento intermittente, che ha condotto ora in una direzione ora in quella opposta, con divagazioni laterali, incertezze, recuperi. Se riconosciamo un Paolo Martini nella Firenze del Duecento, non possiamo essere affatto certi che quel ramo dei Martini sia giunto inalterato fino ai nostri giorni. Nella Genova medievale talvolta è il nome personale – e non il cognome – a presentare un certo grado di ereditarietà. Le famiglie possono associarsi tra loro per motivi politici o matrimoniali e il marito può adottare il cognome della moglie. I cognomi sono una sorta di merce di scambio, simboli della rete di relazioni in cui un individuo è o si dichiara inserito. A Palermo, a cavallo tra XIII e XVI secolo, è documentata la trasmissione del cognome nelle famiglie nobili e in quelle più facoltose. Nelle altre fasce sociali persiste il ricorso a un nome aggiunto – un nome di luogo o il nome paterno o il mestiere nel caso degli artigiani – che però non si trasmette. A Cava de’ Tirreni, dove l’ereditarietà del secondo nome è precoce, questo non rappresenta un segno di nobiltà o prestigio: i cognomi risultano coniati dai compilatori dei registri della locale abbazia per associarli a determinati terreni. Nella Roma tardomedievale i nomi di famiglia, pur se esistenti, sono frequentemente omessi negli atti di natura patri68­­­­

moniale o nelle liste di testimoni. Risultano invece ben presenti nei documenti di natura politica – statuti, cronache, lettere papali, ecc. – e nelle scritture ostentatorie: epigrafi tombali, altre iscrizioni, ecc. In breve, il cognome ha una funzione non tanto di identificazione, quanto autocelebrativa e politica: uno strumento atto a definire àmbiti di potere. Potremmo dire che è l’equivalente degli stemmi dipinti sulle facciate delle case. E spesso si abbandonano i patronimici troppo diffusi e le indicazioni di mestieri umili per adottare forme dalla parvenza illustre e non confondibili con soprannomi. Come certi patrizi di Tivoli, i Tutii (dall’ipocoristico Tuccio) o i de mastro Ianni che diventano rispettivamente i Taurini e i Leonini. Ma in realtà oggi è difficile distinguere cosa fossero nel Medioevo i nomi veri e propri e gli attributi aggiunti, le forme complete e quelle abbreviate, le registrazioni scritte fedeli all’uso orale e quelle che lo stravolgevano. Il fatto è che la nostra visione è miope. Sarebbe grosso modo come se, tra cento o duecento anni, leggendo i documenti degli inizi del XXI secolo, qualcuno sostenesse che il più noto campione della città di Roma di uno strano sport che consisteva nel buttare una palla in una rete si chiamasse TTTFNC76P27H501X, anche se i suoi contemporanei, aggiungendovi delle strane lettere e cancellando tutti i numeri, pare lo abbreviassero in «Totti». Il cognome modernamente inteso è cinque-seicentesco. Nasce quando comincia a rispondere a tre caratteristiche. Primo: una stabile (o quasi) trasmissione di generazione in generazione. Secondo: l’immutabilità e la non flessibilità (la forma non cambia di numero e di genere). Terzo: la non corrispondenza quanto al significato con la realtà del portatore, che potrà chiamarsi Grassi, Pisano o Vaccaro indipendentemente dall’aspetto fisico, dalla provenienza o dal mestiere esercitato. Per trovare in tutta Italia il carattere di immodificabilità del cognome nel passaggio da una generazione all’altra dobbiamo aspettare il Sei-Settecento. E nei paesi più piccoli e sperduti addirittura l’istituzione generalizzata dell’anagrafe comunale, ossia l’Unità d’Italia. 69­­­­

Se il cognome riacquista senso: «Questo nome non mi è nuovo...» Si diceva che la fissazione del cognome coincide con la perdita di significato descrittivo: i nomi di famiglia diventano etichette moderne, ma vuote. Trasmesse e immutabili. A volte trasparenti nel loro significato originario, a volte comprensibili soltanto al linguista o al dialettologo e altre volte del tutto incomprensibili. Chi porta come nome di famiglia un nome di luogo o un nome di popolo non è detto che provenga da quel luogo o da quel popolo; né che eserciti un dato mestiere o ricopra una certa carica onorifica chi ha un cognome indicante una professione o una carica. Se questo succede, si tratta soltanto di una curiosa coincidenza e come tale viene considerata, fino a provocare il sorriso: un fornaio di cognome Forni o un abitante di Gallipoli che si chiami appunto Gallipoli possono incontrare inconvenienti nei rapporti interpersonali o semplicemente nella descrizione delle proprie generalità. Inconvenienti e... risate, almeno se a occuparsi di onomastica è il grande Totò. «Questo nome non mi è nuovo», soleva ripetere e ci ragionava su. Da dove nasceva la sua comicità onomastica? Dal fatto, di per sé banalissimo, che l’attore negava la perdita di significato del cognome: questo manteneva ai suoi occhi e alle sue orecchie un valore preciso, come fosse quel «nome aggiunto» medievale di cui s’è detto. Alla presentazione di una paziente – «Ada Barbalunga, vedova Barbieri» – Totò nei panni di un medico (il film è Totò, Vittorio e la dottoressa del 1957) replicava: «Per forza». «Come per forza?». «Morto il barbiere, la barba si allunga!». Notissima è la scenetta nel vagone-letto (Totò a colori, 1952) con l’onorevole Cosimo Trombetta (cognome peraltro frequentissimo, dalla Lombardia al Lazio, dalla Puglia alla Sicilia), chiamato da Totò Tromba, Trombone, Contrabbasso, Violoncello e infine presentato come suonatore di clarino. Non contento, Totò si ostinava a sostenere che la sorella 70­­­­

dell’onorevole Trombetta non poteva che sposare un Bocca. Trombetta in Bocca: dove altrimenti si mette la trombetta? Il tormentone delle variazioni sul tema si ripete in Destinazione Piovarolo (1955), in cui il protagonista La Quaglia è chiamato La Fagiana, L’Allodola, Lo Merlo. Nel film La cambiale (1959), protagonisti i cugini Posalaquaglia, testimoni pro e contro nella stessa causa, la prostituta Lola Capponi è ribattezzata Cappona, Gallina, Pollanca e Picciona. Nel film I ladri (1959), il malcapitato di turno è La Nocella, il cui cognome diventa via via La Noce, La Nocchia, La Finocchia, La Peretta, La Melona, La Nocciolina, Lo Fico Secco e Ortolani. Non senza metafore maliziose: peretta ‘clistere’, finocchio ‘omosessuale’, ecc. E quando in Totò, Peppino e la dolce vita (1961) si presenta il nobile Pitone, il posteggiatore abusivo Antonio Barbacane riflette: «Pitone?... Pitone, Pitone, Pitone... Questo nome non mi è nuovo. Senta un po’, signor Pitone, lei c’ha una sorella che si chiama Boa? No ‘bona’, Boa?». Ma per raccontare l’onomastica del principe Antonio Maria Giuseppe Gagliardi de Curtis Griffo Focas Angelo Flavio Ducas Comneno Porfirogenito di Bisanzio, in arte Totò, ci vorrebbe un libro intero. Da dove derivano i nostri cognomi Prima di tutto derivano, come i nomi, dalle varie lingue che si sono sovrapposte, alternate, incrociate sul suolo italiano. Si è detto che dagli Arabi abbiamo ereditato nomi comuni e aggettivi, ma non nomi di persona. Dunque gli odierni cognomi di origine araba derivano da voci del lessico: Bucchèri ‘figlio del bene’, Buscema ‘dal grosso neo’, Candurro ‘camicia’, Canzirro ‘maiale’, Farace ‘gioia’, Farruggia ‘pollo’, Fragalà ‘gioia di Allah’, Garufi ‘crudele o ribelle’, Macaluso ‘schiavo affrancato’, Maimone ‘fortunato’, Medina ‘città’, Modàfferi ‘vittorioso’, Mogàvero ‘guerriero’, Mulé ‘padrone’, Sodàno ‘nero’, Taìbbi ‘buono’, Zambuto ‘silenzioso’, Zarcone ‘rosso vivo’, ecc. Al contrario, i cognomi d’origine germanica più diffusi in Italia sono derivati da nomi personali: Rinaldi, Bernardi e 71­­­­

Bernardini, Orlandi, Franco, Ruggiero e Ruggeri, Leonardi e Nardi, Alberti, Grimaldi, Guidi, Berti, Baldi, Gagliardi. Però la situazione è un po’ più complessa. Se prendiamo i nomi di mestiere – alcuni ancora vivi nell’italiano dell’uso, altri limitati al dialetto e altri ancora sopravvissuti esclusivamente in onomastica – le origini sono multiple. Germanici: Castaldi e Gastaldi, Maniscalchi e Siniscalchi; greci: Azzarà ‘pescatore’, Barilà ‘bottaio’, Cassarà ‘fabbricante di stuoie’, Catricalà ‘venditore di catricule, ossia trappole per uccelli’, Flòccari ‘lanaiolo’, Sìclari ‘secchiaro’; arabi: Camilleri ‘cammelliere’, Insalaco ‘conciapelli’, Ràis ‘comandante’, Saccà ‘acquaiolo’, Tafuri ‘scodellaio’; normanni e francesi: Bucceri ‘macellaio’, Corvisieri ‘mercante di canestri’, Savatteri e Zavattero ‘calzolai’; ebraici: Bolaffi ‘farmacista’, Cohen ‘sacerdote’ e, tradotti o adattati nella fonetica e nella morfologia, Orefice e appunto Sacerdote. Lasciamo da parte le lingue e vediamo invece come classificare i cognomi dal punto di vista tipologico. Un primo tipo è quello derivante da nomi personali, ossia dal nome paterno (raramente materno). I più frequenti di questa categoria sono De Luca, Giordano, Mariani, Rinaldi, Martini e Martinelli, D’Angelo, Vitale, Marchetti, Marini. I cognomi derivanti da nomi personali possono coincidere con il nome stesso (Martino, Franco, Ruggiero) o presentarsi nella forma pluralizzata con -i, che corrisponde più al genitivo latino (Petrus [filius] Martini ‘Pietro [figlio di] Martino’ > Pietro Martini) che a un nominativo plurale e dunque a un nome collettivo. Talvolta la terminazione, con valore inizialmente di appartenenza familiare, è espressa all’ablativo plurale latino (De Bellis, De Martinis, De Petris). I cognomi presentano un enorme numero di alterati (con -ato, -ello, -etto,­ -ino, -ozzo, -uccio, ecc.) e possono essere inoltre preceduti dalla preposizione de o di: preposizione amata dai notai e da chi scriveva in latino, e ricercata come segno di prestigio, sebbene di per se stessa non abbia alcun legame con la presunta nobiltà dei portatori. 72­­­­

Non dobbiamo pensare all’alterazione del cognome come indicatore di qualità: Bertone non era necessariamente più grande e grosso di Berto, né Bertino più piccolo o gracile, né Bertaccio era la pecora nera del gruppo. In realtà i suffissi avevano una funzione distintiva (e per questa ragione molti alterati hanno vissuto una vita autonoma, come Brunetto o Ugolino o Albertino). È quello che ancora accade con i soprannomi. Mi torna alla mente uno dei rarissimi testi che si occupano di onomastica ebraica in Italia, così importante e così misconosciuta. Quello in cui vent’anni fa Angelo Piperno ha raccolto un repertorio di soprannomi della comunità ebraica di Roma usati nel XX secolo. Si scoprono tra gli altri un Pizzichetto figlio di Pizzicone, un Belvone fratello del Belvino e un Cioccolatone figlio di Arberto cioccolataro e padre di Cioccolatino; poi, ritenuti evidentemente esauriti i suffissi, il nuovo erede fu detto Gianduia (così come il figlio di Pellegrino lo Stagnaro fu chiamato Rubinetto; il figlio del molto irrequieto Tempesta fu detto Pioggerella e quello di Senza Sale si nomignolò Sciapito: ma questa è un’altra faccenda). I vari nomi di famiglia possono inoltre ricondursi alla forma base del nome personale (Francesco o Giovanni) oppure alle sue forme raccorciate – Cecco, Checco, Cesco, Cicco; Giani, Gianni, Nanni, Vagni, Vani, Vanni – su cui punteremo tra poco l’attenzione. E, ancora, alle varianti dovute agli esiti vocalici e soprattutto consonantici differenti secondo i vari dialetti (da Giovanni: Ianni, Zanni, Scianni; da Matteo: Maffeo, Masseo, Mazzeo, Maceo). Il secondo gruppo è costituito dai cognomi che derivano da un nome di luogo, indicante origine o provenienza o comunque legame. I più numerosi in Italia sono, nell’ordine: Messina, Milani, Brambilla e Locatelli (da Brembilla e Locatello nel Bergamasco), Salerno, Napoli, Palermo, Parodi (da Parodi Ligure nell’Alessandrino), Crippa e Perego (da due piccoli centri lombardi). 73­­­­

Il terzo gruppo è affine al precedente, ed è quello in cui il cognome corrisponde a un aggettivo relativo a un nome di popolo, indicante appartenenza dell’avo a una città o regione: Romano e Greco sono seguiti – in ordine di frequenza – da Lombardi e Lombardo, Sorrentino, Catalano, Calabrese, Mantovani, Napolitano, Pugliese, Albanese, Trevisan, Pisano e Pavan ‘padovano’. Alcuni cognomi coincidono con il nome della località, eventualmente pluralizzata (Galbiati e Inzaghi dai comuni lombardi di Galbiate e Inzago), con o senza preposizione. Tra quelli che corrispondono all’aggettivo, non pochi hanno mantenuto il carattere dialettale; si vedano, in Veneto e in Friuli-Venezia Giulia, Feltrin, Furlan, Mestriner, Padovan, Trentin, Trevisan, Venezian, Visentin, ecc.; in Sicilia, Leccisi, Marsalisi, Puglisi, Scalisi, ecc. Anche l’aggettivo relativo al nome di popolo può essere preceduto da articolo o preposizione articolata; le forme con articolo sono ancora meridionali: Lo Turco, Lo Tartaro, Lo Schiavo, Lo Sardo, ecc.; quelle con preposizione articolata sono centro-settentrionali, in Toscana – Del Lucchese, Del Fiorentino, Del Corso, Del Genovese, Del Turco, ecc. – o nel Nord-Est (Del Veneziano, Del Tedesco). Di uno stesso aggettivo possono coesistere più forme; dell’isola di Lipari si ha un riflesso in ben 12 cognomi odierni: Liparesi, Liparini, Lipariti, Liparota/-i/-o, Liparuli/-o, Leparulo, Liperota/-i, Liperotti. In molti casi il cognome conserva un nome di luogo scomparso. Il frequente Salmoiraghi deriva dall’antico nome dell’attuale Sumirago (Varese); il frequentissimo Piperno corrisponde al precedente nome di Priverno (Latina); il potentino Pietrafesa coincide con il comune che dal 1866 si chiama Satriano di Lucania; il cognome panmeridionale Noia/Noja riprende due Noja, oggi ribattezzati rispettivamente Noicattaro (Bari) e Noèpoli (Potenza); Girgenti e Castrogiovanni, diffusi nomi di famiglia pansiciliani, corrispondono alle vecchie denominazioni (in vigore fino al 1927) di Agrigento e di Enna. 74­­­­

Nel quarto gruppo rientrano i cognomi che derivano dal luogo di residenza o di lavoro interno al centro abitato o sito nei pressi di quelle località: Costa (le pendici dei colli), Fontana, Villa, Riva, Piazza, Pozzi, Mura, Rocca e Chiesa i più numerosi. Non segnalano una provenienza, ma un’appartenenza al centro abitato e ai suoi dintorni. È importante questa distinzione per comprendere in che modo venivano indicati un tempo gli individui. I cognomi di provenienza (come Spagnolo, Siciliano, Trevisan o Bersani che è una forma corrotta di Bresciani) indicano uno spostamento, una scissione tra il luogo indicato nel nome e il luogo in cui con tale nome si individua la persona. Questi cognomi di residenza segnalano, al contrario, una stanzialità, un radicamento nel singolo centro abitato o nei paraggi. Dunque la loro funzione distintiva si basa sulla collocazione dell’abitazione presso i luoghi più significativi nella vita della comunità. In questa classe ricorrono anche i nomi di famiglia Porta e Della Porta, Volta ‘magazzino’, Strada, per antonomasia la via principale del centro abitato, e Traversa; Canonica, Chiesa nonché Baserga, voce settentrionale per ‘basilica’, Posterla ‘porta d’accesso al borgo’, Ghirlanda ‘parte delle mura che fortificavano una località’, Cantone ‘angolo del paese’, Riva con riferimento al lago o corso d’acqua più vicino, Canale; e inoltre Casale, Faro, Giardino, Molino, Palazzi, Pergola, Ponte, Scala, Torre. Nel quinto gruppo ci sono i cognomi (li abbiamo già ampiamente chiamati in causa) che indicano un mestiere o una carica o un titolo onorifico: i più frequenti in Italia risultano, nell’ordine, Ferrari, Conti e Conte, Barbieri, Fabbri, Ferraro, Barone, Cattaneo (‘capitano’), Papa, Pastore, Baroni, Cavallaro e Vaccaro. Anche qui, però, bisogna distinguere. I cognomi Barone, Conti, Marchesi, Prìncipi, Vescovi, Cardinale, ecc. continueranno solo in rarissimi casi un titolo onorifico autentico. È improbabile che le più alte cariche civili e religiose abbiano avuto famiglie e discendenti tanto numerosi e che que75­­­­

sti abbiano mantenuto il titolo nobiliare perdendo invece lo specifico nome di famiglia. Tutti figli di Re o di Papa? Se ne deduce che per la grande maggioranza gli avi di quanti oggi si chiamano Vescovi, Barone, Principi, ecc. erano piuttosto soldati o lavoranti presso i potenti, in abbazie, monasteri, castelli, palazzi comunali, ecc. Oppure si atteggiavano a potenti o presentavano rassomiglianze fisiche con i potenti del luogo. O, ancora, ne indossavano gli abiti in tornei, processioni e altre cerimonie. Peraltro Conte fu anche nome di persona (al pari di Giovanni o di Pietro), Re poteva anche derivare da una contrazione di rivus (e dunque indicare un corso d’acqua) e Papa in alcuni dialetti meridionali individuava il semplice prete e non il capo della Chiesa. Al contrario Tessitore, Speziali, Caligari, Vaccaro, Strazzer, ecc. riflettono quasi sempre una reale attività – di sarto, commerciante di spezie, fabbricante di calzature, mandriano e venditore di stracci rispettivamente – svolta dall’avo. In tale categoria è utile distinguere il gruppo prevalente – legato appunto all’artigianato, al commercio, all’allevamento, alla caccia e alla pesca – dagli echi di almeno altri due nuclei di nomi. Si tratta di quelli assegnati a chi svolgeva una funzione connessa alla religione – Abate e Abbadessa, Canonico, Cardinali, Chierico e Clerici, Diacono e Zago, Frate, Piovani (da pieve), Vescovi e Piscopo, Prete, Priore, ecc. –, e anche ad attività minori come il sagrestano (talora chiamato Monaco), all’adesione a congregazioni e confraternite (per esempio Scolari), ai pellegrinaggi (Palmieri, Galizia, ecc.). E si tratta di quelli che riflettono situazioni di diritto e più ampiamente amministrative, sia civili (Araldi, Bagli, Consoli, Gastaldi, Giudici, Podestà, Siniscalchi, Vassalli, Zamberlan, ecc.) sia militari (Almirante, Arcieri, Balestrieri, Capitani e Cattaneo, Catapano, Confalonieri, Freccero, Marescalchi, Soldati, ecc.). Il sesto gruppo è costituito dai cognomi che derivano da un soprannome legato all’aspetto fisico: dietro Rossi, Russo, Bian76­­­­

chi e Ricci, vengono Mancini, Rizzo, Moretti, Caruso, Leone, Galli, Longo, Gentile, Coppola, Gatti, Morelli. Il settimo da quelli legati a comportamenti, atteggiamenti, azioni: Fumagalli, Bevilacqua, Pappalardo, Scognamiglio, Tagliabue, Passalacqua, Migliavacca, Tagliapietra in ordine di frequenza. Non c’era stranezza, piccola o grande anomalia, parola mal pronunciata, azione fuori dell’ordinario, che non venisse colpita dall’ironia popolare, o meglio da un sarcasmo anche cattivo. Si salvi chi può: Zoppi, Muti, Sordi non fanno più effetto; un po’ di più ne fanno ancora oggi i vari Gambarotta, Sciancati, Storpi, Monchi, Invalidi, Loschi, Malvestiti, Gonzi, Bischeri, Maligno, Pocobelli, Zozzi, Grotteschi, Sinistri, Bavosi, Canaglia, Ubriaco, Viscidi, Sciocchi, Matti, Grulli, Pochintesta, Sventurati, Sciagura, Ottusi, Minorati, Bastardi, Bugiardi, Malevoli, Scemi, Dementi e Cretini. Che dire? Ce n’è per ogni gusto. Una quarantina d’anni fa il grande Alighiero Noschese, padre di tutti gli imitatori, recitava uno sketch che suonava pressappoco così: «Il Parlamento italiano, preso atto della non particolare avvenenza dei suoi deputati e senatori, per migliorare la situazione ha nominato una commissione. Sono stati eletti a farne parte gli onorevoli Piccoli, Storti e Malfatti». Alcune descrizioni vanno però interpretate al contrario: chi parla troppo poteva essere soprannominato il Muto, e il nomignolo Gigante poteva essere imposto a un individuo di statura bassissima. Poi, alcuni soprannomi corrispondono a semplici oggetti. Ma l’oggetto rappresenta un mestiere o un comportamento: così – per citare i più frequenti – Coppola, Carbone, Farina, Mazza, Ferro, Pinna, Garofalo, Carta, Mele, Pepe, Sacco, Oliva, Marra, Palma, Rubino. La classifica della vecchia fattoria vede in testa Colombo, seguito da Gallo e poi dai cognomi Leone, Gatto, Palumbo, Volpe, Cavallo, Grillo, Mosca, Pesce, Merlo, Vacca, Lupo, Falco, Porcu, Gallina, Drago, Pavone, Bove e Urso. 77­­­­

L’ottavo e ultimo gruppo è rappresentato dai cognomi d’invenzione, in particolare imposti ai bambini abbandonati. Alcuni, è ben noto, sono diffusissimi e caratterizzano un’intera città, come Proietti a Roma, Esposito a Napoli, Innocenti e Nocentini a Firenze, Colombo e Colombini a Milano, Degli Esposti a Bologna, Trovato a Catania, Alunni a Perugia, Santunione a Modena, Vacondio a Reggio Emilia, e via dicendo. Altri sono rari, scelti a caso dal lessico comune: aggettivi soprattutto, ma anche nomi di piante, nomi di luogo italiani e stranieri, descrizioni dell’aspetto del neonato, cognomi coniati in serie modificando una sola lettera, anagrammi di parole o sintagmi. Molti riflettono la religiosità degli istituti di accoglienza: Della Pietà in Veneto e Friuli, Dalla Pia Casa nel Padovano, Dal Pio Luogo nel Trevigiano, Delle Monache a Viterbo, Casadidio nelle Marche, Di Dio e Diolosà in Sicilia, Dalla Ca di Dio in Brianza, e poi Diolaiuti, Diotallevi, Salvadei, Sperandeo e i più noti e diffusi Casadio e Casadei, tipici della Romagna. Che cosa rimane oggi di quel gigantesco patrimonio di nomi di famiglia rari e curiosi? Non molto: perché, uscito dal brefotrofio, il bambino poteva acquisire il cognome della famiglia che lo adottava e le bambine, divenute donne, prendevano quello del marito. Eppure, se si scorrono gli elenchi anagrafici di Napoli e dei comuni del Napoletano, si trovano alcune serie di cognomi curiosi. Come gli aggettivi o participi Abbellito, Accanito, Aspirante, Assentato, Attonito, Durevole, Esemplare, Numerato, Immobile, ecc. Sono eredità dell’Istituto dell’Annunziata che ne ospitò gli antenati nell’Ottocento, quando Gioacchino Murat proibì l’uso di Esposito (ufficialmente per non rivelare le origini, in realtà per ridurre le omonimie pensando alla chiamata alle armi e al pagamento delle tasse). C’è da vergognarsi di queste origini? No di certo. Personaggi di grandissima cultura e popolarità non hanno fatto mistero delle origini dei loro nonni o bisnonni. A cominciare da Umberto Eco, come vedremo più avanti. 78­­­­

La -i finale: il marchio italiano (ma fino a un certo punto) Se rileggete in sequenza tutti i cognomi indicati in queste ultime pagine vi renderete conto che, contrariamente a quel che si pensa, non tutto il nostro patrimonio di nomi di famiglia è caratterizzato dalla -i finale. Gli stranieri che intendono fare la caricatura degli italiani mettono questa vocale alla fine di ogni parola e anche dei nomi propri. A qualcuno noi restituia­mo il favore, per esempio facendo terminare con -s tutto il vocabolario spagnolo. Ma la realtà è che solo un certo numero di cognomi esce in -i e neppure sappiamo quanti di essi derivano da un plurale e quanti, come accennato poco fa, da un genitivo singolare (con buona pace di quei linguisti che si sono schierati fermamente per l’una o per l’altra ipotesi). La gran parte si trova soprattutto in sei regioni: Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche e Lazio – Centro d’Italia e parte del Nord, dunque. Ai cognomi Ferrari, Bianchi, Bruni, Conti, Galli, Mancini, Lombardi, Leoni, tipici delle aree appena citate, il Meridione risponde con Ferraro, Bianco, Bruno, Conte, Gallo, Mancino, Lombardo, Leone, tutti in ascesa nelle classifiche di frequenza nazionale a causa delle differenti tendenze demografiche, negli ultimi decenni favorevoli al Meridione. Tra i primi 10 cognomi italiani per numero di portatori, soltanto 4 finiscono con -i (Rossi, Ferrari, Bianchi e Ricci) e 6 con -o (Russo, Esposito, Romano, Colombo, Marino e Greco); nella decina successiva il risultato è 4 a 4 (Conti, Mancini, Lombardi e Moretti contro Bruno, Gallo, Giordano e Rizzo), con due forme in -a, De Luca e Costa; nella terza decina i cognomi in -i sono ancora 4 (Barbieri, Mariani, Rinaldi e Galli) e 6 gli altri (Fontana, Caruso, Ferrara, Santoro, Leone e Longo). Tra i primi 100 se ne aggiungono 25 in -i, così che si arriva a 37 contro 63, poco più d’un terzo. I numeri parlano chiaro. Sfatato un mito. Del resto, ai cognomi in -a (anche Serra, Messina, Villa, Coppola, Sala, tra i più numerosi in Italia), in -e (i più frequenti dopo Leone: 79­­­­

Gentile, Vitale, Conte, Carbone e Fiore) e in -o (tra i primi anche D’Angelo, Lombardo, Bianco, Amato e Ferraro), si aggiungono i tanti sardi in -u (Cossu, Porcu, Frau, Mereu, Marongiu, Garau, ecc.), i veneti in -n (tra i primi: Pavan, Furlan, Visentin, Bressan, Marcon) e i tantissimi in -s, che hanno varie origini, a cominciare dall’ablativo latino -is (con in testa De Santis e De Angelis). I valdostani in -z hanno una storia particolarissima, basata su un fraintendimento. Quando non si conoscono le lingue e i dialetti altrui se ne combinano di tutti i colori. Tutti sanno che i cartografi piemontesi in giro per l’Italia dopo l’Unità presero varie cantonate. Già il sardo Golfo dei Granchi è divenuto degli Aranci per un misunderstanding. In Lombardia c’è il monte Somenga che risulta dall’incontro con un contadino poco avvezzo a dar nomi alle vette: il cartografo chiese (traduciamo in italiano) «Come si chiama quel monte?» e si sentì rispondere «Non lo so mica» (So menga). Con i cognomi dei dialetti franco-provenzali valdostani accadde che i francesi, avvezzi a porre l’accento sull’ultima sillaba, si accorsero già nel Trecento che nella valle c’erano invece molte parole accentate sulla penultima. Marco era pronunciato come in italiano, non Marcó. E cosa s’inventarono? Una specie di sgorbio finale dopo la parola. Come dire: attenzione, quando leggete arretrate l’accento. Ma l’indicazione nel tempo perse il suo valore di codice, e lo sgorbio fu interpretato come una -z. Col risultato che oggi il povero signor Marcoz (ossia Marco) viene chiamato Marcó dai francesi e Marcòz o Màrcoz dagli italiani. Tre campioni di atletica leggera, padre e figli, si chiamano Ottoz: chi dicesse correttamente Òtto non sarebbe compreso, per tutti sono stati Eddy, Patrick e Laurent Ottòz. Nomi che perdono la testa e acquistano la coda Uno dei fenomeni più importanti nella formazione del repertorio dei cognomi italiani, in particolare di quelli derivanti da nomi personali, è tipico del Medioevo e mette 80­­­­

insieme alcuni fenomeni linguistici di «accorciamento» e di «allungamento». Il primo è dovuto all’usura del nome, al suo consumo che lo assottiglia e lo priva di una o più sillabe. Lo conosciamo anche oggi: almeno nel parlare quotidiano, un Alessandro diventa Ale o Sandro, una Federica sarà chiamata Fede, una Valentina Vale, una Stefania Stefi, un Emanuele o un Raffaele Lele e via dicendo. Il secondo fenomeno è invece l’aggiunta di suffissi: -ello, -ino, -etto, -one, -accio, -uccio... Oggi ne avvertiamo il valore diminutivo o accrescitivo o dispregiativo o vezzeggiativo. Nel passato, come detto, avevano spesso l’unica funzione di riprendere il nome del padre o di un parente modificandolo quel po’ che bastava perché i due non si confondessero. Immaginiamo allora un Benvenuto medievale. Il significato del nome era all’epoca ancor più evidente di oggi. Un nome augurale e gratulatorio: ‘sii tu il benvenuto nella nostra famiglia’, ‘grazie perché sei venuto tra di noi’. Nel tempo, nel parlare, diventava Venuto e poi Nuto. Fermiamoci un momento a contare quanti in Italia si chiamano Benvenuti o Benvenuto, Venuti, Nuti. Questa forma di accorciamento si chiama aferesi: perdita delle prime sillabe. Nel nome Benvenuto ha operato anche un diverso processo di riduzione: la perdita di tutto il corpo fonetico compreso tra la consonante iniziale e la vocale tonica, quella accentata, quella che non cade (quasi) mai, perché è il perno attorno al quale ruota ogni parola. Si è così formato B...uto, come Dante da Durante, Monna da Madonna o Dato da Donato. Buto è alla base del cognome Buti. Ma, come gli altri, è stato poi suffissato, ed ecco i Butini, i Venutini, i Nutarelli, e via dicendo. Questa sparizione del corpo centrale di una parola è detta sincope. Il terzo processo di accorciamento si chiama apocope e consiste nella perdita delle sillabe finali. Un buon esempio è dato da un equivalente sempre medievale di Benvenuto, e cioè Bencivenga o Bencivenni o Bentivegna... Se Venni e Vegna e suffissati sono i cognomi «aferetici» e Benni quello 81­­­­

