Società civile e relazioni internazionali 8815147268, 9788815147264

La scena delle relazioni internazionali va progressivamente affollandosi. Sempre più ne divengono protagonisti, a fianco

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Società civile e relazioni internazionali
 8815147268, 9788815147264

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Collana dell'Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia (ISIG)

La pubblicazione del presente volume è stata resa possibile grazie al contributo del Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università degli Studi di Trieste. PUBBLICATO CON IL CONTRIBUTO DELL'UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE E SOCIALI (COFINANZIAMENTO MIUR 2007)

ALBERTO GASPARINI

SOCIETÀ CIVILE E RELAZIONI INTERNAZIONALI

SOCIETÀ EDITRICE IL MULINO

SITA DEGLI STUDI DI TRIESTE di PUBBLICAZIONI E SCAMBI CAMBIO

T lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività

della Società editrice il Mulino possono

consultare il sito Internet:

www.mulino.it

ISBN 978-88-15-14726-4 Copyright © 2011 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma

o mezzo — elettronico, meccanico, reprografico, digitale — se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

INDICE

Presentazione

I.

La sociologia delle relazioni internazionali

11

II.

Globalizzazione, riconciliazione e le condizioni per prevenire i conflitti e conservare la pace

57

Dalla sovranità nazionale alla solidarietà internazionale per governi mondiali a macchia di leopardo

79

IV.

Globalizzazione e città

97

V.

Il profilo: la pace nelle azioni delle organizzazioni e delle Ong internazionali

III.

VI.

Bin Laden come simbolo e gli apprendisti stregoni di terrorismo. Il ruolo dell'Europa

VII.

Il terrorismo come modo per mantenere la rivoluzione illuministica

VIII. Simmetrie e asimmetrie fra stato e nazione,

e le debolezze del piccolo stato

109

IX.

Culture locali ed economia maggiore fra regione e piccolo stato

pi 201

Formazioni sociali ed Europe Unite. Classi sociali: strumenti perché in futuro si abbia l'Europa delle società civili

219

XI.

Significati d'Europa

235

XI.

Italiani «urbaniti», Italia politica e il cosmopolitismo

263

X.

XIII. Come una città autoctona si fa mondiale. Il caso di Trieste, in cui la società civile è ri-

fondata da gruppi internazionali

283

XIV. Le radici e le conseguenze delle guerre balcaniche. Piccoli dei con grandi sogni

307

XV.

dal

La transizione come darwinismo sociale

Riferimenti bibliografici

359

PRESENTAZIONE

Questo volume affronta il tema della società civile con

un approccio diverso da quello tradizionale, classicamente «internista». D'altra parte, è da questo approccio «nuovo»

che vogliamo interpretare la sociologia delle relazioni internazionali, per descrivere come e quali relazioni internazionali nascano direttamente dalla società della gente, delle organizzazioni e delle associazioni, creando così l’internazionale che viene dal «basso». Il libro espone ‘nel primo capitolo questa interpretazione di sociologia delle relazioni internazionali. Nei successivi capitoli, discute del come la società civile incide sulle attuali relazioni internazionali, ma anche le ragioni per cui le società civili assumono connotazioni internazionali. É tra queste ragioni possiamo comprendere fenomeni relativamente nuovi come la concezione di globalizzazione, la pace, la modernità, il cambiamento

della città, ma anche

problemi tradizionali vengono riconcettualizzati: lo stato e la nazione, e ancora la pace, e poi l'Europa, la transizione delle società, ecc. Tutto ciò passiamo brevemente in rassegna nel seguito

di questa presentazione. Nella connessione tra società civile e relazioni internazionali la complessità si fa sempre più consistente. Infatti, gli aspetti organizzativi, evidenziati nella società civile messa a.punto dagli individui, incidono i caratteri delle tante società civili che entrano in contatto fra loro. In particolare, vi sono specifiche variabili che complicano la società civile mondiale. La prima variabile è / livello di società tradizionale e di società moderna, in cui opera ogni società civile; la seconda variabile riguarda 7 tipo di organizzazioni che esplicitano tali società civili; la terza variabile riguarda il disordine tra società civile e società politica nelle società mo7

derne, e la sua esportazione. Un’ulteriore fonte di complessità nelle relazioni tra società civili è dovuta al livello in cui si svolgono le relazioni tra aree transfrontaliere, quindi quando vi è la contiguità spaziale e la cooperazione transfrontaliera. Il secondo livello riguarda i rapporti tra gli elementi di due società nazionali. Il terzo livello riguarda i rapporti fra le multi-razionalità e i molteplici elementi delle società civili, che in tale mondo coinvolgono le tante società civili nell’ambito della globalizzazione. I capitoli che seguono, esaminando la trama definitoria di società civile internazionale, delineata nel primo capitolo, affrontano alcuni temi concreti di questa medesima società civile. Così i capitoli 2, 3 e 4 riguardano in senso lato la globalizzazione. Nel secondo capitolo viene messo in risalto che il rapporto tra globalizzazione e pace non è necessariamente simmetrico: la globalizzazione ha bisogno della pace per funzionare bene, mentre la pace non ha bisogno della globalizzazione, perché tale pace è vissuta dalle differenti culture e dai differenti livelli di modernità in maniera specifica, così come in tali culture (tradizionali e moderne) lo stile

di vivere si diversifica a seconda della preminenza di valori ultimi e/o di valori intermedi. Nel terzo capitolo viene sviluppata l'ipotesi che le organizzazioni internazionali governative, quali l'Onu, POsce, la Nato, l'Unione Europea e co-

sì via ma anche le associazioni non governative, tendono a formare, per l'occasione, un «governo mondiale a macchia di leopardo» (nello spazio e per il tempo). Infine nel quarto capitolo viene affrontato il ruolo delle grandi città e più in generale del fenomeno

urbano, considerato in un contesto

tradizionale e in un contesto moderno nel formarsi della globalizzazione. Inoltre viene messo in risalto come la città (la grande città) e lo stato-nazione agiscono in maniera autonoma, se non in contrapposizione, nel costruire e supportare

la società civile.

Tre successivi capitoli: individuano le azioni di pace svolte dalle organizzazioni governative e non governative (capitolo 5); rilevano il rapporto tra società civile e società politica nell’ambito del terrorismo, così come nell’ambito 8

dell'utopia di un «califfato» di Bin Laden (capitolo 6); considerano il terrorismo di stato (capitolo 7) come uno strumento per costruire una società illuministica, cioè una so-

cietà che ha bisogno, per esistere, meno del consenso sociale e più dell'idea perfetta, elaborata dal capo e dall’élite carismatica.

Altri due capitoli affrontano le asimzzzetrie e simmetrie tra stato e nazione (capitolo 8), ponendo la questione, cioè, se sia nato prima lo stato o prima la nazione. Quando nasce prima lo stato, facilmente la nazione, che viene successiva-

mente, svolge una funzione identitaria per lo stato e di conseguenza si produce simmetria tra stato e nazione. Al contrario, se lo stato nasce dopo la nazione, ciò vuol dire che la nazione risulta molto più grande dello stato, poiché tra un neo stato e il neo stato vicino vi sono nazionalità miste, e

dunque questo stato non può pretendere di rappresentare interamente la nazione. Il capitolo 9 riguarda la cultura locale e l'economia, e la sovranità nazionale. L’asimmetria di

potenza tra economia e sovranità politica è particolarmente forte quando si ha il rapporto fra una regione grande ad economia forte e un piccolo stato che deve sostenere le spese dello stato e della sovranità. L’Europa viene trattata in due capitoli: prima le Europe Unite che si sono formate nella storia (capitolo 10); poi il ca-pitolo 11 rileva come i significati d'Europa assumono connotazioni differenti per i gruppi etnici minoritari e maggioritari “che la compongono. Tali gruppi sono individuati sia nell'Unione Europea (italiani, friulani, sloveni) sia al di fuori di essa, come in Vojvodina (serbi, ungheresi, slovacchi), nella regione di Kharkiv (ucraini, russi, ebrei, bielorussi), e nella regione di Tjumen (russi, ucraini, caucasici, tartari).

Altri due capitoli illustrano come si forzza una società civile in una nazione qual è l’Italia (capitolo 12) fin dal formarsi della cultura italiana; e come si forma una società ci-

vile in una città nuova qual è Trieste (capitolo 13), fin dall’inizio del Settecento, sotto l'Impero di Carlo VI. L’ultima parte del libro comprende due capitoli nei quali vengono individuati i meccanismi analitici attraverso i quali si è realizzata la frammentazione in piccoli stati del9

l’ex-Jugoslavia, i quali, rinunciando al grande stato («piccoli dei con grandi sogni») quale la grande Serbia, la grande Croazia ecc., hanno fatto proprio il valore dello stato pulito etnicamente. In questo capitolo 14 sono considerate più di dieci variabili che spesso si sovrappongono o che sono in contrapposizione. E questa la soluzione di una ferita ereditata dalla Prima guerra mondiale. Il capitolo 15, invece, vede il realizzarsi del valore della formazione di una società civile moderna ed occidentale, dopo il disordine prodotto dalla predominanza della società politica. Anche tale rafforzamento è il prodotto di un processo che segue le fasi, ben determinate nel breve periodo, del darwinismo sociale. Con tale processo si opera una uscita dalle società comuniste, dominate dall’utopia di una società politica, rigida nel tempo e nella cultura dei valori, per assumere forme molteplici di società civili.

10

CAPITOLO PRIMO

L'A SOCIOLOGIA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI

1. Introduzione: la natura della sociologia delle relazioni internazionali

La sociologia, calata nelle relazioni internazionali, rappresenta uno strumento analitico per comprendere e spiegare la capacità dei gruppi e degli attori sociali organizzati e localizzati in una società-stato (un paese), di attivare delle

relazioni con altri gruppi e attori sociali organizzati, localizzati in altri paesi. Da tale generica definizione [per un sistema di definizioni delle relazioni internazionali e transnazionali cfr. Puscas 2009] emerge che questi attori non sono espressi dalla struttura dello stato, ma al contrario vengono espressi da entità create dalla popolazione, dalla gente. E tuttavia questa popolazione e questa gente non è espressa tanto

dall’individuo quanto piuttosto da un’entità complessa, razionale e organizzata che è messa in atto e in moto dall’individuo o dagli individui, ed eventualmente dalle loro famiglie.

La conseguenza del soffermarsi a studiare, analizzare ed enfatizzare l'interesse per il micro è che il macro del paese-stato e delle sue relazioni con gli altri paesi-stati resta sullo sfondo. Certamente, questo macro è molto importante, perché conserva il potere di fissare regole o addirittura di fagocitare le capacità internazionali del micro, ma non vi è dubbio che lo studio

del micro porta a scoprire e a elaborare il ruolo che questo micro-organizzato, sviluppato dalla gente per tutto il mondo, svolge al di là delle entità nazionali entro le quali sono localizzate le sedi centrali di questo medesimo micro. Tutto ciò possiamo dirlo in altri termini. Cioè nelle società che hanno caratteristiche moderne e soprattutto postmoderne appare che: 1) gli individui, o se vogliamo i cittadini, hanno la capacità di produrre delle entità organizzate micro, fondate su riLI

sorse, tecnologie e razionalità orientate a realizzare obiettivi complessi che difficilmente il singolo individuo potrebbe o saprebbe realizzare da solo; 2) queste entità organizzate micro hanno sede legale in una società specifica, ma poi sono capaci di elaborare progetti, prodotti e azioni che possono essere utili per soggetti di altre società, con ciò mettendo in atto un sistema di relazioni internazionali, 0, se vogliamo, come dicono certi autori,

transnazionali;

3) le due o più società devono essere compatibili con tali relazioni, e cioè devono condividere valori, idee, beni e

stili di vita, vissuti e valorizzati per analogia da tali società. E evidente che queste relazioni internazionali tra entità micro e tra entità macro e micro, per esistere e per operare in

maniera matura, hannò bisogno di alcune condizioni di base. La prima condizione consiste nel fatto che la società deve riconoscere una capacità legittima e originale all’individuo di creare un’organizzazione, indipendentemente dalla sua lingua, dall’etnia, dalla religione, dalla comunità cui appartiene. Certamente queste identità non devono avere dei confini tanto rigidi da impedire all'individuo di uscire da essa per realizzare tale organizzazione, per raggiungere gli obiettivi di questa, e poi per rientrare, quando si vuole, nell'identità etnica, comunitaria o altro. Ciò capita quando la società è fondata su molte organizzazioni monofunzionali. La seconda condizione è basata sul fatto che la comunità, la società o lo stato nazione rinunciano alla identità tota-

litaria richiesta alla sua popolazione/cittadinanza, in cambio di un coinvolgimento costruttivo e attivo degli individui nella vita della comunità e della società. Ciò significa che la società fa della partecipazione di tutti (democrazia) il punto fondante della sua stessa vita. La terza condizione, speculare alla seconda e che si configura anche come conseguenza, è che viene a sgretolarsi il concetto originario e la natura di comunità e di piccola comunità, poiché tali comunità, la loro natura, la loro strut-

tura e le relazioni che le contrassegnano, dipendono dagli individui che le formano. Così le comunità diventano molteplici, nascono e si modificano, i loro confini non si so12

vrappongono, e al centro di tutte si trovano gli individui, che sviluppano multi-appartenenze mobili. Tutto ciò porta a riconcettualizzare la comunità in nuove comunità. Un processo simile appare per lo stato-nazione, che tende a riformulare i confini, le appartenenze, i contenuti. Infatti, le «entità organizzative micro» hanno pur’esse la capacità di sviluppare relazioni internazionali, e di «aggredire» di conseguenza dei monopoli solidificati dalla comunità e dallo stato-nazione, ed anzi queste due entità macro molto spesso si mettono al servizio di tali entità micro. Naturalmente non è che le entità macro scompaiono, ed anzi sono delle specie di «residui» che ridiventano centrali in alcuni momenti delicati: il recente riaffiorare delle contrapposizioni etniche nella ex-Jugoslavia lo dimostra, ma lo dimostra anche il riemergere degli «interessi» nazionali per effetto della crisi economico-finanziaria. La quarta condizione perché si sviluppino e diventino «normali» le relazioni internazionali è l’istituzionalizzazione per tutte le società dell'immagine positiva del forestiero, basata sull’atteggiamento dell’empatia: il forestiero, cioè, è portatore di positività, di novità utili, di risorse per lo sviluppo del sistema sociale e per l’indispensabilità di esse. È una condizione che implica una interpretazione razionale dell’altro, e soprattutto delle «entità organizzative micro» che vengono dall'esterno. Una quinta condizione è che tali «entità organizzative micro» devono volere, devono esser abituate e capaci di trattare con l’esterno dello stato, della società, della comunità.

Ciò implica, da parte di queste entità micro, che esse vivano di una spinta verso l'esterno, secondo i criteri dell’universalismo, del cosmopolitismo e quindi della globalizzazione. Una sottocondizione, che possiamo considerare come sesto elemento necessario, è che vi siano per tutti questi stati, nazioni, società, almeno alcuni settori, ‘che condividano gli stessi valori della modernizzazione, delle modernità, della modernizzazione della modernità [Beck, Giddens e Lash

1999], e quindi che condividano gli stessi modi di risolvere i problemi e i bisogni, la razionalità delle organizzazioni, il cosmopolitismo, la percezione di ciò che unisce se stessi e le 13

proprie organizzazioni a coloro che vivono in altre società, vicine o lontane. Come vedremo più avanti, perchési abbia una relazione internazionale non è necessario che tutta la società o tutta la nazione condivida questa globalizzazione di valori e di interessi, ma è essenziale che la società o la nazione

condivida almeno una piccola parte di tali valori e interessi. Ciò che abbiamo fin qui richiamato rappresenta il nucleo della sociologia delle relazioni internazionali, in quanto con essa si viene a descrivere, spiegare, prevedere e controllare le relazioni tra organizzazioni sociali (a orientamento economico, politico, sociale, culturale), o se vogliamo tra i

gruppi sociali organizzati ma che emergono dal basso (banalmente diremmo boztorz-up) e poi diffondono e realizzano i propri interessi per il mondo. Queste organizzazioni sociali le abbiamo finora chiamate «entità organizzative micro», ma d’ora in poi le definiamo come unità della società civile globale [Finnemore 1996]. Il discorso sulle relazioni internazionali delle società civili naturalmente è molto complesso. Tale complessità dovremo trattarla in alcuni aspetti essenziali, che riguardano la definizione a fini internazionali della società civile, il rapporto con la società politica e il mutamento degli equilibri tra società politica e società civile (transizione), il rapporto tra società civili a seconda del livello di modernizzazione degli stati-nazioni, a seconda del tipo di organizzazioni (struttura, cultura, obiettivi, ecc.), a seconda della lontananza o della contiguità (confine) e infine

il rapporto tra società civile e forma dello stato, globalizzazione e polisemica della pace. Tutto ciò lo richiamiamo brevemente in questo capitolo, e lo osserviamo nel contesto della realtà concreta del

mondo e dell'Europa.