«sincopato», Benci e Benti sono i nomi di famiglia «apocopati». Sopravvivono le prime sillabe, che di per se stesse non hanno più significato (un avverbio e un pronome), e sparisce l’elemento verbale. Nei quadrisillabi la sillaba tonica può scomparire se sopravvive l’accento secondario, che nel nostro caso cade su Bèn. Spingiamoci più in là con le trasformazioni linguistiche e consideriamo il cognome Pucciarelli. Qui -uccio, -aro ed -ello sono tre suffissi. Che cosa resta del nome originario? Una P, quella di Filippo probabilmente. Muccinelli: il punto di partenza sarà un Guglielmo, un Adelmo, un Fidelmo che, come dicono gli onomasti, hanno perso la testa e acquistato la coda (-uccio + -ino + -ello). Golinelli raccoglie i suffissi -olo, -ino ed -ello e mantiene la sola G del nome originario, verosimilmente Ugo, ma anche Arrigo o Amerigo. Tinarelli conserva soltanto la T di Berto e simili. E prendete il veneziano Chinellato: -ino + -ello + -ato mentre della base sopravvive la sola C: forse Francesco > Franceschino > Chino > Chinello > Chinellato. Centinaia e centinaia di cognomi si sono formati poi in un altro modo. Con un ulteriore fenomeno che prende il nome di assimilazione consonantica regressiva: non è una malattia che guarisce presto, in compenso si spiega facilmente. L’ultima consonante attrae quella che precede e la rende identica a sé. Gli esempi sono ben noti. Da Giuseppe si ha Peppe (le -p- richiamano la -s- che, appunto, si trasforma in -p-); da Filippo, si ha Pippo; da Giovanni, Nanni; da Federigo, Ghigo (ancora oggi si sente spesso Chica da Federica); da Francesco si ebbe prima Cecco (la -c- assimila la -s-) e più tardi Checco (la -c- della seconda sillaba, pronunciata come quella di casa, assimila a sé la -c- della prima, pronunciata come in cera). In realtà la vicenda fonetica è un tantino più complessa, ma basta una regoletta semplicissima: questa trasformazione ha luogo se la consonante che comanda è più facile da pronunciare dell’altra. E per capire cosa sia più facile basti pensare alle parole tipicamente usate nel linguaggio infantile, piene di p, b, m, n, c. 82­­­­

Parlando di ulteriori fenomeni fonetici, non dimentichiamo le altre dissimilazioni e assimilazioni – cioè diversificazioni – di vocali o di consonanti. Ne sono nate oscillazioni, come Baldassarre > Baldissarre, Cristoforo > Cristofolo, Geronimo > Gerolamo. L’etimologia, ossia che cosa significa(va)no Per ciascuna categoria e per ciascun gruppo di cognomi si potrebbero scrivere lunghe pagine. Ma non c’è lo spazio. Limitiamoci, allora, a spiegare alcuni significati, cogliendo fior da fiore. Vorrei cominciare da quello più citato, amato, odiato e sbeffeggiato degli ultimi vent’anni: Berlusconi. Ma, considerato il significato... rischierei di non sembrare obiettivo sul piano politico. Tanto quanto chi, per compensare l’etimologia scientifica, se n’è inventata una gustosamente popolare: Berlusconi da Bellusconi, a partire da bello. Allora spostiamo leggermente il tiro. Si diceva che ogni cognome, come ogni nome, ha una sua storia e un suo interesse per banale (o brutto) che possa apparire. Un giorno Walter Veltroni (grosso veltro? forse l’enigmatico cane da caccia di dantesca memoria?) ebbe a spiegare, senza peraltro giustificarle, le «cene» di Arcore del suo avversario politico: «Certo che dopo aver trascorso tutta la giornata con Gasparri e Cicchitto...». Dal nostro punto di vista, anche i cognomi dei due ex capigruppo parlamentari del partito del Cavaliere sono di grande interesse, perché consentono affascinanti voli. Consideriamo Gasparri e proviamo a tornare indietro nel tempo. Si tratta di un cognome dell’Italia centrale, soprattutto umbro e toscano. All’origine è il nome personale, adattamento prima latino (Gaspar, Gasparus) e poi italiano (Gaspare, Gasparre) del persiano Gathaspar. Come ha ricostruito Emidio De Felice, autore trent’anni fa dei primi dizionari scientifici di nomi e cognomi, la forma più antica del nome, Windafarmah (bel marchio per chi produce compresse e sciroppi), sembra avere alla base l’aggettivo windahwarena ossia 83­­­­

‘splendente’. Ed era l’epiteto di una divinità dell’aria nella religione iranica, Wayna. Siamo già dalle parti di Reza Pahlevi e di Mahmud Ahmadinejad. Torniamo invece in Toscana, perché il toscano (e l’italiano) più di altre parlate locali ha mal sopportato le parole, per lo più straniere, uscenti in consonante. È accaduto perciò che Gaspar sia stato completato con una vocale, ma in due versioni. Gaspare e Gasparre, così come David è diventato Davide ma lo si trova nel cognome Daviddi, e Raphael è stato tradotto sia Raffaele sia Raffaello. Consultando qualche banca dati letteraria, si possono trovare decine di nomi in -arre e in -orre, specie nei poemi cavallereschi (dal Pulci al Boiardo, dall’Ariosto al Tasso) e nelle traduzioni dell’Iliade e dell’Eneide: da Baldassarre a Melchiorre ovviamente, da Belfagorre a Nabucodonosorre, da Agenorre a Nestorre, tutti nomi che riconosciamo meglio senza vocale finale o senza la doppia -rr-. Il raddoppiamento di questa -r- non è un dettaglio, perché causa uno spostamento dell’accento e quindi fa divergere i derivati e suffissati del nome, che danno origine a due distinte genealogie di cognomi. Da Gàspare dobbiamo passare alle forme suffissate – Gasparini, Gasparoli, Gasparoni, Gasparelli, Gasparetti, Gasparotti, – per giustificare la formazione dei cognomi Parini, Paroni, Paroli, Paretti, Parinetti, Parinelli, ecc. Inoltre l’accento sulla terzultima sillaba fa sì che la vocale della seconda sillaba sia più debole e facilmente trasformabile: è così nato Gàspero, da cui Gasperetti, Gasperini, Gasperoni, Gasperotti e, ancor più accorciati a sinistra, Speroni e Sperotti. Invece da Gasparre si sono formati i nomi di famiglia Gasparrini e Gasparroni da cui Parrini e Parrinelli, ma anche Parri con Parrelli, Parretti, Parrillo, Parrinello e altri ancora. Gasparre giustifica inoltre la formazione di Gaspardo, da cui ulteriori cognomi. E Cicchitto? Molisano e napoletano (Cicchitti è invece abruzzese), è un alterato di Cicco e di Cecco. Al contrario dell’esempio precedente, qui le strade non sono nettamente divise. Perché tanto Cecco quando Cicco possono essere forme accorciate e vezzeggiative di Francesco. Cicco, poi, in 84­­­­

Toscana e altrove può essere un aggettivo generico per ‘piccolo’ (nel romanesco è anche un modo di chiamare il maiale per dargli da mangiare). S’intrecciano dunque, in un’ampia messe di cognomi formati con Cicc-, un nome personale di grande tradizione storica, religiosa e onomastica e una sorta di nomignolo buono per tutte le occasioni. Una messe talmente ampia (per non dire poi dei derivati da Francesco per altre vie) che è impossibile riportarli in tutti i suoi esiti, e comunque coinvolge in particolare l’Abruzzo e l’Italia meridionale peninsulare, con incursioni nelle Marche (Ciccanti, Ciccoli, Ciccolini, Cicconi), nel Lazio (Cicchetta, Ciccotti) e in Sicilia (Ciccarello, Ciccotto, Ciccolo). Meritano però una menzione i composti: Ciccocioppo ossia ‘zoppo’ a Lanciano, Ciccoianni ‘Cecco Giovanni’ ad Ascoli Piceno, Ciccomascolo ‘Cecco maschio’ a Vico del Gargano, Cicconofri ‘Cecco Onofrio’ nel Maceratese, Ciccopiedi sparso in Calabria, Ciccotosto intorno a Chieti. Va da sé che alcuni cognomi sono trasparenti e indicano qualcosa che ci è molto familiare. Nessun dubbio sugli avi delle famiglie Ferrari e Fabbri, Pastore, Cacciatori e Pescatore, Fornari e Molinari, Fornaciari e Macellari. Ma neppure qui le cose sono così semplici. Prendiamo il caso di Macellari, forma corrispondente al toscano e poi italiano Macellai. Toscano, appunto: e altrove? Anche in onomastica, come nel lessico, siamo di fronte a un gran numero di geosinonimi: parole differenti che in luoghi diversi esprimono lo stesso concetto. I cognomi sono come un grande dizionario aperto dei dialetti italiani e degli adattamenti di prestiti accolti da lingue straniere. Ecco dunque i settentrionali Beccari, Beccaria, Beccaris (piemontese), Beccaro (veneto) con Beccarelli e il laziale Beccarini (Beccai è toscano); i calabresi Pancari e Pancaro; ancora nel Nord-Est Carner/Carnera/Carneri con Carnero piemontese: in Sicilia Bucceri con le varianti calabrese Buccieri e campane Bucciero e Ucciero. Tutti discedenti di macellai. 85­­­­

Un altro esempio riguarda i nomi indicanti il mestiere di falegname/taglialegna. Possiamo distinguere, oltre ai rari e toscani Falegnami e Legnaioli, Legnaro in Veneto, Tagliaboschi nel Lazio, nel Sud Carpentiere/-i, Carpenteri, Carpinteri e Carpintieri; poi l’abruzzese Mastrodascia, i liguri Bancalari e Bancallari con il toscano Bancalà. E nel Nord-Est Marangon/-one/-oni. Un panorama ricchissimo è quello legato alla fabbricazione di calzature. Dalla base calza si hanno Calzolai (toscano), Calzolari (emiliano), Calzolaro (pugliese); dal latino caligarius­ discendono: i pansettentrionali Callegari e Callegaris, Callegarini, Cagliàri, Callieri (anche nel Centro); i piemontesi Calligari (pure a Trieste) e Caligaris, Caligara, Calleri (anche in Sicilia), Calliero, Cagliero e Caglieris; in Liguria Callero; in Lombardia Calegari e Caligari, Callerio; in Veneto Calegaro e Callegaro e Callegarin, Calgaro; in Friuli-Venezia Giulia Calligaro e Calligaris; nel Trentino-Alto Adige Calliari. Dalla base scarpa si hanno Scarpari nel Nord e Scarparo in Veneto. Da ciabatta e simili, il toscano Ciabattini, il marchigiano Ciavattino, i piemontesi Zavattaro, Zavattero e Zavatteri (questo anche veneto, come Zavattiero), il siciliano Savatteri. Inoltre possono indicare il mestiere anche cognomi quali Scarpa, Ciabatta, Ciavattella e Ciavattone, Zavatta e Zavattini. L’importanza della distribuzione geografica di un cognome è fuori discussione. Talvolta grazie a questo dato si chiarisce se un cognome è straniero o italiano. Domingo coincide col nome di battesimo spagnolo, ma presenta fenomeni fonetici tipici del vocalismo e del consonantismo dell’Italia settentrionale a partire da Domenico. Da noi, la sua diffusione limitata al Trapanese (Erice, Castellammare del Golfo, il capoluogo, Marsala) suggerisce che si tratta di un cognome d’origine castigliana. La diffusione areale può anche chiarire dove si tratta di cognome d’origine straniera e dove no: il veneto Salvador, con la -t- che diventa -d- e la vocale finale che cade, segue la fonetica tipica della regione; ma fattori storici e linguistici impediscono di pensare che i Salvador siciliani abbiano quella 86­­­­

stessa origine. E poiché l’isola è ricchissima di cognomi ispanici, possiamo dedurne che qui il nome di famiglia sia stato portato dagli spagnoli. Lo stesso vale per Fighera che in Veneto – è prevalentemente trevigiano – sarà d’origine italiana, mentre nelle più rare presenze pugliesi e siciliane potrebbe essere l’adattamento dello spagnolo Figuera. La motivazione, cioè perché sono stati imposti Qualche volta è palese. Salvo complicazioni imprevedibili, uno porta il cognome Napolitano perché l’avo proveniva da Napoli; Cavallari perché l’avo si occupava di cavalli; Martini perché l’avo si chiamava Martino; Sordi perché l’avo era debole d’udito. Ma, soprattutto nel caso dei nomi di famiglia corrispondenti a soprannomi, le motivazioni possono essere più d’una. Anche varie decine. E allora poniamo che incontriate un individuo che tutti chiamano Rospo. Provate a formulare qualche ipotesi sulle ragioni di quel nomignolo non proprio graditissimo. In fondo la soprannominazione seguiva in passato regole simili a quelle dei tempi moderni. Intendiamoci, qualche differenza c’è: oggi incontriamo un tale detto Findus perché ha un carattere gelido, Agip perché lavora a una pompa di benzina, Negronetto perché lo si considera un «salame» nel comportamento, Manzotin perché è garzone di macelleria, o Bostik alias Coccoina perché molto... appiccicoso. Nel Medioevo non esistevano i marchi, almeno quelli commerciali. Oggi si può portare come soprannome la marca preferita di vino o di whisky; in passato il soprannome sarebbe stato Bevivino o più frequentemente, e ironicamente, Bevilacqua. Un tempo un uomo detto Milano veniva dal capoluogo lombardo o lì si recava frequentemente per commerci o altro. Oggi un toponimo può diventare anche il nomignolo di chi semplicemente parla troppo spesso di un posto dove vorrebbe trasferirsi, magari un’isola dei Caraibi. 87­­­­

Ma torniamo al nostro signor Rospo. Trovate le motivazioni? Ne suggerisco alcune, dopo di che capirete meglio come l’onomastica, anche se non magica, è comunque una scienza complessa. Uno può essere soprannominato «rospo» per la somiglianza fisica: occhi grandi e sporgenti; pappagorgia; gambe arcuate; corpo tozzo e sgraziato; voce gracchiante o bofonchiante o rauca («avere un rospo in gola»). Per la somiglianza nel comportamento: gli piace saltellare; si accovaccia in modo tipico; ama le acque stagnanti; ripete il verso del rospo; è riluttante e timido («è un rospo»). Può avere quel soprannome, poi, perché lo si associa alla presenza fisica del rospo: allevatore; impagliatore; cuoco o mangiatore; pittore o scultore. Perché è legato all’immagine o al nome del rospo: proprietario/gestore di un esercizio commerciale, punto di ristorazione o di ritrovo, club, intitolati al rospo o dall’animale simboleggiati. Oppure perché ha interpretato il rospo in una rappresentazione (magari da bambino) o si è distinto in una singola azione (eroica, eroicomica, comica, inattesa, comunque originale) legata all’anfibio: lo ha catturato, fatto scappare, ucciso, ecc. Ma uno può essere chiamato «rospo», come in qualsiasi altro modo, anche perché qualcuno gli ha detto una volta «Ehi, rospo...». Perché è portatore di un cognome (o di un nome) che si presta al gioco linguistico (Crospi, Raspi, Rospigliosi, Ros, ecc.) o semplicemente perché qualcuno, fraintendendone il cognome, lo ha chiamato Rospo. Perché cita sempre il rospo o una frase contenente «rospo». Perché pronuncia in modo scorretto la parola rospo. Perché ha scambiato per rospo un altro animale od oggetto, provocando ilarità. Perché rassomiglia a un’altra persona soprannominata o denominata Rospo. Perché proviene o vive in una località caratterizzata dalla presenza di rospi o il cui nome equivale o si avvicina al rospo. Perché continua ad aspettare un bacio per trasformarsi in un bellissimo principe. Per opposizione/analogia con un’altra persona il cui nome o aspetto richiama l’elemento opposto/analogo, come Rana (è normale incontrare persone 88­­­­

soprannominate in coppia, per esempio Cip e Ciop, Starsky e Hutch, ecc.). Mi fermo qui, anche se di ragioni potrebbero essercene ancora altre. Per il momento queste possono bastare. Se incontrate un tipo soprannominato, che so, Martello, ora potete ripetere l’esperimento. Evitando prudentemente di farvi ascoltare dal diretto interessato, s’intende. Chi ha fatto ricerca sul campo, in tema di soprannomi, conosce i rischi. L’informatore – ossia quel signore, in genere anziano, che del paese conosce ogni segreto – si siederà con voi e vi elencherà, spiegandoli con dovizia di aneddoti e di risolini, i nomignoli di tutti i suoi compaesani, viventi o defunti. Ma tacerà assolutamente il proprio e quelli dei propri familiari. Poi con la vostra lista andrete da un secondo informatore; questo vi darà conferma, ridendo più volte, dell’elenco: ma a un certo momento lo vedrete ammutolire e passare oltre. Ha trovato il suo soprannome e non ve ne parlerà, neppure se gli offrirete un pranzo da nababbo. A proposito di soprannomi e di nababbi, due notizie curiose: solo in Italia si usa paperone per indicare un riccone. In tutte le altre lingue la voce tratta dallo zio di Paperino è sinonimo soltanto di avarizia. E Walter Siti, nel suo romanzo del 2010 Autopsia dell’ossessione, è stato costretto dalla casa editrice, Mondadori, a cambiare alcune battute del protagonista Danilo Pulvirenti che chiamava Silvio Berlusconi «il peroncino». L’epiteto considerato offensivo va inteso nel duplice senso di ‘piccolo Peron’, con riferimento all’ex capo di Stato dell’Argentina, e di ‘bottiglietta di birra’, in relazione all’aspetto fisico dell’ex capo del governo italiano. Il cognome tra appartenenza e alterità I processi di denominazione degli individui svolgono, come da tempo hanno suggerito gli antropologi e poi anche alcuni linguisti, soprattutto una funzione classificatoria. Il sistema onomastico classifica due aspetti che costituiscono le facce 89­­­­

di una stessa medaglia: l’appartenenza e l’alterità, o più banalmente l’inclusione e l’esclusione. I soprannomi poi divenuti cognomi che indicano appartenenza e inclusione sono i patronimici e i matronimici (appartenenza familiare), i nomi di residenza (appartenenza all’ambiente della comunità indicata topograficamente) e i nomi di mestieri e cariche (appartenenza all’ambiente sociale e politico della comunità). Quelli che esprimono alterità ed esclusione sono i soprannomi che indicano una devianza rispetto alla norma, perlopiù una diversità nell’aspetto fisico o nel comportamento. E i nomi di provenienza, che segnalano estraneità e novità rispetto alla comunità stabilita e dunque presa di distanza dal nuovo, specie in quella visione urbano-centrica propria dei siti di pianura o degli insediamenti marittimi, più ricchi di abitanti e di risorse rispetto alle vicine o lontane alture. A questi possono aggiungersi i nomi di famiglia imposti ai trovatelli (alterità rispetto a una normale discendenza, inserimento sociale e amministrativo) e inoltre gli aggettivi relativi a un popolo che, per estensione del significato, hanno assunto nuovi valori, generalmente in rapporto ad attività stigmatizzabili e devianti. Come l’usura praticata da quelli che nel Medioevo erano chiamati Lombardi o le pratiche ladresche attribuite ai Greci (già «diversi» per religione) o l’estraneità per antonomasia degli albanesi, da cui l’antico detto «Albanese, messere» che vale ‘non intendo quello che dite, signore’. Dunque non sempre i cognomi Lombardi e Lombardo, Greco, Albanese indicano provenienza dell’avo da quella certa regione. In alcuni sistemi onomastici locali prevalgono i nomi d’appartenenza, in altri i nomi d’alterità o esclusione, in altri ancora si registra un equilibrio tra le due tipologie. Insomma, l’insieme dei cognomi sembra muoversi, in origine, su un doppio binario. Da una parte evidenzia le devianze, gli scarti rispetto ai concetti di normalità – fisica, psichica, comportamentale, religiosa, ecc. – e le provenienze da fuo90­­­­

ri del centro abitato. Dall’altra sottolinea l’incardinamento nell’organizzazione e nella vita familiare, lavorativa, sociale e politica. L’appartenenza e l’alterità non sono però interne al nome. Per determinarle entrano in gioco vari fattori. Il cognome più diffuso a Genova è Parodi: indicava, in origine, provenienza da Parodi Ligure, comune dell’Alessandrino al di là delle Alpi. Possibile che tanta gente sia emigrata da quel piccolo paese verso il capoluogo ligure e nessuna o quasi, a giudicare dai cognomi odierni, da altri centri del Basso Piemonte? La spiegazione c’è: in origine da Parodi Ligure giunsero parecchi giovani per prestare servizio militare nell’antica repubblica marinara; e allora parodi passò a designare, per antonomasia, il militare genovese, di qualunque luogo fosse originario: ecco la ragione del moltiplicarsi di quel nome. Conclusione: un cognome in origine d’esclusione, indicante la provenienza esterna, è diventato d’inclusione perché documenta un’attività pienamente integrata nella società genovese. Altro esempio. Il cognome numero uno nella provincia di Milano e complessivamente in Lombardia è Colombo: «include» se proviene da un nome familiare, «esclude» se si tratta del marchio imposto, assieme a Colombini, ai bambini abbandonati presso l’Istituto di Santa Caterina della Ruota di Milano, che aveva per simbolo appunto una colomba. Perché tanti cognomi in Italia La ricchezza del patrimonio cognominale italiano è attribuibile a vari fenomeni. Da un lato, il ritardo con cui si è imposta – rispetto ad altri Paesi – una lingua nazionale ha favorito processi solo parziali di regolarizzazione e standardizzazione delle forme. Ogni regione o subregione aveva il suo modo di esprimere un concetto. Dall’altro lato, l’usanza di assegnare a membri della stessa famiglia uno stesso nome distinto solo per il suffisso, e l’oggettiva ricchezza della morfologia della 91­­­­

lingua italiana, ha garantito una pluralità di forme che ha riscontro nell’onomastica di poche altre lingue. Un’altra ragione che giustifica la varietà delle nostre forme cognominali va individuata nella ricchezza dei nomi di battesimo italiani e nel costume di ridurne il corpo fonetico attraverso fenomeni di cui s’è detto, come l’aferesi, la sincope e l’apocope, determinando nuove serie parallele di nomi. E perché, ci si può legittimamente chiedere, ci sono cognomi rari e cognomi frequentissimi? La domanda è solo apparentemente banale. Che cosa ha fatto la fortuna di un cognome rispetto agli altri? Ragionando in una prospettiva moderna, saremmo portati ad affermare che la prolificità delle famiglie e dunque l’ampiezza di una discendenza debba ritenersi casuale, cioè non collegata al cognome che si porta. Tuttavia, in passato il cognome era anche il segno di uno status sociale, economico e professionale e pertanto non si può escludere che, per esempio, famiglie agiate abbiano trasmesso più facilmente il nome del casato. D’altro canto, nuclei familiari poveri potevano mettere al mondo più figli, ma cambiavano più facilmente i nomi aggiunti al primo (soprannomi, nomi di mestiere, ecc.) e perciò rendevano la discendenza meno legata a un cognome come noi lo intendiamo oggi. Di fatto, elementi di statistica, demografia, genealogia, medicina, storia del costume, economia, s’intrecciano al punto che questa strada, per quanto affascinante, ci dice solo la complessità del problema senza offrire, al momento, soluzioni definitive. Volete comunque qualche spiegazione? Cominciamo dalla motivazione plurima. Il più diffuso cognome italiano, Rossi, ha molte origini, come vedremo tra poco; Colombo, il 7º per frequenza in Italia, è nome di battesimo ma anche soprannome simbolico, e inoltre è stato imposto a trovatelli. Proseguiamo con la polietimologia. Corti può risalire tanto dall’aggettivo corto in chiave soprannominale, quanto più spesso a un nome di luogo, Corte; Cabras, Falcone e Gioia possono rappresentare rispettivamente un mestiere, un so92­­­­

prannome o un nome personale, oppure tre riferimenti a un luogo (rispettivamente in Sardegna, Sicilia e Puglia). Poi c’è la diversa rilevanza statistica, storica, culturale, politica, sociale dei referenti etimologici. Nell’aspetto fisico, erano ovviamente i tratti meno comuni o quelli addirittura rari ad attirare l’attenzione e a far coniare nomignoli, con funzione distintiva o più spesso con valore ironico e denigratorio: i «rossi» erano meno frequenti dei neri o dei biondi, gli «zoppi», i «sordi» o i «muti» più rari di coloro che deambulavano, udivano o parlavano in modo normale; i «mancini» meno numerosi dei destri. Al contrario, i nomi di mestieri e professioni rispecchiavano l’importanza e la diffusione delle varie attività: i «fabbri» e i «ferrari» occupavano nella scala sociale un ruolo più apprezzato dei «caprari», dei «pecorari» o dei «vaccari» (pur largamente rappresentati nell’onomastica moderna). Lavoravano il ferro e dunque fabbricavano strumenti d’ogni tipo: le armi, le chiavi delle case e delle porte della città medievale. Per questo erano più portati a mantenere e a trasmettere il loro titolo professionale. Un’altra spiegazione dell’alta o bassa frequenza di un cognome sta nel rapporto lingua-dialetti e oralità-scrittura. La voce ferraro, che appartiene ai dialetti di quasi tutta l’Italia, ha una diffusione nazionale più larga delle voce fabbro, che nel Nord-Est è divenuta spesso favaro o favero, in Sardegna frau e così via, con relativi alterati e varianti. I cognomi derivanti da Giovanni, nonostante si tratti del nome maschile più diffuso in Italia dall’inizio del Medioevo al XVIII secolo, non occupano nessuno dei primi 250 posti nella graduatoria italiana, perché si sono frammentati nelle varie famiglie dialettali che hanno all’origine i vari Gianni, Zanni, Nanni, Ianni, Vanni, Scianni, ecc.

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Dalla A alla Z, ma che razza di mestiere facevano i nostri avi? Abbonante, Abbondanziere, Abolaffio, Acciaccaferro, Acquaio­ lo, Aglialoro, Anaclerio, Appicciafuoco... Mestieri cambiati, scomparsi, inutili, obsoleti, incomprensibili, ma testimoniati vivacemente dai nostri cognomi. Che cosa faceva il bisnonno del trisavolo del nonno dei signori Abbonante, per esempio? Abbunava, come si direbbe in calabrese antico (il cognome è crotonese): faceva macerare il lino bagnando abbondantemente i campi. E quello delle famiglie Anaclerio (pugliesi) o Naclerio (napoletane)? Il nocchiero: la parola è la stessa, ma ora nel Salento indica piuttosto il capo degli operai di un frantoio. Il cognome abruzzese Appicciafuochi (ma Picciafuochi è toscano e Picciafuoco anconitano e perugino) ricorda chi a pagamento accendeva il fuoco nelle case degli ebrei, ai quali era proibito compiere quest’atto nei giorni di festa. Gli Acquaioli fiorentini e gli Acquarulo potentini discendono da un venditore ambulante d’acqua o da un addetto all’irrigazione dei campi. Anche Aquilani indicava un mestiere: dall’Aquila negli Abruzzi venivano a Roma per spurgare i fossi e preparare lo scolo delle acque. Acciaccaferro e il più comune Maccaferri alludono a un’azione impossibile o inutile, richiamata per sottolineare il comportamento di un perdigiorno, di un fannullone. Come pure Abbracciavento, Mazzagrilli, Ferraloche e Ferramosca (si possono mettere i ferri alle zampe degli anatidi o dei ditteri? L’ultimo però è passato alla storia con una modifica nobilitante: Fieramosca). Aggugiaro e simili cognomi padovani ricordano chi fabbricava e vendeva aghi. Il palermitano Aglialoro ha subito una metatesi (vale a dire un’inversione nella sequenza dei suoni, qui delle consonanti): sarebbe agliarolo, il commerciante di agli. Arcari erano i fabbricanti o venditori di mobili in legno a forma di cassa, destinati a vari usi, anche ornamentali: le 94­­­­

arche appunto; ma dato che molti beni venivano conservati in queste arche, il nome venne a significare anche ‘funzionario preposto alla custodia del pubblico tesoro’. Armentaro – il cognome risulta della zona di Vibo Valentia – era chi custodiva mandrie di ovini, caprini o bovini: gli armenti. È solo un piccolo campione. Soltanto tra i cognomi inizianti con A- ce ne sarebbero molti altri. Ma passiamo alla Z- (per tutti gli altri, da B- a V-, si dovrà cercare altrove: questo non è un dizionario dei mestieri sopravvissuti nell’onomastica, che però bisognerebbe scrivere e pubblicare). Gli avi degli Zagami erano allevatori bovini (za‘aˉham in arabo significa ‘vacca’). Quelli degli Zirafi, siciliani come i precedenti, erano barbieri, dal greco medievale xyráphion ‘rasoio’. Zuccalà e Zappalà, tipici delle zone del Sud d’Italia in cui si è per secoli parlato greco, sono nomi professionali (appunto d’origine greca): il primo è il fabbricante di stoviglie di terracotta e il secondo il venditore di fichi. E dunque non lavorava con la zappa, al contrario degli antenati di chi si chiama Zappaterra (tipico a Ferrara e dintorni), Zappaterreno (di Civitella San Paolo presso Roma), Zappatore (pugliese) e Zappavigna (reggino). I padovani Zoccarato e Zoppellaro ricordano rispettivamente il boscaiolo addetto alla rimozione delle ceppaie e il fabbricante di zoccoli. Altrettanto interessante segnalare alcuni cognomi composti, in generale i cognomi i più curiosi. Ci sono quelli formati da due nomi: Maremonti come la pizza, Occhibove, Boccadifuoco, Dell’Omodarme (si chiamava così un calciatore della Juventus negli anni Sessanta), Lumediluna, Pezzodipane, Piedepalumbo, Guttadauro ossia ‘goccia d’oro’, ecc. Oppure da un nome e da un aggettivo: Barbaliscia, Boccadolce, Braccialarghe, Caporotundo, Esempiobuono, Gattamorta, Sanguedolce, Vitalunga... Posso assicurarvi che è tutto materiale di casa nostra, e non sono indiani pellerossa neppure Pelonero, Fuocovivo e Piediscalzi. Poi ci sono i classici composti verbo più sostantivo, una marea di azioni e comportamenti curiosi. Piccolo assaggio: 95­­­­

Baciadonna, Bazzicalupo, Buttacavoli, Cacafava, Chiappatopi, Domacavalli, Ficcadenti, Ingannamorte, Pigliafreddo, Pittaluga (ossia ‘becca l’uva’), Scornaienchi (toglieva le corna ai giovenchi), Sparabombe, Spezzacatene, Stampachiacchiere, Alzalamira, Sfondalmondo, Zappalorti. Alcuni sono noti al punto che neppure si fa più caso alla composizione: Beccalossi, Frangipane, Frustalupi, Fumagalli, Ligabue, Maccaferri, Pallavicini, Pelagatti, Salvalaggio, Scognamiglio, Vinciguerra. Seguono tutte le combinazioni grammaticali possibili: aggettivo più aggettivo (Altobelli, Grandeppieno, Vecchiocattivi), nome più avverbio (Colabene, Spadafora), aggettivo più verbo (Carotenuto, Primoarrivato), aggettivo più avverbio (Bellassai, Riccobene), verbo più aggettivo (il composto imperativale Sii Onesto) e perfino un numerale (Mazzasette, Fapperdue), verbo più verbo (Parlaparla, Passacantanto, Tiracorrendo), verbo più avverbio (Guardabassi, Magnabene, Parlapoco, Tornabene, Tirinnanzi come un personaggio del Giornalino di Gian Burrasca), avverbio più nome (Pochintesta, Tuttopetto), avverbio più aggettivo (Malcontenti, Pocobelli, Sempregentile), avverbio più verbo (Benestà, Pursingegna, Semprepiovi), avverbio più avverbio (Assaibene, Nienteaffatto, Piampiano), preposizione più nome (Avantifiori, Oltremare, Controguerra, Senzamici, Sottomano). A dire il vero non tutti sono trasparenti: alcuni dicono cose diverse da ciò che a noi oggi sembrerebbe palese. Ficcadenti è probabilmente quel che oggi diremmo un ficcanaso, più che un odontoiatra specializzato in implantologia. Fumagalli non è, come creduto da molti, il soprannome di un rubagalline che stordiva col fumo le bestie per catturarle meglio, ma l’esito di un verbo lombardo, fümaa, che comunque vale sempre ‘rubare’ (anche con valore metaforico). Il tipo Ligabue, Pittaluga, Frustalupi, Pongiluppi o Bacigalupo (come il portiere del Grande Torino morto a Superga il 4 maggio 1949) allude non a un’azione dell’uomo quanto ai nomi popolari di piante e animali: a frustare o pungere il lupo era un arbusto spinoso, a legare il bue un rovo in cui s’incastravano le zampe dell’ani96­­­­

male, a beccare l’uva un uccellino. Che poi questi nomignoli venissero incollati come soprannomi a una persona noiosa, fastidiosa, rompiscatole, è l’altra faccia della spiegazione. Potete proporre un quiz ai vostri amici (chiamatelo Scossa o come vi pare). Quale di questi dieci cognomi è inventato: Testadura, Testaferrata, Testagrossa, Testaguzza, Testarmata, Testanera, Testarossa, Testasecca, Testatonda e Testaverde? Uno solo non esiste (o non esiste più). Un altro quiz? Stavolta bisogna scoprire l’intruso in un elenco di trenta: Mangiabene, Mangiacapra, Mangiacarne, Mangiacotti, Mangiacristiani, Mangiaferro (stomaco d’altri tempi...), Mangiafico, Mangiaforte, Mangiagalli, Mangiagli, Mangiagrilli, Mangialardo, Mangialenti, Mangialomini (cannibalismo solo metaforico?), Mangiamele, Mangiapane, Mangiapelo, Mangiapepe, Mangiapera, Mangiapoco, Mangiarape, Mangiaratti (de gustibus...), Mangiaricotte, Mangiarotti, Mangiasciutto, Mangiaterra, Man­giatordi, Mangiavacca, Mangiavillani, Mangiavini. Le risposte esatte sono rispettivamente Testanera e Mangiagrilli (strano: esistono vari cognomi composti con Grillo, ma non questo, che però corrisponde a una località siciliana). La prepotenza del signor Mario Rossi Il cognome Rossi è il numero uno in Italia. Su questo non ci piove. Eppure l’affermazione, nella sua banalità statistica, va presa con le molle. Vediamo il perché. Intanto chiediamoci come mai questo soprannome sia stato imposto con frequenza tale da costituire la base per una serie ampia e radicata di cognomi dell’Italia centro-settentrionale. Certamente fu assegnato a chi aveva capelli e barba rossi: una minoranza nelle varie comunità del territorio italiano; un nome utile, dunque, per la sua funzione distintiva. Questa minoranza spesso era soggetta in passato a una stigmatizzazione sociale. Basti pensare ad altre associazioni del colore rosso, diffuse nel Medioevo, a cominciare da quella con la pelle (del volto in particolare): la porzione più 97­­­­

scoperta del corpo umano. L’arrossamento poteva essere causato dall’alcolismo, dall’iperossigenazione nelle zone di montagna, da stati patologici fino alla lebbra, per secoli una delle piaghe più devastanti in Europa. La medicina medievale parlava di febbre rossa per riferirsi a un tipo di sintomi di cui ancora oggi rimane traccia nella scarlattina (da scarlatto ‘rosso’). Il soprannome veniva dunque a segnalare un’anomalia e in certi casi portava a una sorta di condanna: si pensi alla popolare associazione tra l’essere montanari e il venir considerati rozzi di modi e piccoli di cervello. D’altra parte, forse nel Medioevo più che in altre epoche, il valore simbolico dei colori era fondamentale. Il rosso era accostato al sangue, ad animali ritenuti diabolici – come la volpe –, al fuoco infernale e al demonio. Secondo una tradizione popolare, erano rossi i capelli e la barba di Giuda. Il pelo rossiccio era popolarmente considerato un segno di bizzarria e di malizia, quando non di volgarità e di cattiveria. Questa tradizione ha caratterizzato per secoli la rappresentazione di protagonisti della letteratura, dal ciclo cavalleresco arturiano (è rosso Meleagante, il cavaliere fellone che rapisce la regina Ginevra) al Decameron (con il frate Cipolla «di pelo rosso»), fino alle novelle di Giovanni Verga (Rosso Malpelo). Tuttavia non si può escludere che i nomi dei colori possano essere divenuti, a volte, soprannomi anche per indicare una fazione politica o in riferimento a stemmi araldici. C’è poi chi ritiene che Rossi possa avere anche altre origini: per esempio, in Friuli, da una riduzione di Cattarossi (da Caterina) o di Torossi (da Teodoro). Certo è che Rosso fu anche nome personale nella Toscana tardo-medievale e rinascimentale (ma non pensate a Rosso Fiorentino, il famoso pittore: quello era il soprannome di Giovan Battista di Jacopo). Rossi è tipico di quasi tutto il Nord d’Italia (in Piemonte e in Liguria se la batte con Rosso) e tipicissimo del Centro, mentre nel Sud è praticamente latitante. In Puglia non figura tra i primi 200 per frequenza, in Sicilia neppure tra i 98­­­­

primi 500. Nel Meridione peninsulare e in Sicilia a dominare è Russo. Russo è ben lungi dall’apparentarsi con i cittadini della Russia. Tanto meno con il verbo russare, per quanto un signore dal doppio cognome, tempo fa, abbia chiesto alle autorità di modificarlo: si chiamava Russo Forte. Si tratta invece del corrispondente meridionale di Rossi, espresso al singolare e con la vocale tonica trasformata da -o- in -u- in seguito a fenomeni fonetici di alcuni dialetti meridionali. Dalla metà del Novecento il signor Rossi, con tanto di nome di battesimo, Mario, è divenuto sinonimo dell’uomo qualunque italiano. Ne trovo traccia in un libro dei primi anni Cinquanta di Renzo Sertoli Salis, il quale – dopo aver analizzato i dati Istat relativi alla popolazione delle maggiori città italiane – concludeva che Rossi è il nº 1 in Italia e che «la denominazione ‘il signor Rossi’ costituisce quella generica del cittadino italiano, dell’uomo della strada e vale quanto quella di ‘mister Smith’ in America ed in Inghilterra tanto essa è comune». «Anzi – aggiungeva lo studioso – forse solo per il timore di ingenerare confusioni di ordine politico [!] non si è ancora pensato di costituire un’associazione destinata a raccogliere tutti i Rossi italiani, come accaduto in Francia con i Dupont, i Durand e i Duval con il patrocinio di una canzone di Maurice Chevalier» (la canzone dice «il y a toujours un Dupont, un Durand, un Duval...»: in realtà i cognomi più numerosi in Francia sono Martin, Bernard e Thomas nell’ordine, Duval non è neppure tra i primi 50). Eppure Rossi rappresenta solo due terzi del nostro Paese e Mario non è mai risultato il nome di battesimo più comune in Italia (come abbiamo visto, è stato semplicemente un nome di moda, imposto con altissima frequenza, ancora una volta soprattutto nel Centro e nel Nord, ma raramente al Sud, tra gli anni Ottanta del XIX secolo e gli anni Trenta del XX). Ma, appunto, si noti: frequentissimo nella generazione dei 40-70enni culturalmente dominante negli anni in cui fu coniata l’espressione «Mario Rossi» col valore di ‘italiano qualunque’. E dominante, insieme a Rossi, in città come Ro99­­­­

ma (capitale politica), Milano (capitale economica), Torino (co-capitale industriale e prima sede della Rai), Firenze (cocapitale della cultura e della lingua italiana). Come poteva il povero Giuseppe Russo competere con tali e tanti poteri? Eppure, se fossimo andati ai punti, o ai rigori, beh, il meridionale Giuseppe Russo avrebbe prevalso, perché la diffusione di Giuseppe è secolarmente radicata in tutta Italia e compattamente nel Meridione. Nel primo conteggio ufficiale operato nel 2000 sugli abbonati telefonici (dunque solo persone adulte) da SEAT/Pagine Gialle, la coppia onomastica numero 1 era Giuseppe + Russo, mentre il ticket Mario + Rossi occupava solo l’8a posizione, preceduto anche da Antonio Russo, Antonio Esposito, Giuseppe Rossi, Salvatore Russo, Francesco Russo e Giuseppe Esposito. I primatisti regionali, poi, sono altri: in Piemonte Giovanni Ferrero, in Liguria Giuseppe Parodi, in Lombardia Luigi Colombo, in Veneto, Umbria e Marche Giuseppe Rossi, in Emilia-Romagna Giuseppe Ferrari, nel Lazio Antonio Rossi, in Abruzzo Antonio D’Angelo, in Campania Antonio Esposito, in Puglia Antonio Greco, in Calabria Giuseppe Romeo, in Basilicata e in Sicilia Giuseppe Russo, in Sardegna Antonio Sanna, ecc. Il signor Mario Rossi primeggia esclusivamente in Toscana. E – tra i capoluoghi di regione – a Firenze, Perugia, Ancona. Il «bergamasco qualunque» è Angelo Rota, il veneziano Giuseppe Vianello, l’agrigentino Giuseppe Vella, il viterbese Roberto Delle Monache, il triestino Giuseppe Furlan, l’aquilano Antonio Ianni, il campobassano Antonio Palladino, il salernitano Antonio Santoro, il barese Giuseppe Lorusso, il potentino Giuseppe Rotundo, il catanese qualunque è Giuseppe Giuffrida. Nel 2013 è molto probabile che Giuseppe Russo sia ancora in testa in Italia, per quanto minacciato da Andrea Russo, Marco Russo, Andrea Rossi e Marco Rossi. Più in generale, il signor Rossi – qualunque sia il suo nome di battesimo – è insidiato negli ultimi anni dal signor Russo. Rossi, s’è già detto, è il primatista al Centro-Nord così come Russo lo è nel Sud. I 100­­­­

fenomeni migratori del Novecento, però, hanno portato nelle città del Nord e del Centro migliaia di Russo. E il risultato è sorprendente: mentre i Rossi continuano a essere romani, umbri, toscani, marchigiani, emiliani e lombardi, i Russo sono ancora siciliani, pugliesi, campani ma hanno anche un accento romano, fiorentino, bolognese, milanese e torinese. A Torino, dal 2010, è proprio Russo il cognome più diffuso in assoluto, davanti al piemontesissimo Ferrero, a Rosso e a Rossi. Insomma, Russo rappresenta meglio di Rossi l’Italia nel suo insieme. I signori Rossi intenti a leggere questo libro avranno la bontà di perdonarmi: per un senso di giustizia, io tifo Russo. Cognomi migranti Russo a parte, l’Italia è un Paese di migranti. Dal Sud al Centro-Nord nel XX secolo, ma anche dal Nord al Centro-Sud: a partire dalle comunità piemontesi di parlata galloitalica che intorno al XII secolo scesero in Sicilia fino ad arrivare alla ripopolazione novecentesca dell’Agro Pontino (nel Basso Lazio) da parte di gruppi veneti e friulani. E poi dalle montagne alle valli e dalle campagne ai centri urbani, con il recente e opposto fenomeno dello spostamento dalle metropoli ai comuni dei vari hinterland. Di questi movimenti, anche lontani nel tempo, i cognomi rappresentano un indizio sicuro e misurabile, mostrando interconnessioni tra onomastica, demografia e statistica. A Monte Argentario e dintorni, nel Sud della Toscana, dati storici ci dicono del forte afflusso – nei secoli scorsi – di marinai e pescatori provenienti dall’arcipelago napoletano: è infatti frequentissimo il cognome Schiano, che nasce per caduta della prima sillaba da ischiano (ossia ‘ischitano’), insieme ad altri cognomi tipici del Golfo di Napoli. Talvolta si può ricostruire anche la provenienza di ampi nuclei familiari o di categorie professionali da un singolo comune. La voce norcino ‘produttore e commerciante di insac101­­­­

cati’ è nata a Roma per la presenza abbondante di cittadini di Norcia (Perugia) specializzati in questa attività. Ciarlatano è una forma corrotta per cerretano, in quanto dall’umbra Cerreto provenivano venditori di presunti filtri magici. Oggi è singolare il caso dei tassisti romani, la gran parte dei quali discende da vetturini di carrozze, che a Roma giungevano da un comune molisano, Bagnoli del Trigno, così come molti garagisti e meccanici venivano dalla vicina Schiavi d’Abruzzo (Chieti) e molti profumieri da Sant’Elena Sannita (Isernia). I cognomi più tipici di Bagnoli del Trigno – Bartimoccia, Ciarniello, Cimagna, Di Tosto, Ialungo, Massullo, Pallotto, Pilorusso – risultano tutti ben più numerosi a Roma che in Molise. Al di là delle indicazioni demografiche, sono proprio i nomi di famiglia a indicarci in che modo si sono orientati i fenomeni migratori dal Sud verso il Centro-Nord. Se infatti si confrontano frequenze e distribuzioni di cognomi regionalmente ben connotati, si nota che i pugliesi si sono trasferiti più che altrove a Milano e in Lombardia; i calabresi a Roma, in Piemonte e in Liguria; i siciliani nell’intero triangolo industriale nord-occidentale. Milano, in particolare, registra il 3º nucleo per valore numerico di Russo, De Luca e Santoro, il 4º di Romano, Greco, Messina e Gallo, il 6º di Esposito e Ferrara, il 7º di Marino e Giordano: tutti tipici del Sud. Se consideriamo la graduatoria dei più diffusi cognomi della Puglia, il gruppo più numeroso dei Calò o dei Perrone risiede attualmente a Roma, mentre Milano ospita il 5º nucleo per grandezza di Lorusso, 1º a Bari città. Un caso che lascia di princisbecco è quello di Aosta. Uno s’immagina di incontrarvi, montanari da secoli, i signori Favre, Cerise, Bionaz, Blanc, Vuillermoz, Pellissier... E invece i cognomi più diffusi sono Fazari e Mammoliti, Giovinazzo e Raso, Agostino e Addario, Furfaro e Macrì. Come vi suonano? Calabresi, forse? E infatti provengono quasi tutti dal Reggino; anzi, da un singolo comune della provincia di Reggio: San Giorgio Morgeto. Ad Aosta risiede una popolazione di sangiorgini doppia rispetto a quella rimasta dalle parti dello 102­­­­

Stretto. Le due città sono gemellate. Nel 2010 San Giorgio ha inaugurato il Parco Aosta alla presenza del sindaco aostano. E nell’ultimo Consiglio comunale di Aosta erano presenti sette consiglieri nati al Sud, di cui quattro in Calabria. A Latina, capoluogo dell’area bonificata negli anni Trenta del XX secolo, il 5º cognome per frequenza è Marangon, tipicissimo delle province di Venezia e di Rovigo. La città e la provincia abbondano di signori Nardin, Moretto, Salvador, Visentini, Peruzzo, Carraro, Mancin, Ghirotto, Pellizzon: tutte famiglie d’origine veneta. E che dire dei romagnoli a Roma? Certo, la capitale è un crogiuolo di ogni popolazione e dialetto d’Italia: trovi il friulano e il sardo, il marchigiano e il campano, per non dire di abruzzesi, molisani, pugliesi, lucani, calabresi e siciliani. Però meglio essere precisi. È stato più volte scritto che, dopo il completamento dell’Unità d’Italia, la classe impiegatizia e amministrativa sarebbe discesa da Torino a Roma. Eppure tra i capitolini le tracce piemontesi sono oggi scarsissime: un po’ di Ferrero, qualche Marchisio, una manciata di Barbero e poco più. Invece Casadei conta oltre 500 portatori a Roma, e spiccano nella capitale altri nomi di famiglia concentrati a Rimini (Urbinati, Succi, Semprini, Frisoni), a Ravenna (Bezzi, Foschini, Casadio, Melandri), a Forlì (Ravaioli, Cangini, Versari), a Cesena (Amadori, Lucchi, Zoffoli), a Faenza (Sangiorgi, Liverani). Queste presenze hanno due spiegazioni. La prima è che ai tempi dello Stato Pontificio la Romagna era nel complesso una terra povera da cui si migrava facilmente. La seconda che il Lido di Ostia fu bonificato tra gli anni Ottanta e Novanta del XIX secolo da cooperative di braccianti provenienti da Ravenna: ne resta il ricordo nella Piazza dei Ravennati e nel Viale dei Romagnoli; per il resto, l’unica memoria storica di tali avvenimenti è proprio il repertorio cognominale dei romani di oggi.

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I cognomi dei «nuovi italiani» Certamente negli ultimi anni ha fatto più notizia la diffusione dei cognomi degli immigrati dall’Asia, dall’Africa, dall’America Latina e dai Paesi dell’Europa orientale. Nella seconda città italiana, Milano, tre nomi di famiglia cinesi si collocano tra i primi 10: Hu 2º, davanti a Colombo, Ferrari, Bianchi, Villa e Brambilla e dietro al solo Rossi; poi Chen 8º e Zhou 10º. Oggi a Milano per ogni Brambilla ci sono quasi due Hu e mezzo, e Hu è tra i dieci cognomi più numerosi anche a Torino. Parlando di cittadini di nazionalità cinese, la comunità con maggiori tradizioni e peso percentuale nella popolazione locale è Prato. Lì Chen ha superato Gori al 1º posto; Hu, Zhang e Lin hanno sorpassato Rossi e Innocenti, e sono undici i cognomi cinesi nei primi trenta. Anche in città medie o piccole, in effetti, tra quelli più diffusi ci sono cognomi stranieri: il tunisino Fatnassi 2º a Imperia, il rumeno Timis 5º a Lodi, i singalesi Fernando e Warnakulasuriya 14º e 20º a Verona (sommati al doppio Fernando Warnakulasuriya varrebbero il 3º posto). E ancora: l’indopakistano Singh è 9º a Terni e 1º in vari comuni minori del Nord; l’albanese e kosovaro Gashi è tra i primi a Gorizia e a Treviso; il maghrebino Hossain spicca a Venezia, a Bologna ed è il primo fra gli stranieri anche a Roma, con circa 1.400 presenze. La loro crescita è stata rapida. Il primo Timis (in realta sarebbe Timiş da pronunciare come finish) è stato registrato all’anagrafe di Lodi nel 1996: in meno di quindici anni gli iscritti con quel cognome sono divenuti 150, tutti provenienti dalla medesima città (Borşa), e quasi un quarto del totale sono lodigiani di nascita. Il dato più rilevante è però quello di Brescia, dove il 1º assoluto è Singh, con Kaur al 3º posto dietro a Ferrari e davanti a Rossi e Lombardi. Si tratta di due voci indiane – in particolare del Punjab e legate ai seguaci della religione sikh – che valgono, come già accennato, rispettivamente ‘leone’ e ‘principessa’ e sono forme utilizzate anche come secondi nomi e secondi cognomi. 104­­­­

La straordinaria ascesa di questi nomi di famiglia stranieri rispecchia la crescente quota di immigrati nel nostro Paese, ma è anche il risultato della forte concentrazione cognominale che caratterizza alcune comunità. La compattezza dei cognomi dei singalesi o dei sikh non è neppure paragonabile alla frammentazione del repertorio italiano – quello complessivo o anche quello di una singola regione o città – e lo stesso vale, per fare solo un altro esempio, anche per i senegalesi e in genere per gli africani del Golfo di Guinea, che presentano un numero limitato di nomi di famiglia. Una situazione simile è quella dei cinesi: una manciata di cognomi rappresenta un terzo dell’intera popolazione del Paese. Però la grafia occidentalizzata inganna: in realtà dietro ogni nome che leggiamo – Li, Chen, Huang – ci sono vari significati e dunque numerosi ceppi familiari e dinastici. Per poterli distinguere occorrerebbe non solo conoscere gli ideo­grammi cinesi, ma anche l’inflessione della voce necessaria alla pronuncia corretta. Ho consultato una sinologa della Sapienza di Roma: l’ideogramma trascritto come Hu si può leggere in decine di modi. E a seconda di come lo si legge nei vari dialetti cinesi significa ‘fiume’, ‘tigre’, ‘disordine’, ‘lago’... Insomma, per capirne di più bisogna studiare lingue e usanze. Anche per evitare la stessa figura di chi, straniero, conteggiando con sistemi informatici il nostro repertorio, ha stabilito che il cognome più diffuso in Italia, dopo Rossi, è «Di»! A proposito di brutte figure, nel 2012 i giornali hanno strillato in prima pagina che i signori Hu a Milano avevano superato i Brambilla. Nel 2001, undici anni prima, stessa notizia e stessa prima pagina (quel sorpasso, infatti, è roba vecchia; il nuovo sorpasso riguarda tutti gli altri cognomi di Milano, escluso Rossi). Nel frattempo (2005) avevano scoperto che anche gli Abdel, arabi, avevano raggiunto i Brambilla tra i titolari di azienda e addirittura superato gli Ambrogio. Grazie tante: Ambrogio è un cognome reggino (e cuneese), mica milanese. Come se qualcuno – sulle piste del santo pro105­­­­

tettore – cercasse i signori Petronio a Bologna o i Pietropaolo a Roma... Dunque anche quanti temono che Milano sia ormai una preda cinese e Brescia sia assediata dagli indiani possono tranquillizzarsi. Gli italiani non sono ancora spariti. Ma certo l’ascesa dei cognomi degli stranieri, o dei «nuovi italiani», continuerà per qualche decennio, anche se i flussi migratori dovessero improvvisamente cessare. Già, perché oggi gli africani, gli asiatici, ma anche gli albanesi e i rumeni sono soprattutto adulti, giovani e bambini, con pochissimi anziani. Manca un’intera generazione: che si formerà nel tempo e si sommerà ai tanti nuovi nati, già quasi 80 mila l’anno, di nazionalità non italiana. E qualcuno acquisirà la nazionalità italiana. Così dovremmo cominciare a pensare a Warnakulasuriya come a un cognome italiano, più o meno come il famoso Marcoz in Valle d’Aosta, Mayer in Alto Adige o Suligoi in Venezia Giulia. Tra l’altro alcuni cognomi stranieri hanno un fascino storico notevole. Appunto Warnakulasuriya, il cognome di Sri Lanka più numeroso in Italia, è composto a partire da suriya, che significa ‘solare’ e rappresenta un’antica e nobile stirpe, mentre le prime due sillabe sono un’alterazione di Varuna, dio del mare nell’antica mitologia indiana. I Varna Kula furono una dinastia di regnanti in una parte dell’isola di Ceylon. Dobbiamo aver paura dei nomi di famiglia stranieri? Ascoltate il significato di un grappolo di cognomi (ma tutti anche nomi) arabi: Akter ‘stella, buona fortuna’, Ali ‘alto, sublime’, Amin ‘onesto, veritiero, fedele’, Habib ‘caro, amato’, Haque ‘vero, verità’, Hasan e Hossain ‘buono, bello’, Islam ‘pace’, Kabir ‘splendido, magnifico’, Karim ‘nobile, generoso’, Khalil ‘cuore amico’, Mustafa ‘scelto, puro’, Omar ‘prosperoso, fiorente’, Rahman ‘il più benigno, misericordioso’, Salem ‘perfetto, in salute’. Quando qualcuno compilerà, più prima che poi, un dizionario dei nomi e dei cognomi dei «nuovi italiani», i lettori 106­­­­

impareranno a conoscere meglio culture, lingue, tradizioni e sistemi onomastici che oggi possono apparire molto lontani e poco comprensibili. Del resto l’Italia è da secoli una miscela di nomi e cognomi «stranieri». A Napoli, risale ad alcuni secoli fa l’arrivo di cognomi spagnoli oggi ben rappresentati, come Nugnes, Sanges, Perez, Martinez, Lopez, Fernandez, Rodrigues. Lo stesso vale per tanti cognomi albanesi: Gramsci, Cuccia, Scutari, Matranga, Rada, Petta, Strati, Tanassi. E sono di tradizione italiana anche Cohen e altri cognomi ebraici; Scuoch a Latina (anche se è originario di Grimacco, in provincia di Udine); Devetak, Makuc, Pahor, Princic, Bisiach, Cernic, Devetag a Gorizia o Parovel, Vesnaver, Poropat, Babich e Giugovaz a Trieste. E a questi si aggiungono i cognomi franco-provenzali della Valle d’Aosta, quelli provenzali di alcune valli del Piemonte occidentale e quelli tedeschi dell’Alto Adige (e del Trentino). Se prendiamo una qualsiasi lista di cognomi italiani, possiamo dire che, dal punto di vista etimologico, sono ebraici Raffaelli, Emanuele, D’Adamo, Sabatini, D’Elia, Mattei, De Maria; sono greci Abbado, Tommasini, Garofalo, De Giorgio, Sebastianelli, Teodori, Cannatà, Laganà, Versace, Romeo, Papasidero, Craxi; sono arabi Almirante, Badalamenti, Buzzanca, Macaluso, Zagami, Chillemi, Musumeci, Busacca; sono germanici (cioè «barbari») Federici, Riccardi, Gandolfo, Landi, Gamaleri, Bizzotto, Guarnieri, Rampazzo, Albertini, Guidi, Guglielmi; sono normanni De Roberto, Ruggeri, Altavilla; e le liste potrebbero a lungo continuare. Certo, quasi tutti questi nomi stranieri sono stati adattati nel tempo alla lingua italiana. Forse anche i «nuovi» nomi potrebbero via via trasformarsi. Qualche anno fa la «Gazzetta Ufficiale» riportava la notizia di un cittadino straniero, Choubineh, che voleva diventare Ciubine e di una famiglia araba che aveva cambiato cognome: da Ben Omar a Benoma (rischiando la confusione con lo pseudosuffisso tipico di tante patologie; qui benigna, però). 107­­­­