2. La società civile per le relazioni internazionali Le «entità organizzative micro» hanno caratteristiche

ben precise: sono generate dagli individui secondo criteri standard e questi aspetti standard sono di carattere orga14

nizzativo. Tali entità realizzano degli obiettivi che difficilmente il singolo individuo riesce a realizzare da solo. Esse possono essere attivate da qualunque individuo e/o da molti individui e allargano la gestione del pubblico operata dalle élite un tempo ristrette. Esse si configurano come una realtà semi-pubblica, compresa tra l'individuo, la sua famiglia e il «pubblico totale» del politico e dell’ordine globale della comunità-società. Inoltre tali entità sono molto dinamiche per funzione, durata e dimensione; rappresentano uno strumento attraverso il quale si realizza la partecipazione del singolo alla cosa pubblica e una via all’universalismo, in quanto i loro obiettivi sono raggiunti con le logiche delle organizzazioni: diventano il modo di rifondare una nuova società sulla base del coinvolgimento di tutti gli individui della società stessa, con un conseguente controllo dell’ordine politico dello stato, che noi chiamiamo società politica. L’insieme delle «entità organizzative micro», con i caratteri delle organizzazioni, delle relazioni standard e della specificità delle funzioni, possiamo indicarlo con il termine di società civile, la quale in qualche modo contrapponiamo alla società politica (Hegel), e che ha la possibilità di creare delle relazioni internazionali, configurandosi in tal modo come società civile globale. Le definizioni di società civile sono molteplici [cfr. Magatti 1997; Cesareo 2003; Anheier 2004; Evans e Newnhan 1998; ecc.], ma a noi interessa sottolineare quali sono i tipi

di attori che la compongono, e soprattutto quali sono i suoi caratteri fondativi; con ciò volendo sottolineare che la so-

cietà civile è quel mondo organizzato che è messo in piedi, controllato e gestito dall’individuo o dagli individui associati. Gli individui organizzati possono creare (e operare la partecipazione sociale attraverso le) associazioni e organizzazioni, chiamate spesso Ong, cooperative, imprese piccole e medie, per il profitto e il non profitto, ecc. Tali entità organizzate, direttamente o indirettamente, realizzano un obiettivo sociale, e si configurano come quelle «COmmunity decision organizations» (CDO’s) che Warren [1967, 400], ma anche Banfield [1961, 326-327] indica-

vano come orientate a svolgere funzioni della comunità, e 15

che noi possiamo allargare all’intera società e all’arena internazionale. Ai nostri fini è particolarmente adeguata la definizione strutturale e consequenziale che Giner [1981, 104-112] dà della società civile. Giner infatti individua nell’individualismo, nella privacy e nel mercato le componenti strutturali della definizione di società civile, alla quale possiamo aggiungere la logica dell’organizzare. La sua fonte ontologica sta nell’individuo, come punto originario da cui emana ogni attore della società civile. Tale punto originario si espande poi in un’area di autonomia (la privacy) lungo le cui coordinate l'individuo esprime la libertà di azione. E una sfera di autonomia che può essere effettivamente realizzata se è organizzata secondo un orientamento razionale al raggiungimento dello scopo. Infine, dato che ad ogni individuo sono riconosciute la libertà di agire, un’area in cui esprimere tale libertà e una sfera organizzativa per realizzarla, è evidente che le tante sfere di privacy si confrontano tra loro, e da tale confronto sorge un continuo equilibrio, che ha forti caratteri di instabilità, nel tempo e per la sua estensione. Giner indica queste dinamiche come mercato. A tale struttura dell’attore della società civile e dell'equilibrio instabile, derivato dalle relazioni con gli altri attori, Giner fa seguire due conseguenze. La prima è rappresentata dal pluralismo delle originalità, dato che ogni individuo può essere depositario di una originalità, cui consegue un relativismo nei carismi di cui sono portatori i tanti attori della società civile. La seconda conseguenza riguarda la riformulazione delle classi sociali, e soprattutto dei rapporti tra esse. Se nella società tradizionale la rigidità tra le classi sociali è molto forte, ed è sanzionata dalla storia familiare di ogni individuo (tale il padre, tale il figlio), ora, nella società civile della

modernità, l’individuo tenterà di posizionarsi (coscientemente o no e provvisoriamente) nella classe che riesce o non riesce raggiungere.

16

3. La complessità della società civile soprattutto quando entra in relazione con altre società civili

Molte sono le variabili che connotano e distinguono la società civile: anzitutto il suo rapporto con la società politica, poi il rapporto della società civile operante in uno stato con società civili esistenti in un altro o in altri stati, poi ancora la società civile della società tradizionale e quella della società moderna e i rapporti internazionali che ne seguono tra le due società. A queste variabili si aggiungono da una parte la natura delle organizzazioni che stanno alla base della società civile, dall’altra le relazioni tra società civili a

seconda che riguardino le regioni contigue transfrontaliere, i singoli stati relazionati o il sistema globale formato dalle relazioni tra le molteplici società civili mondiali. Tale complessità. cercheremo di affrontare in seguito attraverso specifici capitoli che la esaminano da punti di vista molto differenti. Qui ora, nel delineare le linee principali della sociologia delle relazioni internazionali, non possiamo che richiamarle molto succintamente. 3.1. Società civile, società politica e la transizione Già abbiamo richiamato come società civile e società politica rappresentino una realtà binaria che dovrà essere in equilibrio, ma con un equilibrio in cui la società politica dà ‘ legittimazione, dominio e sicurezza di ordine alla società civile, mentre la società civile assicura un coinvolgimento della popolazione, dà legittimazione al potere centrale, permette la partecipazione sociale e quindi l’integrazione sociale, offre condivisione delle innovazioni politiche, econo-

miche e sociali e al tempo stesso elabora tecnologie che producono innovazione e creatività per l’intéra società. Se questi sono i contenuti generici delle due società e delle funzioni dell’equilibrio che esprimono, nella realtà vi sono tanti equilibri o squilibri tra le due società: storicamente abbiamo avuto due modelli di rapporti di società politica e società civile. 17

Il primo modello è di matrice illuministica, ed è stato alla base anche delle dittature comuniste, naziste, fasciste,

in cui in fondo della società civile non vi era bisogno, se non per educarla e istruirla ai valori portati dalla società politica, che addirittura ha inventato un’entità carismatica che interpreta la felicità ultima e le vie per realizzarla (in generale con una rivoluzione) [cfr. A. Gasparini 2003b]. In questo contesto la società politica appare esorbitante per tutte le sfere, pubblica e privata, e di conseguenza la società civile è molto debole se non inesistente [cfr. A. Gasparini e Yadov 1995]: la più lunga esperienza di tutto ciò è stata rappresentata dall’Unione Sovietica, che ha percorso tutti gli stadi della sua affermazione attraverso il terrore, il consolida-

mento, lo svuotamento e quindi l’implosione. E tale implosione è stata dominata dalla privatizzazione e dal mercato, cioè dalla necessità di affermare una potente società civile. Tuttavia, il passaggio tra dominio assoluto della società politica e «dominio dominante» della società civile, è stato pur’esso molto lungo in quanto tra l'annullamento delle regole passate della società politica e la sperimentazione di quelle nuove della società civile è passato un periodo lungo e turbolento, attraverso un darwinismo sociale in cui i nuovi attori della società civile si presentano come pirati o robbers, portando alla fine a un’affermazione di organizzazioni rette da capitani. AI polo opposto, che possiamo esemplificare negli Stati Uniti, abbiamo fin dalla nascita dello stato un’affermazione

e una preminenza della società civile sulla società politica. In tale contesto la società politica è vista come una sorta di indebita intrusione, come si è visto al tempo di Franklin Delano Roosevelt nello studio di Selznick [1949; trad. it.

1974] sulla Tennessee Valley Authority, anche se poi alla fine sembra che essa, la società politica, giochi un ruolo fon-

damentale quando il privato della società civile non riesce ad impedire la necessità dell'intervento della società politica (di Barak Obama), come appare in questo momento economico negli Stati Uniti e nel mondo. In mezzo a questi due estremi di equilibri (o se vogliamo di squilibri) tra società civile e società politica, stanno tutte le società moderne del Nord del mondo. E d’altra 18

parte osserviamo che, nel processo dinamico dei rapporti tra le due società, un ruolo molto forte lo gioca il contesto internazionale, con l’offerta di modelli di soluzioni, con le

spinte all’uniformità della globalizzazione, con le organizzazioni internazionali che favoriscono l’affermazione di organizzazioni medio-piccole fondate sulla produttività o scoraggiano il potere indiscriminato dei grandi poteri delle banche o delle istituzioni finanziarie. 3.2. Le relazioni internazionali tra le società civili, ovvero la

società civile globale Il tema centrale della nostra analisi si colloca nel punto di incrocio delle azioni degli attori di una società civile con quelle degli attori di altre società civili. Ciò significa che questi attori fanno rientrare nell’area della loro privacy la capacità di espandersi oltre la propria società civile, e dunque non ne vengono ostacolati; anzi, possono esprimere in queste re-

lazioni le loro capacità di creare qualcosa di nuovo. In tal modo simili attori vanno oltre la nazione di appartenenza e naturalmente oltre la propria comunità. La condizione essenziale di tale relazione è che simili attori «ragionino» e «operino» secondo le medesime categorie comunicative e organizzative. Di conseguenza le aziende dovranno seguire i medesimi moduli semantici della produzione, del commercio e dell’organizzazione. Lo stesso si può dire per le Ong, sia internazionali di un paese, sia nazionali di quello di accoglienza. Tale condizione implica perciò che in ambedue i paesi vi siano organizzazioni che perseguono gli stessi obiettivi e «capiscano» il linguaggio, e quindi abbiano un orientamento espressivo nell’andare o nel ricevere. In caso contrario non vi sarebbero rapporti tra le società civili, poiché da una parte (e cioè con un paese) avremmo attori di una società

civile volti all'espansione, mentre nell’altro paese avremmo una società civile formata da istituzioni locali e localistiche,

tutte introverse verso le comunità locali e l’area nazionale. Ciò capita quando vengono a contatto, od anche non vengono a contatto, una società civile moderna e una società 19

civile tradizionale. In realtà anche in quest’ultimo caso la globalizzazione spinge all’apertura la società civile tradizionale, ma ciò avviene per quegli attori che «manipolano» obiettivi e prodotti della globalizzazione e non per quegli attori ancora orientati ai bisogni della comunità locale. Così avviene che dalla parte della società moderna tutta la società civile è aperta all’esterno del paese, mentre nella parte della società tradizionale solo una frazione della società civile è aperta all’esterno, con la conseguenza che semmai prevalgono in questa sezione della società le istituzioni della società politica. In sintesi possiamo schematizzare nel modo seguente il sistema di relazioni tra società civili:

Società civile matura Stato À

Società civile matura Stato B

Società civile non matura Stato C

Società civile molto matura

Stato D

©«—-—_—___—_-»

———————_——y yT n —* CASES

cocente

sla ai

Stan

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SESSO

ai

P

b

b

FIG. 1. Tipi e processi di cambiamento delle società civili.

Come si vede, gli attori dialogano in equilibrio quando le società civili sono mature (A e B); vi è una certa dipendenza della società civile dello stato C dalla società civile dello stato A o B; si dà una episodica relazione tra le società civili dello stato A o Bo C e la società civile dello stato D, oppure vi è una forte dipendenza fra pochi attori delle società civili degli stati A o Bo Cela società civile dello stato D.

20

3.3. Una prima variabile che complica le relazioni internazionali tra le società civili: società tradizionale, società moderna

Già abbiamo considerato che i processi di modernizzazione e le modernità hanno profondamente trasformato la società civile. La modernità, in generale, implica alcuni mutamenti fondamentali. Anzitutto le istituzioni tradizionali diventano sempre meno coese. La prima a cedere in coesione è la comunità

locale, sia perché aumentano i membri periferici e non integrati alla comunità, in quanto appartengono a più di una comunità, sia perché si formano al posto dell’unica comunità tante comunità con funzioni e confini differenti con ciò producendo una pluralità di appartenenze, sia perché l’individuo «pretende» una propria specificità originaria, con altrettanti «diritti umani» originari. La comunità perde di rilevanza, così come perde di rilevanza l’appartenenza alla nazione-stato man mano che si produce un processo di modernizzazione della stessa modernità. In secondo luogo nella società si produce uno spostamento nella rilevanza e nella gerarchia degli attori sociali, politici, economici. I nuovi attori preponderanti fanno riferimento alla società civile, e in particolare all’individuo e alle organizzazioni che esso è capace di attivare. Naturalmente ciò implica anche una ristrutturazione delle ideologie prevalenti, e più in particolare la formazione di una ideologia maggiormente fondata sull’autorealizzazione (indivi ‘ duale) piuttosto che sull’uguaglianza (comunitaria) [A. Ga| sparini 2000, 29-42], e anche basata sull’attribuzione della

responsabilità della propria vita più alle monadi individuali che all’assetto globale della comunità e della nazione [cfr. A. Gasparini 1987; Benvenuti 1973]. In terzo luogo la secolarizzazione [Germani 1971], implicata nelle molteplici forme di modernità, significa che diventano poco rilevanti per l’integrazione della società e l’autorealizzazione dell’individuo le differenze religiose, di razza, di etnie, e ciò porta alla ricostruzione del mondo e dell’ideologia per leggerlo e interpretarlo. Ciò, in termini globali, significa che lo stato e la società si fanno sempre 21

più laici, e di conseguenza ciò che effettivamente diventa importante è la capacità di ogni attore di essere razionalmente efficace e di realizzare i propri obiettivi. In quarto luogo gli stili per affrontare le sfide e i conflitti della vita quotidiana nel mondo moderno sono connessi pià a valori intermedi che non a valori ultimi LA. Gasparini 2008a]. Cioè i valori che orientano l’azione sociale sono razionalizzati a un obiettivo che è contingente e che si inserisce in una sequenza di obiettivi che implicano relazioni a somma

diversa da zero: nessuno vuole «stravincere», ma

tutti vogliono realizzare il massimo dei vantaggi possibili senza annullare completamente i vantaggi di colui con il quale si è in relazione. E ciò viene perseguito perché si sa che una volta successiva, si avrà a che fare con la stessa o

con altre persone. Dunque i valori intermedi sono valori razionalizzati e molto meno emozionalizzati dei valori ultimi,

per i quali le relazioni sono dominate dalla realizzazione totale, dell’obiettivo, in conseguenza della quale, per la logica della somma zero, l’altro attore della relazione perde tutto. Tale logica l'abbiamo recentemente vista all’opera nella guerra balcanica dei primi anni Novanta, per la quale il perseguimento del valore ultimo attivava la forte carica emozionale dell'odio. Tutto ciò indica dunque che la situazione moderna di una società elabora stili di comportamento più collegati a valori intermedi, mentre gli stili in una società tradizionale sono più compatibili con l’applicazione di valori ultimi. In quinto luogo nel gioco tra razionalità e irrazionalità, nella modernità vi è la prevalenza di una razionalità delle causalità singole, cioè legate a quello che è fattibile dall’individuo e dalle organizzazioni più che esserci una razionalità globale e strategica della comunità, della società, dello stato (che è fortemente opinabile). Viene concettualizzata la razio-

nalità del singolo fatto, che è ben visibile e scientificamente definibile, mentre risulta molto meno concettualizzata la ra-

zionalità del globale (dei processi globali) che appare più come uno stato casuale e un prodotto della casualità. E al massimo tale casualità globale può essere interpretata come il prodotto della complessità dei fenomeni politici-socialieconomici globali oppure può essere interpretata come un 22

intreccio di tante causalità (ognuno: organizzazione, stato, o altro, persegue razionalmente specifici obiettivi ottenendo come conseguenza una profonda distorsione nelle tante razionalità), per il fatto che nessuno (o forse qualche potere troppo forte) riesce a realizzare un proprio obiettivo nel medio-lungo periodo. In sesto luogo un effetto della scienza e della razionalità moderne è il raggiungimento degli obiettivi attraverso le invenzioni tecnologiche, le quali ridimensionano la soluzione dei bisogni, offrono nuove possibilità, fanno emergere nuovi bisogni. Anzi, all’inizio possono essere percepite, queste invenzioni tecnologiche, come invasione nei modi di vivere la vita quotidiana, e poi sono controllate e integrate nelle soluzioni dei bisogni. L’automobile, l'aereo, la medicina, la farmacologia, l’informatica, la robotica, la riduzione dell’ingombro delle macchine, internet, il cellulare sono al-

cuni dei tanti strumenti tecnologici che hanno radicalmente cambiato la concezione e l’uso della comunità, gli stili di vita, la partecipazione, la possibilità di essere onnipresenti, i valori della vita, le percezioni di potenza sulla propria vita, il senso del tempo in cui si è inseriti (tutto si conclude nel tempo personale oppure si è inseriti nel tempo storico). A tutti questi caratteri della modernità e della modernizzazione, vi è da aggiungere che: 1) vi sono tanti tipi di modernità; 2) vi sono tanti rapporti tra settori moderni e settori tradizionali di una medesima società (aspetto sircrorzco); 3) vi

sono tanti sviluppi (processi) nel tempo dello stesso stato della modernità: la prima modernità, la post-modernità, la modernizzazione della modernità; 4) così come vi sono mol-

teplici gradienti di tutte le sei caratteristiche sopra richiamate. Possiamo schematizzare tali situazioni di tradizione-modernità nelle situazioni delle società esistenti nel mondo rappresentate nella figura 2. Le sei situazioni indicano una progressiva estensione della parte moderna delle società, e la corrispondente e progressiva riduzione della parte tradizionale nelle società stesse. Inoltre appare che la parte modernaè disponibile a collegarsi e a rendersi aperta alle altre società esterne (E), mentre la parte tradizionale resta avvitata su se stessa,

e quindi le sue relazioni restano interne alla società stessa (0). 25

In queste condizioni le relazioni tra gli attori delle società civili, cuore di studio della sociologia delle relazioni internazionali, assumono connotazioni molto diverse e specifiche. ZE

?E

27E

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Tradizionale Tradizionale

Tradizionale

Tradizionale Modemo

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Post-Moderno

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Società Tradizionale e @ 6] Società Modema

Modetnizzazione della Modemita (MM)

7E = Estemo YO =Intemo

FIG. 2. Tipo di società civili, secondo il tradizionale autoctono e il moderno influenzato dall’esterno.

Anzitutto si vede che, se le relazioni internazionali sono

messe in atto dalle parti moderne di una società, ci rendiamo conto che l’apertura verso l’esterno è molto modesta nelle società tradizionali TT (tradizionali-tradizionali), men-

tre al polo opposto vi è una proiezione molto forte verso l’esterno degli attori delle società

M (moderne) o PM (post-

moderne) o MM (processo di modernizzazione delle società moderne). Possiamo ben osservare ciò dall’elaborazione compiuta da Alberto Gasparini [2002a, 234-266] dei dati di una ricerca Unesco svolta sulle organizzazioni che svolgono nel mondo azioni di pace. La tabella 1 indica come queste azioni di pace, e quindi le relazioni internazionali che pongono in essere tali azioni, vengano soprattutto dai paesi più moderni e siano orientate verso i paesi meno moderni e più tradizionali.

24

A ciò naturalmente bisogna aggiungere che ogni nente è composto da molti paesi, che spesso sono genei in termini di modernità o di tradizionalismo. constatazione ci introduce a un'ulteriore valutazione

contiomoTale delle

relazioni internazionali, attivate sia dalle società civili che

dalle società politiche. Simili relazioni internazionali sono più equilibrate (bidirezionali) tra i paesi che appartengono a una medesima condizione di modernità o di tradizione,

mentre sono più squilibrate (unidirezionali) quando avvengono tra società moderne e società tradizionali. Partendo dalla tipologia di relazione tra imprese multinazionali e stati, elaborata da Merle [1988, 419], ed esten-

dendola alle relazioni fra tutti gli attori delle società civili e politiche, possiamo ottenere il seguente schema, espresso nella figura 3. Situazione di dipendenza assoluta

Stato di origine Sede centrale

Stato di accoglienza -

+-———-

Stato di otigine

——-»Filiale

——-»Filiale

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Govetho

Governo

FiG.3.

Govetno

Tipologia delle relazioni tra imprese multinazionali e stati.

Fonte: Merle [1988, 419].

25

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In questo appare che la dipendenza assoluta è molto elevata tra le società post-moderne e le società profondamente tradizionali [cfr. anche A. Gasparini 2008a]. All’opposto, i rapporti tra attori delle società civili sono più equilibrati quando si svolgono tra società che appartengono alla stessa situazione di modernità-tradizione. 3.4. Una seconda variabile che complica le relazioni internazionali tra le società civili: le organizzazioni

Anche delle organizzazioni abbiamo rilevato la centralità per la definizione della società civile. Ma ora conviene evidenziare la loro importanza nell’orientare le relazioni internazionali, nello standardizzare gli stili di azioni e nell’introdurre dei modi selettivi di risolvere i problemi. L'organizzazione della società moderna ha due caratteristiche che la rendono novità, rispetto a quella società tradizionale. Anzitutto essa, l’organizzazione, è una macchina razionale, sia per la norma che la regge sia per il comportamento che la interpreta, che la rende tendenzialmente universalistica e cosmopolita.

Essa infatti è uguale in tutte le parti in cui arriva e in cui agisce. E quindi essa ha una struttura razionale, ha dei componenti che agiscono razionalmente per raggiungere un certo scopo, utilizza delle tecnologie (meccaniche e comportamentali) tutte indirizzate al raggiungimento del medesimo « scopo. L’obiettivo dell’organizzazione può essere irrazionale e valoriale, ma questo è un altro discorso e di secondaria importanza rispetto alla razionalità del funzionamento. Inoltre le organizzazioni diventano degli operatori sociali, attraverso i quali vengono prese decisioni e vengono perseguiti degli obiettivi. E tutto ciò, razionalità e operatore sociale, trascina il resto della società, ancota tradizionale, verso l'assunzione di comportamenti razionali per realizzare gli obiettivi. In secondo luogo le organizzazioni, sia nella società di partenza sia nella società di arrivo, perseguono un unico obiettivo (o tendenzialmente un unico obiettivo), e ciò è un 2%

fatto diverso da quanto avviene nella famiglia, nella gestio- ne del potere, nella comunità, nella bottega artigiana della società tradizionale. Ciò significa che l’obiettivo globale della propria vita e di quella dei familiari e della comunità viene suddiviso in tanti obiettivi, che sono raggiunti con tecnologie e modalità e risorse diverse le une dalle altre. Tali obiettivi possono confliggere all’inizio, durante e alla fine del processo di formulazione e di realizzazione. Anzi, può capitare che i risultati di tali obiettivi/bisogni non riescano a combinarsi, e finiscono per creare un uomo disintegrato nella sua vita e nella sua concezione del bene e della felicità. Ciò capita ed è stato metabolizzato dalle società e dagli uomini delle società moderne, mentre difficilmente risulta metabolizzato negli uomini delle società tradizionali; dove le organizzazioni delle prime società (quelle moderne) vanno ad operare e ad aprire filiali. Una terza conseguenza che deriva dalle relazioni internazionali delle organizzazioni è rappresentata dal fatto che l’azione di tali organizzazioni enfatizza la competizione, e il suo riferimento e prodotto è una società civile, soprattutto,

frammentata al massimo livello da questa competizione. Resta semmai la società politica a gestire la solidarietà. Naturalmente vi si potranno concretare delle alleanze, che producono coalizioni e/o federazioni, ma queste sono funzionali al raggiungimento di scopi entro un quadro competitivo.

La quarta conseguenza infine è che i gestori della società civile e/o politica sono le organizzazioni come operatori, sia nel punto di partenza che nel punto di arrivo delle società variamente moderne e tradizionali. Ma proprio per questo, anche se l'individuo è stato all’origine dell’organizzazione, l’individuo mantiene le sue relazioni solo all’interno

delle organizzazioni, ma in realtà è dominato dalle regole interne dell’organizzazione stessa; mentre all’esterno delle or-

ganizzazioni le relazioni (nazionali e/o internazionali) vengono svolte dalle organizzazioni, che producono delle reti di relazioni interorganizzative. L'uomo scompare e restano le

organizzazioni, che con le reti interorganizzative producono un contesto, dominato più dalle ragioni delle stesse organizzazioni che non dalle ragioni degli uomini e delle donne. 28

3.5. Una terza variabile che complica le relazioni internazionali: il disordine tra società civile e società politica nelle società moderne e la sua esportazione Chiamiamo disordine sociale e «attentato» alla zorrzalità della società ciò che avviene quando in una società moderna la società civile e la società politica non si equilibrano e non danno luogo a poteri differenti ma a funzioni specifiche e integrate nella normalità della società moderna. Ciò capita quando il processo di modernizzazione di certe società occidentali dà luogo a, o è perseguito da, una società politica che prevarica la società civile, e i suoi attori. E ciò capita quando la società politica utilizza l'ideologia politica per svuotare di vitalità autonoma e di legittimità la società civile. L'ideologia social-comunista ma anche quella fascista e nazista sono penetrate nella società civile, l’hanno orientata per realizzare un’utopia illuminista, e tutto è successo per-

ché queste ideologie non hanno bisogno della società civile, ma hanno piuttosto bisogno della sua educazione affinché impari i messaggi dell’ideologia stessa e quindi realizzi la società perfetta. Gli attori della società civile in questo contesto possono configurarsi come cinghie di trasmissione del potere, dell’utopia, della «saggezza» implicata nell’ideologia. In questa situazione si produce un disordine tra le due società, in quanto si innesca un processo di fagocitamento della società civile nella società politica. E tale disordine si ‘ trova inserito progressivamente in un processo moltiplicatore del disordine stesso, man mano che l’ideologia da cui deriva viene assunta come criterio di esportazione del processo di modernizzazione nei paesi tradizionali. Ciò si è verificato soprattutto laddove l'ideologia comunista e le sue strutture societarie sono state assunte nel mondo come modelli di modernizzazione in molti paesi dell'Asia e dell’ Afri-

ca ma anche dell'America Latina, e primo fra tutti Cuba, e si trovano a introdurre il tipo di democrazia popolare di stampo sovietico.

: Il disordine tra società politica e società civile capita tuttavia anche quando lo squilibrio è provocato dalle resi20)

stenze di settori tradizionali della società civile a moderniz- : zarsi in un contesto in cui la società politica è impostata su modelli moderni, o almeno cerca di modernizzarsi, anche

se gli stessi modelli sono interpretati secondo canoni tradizionali [cfr. A. Gasparini 1996]. Le conseguenze sono che la società civile è dominata da élite faziose, da stati nello stato, da poteri nella società

civile che controllano parti del territorio e perseguono i propri interessi, da organizzazioni criminali in cui vi è il radicamento su valori tradizionali perseguiti con tecnologie «iper-moderne». Una conseguenza di questa situazione è il disordine che configura l’intera società e l’intero stato come failed state. Esempi possiamo osservarli anche in Europa, con la presenza di stati molto deboli e società civili con regole moderne in balia di attori della stessa società civile che si configurano come mafie che vanno dall'Italia, passano in molti paesi balcanici, poi proseguono la loro marcia verso la Romania e la Moldova/Transnistria, e quindi vanno verso i piccoli e micro stati (anche solo aspiranti) della Crimea, dellAbcazia, dell’Ossezia, della Cecenia, della Georgia, ecc. E

tale crimine organizzato ha propri riti, miti, simbologie, e soprattutto interessi che passano per il contrabbando di armi, di droga, di merci, e lo sfruttamento di prostituzione,

human trafficking, immigrati. Anche in questo caso dunque il disordine tra società civile e società politica si trasforma nel predominio di una società civile sulla società politica, anche nella sua corruzione, fortemente connessa a valori tra-

dizionali rivisitati dalle frustrazioni della incapacità di arrivare a una modernità matura e «normale», almeno nell’acce-

zione che finora abbiamo dato al concetto di equilibrio e integrazione tra società civile e società politica. A tutto ciò è da aggiungere che si assiste a esportazione

ed espansione di tale disordine in altri paesi, spesso contigui (il «ventre molle» che va lungo molti paesi delle sponde mediterranee). Dunque si assiste alla formazione di relazioni internazionali di attori delle società civili, volti a formare anche

una «internazionale del malaffare».

30

4. I livelli delle relazioni internazionali formate dalle società civili

Un altro aspetto delle relazioni internazionali formate dalle società civili riguarda il tipo che per molteplici ragioni risulta molto differenziato. Anzitutto per quanto riguarda gli attori che le mettono in atto, per le funzioni che tali relazioni assolvono, per il tipo di contesti in cui tali funzioni si inseriscono e quindi per il tipo di complessità relazionale in cui si inserisce la singola relazione internazionale. In particolare tali contesti sono differenti per le relazioni internazionali messe in atto: 1) tra etnie autoctone, minoranze e

maggioranze, sudditanze e dominanze; 2) tra immigrati nei confronti delle autorità e delle comunità locali di arrivo e di partenza, ed anche i percorsi e le loro modalità di passaggio dalla partenza all’arrivo; 3) tra le opinioni pubbliche interstatali, inter-societarie, inter-sociali, inter-culturali attivate

dai mass media; 4) tra gli scambi di mercato (domanda ed offerta) delle imprese economiche e delle associazioni; 5)

tra i modi di elaborare lo scambio delle modalità di sviluppo economico, sociale, culturale, attuato in gran parte tra Ong. Come si vede, al di là dei contenuti specifici della relazione, ognuna di esse si muove in uno specifico contesto variegato e complesso. AI di là di tale enunciazione, e non avendo la possibilità di approfondire ognuno di simili tipi, conviene spostare l’ottica su un contesto che forse ha maggiore influenza qualita‘ tiva sul tipo di relazioni internazionali attivate. Tale maggiore influenza qualitativa possiamo definirla sulla base del livello spaziale di svolgimento della stessa relazione. Tre sono i livelli che a nostro avviso hanno un maggior peso qualitativo sulla relazione: la contiguità spaziale, la dualità, la globalità. Le relazioni che avvengono per ognuno di questi livelli presentano differenze che incidono sulle motivazioni, sul grado di visibilità del contesto locale in cui si opera, sull’efficacia della relazione stessa. Le relazioni internazionali operate nell’ambito della contiguità spaziale si svolgono nel piccolo spazio, nello spazio visibile, nello spazio in cui si possono visibilmente condl

nettere l’intenzione, il processo della relazione, il risultato, .

e quindi il grado di efficacia. Tipiche relazioni di questo livello sono quelle che avvengono nelle aree di confine, e in particolare quelle che si inquadrano in una strategia di cooperazione transfrontaliera.

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= attoti della società civile

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Stati e superstati

Movimenti legali o illegali C._°*

FIG. 6. Mondo

Governo mondiale a macchia di leopardo

con gli attori, le istituzioni, il governo mondiale a macchia di

leopardo.

36

CAPITOLO SECONDO

GLOBALIZZAZIONE, RICONCILIAZIONE E LE CONDIZIONI PER PREVENIRE I CONFLITTI E CONSERVARE LA PACE

1. Globalizzazione e pace Globalizzazione e pace sono i due estremi di un discorso che considera i problemi e i processi che passano tra questi due punti, connettendoli e per certi aspetti individuandone la capacità di causazione reciproca. La globalizzazione, per ben funzionare, ha bisogno della pace, anche se poi uno dei problemi principali è dato dal fatto che vi sono molti modi di intendere e di proporre la pace, e questa diversità di intendere può costituire la base di conflitti. Ulteriori complicazioni ed elementi intermedi sono costituiti in primo luogo dai modi di realizzarsi della globalizzazione (nella sua lunga storia), in secondo luogo dai modi di intendere il governo mondiale come stato o come società civile ordinante le società e in terzo luogo dai modi di rendere omogenee le società del mondo attraverso processi della comunicazione culturale del cosmopolitismo e della diminuzione (se non a volte l'annullamento) dei con-

trasti sociali, politici e ideologici favoriti dalla riconciliazione. Nel presente capitolo vogliamo toccare questi aspetti e farli ruotare intorno all’asse globalizzazione-pace.

2. A propostto di globalizzazione Il concetto di globalizzazione si sovrappone, in parte più o meno estesa, ad altri concetti quali: cosmopolitismo, società globale, localismo, macro-infrastrutture, ampi spazi, macro-rete, ordine diffuso, incrocio di reti monofunzionali (organizzazioni, commercio,

potere, culture, ecc.), preva-

lenza di confini funzionali su quelli politici, ecc. SI

Non abbiamo lo spazio per approfondire adeguatamente ognuno di questi concetti e la parte di sovrapposizione che li combina fra loro. Possiamo dire semplicemente che per cosmopolitismo [Ferrarotti 2000] intendiamo una comunanza di spazio di comunicazione entro il quale circolano e si diffondono modi di pensare, stili di vivere, approcci ideologizzati ai valori. Il cosmopolitismo è quindi un modo di essere e di sentire della persona, la quale può sentirsi nella propria cultura pur trovandosi in altre culture [cfr. Malita e Gheorghiu 2004]: le élite nel passato e dall'Atlantico agli Urali condividevano gli stessi stili di vita e la stessa lingua, mentre le classi sociali modeste d'Europa, pur fortemente localiste, erano rese cosmopolite dal comune cristianesimo. La condivisione delle macro-infrastrutture, come strade o istituzioni, permetteva la comunicazione tra le popolazioni nell’ambito di un grande spazio. La società globale è uno spazio sociale, anch'esso macro, in cui le interazioni tra le singole società avvengono al livello delle società civili, anche attraverso i singoli segmenti e le relative reti che la compongono (tecnologia, classi sociali, flussi economici, simboli, ecc.) tra i quali quelli statuali sono solo alcuni e neanche i più rilevanti. L'ordine diffuso è una sorta di legalità implicita nelle regole condivise e sostenute dalle forze degli stati più potenti. I confini funzionali sono più linee informali che congiungono reti formate dalle relazioni tra città, tra imprese, tra organizzazioni. Essi non coincidono, quindi,

con i confini politici che perimetrano gli stati nazionali. Come detto, la globalizzazione ha tanti punti in comune con questi concetti ma non si annulla in alcuno di essi, poiché possiamo considerare la globalizzazione [cfr. Evans e Newnham

1998; Martinelli 2001; Ianni 1999; Belohrad-

sky 2002] come un processo attraverso il quale si creano le strutture (le condizioni strutturali) entro le quali si formano e passano gli scambi delle società civili e i poteri svincolati dai singoli stati (organizzazioni internazionali, città, imprese multinazionali, associazioni volontarie, ecc.). Tali strut-

ture assumono configurazioni molto diverse tra loro: le vie di comunicazione, le tecnologie di supporto alla diffusione delle informazioni, i codici condivisi (istruzione, stili di vi38

ta) per diffondere stessi modi di vivere la qualità e la quantità nella vita quotidiana, la diffusione delle organizzazioni monofunzionali come modo per affrontare i problemi e le relazioni, l'attribuzione di poteri (almeno politico-morali) alle organizzazioni internazionali per perequare le sovranità nazionali almeno nelle interpretazioni troppo radicali, la condivisione della volontà e la convinzione cultural-politica che le macro-relazioni possono

ottenere dei vantaggi sia

dalla complementarietà che dalla competizione delle relazioni dei grandi spazi sociali ed economici. Le conseguenze portate da queste strutture della globalizzazione sono di permettere all’individuo e alla società civile di cui è anima di collegarsi da qualsiasi punto del mondo verso qualsiasi altro punto del mondo. È una relazione globale tuttavia, soprattutto a livello culturale, che non espunge il locale, in quanto rende sempre più compatibile il culturale e il religioso locale con la cultura delle relazioni internazionali e globali: la cultura globale è sempre più generale (generica) e non pervasiva degli spazi culturali e religiosi del luogo e del regionale. In altri termini tutto è trasformato in prodotto «franco», la cui diffusione è dovuta (solo, o in gran parte) alla sua capacità di essere strumentale alla comunicazione di globalismi condivisi: la lingua «franca», il modo di produzione «franco», uno strumento di vita «franco» (televisione, computer, cellulare, ecc.), una condivisione della storia e della vita dell’altro «franca» (attraverso il turismo), e così via verso le tante altre cose strumentali «franche». Il resto,

‘ cioè quello che resta dal sentirsi cittadino e fruitore del mondo, è la parte più vera di sé (vera o apparente) che è vissuta e intensamente sentita come più propria, e cioè più locale (a livello di valori, di tradizioni, di parlata vernacolare o locale, di varianti politiche, e così via).