Gli italiani, del resto, hanno ben conosciuto questa situazione quando, per esempio negli Stati Uniti o in Brasile, furono costretti (o consigliati dalle loro relazioni sociali) a ridurre, adattare e perfino tradurre i propri nomi di famiglia. Alcuni esempi tra le centinaia possibili: traduzioni letterali sono Lorenzi diventato Lawrence, Martini > Martin, Mastropaolo > Masterpaul, Bevilacqua > Drinkwater, Vinciguerra > Winwar, Lo Prete > Priest, Napoli > Naples, Chiesa > Church. In vari casi una forma composta fu ridotta a un solo elemento: Mastrovalerio > Valerio, Notarpasquale > Notar, Prestogiacomo > Presto, Fiordaliso > Fiorda, Scaricaciottoli > Scari, Arcidiacono > Arcide (e questo non è un pesce d’aprile). Singolari le traduzioni assonanti con un nuovo significato: Bonfiglio è diventato Bonfield, Cestaro > Chester, Cosenza > Cousins, Marsala > Marshall, ecc. Lo stesso in Brasile, dove oggi troviamo i cognomi Quinalha (< Chinaglia), Bolonhezi (< Bolognesi) e Lorenção (< Lorenzon). Bricolage onomastico Come si ricostruisce l’etimologia di un cognome? Anziché esordire con una lista indefinita di precauzioni, complicazioni, obiezioni, eccezioni e controdeduzioni, proviamo a cercare insieme l’origine di un cognome a caso che non sia trasparente, cioè troppo facile, come potrebbero essere Bianchi, Barbieri o Lucchesi. Ho scritto facile? Beh, consentitemi una digressione. Bianchi: se i cognomi che derivano da soprannomi indicano situazioni rare o eccezionali e se il colore bianco di barba e capelli è così comune tra le persone di una certa età, come mai l’indicazione del bianco si è fissata più volte e diffusa a tal punto? Barbieri: se è vero che i derivati da nomi di mestiere rispecchiano la frequenza e l’importanza delle attività svolte, come si spiega che il modesto barbiere abbia dato vita in Italia al più numeroso cognome di questa tipologia dopo Ferrari? Lucchesi: ma se i nomi di famiglia corrispondenti a una popolazione indicano 108­­­­

provenienza da altrove, come mai questo cognome è il numero uno per frequenza proprio a Lucca? Bei rebus. Sono forse queste le magie dell’onomastica? Ci torneremo. Intanto peschiamo il cognome difficile. Poiché l’idea di questo paragrafo mi è balenata mentre leggevo casualmente l’insegna di via Mencattelli a Chianciano Terme, occupiamoci del rarissimo Mencattelli, portato almeno da un personaggio pubblicamente ricordato: Demetrio, caduto civile. Scartiamo subito parentele improprie con mentecatto, gatto o con meno qualcosa e distinguiamo la radice dal suffisso. Anzi: dai suffissi, perché riconosciamo -ello e davanti a lui -atto. Il secondo è meno comune, ma è sopravvissuto nel lessico per designare piccoli animali (cerbiatto, lupatto, orsatto, anche se oggi si usano più spesso lupacchiotto e orsacchiotto) e comunque è ben presente nei cognomi: Moratti, Tosatto, Bagatti, Zanatta, ecc. I cognomi plurisuffissati derivano di solito da un nome personale, in quanto erano – e sono – i nomi di battesimo ad accumulare più spesso marche diminutive, aumentative, vezzeggiative, dispregiative. Ci resta pertanto la radice, Menc(o). Ricordiamo che la vocale tonica, qui la -e-, è il perno attorno alla quale ruotano gli accorciamenti e gli altri fenomeni fonetici; teniamola buona e cerchiamo un nome di persona che presenti la sequenza consonantica: m-n-c. La risposta non è difficile: Ménico, forma raccorciata di Doménico. Che cosa si è verificato nel tempo? È caduta la prima sillaba, poi è sparita la vocale non accentata che si trova subito dopo quella accentata e che in voci accentate sulla terzultima è particolarmente debole. La trafila sarà dunque questa: Doménico > Ménico > Ménco > Mencatto > Mencattello > Mencattelli. Ora, questa vicenda fonetica, che ha portato anche ai cognomi Mencacci, Mencaccini, Mencagli, Mencarelli, Mencarini e Mencherini, Mencaroni, Mencattini, Menchetti e ovviamente Menchi (tutti toscani, umbri e marchigiani) è solo una delle tante possibili. Basti dire che nelle parlate settentrionali e in alcune aree centrali le consonanti occlusive, come la -c- di casa 109­­­­

e di Domenico, quando sono racchiuse tra due vocali generalmente si sonorizzano, vengono cioè pronunciate con una diversa sonorità: e la -c- di casa diventa la -g- di gatto. Dunque: Doménico > Ménico > Ménigo > Méngo, da cui oggi i cognomi Menghi, Mengo e Menga, Mengacci, Mengali, Mengarelli, Mengato, Menghetti, Menghin e Menghini, Mengoli, Mengon e Mengoni, Mengotti, Mengozzi, Mengucci, ecc.; ancora toscani o marchigiani, ma anche o soltanto emiliani, romagnoli, veneti, lombardi. Facciamo poi l’ipotesi che la vocale debole non cada e che si parta da Menico o da Menego (fragile com’era, la nostra vocale postonica poteva ben essere assimilata a sé dalla precedente e trasformata in un’altra -e-): ecco Menegale, Menegatti, Menegazzi, Meneghello, Meneghetti, Meneghin, Menegolli, Menegoni, Menegotto, Menegoz, Meneguzzi accanto a Menicacci, Menichelli, Menicocci, Meniconi, Menicucci... E qui vorrei fermarmi perché questo non è – fortunatamente – un elenco degli abbonati telefonici. Ma riflettete un momento sulla possibilità che non cada neppure la sillaba iniziale di Domenico, e in tal caso alla probabilità che si perda però, di nuovo, la -i- davanti all’ultima sillaba (Doméngo). Oppure alla variante Mingo per Mengo o Minico per Menico; o alla riduzione più drastica del nome in Meni (come in Lombardia e in Friuli) o in Mecco e Micco (in Campania), Meco (in Toscana, Lazio e Abruzzo), Menno (in Veneto e altrove), Meni (in Friuli), Mimmo (in gran parte del Sud); Beco (in Toscana) e Bego (in Veneto) con scambio -m- > -b-. Poi alla possibilità che la -n-, simile alla -m- perché entrambe consonanti nasali, si dissimili, ossia si articoli in un’altra maniera, sino a diventare per esempio una -r- (Domérego, Mérego). E infine a una forma napoletana di Domenica: rummëneca, da cui il cognome cilentano Rumma e il più frequente, a Napoli, Donnarumma. Ora immaginate tutti i possibili suffissi applicabili a queste nuove radici. Insomma, sono parenti strettissimi tra loro Domenghini e Becarelli, Menis e Minghetti, De Dominicis e 110­­­­

Bechi, Mastrodomenico e Mecacci, Mereghetti e Mecocci, Beghetto e Mingozzi, Meccia e Menato, Micca e Miniussi, Micò e Minuti, Minicucci e Miccoli... Centinaia di nomi di famiglia provenienti da un unico nome (è qui la magia onomastica?): quello che indicava in origine l’appartenenza al padrone, il dominus, divenuto il Signore Dio nel mondo cristiano, da cui anche il giorno della domenica. In realtà, se potessimo collocare su un albero genealogico (o meglio ancora su una sorta di carta topografica) tutti questi cognomi, scopriremmo che il territorio di Domenico confina da un lato con quello di Michele e dei suoi derivati, da un altro con Agamennone, da un altro ancora con Mino (inteso come diminutivo dei tanti nomi in -mo o già in -mino: Guglielmo, Anselmo, Adelmo, Beniamino), poi con Erminio, con Amico e con parole del lessico, quali menna e minna ‘mammella’ o mignolo ‘piccolo’. E le zone grigie, ossia miste, di sovrapposizioni e confusioni non sono poche. Però alcune interpretazioni etimologiche sono certe. Dal nostro punto di partenza, Mencattelli, che ora potremmo tradurre all’incirca Di Domenicuccino, siamo arrivati a due conclusioni: a) se incontrate un cognome con la sequenza consonantica m-n-c quasi certamente discende da Domenico (il «quasi» deriva dal fatto che ci sono anche Mancini e simili); b) se cercate l’etimologia di un qualsiasi altro cognome che presumiate possa derivare da un nome personale, osservatene la vocale tonica e l’ordine delle consonanti: con m-r è difficile prescindere da Maria o da Mario (ma ci sono anche Moro e Mauro); con b-r-t sarà il caso di pensare a Bartolo (accorciamento dell’ebraico Bartolomeo) e soprattutto a Berto, componente di tanti nomi popolari sia nel Medioevo sia in epoca moderna e contemporanea, quali Roberto, Alberto, Umberto, Lamberto, Filiberto, ecc. Il giochetto è quasi un’interpretazione delle prime tre caselle del codice fiscale, ma occorre prudenza. M-r-t rinviano a Martino, ma anche a martello. L-p-p richiameranno Filippo più spesso di f-l-p, perché la prima sillaba tende a cadere. 111­­­­

B-n-d indicano discendenza da Benedetto, ma lo stesso vale per le terne v-n-d e m-n-d, perché nel Meridione la -b- può trasformarsi in -v- e questa in -m-, da cui i cognomi Venditti, Menditti e simili, che sempre a Benedetto rimontano. Con f-r-n non ci sono dubbi: da Francesco o Franco. Per scovare altre etimologie ci vuole un aiuto. Anche piccolo. E sono certo che siete disposti ad accettare il fatto che talvolta occorra munirsi di un vocabolario dialettale – oppure di un vocabolario di greco o di latino – e conoscere qualcosa di più riguardo a lessico e grammatica. Ma allora, dirà qualcuno, non converrebbe consultare o comprare un dizionario di tutti i cognomi italiani? Beh, ma sarebbe come leggere un giallo cominciando dalle ultime pagine. E poi anche i pochissimi dizionari esistenti di carattere scientifico, ossia attendibili, coprono solo una parte del patrimonio italiano dei nomi di famiglia, che dovrebbero essere 300 mila o giù di lì. Giù di lì?!? Sì, perché contarli per davvero non è semplice: nel tempo alcuni si estinguono, ma se ne formano di nuovi, soprattutto per gli errori di trascrizione che si rinvengono in qualsiasi banca dati. E negli ultimi decenni per l’acquisizione della nazionalità italiana da parte di immigrati stranieri. I 10 cognomi più frequenti in Italia sono portati da 150 mila a 60 mila cittadini ciascuno; sommandoli, si giunge appena all’1,6% degli italiani. I primi 50 corrispondono al 4,5%; i primi 100 al 7,3%; i primi 1.000 al 24,5%. Per arrivare alla metà della popolazione occorrono circa 6.000 cognomi, segno di bassissima concentrazione. In Danimarca ne bastano 14: Hansen, Jensen e qualche altro ‘di Giovanni’ e poco più (Andersen, Larsen, Nielsen, Pedersen, ecc.). In Cina, Corea e Vietnam anche meno. Inoltre, nel computo dei nomi di famiglia, ci sono i cognomi doppi e multipli: quelli derivanti dalla semplice aggiunta nella catena onomastica di donne coniugate del nome del marito non andrebbero contati, ma che fare con quelli nati da... unioni di fatto di cognomi differenti, magari per distinguere gruppi 112­­­­

di omonimi? Per fare un esempio, i Rossi Doria, i Ferrari Aggradi o gli Esposito Vulgo Gigante dovranno essere accorpati, rispettivamente, ai Rossi, ai Ferrari e agli Esposito oppure no? In qualche comune la situazione è particolarmente complessa. A Sottomarina, frazione di Chioggia (Venezia), oltre due quinti dei residenti si chiamano Boscolo o Tiozzo. Per fortuna hanno anche un detto, o meglio una nomenansa, quasi un secondo cognome che dal 2010 è divenuto ufficiale, entrando nel codice fiscale: così che ora anche Cegion, Meneguolo, Anzolin, Pezzopan, Brasiola, Fasiolo, Caenazzo, Gobetto, ecc. sono forme anagrafiche a tutti gli effetti. Vediamo allora un altro cognome a caso: Serianni. Qui la ricerca di un suffisso non produce alcun esito. Qualcosa a che vedere con serio, con siriani ‘abitanti della Siria’ (in effetti esiste anche un diffuso cognome Sirianni)? Ma cosa può essere -ianni se non è un suffisso? Un nome personale. Si tratta di Ianni, ossia Gianni ovvero Giovanni. L’ebraico Giovanni è stato il nome più diffuso in Italia dall’Alto Medioevo fino al successo di Giuseppe nel XVIII secolo e lo è stato anche altrove in Europa. Anche se qualche volta facciamo finta di credere che Jan, Ivan, Yannick, Hans, Vanja, Janko, Ion, Eoin, Gjon, Yochanan, Yanko, Ivica, Janek, Jaam, Joop, Jukka, Xoán, Janis, Sjang, Janusz, Jens, Iancu, Ionut, Hampus, Ieuan, Shane o Sean siano altri nomi. Da Iohannes (e dalla forma ridotta Iannes) si sono avuti diversi esiti nelle parlate medievali italiane. Parte dell’Italia centrale e meridionale ha mantenuto la i- iniziale latina davanti a vocale (Ianni). La Toscana l’ha trasformata nella -g- di giorno. In Veneto, e altrove nel Nord-Est, la -g- è passata a -z- (Zanni). In Puglia quella stessa i- è divenuta la -sc- di scena (Scianni). Poi dalla base si sono formate le voci mozzate, senza la prima sillaba: Vanni, specialmente in Toscana e in Umbria; Nanni, con quella assimilazione consonantica di cui s’è detto (le consonanti finali attraggono e assimilano a se stesse quella della sillaba precedente) in Emilia e ancora in Toscana. 113­­­­

Ecco allora che da Giovanni discendono varie famiglie di cognomi, non meno di trecento, che cominciano con Ian-, Gian-, Zan-, Scian-, Van-, Nan-; famiglie a loro volta numerose, perché le forme derivate hanno acquistato uno o più suffissi (Giannettini, Iannone, Vannucci, Zanotelli, Nannini, Giagnoni, Iannuzziello che fa tanto Lucania, Giannuzzi che sa di Puglia, Giannichedda che ci porta in Sardegna, Janin con cui saliamo in Valle d’Aosta, ecc.). Oppure si sono accompagnate a un secondo nome o un aggettivo: Giampaolo, Zampieri, Iadicicco, Iannibello, Zangrande, Di Giovangiulio, Colaianni, Bongiovanni che è il derivato da Johannes più frequente in Piemonte, Giancola tipico del Molise, Giannicecco e niente meno che Depicolzuane. Altre si sono combinate con un nome di luogo: Iadisernia vuol dire Gianni da Isernia, Giannitrapani, Giansiracusa e Giandinoto indicano un avo proveniente da quelle città siciliane. Altre si sono associate a un titolo di rispetto: Dongiovanni, Mastroianni, Papaianni, Abbatescianni. Proprio quest’ultimo è il nostro caso. Non abbiamo altra strada, una volta identificato Ianni ‘Gianni’ come seconda parte di Serianni, che quella di indicare in Ser ciò che resta di (mes)ser(e): il signor G(iov)anni, insomma. Cognome presente in Calabria soprattutto, ma anche nell’Ascolano. Un composto di questo tipo è peraltro frequente in Italia, ma non è poi così trasparente: ho ascoltato – da parte dei portatori – pronunce come Seriacòpi (da Jàcopo!) e Sernìcola (da Nicòla!). Nessun dubbio per Serfilippi, Serangeli, Sermarini, Serpietri, Serralessandri, Serluca; ma con Sermasi, Sernesi o Sermenghi non è così immediato pensare ai nomi Maso (da Tommaso), Nesio o Mengo (da Domenico). In che modo dunque Serianni è stato istruttivo? a) ci ha mostrato che da Giovanni derivano centinaia di cognomi differenti (e questa frammentazione, come già accennato, è anche la causa dell’assenza di un nome di famiglia del gruppo nei ranghi alti delle classifiche nazionali: il più in alto è Zanella, poco sopra alla 300a posizione); b) ci ha indicato 114­­­­

che un nome personale può non solo mimetizzarsi attraverso gli esiti dialettali del latino (o di un’altra lingua), ma anche combinarsi con altri nomi propri e con voci di lessico: limitandoci ai titoli di rispetto, l’Italia è piena di cognomi formati con notar(o), mastr(o) e varianti masto e mascio, papa e prest(i) ossia ‘prete’, abate, tata cioè ‘padre’, conte, frate e don da dominus (ad esempio Donfrancesco nel Lazio, Donsante in Abruzzo, Dongiacomo e Donnamaria – unico al femminile – in Campania, Donvito in Puglia). Peschiamo un ultimo cognome del tutto a caso: Bartezzaghi. Solito procedimento: distinguere il suffisso o la terminazione dal resto. Ebbene: -aghi è un suffisso? Non propriamente. Ma è una terminazione frequentissima nei nomi di luogo. Si vedano, soprattutto in Lombardia, le tante città e i tanti paesi i cui nomi finiscono in -ago. I cognomi in -aghi sono dunque lombardi e rappresentano la pluralizzazione dei nomi di luogo: Inzaghi da Inzago (Milano), Binaghi da Binago (Como), Osnaghi da Osnago (Lecco). Provengono da un suffisso celtico -acum, divenuto nelle parlate locali -ago, che corrisponde all’-anum latino (poi diventato -ano). Un suffisso che suole chiamarsi prediale, perché indicava proprietà, possesso: Marano era l’antica tenuta del centurione Maro o Mario, Cassano era proprietà di un Cassius, Fiorano era il terreno di un tale Florius, Morciano quello di un latifondista Murcius e via discorrendo. Bartezzaghi è cognome lombardo? Sì, tipico della provincia di Milano, con possibile epicentro il comune di Vittuone. Allora il gioco è fatto! No. Perché un posto chiamato Bartezzago non esiste. Almeno nelle carte moderne. Tutto da rifare? Neanche per sogno. Ma qui occorre l’aiutino. E cioè scoprire che nei dialetti settentrionali la terminazione è sparita o non c’è mai stata, Inzago è solo Inzàa; e per ricostruirla (o meglio, inventarla) in una presunta lingua italiana (o latina), gli scrivani, i notai e i parroci della Lombardia occidentale usavano spesso e volentieri un’altra terminazione, -ate, anch’essa tipicissima dei 115­­­­

toponimi della zona. Vedi Galbiate, Lurate (Caccivio), Turate, ecc., da cui i cognomi Galbiati, Lurati, Turati, ecc. In questa ricostruzione a tavolino di nomi di paesi – e di nomi di famiglia – le uscite -ate/-ati e -ago/-aghi sono quindi intercambiabili. Ecco allora che possiamo cercare un posto che si chiami Bartesate. E il posto c’è: si trova nel territorio di Galbiate (Lecco), è stato comune autonomo fino al 1927 e probabilmente era detto anticamente Bartesago o Bardesago. Ne discendono i cognomi Bartezzaghi, Bartezaghi con una sola -ztipico di Bareggio (Milano) e il più frequente Bartesaghi con -s-, lecchese e comasco, oltre al cremonese Bertesago. D’altronde anche Casiraghi deriva da Casirate, Cornaghi da Cornate, Casnaghi da Casnate e Vernaghi da Vernate. Mentre, all’opposto, i cognomi Cucciati, Ossati e Senati risalgono rispettivamente a Cucciago, Ossago e Senago con differente terminazione. E ora sappiamo pure che: a) i cognomi derivanti da nomi di luogo, ma con terminazione plurale, sono molto frequenti, soprattutto in Lombardia; b) esistono terminazioni intercambiabili tra loro a causa di differenti tradizioni scrittorie e di rapporti incerti tra dialetto e lingua; c) alcuni nomi di famiglia possono corrispondere a nomi di luogo scomparsi o presunti tali. Qualche volta il nome aiuta a interpretare il cognome. Volete una prova? Prendiamo una signora Sara Sefardi, non più giovane. Sara è stato uno dei nomi di maggior successo in Italia negli ultimi 35-40 anni. Ma non prima. Prima, per quanto ben diffuso in America come tanti nomi biblici promossi dalla religione protestante, da noi era ancora per lo più limitato alla comunità ebraica. Una Sara che oggi abbia più di settant’anni quasi certamente appartiene a quella comunità. E con lei il suo cognome. Ottimo indizio: salvo poi ricordarsi che sefard/sefarad è proprio il modo in cui gli ebrei chiamavano nel Medioevo la Francia, in seguito la penisola iberica e infine tutto il giudaismo d’origine occidentale: i sefarditi, in opposizione agli aschenaziti. 116­­­­

Ma ci sono delle etimologie imprendibili. Come certi tiri che finiscono in rete. Anche passati e ripassati alla moviola rimangono un misterioso prodigio. Prendete Eco. D’accordo, corrisponde al nome della ninfa e alla replicazione del suono: ma non è un nome personale, non un soprannome, non un nome di luogo, non un mestiere, non un difetto fisico, non un comportamento bizzarro. In questi casi occorrerebbe un’inchiesta sul campo, letteralmente a 360 gradi 24 ore su 24 come direbbero i telegiornali. A meno che... A meno che un portatore del raro cognome non sia un grande intellettuale che non si vergogna delle origini del proprio avo. E così Umberto racconta al mondo che Eco è un acronimo – E.C.O. – imposto benignamente a tavolino al nonno trovatello: «Ero convinto di essere l’unico a portarlo fino a quando la pubblicazione del Nome della rosa mi ha fatto conoscere una lettrice che mi ha scritto per dirmi che anche lei si chiama Eco come me e che desiderava sapere se c’erano legami tra di noi. Lei mi ha detto che anche suo nonno era un trovatello, ma di Napoli. Com’è possibile che due impiegati comunali, uno di Napoli, l’altro di Alessandria, mia città natale, abbiano avuto la stessa idea? Mistero. Poi un amico che lavorava alla Biblioteca Vaticana sui nomi degli ebrei del XVII secolo è capitato per caso su una lista delle espressioni utilizzate dagli ebrei per designare i trovatelli: una di esse recitava ‘ex coelis oblatus’ (donato dal cielo). Il mio cognome è dunque un acronimo latino che è rimasto in qualche ricordo». A proposito di tiri imprendibili, ci sono anche cognomi che non hanno più un’etimologia e un significato. Prendete Totti: -otto è il suffisso e la T- iniziale può essere frutto di un’assimilazione consonantica, attratta e conformata alle successive. Chi può dire quale consonante fosse in origine? L’avo di Francesco avrebbe potuto chiamarsi sì Berto (Berto > Bertotto > Totto > Totti) ma manche Angelo (> Angelotto > Lotto > Totto) o Martino o Giacomo o Ilario o...? E alla fine Totti non è che un suffissotto con un’unica consonante tipica del linguaggio infantile, del baby talk. Pupone di nome e di fatto, insomma. 117­­­­

Saperne di più Certo che conoscere qualcosa di più sulla propria identità onomastica è un desiderio di molti. Nel 1998 ebbi la ventura di ideare e presentare, insieme all’attrice Cinzia Mascoli (la Valeriana dei Viaggi di nozze di verdoniana memoria), in un incontro dell’Estate Romana, una serie di giochi con il pubblico tutti basati sui nomi propri. A un dato momento era previsto che chiedessi agli spettatori chi volesse conoscere il significato del proprio cognome. Mi ero portato precauzionalmente dei «compari»: amici dei cui cognomi sapevo già tutto. Avrebbero dovuto farsi avanti nel caso in cui gli spettatori «veri» fossero rimasti muti per disinteresse o timidezza. Non feci in tempo a formulare la proposta che l’intera platea, oltre 150 persone (ed era passata l’una di notte), alzò contemporaneamente la mano: come un sol uomo, «a unisono», avrebbe detto un personaggio di Verdone. Ai lettori di questo libro, intanto, mi corre l’obbligo di raccontare perché i cognomi Bianchi, Barbieri e Lucchesi di cui sopra non sono affatto paradossali nella loro numerosità. Il soprannome bianco indicava (come per il rosso) un fatto raro, perché era appiccicato ai giovani precocemente incanutiti e agli albini (confessate: lo avevate intuito). Il barbiere aveva un ruolo assai più elevato, nelle dinamiche delle società medievali, rispetto a quello odierno. Intanto la barba era portata lunga dalla maggioranza degli uomini e aveva un valore simbolico ben più importante dei capelli (non a caso si parla di barbiere e non di capelliere). Strappare una barba era una sorta di evirazione (certo, poi alcune cose ricrescono e altre no), comunque un’onta tremenda. E il barbiere era anche il chirurgo dei poveri: si occupava di estrarre cisti e cavare denti e operava salassi con le sanguisughe. La frequenza di un cognome, poi, è data anche dal diverso grado di frammentazione della forma base: mentre il fabbro ferraio si è frazionato in decine di nomi di famiglia secondo i vari dialetti e i suffissi usati, Barbieri nella sua limitata area di 118­­­­

diffusione – sostanzialmente Emilia e Lombardia – è rimasto integro, e scarso è l’apporto numerico di alcune forme siciliane come Varvèro, Zirafi ossia il corrispondente d’origine greca e Cangemi/Gangemi, ancora ‘barbiere’ ma con vocabolo arabo. Lucchesi, primo per frequenza a Lucca, ha tre valori oltre a quello di ‘persona proveniente da Lucca’. Può essere, innanzi tutto, un nome personale: in Toscana lo spirito campanilistico nel Medioevo si trasmetteva ai genitori che sceglievano di battezzare il figlio come il proprio municipio (le carte dell’epoca sono piene di gente che ha per primo nome Pisano, Pratese o Fiorentino). Inoltre, i lucchesi erano per antonomasia gli agricoltori stagionali che andavano e venivano dalla Corsica: dapprima partivano appunto da Lucca, poi anche da altri luoghi. E – ultimo ma non ultimo – negli istituti della ruota di Lucca, Viareggio e vicinanze si usò per un certo periodo assegnare il cognome Lucchesi agli esposti. Del resto, anche Mantovani e Ferraresi risultano tra i primi a Mantova e a Ferrara; Di Napoli e Di Roma presentano i loro nuclei più numerosi proprio nel capoluogo partenopeo e nella capitale. Tra le diverse cause che hanno prodotto il fenomeno, una suggerisce che questi nomi – assegnati a chi dalla città d’origine si recava in un altro centro abitato – vi sono tornati grazie agli spostamenti dei discendenti, che si sono mossi evidentemente in senso inverso. Verrebbe voglia di conoscere tanti altri significati e tante altre motivazioni. Ma 300 mila cognomi sono tanti. Non basta una vita per incontrarli tutti, neppure su un dizionario. E vi accorgerete che Manzoni non fu poi così originale, e Ulisse contro Polifemo neppure, quando finalmente conoscerete un signore cognominato Senzanome. Allora ricorderete queste pagine. Ma non vi sarà facile provocare quel tale con un «Dimmi come ti chiami e ti dirò perché».

Cambi, scambi, invenzioni

Quando il cognome inganna: apparenze e significati Pesanti da portare, imbarazzanti da esibire, frequente oggetto di scherno: i cognomi che corrispondono a questo profilo risultano numerosi, ma ce ne sono molti per cui le apparenze ingannano. L’onomastica, come abbiamo visto a proposito della signorina Collabolletta, viene in aiuto e può alleggerire il fardello di chi si chiama Mezzasalma o Centosalme, spiegando che quei cognomi non richiamano obitori o cimiteri, visto che nel Sud la salma è un’antica unità di misura agraria, e dunque indicano le dimensioni di un terreno. Chi si chiama Feci può tirare un sospiro di sollievo sapendo che si tratta della forma raccorciata del nome medievale augurale e gratulatorio Diotifece. E non è un grido di disperazione Muoio, bensì un cognome salernitano che segnala provenienza da Moio della Civitella, paesotto di quella provincia. Il nome di famiglia Sesso proviene dal nome di un centro alle porte di Reggio Emilia. Seno è la variante settentrionale di senno. Il cognome Fallo corrisponde al nome di un comune dell’Abruzzo, che a sua volta deriva da una voce dialettale per faldo, ossia ‘falda, pendice, fianco’. Il sardo Puzzone vuol dire ‘uccello’, mentre il siciliano Puzzo vale ‘pozzo’ e in altre zone viene da Jacopo o da Filippo attraverso i diminutivi Jacopuzzo e Filippuzzo con caduta delle prime sillabe. Casino è una semplice abitazione di piccole proporzioni. Pedalino viene da paladino attraverso Padalino. 120­­­­

Lardi e Lardo non indicano presenza di grasso o ghiottoneria, ma sono la porzione terminale di nomi di battesimo quali Ilardo, Gelardo, Ghilardo, Gilardo, Abelardo. In questi nomi la base – germanica – è *hardhu, che in inglese si è trasformata in hard e in italiano si ritrova in ardito: insomma, ‘forte, coraggioso’. Pesante nella maggior parte dei casi è un nome ebraico di origine greca che corrisponde a Byzante, dunque indica origine o legame con la città di Bisanzio. Cazzato è una forma settentrionale di Cacciato, non necessariamente nel senso di ‘allontanato, sbandito’, ma forse in quello di ‘figlio di un tale Caccia’. Maniaci viene dal comune catanese di Maniàce, da accentare sulla seconda -a-. E Bellicose non è il ricordo di femmine agguerrite, ma una variante di Bellacosa, nome medievale ambigenere, descrittivo e augurale (viene in mente la hit di Eros Ramazzotti: «più bella cosa non c’è / più bella cosa di te»). Suino non è il maiale, ma una forma accorciata di Anzuino/Ansovino, nome germanico anche di un santo. Meno imbarazzanti, ma altrettanto ingannevoli, sono molti altri nomi di animali fissati nei nostri cognomi. Manzo, ad esempio, con i suoi suffissati Manzini, Manzoni, Manzolini, deriva dal nome germanico Mand, nulla a che fare coi bovini. Per rimanere in tema di scrittori, Leopardi proviene dalla combinazione di *leubha (che in tedesco è diventato lieb) e *hardhu: perciò ‘caro e forte’, e niente felini. Salmone corrisponde saggiamente a Salomone. I Ramarro non sono lucertoloni verdi, ma ramaioli da cucina. I Renna non tirano la slitta di Babbo Natale, ma corrispondono verosimilmente a una forma dialettale di Rende, comune cosentino. Delfino può derivare da adelphós ‘fratello’ e Vitello può essere il diminutivo di Vito. I signori Capponi non c’entrano coi galli castrati, ma hanno soltanto una ‘testa grossa’ (come i Caponi, insomma) e le famiglie Pollo derivano dal nome del dio Apollo, oppure semplicemente da Paolo. Giraffa è una storpiatura di giaraffa, parola d’origine araba indicante un tipo di oliva. Tori, Toro, Torello, Torelli rappresentano ciò che 121­­­­

resta di Salvatore o dell’antico nome Ristoro, che i genitori assegnavano col significato di ‘recupero, ricambio, risarcimento’ al fratellino di un bambino morto. I signori Luccio e Lucci non discendono da pesci, ma da ciò che rimane, dopo la caduta delle prime sillabe, di un nome di persona terminante in -lo – come Bartolo, Bertolo, Angelo, Agnolo, ecc. – suffissato con -uccio. Falchi non equivale sempre al falco, ma spesso alla falce. Rondini non corrisponde al pennuto, ma proviene dal nome di luogo Ronda o dal nome di persona Rondo o dal francese rond ‘rotondo’: in ogni caso, l’accento andrebbe posto sulla penultima sillaba (Rondìni) e non sulla terzultima. Lungo tutta la nostra penisola si trovano, inoltre, nomi di famiglie che sembrano voci verbali. Sembrano. Il cognome Dire vale ‘Di Re’, Dicevi ‘di Cevo’, ossia proveniente da un paese del Bresciano. Corsi discende dal nome medievale Bonaccorso, cioè ‘ben arrivato’. Battei non è il participio passato del verbo battere, ma una forma sincopata di Buonmattei, che della forma base ha mantenuto la consonante iniziale e le ultime sillabe (va dunque pronunciato con la e aperta). Presterà non è il futuro del verbo prestare, ma significa figlio o moglie di un «preste», ossia di un prete. Segafreddo non riguarda la spaccatura del ghiaccio, ma è una forma alterata di Sigfrido, cioè ‘pace nella vittoria’. Sorge non riguarda il sole: è piuttosto una variante di sorce, a sua volta da sòrice: un topo, insomma (gli animali rispuntano dove meno te li aspetti). Cotti non è il participio passato di cuocere, ma il diminutivo di nomi germanici quali Federico, Enrico o Alberico, con il suffisso -otto. Serviti non richiama chi ha buone carte in mano o i clienti di un ristorante, ma un signor (ser) Vito. Russano è un derivato di rosso, accentato sulla -a: i conviventi dormano sonni tranquilli. Il veneto Lussato indica provenienza dalla regione tedesca della Lusazia. E non sono participi neanche Parlato, curiosa alterazione per indicare un prelato, né Rigato, che deriva da un nome germanico come Enrigo, Arrigo, Federigo, Alderigo, Amerigo, con la solita perdita delle prime sillabe. Chinato 122­­­­

non è una persona piegata o inginocchiata, ma corrisponde a Chino, forma accorciata di Franceschino, ancora con il suffisso (soprattutto veneto) -ato, che indica appartenenza o provenienza o anche piccole dimensioni. Allo stesso modo, il cognome Creato identifica chi proveniva o aveva comunque relazione con Crea, località veneziana nei pressi di Scalea. Ci sono tanti nomi di famiglia che risultano saporiti solo in apparenza: identici a nomi di cibi, pietanze, contorni, frutta e dolci, ma in realtà di tutt’altro etimo e origine. La famiglia Ricotta deve il cognome più che al formaggio a un nome come Federico, da cui Rico, Rica e poi Ricotto e Ricotta. Gli Agnolotti non rimandano a qualche antenato ingordo, ma ad Agnolo, variante toscana di Angelo. Lo stesso vale per i Cappelletti, la cui origine si deve al copricapo e non alla pasta. Salatino non c’entra con gli antipasti, ma è variante di Saladino, nome d’origine araba: si ricordi il Feroce Saladino, grande avversario dei Crociati. Con Gelati non contano i gusti: il cognome ha origine da Dielaìto, a sua volta dal nome augurale Diolaiuti. Il nome di famiglia Pera deriva da Piera, Pietra e non dal frutto (andrebbe pronunciato, quindi, con -e- aperta). Ghiotti e Ghiotto discendono perlopiù da Guyotus, uno dei modi di rendere Guido in Francia. La lista degli inganni è ancora ricchissima. Con Cenci non si parla di poveri panni, ma di un nome personale Cencio, forma ridotta (con caduta della prima sillaba) di nomi quali Lorenzo, Vincenzo e soprattutto Crescenzo. Mentre i Cenni non sono mai d’intesa: si tratta piuttosto della continuazione di un identico nome di persona, derivato da Bencivenni, forma augurale e gratulatoria medievale, con caduta di varie sillabe (Bencivenni > Civenni > Cenni). Denaro non ha nulla a che fare con i soldi, ma va interpretato come ‘de Naro’, ovvero originario di quel comune dell’Agrigentino. Faccini e Faccioni non alludono al volto, ma derivano da Faccio/Facio, forma breve per Bonifacio. Niente dubbi con Dilemmi: è l’unione della preposizione di con Lemmi, da Lemmo forma rac123­­­­

corciata di Guglielmo. Serio non è l’aggettivo, ma una forma dialettale per Sergio, così come Iorio (e Giorio) corrisponde a Giorgio. Con Nani e Nanetti la statura non c’entra (e neanche c’entrano gli aneddoti storpiati dal comico Nino Frassica): sono varianti di Nanni e Nannetti, dunque da ricondurre a Gianni. Pettini va pronunciato con l’accento sulla prima -i- e non sulla -e- perché il nome di persona Pettìno, da cui deriva, è il diminutivo di Petto, forma raccorciata di Jacopetto, a sua volta da Jacopo. Girolimoni non si collega a uno spremiagrumi e neppure, per chi ha memoria storica, a un presunto mostro pedofilo: è una forma suffissata con -one di Giròlimo, variante del nome Girolamo. Buffon non significa ‘buffone’, ma viene probabilmente da una forma del veneto per ‘sbuffare’. Gattuso vuol dire ‘canale, condotto per l’irrigazione’: è arabo e non ha niente a che vedere con i gatti. Esistono, ancora, cognomi che fanno sorridere se appartengono a particolari categorie professionali, ma per i quali, anche in questo caso, esiste una derivazione completamente diversa. La dottoressa Bua, pediatra a Palermo, e l’oculista Buia, a La Spezia, devono il cognome al femminile di bue. Il dottor Rosolia, a Salerno, non è contagioso: all’origine del cognome c’è, infatti, il nome normanno Rosalia. Tra i dentisti, il dottor Trapani, nel Torinese, richiama la città siciliana; il dottor Tartaro, leccese, il popolo dei Tartari; Dentesano il paesino friulano di Entesano. Quando curavo la rubrica Nome x nome per il quotidiano «Metro» mi giungevano tante segnalazioni. Ho conservato (non si sa mai) quella di una lettrice di Pavia: le pompe funebri F.lli Malattia, che fino a qualche decennio prima si trovavano in via Massacra. Il cognome si fa destino anche per il dottor Grassi, specialista in liposuzione, per il dottor Pelle, specialista in chirurgia plastica, e per il dottor Carnemolla, specializzato in traumatologia. Certi nomi possono anche invogliare i pazienti, specie di questi tempi: a Modena segnalo il dottor Pigliapoco. Non il suo collega perugino Faleburle: con la salute non si scherza. Ancor meno i dottori Smorto e Della 124­­­­