È evidente che una globalizzazione, definita come aspetto strutturale entro il quale si sviluppa ufi insieme di scambi e di relazioni, e al tempo stesso come una realtà «franca» da utilizzare strumentalmente, è tanto più diffusa e globale quanto più: 1) tutte le parti di ogni stato sono riconciliate al suo interno, e cioè tutte le sue parti hanno la stessa possibilità di connettersi e di entrare in relazione con le altre 39

parti degli altri stati; 2) tutte le società locali, nazionali, re--

gionali ridefiniscono i rapporti reciproci per far posto ad un altro tipo di relazioni con la società globale. In tal modo si ha un zzix relazionale fra le tante società, con dei confini molto-aperti, e tutto ciò succede perché tali società sono attivate soprattutto dalle società civili, anche se dietro ad esse vi sono le società politiche degli stati; 3) il governo mondia> le delle società civili e delle grandi organizzazioni [A. Gasparini 1998a] è un prodotto possibile della globalizzazione come descritta, poiché tale governo viene svolto per singoli segmenti e non su tutto come succede per gli stati (e la loro sovranità). La conseguenza è anche che si formano tanti altri centri oltre a quelli statali. Pure il conflitto (o i conflitti) assume connotazioni nuove e differenti, da quelle di quando vi erano gli stati che monopolizzavano il conflitto, la guerra e la pace. La globalizzazione è un processo operativo molto antico, così, come conseguenza, il cosmopolitismo è un atteggiamento delle persone che reagiscono psicologicamente all’appartenenza a uno spazio culturale molto ampio. D'altra parte se il contesto globale (il risultato della globalizzazione) era a

disposizione di tutti (di tutte le classi sociali), nella realtà i cosmopoliti erano solo gli appartenenti alle élite: l’italiano o il francese lo parlavano soprattutto le élite; dall’ Atlantico alle corti imperiali russe le élite cosmopolite comunicavano meglio tra loro che non con i propri contadini localisti. Nonostante ciò però si trattava di una globalizzazione (e di un cosmopolitismo) limitato a grandi aree [cfr. Matvejevic 2004], le quali si organizzavano globalmente al loro interno, ma restavano indipendente l’una dall’altra. C'era al livello più ampio una globalizzazione cristiana, una globalizzazione musulmana, una globalizzazione buddista-induista, una globalizzazione confuciano-buddista, divise da pro-

fonde fratture e connesse da commercianti che scambiavano beni destinati alle élite. In queste condizioni lo spazio degli imperi costituiva un’area molto favorevole alla globalizzazione, entro il quale le strade, la complementarietà produttiva, le regole comuni rappresentavano dei potenti generatori di globalizzazione. 40

Quest'ultima, però, incontra ostacoli nei, e viene per molto tempo frenata dai, confini delle sovranità delle nazioni-stato che esprimevano l’ambivalente esigenza di mantenere chiuso il proprio sistema e al tempo stesso aprirlo in alcuni punti regolati agli stati vicini. È da questa realtà, fondata su ambivalenze e su fratture che corrono lungo i confini di imperi e più ancora tra gli stati nazionali, che riprende consistenza la globalizzazione, la quale riprende un processo mondiale, e, sotto la spinta delle nuove tecnologie, configura forme economiche sociali, culturali e politiche. In tali condizioni di globalizzazione anche idee di governo mondiale, con il coinvolgimento di molti paesi in attori universali quali sono le organizzazioni internazionali, assumono un significato realistico, poiché si tratta di un governo mondiale in cui le società politiche sono sempre più condeterminate dalle società civili. Tale lungo processo lo facciamo partire dalla pace di Westfalia (1648) per osservare le complicazioni che portano all’affermarsi di una globalizzazione meccanica e poi a una globalizzazione organica, con una spinta propulsiva rappresentata dalla riconciliazione nazionale. Come al solito cerchiamo di considerare gli aspetti significativi dai quali si afferma l’attuale globalizzazione mondiale.

3. Il processo storico dal quale si forma progressivamente la globalizzazione mondiale 3.1. A partire dall'ordine di Westfalia

Le paci che sancirono il termine della guerra dei trent’anni vennero concluse, dopo Muster e Osnabruck, a Westfalia il 24 ottobre 1648. Queste firme riconoscevano stati di fatto, at-

tribuivano un potere assoluto a ogni stato indipendente nell’ambito dello spazio dominato da una dinastia, davano ad ognuno di questi 350 stati (tedeschi) la capacità di contrarre autonomamente alleanze con altri stati; trasferivano in

una sorta di Assemblea delle Nazioni Unite germaniche (e cioè, la Dieta Permanente [Ferraris 2001]) il potere di coor-

41

dinamento esercitato fino ad allora da una dinastia e da un ‘ esercito imperiali. Inoltre, a Westfalia si sanciva che la legittimazione del potere veniva dalla religione, ma quella professata dal monarca e dalla gente della regione (cuius regio eius religio), e l’unica modalità di pluralismo religioso era dato dalla possibilità per i dissidenti di emigrare fuori dallo stato: ciò è abbastanza comprensibile, perché la legittimazione del potere del sovrano veniva da Dio (monarca «per la grazia di Dio»), e la religione dominava e orientava ancora le più intime fibre delle relazioni sociali e della vita quotidiana pubblica e privata di uomo e società. Così, in un 77ix di vecchio e di nuovo, nacque il nuovo ordine di Westfalia [Bonanate 2001a; Negri 1980]. Fu naturalmente un nuovo ordine | che dalla Germania si diffuse per l’intero continente europeo, semmai ce ne fòsse stato bisogno. 3.2. La prima complicazione di Westfalia Una prima complicazione avviene con la modernizzazione portata dalla rivoluzione tecnologica e dalla sua applicazione industriale: 1) nascono nuove classi sociali (anzitutto la borghesia e gli industriali, i tecnocrati, ecc.); 2) na-

scono nuovi attori (sindacati e partiti di massa) che si organizzano contro le classi dominanti; 3) cambia il modo di interpretare la realtà nel segno della secolarizzazione; 4) non esistono più sudditi ma cittadini, i quali sviluppano una lealtà ed un’appartenenza allo stato non più in termini di condivisione di un’unica religione (la quale in qualche modo contraddiceva l’istituzionalizzazione del pluralismo e la complessità degli interessi, delle capacità, dei valori, delle funzioni svolte); 5) il romanticismo fornisce un punto fermo e accomunabile a una religione dello stato imperniata su un unico, ma imprescindibile, valore: la patria come terra dei padri e custode della nazione, se non dell’etnia [Lucchitta 1997]. Si tratta di una nuova «religione» laica che sostituisce quella trascendente, solo per un punto, ma molto forte e indiscutibile. E dunque ammesso un pluralismo in tutti gli aspetti della vita, a cominciare da quello della fede religiosa, 42

ma non per il valore «assoluto» della patria (come elemento di legittimazione/illuminista del potere; in particolare delle rivoluzioni moderne). Anche in questa complicazione di Westfalia, lo stato è il gestore legittimo e assoluto dell’indipendenza dall’esterno e del potere nell’interno; anche se al suo interno i processi richiamati fanno sì che alla decadenza della religione storica, come elemento legittimante il potere stesso, si sostituisca in generale la religione laica della patria, con possibilità di affermazione di ideologie enfatizzanti all’estremo alcune idee molto forti, quali la nazione (fascismo e nazismo) e la classe sociale (comunismo), le quali si pongono come elementi carismatici rifondativi dello stato. In tale contesto, la globalizzazione degli stati avviene secondo linee meccaniche, in cui è possibile osservare la standardizzazione dei modelli statuali per analogia e per comparazione. Tuttavia proprio questa globalizzazione meccanica, realizzata da stati indipendenti ma che si comprendono perché costruiti su analoghi criteri, fa sì che questi medesimi stati si facciano portatori, difendano ed affermino vigorosamente il proprio localismo. Inoltre, la globalizzazione di questi stati avviene solo per alcuni segmenti sociali: globalizzate sono direttamente le élite, e, ideologicamente, le classi operaie; mentre assolutamente localistiche sono ancora le masse rurali. È chiaro poi che la fonte della globalizzazione è differente a seconda del dominatore culturale e politico della scena mondiale di turno: spagnolo, francese, austria‘ co, inglese, ecc. Si tratta di una globalizzazione che, come detto, avviene in maniera meccanica a livello di stati, e in

maniera organica (per interconnessione dialogante) tra le élite di questi stati; ma soprattutto è una globalizzazione che interessa i rapporti tra gli stati della vecchia Europa, quelli dell'America settentrionale, centrale e latina, certi

stati dell'Asia e qualcuno dell’Africa, perché, nelle restanti parti del mondo, non vi sono ancora degli stati, e il rapporto è quello diretto della colonia, e cioè quello esistente tra un centro e una, più o meno lontana, periferia nell’ambito di un medesimo stato. 43

33. La seconda complicazione di Westfalia

La seconda complicazione di Westfalia è quella che ha percorso gran parte del XX secolo, ma che dopo la caduta del comunismo si presenta in forma ancora più chiara. E una complicazione di Westfalia, e cioè di una sistemazione politica nuova del singolo stato e delle relazioni fra stati, che dà addirittura l’impressione che ci troviamo di fronte a una vera e propria mutazione genetica, per la quale sembra che l’ordine di Westfalia e della sovranità nazionale sia radicalmente tramontato ed al suo interno si siano affermati nuovi ordini, fondati su nuovi criteri. Come si sono modificate le situazioni dopo la prima complicazione di Westfalia, che ormai divengono fondanti della seconda? Di tali situazioni possiamo sottolineare le seguenti: 1) ogni territorio della terra è organizzato in stato, indipendente e organizzato secondo un modello standard: parlamento, governo e i suoi ministeri, magistratura, capo dello stato, ecc.;

2) la sovranità nazionale espressa dallo stato, come indicatore di modalità concrete dell’indipendenza, da assoluta diventa sempre più relativa [A. Gasparini 1998a]. Cioè, lo stato, anche al suo interno, possiede una libertà limitata da alcune regole fondamentali, di cui esso stesso deve auto-dotarsi, e

da altre condizioni che provengono dall’esterno. Le prime regole riguardano il fatto che lo stato non può, per «il sentire comune internazionale», perseguitare individui, gruppi sociali religiosi e culturali e minoranze etniche; le seconde condizioni riguardano il fatto che le nuove tecnologie permettono di «perforare» la sovranità senza che vi siano dei reali blocchi: ciò capita per i messaggi inviati tramite televisione, radio, internet, posta elettronica, ma anche tramite fax, telefoni

cellulari e telefoni fissi [Cooper 2004; Mongardini 2007]; 3) la sovranità nazionale può essere consensualmente ridotta o delegata per effetto di trattati internazionali, nell’ambito di confederazioni, organizzazioni regionali e mondiali; 4) l'individuo, nato nella città medioevale europea che

si forma in alternativa al castello e all'ordine feudal-curtense, è depositario originale di diritti, di fronte ai quali lo stato de-

44

ve fermarsi. La Carta dei diritti dell’uomo originata dalla Rivoluzione francese è ormai una costituzione valida per tutti gli stati [Coccopalmerio 2004]. Essa fa sì che la persona non sia valutata solo in quanto membro di famiglia e di comunità ma anche di per se stessa: ciò significa che l'intervento dello stato sulla famiglia e sulla comunità che lo compongono potrà essere compiuto (naturalmente entro certi limiti codificati) fino a che esso non confligga con i diritti del singolo individuo [Picco 2001a]. E tali diritti sono stati elaborati per secoli dalla cultura e dalla religiosità occidentale; 5) un’altra novità della scena internazionale è rappresentata dalle organizzazioni internazionali [A. Gasparini 2002d]. Esse sono il frutto del sogno «maggiore» del governo mondiale e al tempo stesso del sogno «minore» di sorvegliare che i diritti dei singoli stati (sovranità interna) siano rispettati dai membri del sistema mondiale e che, al tempo stesso, i diritti degli individui e dei gruppi sociali, etnici, culturali (sovranità individuale, per dirla con i termini di Picco) siano rispettati dallo stato. Così le organizzazioni internazionali, governative e non governative, mondiali e re-

gionali, per un verso riescono a organizzare dei governi mondiali 4 tempo (per i tempi di crisi acute) e 4 luogo (nei punti molto caldi della terra), e per un altro verso riescono a penetrare nelle società di tutti gli stati che hanno bisogno di sviluppo, di aiuti umanitari ed economici, di tecnici ed esperti, di formatori per formatori, e così via; 6) le differenze tra gli stati e le società in essi organizzate ‘ sono sempre meno accentuate, e perciò le aree confinarie

[Strassoldo e Delli Zotti 1982; A. Gasparini 1999-2000] diventano luoghi in cui l’intreccio delle diversità, conosciute e accettate, produce delle esperienze di sintesi e di proposte anche per i retrostanti sistemi nazionali; 7) la facilità di trasporti di energia e la realizzazione di tecnologie informatizzate, robotizzate e miniaturizzate permettono di trasferire i processi industriali in qualsiasi parte del pianeta e in qualsiasi stato. In questa situazione, le relazioni internazionali industriali vengono dirette anche e soprattutto dai paesi periferici ai paesi centrali, e insieme a queste relazioni si fanno sempre più intensi gli scambi di 45

servizi, di finanze, di esperti, di formazione. La conseguen- . za primaria di ciò è che l’inter-penetrazione tra gli stati assume una forte accelerazione. Anche solo queste sette novità che abbiamo richiamato (ma ve ne sono molte altre) evidenziano che l'ordine ereditato da Westfalia ancora una volta si è fatto radicalmente diverso e permette di porsi l'interrogativo se potrà avere un futuro uno stato con una sovranità tanto «azzoppata». La

realtà dei singoli stati europei e della stessa Unione Europea, entro la quale essi sono incardinati, sembra offrire una risposta positiva, con l'avvertenza che è necessario semmai

ridefinire i contenuti della sovranità nazionale. 1 A tale ridefinizione non v'è dubbio che contribuiscano due situazioni nuove, o dai volti rinnovati. Esse sono an-

cora la globalizzazione, ma anche la riconciliazione. 3.4. Globalizzazione e riconciliazione nel nuovo

ordine di

Westfalia

L’attuale globalizzazione assume tratti radicalmente diversi dalle precedenti. Ora è organica, poiché nasce non dalla prossimità spaziale e dall’analogia organizzativa degli stati, ma dalla loro inter-penetrazione funzionale: hanno bisogno l’uno dell’altro e quindi alle ragioni dell'economia, dei consumi e degli stili di vita vengono in qualche modo sacrificate le ragioni dell’indipendenza politica. In realtà, tale globalizzazione porta a rotture della bolla che contiene lo stato, le quali con differenti gradienti lo aprono all’esterno e agli altri stati. Vi sono infatti certi stati in cui tutti i segmenti della società si aprono all’esterno (in

genere, le società moderne) e certi stati in cui solo alcuni dei segmenti della società entrano in relazione con l’esterno (in genere, le élite delle società più tradizionali). In secondo luogo, la globalizzazione interessa tutte le classi sociali, e cioè tutti gli individui della società, poiché i mass media anzitutto e poi i viaggi rendono edotti delle altre culture, anche se la conoscenza delle culture degli altri è filtrata dalla propria. Ciò tuttavia fa sì che le informazioni 46

sulla politica estera e sulle culture «non nostre» portino a medesime valutazioni per tutto il mondo. Si produce dunque una globalizzazione generalizzata a tutte le classi per informazioni relative ad alcune nicchie tematiche (lo sport, la politica estera, le valutazioni generali del mondo, ecc.),

mentre per altri segmenti informativi la globalizzazione è diffusa a tutte le classi nelle società moderne e solo alle élite nelle società con ampi spazi di culture tradizionali. Già i due aspetti considerati della nuova globalizzazione indicano la capacità di questa di incidere sulle relazioni internazionali del «post-post Westfalia» [Puscas e Duna 2001], ma non vi è dubbio che fonti di depauperamento dei contenuti della sovranità nazionale e di enfasi sulla solidarietà internazionale/globalizzazione siano rappresentate dalle organizzazioni internazionali e dalla concettualizzazione dei diritti dell’uomo/individuo. Ed in effetti l’esistenza di organizzazioni internazionali e la tutela dell’individuo spingono lo stato-nazione a: 1) limitare la difesa dei propri confini dalle intrusioni dall'esterno per mantenere la propria originalità: il valore massimo ora diventa quello dell’aprirsi e del diffondere valori come lo sviluppo e la tutela dei gruppi minoritari; 2) limitare la propria possibilità di dominare ideologicamente l’individuo, in quanto questi, come detto prima, è titolare di diritti originari, che lo autorizzano a resistere alla troppa invadenza della nazione e delle comunità. Anzi, la stessa co-

munità viene concettualmente stravolta, poiché tra le comunità è inclusa ora quella formata dal sistema di relazioni ‘ a-spaziali e da organizzazioni/associazioni, ed anche le appartenenze comunitarie si configurano come sistema di pluri-appartenenze. Negli stati-nazione della fine della «prima complicazione di Westfalia» appare poi una situazione nuova, che possiamo chiamare riconciliazione [Fiamingo e Pocecco 2001;

Pezzino 2001]: essa è una sorta di condizione per la seconda complicazione di Westfalia ed è anche una sorta di condizione perché si sviluppi un sistema di globalizzazione mondiale connesso a localismi persistenti e ravvivati. . La riconciliazione avviene all’esaurirsi dell’intensità di forti contrapposizioni interne allo stato della «prima com47

plicazione di Westfalia»: tali contrapposizioni sono nate . quindi in uno stato moderno, in cui vi era una società fortemente articolata per interessi radicali. In esso, partiti e sindacati di massa, grandi associazioni si scontravano in nome di valori ultimi e contrapposti. I due schieramenti raccolgono all’inizio una forte tensione e spinta emotiva, necessaria per sostenere la lotta e poi, dopo aver vinto, per costruire la società e lo stato secondo l'ideologia dei vincitori. E chiaro che con il tempo tali tensioni non riescono a mantenere l’intensità e l’efficacia di azione del primo momento: alla fine ciò che è regime totalitario si trasforma in autoritario, e quindi in una voglia di rimettere in moto un nuovo corso della storia dello stato-nazione. Ciò può essere ulteriormente favorito, se anche le condizioni internazionali

vanno in tale direzione. La riconciliazione ha seguito un processo analogo con il salazarismo in Portogallo, il franchismo in Spagna e le dittature in America Latina e in Africa, ma è soprattutto stata accelerata in molti paesi dalla caduta del comunismo. Anche in Italia in qualche modo è successo un processo analogo dopo la caduta del comunismo sovietico: la scomparsa di partiti nati nell'ultimo dopoguerra è l’aspetto più evidente. La riconciliazione è dunque un processo interno allo stato post-moderno che si configura come soglia che separa la «prima» e la «seconda complicazione» di Westfalia: si diffonde la sensazione che le verità perseguite dai padri e dai nonni non abbiano portato a nulla di buono e di nuovo (e quindi «muoiono per sfinimento»), e che una verità ancora migliore è quella di «mischiare le carte» e ricomporre una società di collaborazione tra uomini e gruppi, fondata su valori e obiettivi più alla portata della vita quotidiana e delle possibilità dell'individuo. Riconciliazione come momento in cui non conta (è ininfluente) sapere chi è stato comunista o democristiano, comunista o anti-comunista, khmer rosso o filo-Lon Nol, nero o bianco, fascista o anti-fascista.