Morte. Nome destino anche per l’estetista Occhipinti e per tanti commercianti: come i fruttivendoli Mele ad Avellino e Pera a Vercelli, il meccanico Freni a Messina, la parrucchiera Lacca a Palermo, il fioraio Giglio a Catania o il marmista Frigo nel Vicentino. In realtà non si può tacere che il cognome Mele vale ‘miele’, Pera ‘Piera’, Frigo ‘Federico’, Giglio ‘Egidio’, Lacca ‘fossa, lago’ e Freni ‘fieno’. Ma facciamo finta di niente, altrimenti che gusto c’è? I cognomi dall’accento fuori posto Abbiamo parlato degli inganni legati al significato di vari cognomi. Quando un nome perde la trasparenza e non è più comprensibile, chi lo pronuncia non sempre ha chiaro dove debba essere posto l’accento. Molti sapranno che il cognome Cossiga in realtà è Còssiga: infatti si tratta di una variante di Còrsica. Qualcuno non si sorprenderà, se conosce il vecchio dilemma Sàlgari o Salgàri (in realtà da accentare sulla seconda, da salicarium, luogo di salici) che anche Cagliari – il cognome – in realtà è Cagliàri, perché non c’entra il capoluogo sardo, bensì il mestiere di fabbricante di calzature militari in Roma antica: i calegarii, divenuti nei volgari italiani e nei cognomi Callegari, Calliari, Callieri e appunto Cagliàri. Certo, la lingua d’uso determina poi le convenzioni. Difficilmente convincerete Natalia e Corrado Augias che il loro nome andrebbe pronunciato Aùgias o i signori Sàlomon e Sànson che – da Salomone e da Sansone con caduta dell’ultima vocale – la pronuncia dovrebbe essere con l’accento sull’ultima sillaba: Salomòn e Sansòn. E che cosa vi risponderebbero i famosi fratelli ex calciatori Franco e Beppe Baresi alla notizia che sarebbe corretto chiamarli Bàresi? Eppure è così: non c’è nessun rapporto con la città di Bari, perché non è possibile – dati e confronti alla mano – che i lontani avi emigrati dal capoluogo pugliese siano finiti tutti soltanto in alcuni piccoli paesi del Bresciano, nel 125­­­­

cuore della Lombardia e in nessun’altra parte d’Italia. La prova di per sé non sarebbe sufficiente se non si scoprisse che in Val Brembana, non lontano da quei comuni, sorge un centro che si chiama proprio Bàresi con l’accento sulla -a-, un nome d’origine celtico per un paese che fu comune autonomo fino al 1927 e poi venne inglobato nel territorio di Roncobello. La Lombardia trabocca (ricordate?) di nomi di famiglia derivanti dai nomi di luogo della zona. Ma tra le genti di quelle parti il nesso tra cognome e località non è affatto chiaro. All’anagrafe di Roncobello rispondono che, ovvio, conoscono tanto il paesino quanto il nome di famiglia: ma il primo è Bàresi e il secondo Barési. Nessun legame. Anzi, proprio la posizione dell’accento segnerebbe l’invalicabile confine... L’accento può spostarsi anche per l’influenza di un’altra lingua. Molti cognomi friulani, per esempio, avranno risentito delle pronunce tedesche nell’arretramento dell’accento sulla penultima sillaba: Bàldas, Mènis, Pèllis, Pètris, Strìngher, Stràzzer dovrebbero essere in realtà pronunciati con l’accento sull’ultima. Ascoltare Fùrlan per Furlàn, cognome triestino per eccellenza che significa ‘friulano’, fa accapponare la pelle. E attenti alle doppie pronunce, quelle che cambiano a seconda di dove vi trovate: Vicàri al Nord, dal latino vicarius, ma Vìcari al Sud, dall’identico nome di luogo palermitano; Fàvaro se è variante veneta di fabbro, ma Favàro – accentato sulla penultima – se è nome di mestiere legato alla fava. Esiste anche l’accento d’arte. È come il nome d’arte, solo che si tratta di un cambiamento bonsai. L’attrice Caterina Vertòva russeggia col suo cognome appena appena rifatto. In realtà si tratta di Vèrtova, comune del Bergamasco da cui indica origine o provenienza. A proposito: c’è anche l’inversione o l’anagramma d’arte. Il comico Pippo Franco per l’anagrafe è Franco Pippo, il musicista Gorni Kramer era Kramer Gorni e il nome di battesimo è un omaggio a Frank Kramer, ciclista americano campione del mondo nel 1912. Il poeta Trilussa, com’è noto, era nato (Carlo Alberto) Salustri. E c’è il soprannome d’arte, 126­­­­

come quello dei calciatori brasiliani: spesso si tratta del cognome di un altro calciatore, con rischi di confusione. Anni fa, per esempio, ha giocato nella Roma e poi nell’Inter un certo Mancini. Per l’anagrafe Alessandro Faiolhe Amantino. Da bambino lo chiamavano mansinho, cioè tranquillo, mansueto. Poi il suo allenatore Toninho Cerezo lo trasformò in Mancini, proprio in omaggio al Roberto Mancini italiano, il «Mancio» con cui lui aveva giocato nella Sampdoria. E Mancini è rimasto, addirittura pronunciato mansini dai telecronisti più esperti in lingue straniere. Al contrario negli anni Sessanta il popolare centravanti di Juventus e Milan José Altafini era noto in Brasile come «Mazzola», in omaggio al Valentino del Grande Torino. Quando però venne a giocare nel nostro campionato, dovette abbandonare quel soprannome, anche perché era vicino l’esordio di Sandro Mazzola, figlio di Valentino; e si beccò il nomignolo «Coniglio»: i suoi detrattori lo consideravano troppo pauroso nei contrasti. Ultima, la faccenda delle -e- e delle -o- aperte o chiuse. L’influenza dei dialetti anche su un parlato sorvegliato, e dunque vicino alla norma e allo standard, fa sì che metà degli italiani dicano vènto per indicare l’agente atmosferico e l’altra metà vénto. Il contesto aiuterà a capire che si tratta della stessa parola. Ma prendiamo il plurale e senza contesto, come capita per un cognome: il signor Vènti o il signor Vénti? Qui, condizionamenti dialettali a parte, s’inserisce l’etimologia: il cognome può corrispondere al numero 20, forse legato a quanti erano i componenti la famiglia, al contrassegno numerico della sua abitazione (quando le strade ancora non avevano un nome), a un nome locale che segnalava una misura agraria, a un punteggio nel gioco delle carte. Oppure Venti può discendere da un soprannome legato alla velocità di un individuo, alla sua taglia, alla sua forza, come dimostrano nomi medievali quali Abbracciavento o Tagliavento, che oggi sopravvivono in cognomi. Alla fine possiamo anche sostenere che tra i due litiganti gode il terzo: perché l’ipote127­­­­

si maggiormente verosimile è che le famiglie Venti abbiano avuto per antenato un tale chiamato Bonivento o simile, nome gratulatorio medievale che significa ‘buon evento’, legato ovviamente alla nascita del bambino. Il che ci fa tornare dove siamo partiti: perché il romano continuerà a dire evènto e il milanese evénto. Però questi accenti stimolano fantasie etimologiche. Scegliamo un nome e cognome a caso, che so: Neri Marcore (precauzionalmente senza scegliere l’accento per l’ultima sillaba). Verrebbe spontaneo, a molti, pronunciare Néri Marcoré, con due accenti acuti: un nome derivante dal colore e un cognome, per quanto singolare, formato da Marco e da Re, forse un sovrano o meglio la sua parodia. Eppure così non è: Neri è la forma accorciata di Raineri, nome medievale che significa, come altri nomi germanici, ‘popolo, esercito’ e ‘consiglio’, traducibile in ‘popolo in armi sostenuto dal consiglio divino’. È ben documentato come Rainieri e Rainerio, ma a tutti è più familiare come Ranièri e Ranièro. Come che sia, la -e- è aperta e l’accento è grave: Nèri. Poi consideriamo Melchiorre: era uno dei Magi raccontati dal Vangelo, nome orientale composto dalle voci ebraiche per ‘luce’ e per ‘re’ (dunque la regalità in un modo o nell’altro c’entra). In Italia Melchiorre ha subìto varie modificazioni, per influsso di Marco e altro, fino a trasformarsi in Marchionne (proprio lui, dalla mirra alla Chrysler). Marcora è una via di mezzo e Marcorello ne è il diminutivo, da cui il cognome accorciato e marchigiano Marcorè, con -è- aperta, tipico di Fermo e rarissimo. C’è un ultimo tipo di inganno: la traduzione dei nomi stranieri. È un fatto psicologico. Certi nomi e cognomi in altre lingue suonano dolci o solenni o accattivanti. Chanel è quasi un sussurro profumato: correttamente interpretato come ‘piccola canna’ perde qualcosa. Visitereste la mostra del piccolo corvo gotico? Eppure questo vuol dire Paul Gauguin. Andreste al concerto del pietrone su strada sterrata? Ma è il significato di Springsteen! Leggereste i romanzi gialli di Lec128­­­­

ci Agrifoglio? Attira di più Sherlock Holmes, ammettiamolo: eppure è la stessa cosa. E se progettate una tranquilla serata ascoltando dischi di Wagner, Schubert, Mahler e Strauss, non cercate di tradurli... Eh già: I Nibelunghi di Carrettiere, le sonate di Calzolaio, le sinfonie di Decoratore e i valzer di Struzzo. Tutt’altra musica... Cognomi commestibili, geometrici, stellari, chimici, numerali, musicali, automobilistici... A proposito di inganni, incroci e sovrapposizioni, ci credereste che sono quasi 150 i cognomi italiani che corrispondono a modelli d’auto? Scorrendo la penisola e le isole maggiori s’incontrano i signori Polo, Carrera, Mini, Bravo, Capri, Cortina, Scirocco, Lupo, Musa, Mira, Barchetta, Corsa, Tempra, Gamma, Trevi, ecc. Polo per esempio si trova nel Leccese, a Sassari e dintorni, in Friuli, nelle maggiori città del Nord e a Roma. Carrera si divide tra le grandi metropoli e Brescia, e si trova inoltre a Taranto e provincia, ma anche a Catania e dintorni. Mini si rileva a Siena, Roma, Firenze e Rimini e altrove in Toscana e in Romagna. Il nome di famiglia Bravo nel Savonese, a Milano, in Toscana. Capri è romano e sparso un po’ ovunque per la penisola. Cortina ha tre principali nuclei: nel Frusinate, nel Palermitano e in Veneto. Scirocco è casertano, ma risulta anche nel Basso Lazio e a Roma, e nel Foggiano. Barchetta è marchigiano con altri nuclei in Puglia e a Udine. Corsa è tipicamente brindisino. Tempra si divide tra la Sicilia e Sondrio e provincia. Gamma presenta un nucleo biellese e un altro potentino, oltre a gruppi in Toscana. Trevi si distribuisce tra Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna e Viterbese. Meno numerosi, i signori Maggiolino s’incontrano in Piemonte, Toscana, Puglia, Sicilia. Cabrio è lombardo e soprattutto biellese, come Rondo. Materia è cognome messinese, Grifo e Augusta appartengono alla Sicilia occidentale, Mille e Palio a quella orientale (il Catanese) dove spicca inoltre un nucleo di famiglie Sedici. Quattro è cognome lombardo 129­­­­

e ligure, Balilla, Appia e Maro dell’area di Napoli, Scorpio dell’Avellinese. Corolla è altrettanto campano (ma anche alessandrino), Stilo reggino, Baleno cosentino, Altea sardo e Astero esclusivamente cagliaritano. Più rare o rarissime sono le famiglie Prisma a Crotone; Berlingo nell’area di Catanzaro; Giulietta a Bonifati nel Cosentino, Tipo soprattutto in Sicilia così come i Punto (tipici di Piazza Armerina) e i Ritmo. Specialmente pugliesi sono i pochi cittadini cognominati Topolino (perlopiù emigrati in Lombardia), Manta (nel Leccese), Marea e Mercedes (a Casamassima e altrove nella provincia di Bari) e Aurelia a Taranto e nell’Avellinese; mentre casertani risultano i Tigra, dell’area di Napoli gli Aprilia e i Flaminia, ragusani i Flavia, sassaresi (ma anche biellesi) le famiglie Bianchina, aretini gli Zeta. Il cognome Laguna figura nel Cadore e vicino Bergamo. I pochissimi signori Jetta appartengono al Senese. L’unica famiglia Astura si riscontra a Pont Canavese, la sola Espada a Bracciano, l’unica Premio a Simeri Crichi, la sola Arosa a Torino. Esiste infine, a Milano, il cognome Uno, ma è giapponese, così come una manciata di Miura. E un signor Testarossa risiede ad Avetrana. Nessuno avrà dubbi che si tratti di semplici coincidenze. Ma in alcuni casi il significato può restare oscuro: Polo è una diversa forma del nome Paolo. Mini è il plurale di Mino, da Beniamino o altri nomi personali in -ino. Cabrio è variante di Gabrio, forma accorciata di Gabriele. Carrera significa ‘grande botte’ e talvolta ‘via carreggiabile’. Barchetta può essere un ‘catasto di covoni’. Capri non corrisponde all’isola ma a caprio, cioè il capriolo oppure il maiale. Maggiolino deriva dal mese di maggio o da un diminutivo di Maggiore. Corsa dal nome medievale Accorso, Bonaccorso. Gamma in alcuni casi è variante dialettale per ‘gamba’. Avrete intuito che nel repertorio dei nomi di famiglia c’è un po’ di tutto. Potremmo ripetere l’esperimento con i pianeti: le famiglie Mercurio sono le più numerose, oltre 2.000; 130­­­­

seguono i signori Giove, Saturno, Luna, Terra, Marte, Venere (e siamo ancora oltre i 200 nuclei). Poi, caso vuole che più ci si allontani dal sole e più rari diventino i cognomi: poche le famiglie Nettuno, Urano e Plutone, ma ci sono anche loro. I segni zodiacali sono presenti al gran completo. Prevale com’è ovvio Leone, su Pesci, Gemelli e Toro. Vergine è cognome leccese con epicentro Cutrofiano, Bilancia è soprattutto laziale, con massimo valore a Priverno, Cancro è tipico del Salernitano, Gemelli si trova in Sicilia e in Calabria, Ariete in Calabria e in Campania. I meno numerosi sono Acquario, Sagittario, Capricorno e soprattutto Scorpione. Chissà come si comporta con costoro l’astrologo che sia anche pratico di onomanzia. E i cognomi-moneta? L’Italia pullula, anche in tempi di crisi, di cittadini cognominati Denaro, Franco, Corona, Fiorino, Marco, Dinaro. Per i nostalgici, i signori Lira sono nove volte più numerosi degli Euro. Rari i Peso, i Tallero, i Leu, i Centesimo, gli Scellino; rarissime le famiglie Rupia e le famiglie Dollaro. Per chi desiderasse un’orchestra di (cog)nome e di fatto, esistono i signori Musicanti e i Sonatori, con tutte le specializzazioni strumentali. In ordine di frequenza: Viola, Basso, Piva, Piatti, Corno, Tamburello (e Tamburo), Flauto, Trombetta (e Tromba), Fagotto, Violino, Timpani, Zampogna, Spinetta, Cembalo, Piffero, Arpa, Cetra, Trombone, Organo (e perfino un Organetto), Mandola (e Mandolino), Pianoforte (l’avreste mai pensato?), Clarino e Clarinetto, Chitarra, Ottavino. I più rari sono Liuto, Tuba, Gong e Cornamusa. Se si tratta di lirica, sarà necessario convocare anche i Soprano (protagonisti anche di una nota serie televisiva), i Tenore e i già citati Basso. Attenzione ai Baritono, che sono pochissimi. Ma allora l’onomastica è magia o è solo chimica? Provate a rispondere dopo aver letto una ristretta scelta di cognomi (su una sessantina possibili): Stagno, Piombo, Polonio, Zolfo, Palladio, Bromo, Boro, Cloro, Cobalto, Manganese, Iodio, Carbonio, Curio, Titanio, Bismuto, Magnesio, Nichel, Arseni131­­­­

co, Cromo, Idrogeno, Sodio, Antimonio, Fosforo, Alluminio, Azoto, Calcio, Berillio... Anche la geometria vuole la sua parte: in ordine di frequenza annotiamo le famiglie Cerchio, Cono, Sfera, Piramide, Rombo, Cilindro, Prisma, Quadrato, Ottagono, Esagono, Trapezio, Cubo e Poligono (utili allo scopo anche i signori Lato, Base e Altezza). Per i matematici: il nome di famiglia più frequente è Quaranta. Che storia ha? Può trattarsi di un nome personale della devozione ispirata ai Santi Quaranta o ai Quaranta Martiri, due ricorrenze cristiane, la prima delle quali commemorava, il 13 gennaio, i soldati martirizzati a Roma sulla via Labicana sotto l’imperatore Galliano; la seconda, il 10 marzo, quelli uccisi a Sebaste in Armenia, sotto l’imperatore Licinio. Il popolo fraintese e del numero fece un nome personale femminile: santa Quaranta come santa Lucia. Ma per spiegare questo cognome si può inoltre pensare all’uso del numero nei tanti proverbi e nei modi di dire della lingua italiana; nell’antico gioco della pallacorda «dare a qualcuno quaranta e il tavolato» significava ‘concedergli un ampio vantaggio, essendo certi della propria superiorità’. Inoltre Quaranta poteva essere un soprannome per chi praticava la penitenza dei quaranta giorni della Quaresima o era incaricato di far rispettare la quarantena di segregazione per i malati di malattie infettive. Il numero 40 ha poi assunto nella lingua italiana valore iperbolico, indeterminato, d’origine biblica: ‘molti, parecchi, numerosi’. Non li spiegheremo uno per uno, però ci sono migliaia di famiglie che hanno per cognome Sette e Cinque, e centinaia che si chiamano Trenta, Cento, Trentadue, Tredici, Venticinque, Venti, Milioni, Cinquanta, Dieci, Zero e Quarantotto. Quest’ultimo è particolarmente interessante. A lungo si è pensato che fosse legato all’espressione «succede un quarantotto», con riferimento a un anno chiave del Risorgimento: il 1848. Un soprannome per un tipo particolarmente rissoso, confusionario o violento. Ma l’ipotesi non regge: non esistono 132­­­­

cognomi formatisi da soprannomi in epoca così recente. Poi però si sono trovate documentazioni anteriori all’Ottocento e si è pensato che l’anno incriminato fosse ben più lontano, il 1348, quello della peste nera che distrusse mezza Europa. È più probabile: e dunque l’ipotesi del soprannome torna a galla. Anche se Quarantotto, come tanti numeri-cognome, può avere ulteriori spiegazioni: i numeri delle case che designavano le famiglie che le abitavano, il numero dei figli (per le cifre più basse) o dei componenti di una famiglia, nomi di bambini abbandonati legati al giorno o all’anno del ritrovamento o all’ordine progressivo di accettazione e registrazione da parte di un istituto di ricovero, allusioni a giochi di carte e punteggi, alla cabala, a cariche rivestite all’interno di antiche istituzioni governative (il Senato dei Quarantotto a Firenze, o semplicemente i «Quarantotto», sotto il ducato mediceo, da cui Quarantotto uguale ‘membro di tale magistratura’ e, per estensione, ‘persona importante, maggiorente, notabile’). Sempre rigorosamente in ordine di frequenza, seguono i signori Trentanove, Mille, Dodici, Ventisette, Sei, Quattro, Sedici, Quindici, Trentuno, Ottocento, Otto, Miliardi, Settanta, Tre, Novanta, Ventinove, Quarantacinque, Duecento, Sessanta, Quattordici e Due. I più rari si chiamano Diciotto, Nove, Cinquantaquattro, Diciannove, Ottantadue, Trecento, Uno, Ventiquattro e infine Ventisei. Si trovano un po’ in tutta Italia, in buona parte tra Sicilia e Toscana. Difficile immaginare quanti siano i cognomi-colore (oltre a quelli comunissimi), i cognomi-fiori, i cognomi-alberi, i cognomi-animali (tutti conoscono qualche Grillo e qualche Mosca e un Formigoni, ma se ne contano più di 70 differenti solo tra gli insetti), i cognomi-gioco (non solo Scacchi, Dama, Lotto, Soldatini, Scopone e Calcetto: ci sono perfino le famiglie Scarabeo, Risico, Baccarà e Canasta), i cognomi-tessuti, i cognomi-gioielli, i cognomi-giorni-mesi-stagioni, i cognomimalattie i cognomi-virtù e i cognomi-vizi. E quelli dei ricchissimi menù a base di primi piatti, pani, pietanze, contorni, 133­­­­

spezie, frutti, dolci e vini d’ogni tipo. Basti qui il carrello dei formaggi: centinaia sono i signori Ricotta di cui s’è detto, i Grana, i Bitto, i Pressato e i Pecorino, poi i Casera, i Parmigiano (con i Reggiano), i Crescenza, i Robiola, i Cacio e i Caciotta, i Gorgonzola (ovviamente dal comune che ha dato nome al prodotto), gli Scamorza, i Certosa, gli Stracchino, i Provola e i Nostrano. Ecco la lista dei vini e dei liquori dai registri delle anagrafi: Marsala in testa, seguono Porto, Amaro, Spiriti, Rum, Birra, Grappa, Assenzio, Cordiale e, molto rari, Rosolio, Malaga, Sidro, Anice, Acquavite. Il nostro repertorio non si fa mancare nulla. Neppure Maraschino, Gin, Sambuca, Nocino, Spumante e Limoncello. Non meno di 500 italiani si chiamano proprio Liquori e ancor più numerosi sono i signori e le signore Vino. Per non dire dei cognomi analcolici: Menta, Caffè, Tè, Cappuccino (ai lettori settentrionali farà piacere scoprire che sono quasi venti volte più numerosi i Cappuccio), Chinotto, Camomilla e il più generico Infusi. Per servire i quali possono segnalarsi quasi oltre mille famiglie Coppa, e poi centinaia di Botte, Tazza, Bottiglia e Bottiglione e, meno frequenti, Pinta, Boccale, Bicchiere e Otri. Esiste anche un signor Imbuto e un signor Mestolo, mentre più numerosi sono i Passino. Sarebbe il momento di voltare pagina. Ma come resistere alla tentazione del dolce? Ed ecco allora la classifica dei cognomi più dolci: Miele nettamente in testa con oltre 6.000 italiani, Crema con 2.500 circa, Torta con più di 1.000, poi Ricciarelli, Gelati, Cassata, Confortini, Caramella e Caramello, Buccellato, Cornetti, Ciambella, Frittella, Zucchero e Zuccherini, tutti con oltre 200 portatori; e ancora Torrone, Vaniglia, Panna, Zuccotto, Taralli, Amaretti e i rari Sacher, Montebianco, Sorbetto, Cannolo, Cialdoni, Marzapane, Panforte, Maritozzi, Panettone, Savoiardi. Rarissimi ma veri: Bavarese, Budino, Crumiri, Millefoglie, Pandolce, Pandoro e Zabaione. È qui la magia dell’onomastica? No, questa è pura golosità e l’Italia è una grande pasticceria. Con mille scuse a chi è in dieta o comunque non può mangiar dolci. 134­­­­

Chiudo con i signori Gesti e simili. Si tratta dei frequenti cognomi Botta, Tocco, Mossa, Pedata, Colpo, Pugno, Salto, Corsa, Saluto, Sorriso, e più rari Lancio, Urlo, Passo, Schiaffo, Bacio, Carezza, Manata, Caduta, Calcio. Ci sono alcuni che si chiamano Risata, Solletico, Spintone e Grido. Naturalmente, in tutti i gruppi appena esemplificati, molti cognomi hanno un significato originale ben diverso da quel che sembra, ma tutti insieme fanno un bell’effetto. Quasi ­magico. Il cambiamento di cognome Il primo cambiamento che viene in mente è quello della moglie che assume il cognome del marito o, come accade oggi in Italia, lo affianca a quello paterno (oppure si tiene quello di nascita). Ogni Stato ha la sua legge e ci sono Stati che spiccano per il loro maschilismo onomastico. Nelle lingue slave, è noto, viene assunto il cognome del marito con una diversa terminazione. Pavlov diventa Pavlova. La ribellione in nome delle pari opportunità è partita da Praga, dove nel 2009 una giovane operatrice umanitaria ha deciso di chiamarsi Kundra come il consorte, anziché Kundrova. I linguisti dell’Accademia delle Scienze di Praga hanno fatto osservare che così si violano i princìpi della lingua ceca, che applica la regola anche ai nomi stranieri e scrive regolarmente Clintonova per indicare l’ex segretario di Stato USA Hillary. Una commentatrice della tv pubblica, in occasione dei mondiali di sci nordico di quell’anno, aveva deciso di non cechizzare i cognomi delle atlete straniere. L’emittente l’ha licenziata. Salvo poi reintegrarla per mettere a tacere la polemica insorta sul caso. Ancor più curiosa è la situazione in Ungheria. Qui il sistema prevede la possibilità della totale perdita dell’identità onomastica della donna. Tradizionalmente, infatti, la formula anagrafica è quella di aggiungere la particella derivativa -né al nome del consorte: Nagy Mária sposando Kis János (in 135­­­­

ungherese il cognome precede regolarmente il nome) diventa Kis Jánosné e nell’uso questa formula era dominante nella prima metà del Novecento. Come se Veronica Lario fosse diventata Silvio Berlusconiné o Ilary Blasi Francesco Tottiné. Dal 1953 è possibile una formula del tipo Kis Jánosné Nagy Mária, ma poco usata nel parlato e in contesti non ufficiali. Dal 1974 è legale far precedere al nome e cognome di nascita il solo cognome del marito con la particella derivativa – Kisné Nagy Mária – e in seguito è stata ammessa un’altra formula di compromesso, Kis Mária (cognome del consorte, ma senza il suffisso indicante dipendenza). Dal 2004 la legge consente due ulteriori possibilità: Kis-Nagy Mária o Nagy-Kis Mária. Delle sette combinazioni (complicate dall’opportunità che ora ha l’uomo di assumere il solo cognome della donna: Nagy János...), conosciamo anche le percentuali di scelta. Contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, la richiesta del tipo Kis Janosné (nome e cognome del marito + suffisso) ha prevalso anche negli ultimi decenni, a motivo del prestigio sociale che offrirebbe il nome dell’uomo, e nel 1997 riguardava ancora 4 cittadine ungheresi su 5. Il dato si è ridotto dopo il 2000, ma di poco. Naturalmente le cifre cambiano in gruppi sociali o professionali ristretti: tra le insegnanti, per esempio, poche decidono di rinunciare completamente alla propria identità d’origine, e una su cinque mantiene nome e cognome prematrioniali. I cognomi si cambiano, poi, quando sono particolarmente imbarazzanti da portare. Limitiamoci al repertorio di casa nostra. Chi sono gli italiani che cambiano cognome? Il campo semantico più odiato è quello del maiale. Sfogliando il supplemento della «Gazzetta Ufficiale», che pubblica per legge le richieste di cambiamento di nome e cognome, è frequente trovare qualche signor Porcella o Porcello che supplica una diversa consonante per chiamarsi Torcello o qualche signor Porco che invoca un’altra vocale per diventare Parco (della Vittoria, certo: un trionfo, onomasticamente parlan136­­­­

do). Per un Porcelli che si trasforma in Porrelli, c’è un signor Maiale che si deforma in Maile, Miano o addirittura prefigura antenati in America Latina, chiedendo il cognome Maia. E per un Porcellini che si rifà il trucco con Porbellini c’è un Troia che si anagramma in Tario e un altro che si accontenta di allungare la -i-, sperando che Troja venga poi pronunciato con l’accento spostato sulla -j- (come fu per Gaetano, calciatore palermitano degli anni Sessanta). Dipende però da dove si vive. I Porcu in Sardegna sono talmente tanti e... benvoluti, che nessun sardo si sognerebbe di avviare la pratica per un cambio di cognome. Gli unici Porcu finiti sulla «Gazzetta Ufficiale» erano emigrati sul continente. Peraltro, qualunque siano l’etica e il comportamento dei portatori, i cognomi Vergine e Zoccola paiono parimenti sgraditi. Nel 1997 un articolo del «Corriere della Sera» si chiedeva perché oltre a questi anche per il cognome Teresa fosse stato chiesto il cambio. Il fatto è che non tutti i cognomi si cambiano perché disdicevoli o imbarazzanti. Un uomo che abbia per cognome un nome di donna vive una condizione di perenne ambiguità. Bruno Laura o Laura Bruno? Franco Pao­la o Paola Franco? Simone Marinella o Marinella Simone? Ecco perché quei signori Teresa vollero ribattezzarsi Teresi e un signor Maria chiese di chiamarsi De Maria. L’alternativa è diventare famosi e inconfondibili, come i giornalisti Piero e Alberto Angela, Gino Agnese, Carlo Rossella o i critici Massimo Mila e Umberto Simonetta o i calciatori Bruno Beatrice e Carmine Nunziata. Il cambio di cognome anagrafico raramente è radicale. Si tende piuttosto a modificare una vocale o una consonante o due. Troppo poco? Non si direbbe se si consulta la lista: Massacra > Massara, Carnemolla > Caremolla, Bastardo > Castaldo, Culotta > Gullotta, Ricchione > Riccioni, Sciagura > Segura, Ottuso > Gottuso, Bocchini > Boschini, Caccavale > Cannavale, Cagna > Cogna, Cagarelli > Casarelli, Cagossi > Canossi, Coma > Loma, Lamorte > Lacorte, Mastronzo > Ma137­­­­

stranzo, Piscia > Pescia, Puzzo > Punzo, Scema > Scena, Sciocca > Schiocca, Sederino > Severino, Topa > Toma, Vacca > Varca, Vagina > Vallina, Verme > Verner, Zoccola > Zoccoli... Ma ricordate il pesce d’aprile sui cognomi bisillabi per legge con taglio di quelli lunghi? Alcuni cittadini si sono ghigliottinati da soli: Lo Stimolo si chiama ora Losti, Zoccolante > Lante, Piscioneri > Neri, Stampachiacchiere > Stampa e Tontodimamma > Diman. A Canicattì trent’anni fa una mamma chiese il cambiamento del cognome dei figli, che suonava Canicattì inteso Ficarra tutto intero, nel solo Ficarra. Il che ci informa che a creare imbarazzo non è il tipo Ficarra, cioè una ingiuria (per dirla in siciliano), che potrebbe prestarsi a interpretazioni oscene più che all’etimologica piantagione di fichi. Quel che non piace è la complessità di una catena che per errore ha inglobato il soprannome e perfino il participio inteso, cioè ‘alias’, ‘altresì detto’. Il che non è poi tanto raro: si pensi al triplo napoletano Esposito Vulgo Gigante (con vulgo = ‘volgarmente detto, conosciuto come, soprannominato’) o al doppio fiorentino Innocenti o Nocentini (entrambi cognomi tipici dei trovatelli). Anche altri... appunti sono rimasti intrappolati. L’esempio più numeroso è Quondam, che corrisponde in latino al nostro ‘fu’. Così Quondamantonio, Quondam Angelo e Quondam Francesco vogliono dire ‘fu Antonio, fu Angelo, ecc.’. Del resto, a Spoleto, esistono proprio i cognomi Fu Biagio e Fu Pasquale. Qualcuno si chiama Alias o Peresempio. Pensate ne sia contento? Ma il caso più eclatante e spiacevole è quello delle famiglie Sopprimere, ad Augusta nel Siracusano. Evidentemente non si alludeva a una condanna a morte, ma a una parola da cancellare. E che mai lo fu. Come cambiare il proprio nome Yes, we can. Cambiare si può. Al contrario del cognome, è vero, uno può farsi chiamare come meglio crede: basta che gli altri siano d’accordo, meglio se non conoscono il nome ana138­­­­

grafico che si vuol celare. In alcuni piccoli paesi è ancora viva la tradizione dell’allonimo. Nei documenti ti chiami Venanzio o Cesarina, ma per l’intera vita tutti ti hanno conosciuto come Luigi o Rosa. La rivelazione è in genere post mortem: sui manifestini funebri affissi al muro si legge che si è serenamente spenta Cesarina Diotallevi detta Rosa. «Come, Cesarina detta Rosa?», si chiedono allibiti nipoti, cugini, amici e conoscenti. «Non si chiamava proprio Rosa?». No: dall’infanzia alla vecchiaia la signora Cesarina si è fatta chiamare Rosa. E suo marito Luigi era in realtà Venanzio. Ecco l’allonimo: letteralmente ‘l’altro nome, il nome diverso’. Che non è nome d’arte né di battaglia, tanto meno di penna. E allora? La spiegazione non è così banale: in qualche caso i genitori, consigliati (obbligati?) da familiari, parroci, ecc., indicano un nome, quello ufficiale, per commemorare il nonno o la nonna, il padrino o la madrina, insomma per «rifare» un caro estinto, come si dice in alcuni dialetti, o per chiedere il patronato di un santo. Ma poi nella vita di tutti i giorni scelgono il nome che più rispecchia il loro gusto. Qualche volta è il contrario. E in altri casi la famiglia si sarà detta: ma perché gli altri bambini hanno un nome in parrocchia e al comune e un altro in casa e noi no? Meglio abbondare... Però nulla a che vedere con la tradizione ebraica del nome sacro nascosto e del nome secolare palese. Né con quella dei papi e dei frati appartenenti a certi ordini che assumono, con la nuova carica o la nuova vita prescelta, anche un nome differente. Io ho studiato dai Fratelli Maristi, religiosi ma non preti, e ricordo bene questi doppi nomi: fratel Claudio, fratel Luigi, fratel Alberto, fratel Barnaba... in realtà erano nati Piero, Bernardino, Giovan Battista, Sante. Però alcuni preferiscono che il cambio sia anagrafico, ufficiale, che appaia sui documenti. Ciò capita quando un nome è considerato ridicolo oppure obsoleto. Anche in questo caso bisogna giustificare la richiesta alle autorità competenti. Nel supplemento alla «Gazzetta Ufficiale» ho trovato, limitatamente agli ultimi quarant’anni, varie Calogera che scelgono 139­­­­

di chiamarsi chi Patrizia chi Linda chi Anna, tante Genoveffe che agognano i nomi Jennifer, Francesca, Giuliana e non poche Filomene che vorrebbero ribattezzarsi Paola, Flora, Fanny e Desiree; un Edero che farebbe a cambio con Giovanni, una Santusa con Veronica, una Tranquilla con Laura, un Ultimo con Marco, una Zita con Luisella, una Bombina con Sabina (si noti l’assonanza), ecc. Nomi e cognomi inventati Sono di cinque tipi: quelli assegnati ai trovatelli, di cui già s’è detto; le traduzioni (forzate o volontarie) in altre lingue; quelli letterari e finzionali in genere, di cui si dirà tra breve; i nomi d’arte; e infine quelli che nascono dalla casualità, dagli errori di interpretazione e di trascrizione. Non tutti, tra questi ultimi, si diffondono. Ma uno c’è, popolarissimo nelle cronache e nei racconti tra amici: Biperio, Nino Biperio. Ne trovate migliaia di attestazioni in rete. Biperio, com’è noto, fu il secondo di Garibaldi nella spedizione dei Mille secondo quella studentessa che interpretò la x di Bixio come un’abbreviazione di scrittura negli appunti di una compagna. Alla fine la storiella ha girato così tanto che può essere la classica leggenda metropolitana. Insospettisce che siano sempre le ragazze e mai i ragazzi a non saper studiare. Femmina la studentessa che a storia dell’arte spiegò come nelle chiese dietro l’altare si erigesse un... ebsaid (abside). Femmina la non frequentante di psicologia che illustrò a un esame la famosa teoria del... superdieci (super IO) di Sigmund Freud. Ma, ciò detto, vi immaginate uno scioglimento generalizzato della x? Bettino Craperi, per esempio. Campioni dello sport come Aleper Del Piero e Maper Biaggi, protagonisti dei fumetti quali Vercintogeriper e Asteriper, Vasco che si trastulla al Ropery Bar, la serie televisiva Per-Files, la cucina teper-meper, la voper populi tanto cara ai telegiornali, la perenofobia leghista, l’uperoricidio in cronaca nera, la coperartrosi in ortopedia. Ma in fondo non siamo nel perperi secolo? 140­­­­

Una classe molto ricca di nomi e cognomi inventati è quella degli artisti. Infatti si chiamano nomi d’arte. Un tempo erano necessari per motivi sociali: pare che le prime a farne uso siano state le ballerine, quando ballare in pubblico e prostituirsi erano considerate attività strettamente imparentate (come ancora oggi in certi locali). Via via, col tempo, il nuovo nome rispondeva a esigenze eufoniche e funzionali: si è ritenuto che un nome lungo, difficile da pronunciare, o ridicolo ostacolasse il successo di un personaggio pubblico. Si potrebbero introdurre distinzioni sottili: lo pseudonimo in generale e il nom de plume degli scrittori in particolare, usato per celare o sdoppiare la propria identità; il nome di battaglia, che confina col precedente ma si estende poi ai combattimenti veri (come i nomi dei partigiani della seconda guerra mondiale), ecc. I nomi d’arte possono essere del tutto distinti da quelli anagrafici, ma molte volte i portatori si limitano a modifiche parziali, per esempio a un accorciamento. Nel mondo dello spettacolo: Charles Aznavour si chiama Aznavourian, Orietta Berti è invero Galimberti, Giorgio Gaber era Gaberscik, Walter Chiari era Annichiarico, Natalino Otto Codognotto, Alida Chelli Rustichelli, Virna Lisi Pieralisi, Rosella Falk Falzacappa, Claudia Koll Colacione, ecc. Basta anche un piccolo ritocco: la cantante Roberta Corti divenne Betty Curtis, lo scultore Giacomo Manzoni preferì Manzù, l’attore Raimondo Malnati volle chiamarsi Umberto Melnati, con lo stesso procedimento per cui Gattamalata divenne Gattamelata e Malagatti (antenato del pandoro) si cambiò in Melegatti. In alcuni casi il cognome è stato rifatto sul nome: da Valeria Tulli a Valeria Valeri, da Francesco Benenati a Franco Franchi. In altri il cambiamento è totale e fa percepire l’ambizione onomastica del portatore o della portatrice: Palmira Omiccioli ha raggiunto la popolarità come Eleonora Rossi Drago, Anna Menzio come Wanda Osiris, Maria Luisa Ceciarelli come Monica Vitti, Nicoletta Strambelli come Patty Pravo, tanto per restare nello spettacolo al femminile. 141­­­­

Per lo più si cambia un nome o un cognome quando sono ingombranti o suonano male; meno per il significato, che ai più ovviamente sfugge. Per esempio mentre Sofia Scicolone è divenuta Loren, Gina Lollobrigida non ha mai pensato a cambiare il nome di famiglia: è vero che Brigida, dall’irlandese, vuole dire ‘alta e potente’, ma Lollo in alcuni dialetti laziali sta per ‘scemo’. Quanto è importante il nome d’arte? Cito Giacomo Casanova, secondo il quale non avrebbero avuto accesso all’immortalità gli Arouet, i Lerond e i Trapassi se non fossero diventati Voltaire, D’Alembert e Metastasio. Scriveva il nobile veneziano nelle sue Mémoires parigine a proposito di un conoscente, Tognolo di Oderno alias Fabris: «S’egli avesse continuato a chiamarsi Tognolo, nessuno avrebbe badato al nobile e distinto carattere, ai sentimenti e alla virtù di Fabris. Eppure tal è la conseguenza che può avere un nome in questo sciocco mondo». È probabile che queste memorie non siano mai finite tra le mani di Carlo Verdone, che scelse il cognome Fabris, in Compagni di scuola, per il compagno più brutto, quello irriconoscibile. Poi ci sono appunto i nomi e i cognomi della finzione, ossia dei personaggi creati dagli autori letterari, teatrali, cinematografici, fumettistici, ecc. Alcuni hanno fatto storia: non sono soltanto patrimonio della cultura mondiale, ma anche entrati nei dizionari con i loro derivati. Ha scritto Umberto Eco: «Dovremo ben trovare uno spazio dell’universo dove questi personaggi vivono e determinano i nostri comportamenti, così che li eleggiamo a modelli di vita nostra e altrui, e ci comprendiamo benissimo quando diciamo che qualcuno ha il complesso di Edipo, un appetito gargantuesco, un comportamento donchisciottesco, ha la gelosia di un otello, un dubbio amletico, è un dongiovanni inguaribile, una perpetua». Ci sono nomi e cognomi che diventano simboli. Prendete il buono e il cattivo della classe di Cuore. Per dissacrare De Amicis, proprio Eco ha scritto l’Elogio di Franti, mentre 142­­­­

Fruttero e Lucentini chiamarono Garrone il laido scultore ucciso nella Donna della domenica. Quasi tutti gli scrittori moderni, a parte i neorealisti e altre rare eccezioni, non hanno tenuto conto della realtà nello scegliere i cognomi dei propri personaggi. Prendete i Promessi sposi. Si tratta di un romanzo storico, che dovrebbe rispecchiare almeno parzialmente la realtà. Manzoni, che fa tanto il pudico – onomasticamente parlando – con l’Innominato e con la Monaca di Monza, stabilisce poi per due popolani del Lecchese altrettanti cognomi calabresi: Mondella di Francica (Vibo Valentia) e Tramaglino di Morano Calabro e altrove nel Cosentino. Curioso. Piero Chiara, nel suo rifacimento parodistico del romanzo, protestò: «Perché invece di chiamarlo [Renzo] con un cognome locale come Casiraghi, Gilardoni, Redaelli, lo ha assimilato a un arnese? [...] Del resto, anche il nome Mondella, che vuol dire castagna arrostita in Lombardia, non è un complimento per Lucia. Tanto valeva chiamarla Pesciolino o Peracotta. E poi quel cognome con finale in o non è lombardo, ma ligure o piemontese. Semmai Tramaglini, come Baggiolini o Maggiolini». Curioso anche che Chiara abbia ribattezzato, oltre che Brambilla il Renzo, andando sul sicuro, proprio Castagna la Lucia. E se appare strano che abbia assegnato alla donna un cognome così simile a quello manzoniano dei cugini di Renzo (Castagneri), sorprende ancor più che Castagna, oltre a essere lombardo, vanti un consistente nucleo di portatori proprio a Vibo Valentia, la terra dei Mondella! Magie dell’onomastica? Certo, questi grandi della letteratura non disponevano degli elenchi degli abbonati telefonici o di altri documenti utili. E se pure li avessero avuti forse non li avrebbero consultati. Tuttavia è curioso che, tornando a Cuore, il calabrese Coraci, che giunge in classe ad anno scolastico avanzato, pur se ben connotato come reggino porta un nome di famiglia esclusivamente sardo. Del resto la scuola torinese di De Amicis conta cognomi emiliani, lombardi, toscani, liguri, calabresi e d’invenzione. Un gran miscuglio. E non è il solo: perfino il teatro 143­­­­

di Eduardo ha più cognomi siciliani, pugliesi e romani che napoletani (a cominciare da Marturano, siciliano e pugliese, mentre Cupiello è d’invenzione). Andrea Camilleri, attentissimo nello scegliere per i suoi personaggi siciliani cognomi altrettanto siculi (e spesso esclusivi della provincia di Agrigento), quando si muove fuori della sua isola non è più così impeccabile. Nel Cane di terracotta, una delle più celebrate avventure del commissario Montalbano (1996), cava dal cilindro un certo agente Balassone che «malgrado il cognome piemontese, parlava milanese». Solo che quel nome di famiglia è decisamente abruzzese, con epicentro Sulmona e Pettorano sul Gizio, nell’Aquilano. Illustre precedente nei Promessi sposi: a far arrestare Renzo, dopo la rivolta del pane a Milano, è un tale Ambrogio Fusella, che dal racconto non si direbbe abruzzese come inconfondibilmente lo è il suo cognome. Ancora sull’onomastica di Camilleri: Zuccotti, che nella novella Being here... risulta un vigatese espatriato, ha un cognome settentrionale, in particolare lombardo. Il secondo cognome del prefetto bergamasco Bonetti-Alderighi è toscano. Anche qualche figura siciliana porta cognomi estranei all’isola. Un tale Carlesimo, il cui nome di battesimo Turiddruzzu non lascia dubbi sulla sicilianità, ha un cognome in realtà ciociaro. Ma perché prendersela con questi grandi autori? Diciamolo: sono innocenti osservazioni, quisquilie che non fanno neppure il solletico ai destinatari. E lo stesso se critichiamo gli autori dei polizieschi televisivi, per esempio Distretto di polizia di Canale 5. Cognomi bisillabi tra i più banali, ma con qualche eccezione: Ingargiola, esclusivo di Mazara del Vallo (Trapani), interpretato da un caratterista napoletano; nei panni di Parmesan, cognome veneto, un attore che non cela la sua provenienza siciliana. Di male in peggio con la Squadra di Rai Tre: l’eterno centralinista, napoletanissimo, si chiamava Alfio Donati, nome siciliano e cognome settentrionale (mi limito a tre su decine di esempi possibili). 144­­­­

Per i corrispondenti serial americani il parlato non ci aiuta (essendo doppiati), ma l’appartenenza etnica degli attori sì. Il personaggio che conta le presenze record in Law & Order (390 episodi) si chiama Van Buren (Anita, tenente di colore), cognome olandese come l’ottavo presidente degli Stati Uniti: l’unico che non fosse di madrelingua inglese e noto soprattutto perché dagli Old Kinderbook Clubs che ne sostennero la candidatura, ossia i circoli O.K., sarebbe nata la più fortunata formula di approvazione (anche un Monroe fu presidente, il quinto; e Norma Jeane Baker, cioè Marilyn, è passata alla storia col cognome del nonno materno, anche perché non si è mai saputo chi fosse il vero padre). Ora, a parte il nome personale ispanico, come giustificare il colore della pelle della tenente Van Buren? Emigrata dal Suriname, ex colonia olandese, nei Paesi Bassi, come i calciatori Gullit o Seedorf per intenderci, e di lì in America? Scelta più facile per gli autori del Tenente Colombo. Gran parte dei protagonisti dei 69 episodi della fortunatissima serie ha il cognome di un attore, un regista, uno sceneggiatore di Hollywood. Si veda l’episodio Agenda per omicidi del 1990; il colpevole, un avvocato di fama consulente del candidato alla vicepresidenza degli Stati Uniti, si chiama Oscar Finch. Come non pensare a Peter Finch, interprete di Quinto potere (1976)? Anche perché, si badi, Peter Finch è stato l’unico attore nella storia del cinema ad essere stato premiato con un Oscar postumo nel 1977. La coppia Oscar + Finch sembra dunque un intenzionale richiamo dell’attore (parlare di dedicazione può essere improprio e imbarazzante, dato che non gli viene dedicato un monumento o una strada, bensì un... assassino). Peraltro la pigrizia onomastica della serie Colombo è a tutti nota: il basset-hound del tenente si chiama Cane (Dog nella versione originale), la moglie è eternamente la Signora Colombo, senza nome, e perfino il poliziotto non rivela mai il proprio nome: che però, da un tesserino esibito in un paio di occasioni, gli appassionatissimi sanno essere Frank (del resto anche il nome 145­­­­

del commissario Maigret, Jules, è per la maggior parte dei lettori un mistero). Se vogliano accennare ai nomi letterari, alcuni sono stati inventati di sana pianta dagli scrittori. Per esempio Malvina, Ossian, Vanessa, Jago, Liù e numerosi altri. Pamela è stato usato per la prima volta da Philip Sidney nel 1599 per un personaggio della sua Arcadia e poi rilanciato da Samuel Richardson che lo scelse per la protagonista del romanzo Pamela o la virtù ricompensata del 1741, e da Carlo Goldoni, che, traendo da lì l’ispirazione, portò in scena la Pamela nubile e la Pamela maritata, tra il 1750 e il 1760: una storia, dunque, tutta interna alla letteratura e al teatro, ampliata al cinema e alla televisione negli ultimi decenni, grazie soprattutto a spettacoli di provenienza americana. Anche Ornella è considerato un nome letterario. Sarebbe stato inventato da Gabriele D’Annunzio per La figlia di Iorio, che è del 1904. Il nome avrebbe origine dall’albero dell’orno, ossia il frassino. In uno dei più bei film di Ettore Scola, La famiglia (1994), una delle tre zie zitelle del protagonista Carlo (Vittorio Gassman) si chiama Ornella. Ora, facendo quattro conti, la donna (interpretata da Monica Scattini) dovrebbe esser nata intorno al 1890: troppo presto per portare quel nome. Feci notare a Scola l’incongruenza e il regista fece ammenda, dichiarandosi doppiamente colpevole: perché aveva anche sposato una Gigliola, altro nome dannunziano. E quasi per scusarsi volle abbonarsi alla «Rivista Italiana di Onomastica» che ho l’onore e l’onere di dirigere dal 1995. Solo che ora dovrei io (e quanti prima di me scrissero la stessa cosa) delle scuse a Ettore Scola: perché nella banca dati di tutti gli italiani entrati in contatto con le istituzioni nel XX secolo, Alda Rossebastiano ed Elena Papa hanno scovato cinque Ornella nate tra il 1900 e il 1903, forse eredi di una tradizione onomastico-botanica di ancor più antica data. E chissà che D’Annunzio non abbia invece coniato Gigliola, protagonista della Fiaccola sotto il moggio (1905): prima d’allora neanche le autrici del dizionario 146­­­­

storico ed etimologico dei nomi di persona hanno potuto trovare quest’altro nome floreale. Poi ci sono centinaia di nomi, rari e alcuni d’origine incerta, che devono comunque alla letteratura il loro ingresso nell’onomastica reale. Uno potrebbe essere Brezza, dal romanzo di Liala: l’influenza della letteratura rosa sulle scelte dei nomi non va sottovalutata. E probabilmente in un romanzo cavalleresco oggi quasi dimenticato, Il Guerin Meschino di Andrea da Barberino, furono letti o ascoltati per la prima volta dal popolo nomi quali Anuello, Astiladoro, Brandisio, Cariscopo, Elisena, Fenisia, Finistauro, Pinamonte, Rampilla, Validoro. Tutti presenti con piccole cifre ancora nel nostro Novecento. Che fine fanno i cognomi? Qualcuno si estingue con la morte dell’ultimo portatore senza eredi. Ma i cognomi, soprattutto, si riciclano e diventano altro. Detto in breve, i cognomi non sono cognomi e basta. Viaggiano nel tempo, nello spazio e nelle lingue. Magie dell’onomastica? Prima di tutto diventano nomi. Ideologici: in Italia, come visto, si contano migliaia di persone che nel Novecento si sono chiamate o ancora si chiamano Dazeglio e Azeglio, Menotti, Ricciotti e Garibaldi, Nullo, Mazzini, Benso e Cavour, Bixio (e non Biperio), Dandolo, Mameli, Nievo, Manin, Cattaneo, Cairoli, Verdi, ecc. Nei Paesi anglofoni il passaggio da cognome a nome ha una storia diversa, a causa del ruolo svolto nei secoli dai middle name, i nomi di mezzo, collocati tra il nome di battesimo e il vero cognome. Dapprima corrispondevano per lo più al cognome materno e poi si sono trasformati in secondi e infine in primi nomi. Ecco perché oggi non ci meravigliamo se qualcuno si chiama Harrison, letteralmente ‘figlio di Harry’. Il serial Beautiful offre un bel campione di questi nomi da cognomi che neppure più gli inglesi intendono bene: altrimenti perché chiamare i protagonisti Ruscello (Brooke), Comignolo (Ridge), Spina (Thorn) e Sarto (Taylor)? 147­­­­

Winston Churchill portava per nome di battesimo un evidente cognome derivato da un nome di luogo. Emerson Fittipaldi un nome a sua volta da cognome (figlio di Emer). In genere tutti i nomi anglofoni in -on sono inizialmente nomi di famiglia: -ton è infatti ciò che resta di town, dunque ‘città o paese di provenienza’; mentre son vale ‘figlio (di)’. Dal Nord America l’uso di queste forme si è esteso. In America Latina il XX secolo è stato caratterizzato dai nomi di battesimo in -on, quasi una marca distintiva positiva, una griffe per i maschietti. Altri esempi dal Brasile: il compianto pilota Ayrton Senna, Edson Arantes do Nascimiento ossia il mitico Pelé e Izecson (‘figlio di Isacco’), secondo nome di Ricardo Santos Leite, per tutti i calciofili semplicemente Kakà. Se poi consideriamo la mole dei nomi divenuti ambigeneri, non sorprende che una delle attrici più pagate al mondo abbia un nome che non solo corrisponde chiaramente a un cognome in -on, ma proviene da un soprannome gaelico significante ‘naso deforme’: Cameron (Diaz). I cognomi diventano facilmente, come meglio vedremo in seguito, voci di lessico. Il gradit, Grande dizionario dell’italiano dell’uso diretto da Tullio De Mauro, registra 46 voci con la radice galvan-. Parlando di galvanometro o di galvanoterapia, di galvanoscopio e di galvanotermomagnetico, verrà in mente che si tratta di strumenti e di procedimenti scientifici e che dunque in quel nome si cela il riferimento a un inventore, a uno scienziato. Ma chi conoscesse solo la folla galvanizzata da un gol della propria squadra stenterebbe a risalire lungo i secoli la storia della scienza. Eppure dietro a quelle 46 parole c’è il cognome Galvani, appartenuto allo scienziato bolognese Luigi: quello che toccando i muscoli di una rana scorticata dedusse l’esistenza dell’elettricità animale (Alessandro Volta confutò le sue conclusioni, ma poi ne fece tesoro per inventare la pila elettrica). Quel cognome è poi variante di Galbani, che oltre a voler dire fiducia (potenza degli slogan pubblicitari) ricorda re Artù e i romanzi del ciclo bretone, dato che corrisponde a Gauvain, 148­­­­

uno dei cavalieri della tavola rotonda. E qui il cognome si fa non parola del lessico ma marchio commerciale – altro tipo di nome – con i suoi derivati (Galbanino, Galbanetto, Galbi, ecc.). A proposito, nei marchi i cognomi vengono spesso alterati, spezzati e ripresi a metà. Per restare in campo alimentare, il Negronetto, il Biraghino, il Pavesino, il Saporello, il Mottarello, il Cinzanino, il Peroncino, sono tutti originari nomi di famiglia suffissati e collocati negli scaffali dei supermercati. Anche il Toblerone proviene da un cognome (svizzero): Tobler. E pure frammenti di cognomi sono incastonati nei nomi dei prodotti. I Wüber, con Wüberone e Wüberini, combinano la parola würstel con marchio aziendale Beretta. In Nescafè, Nestea, Nespresso, Nesquik, ecc. ritroviamo la prima sillaba di un altro nome di famiglia svizzero, Nestlè. In Danacol, Danette e Danaos il cognome Danone. I prosciutti Fiordicotto giocano facilmente sul marchio aziendale Fiorucci. I Biscolussi fondono biscotto e Colussi. Dal cognome-marchio Doria, quello dei biscotti della nonnina, sono in circolazione i cracker salati Doriano, i biscotti agli agrumi Doriflor, i frollini Doricrem e gli snack salati Doribar, oltre agli Zoodoria, gadget per bambini a forma di animaletti. Bauli ha giocato sul cognome e ha lanciato il Bauletto, che non è un pandoro piccolo, ma una confezione di dieci merendine. Nel settore alimentare un cognome è talmente importante che qualcuno se l’è inventato. L’acronimo ICA (Industrie Conserviere Alimentari) un giorno divenne De Rica, senza che esistesse alcun imprenditore chiamato così. Lo stesso capita nell’editoria, con le Garzantine (dell’editore Garzanti), da cui una lunga serie di nomi per dizionari o collane di opere dalle case editoriali o da cognomi di autori divenuti ormai una sorta di marchio: alcuni ufficiali (il Devotino dal dizionario Devoto-Oli), altri limitati al gergo degli addetti ai lavori – Garzantone, Zanichellona, Mondadorine, Bompianine, ecc. (rispettivamente dai cognomi-marchio Garzanti, Zanichelli, Mondadori e Bompiani). 149­­­­