Possiamo richiamare ora il problema del rapporto tra globalizzazione e riconciliazione. E indubitabile che tale globalizzazione mondiale sia beneficiaria di una riconciliazione nazionale, in quanto tale riconciliazione rende più omogenei gli attori statali che agi48

scono nelle relazioni internazionali, poiché ne rendono meno rilevante la funzione disgregante di quanto non facciano gli stati soggetti a dittature, le quali escludono dalla vita politica interna e dalla possibilità di relazioni internazionali attori rilevanti della società. D'altra parte vi è anche da aggiungere che vi sono degli elementi della globalizzazione, come le organizzazioni internazionali e la concezione dell'individuo, che spingono alla riconciliazione i singoli stati. Infatti, questi due elementi danno una spinta alla riconciliazione perché: 1) vi deve essere una compatibilità tra l’interno e l’esterno alla nazione; e 2) le organizzazioni internazionali e l’individuo sono degli strumenti che sgretolano delle spinte rivoluzionarie nate forti e ora ormai allo stato di spegnimento della loro tensione interna, in quanto incompatibili con le stesse organizzazioni internazionali e perché non tengono conto dell’originalità dei diritti affermati a difesa dell’individuo. 4. Ripresa del discorso su globalizzazione e pace Fin qui abbiamo definito la globalizzazione come processo di formazione e di estensione di strutture entro le quali si formano e premono gli scambi delle società civili e i poteri svincolati dai singoli stati. In secondo luogo, il risultato di tale processo di comunicazione strutturale è «franco», è cioè dominato dall’utilità e dalla strumentalità: sia es‘ sa la lingua, i valori, le tecnologie, le regole economiche, le

vie che collegano più dei centri che dei luoghi (vedi le autostrade, gli aeroporti, gli autoporti, e così via). Tale 7zercato

globale della strumentalità, come appare la globalizzazione [Martinelli 2001], non può vivere se non esistono le culture; le lingue e le religioni regionali se non locali. Il volto della globalizzazione ha poi assunto nuove conformazioni, a scapito dello stato nazionale e della relativa sovranità, per effetto di tre novità (la riconciliazione, l’individuo, le organizzazioni internazionali) che hanno rappresentato delle spinte a nuove dimensioni ed estensioni della globalizzazione. 49

La riconciliazione è una situazione sociale e politica che . nasce dalla «voglia» di cambiare radicalmente l’ordine socio-politico esistente che divide la struttura sociale tra amici e nemici, di riprogettare le relazioni tra gruppi sociali in termini più complessi di quelli precedenti e quindi di collegare tali relazioni a segmenti della vita vissuta nella quotidianità e infine di uniformare tali relazioni e tali immagini dei gruppi a quelle già operanti nei paesi vicini. L’affermarsi dell'individuo rappresenta un forte attentato alla, e di conseguenza una differenziazione della, appartenenza integrale alla comunità e alla nazione che si fa stato. Ciò significa che tale totalità dell’appartenenza alla comunità/nazione in cui si è nati (e che richiede totale lealtà) in realtà diventa una scelta a disposizione della persona/individuo, che la gestisce come crede. Tuttavia tale appartenenza egli potrà circoscriverla ad alcune sfere di rilevanza pubblica (comunque definite dalla legge) per quanto riguarda lo statonazione, e l'individuo potrà anche elaborare appartenenze a molteplici comunità a confini non sovrapposti (sub-nazionali) o a molteplici entità sovrastatali. Ed anche tutte queste appartenenze sono a intensità differenziata. Come si vede la nascita dell’individuo ha avuto una lunga storia, cominciata con l'affermazione medioevale dell’individuale, e poi con la tutela di esso nelle molteplici Dichiarazioni dei diritti dell’uomo, e nell’incorporamento dell’individuo nei modelli di sviluppo e nella solidarietà internazionale. Le organizzazioni internazionali scuotono il diritto internazionale

[Touzenis 2002], fondato sulla sovranità nazio-

nale, per erodere il potere assoluto dello stato ed attribuirlo a controlli internazionali e a istituzioni al di sopra degli stati, le quali impongono con la forza (quando sono in grado) o con una nuova legittimazione scelte prese al di fuori delle singole sovranità nazionali [Picco e Delli Zotti 1995]. Alla fine di questa azione operata dalla riconciliazione, dall’individuo e dalle organizzazioni internazionali sullo stato-nazione, abbiamo un profondo ridimensionamento di questo, in forza del quale lo stato-nazione si apre, per effetto della formazione della già detta struttura globalizzatrice, alle altre parti del mondo. 50

Ciò tuttavia non rappresenta una garanzia di pace mon-

diale, e meno che meno di scomparsa di conflitti. La ragione più semplice è che la pace e l’assenza di conflitto dovrebbero nascere dal processo continuo delle relazioni tra stati-nazione e soprattutto tra attori delle società civili, omogeneizzate da processi di riconciliazione, dalla concezione dell’individuo, dall'esistenza di organizzazioni internazionali. In altri termini pace e controllo dei conflitti sono prodotti dalle relazioni internazionali tra i differenti attori che abbiamo considerato. Di seguito cerchiamo di considerare il ruolo che gli interessi, i valori di riferimento per le loro soluzioni, la pluralità di modi di concepire la pace possono giocare nelle relazioni internazionali tra stati, e tra attori delle società civili.

5.

Condizioni interne e condizioni internazionali per la pre-

venzione dei conflitti, partendo dal ruolo dei valori ultimi e dei valori intermedi nelle relazioni A questo punto, cioè dopo aver considerato il processo della globalizzazione, vogliamo entrare più in concreto nei meccanismi che generano i conflitti e la cui assenza può

impedire la nascita di essi. Lo faremo sia individuando le ragioni della genesi dei conflitti all’interno di una società-stato, sia nei rapporti tra le società-stato che formano il sistema mondiale. In secondo luogo, dobbiamo tenere conto che non si ‘ pone solo il problema di prevenzre il conflitto, ma anche di mettere in atto dei meccanismi che possano trasforzzare in situazione di pace il conflitto in atto. Le ragioni del conflitto sia interno a una società sia tra società diverse sono, ovviamente, da ricercare negli inte-

ressi contrapposti tra attori (potere di un attore sull’altro, accesso alle risorse scarse, risultato che’sarà a somma zero tra vincitore e vinto), ma ilconflitto stesso è dovuto al r20do di raggiungere i propri obiettivi, e soprattutto alla defini zione dei valori cui sono collegati questi obiettivi. Correlata alla modalità e alla definizione dei valori/obiettivi che possono stare alla base del conflitto è poi la gestiore della vioDI

lenza {A. Gasparini 1998b: Bonanate 1998]. Più analitica- mente, possiamo collegare queste basi del conflitto ai valori che stanno alla base degli obiettivi che si pongono gli attori in relazione agliinteressi contrapposti. Ora, dobbiamo tenere conto che alla base dell’agire ci sono dei valori ultimi/radicali [A. Gasparini 1998b], che se coinvolti nella relazione di contrapposizione, attivano delle energie molto potenti, tipiche di chi affronta la lotta per la vita, di chi cioè pensa che se non vince può morire. Ciò succede quando si pensa che, ad esempio, il valore dell’onore, della famiglia unita, della patria, della libertà, della libera iniziativa possa venire radicalmente compromesso se si cede a qualche comportamento non conforme a questo stesso valore. Questi sono valori perseguiti, a livello sociale e di società, in società tradizionali, o di recente formazione della nazione

o di radicato legame diretto ai valori ultimi. Nella vita quotidiana la connessione tra un valore ultimo e un altro valore ultimo (ad esempio, il valore della libertà e il valore dell’amo-

re per un congiunto) fa sì che si crei un compromesso (il cosiddetto «buonsenso»), poiché le conseguenze della forte violenza implicita nella difesa di un valore ultimo sono mediate dalle esigenze opposte di non procedere alla violenza per un congiunto. Laddove però non vi è la necessità di trovare un equilibrio tra due valori estremi (attraverso il «buonsenso»),

perché il valore ultimo è vissuto senza mediazione con altri valori estremi, si produce una forte spinta alla violenza, con la conseguente costruzione intorno all’altro delle sembianze del non-uomo. È questa la radice dei conflitti, e del trasformarsi di ogni relazione non simmetrica in attentato al valore ultimo, che esige lotta per affermare questo valore estremo, in sO si deve conservare tutto per non perdere tutto. Con la modernizzazione si sono formati e A dei valori intermedi tra i valori estremi e la prassi della vita quotidiana, e si è diffusa la coscienza che non esistono rapporti tra persone, gruppi, classi sociali, stati riconducibili ai valori ultimi. Esistono invece degli interessi differenti e in contrasto [Nebbia 2003], la cui composizione non passa tanto nell’affermazione totale e radicale dei propri interessi sugli interessi degli altri ma, piuttosto, nella negoziazione e D2

nella ricerca di un punto di equilibrio in cui gli interessi di ambedue gli attori in competizione siano sufficientemente soddisfatti. Dunque non esiste l’ottimale ma la sufficiente soddisfazione degli obiettivi. È chiaro quindi che il raggiungimento di questi valori intermedi anzitutto coinvolge solo blandamente i valori ultimi e la violenza che essi implicano è molto più simbolica e subliminale (sublimata) che reale.

Alle due situazioni delineate, corrispondono differenti culture di soluzione dei problemi: 1) la prima è più violenta, in quanto in ogni relazione di competizione si legge la paura di vedere colpita a morte la propria etnia, nazione, famiglia, amor proprio, e così via; 2) la seconda difficilmente sfocia nella violenza ed anzi in essa vi sono delle regole della competizione entro le quali si svolgono i rituali della negoziazione od anche della violenza sublimata (il campanilismo, od altro).

Ci troviamo di fronte a due culture di legame articolato ai valori, che abbiamo visto all’opera in due recenti fatti di secessione di stati: la Jugoslavia e la Cecoslovacchia, ma anche nella violenta guerra entro la ex-Jugoslavia e nei duri rapporti tra serbi e albanesi [Lucchitta 1997]. Agire su questa articolazione di valori, e riferire a differenti livelli (semmai quelli in-

termedi) le azioni e le relazioni degli individui, significa avere compiuto lunghi passi nella prevenzione dei conflitti. Fin qui ci siamo trovati di fronte a un confronto/scontro tra attori con

interessi percepiti come

radicalmente

differenti; la situazione di genesi del conflitto si complica ulteriormente se la realtà indagata è quella internazionale, e ‘ cioè se l’arena è composta di tanti stati, nazioni e società a confronto. Da questo punto di vista anzitutto: 1) il conflitto può essere generato dal fatto che si scontrano due culture della gestione dei valori nell’azione: lo scontro tra cultura basata sui valori ultimi e cultura basata sui valori intermedi spinge anche quest’ultima cultura ad appiattirsi sulla cultura enfatizzante i valori ultimi; 2) ma, in secondo luogo, si ha che lo stesso confronto di concezioni differenti della pace produce conflitto, e di conseguenza anche questo aspetto chiede la diffusione della globalizzazione e della riconciliazione. Tutto ciò possiamo DO

osservare in concreto osservando le fratture tra alcune con- -

cezioni della pace. 5.1. Polisemica della pace Come definire la pace, e come definire i suoi significati? Vi sono molti modi di iniziare il discorso, dando con ciò un

indirizzo allo sviluppo dei significati della pace. C'è chi comincia da una definizione di dizionario andando a pescare i significati attribuiti alla parola. C’è invece chi comincia dai fenomeni sociali, politici, culturali (e noi siamo tra que-

sti), accorgendosi che la pace di un certo momento storico e di un certo spazio del mondo è il punto di congiunzione di tanti modi di intendere, vivere e impostare le proprie azioni. Inoltre, si avverte che tale punto di congiunzione di tante traiettorie è in realtà un punto mobile per le epoche che si sedimentano e per le società che esistono nel mondo. Un tale approccio è più utile a comprendere l’essenza e la mobilità della pace, che di conseguenza si configura come situazione in movimento (processo), come aspirazione, come costruzione, come organizzazione. Vediamo di dipanare tale polisemicità [A. Gasparini 2002c].

5.2. La pace della tradizione, la pace della modernità Le due paci sono radicalmente diverse, poiché i sistemi di valori, e quindi le concezioni del mondo e dei rapporti sociali, sono figurativamente agli antipodi. Li pace della società tradizionale è l’ideale dell’equilibrio stabile, dove tutto è prevedibile e «accettato perfettamente», e del resto la tradizione, dato che ha un tempo molto lungo e sedimentato, ha generato un forte legame e sovrapposizione tra sistema di valori, regole di comportamento conseguenti, lungo tempo di esperienza di queste regole, e quindi consuetudine di aderenza tra i valori tradizionali e i comportamenti connessi. Il risultato è l’incapacità di pensare a un mondo diverso da quello vissuto e a relazioni 54

sociali e interpersonali che possano produrre dei risultati diversi da quelli previsti. Il modello ideale di pace, alla portata di chi gode del favore dei redditi o di una organizzazione articolata e consolidata come la chiesa, è senz'altro la contemplazione, vale a

dire l’immedesimazione massima con la trascendenza o ad ogni modo con l’assolutezza del valore. Il mondo è quindi una «fatalità positiva», nel senso che esso è accettato, perseguito e ritenuto giusto (e legittimo). La pace in questo contesto è un fatto scontato: i ricchi e i

poveri sono così perché è «giusto» che siano così; e di conseguenza tale pace può essere rotta solo da elementi che provengono dall’esterno: per le scorrerie di armate di passaggio, per l'intrusione improvvisa di briganti, per le guerre dei monarchi, e così via. La «non pace» è perciò il prodotto più che altro della guerra o, in casi estremi, delle vessazioni estreme di signori locali. A ciò è da aggiungere che la pace è legata alla comunità, e cioè al piccolo, e al sistema integrato di tradizioni e di valori tradizionali: il mondo è dunque costituito da tante comunità con delle proprie paci, semmai scosse e globalizzate nella violenza dagli eserciti degli stati che sono in guerra. A tutto ciò può anche affiancarsi lo scontro violento tra comunità, contrassegnato dalla violenza del piccolo gruppo [A. Gasparini e Radojkovic 1994]. La pace della modernità, nel nostro ragionare per situazioni forse troppo estreme, è il prodotto di un equilibrio perennemente instabile, poiché è generato da un sistema di - valori e di regole che danno vita ad esso e per il quale il singolo individuo ha alcuni diritti di base oltre che alcune libertà da combinare con le libertà degli altri. E questi diritti sono espressi nella giustizia sociale, e al tempo stesso, nel riconoscimento all'individuo di un diritto alla competizione, e quindi ad affermarsi sugli altri. Certo, questo achievement deve nascere da dati e motivazioni intrinseche alla persona e non dal confronto con gli altri, ma la sostanza, la competizione «obiettiva», non cambia. In tali condizioni il perseguimento dei due valori (giustizia sociale e auto-realizzazione) in contemporanea produce un equilibrio instabile, che chiamiamo pace, e che proprio perché instabile è semDD)

pre possibile perdere: ciò implica una forte tensione a con- : servare sempre questo equilibrio, ma in una posizione che produca soddisfazione per il perseguimento contemporaneo di giustizia sociale e auto-realizzazione. La società modernoindustriale ha vissuto tanti momenti di «non pace», intesa in questo caso come conflitto sociale o anche etnico-nazionale: la lotta di classe, la contrapposizione di interessi, i contrasti etnici sono stati spesso i momenti significativi di tali conflitti che hanno prodotto spesso la ricerca di soluzione degli stessi conflitti. La guerra, come violenza organizzata, è più tipica del grande gruppo, e cioè dello stato-nazione (attuata dall’esercito, in primo luogo), che coinvolge le tante comunità che ormai non sono più tradizionali e non sono più chiuse, ma, se tale guerra è più rara rispetto ai tempi precedenti, essa diventa potentemente più distruttiva per i soldati e per i civili. Nella società moderna, dunque, la pace è un punto instabile, perché è sempre messo in discussione nel momento successivo a quello in cui si è realizzato l'equilibrio, e di conseguenza questa pace si configura come un processo perpetuo. Ed è un punto instabile in quanto la pace esiste se vi sono giustizia sociale, sviluppo della società, condizioni per l’auto-realizzazione di ogni uomo (che da «medio» diventa «unico»), salvaguardia dei diritti originali di questo individuo-uomo medio. Ma si sa che il perseguimento di ognuna di tali situazioni, e la combinazione di tutte queste, richiede uno sforzo e una tensione continua, il che difficilmente si

realizza: da ciò l’instabilità e le continue discontinuità.