In tutt’altri settori, il cognome-marchio Riello si trova abbinato a una serie di strumenti per la casa, la caldaia Caldariello, i termostati Termoriello e Cronoriello, il contabilizzatore Contoriello: quasi un suffisso. Singolare anche il caso delle Coinette, magazzini di abbigliamenti nati dal marchio Coin (cognome di Vittorio che nel 1926 fondò l’azienda a Mirano presso Venezia). Gli appassionati di moto ricorderanno il Guzzino, il Laverdino, il Bredino, il Malanchino, il Guazzoncino (dai cognomi-marchio Guzzi, Laverda, Breda, Malanca e Guazzoni). E tra le quattroruote la Bianchina, la Chevrolet Chevy, la Suzuki Suzulite. Nel mondo della finzione, poi, i cognomi di certi personaggi diventano i cognomi di altri. Qualche volta per puro caso: nel 1946 Henry Potter era il cattivo del capolavoro di Frank Capra La vita è meravigliosa; 55 anni dopo è diventato il maghetto più letto e venduto al mondo (Harry e Henry, per la cronaca, sono varianti dello stesso nome). Lessicalizzazioni e transonimie Sono due i processi che portano a un mutamento del significato del nome proprio. Il primo si chiama lessicalizzazione. Il nome proprio diventa nome comune. Cicerone non è più il retore dell’antica Roma, ma la guida turistica o il chiacchierone. Narciso non è più soltanto il personaggio mitologico che si beava specchiandosi nell’acqua, ma chiunque ostenti vanagloriosamente il culto del proprio presunto fascino. Il dottor Zampironi è diventato l’apparecchio affumicainsetti di cui è stato l’inventore. Il generale Montgomery un soprabito. Liebig un estratto di carne. Bignami una pillola di cultura e Zanichelli un vocabolario. I signori Biró e Bic(i) due tipi di penna a sfera. Hertz e Ohm delle unità di misura in fisica, Fahrenheit una scala termica e Mercalli una scala sismica. Zeppelin un dirigibile, Kalashnikov un fucile d’assalto e Beretta una pistola. Garamond e Bodoni dei caratteri tipografici. Cirio un pomodorino e Auricchio un provolone. MacIntosh 150­­­­

un impermeabile e poi un tipo di mela (da cui la Apple di Steve Jobs). Mr. Boeing un aereo. Tutti questi signori avevano anche un nome di battesimo che la storia ha cancellato (ma potete sempre consultare Wikipedia). Poi Fosbury è divenuto una tecnica per il salto in alto, Monaci una guida, Nobel e Pulitzer famosi premi, ma più degli altri questi ultimi hanno mantenuto la maiuscola: segno che il cammino verso il nome comune non si è ancora completato. Inutile, poi, spiegare che fine hanno fatto l’ingegner Pull­ man, il ministro francese Silhouette, il profumiere Rimmel, il musicista belga Sax oppure Fabrizio Maramaldo, Primo Carnera, Giacomo Casanova, Leopoldo Fregoli. L’abate di Calemberg è diventato un calembour, ossia un gioco di parole, Tito Flavio Vespasiano un orinatoio pubblico, Escherich un batterio delle feci (Escherichia coli). È andata sicuramente meglio ai signori Begon, Kamel, Dahl, Fuchs, Magnol, Garden, Robin e Zinn, i quali – grazie alla fata della lessicalizzazione – si sono trasformati in splendidi fiori. È questa la magia dell’onomastica? In genere sostantivi e aggettivi riferiti a personaggi trovano spazio nei dizionari di lingua (non si parla qui delle raccolte di neologismi) solo qualche anno o decennio o secolo dalla morte di chi ne è il riferimento o – con termine più tecnico – l’eponimo. Eppure il Grande dizionario della lingua italiana (detto anche il Battaglia dal suo fondatore, il linguista siciliano Salvatore), 21 grandi volumi che fanno bella mostra di sé nelle pubbliche biblioteche ma anche nei salotti colti degli amanti delle vendite a rate, registra eccezionalmente quattro derivati da cognomi di viventi (all’epoca della pubblicazione): reaganismo con reaganiano e reaganista, thatcherismo con thatcheriano, wojtylismo con wojtylesco e wojtyliano, e travoltismo. Notevole quest’ultimo, non solo perché riferito al mondo dello spettacolo (a fronte di un papa, un capo di Stato e uno di governo), ma anche perché – pur alludendo al Tony Manero della Febbre del sabato sera – si è formato sul cognome dell’attore, congelando la carriera del bravo John Travolta alla sua interpretazione di ballerino in discoteca. 151­­­­

Però è ben vero che anche i cognomi d’invenzione possono entrare nei dizionari e perfino nelle nomenclature scientifiche. Fantozziano è da tempo in tutti i vocabolari della lingua italiana per indicare un imbranato, come prima di lui Travet per connotare un modesto impiegatuzzo (dalla commedia Le miserie ’d Monsù Travet di Vittorio Bersezio, 1863). E la proteina responsabile della sindrome di Barth (cardiomiopatia e altro) si chiama tafazzina da Tafazzi, il personaggio di Giacomo (Aldo, Giovanni e) che prendeva a bottigliate i propri genitali: la metafora risiede nel masochismo con cui il gruppo di genetisti avrebbe tenacemente inseguito la scoperta. I cognomi possono prendere molte altre strade. Quello di Giovanni Gronchi, terzo presidente della Repubblica Italiana, è ridotto ormai a un francobollo del 1961 – il mitico Gronchi rosa – nel quale erano sbagliati i confini tra Ecuador e Perù. Fu prontamente ritirato dalla circolazione onde evitare un incidente diplomatico. Nel menù di cibi e bevande di un grande ristorante con bar incontreremo senz’altro i cognomi Rossini, Bismarck, Chateaubriand, Carpaccio, Stroganoff, Pompadour, Orloff, Parmentier, Savarin, Bacardi, Bellini, Martini, Campari, Negroni... Senza dimenticare che la besciamella deriva da Louis de Béchameil, maestro di casa alla corte di Luigi XIV (il grande Artusi tentò invano di italianizzarla in balsamella); che il sandwich nacque a metà del Settecento come sostituto del pranzo per nutrirsi al tavolo da gioco di Lord John Montagu, quarto conte di Sandwich; e che la pesca Melba fu dedicata a fine Ottocento dal francese Auguste Escoffier, chef dell’Hotel Savoy di Londra, alla soprano Nellie Melba, nata Helen Porter Mitchell, che volle cambiar nome per ricordare in Europa la natia Australia e in particolare la città di Melbourne. Il bello è che poi alcuni di questi nomi di famiglia si sono sganciati da un singolo piatto per indicare una tipologia intera di preparazioni culinarie: Rossini è ora un condimento con patè di fegato d’oca e tartufi neri per qualsiasi pietanza; 152­­­­

Bismarck indica ricopertura di uovo fritto per tutte le carni o altro; Cavour è una guarnizione di fettine di polenta con vari piatti; Carpaccio è sinonimo di cibo crudo e tagliato a fettine sottilissime: non solo carne, ma anche pesce e verdure. Il secondo processo di cambiamento si chiama transonimia. Banalmente, è il passaggio da nome proprio a nome proprio, ma di una tipologia differente. (Pietro) Micca, il soldatino che si fece esplodere nel tunnel per fermare l’avanzata dei francesi, è diventato un nome di luogo: Sogliano Micca e Andorno Micca lo ricordano nel Biellese. (Vincenzo) Lancia ora è un marchio automobilistico e (Pietro) Barilla (in origine Barillà) un marchio alimentare. Caffarel e Prochet (gli inventori del gianduiotto) si sono trasformati in cioccolata. Ma andiamo con ordine. I nomi di luogo che derivano da un cognome o che con un cognome si sono arricchiti hanno carattere celebrativo. Ricordano un concittadino illustre: nel XX secolo Sasso e Grizzana, presso Bologna, sono diventati Sasso Marconi e Grizzana Morandi, in onore rispettivamente del grande fisico e del pittore Giorgio. Castelnuovo (Asti) si chiama ora Castelnuovo Don Bosco e anche qui la lista è ben lunga. Il caso più curioso è quello di Cellino in provincia di Teramo. È il 1866 e già da qualche anno, con l’Unità d’Italia, sono partite le direttive per evitare l’omonimia tra i comuni. La Cellino abruzzese è in competizione con la Cellino brindisina. Altri paesi omonimi hanno aggiunto chi il nome di un monte o di un fiume vicino, chi quello della città capoluogo di riferimento, chi della regione di appartenenza; qualcuno ha approfittato per liberarsi di un nome imbarazzante o vergognoso, qualcun altro ha recuperato per ragioni di prestigio un nome antico, per lo più latineggiante o grecizzante, che si presume sia appartenuto a un centro sorto in quel territorio. Ma a Cellino la giunta comunale non trova l’accordo e non sa che pesci pigliare. Tradizione vuole che il prefetto di Teramo dell’epoca, tale Nicola Attanasio, continui a premere con 153­­­­

tale insistenza che alla fine i cellinesi, stremati, ne adottano il cognome. Nel 1867, già pentiti, chiedono di cambiarsi in Cellino al Vomano, ma la proposta non è accolta dal governo. E il comune abruzzese si chiama tuttora Cellino Attanasio. Questo è quanto sostengono, concordi, studiosi e amministratori locali. In realtà qualche dubbio insorge quando si scopre che il patrono di Cellino è da secoli sant’Atanasio. Ma il santo è con una sola -t-, obiettano dal Comune a una mia personale richiesta di chiarimento. Uhm: tanto più che la Cellino pugliese si chiamò prontamente Cellino San Marco, dal patrono appunto (e poi avrebbe dato i natali ad Albano Carrisi). I cognomi (e talvolta i nomi) possono diventare indicatori di prodotti in cataloghi di abbigliamento o di arredamento. Quasi sempre la relazione tra nome e oggetto si limita a evocare sentimenti di bellezza, storicità, esotismo. Talvolta si gioca su una corrispondenza più trasparente: la vasca Janus della Jacuzzi ha tutti gli elementi doppi e simmetrici; la boiserie Oh!razio della Zalf vorrebbe evidenziare la razionalità di dimensioni e funzionalità; i tavoli Cartesio (Foppapedretti) e Pitagora (Cotto Tuscania) possono alludere all’equilibrio geometrico dell’oggetto; la scala Golia (Mobirolo) alla sua altezza; il tavolo allungabile Ercole (Tisettanta) alla sua resistenza; panca e tavolino Giulietta e Romeo (Porada) alla felice complementarità; il mobile bar Pandora (Klassikon) alla sua capacità (come il mitologico vaso). I cognomi possono trasformarsi in colori di auto. In un qualsiasi listino, a parte i nomi dei costruttori, troverete decine e decine di cognomi abbinati ai colori. Bastino Fiat e Lancia: azzurro Fontanesi, grigio Botticelli, nero Modigliani, grigio Palladio, perla Sironi e via via con altri pittori o personaggi comunque celebri. Da favola alcuni colori pastello, specie quelli con inversione dei componenti: comprereste mai un’auto rosso Cappuccetto o azzurro Principe? Possono poi diventare, che so, nomi di pizze: in un locale 154­­­­

di Modena si serve la pizza Ferrari con le varianti F 40, GTO, Mondial, Testarossa, Enzo e Scaglietti. A Moncenisio (Torino) le preparazioni sono abbinate ai cantautori. La napoletana si chiama Nino D’Angelo, la diavola Vasco Rossi, la vegetariana Carmen Consoli, la quattro formaggi Francesco Guccini. Nell’ultima la correlazione sfugge (pare però che Guccini abbia contribuito a far conoscere le tradizioni della sua regione, compreso il parmigiano reggiano e nel 2011 è stato insignito del «Coltellino d’oro»). Nessun dubbio, invece, su quale pizza porti il nome Riccardo Cocciante: la margherita (bisognerebbe confezionare un dizionario dei nomi delle pizze italiane: qualcuno prima o poi provvederà). Cognomi in strada I cognomi diventano soprattutto odonimi, ossia nomi di strade. Un tempo, fino all’Unità, le aree di circolazione urbana portavano denominazioni storiche, tradizionali, che nascevano spontaneamente. Le vie e le piazze erano segnate, nella vita di tutti i giorni, dalla presenza del mercato, della chiesa, del palazzo dei signorotti locali, oppure da un muro, da un fosso, da una discesa ripida, da una roccia che assomigliava alla testa di un animale, e poi dagli artigiani che vi commerciavano i prodotti più vari. Sulla spinta della Rivoluzione francese e poi del nostro Risorgimento, piazze e strade, vicoli e viali sono stati intitolati a personaggi meritori, che si voleva immortalare per il loro contributo alla vita del Paese. Dapprima gli eroi del Risorgimento, poi i caduti delle guerre novecentesche e intanto poeti, navigatori, musicisti, scienziati... Insomma, il mausoleo a cielo aperto: la grande enciclopedia pedagogica degli italiani – e dal secondo Novecento anche degli stranieri – illustri. Fra le strade e le piazze dei comuni italiani il cognome più ricorrente (circa 5.500 volte) è Garibaldi, seguito da Marconi (4.800), Mazzini (4.000), Alighieri (3.800, ma molte insegne riportano solo «Dante» e allora non si sa bene come effettua155­­­­

re il conteggio); ci sono poi Cavour (3.300, che a voler essere precisi è un predicato nobiliare), Matteotti e Verdi (oltre 3.000), Battisti, Manzoni e Moro (intorno ai 2.700), Gramsci (2.600), De Gasperi (2.300) e via dicendo: migliaia di nomi sparsi per l’Italia. Tra gli scrittori e i poeti Dante e Manzoni sono seguiti da Carducci e Leopardi, che toccano quasi le 2.000 presenze, poi Pascoli, Foscolo, Petrarca e sotto le 1.000 Alfieri, Tasso e D’Annunzio. Tra i musicisti, tutti ben lontani da Verdi, si piazzano nell’ordine Rossini, Puccini e Bellini, poi Donizetti e Mascagni; prevale dunque la lirica: più in basso incontriamo Vivaldi, Toscanini e Paganini. Michelangelo è l’unico tra pittori, scultori e architetti a superare il migliaio di presenze; gli si avvicina Raffaello, seguito da Giotto, Tiziano, Canova, Cellini e Caravaggio. Marconi è, come visto, il primo tra gli inventori; il triplo delle intitolazioni rispetto a Volta, a Leonardo, a Fermi e a Galilei e dieci volte più ricorrente nei comuni italiani rispetto a Meucci, Galvani (che però, come visto, si prende la rivincita nelle pagine dei dizionari) e a Pacinotti, che comunque precede Archimede. Tra i personaggi moderni della storia politica e militare, a parte i protagonisti del Risorgimento, Aldo Moro ha superato Gramsci e De Gasperi ed è terzo anche tra le vittime di guerre, imprese patriottiche, atti terroristici e azioni criminali, a poca distanza da Matteotti e da Cesare Battisti, con il doppio delle presenze rispetto a Nazario Sauro e Don Giovanni Minzoni, e quasi il triplo rispetto ai Fratelli Cervi, ai Fratelli Bandiera e ai Fratelli Cairoli nell’ordine. Anche gli stranieri hanno un certo spazio nelle vie e piazze italiane, e la fama dei loro nomi e cognomi si perpetua. Kennedy è di gran lunga il più ricorrente; seguono Salvador Allende, Martin Luther King, Carlo Marx e Anna Frank. Ecco, la piccola Frank: punto dolente dei nomi di strade e piazze italiane è la scarsa presenza di donne. Se si escludono la Madonna con i suoi vari nomi, le sante e le regine, i personaggi femminili a cui sono dedicate più di 100 strade in Italia 156­­­­

sono appena 5: due scrittrici (Grazia Deledda e Ada Negri), una pedagogista (Maria Montessori), una giurista medievale (Eleonora d’Arborea, quasi esclusivamente in Sardegna) e appunto Anna Frank. Va però aggiunta Madre Teresa di Calcutta: perché si tratta di oltre 120 intitolazioni celebrative, mentre per santa Maria, santa Lucia, sant’Anna, santa Caterina, santa Chiara e le altre grandi figure della cristianità antica e medievale (donne o uomini che siano), le piazze e le strade quasi sempre riflettono la presenza di una chiesa e sono dunque dediche indirette. Ma perfino nel campo dello spettacolo – musica, cinema, teatro – gli uomini nelle insegne stradali sono molto più numerosi delle donne. E tra i giornalisti, due soli nomi femminili sono ricordati in qualche decina di aree di circolazione: Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli. Come dire: se uomini, basta essere stati dei bravi professionisti; se donne, bisogna essere uccise su un fronte di guerra per meritare una dedica. Il fenomeno – misoginia o riflesso della storia dell’umanità dominata nelle civiltà occidentali dai maschi? – riguarda anche le denominazioni di scuole, istituzioni, luoghi di aggregazione, treni. Treni? Sì: nell’ampio repertorio di treni con un nome (nome relativo a una tratta specifica, non al convoglio in sé o alla locomotrice) s’incontravano fino a poco tempo fa due soli nomi femminili: Ada Negri (Sestri Levante-GenovaMilano) e Teodolinda (Milano-Zurigo), a cui si sono aggiunti di recente Matilde Serao e, come personaggio lirico, l’Allegro Aida: insomma tre o quattro su circa 260 denominazioni. Neanche nei cieli le donne trovano spazio. Forse il lettore lo ignora, ma una nuova grande enciclopedia celebrativa si è costituita negli ultimi 50-70 anni. Proprio come per i nomi di strade e piazze delle nostre città, crateri, vallate, alture, dirupi, mari e laghi apparenti delle superfici di pianeti e satelliti sono punteggiati di nomi e cognomi di personaggi storici, di figure mitologiche, di gruppi tematici dedicati a fiumi, monti, città di tutto il mondo e ad altre amenità. Ebbene, i nomi di donne realmente vissute celebrati in questo modo sono pochissimi: 157­­­­

sulla Luna 15 su circa 1.300, poco più di 1 a 100. Sono invece numerosi su Venere, per il semplice motivo che i nomi di uomini ne sono stati banditi: l’idea era di celebrare nei 700 crateri del pianeta solo grandi donne del mondo scientifico, artistico e culturale, ampliando poi agli àmbiti dello spettacolo, dell’educazione, dell’attivismo sociale e politico. Soddisfazione, finalmente, per le donne? Neanche per idea, perché gli esperti internazionali non hanno trovato un numero di personaggi sufficienti e hanno allora deciso di assegnare centinaia di generici nomi femminili in varie lingue, dall’akan del Ghana al nganasan delle Isole Samoa, nomi di battesimo senza alcun aggancio diretto con personaggi storici. Si diceva che dalla seconda metà dell’Ottocento molte delle denominazioni tradizionali delle strade e piazze, in gran parte medievali, sono state cancellate e al loro posto è comparso un album di figurine, tutte meritorie s’intende ma, salvo eccezioni, non più correlate con l’area che andavano a denominare. E la corsa alla dedicazione è sempre più frenetica. Appena muore un personaggio popolare, c’è un sindaco che s’affretta a rassicurare i cittadini: «Gli/le dedicheremo una strada». Che non è propriamente come farlo resuscitare, ma è comunque un bell’omaggio. In barba alla legge che prevede che debbano passare dieci anni dalla morte. In alcuni altri Stati, invece, si possono celebrare con le aree pubbliche di circolazione anche i viventi. E del resto qualche eccezione l’abbiamo avuta anche in Italia. A Giovanni Paolo II furono intitolate strade o piazze nei comuni di Otranto (Lecce) dal 1980, quando il papa visitò la cittadina pugliese; di Capistrano (Vibo Valentia) dal 1982, in concomitanza con il semplice passaggio in elicottero del pontefice, diretto alla Certosa di Serra San Bruno; di Trentola Ducenta (Caserta) dal 1990, in occasione della visita pastorale di Karol Wojtyla; e a Isernia dal 2004. Anche la già ricordata Madre Teresa di Calcutta ebbe questo privilegio a Chieuti (Foggia), addirittura dagli 158­­­­

anni Ottanta, e a Falconara Albanese (Cosenza). Ovviamente nessuno ha mai protestato. I cognomi si trasformano poi in stazioni, aereoporti, università, biblioteche, aule, caserme, ospedali, centri studi, aerei, navi, teatri, cinema, stadi, premi, gare sportive o competizioni letterarie, alberghi, progetti scientifici, leggi e decreti, nomi di gruppi artistici. Prendiamo i complessi italiani di musica pop e rock: dagli anni Sessanta a oggi, si ricordano i Ciao Fellini, i Figli di Bubba, i Franti, la Premiata Forneria Marconi, i Viva Verdi, la Banda Osiris, con intenti celebrativi o ironici. Talvolta il cognome è inglobato in un sintagma (L’Uovo di Colombo) o è lievemente modificato, per semplice vezzo (Garybaldi) o contaminazione (Vallanzaska, in quanto il gruppo eseguiva il genere ska). Negli ultimi anni si è ricorsi a cognomi prestigiosi anche per le singole sale cinematografiche, le curve di uno stadio o i ponti di una nave. La Costa Allegra ha chiamato i suoi ponti Van Gogh, Gauguin, Modigliani, Lautrec, Rousseau, Degas e Manet; la MSC Lirica li ha battezzati Scarlatti, Paganini, Albinoni, Bellini e Rossini. Dalle strade dove si trovano, o per altri motivi, alcuni cognomi diventano bar, ristoranti, alberghi, centri di ritrovo, stazioni delle metropolitane e fermate dei mezzi pubblici di superficie. «Ci vediamo a Cadorna» per due milanesi che si danno un appuntamento è un invito chiarissimo: all’ingresso della stazione di incrocio delle linee rossa (M1) e verde (M2) della metropolitana – e scalo di varie linee ferroviarie suburbane – in piazzale Cadorna. Ma quanti sono consapevoli che quel Cadorna prima di essere una microlocalità ambrosiana è il cognome di un famoso generale? Lo sanno i tanti giovani e giovanissimi che studiano poco la storia e possono mai saperlo il signor Hu e gli altri cinesi, gli egiziani, i filippini, i peruviani, i marocchini che sono decine di migliaia in quel di Milano? Tra l’altro quel Cadorna, Luigi, è stato negli ultimi anni al centro di polemiche. Si vorrebbe cancellarne la memoria dalle 159­­­­

insegne stradali, perché mandò al massacro i soldati italiani contro le mitragliatrici appena inventate e attribuì la sconfitta di Caporetto alla codardia delle truppe. Qualche comune, come Udine, lo ha già fatto. Come che sia, non ha torto Sergio Romano – politologo, storico e già diplomatico – il quale, a proposito di diatribe del genere, si chiedeva nel 2012 nelle pagine del «Corriere della Sera»: vale la pena bisticciare per Cadorna quando le ultime due generazioni probabilmente non sanno neppure perché e quando cominciò la Grande Guerra? C’è un altro nome di area a Milano, Inganni. Ci si può scherzare un po’, ma da anni esiste una lista di esercizi commerciali chiamati così: supermercato, pizzeria, ottica, agenzia immobiliare che a sua volta vende e affitta immobili appunto a «Inganni» (come titolo per una lista di annunci non è il massimo, ma i milanesi capiscono). Si tratta di un cognome, quello del pittore ottocentesco bresciano Angelo Inganni, al quale fu intitolata una via la quale a sua volta ha denominato una stazione della metropolitana, tra le più note perché è stata capolinea della M1 prima dell’estensione a Bisceglie. Quasi un quartiere, dunque. E lo stesso dicasi per Bisceglie: vai a spiegare a bambini e giovani (e adulti) poco acculturati e a centinaia di migliaia di immigrati che Bisceglie non è solo una zona di Milano con metro e parcheggio di scambio, ma anche e soprattutto un popoloso comune della Puglia! Cognomi nel vocabolario I cognomi, si diceva, diventano nomi comuni e tra questi spiccano le denominazioni scientifiche. Se è ovvio ritrovare cognomi nelle denominazioni della fisica, della chimica, della medicina (anatomia, patologie, sindromi) è forse meno ovvio riscontrarli in botanica e in zoologia. Non parlo dei nomi scientifici della classificazione di Linneo, pieni di specie dedicate a questo o quello studioso di piante e di animali, ma dei nomi comuni. Chi direbbe anche tra i pollici verdi, se non lo ha già letto in questo libro, che vennero prima l’abate 160­­­­

Kamel e il botanico Magnol, e poi la camelia e la magnolia? Chi sa di un tale Herr Karl Friedrick Ludwig Dobermann che riscuoteva le tasse accompagnandosi con una nuova razza di cane aggressivo, ottimo strumento di persuasione? Ulisse Aldrovandi, medico e naturalista bolognese del Cinquecento, è poco noto se non si è biologi o non si abita nei pressi di una via Aldrovandi: eppure l’aldrovanda è un genere di piante acquatiche carnivore e l’aldrovandia un genere di pesce. Esistono dizionari interi di nomi propri, tra i quali molti i cognomi, entrati nel linguaggio comune. Prendiamo una delle parole italiane del Novecento più popolari in tutto il mondo: paparazzo. Tutti sanno che la denominazione corrente del fotoreporter delle celebrità nacque sul set della Dolce vita di Federico Fellini (1960). Ma nel film Paparazzo non è un nome comune, bensì il cognome di uno dei personaggi, appunto un... paparazzo, interpretato dall’attore Walter Santesso. Un cognome che lo sceneggiatore Ennio Flaiano aveva suggerito al regista dopo averlo scovato nel diario di viaggio di uno scrittore inglese, By the Ionian Sea di George Gissing. Nel diario è citato l’incontro con un albergatore di Catanzaro, Coriolano Paparazzo. Quel cognome piacque per la sua sonorità: si disse che ricordava l’aprirsi e chiudersi delle valve di una conchiglia e quindi il flash della macchina fotografica, tanto che qualcuno azzardò che Flaiano si fosse invece ispirato al nome abruzzese della vongola. Ma lo stesso scrittore ha lasciato la sua testimonianza scritta nei Fogli di Via Veneto, dove possiamo leggere: «Ora dovremmo mettere a questo fotografo un nome esemplare perché il nome giusto aiuta molto e indica che il personaggio ‘vivrà’. Queste affinità semantiche tra i personaggi e i loro nomi facevano la disperazione di Flaubert, che mise due anni a trovare il nome di Madame Bovary, Emma. Per questo fotografo non sappiamo che inventare; finché, aprendo a caso quell’aureo libretto che s’intitola Sulle rive dello Jonio, troviamo un nome prestigioso: ‘Paparazzo’. Il fotografo si chiamerà Paparazzo. Non saprà mai di portare l’onorato nome di un albergatore 161­­­­

delle Calabrie, del quale Gissing parla con riconoscenza e con ammirazione. Ma i nomi hanno un loro destino». Oggi paparazzi (con -i finale al singolare in quasi tutto il mondo) è parola internazionale e portano questo nome alberghi, locali da ballo, sale per vip, pizze e ristoranti in tutti i continenti. Ne trovate a Las Vegas e a Colombo (Sri Lanka), nell’Isola di Man e al Cairo, a Città del Capo e a Santo Domingo. E nel cuore di Praga un negozio di scarpe si chiama Paparazzi. Tutto da un ignaro ristoratore, Coriolano Paparazzo, disceso da un paesino sperduto dell’Appennino di Calabria. Quando si dice il destino, appunto. Un destino per quel ‘papero’ suffissato con -azzo (o composto greco corrispondente a ‘prete sellaio, valigiaio o sarto’), cognome di Olivadi sull’altopiano centrale delle Serre calabresi, che ha fatto il giro del mondo ed è documentato in tutte le lingue, dall’islandese allo zulu, dall’ebraico al giapponese. Un destino per quei dizionari inglesi che hanno fatto la loro figura tapina facendo derivare paparazzo dal francese paperassier da paperasse ‘scartoffia’ (mah!). E un destino soprattutto impronosticabile. Se Flaiano fosse stato colpito dalla sonorità del nome, anziché del cognome, di quel signore, oggi le star del cinema e del jet set sarebbero inseguite da tanti coriolani armati di macchine fotografiche... I cognomi diventano dunque parole del lessico comune, molte però rarissime: conio di giornalisti fantasiosi o di frequentatori del web che lasciano così una loro traccia. A proposito di Fellini, nel 1993 il regista riminese, dopo aver ricevuto il premio Oscar alla carriera, durante una conferenza stampa rispose così a un giornalista che gli aveva domandato quale sensazione si provava nell’essere ricordato con il termine «felliniano»: «Avevo sempre sognato, da grande, di fare l’aggettivo. Ne sono lusingato. Cosa intendono gli americani per felliniano posso immaginarlo: opulento, stravagante, onirico, bizzarro, nevrotico, fregnacciaro. Ecco, fregnacciaro è il termine giusto». 162­­­­