5.3. La pace dei beni e la pace del bene: cosa succede quando entrano in contatto le due concezioni della pace Vi sono, nel mondo attuale, almeno due modi di vivere

la pace, e di conseguenza di concepirla. Il primo possiamo definirlo la pace dei beni, il secondo modo è la pace del bene [Gregoretti 2005]. La pace dei beni è un modo di intendere e di vivere la pace in un contesto di redditi mediamente alti che permettono la fruizione diffusa e quotidiana di beni di consumo 56

da parte della larga maggioranza della popolazione. Se ciò non è possibile con uno stipendio, si supplisce con due stipendi, poiché la condizione è che «bisogna» avere accesso ai beni di consumo, anche vistosi, per vivere standard, stili, appartenenze congruenti alla propria società. In tale

situazione di diffuso accesso ai beni, quello che importa è la difesa e la conservazione della stessa: di conseguenza la rottura di questa pace è vissuta assolutamente come un assurdo, e in più le possibilità di conflitto vengono esorcizzate con la distribuzione di servizi e con la messa in condizione di tutti di disporre di redditi sufficienti per avere accesso ai beni: il fordismo è l’esempio classico dell’attuazione delle condizioni per l’accesso generalizzato all’automobile, ma un altro esempio è rappresentato dalla politica | italiana che ha favorito la diffusione dell’accesso alla proprietà della prima casa, e similmente vi sono altri esempi. La pace dei beni è quindi un sentimento vissuto nei paesi moderni, e per i quali la violenza può essere un problema artificioso per sé, e dunque può essere solo un problema degli altri popoli, verso i quali èsemmai esportata, ma anche in questo caso attraverso le armi sofisticate e i soldati di carriera, e senza un’esposizione troppo violenta dei propri cittadini e del proprio paese. La pace del bene è al contrario il prodotto della diffusione e dell’affermazione nel proprio paese di una concezione forte e ideologica del bene, della morale, dell’utopia,

della religione. In tali condizioni la pace può anche essere ‘infranta, se in un paese non si realizza la pace del bene, e allora si crea un conflitto sociale o etnico o politico interno, oppure una guerra verso l'esterno. In questi casi, la violazione della pace viene condotta in maniera molto più cruenta di quanto non avvenga nella rottura della pace dei beni. La pace del bene èuna concezione vissuta più diffusamente nei paesi in cui gli alti redditi soné molto concentrati in una piccola percentuale di popolazione e l’altra parte dispera di raggiungere standard di accesso ai beni di consumo analogo a quelli dei paesi moderni, e in qualche modo questa medesima parte di popolazione povera è soggetta alle logiche del bere sostenuto e diffuso dalle élite e dalle culDI

ture locali. I paesi in via di sviluppo offrono spesso esempi di diffusione di tale pace del bene. La distinzione tra pace det beni e pace del bene è euristicamente utile per comprendere i conflitti (e la guerra) a livello di relazioni internazionali, e in particolare tra il terrorismo che persegue il raggiungimento della pace del bene e i paesi «occidentali» che vivono e difendono la pace dei beni. Possiamo comprendere ciò individuando le modalità seguite dalla «potenza» (chiamiamola così) che aspira a diventare contraltare (e speculare) alla potenza che attualmente detiene il potere (come gli Stati Uniti e in subordine i paesi moderni). Tali modalità sono riconducibili allo scontro tra la pace dei beni e la pace del bene. In effetti la suddetta aspirante «potenza» organizza il proprio comportamento:

1) rifiutando le*sregole e le certezze che si sono date le potenze attualmente dominatrici: le nuove regole devono anzitutto colpire le certezze, e quindi non devono essere regole o regolate. Il terrorismo è di conseguenza espressione di regole che ancora non ci sono. Nella storia si sono avuti tanti terrorismi sull'onda di nuovi ordini tentati: dei barbari, dei saraceni/barbareschi, dei pirati, dell’orda d’oro, ecc.; 2) fondandosi su un’idea forte e alternativa a quella vi-

gente: caduta come sappiamo quella egualitaria socialista, l’idea del governo universale è accettabile solo per affrontare le crisi localizzate nello spazio e per tempi limitati, mentre resta in vita solo l’idea competitiva del confronto degli interessi di singoli e di organizzazioni. Ciò è vero a meno che non si affermi, o meglio non venga affermata, una nuo-

va idea forte, che è quella diametralmente opposta a quella secolare dell'Occidente e del Dio in cui esso crede (e che frequenta). Una tale cultura e una tale religione radical-

mente diverse sono quelle islamiche, che tra l’altro hanno perso, ed è per questo che sono frustrate, la «corsa all’oro» della secolarizzazione occidentale;

3) elaborando un modo di concepire un ordine e una pace radicalmente diversi da quelli dell’Occidente secolarizzato: la pace del bene da contrapporre alla pace dei beni: 4) formando a questa idea forte le élite interstiziali tra mondo secolarizzato occidentale e mondo stancamente tra58

dizionale (alla moda weberiana) e ricco musulmano. Sono élite anch'esse frustrate, perché sono altamente occidentalizzate eppure non sono capaci di costruire un mondo musulmano moderno

(o «adeguato» al mondo

occidentale),

ma solo una brutta copia di questo da gestire dentro le ricchezze di tende e palazzi islamici e i beni occidentali ivi goduti. Sembra trattarsi di figli «degeneri» che rivisitano e si fanno carico della pace del bene, sulla quale fondare la potenza dell’alternativa al mondo occidentale.

6. Le società per concezione di pace e per stile di riferimento ai valori nella realizzazione degli interessi Prima di comporre le società in una società mondiale globalizzata, proviamo a collocare le società esistenti attualmente nello spazio teorico formato dall’incrocio delle concezioni di pace e degli stili di riferimento ai valori nel perseguimento degli interessi. Il risultato è la figura 1, entro le cui caselle riduciamo in

quattro tipi la complessità delle società esistenti. Naturalmente per ognuna di queste società vi è un 775x di stili di riferimento ai valori ultimilintermedi attivati nelle relazioni. Le quattro denominazioni delle società riducono la complessità esistente in tipi ideali, che hanno valore in quanto riferimenti a realtà estreme, e quindi non reali nella loro purezza. La casella 1 comprende società tradizionali «pure», in quanto vi sono incluse sia i paesi più legati a un'economia

tradizionale centrata sull’interno e la struttura sociale basata su poteri di villaggio e di tribù, e quindi ci troviamo di fronte ai molti paesi dell’Africa e dell'Asia. A questi paesi si aggiungono i paesi frustrati nella loro corsa alla modernizzazione e al perseguimento dei beni, poiché le condizioni interne e internazionali lo hanno impedito. Si trovano in questa condizionei paesi islamici che, di fronte al fallimento della modernizzazione, sono regrediti ai valori tradizionali dell’Islam, affermati ora nella forma più fondamentale [Kallas 1996a; 1996b].

39

Stile di riferimento ai valori ultimi (+,-)f intermedi (+,-)

/ Pace della

4

/;

er = / ugo

RS

tradizione

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del bene

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1. Le società tradizionali

/ DA

4A)

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dei beni

2.Le società tradizionali

4/4) È

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3, Le società moderne

4,Le società moderne

dA)

(4)

FIG. 1. Le società mondiali secondo le concezioni della pace del bene/dei beni e della tradizione/modernità,

e secondo gli stili di riferimento di valori

ultimi/intermedi.

La conseguenza è l’affermazione di un bene e questo nella forma più tradizionale. D'altra parte lo stile di riferimento per le relazioni (e per la soluzione dei conflitti) è collegato più ai valori ultimi che non ai valori intermedi: ciò indica una sorta di monovalenza nella soluzione dei problemi. Nonostante ciò, nei paesi collocabili in questa casella si osserva una specie di contraddizione tra la pace della tradizione che li spinge all’autarchia e a limitare le relazioni con gli altri paesi, e la pace del bene che tende ad essere politicizzato con l’enfasi su una sorta di alleanza tra paesi che perseguono un medesimo «bene». Di ciò abbiamo un esempio nell’idea di Al Qaeda e Bin Laden di unire i paesi musulmani intorno al bene dell’affermazione della purezza fondamentale dell’Islam [Al-Zayyat 2004; Palermo 2002;

Romano

Cardini 2002].

60

2004;

Mann

2003; A. Gasparini

2004f;

La casella 2 comprende le società tradizionali «sensiste» [Sorokin 1957], in quanto vi sono inclusi paesi che pur venendo e trovandosi inseriti in una società tradizionale, per-

seguono una pace dei beni, e quindi una modernizzazione nell'uso e nell’accesso ai beni di consumo. Si tratta di paesi

del Terzo Mondo che cercano un equilibrio tra legame alla tradizione e dotazione dei beni di consumo: l’India, la Tai-

landia, la Malesia ed anche la Cina e il Vietnam per quanto riguarda i legami alla tradizione confuciana, molti paesi musulmani prima della, eventuale, presa del potere di regimi fondamentalisti. Lo stile delle relazioni è dominato sia dai valori ultimi per la sfera profonda delle relazioni, sia dai valori intermedi per la sfera razionale dell’acquisizione dei beni di consumo. Come si vede nelle relazioni interne ad ognuno di questi paesi, ma anche tra i paesi compresi in

questa categoria, vi è un’ambiguità di stili, per la contemporanea valenza dei, e riferimento ai, valori ultimi e valori in-

termedi (dominati dalla negoziazione). La conseguenza è che vi è sempre più la necessità del ricorso alla riconciliazione tra modalità di azione che sono percepite valide ambedue, per cui l’unico criterio per la scelta rimane quello della «opportunità» per sé e della «accettazione» di sé nella comunità [Galtung 1971; Beck, Giddens Wagner 1994; Cassano 2001].

e Lash

1999;

La casella 3 comprende le società moderne «tradizionali» [Wagner 1994; Belohradsky 2002; A. Gasparini 2003b], in quanto vi sono inclusi paesi nei quali vi è stata una forte ‘rivoluzione moderna, e quindi contro la tradizione, in nome di un ordine radicalmente e illuministicamente laico,

ma che poi ha costituito la fonte di nuovi valori ultimi, e di conseguenza la fonte di nuovi valori tradizionali nati in nome della modernità. Con ciò ci riferiamo alla modernità prodotta dalle rivoluzioni comuniste, in particolare quella che ha prodotto l’Unione Sovietica, e che, sotto la spinta

dell’istituzione carismatica del partito unico, ha modernizzato la società sostituendo al «bene» tradizionale e trascendente un altro «bene» moderno. Comprendiamo in questa categoria quindi le società sovietiche dell’Europa orientale, balcanica, danubiana e centrale, i paesi socialisti del Terzo 61

Mondo compresa Cina e Vietnam, ma anche i paesi del sud-America in cui vi è stata una industrializzazione, che

molto spesso ha modernizzato i relativi paesi (ciò vale anche per Brasile della cosiddetta «modernizzazione implosa»). In tutte queste società, in verità, la modernizzazione

ha assorbito tante energie per cambiare radicalmente il paese che non vi è stata la possibilità (e non se ne vedeva nemmeno la necessità) di produrre quei «beni» di consumo strettamente personali indispensabili ad enfatizzare l’autonomia dell’individuo nella soddisfazione dei bisogni. Nello stile delle relazioni i valori di riferimento non sono stati molto connessi ai valori ultimi, poiché questi sono più dell'élite e del partito che gestisce la società e meno sono sentiti dalla gente cui viene richiesto più di imparare che di offrire il proprio consénso. Ma molto modesto è anche il livello dei valori intermedi, poiché non c’è niente da negoziare, ma semplicemente qualcosa da ottenere dal sistema sociale. In queste condizioni si instaura un’ambiguità interna a livello di valori, ma, a differenza dei paesi della categoria 2, perché

tende a offuscarsi l’importanza dei valori e in qualche modo a prodursi uno stato di anomia, per il quale non c’è spazio per i «grandi» obiettivi (l’«uomo nuovo» dell’utopia) così come c’è poco spazio per gli obiettivi (alla propria portata) da controllare, perché tutto è deciso e gestito dall’alto. La casella 4 comprende le società moderne «sensiste» [A. Gasparini 2003b; Martinelli 1998; Di Meglio 1997; Bonanate 1998], in quanto vi sono inclusi i paesi dove vi è

stata una lunga rivoluzione che da una società tradizionale ha portato a una moderna, la quale è passata attraverso la nascita dell’individuo e di una società industriale centrata sulla privatizzazione e sulla società civile. I paesi che contrassegnano tali società sono quelli dell'Europa occidentale, dell'America del nord, dell'Australia ed inoltre in paesi come Giappone, Corea del Sud, Taiwan. Ci troviamo di fronte a società moderne ma tutte orientate all’affermazione dell’individuo e del suo benessere attraverso i beni di consumo. Tali società sono sostanzialmente laiche, il che significa che lo stile delle relazioni fa riferimento a valori ultimi e intermedi tendenzialmente dissociati, il che significa pure che i 62

valori ultimi influenzano poco quelli intermedi, e, in secondo

luogo, che nelle relazioni vengono fatti giocare più i valori intermedi (della negoziazione e della soddisfazione soddisfacente più che integrale dei bisogni) che non quelli ultimi con peso molto labile sulla vita quotidiana. Le relazioni sono quindi dominate da un equilibrio tra i valori di riferimento. 7. Le relazioni internazionali, la soluzione dei conflitti e la globalizzazione

Fin qui abbiamo considerato la prospettiva del rapporto di ogni paese con quelli inclusi nella medesima categoria (che presentano medesime concezioni della pace e mede-

simi stili di relazione), e ognuna delle categorie di paesi si configura come globalizzazione regionale [cfr. ancora Matvejevic 2004; A. Gasparini 2004e; Rifkin 2004]. Cioè esi-

stono almeno quattro contesti in cui la globalizzazione assume connotati propri. Vi è la globalizzazione a relazioni allentate della categoria 1 dei paesi (società tradizionali «pure») [Amin 1997], vi è la globalizzazione a relazioni segmen-

tate per contenuti strumentali (i beni di consumo entro un quadro tradizionale) nella categoria 2 dei paesi (società tradizionali «sensiste»), vi è la globalizzazione a relazioni olistiche per contenuti rivoluzionari moderni nella categoria 3 dei paesi (società moderne «tradizionali»), e vi è infine la globalizzazione a relazioni integrali per la categoria 4 dei ‘paesi (società moderne «sensiste»). Ognuno dei quattro ambiti di globalizzazione produce al proprio interno un basso livello di conflitti violenti, e quindi la pace è facilmente sostenibile ai quattro interni, per la relativa omogeneità nell’affrontare il processo verso la globalizzazione [Martinelli 2001; Bonanate 2004; Rian e Evans 2000]. La cosa comincia a diventare molto più problematica, e la globalizzazione comincia a dare luogo a situazioni spesso negative, se consideriamo le relazioni internazionali al livello mondiale. Cerchiamo di sviluppare i confronti delle relazioni tra paesi appartenenti a categorie diverse tra le quattro considerate [Demarchi 1987]. 63

1) Il confronto tra i paesi della casella 1 e quelli della ca- sella 4 può portare a tre situazioni: — indipendenza tra i due tipi di paesi a causa dell’assenza di relazioni, ma ciò è abbastanza in contraddizione con

un mondo globalizzato qual è l’attuale; i — dipendenza dei paesi di 1 da quelli di 4, con la progressiva contaminazione di 1 dai valori (intermedi) di 4. Tale situazione genera conflitti striscianti, se non è superata la dipendenza relazionale in un equilibrio di tradizione/pace del bene in alcune sfere della vita di un paese tradizionale «puro» e di modernità/pace dei beni in altre sfere. Tale equilibrio si verifica (e produce effetti positivi) nel breve periodo delle relazioni, ma poi si instaura una sorta di globalizzazione dell’1 con il 4. Simile risultato si può prevedere per il rapporto fra i paesi tradizionali dell’Africa e dell'Asia con i paesi moderni del Nord del mondo;

— scontro frontale tra i paesi della casella 1 che escono dalla frustrazione per la non riuscita modernizzazione/pace dei beni e i paesi della casella 4. I primi, attualmente, sono i paesi percorsi dal terrorismo islamico, con i movimenti sociali che si propongono di indicare una via islamica alternativa alla pace dei beni occidentali, i quali (paesi e movimenti) trovano come elemento da attivare le masse degli stati musulmani moderati, frustrati nelle attese di avere ac-

cesso ai beni e alla modernità. In sintesi, il rapporto fra i paesi del gruppo 1 e del gruppo 4 è ambivalente, e compreso tra un conflitto strisciante fino a che i paesi tradizionali «puri» non recuperano nell’azione sociale i valori intermedi, e un conflitto frontale per le opinioni pubbliche di paesi tradizionali che già hanno tentato, ma invano, una modernizzazione operata at-

traverso azioni orientate da valori intermedi, e che di con-

seguenza sono ritornate ai valori ultimi per affermare la propria identità. 2) Nel confronto tra i paesi del gruppo 1 e del gruppo 2 si instaura una freddezza, tra i due tipi di paesi, per la prevalenza di due stili diversi di riferimento per le azioni: valori ultimi per i paesi tradizionali «puri» (con qualche eventuale apertura a quelli intermedi), valori intermedi per i 64

paesi tradizionali «sensisti», i quali stanno sperimentando con successo l’accumulazione dei beni e quindi un arricchimento dell’individuo e/o della sua famiglia (secondo il mo-

dello confuciano). Naturalmente tale freddezza si stempera con il tempo nelle relazioni tra la parte dei paesi del gruppo 1 che tende ad aprirsi all'ideologia dei beni già più consolidata nei paesi del gruppo 2. Ma anche in questo caso può solidificarsi simile freddezza, in quanto si produce una sorta di competizione tra i due tipi di paesi, nell’offerta di medesime opportunità: bassi costi di manodopera, facile possibilità di aprire aziende o di fusione di imprese. 3) Nel confronto tra i paesi del gruppo 1 e quelli del gruppo 3 si ha invece una certa indifferenza, in quanto sono paesi diversi: tradizionali quelli del gruppo 1, moderni quelli del gruppo 3; ma sono anche uguali, e quindi hanno poco da scambiare in quanto ambedue i gruppi di paesi agiscono secondo un riferimento ai valori ultimi piuttosto che ai valori intermedi. Ciò si osserva almeno fino a quando anche i paesi del gruppo 3 non riescono a diventate delle società moderne «sensiste». E di conseguenza anche l’indifferenza tra i gruppi 1 e 3 durerà fino a quando non avverrà per i paesi del gruppo 3 lo stringersi della forbice tra il riferimento ai valori ultimi e il riferimento ai valori intermedi. Quando accadrà ciò la relazione tra i due gruppi di paesi diventerà di nuovo forte come quando il socialismo sovietico diffondeva per il mondo tradizionale la concezione di una pace moderna. 4) Nel confronto tra i paesi del gruppo 2 e del gruppo 3 si ha il primo gruppo di paesi (il 2) che, cercando di mediare la cultura tradizionale con i problemi di una società moderna (Islam e Buddha con l’auto e il frigorifero), dialoga con il gruppo 3 di paesi che da poco non è più tradizionale ma vi permane un modo di risolvere i problemi ricorrente ai valori ultimi. In questi casi il ‘gruppo 3 può diventare, o ergersi a, guida del gruppo 2: del resto ciò è già successo con la forte attrazione che ha avuto il socialismo verso i paesi a cultura tradizionale, con l'avvertenza in verità che anche i paesi del gruppo 1 possono essere attratti da quelli del gruppo 3. 65

5) Le relazioni tra i paesi del gruppo 2 e del gruppo 4. può portare a molteplici risultati. Certamente ambedue tendono a condividere un’ideologia della pace dei beni e a fare riferimento

a valori intermedi nell’azione sociale, e

quindi può succedere che i valori ultimi vengano scissi dai valori intermedi e la tradizione si laicizzi fino a produrre una società moderna «sensista». Ma può anche succedere che l’aspirazione ai beni venga frustrata, e ciò spinga verso la tradizione e all’agire secondo valori ultimi, e allora si può generare un conflitto frontale con le società moderne sensiste (gruppo 4). Una ulteriore alternativa può verificarsi, sia perché i valori tradizionali sono molto congruenti con quelli dell’ideologia della pace di beni (si pensi alla cultura confuciana diffusa presso i cinesi e i vietnamiti, che enfatizza l’autorealizzazione delta famiglia e all’interno di essa dell’individuo), sia perché le condizioni favorevoli del mercato, della

piccola e media impresa, della capacità di inserirsi nei settori altamente tecnologizzati rendono più competitive queste realtà economiche. In tali condizioni si opera una forte competizione tra i paesi del gruppo 2 e del gruppo 4, con la possibilità anche di conflitti e guerre economiche se non militari [B. Gasparini 2005; Amin 1997; Melotti 2004].

6) Nelle relazioni tra i paesi del gruppo 3 e del gruppo 4 è più difficile che avvengano conflitti, perché la differenza sostanziale tra i due gruppi sta nello stile di affrontare i problemi, con la preferenza al ricorso ai valori ultimi nel gruppo 3 ed invece con il ricorso ai valori intermedi nel gruppo 4. Nel caso che scoppino conflitti fra i paesi dei due gruppi, probabilmente anche il gruppo 4 potrebbe essere trascinato a spingere i valori di riferimento da intermedi a ultimi, ma molto più spesso vi potrà essere un ritiro dalle relazioni tra i paesi del gruppo 4 quelli del gruppo 3 (l’Unione Europea e l’ex-Europa comunista). Le situazioni generate dai rapporti tra i due gruppi di paesi sono il frutto di una globalizzazione consolidata, e cioè dalla comunanza di uno spazio della comunicazione di valori, sia a livello di valori ultimi che di valori intermedi [Malita e Gheorghiu 2004]. Ciò tuttavia è possibile alla condizione che i valori ultimi vengano meno caricati da forti energie 66

nella loro realizzazione, e semmai che essi, questi valori ultimi, siano riservati alla propria cultura locale, con la selezione

tra questi valori ultimi di quel nocciolo ancor più duro che può essere condiviso anche dagli altri popoli, di questa trama di globalizzazione. Da tale punto di vista la vera globalizzazione, per essere condivisa, deve appoggiarsi sull’integrazione culturale e sulla (ri)conciliazione tra attori in potenzia-

le conflitto, e ad ogni modo su una conciliazione delle diversità. 8. Gli effetti della globalizzazione estesa all'intero sistema mondiale L’analisi svolta nel precedente paragrafo individua almeno due filoni interpretativi di globalizzazione e di pace. La globalizzazione produce degli effetti differenti e si presenta in forme a problematicità varia, a seconda che si svolga a dimensione regionale o a dimensione mondiale. A livello regionale la globalizzazione è tendenzialmente integrale, dominabile, condivisa, relativamente facile da realizzare, efficace, duratura. Molto spesso corrisponde a una

realtà imperiale nel senso politico e amministrativo del termine [Luttwak 1993; Blasutig 2001; Rifkin 2004; A. Gaspa-

rini 2004e], e quindi la globalizzazione è gestita da una autorità centrale dell'impero (sia essa Roma, Vienna, San Pietroburgo/Mosca, Parigi, Londra, Washington, Pechino, Istan-

bul e così via). Questa autorità, pur nel rispetto sostanziale delle culture locali, raggiunge, uniforma e rende comunicanti tutti i luoghi dell’impero. Gli strumenti di questa globalizzazione sono le strade, le ferrovie, le tecnologie, la lingua franca sofisticata (urbana e tecnologica), le modalità amministra-

tive, la diffusione di medesimi modelli economici di produzione e di scambio, le leggi di base e la forza per far rispettare queste leggi, gli strumenti della comunicazione (i sistemi Thurn und Taxis, le poste dei cavalli, le stazioni, e così via).

La globalizzazione di questo tipo è sempre stata realizzata nella storia, ed ha avuto la vita stessa dell’impero: come si è detto, è anche possibile avere una globalizzazione stabile, con conflitti attenuati, e culturalmente condivisa:

67

ognuna delle quattro caselle sopra evidenziate nel modello corrisponde a un tipo specifico di globalizzazione. Infatti all’interno di ognuna delle quattro situazioni si ha una cultura della pace (del bene/dei beni e della tradizione/della modernità) omogenea e condivisa, e quindi la conseguente globalizzazione è accettata e integrata. Tali globalizzazioni regionali cominciano ad essere più conflittuali, o ad ogni modo meno condivise, quando entra-

no in relazione tra di loro, o addirittura quando i paesi compresi in ogni casella instaurano delle relazioni organiche con i paesi delle altre caselle [Sardar e Davies 2003; Hardt e Negri 2002; AA.VV. 2003; Cardini 2002]. Tra le diverse possibilità può essere quella della globalizzazione mondiale intermedia che si osserva nel bipolarismo mondiale: in tal caso ogni polo si costruisce una propria area di globalizzazione, in ognuna delle quali si hanno dei cerchi di prossimità al centro molteplici, tenuti uniti da un’ideologia altamente condivisa. Il bipolarismo storicamente vissuto è quello che ha avuto come centri di ognuna delle globalizzazioni l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti: esso si è originato nelle caselle dei paesi moderni e rispettivamente nella casella 3 e nella casella 4. L'Unione Sovietica emerge dai paesi della casella 3, e poi si espande verso i paesi alla casella 1, e cioè verso i paesi e le élite di questi frustrati dalla delusione per la non raggiunta pace dei beni, e il conseguente stile di relazionarsi per fini intermedi. Gli Stati Uniti come centro emergono dai paesi della casella 4, e poi si espandono verso i paesi della casella 2, e cioè verso i paesi e le élite arricchiti da recenti ricchezze (ad esempio, il petrolio e il basso costo della manodopera). Le due globalizzazioni semi-mondiali sono percorse da conflitti nascenti dalle concezioni della pace e dagli stili di soluzione di conflitti (valori ultimi e intermedi), ma sono anche tenute insieme

da una ideologia condivisa e dai rapporti militar-economici rafforzati nelle coalizioni e dalle alleanze entro organizzazioni internazionali specifiche (Nato e Comunità economica europea vs. Patto di Varsavia e Comecon, ad esempio). Anche tale modello di globalizzazione bipolare riesce in definitiva ad attenuare dei conflitti,

68

e quindi delle guerre,

per diverse ragioni:

1) c'è un'idea forte (ideologia)

che

compatta ogni polo e supera le diversità che altrimenti produrrebbero conflitti violenti e guerre; 2) ci sono degli stili di relazioni condivisi all’interno di ogni polo, siano essi espressi in connessione ai valori ultimi che ai valori intermedi. In particolare i valori ultimi (del polo Urss) sono venati di un messianesimo legato alla giustizia sociale che obnubila il conflitto etnico o di classe; i valori intermedi

(del polo Usa) sono venati di un messianesimo individuali stico che fa sì che si sia in attesa di un valore aggiunto delle proprie azioni per fare autorealizzare (nel futuro immediato) l'individuo lungo la freccia della «carriera» immaginata buona per sé; 3) c'è una tendenza a limitare il conflitto con l’esterno in quanto esso è più un affare del centro del polo, sia politicamente che militarmente. In realtà però non è detto che la globalizzazione bipolare sia organizzata lungo questi modelli di limitazione dei conflitti sia interni che esterni all’area globalizzata. Una realtà futura radical mente diversa può capitare qualora al polo che ancora è rimasto in vita (quello Usa della casella 4) se ne affianchi uno nuovo rappresentato da qualche paese (insieme ad altri paesi) della casella 1 (le società tradizionali «pure»), o semmai da un attore politico nuovo attivato dal terrorismo di AI Qaeda. In queste condizioni, almeno nel breve periodo,

può capitare che i conflitti e le guerre aumentino in maniera esponenziale, poiché essi si configurano in certi modi come guerra di due mondi. Non vi è dubbio tuttavia che la g/o‘balizzazione bipolare, sperimentata storicamente (Usa e Urss), presenta una conflittualità inferiore rispetto alla globalizzazione mondiale integrale, e cioè in una globalizzazione in cui tutto è sistema, è interdipendenza, è condivisione di stessi beni e di alcuni pochi valori di base (il bene) [Puscas e Duna 2001; Strassoldo e Delli Zotti 1982; Cooper 2004].

Una delle cause di tale conflittualità riguarda il fatto che si trovano direttamente a confronto tutte e due le differenti concezioni della pace: della tradizione e della modernità, del bene e dei beni, così come si trovano in contrap-

posizione gli stili di soluzione dei conflitti: legame ai valori ultimi, legame ai valori intermedi. Per assurdo, ma è un’as-

69

surdità solo teorica, avviene che proprio concezioni dif- . ferenti di pace producono delle situazioni di conflitti violenti se non delle guerre. Ma ciò capita quando il coordinamento, e cioè la globalizzazione, si allarga a tutto il mondo. Più in generale possiamo perciò osservare che la globalizzazione ha bisogno di pace per sfruttare al massimo le strutture comunicative (la pace dà certezza e quindi previsione); r24 la pace non ha bisogno della globalizzazione mondiale, ed anzi viene messa in dubbio proprio dall’estendersi della globalizzazione, poiché in queste condizioni si sviluppano delle contraddizioni con la propria cultura e con l’identità di, e integrazione con, essa, nelle concezioni della pace,

le quali di conseguenza producono conflitti insanabili nel perseguimento di vie di negoziazione. Tale confronto di concezioni differenti della pace può collegare artificialmente la realizzazione dei propri interessi ai valori ultimi piuttosto che ai valori intermedi [Roy 2003a]. Riprendendo lo schema delle categorie di società, possiamo dire quindi che l’incremento di conflittualità violenta e non controllabile per via negoziale è dovuto al fatto che una delle quattro categorie di paesi (la 4) tende a guidare la globalizzazione con l’implicita imposizione dei propri modelli, degli stili relazionali, delle proprie concezioni della pace ai paesi delle altre tre categorie (1, 2, 3). Simile tendenza è dovuta al fatto che la 4 è la più congruente fra le quattro categorie, ed è la più organica, alla proiezione verso l'esterno e alla interconnessione; e ciò avviene attraverso le

forme istituzionali e di comunicazioni più snelle e strumentali per i fini ed espressive per l’individuo quali sono le organizzazioni rispetto allo stato o alla comunità allargata alla nazione [Hardt e Negri 2004; Evans e Newnham 1998]. Ora, comprendiamo ciò nei seguenti elementi, ma ne pro-

blematizziamo la portata, per individuare se vi sono vie di uscita «alle guerre per la pace», e se dunque simile globalizzazione mondiale, con i caratteri nuovi che presenta, può esorcizzare piuttosto che attivare i conflitti violenti originati dalle concezioni della pace e dagli stili di soluzione degli interessi. 1) Già si è detto che la globalizzazione mondiale è un processo entro il quale vengono elaborate delle strutture 70

che permettono gli scambi, le relazioni e una sorta di condivisione di beni, di stili e di informazioni. Si tratta di una

globalizzazione «franca», depotenziata di valori ultimi e di attaccamenti emotivi, e in cui il loro uso ha un valore stru-

mentale. Tale globalizzazione è organica, in quanto le società più che gli stati del mondo risultano interpenetrate. In simile condizione il conflitto violento tra le società, e so-

prattutto tra gli stati, potrà verificarsi quando si produce un’accumulazione di asimmetrie nei rapporti tra due o più paesi (o popoli), per le quali un paese risulta sempre più periferico rispetto a un contesto mondiale globalizzato. Simile situazione comporta un ritorno al riferimento dei valori ultimi e alle frustrazioni per una modernità impossibile. Come si è detto tuttavia la globalizzazione mondiale è un processo meno pervasivo e meno gerarchizzato di quello politicomilitare-amministrativo della globalizzazione regionale. 2) La globalizzazione mondiale

configura una nuova

idea di i77pero, rispetto a quella vissuta storicamente [cfr. Attinà 2003; Cardini 2002; Hardt e Negri 2002; AA.VV. 2003; Belohradsky 2004; Roy 2003b]. Questo infatti era un sistema strettamente organizzato intorno a una dinastia e a

degli interessi del centro che prevalevano sulle aree periferiche del sistema stesso. La globalizzazione mondiale si configura come impero in quanto retafora del potere mondiale, dove vi sono nodi centrali (e più centrali di altri), nodi intermedi e nodi periferici [Puscas e Duna 2001; Andreotti 2001; Picco e Delli Zotti 1995]. Ma tali nodi hanno natura,

‘conformazione, funzione molto diverse, in quanto essi sono costituiti da stati, da organizzazioni, da individui anche, da

gruppi concentrati o diffusi per lo spazio mondiale. Ciò configura una società civile diffusa mondialmente e degli stati molto centrali per quanto riguarda le scelte militari e politiche generali. Finché riuscirà a reggere i colpi della violenza e delle piccole guerre vi sarà un'72pero diffuso, altrimenti potrà riproporsi un nuovo bipolarismo di stretta contrapposizione.

3) L'impero della globalizzazione mondiale favorisce in terzo luogo la possibilità per tutti i paesi, oltre che per gli attori non statali, di essere centrali per una qualche funzione, 71

e quindi di potersi ergere a laboratorio di qualcosa di nuovo.: Ciò è successo (e succede) per le «tigri» dell'Asia (non solo Cina, ma anche Corea, Giappone, Malaysia, India, ecc.) ca-

paci di introdurre nuovi modi di produzione e di conquistare mercati. Ma può succedere anche per le città-stato del mondo, che, non affaticate dalla complessità socio-economica dei paesi medio-grandi, possono elaborare modi educativi, comunicativi, tecnologici, urbanistici, culturali, ecc. provati in piccolo e quindi estensibili nel grande. Tale discorso ci porta a verificare che la globalizzazione mondiale permette di essere protagonisti anche ai piccoli, entro particolari nicchie. 4) La riconciliazione interna a uno stato è strumento con-

gruente con la globalizzazione mondiale, in quanto mette in grado i gruppi sociali di essere omogenei a quelli degli altri stati; ma soprattutto permette di impostare le relazioni tra questi gruppi intra-stato sulla base di interessi concreti e negoziabili piuttosto che su appartenenze ideologiche e culturali forti [Fiamingo e Pocecco 2001; L’Abate 2002; Puscas 2004; Picco 2001b; Pezzino 2001]. La standardizzazione tra

paesi, d’altra parte, spinge i gruppi a trovare le congruenze e le alleanze in gruppi sociali di altri stati e società, e in tal modo si opera una qualche limitazione alla sovranità statale di appartenenza, in quanto tali gruppi sociali interni ottengono anche una legittimazione dall’esterno da giocare nelle relazioni interne al proprio stato. 5) Altro strumento della globalizzazione mondiale è rappresentato dall’individuo, nato dalla cultura occidentale, depositario di diritti autonomi (diritti umani) [Coccopalmerio 2004], e capace di mantenere relazioni internazionali

e di essere attore diretto della globalizzazione stessa. In tali condizioni lo stato non ha più bisogno di essere l’unico operatore della globalizzazione, che diventa più articolata [Picco 2001a; Hardt e Negri 2004; Giner 1981; Bauman

2003; Anheier 2004]. Ma proprio l'impatto dell’individuo, che spazia per il mondo e quindi ben oltre l’area della comunità, crea una spinta, ma anche una novità contestata,

nei paesi tradizionali con una forte spinta alla valorizzazione della pace del «bene» e agli stili relazionali collegati ai valori ultimi. Tale contestazione può attenuarsi laddove l’attore72

individuo è allargato, per analogia e tradizione, alla famiglia: pensiamo ad esempio alla tradizione sociale confuciana, ancora radicata soprattutto in Cina e Vietnam, per la quale la famiglia ha molte caratteristiche dell’individuo occidentale. L'individuo in questa globalizzazione mondiale è un concetto, è un depositario di diritti originali, è anche at-

tore di globalizzazione la cui capacità di inserirsi nei relativi circuiti è stata fortemente rinforzata dalle nuove tecnologie,

a partire anzitutto da internet e dall’accesso ai tanti motori di ricerca. Infine l'irruzione dell’individuo sulla scena mondiale, sia con la sua azione ma anche con la sua opinione (op: nione pubblica: si pensi al suo rapporto con la pace) indica una globalizzazione democratica, perché in questa vi è la possibilità di condizionare,

di orientare, di legittimare le

azioni degli stati come unità della globalizzazione mondiale [Russett e Starr 1992; A. Gasparini e Yadov 1995; Ferraris 2001; Delli Zotti e Pocecco 1998; Winn 2003; Alger 2004].