Fellini è diventato uno di quei nomi-garanzia a cui si intitolano non solo strade, hotel, sale, negozi, aeroporti, asteroidi (sì, c’è anche un asteroide Fellini) e magari pizze e pastasciutte, ma anche vocaboli. Sono tutti documentati in rete: i sostantivi fellineggiamento, fellinata, fellineide, fellinerie, fellinianità e fellinità, fellinismo e fellinisti, fellinaggine, felliniade, fellinofilo, fellinologia e fellinologo; gli aggettivi fellineggiante, fellinistico, fellinizzabile; i verbi fellineggiare e fellinizzare; gli avverbi felliniamente e fellinianamente, per non dire delle combinazioni con prefissi e prefissoidi: antifelliniano, filofelliniana, iperfelliniano, neofelliniano, parafelliniano, prefelliniano e postfelliniano e postfellinismo, protofelliniano, pseudofelliniano, tardofelliniano, ultrafelliniano... da un solo cognome. Si può fare di più? Eccome! Negli anni scorsi, preparando una relazione per un convegno su lessico e onomastica, mi sono divertito a cercare in rete tutti i nomi, aggettivi, verbi e avverbi derivati o composti o alterati o ludismi dal nome di famiglia Berlusconi: berlusconeggiare, berluschese, berlusconismo, berlusconano, berlusconico, berlusconite, berlusconianamente, berluskaiser, berluscones, berlusconistan, imberlusconito... Mi sono fermato poco oltre le 800 parole diverse (avete letto bene: 800); con meno pudore e stanchezza avrei toccato quota mille. Certo, qualche volta si tratta di parole estemporanee, effimere, coniate per gioco e non destinate a sopravvivere. I linguisti parlano di occasionalismi. Ma intanto documentano la popolarità di un eponimo (il cognome base), oltre alla grande versatilità della lingua italiana. E qui mi rendo conto che qualcosa di più questo cognome merita. Intanto appartiene a circa 500 italiani, mica pochi, dalle parti di Veniano, Lurago Marinone, Lurate Caccivio, Bulgarograsso e Appiano Gentile, insomma nel Comasco. E che si tratti di cognome sentito come tipicamente lombardo è confermato dalla letteratura e in particolare dai personaggi così denominati, in tempi non sospetti, da Carlo Emilio Gadda e da Piero Chiara: due autori sempre attenti a im163­­­­

porre ai propri personaggi cognomi regionalmente connotati e appropriati. Berlusconi è infatti il cognome della famiglia protagonista del romanzo La stanza del vescovo, e dunque appunto anche del defunto vescovo Arimanno Berlusconi, e di un’omonima famiglia nell’Adalgisa gaddiana. Anche Bossi è un cognome che ha avuto fortune letterarie: si chiama così un creditore di Mattia Pascal nel romanzo di Pirandello e un assiduo frequentatore del bar di Luino nel Cappotto di astrakan di Piero Chiara. Si chiamava Bossi anche la mamma di Berlusconi, al quale prontamente torniamo (anche se qualche pagina fa mi ero ripromesso di soprassedere, ma mi si consenta un ripensamento), perché in vari dialetti settentrionali berlusc o barlusc vale ‘guercio’. Il primo elemento ber- richiama l’idea della luce nelle lingue germaniche e lusk- equivale all’italiano losco, che in origine era ‘colui che ha la vista difettosa o debole’, ‘chi è costretto per guardare a socchiudere gli occhi aggrottando le sopracciglia’: dunque miope, semicieco, guercio, orbo, strabico. Così sui dizionari moderni. Apriamo quelli dialettali ottocenteschi. A Milano guardâ in berlûsch significa ‘guardar losco, di traverso’. A Bologna berlus vale analogamente ‘losco’. A Parma berlìr è pure ‘losco, strabico’, con il superlativo berliron e il peggiorativo berlirazz. A Bergamo berlocio vale ‘mezzo cieco’. Poi alcuni dizionari collegano queste voci con il lombardo berlicch o barlicch che è il diavolo (a ca’ de berlicch ‘a casa del diavolo’) e allora è davvero il momento di lasciar perdere. Un caso interessante si ha quando uno stesso cognome, riferito a portatori diversi, genera una serie di voci di lessico coincidenti ma solo in apparenza. Un esempio recente è rappresentato da Brambilla, legato in passato a un valore simbolico, antonomastico di cognome lombardo; e nel presente, invece, a un singolo personaggio. Un tempo era infatti il sinonimo del milanese borghese qualunque. Dal 2007, il lancio sulla ribalta politica di Michela Vittoria Brambilla, presidente dei Circoli della Libertà e più tardi ministra del Turismo, ha indotto la creazione di una lunga serie di nuovi 164­­­­

derivati. Tanto che, spulciando in Internet, il brambillismo non è più il modo di vivere del sciur Brambilla, ma l’atteggiamento definito «l’arte del potere senza complessi» dell’intraprendente Michela Vittoria; brambilliano si riferisce non più allo stereotipato cittadino milanese, ma all’imprenditrice di Calolziocorte amica di Berlusconi; brambilleide non è più la vacanza tranquilla di una famiglia meneghina nelle spiagge romagnole o liguri, ma l’attività di salvaguardia degli animali che tanto sta a cuore all’ex ministra. Parole in viaggio Lessicalizzazioni e transonimie, abbiamo detto. Parole difficili e vi risparmio i sinonimi. Sono le fasi del viaggio di un nome proprio, e non di rado i due fenomeni s’intrecciano. Ecco una prova, stavolta esemplificata da un nome straniero: Kimberley (o Kimberly). Oggi negli Stati Uniti Kimberley è soprattutto un nome di fanciulle ispaniche. Di solito ce n’è almeno una per serial tv, così come c’è sempre un afroamericano, un asiatico, un italoamericano, un ebreo e un gay. Ma la nostra appendice al politicamente corretto viene da lontano. Nell’Inghilterra altomedievale Kimberley era una voce celtica formata da un nome personale e da un nome di località col significato di ‘bosco’ o ‘radura’. Divenne poi un diffuso nome di luogo inglese. Da quello ebbe origine il predicato nobiliare, assimilato a un cognome, che poté vantare un illustre portatore: John Wodehouse conte di Kimberley (18261912), ossia Lord Kimberley, ministro degli Esteri della Corona britannica nel XIX secolo. In omaggio a questo conte, fu chiamata Kimberley sia una regione australiana sia una città sudafricana. Ora accadde che la Kimberley del Sud Africa, nota per la miniera di diamanti più grande del mondo (di qui il minerale detto kimberlite), fu uno dei principali teatri della seconda guerra anglo-boera a cavallo tra XIX e XX secolo, e passò alla storia per l’eroica resistenza all’assedio nemico; il che ha ispirato l’uso di Kimberley come prenome personale 165­­­­

ideologico (un po’ come in Italia i nomi Trento, Trieste, Gorizia, ecc.). Oggi Kimberley, prima maschile e successivamente in modo crescente femminile, è divenuto nome di moda in vari Paesi anglofoni. Senza essere scalfito dalla associazione con prodotti per l’igiene del marchio multinazionale KimberlyClark (quelli dei kleenex), dai cognomi di due industriali. E che dire di Bermudez? Bermuda, l’arcipelago dell’Atlantico occidentale (in italiano, preferibilmente, Bermude) trae il nome da uno dei suoi scopritori europei, Juan Bermúdez, cognome derivante da un nome personale germanico. Dal nome di luogo si sono poi formati gli aggettivi bermudiana/-o e bermudese, i calzoncini bermuda con l’alterato bermudoni, in ambito mineralogico la bermudite e in quello botanico la bermudiana, e nei tecnicismi legati alla navigazione bermudiano e bermudiana. Oppure prendete un nome come Pavia, che secondo una delle tradizioni etimologiche deriverebbe dal nome Papìa (dal greco papías ‘custode del palazzo’). Dalla città si è generato l’aggettivo di provenienza pavese, cristallizzatosi in almeno due cognomi Pavese e Pavesi; e, mentre l’aggettivo ha assunto altri valori (‘tipo di moneta’) o è entrato in espressioni come zuppa pavese, ecc., i due cognomi – a causa di altrettanti portatori noti – hanno dato vita il primo, quello dello scrittore Cesare, all’aggettivo pavesiano e ad altri possibili derivati; il secondo, quello dell’industriale dolciario novarese Mario Pavesi, al marchio aziendale e ai nomi di singoli prodotti, come i biscotti dolci Pavesini e i cracker salati GranPavesi (il gran pavese con le bandierine, invece, ha tutt’altra origine). Un altro caso curioso parte dal nome ebraico Barabba: per via del brigante citato nel Nuovo Testamento, è divenuto sinonimo di ‘figuro poco raccomandabile’, che in dialetto ligure si dice barabin. Da barabin si è formato il soprannome e poi cognome spezzino Barabini e poi anche quello genovese Barabino, fissatosi inoltre a Palermo come Barabbino. La celebrità di un personaggio così cognominato, nella fattispecie l’architetto Carlo Barabino (1768-1835), a cui si deve la 166­­­­

trasformazione urbanistica di Genova nella prima metà del XIX secolo, ha portato a un ricco processo transonimico, con – tutti nel capoluogo ligure – la via Barabino, l’Hotel Barabino, il Centro culturale Barabino e il Liceo artistico Barabino. I cui allievi si chiamano, tornando a un nome comune, barabinesi. Un’altra curiosità riguarda il nome Mercedes. Com’è noto, si tratta di un nome femminile, d’origine mariana, nella sua variante spagnola; la parola dell’italiano antico mercede è sopravvissuta nella forma mercé ossia ‘pietà’, e Maria della Pietà corrisponde a Nuestra Senõra de la Mercedes. Come nome di battesimo era portato dalla figlia (Mercedes Adrienne Manuela Ramona) dell’austriaco Emil Jellinek, console generale dell’Impero austro-ungarico a Nizza, uomo d’affari, appassionato di auto e pilota per la Daimler. Jellinek lo scelse come pseudonimo nella sua carriera parallela di pilota. Come «Monsieur Mercedes» – così il console era noto in tutti i circoli frequentati – vinse una prestigiosa gara del 1898, la Nizza-Magagnon-Nizza e acquistò un certo numero di modelli Daimler-Benz da rivendere in altri mercati. Ma pose due condizioni: essere il solo agente per l’Impero austro-ungarico, la Francia e gli Stati Uniti e imporre ai modelli da lui venduti il nome Mercedes. Di qui pian piano Mercedes ha affiancato dal punto di vista legale e in seguito soppiantato Daimler prima e Benz poi (i cognomi di due illustri pionieri tedeschi dell’auto), per designare infine l’intera gamma dell’azienda. Multiplo è stato il passaggio dal nome comune al nome proprio – e viceversa – per il nome tedesco della volpe, Fuchs.­ Questa voce è entrata nell’onomastica dei Paesi germanici, come soprannome e poi come cognome, attraverso una metafora legata all’aspetto o a una delle caratteristiche comportamentali popolarmente collegate all’animale. Il cognome Fuchs, legato a personaggi storici, ha in seguito generato nomi comuni: dal medico e botanico bavarese Leonhart Fuchs (1501-1566), autore di un celebre erbario illustrato, un fiore è stato denominato fuchsia; dal mineralogista tedesco Johann 167­­­­

Nepomuk von Fuchs (1774-1856) è stato invece chiamato il minerale fuchsite. Fuchsia e fuchsite appartengono pertanto ad àmbiti completamente diversi, e derivano da basi del tutto differenti anche se identiche nella grafia, nella pronuncia e nel significato. Da fuchsia, a causa del fiore rosa carico tendente al viola, si sono poi avuti il colore fuchsia applicabile a qualsiasi oggetto, e fuchsia ‘colorante organico’ con il suffissato fucsina ‘colorante rosso, usato in particolare per tingere filati e cuoio’. Di qui si diparte un altro grappolo di voci tra le quali l’acido fucsico, la parafucsina, il fucsone e la fucsonofilia, tutte documentate in numerose varianti grafiche, con -chs-, -ks-, -cs- e -x-. Si noti, a questo punto, la possibile confusione di chi potrebbe pensare alla fuchsite come a un minerale color fuchsia, mentre si presenta verde smeraldo. Similmente, la violaite trae il nome dal mineralogista Carlo Maria Viola e non dal colore; la rossite, che è giallognola, ricorda il geologo nordamericano Clarence S. Ross; la rosite è dedicata al mineralogista tedesco Heinrich Rose ed è rossa; il nome della roseite viene dal cognome, Rose, di un chimico inglese; la rosasite dal Monte Rosas, in Sardegna. Una bella confusione. Un ultimo esempio. Nell’estate 2012, «la Repubblica.it» annunciava: «Apple-Samsung, brevetti violati. Cupertino esulta: ‘Rubare non è giusto’». Cupertino? Chi è questo carneade la cui esultanza è così importante da essere accostata in un titolo a due giganti dell’elettronica? Si stenta a crederlo, ma si tratta di un paese della provincia di Lecce, meno di 25 mila abitanti, noto ufficialmente come Copertino. Certo che alcune vicende sono davvero sorprendenti, potremmo perfino dire miracolose, visto che qui c’è di mezzo un santo, anzi il «santo dei voli», cosiddetto per le sue levitazioni in stato di estasi che gli costarono anche un processo davanti al Sant’Uffizio con l’accusa di abuso della credulità popolare, da cui venne però assolto. 168­­­­

Dunque: siamo nel 1776 e un esploratore nativo del nuovo continente, il potente Juan Bautista de Anza (diventerà governatore del Nuovo Messico) sta completando un viaggio da Monterey a San Francisco. Tradizione vuole che il suo cartografo, italiano, chieda e ottenga di battezzare il fiumicello presso il quale si accampa la spedizione Arroyo San José de Cupertino. È un omaggio al santo pugliese a cui è particolarmente devoto, san Giuseppe da Copertino (1603-1663), nato Giuseppe Maria Desa, elevato agli onori degli altari nel 1767. La -u- di Cupertino, già nei primi documenti spagnoli e inglesi, non sorprenda: il paese salentino in dialetto è Cupirtinu. Ora, mentre il corso d’acqua, dopo essersi chiamato nel primo Ottocento Cupertino Creek, diventa definitivamente Stevens Creek (dal cognome di un fabbro proprietario terriero), il nome Cupertino sopravvive perché adottato da un avvocato di San Francisco, John T. Doyle, per il suo vigneto in zona. Di qui passa a denominare la cittadina californiana che oggi conta oltre 50.000 abitanti e la valle circostante. Un bel volo dal cuore del Salento alla West Coast: ed ecco come la Copertino pugliese ha dato nome all’omonima californiana (i due comuni si conoscono bene, peraltro, e sono da tempo gemellati), attraverso un agionimo, ossia un nome di santo. Per fatti suoi, infine, Cupertino è divenuta il cuore della Silicon Valley, terra dell’elettronica e dell’informatica per antonomasia: vi risiedono la Apple, la Hewlett Packard, la Symantec e altre notissime aziende. Ora tutto è chiaro: quel Cupertino che esulta per un brevetto significa ‘Apple’ (come Pirellone sta per ‘Regione Lombardia’ o Campidoglio per ‘Comune di Roma’), una Apple soddisfatta della sentenza che ha dato momentaneamente ragione agli eredi di Steve Jobs e torto alla rivale coreana circa una disputa legale. È questa la magia dell’onomastica? Andiamo ancora un po’ avanti.

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Ma i cognomi possono anche sparire Per la legge, com’è noto, il nome è una cosa seria, soprattutto in quanto mezzo di identificazione della persona. L’art. 22 della Costituzione stabilisce che nessuno può essere privato per motivi politici del nome. Il diritto al nome nasce con la persona stessa. Il Codice civile intitola l’intero suo articolo 6 al «diritto al nome», precisando che ogni persona ne ha diritto, che nel «nome» si comprendono il prenome e il cognome e che non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità indicati dalla legge. La persona interessata ha il potere di chiedere il mutamento, ma non il diritto, e la concessione dipende dalla valutazione discrezionale dei competenti organi dello Stato. Il Ministero dell’Interno è competente per il cambiamento del cognome e per l’aggiunta di un altro cognome. Il prefetto è invece competente per il cambiamento del nome o l’aggiunta di altro nome, e inoltre per il cambiamento del cognome in quanto ridicolo o vergognoso o perché rivela l’origine naturale. Il decreto ministeriale con cui viene concesso il cambiamento di cognome deve valutare, come dimostrano numerosi richiami alla dottrina e alla giurisprudenza, l’interesse pubblico che consiste nel salvaguardare la stabilità del nome quale segno di identificazione della persona e quale segno distintivo della famiglia legittima. In realtà nel nostro ordinamento non esiste alcuna norma che imponga l’attribuzione al figlio legittimo del solo cognome paterno. Si tratta di un principio che si rinviene nella coscienza sociale, nella tradizione e nel costume, tanto radicato da non richiedere un’esplicita formulazione scritta. Tutto, insomma, è dedotto, presupposto, dato per scontato. Nel febbraio 2006 la Corte costituzionale, dopo aver ricordato che «l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna», ha lasciato intendere 170­­­­

che si sarebbe volentieri espressa, in uno specifico caso familiare, in favore dell’attribuzione del cognome della madre, ma che ciò avrebbe creato un vuoto normativo. In futuro il Parlamento potrebbe cancellare la tradizione con una legge specifica. Negli ultimi anni sono circolate proposte che prevedono un’attribuzione diversa da quella odierna, ossia il cognome della madre o quelli di entrambi i genitori. Se una simile legge fosse in futuro approvata dal Parlamento, possiamo chiederci, sarebbe una rivoluzione culturale e sociale o si tratterebbe semplicemente di un rimescolamento di dati per gli studiosi di onomastica e di genealogia? In Francia, per esempio, esiste la facoltà (ma non l’obbligo) di aggiungere al cognome paterno anche quello materno; la legge del 2001 attribuisce ai genitori la facoltà di scegliere, all’atto di nascita del primogenito, se trasmettere il cognome del solo padre o della sola madre o di entrambi rispettando l’ordine alfabetico. In Spagna da secoli era attribuito ai figli un cognome doppio, formato dal nome di famiglia paterno seguito da quello materno, ma solo il primo era trasmesso. La normativa del 1999 permette ai genitori e anche al figlio, una volta maggiorenne, di decidere l’ordine dei cognomi e dunque quale tramandare ai propri discendenti. In Germania la legge in vigore dal 1994 consente che i genitori scelgano quale dei due cognomi trasmettere, e tutti i figli avranno quello stesso cognome. Quali potrebbero essere le ripercussioni sul sistema onomastico, e in particolare sulla composizione del repertorio cognominale, di una legge che prevedesse la libera scelta del cognome da imporre ai figli tra quello paterno, quello materno o entrambi in qualsiasi ordine? Limitiamoci agli aspetti linguistici, tralasciando quelli psicologici e sociali. Si può ipotizzare, prima di tutto, la riduzione dei nomi di famiglia ridicoli o comunque imbarazzanti da portare: una contrazione molto più ampia di quanto già oggi accade attraverso l’anagrafe ufficiale. Inoltre potrebbero diminuire i cognomi troppo lunghi e ingombranti, ai quali sarebbero 171­­­­

preferiti quelli più semplici da scrivere e da memorizzare. Insomma l’Italia dei Di Mastrogirolamo e dei Martiradonna, dei Giuratrabocchetti e dei Mercoledisanto, dei Quattrocciocche e dei Trentacarlini, dei Primoarrivato e dei Diquigiovanni, dei Tuttolomondo e degli Ammazzagatti, dei Saltamerenda e dei Nienteaffatto potrebbe progressivamente sparire. Potrebbero essere scartati i cognomi dalla grafia incerta. Tutti i signori Abate e Abbate (sono migliaia) sono costretti a specificare «Abate con una -b-», «Abbate con due -b-». E si pensi al disagio di chi porta un cognome dalla grafia anomala, obbligato per tutta una vita a precisare «Il mio cognome è Luiggi (o Biaggio, o Liggio) con due -g-», o «Mi chiamo Sabbato (o Tibberio, Sebbastiani, Libbri) con due -b-», ma anche «Fabri o Labra con una sola -b-». Si può inoltre pronosticare che i cognomi più frequenti subirebbero un contraccolpo: già alcuni cittadini Rossi hanno chiesto e ottenuto di aggiungere il cognome materno per evitare quello che viene avvertito come il massimo grigiore onomastico. Ma non c’è solo Rossi a rischio confusione. Prendiamo i singoli comuni: statistiche alla mano, sono elevatissime le concentrazioni dei signori Ambrosio a San Giuseppe Vesuviano, dei Capasso a Frattamaggiore, dei Verde a Sant’Antimo, dei Cozzolino a Ercolano, degli Annunziata a Ottaviano, degli Illiano a Bacoli, dei Barra a Cardito, dei Cirillo a Boscoreale, tanto per citare un campione del Napoletano, ma anche dei Giacalone a Mazara del Vallo (Trapani), dei Balboni a Cento (Ferrara), dei Cordioli a Villafranca di Verona o dei Ghidini a Lumezzane (Brescia). E lo studioso di onomastica che fa? Si schiera contro la libera scelta del cognome: che si trasmetta solo quello materno se si vuole, questo sì. Ma senza opzioni preferenziali, altrimenti la materia di studio potrebbe diradarsi velocemente. Ma che egoisti, questi studiosi!

Congedo

Congedo è un cognome leccese presente nel capoluogo e nel comune di Galatina. Appartiene a circa 1.500 cittadini (anche a un editore di libri) e presenta la variante Congedi, sempre della provincia salentina, e la forma Congedato, sporadica a Palermo. Non è un nome di famiglia ingannevole: corrisponde proprio a ‘congedo’, con una motivazione però incerta. Chiusa Provo a congedarmi diversamente. Ma Chiusa è un cognome quasi altrettanto diffuso, che corrisponde a molti identici nomi di luogo indicanti la presenza dello sbarramento d’un corso d’acqua o di un restringimento della valle. Ce ne sono tanti di questi nomi di luogo nel Nord, in Piemonte soprattutto. Il nome di famiglia si distribuisce tra il Piacentino con punta a Cortemaggiore, la Lombardia e la città di Enna. Poi esistono, con la stessa origine, i cognomi Chiusi, che dunque nulla ha a che vedere con il comune etrusco del Senese, ed è sparso in Brianza e altrove; e Chiuso, che forse vale anche ‘campo recintato’, nel Molise e nel Napoletano. Cordiali saluti Cordiali è nome di casato perugino e romano e proviene dall’aggettivo, mentre la forma Cordiale, tipicamente napoletana, risale a un nome personale identico. E Saluti, cognome rarissimo, è ascolano (Salute e Saluto sono invece siciliani): 173­­­­

derivano tutti da un nome peronale, in qualche caso legato al culto della Madonna della Salute. Finale Dal nome di luogo, presente come Finale Ligure, Finale Emilia e altri centri minori, discendono i non rari cognomi Finale e Finali: il primo a Napoli e a Torino e nei rispettivi dintorni, il secondo suddiviso tra il Bergamasco, il Modenese, il Nord della Toscana e l’Umbria. Finis Ritento con il latino. Un tempo i bidelli lo gridavano nei corridoi per segnalare a studenti e professori che la giornata di scuola era conclusa. Una sorta di campanella umana. Ma c’è anche un cognome Finis, a Caulonia e altrove nel Reggino, nonché a Torino. Corrisponde a Fini e a Fino con l’uscita latineggiante e dunque deriva da un nome in -fo più il suffisso diminutivo: Adolfo, Astolfo, Farolfo, Gandolfo, Landolfo, Pandolfo, Rodolfo o chissà quale altro. E allora... Amen Amen è un cognome ben frequente, soprattutto lucano (a Lavello, in provincia di Potenza) e campano (a Polla, in provincia di Salerno). Proviene dalla parola ebraica corrispondente a ‘vero, certo’, usata poi avverbialmente con il significato augurale di ‘così sia’ e affermativo ‘così è’, nonché come formula di chiusura di alcune preghiere cristiane e di passi liturgici. Può rappresentare un soprannome imposto a persona particolarmente devota o avvezza a ripetere costantemente nel parlare quotidiano la parola, che nella lingua italiana significa anche ‘va bene’, ‘sia pure’. Ci sono inoltre D’Amen, nelle Marche e a Modena, e la grafia Damen a Monte San Pietrangeli presso Fermo. 174­­­­

Il repertorio italiano è pieno di cognomi tratti dalla liturgia e dalla devozione. Non discendono direttamente dai tempi antichi, ma derivano da soprannomi medievali o sono stati imposti a trovatelli. Chirieleison proviene dall’espressione greca fatta propria dal latino della celebrazione della Messa che vale ‘Signore, abbi pietà!’; il cognome è di Messina e provincia, la rara variante con K- iniziale si riscontra a Roma. L’adattamento italiano è il diffuso Crialesi, nella capitale e dintorni e a Fabriano (Ancona). Un altro esempio di italianizzazione è il fiorentino Sicuteri, da un frammento del Gloria patri, «sicut erat (in principio et nunc et semper)». Ancora, nel Perugino c’è Santificetur ‘sia santificato’, da un frammento del Pater noster («sanctificetur nomen tuum»).­ Esiste poi il cognome Paternoster soprattutto in TrentinoAlto Adige, Lombardia, Puglia e Basilicata. Deogratias è di Pesaro e Fano. Dall’Ave Maria sono ricavati Graziaplena, teramano e campobassano, e il napoletano Avemaria. Salveregina è maceratese di Acquacanina. Alessandrino e torinese, ma anche pescarese e molisano, risulta Miserere. Frusinate di Castro dei Volsci è il nome di famiglia Vitaterna. Novarese Angelus, materano Materdomini, varesotti Filius e Trinitas, milanese Fratres, savonese Omnia, cosentino Omnis, bresciano Priusdomini, trentino Santorum, pugliese Agnusdei. Particolari i casi di Quasimodo, di Asperges e Salvemini. Il primo trae origine dalla formula «Quasi modo geniti infantes [...]», introito della Messa che il calendario liturgico cattolico celebra nella prima domenica dopo Pasqua, detta in Albis; si registra nelle province di Catania e di Cuneo. Il secondo, soprattutto di Milano e dintorni, corrisponde all’italiano antico asperges per ‘aspersorio’ o ‘aspersione’ («fare l’asperges» = ‘benedire il popolo con l’acqua’), altra pratica liturgica. Salvemini, pugliese, è un congiuntivo presente passivo latino, ‘che siate salvati’, formula adatta a esprimere un augurio nei confronti di infanti abbandonati (a Catania si trova l’analogo Miseremini, che invoca pietà). 175­­­­

Salve Beh, è un saluto d’ingresso più che d’uscita. E oltretutto legato alla goffaggine di chi non sa se dare del tu o del lei all’interlocutore. Comunque il cognome Salve è raro e sparso tra Campania, Abruzzo e Puglia e, al pari del più frequente De Salve, indica provenienza da Salve, comune del Leccese (che un tempo si chiamava Salvia: nessun saluto, dunque). A presto Sempre più spesso ci si lascia così, specie nei messaggi scritti. Ma Presto è un nome di famiglia reggino, parente del cosentino e pugliese Presta, del leccese Preste e del siciliano Presti. Tutti vogliono dire ‘prete’ (o moglie del prete), come dimostrano i vari composti Prestifilippo, Prestigiacomo, Prestigiovanni o Prestipino. Ciao Mi sia permesso il saluto più amicale. Però, incredibile: in Italia ci sono anche i signori Ciao (e non sono cinesi). Si trovano nella provincia di Salerno e in realtà non hanno a che fare con la parola italiana più popolare al mondo (che, com’è noto, deriva dal saluto veneziano «schiavo vostro»). Forse corrispondono a ciaola, ossia ‘cornacchia’ e per metafora ‘persona ciarliera’. Un abbraccio, baci Troppo confidenziale, lo ammetto. E poi Baci è cognome anconitano, probabile accorciamento di un originale baccelliere o baciliere, ossia un antico titolo di studio universitario, ma poi per metafora un ‘saccente’, un ‘sapientone’. Mentre Abbraccio, che viene da Braccio con A- iniziale rafforzativa, meglio lasciarlo a quei cittadini di Alife (Caserta) che lo portano dalla nascita. 176­­­­

Buonanotte Macché: è un cognome ciociaro e sparso nel Meridione e c’è anche l’abruzzese Bonanotte. Deriva da un nome personale medievale, ‘è buona la notte in cui sei nato’, stessa motivazione per Buongiorno (pugliese e campano) e Bongiorno (siciliano), Buonasera e Bonasera, Buondì e Bondì (tutti altrettanto siciliani). Ma Buonanotte forse risale a un soprannome imposto a chi ripeteva sempre questa parola che ha anche un più esteso valore conclusivo (...e buonanotte!, buonanotte al secchio, buonanotte ai suonatori). Oppure indica provenienza dal paese di Buonanotte presso Chieti, che dal 1969 si chiama Montebello sul Sangro. Addio Cerco inutilmente di congedarmi dai lettori. Devo farlo Assolutissimamente (ebbene sì, esiste anche questo nome di famiglia, un superlativo avverbiale, a Triggiano nel Barese e a Ostuni nel Salento: è il più lungo cognome italiano tra quelli formati con una sola parola e non con una combinazione, come nel caso del viterbese Quondamangelomaria; seguono Giuratrabocchetti in Basilicata, Pasquadibisceglie oggi a Biella, Di Marcoberardino a Civitavecchia e a Mentana). Ma scappa di segnalare che Addio è un cognome presente dalle parti di Caserta e a Napoli. Insomma, sembra che da questi giochi di nomi non se ne possa più uscire. Che sia proprio questa la magia dell’onomastica?

Dove trovare altre storie di nomi e di cognomi

Enzo Caffarelli, I cognomi più frequenti in Italia, «Rivista Italiana di Onomastica», III, 1997, 1, pp. 293-314. Enzo Caffarelli, Frequenze onomastiche. I prenomi italiani nel XX secolo, «Rivista Italiana di Onomastica» VII, 2004, 1, pp. 291-354. Enzo Caffarelli – Carla Marcato, I cognomi d’Italia. Dizionarico storico ed etimologico, Torino, UTET, 2008. Rita Caprini, Nomi propri, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001. Girolamo Caracausi, Dizionario onomastico della Sicilia, Palermo, Centro di Studi filologici e linguistici siciliani, 1993. Enos Costantini – Giovanni Fantini, I cognomi del Friuli, Latisana/ Pasian di Prato, la bassa – Lithostampa, 2002. Lorenzo Coveri, Maria, Anna, Giulia e le altre. Onomastica femminile nella canzone italiana, in Lessicografia e onomastica nei 150 anni dell’Italia unita, a cura di Paolo D’Achille – Enzo Caffarelli, Roma, SER, 2012, pp. 41-58. Emidio De Felice, Dizionario dei cognomi italiani, Milano, A. Mondadori, 1978. Emidio De Felice, I cognomi italiani. Rilevamenti quantitativi dagli elenchi telefonici: informazioni socioeconomiche e culturali, onomastiche e linguistiche, Torino/Bologna, SEAT-Il Mulino, 1980. Emidio De Felice, I nomi degli italiani. Informazioni onomastiche e linguistiche socioculturali e religiose, Roma/Venezia, SARIN-Marsilio, 1982. Emidio De Felice, Dizionario dei nomi italiani, Milano, A. Mondadori, 1986. Elwys De Stefani, Cognomi della Carnia, Udine, Società Filologica Friulana, 2002. Giulia Di Bello, L’identità inventata. Cognomi e nomi dei bambini abbandonati a Firenze nell’Ottocento, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 1993. Michele Francipane, Dizionario ragionato dei nomi, Milano, BUR, 2001. 179­­­­

Michele Francipane, Dizionario ragionato dei cognomi italiani, Milano, BUR, 2005. Enzo T. La Stella, Santi e fanti. Dizionario dei nomi di persona, Bologna, Zanichelli, 1993. Ottavio Lurati, Perché ci chiamiamo così? Cognomi tra Lombardia, Piemonte e Svizzera italiana, Lugano/Varese, Fondazione Ticino Nostro-Macchione, 2000. Ottavio Lurati, Nomi di luoghi e di famiglie. E i loro perché? Lombardia – Svizzera italiana – Piemonte, Lugano/Varese, Fondazione Ticino Nostro-Macchione, 2011. Mauro Maxia, Dizionario dei cognomi sardo-corsi. Frequenze – fonti – etimologia, Cagliari, Condaghes, 2002. Michael Mitterauer, Antenati e santi. L’imposizione del nome nella storia europea, Torino, Einaudi, 2001. Giovan Battista Pellegrini, Nomi e cognomi veneti, in Guida ai dialetti veneti, III, a cura di Manlio Cortelazzo, Padova, CLEUP, 1981, pp. 1-34. Massimo Pittau, Dizionario dei cognomi di Sardegna. Origine e significato di 7.500 voci, Cagliari, L’Unione Sarda, 2006. Stefano Pivato, Il nome e la storia. Onomastica e religioni politiche nell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1999. Paolo Poccetti, Nomi personali, numeri e computo calendariale nell’Italia antica, «AIΩN. Annali del Dipartimento di Studi del Mondo Classico e del Mediterraneo Antico. Sezione linguistica», 17, 1995, pp. 237-59. Giovanni Rapelli, Cognomi di Verona e del Veronese, Verona, Cierre Edizioni, 2007. Gerhard Rohlfs, Dizionario toponomastico e onomastico della Calabria. Prontuario filologico-geografico della Calabria, Ravenna, Longo, 1974. Gerhard Rohlfs, Dizionario storico dei cognomi salentini, Galatina, Congedo, 1982. Gerhard Rohlfs, Dizionario storico dei cognomi nella Sicilia orientale, Palermo, Centro di Studi filologici e linguistici siciliani, 1984. Alda Rossebastiano – Elena Papa, I nomi di persona in Italia. Dizionario storico ed etimologico, Torino, UTET, 2005. Dario Soranzo, Cognomi dei Veneti, Padova, Finegil, 1996. Carlo Tagliavini, Origine e storia dei nomi di persona, Bologna, Pàtron, 1972. Vito Tartamella, Nel cognome del popolo italiano, Monza, Viennepierre, 1995. Franco Violi, Cognomi a Modena e nel Modenese, Modena, Il Fiorino, 2007.