6) Uno strumento più operativo ed efficace della globalizzazione della categoria 4 dei paesi è rappresentato dall’organizzazione, monofunzionale e con una notevole capacità di inserirsi nelle relazioni internazionali globalizzate [A. Gasparini 2004d; 2002d]. Anche questo operatore permette allo stato di appartenenza di essere solo tessitore di regole-guidaprotezione, perché le azioni concrete vengono svolte dalle organizzazioni. Le imprese delocalizzate o meno e il loro commercio internazionale, e le associazioni, le Ong, le organizzazioni intergovernative sono mediatori di regole e processi di ‘azione standard. Nelle categorie 1 e 2 dei paesi naturalmente queste organizzazioni si configurano come sistemi altamente razionali, portatori di interessi strumentali, e possono apparire come i portatori di neo-imperialismo vecchio stile, dove l’impero non è tanto quello di un paese (Usa, ad esempio), ma dell’intero Occidente con i suoi paesi della categoria 4. 7) La globalizzazione mondiale si è dotata di un ulteriore meccanismo di regolazione dei conflitti e di ricostituzione della pace: esso è riconducibile a quel sistema di azioni che va sotto il nome di peacerzaking, peace-enforcing, peacekeeping, peacebuilding [Picco 1999; Strassoldo 1979; Evans e Newnhan 1998; N. Gasparini 2003; 2004; Bettini 2001; Kemp e Frey

TO,

2004]. Tale insieme di azioni, che di volta in volta assume i

connotati del processo sequenziale, del sistema sincronico od anche della singola azione sufficiente in sé a portare alla pace, è ideato e gestito da organizzazioni internazionali, di cui

massima espressione è l'Onu. Tali organizzazioni rappresentano un attore nuovo ed indispensabile alla globalizzazione mondiale per permettere che essa funzioni: la legittimazione alla loro funzione viene non solo da una sorta di consenso tra gli stati del mondo, siano essi grandi o piccoli, ma soprattutto dalla necessità nuova della globalizzazione mondiale, sostanzialmente definibile come solidarietà internazionale [Puscas e Duna 2001; Touzenis 2002; Picco e Delli Zotti 1995]. Questa ha i suoi tempi ed è efficace quando si incunea in un certo momento del conflitto, sia esso scoppiato perché il paese nonèè riuscito a realizzare una riconciliazione interna oppure perché vi sono paesi in reciproco conflitto violento per interessi contrapposti. Le organizzazioni inter-

nazionali, intese in senso lato e quindi comprendendovi anche quelle intergovernative (Onu, Ue, Nato, ecc.) o anche governative (la chiesa cattolica) o anche private/semiprivate (associazioni di volontariato), vengono a configurarsi come un «governo mondiale a macchia di leopardo» (limitato al tempo e al luogo di conflitto), che già abbiamo teorizzato [cfr. A. Gasparini 1998a], ma vengono pure a inserirsi nel lungo periodo che passa tra conflitto e pace, e nel quale non passa solamente l’assenza di violenza ma anche la ricostituzione di una «normalità» che fa dialogare la società con le altre società. Tale rapporto tra organizzazioni internazionali e pace

come processo possiamo schematizzarlo nella figura 2. Le organizzazioni internazionali in questa loro funzione di assicurare la «solidarietà internazionale» in una globalizzazione mondiale rappresentano un fatto nuovo nella concettualizzazione dell'impero, poiché vi si instaura una sorta di diarchia tra centri politici e militari (i paesi della categoria 4) e centri per la pacificazione (organizzazioni internazionali, appunto), con tuttavia la funzione di controllo (e di orientamento) perseguita dall’individuo, dalle organizzazioni, dall'opinione pubblica o dalla «moltitudine» per dirla con il titolo del libro di Hardt e Negri [2004]. Le organizzazioni in-

74

ternazionali, in questo caso, non sono solo degli ammortizza-

tori di conflitti, ma risultano elementi organici della nuova imperialità mondiale. Come si vede vi è un modello molto complesso e, sembra, funzionale alla globalizzazione e alla pace: resta tuttavia l’interrogativo sul fatto che questo modello riproduce il concetto delle relazioni internazionali e della diffusione pluralistica del potere tipico dei paesi a «società moderne sensiste», della categoria 4. Cosa succede con l'estensione a tutto il mondo (e quindi ai paesi della categoria 1, 2, 3)? L’incongruenza attuale può trasformarsi in compatibilità con una globalizzazione mondiale sostanzialmente pacifica? La risposta possiamo cominciare a darla riprendendo alcuni temi già trattati, e prefigurandola nel contesto delle reazioni alla molteplicità di attori della globalizzazione e alla pluralità di compiti che essi ricoprono. Tali reazioni possono produrre delle pacificità, ma anche delle reazioni negative, come può succedere nel caso dei paesi della categoria 1, in cui vi sono le società tradizionali «pure» di ritorno, e cioè frustrate nei loro sforzi di comprendere ed entrare con successo in tale globalizzazione mondiale. 8) La pace di cui ha bisogno questa globalizzazione mondiale riposa su relazioni in cui i valori di riferimento sono quelli intermedi, i quali utilizzano lo strumento della negoziazione [Puscas e Duna 2001; Picco 2001b; 1999; Russett e Starr 1992; Puscas 2004]. Ma proprio per questo

la negoziazione gestibile da una molteplicità di attori (individui, organizzazioni, stati depauperati di sovranità, gruppi ‘ sociali riconciliati, ecc.) della globalizzazione si trova a trattare dei problemi piccoli e quindi a ridurre anche i problemi grandi a problemi piccoli e‘a elaborare modalità di soluzione che sono congruenti ai problemi piccoli. In altri termini si negozia, anche con i rapporti interpersonali, come se tutto fosse composto da problemi piccoli, e si raffinano le tecniche relative alla soluzione dei problemi piccoli. Ciò significa che i «problemi grandi» vengono lasciati insoluti o molto più facilmente sono mantenuti nel limbo del locale culturale o addirittura dell’opinabile e del non influente (o irrilevante) sui rapporti sociali, come è capitato per l’ideologia dell’integrazione elaborata nel «melting pot», per il quale vengono fe)

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«spente le luci» nella vita pubblica su quanto riguarda l’appartenenza religiosa, etnica e culturale. Anche in questo caso la negoziazione è portatrice di pace, in quanto riduce o sublima la violenza cui porta il conflitto di interessi tra individui, organizzazioni, gruppi sociali, i quali hanno ridotto la rilevanza degli interessi, anche di potenza, di attori ma-

cro come le nazioni, gli stati, le ideologie totalitarie, gli imperi che hanno prodotto la globalizzazione regionale. La negoziazione per la soluzione dei conflitti è strumento molto utile per la globalizzazione mondiale, orientata dai paesi della categoria 4. Tuttavia, dato che essa implica la riduzione dei problemi a problemi piccoli, è possibile che ciò avvenga, senza violenza, nei paesi (categoria 1, ma

anche 2, 3) in cui la tendenza è quella di porsi di fronte al problema (e risolverlo) in maniera olistico? Ed inoltre, vi è da aggiungere che il rzetodo della negoziazione (più che quello dello scontro violento se non bellico) richiede dei tempi di maturazione, i quali possono essere poche volte immediati, e invece molto più spesso brevi o medi, se non addirittura lunghi. In tali condizioni vi è la possibilità di diffondere nel tempo la soluzione di problemi, già «spezzettati» in piccoli, oppure il tempo resta ancora concepito come immediato e orientato. a perseguire il tutto? Le ri-

sposte agli interrogativi indicano che, anche in caso di «felice» globalizzazione mondiale, questa passerà attraverso conflitti non solo connessi agli interessi ma anche ai valori culturali di base. L'obiettivo, in queste condizioni, è quello ‘ di tenere sotto controllo tali conflitti, in modo che non si

trasformino in violenti o addirittura in eventi bellici. 9. Infine

Il lungo percorso analitico sulla globalizzazione mondiale, in cui proprio le molteplici concezioni della pace possono produrre dei conflitti violenti, ha portato alla conclusione che tale globalizzazione si presenta sotto forme nuove (imperiali e democratiche-occidentali insieme) rispetto a quelle della globalizzazione regionale, proprio perché si preD%

senta come globalizzazione franca e strumentale, organica e . interpenetrata con lo svilimento degli attori statuali. Ma essa elabora strumenti nuovi (individui, organizzazioni, peacekeeping, riconciliazione, negoziazione, policentralità funzionale) per governarla. Ed anzi la nuova globalizzazione

mondiale affronta con questi strumenti nuovi le sfide della violenza, della ridondanza di concezioni della pace per avere una omogenea, strumentale, efficace ma anche efficiente pace. E, d’altra parte, proprio questi strumenti nuovi, che permettono un uso più imperiale e democratico insieme delle strutture della globalizzazione, vengono a configurare un sistema di concezioni della pace e di stili di rapporti tra i paesi e le società delle quattro categorie (1, 2, 3, 4) che fa

perdere di importanza all’attore del rapporto «società e stato» per essere sostituito invece da questi medesimi strumenti (individui, organizzazioni, ecc.). Cioè possiamo addi-

rittura pensare che tra le quattro categorie di paesi ottenute dall'incrocio delle modalità di concepire la pace e le relazioni si creino dei centri e delle relazioni privilegiate entro reti variamente formate da segmenti di stato, gruppi sociali ed economici, organizzazioni, individui, società civili, opi-

nione pubblica. E tutto ciò è possibile per effetto della globalizzazione mondiale e della presenza dell’azione e della maggiore o minore compatibilità: 1) dei detti attori (e strumenti della globalizzazione); 2) di centri imperiali e di paesi ridimensionati nella sovranità; e 3) di processi come il peacekeeping, la riconciliazione, la negoziazione, la pluricentralità funzionale. Tale riconcettualizzazione di globalizzazione e ordine mondiale si rende, di conseguenza, utile per capire, intervenire su, gestire i meccanismi volti a otte-

nere condizioni sufficientemente pacifiche.

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CAPITOLO TERZO

DALLA SOVRANITÀ NAZIONALE ALLA SOLIDARIETA INTERNAZIONALE PER GOVERNI MONDIALI A MACCHIA DI LEOPARDO Una situazione nuova si è sviluppata da quando è scomparso il comunismo come generatore di forme statali, da quando le comunicazioni mettono in discussione la controllabilità della sovranità statale, da quando l’individuo più che la comunità o l’etnia o la nazione è il detentore finale e primordiale della legittimazione della gestione del bene collettivo, da quando gli strumenti per assicurare questa primazialità sono diventate le organizzazioni internazionali riconcettualizzate. Con il capitolo presente vogliamo richiamare alcuni aspetti delle organizzazioni internazionali in quanto sogget-

ti che possono aprire un nuovo modo di strutturarsi del sistema internazionale. Questo, reduce del bipolarismo [Kaplan 1957], resta insoddisfatto del monopolarismo e non trova sbocco in un multipolarismo, perché troppo pericoloso e perché il «monopolo» difficilmente lo lascia nascere. In tali condizioni il sistema internazionale può venire a ristrutturarsi su due punti forti: 1) il «monopolo» politico (gli Stati Uniti, nella fattispecie), e 2) un altro monopolo (alternativo e complementare al tempo stesso) che ha quel - tanto di forza politica, economica e militare da permettergli di imporre il rispetto di alcuni valori universalmente riconosciuti dopo la caduta di un sistema radicalmente altro come poteva essere il comunismo, e da permettergli di immettere nel circuito del controllo centrale qualsiasi conflitto locale, scoppiante anche nei posti più periferici del mondo, con la conseguente risoluzione del conflitto. Tale «monopolo», alternativo o complementare a quello esercitante il puro e semplice potere, è rappresentato dalle organizzazioni internazionali e dalle funzioni sempre più congruenti con i ruoli sopraddetti da esse esercitati. Per capire cosa vogliamo dire con quanto genericamente enunciato finora, DO

conviene approfondire almeno tre aspetti della problema-. tica: la mutazione genetica cui sono sottoposte le organizzazioni internazionali ma anche i contenuti della sovranità statale, il #4ovo ruolo che tali organizzazioni svolgono, e in-

fine l’osservazione del come si muovono tali nuove condizioni nei paesi balcanici, ma analogamente in tante altre parti del mondo, per arrivare alla soluzione di conflitti. 1. Mutazioni genetiche nelle organizzazioni internazionali per nuovi ordini mondiali Le organizzazioni

internazionali

sono

un

fenomeno

relativamente recente [Gregoric 2004], sia nel loro strutturarsi in logiche organizzative e nello svolgere funzioni nuove sia nel loro istituzionalizzare processi che in precedenza erano svolti una tantum per affermare, formare e darsi delle regole la cui attuazione era poi attribuita ai, e svolta dai, singoli stati-nazione [Plano e Olton 1988, 301 ss]. Per quanto riguarda il processo della loro istituzionalizzazione esso è evidente, se si percorre la storia delle relazioni internazionali. Al di là delle relazioni bilaterali, tra gli altri vi sono dei momenti di incontro di governanti e di loro rappresentanti per fissare dei criteri e delle regole, e per elaborare delle condotte, sulle quali fondare le azioni del governo politico di ogni stato. Viene spontaneo richiamare le tante diete germaniche, italiane, francesi, ma

soprattutto i trattati di

Osnabruck e di Minster che vanno sotto il nome di Westfalia (1648), la conferenza di Vienna (1815) e la «Società degli stati» di Metternich [Albertini 1997, 165], ma anche le confe-

renze di pace di Versailles, di Yalta, di Parigi al termine di guerre mondiali, o più recentemente la conferenza di Helsinki e la Csce [Gregoric 1997]. Questi sono alcuni esempi di precursori delle attuali organizzazioni internazionali. Sono momenti che seguono a eventi traumatici, o nei quali si ritiene matura l'affermazione di alcuni principi e il conseguente darsi regole comuni di comportamento. Il risultato di tale convergenza è l'impegno di seguire le regole fissate, dove l’impegno può essere affidato ad ogni attore-stato/nazione, con 80

ciò determinando un contesto di relazioni internazionali basato sulla scelta congruente di ogni singolo attore. Ma tale impegno di far seguire le regole può essere affidato anche a un unico stato — lo stato gendarme —, il quale dunque genera un contesto di relazioni internazionali unitario, e che re-

sterà in piedi finché viene accettato e finché lo «stato gendarme» è capace di sostenerlo. Ovviamente le regole dette sono affermate da un accordo fra stati e il controllo verrà effettuato ogni tanto da una Conferenza degli stati che formano la coalizione del consenso. Dunque la formulazione delle regole fissate dalla Conferenza e il controllo della loro effettuazione operata da ogni stato o da un unico stato (gendarme) vengono verificate a scadenze varie dagli stati che fanno parte della coalizione, con lo scopo di rinforzare la coalizione, di correggere eventualmente le regole, di elaborarne di nuove. L’evoluzione della conferenza di Helsinki nella Csce attraverso un sistema di periodiche conferenze politiche è indicativo di quanto detto. Eppure anche questa evoluzione ha avuto uno sbocco istituzionalizzato in un nuovo attore, e

cioè nell’Osce. Questa è una vera e propria organizzazione, stabile e autonoma, che svolge delle funzioni sottratte (o non attribuibili) ai singoli stati (per scelta politica) o al singolo stato (gendarme) con funzione unitaria. Dalla Csce all’Osce si osserva un processo già conosciuto, e che trova

nella Società delle nazioni prima e nell’Organizzazione delle Nazioni Unite poi gli antesignani. Perché succede tutto questo? Cosa significa tale evoluzione? Rispondere a questi interrogativi vuol dire porsi il problema della funzione della nazione e dello stato nella realtà attuale. Più in concreto significa che lo stato-nazione rinuncia alla «scelta sociale» autonoma e la funzione di stato gendarme viene sempre più disconosciuta dalle coalizioni che emanano conferenze una tantum. E tale rinuncia, che ri-

ceve con il tempo una sempre più accentuata legittimazione, sembta derivare dal rifiuto di una estensione della sovranità nazionale, contenuta nell’organizzazione del potere (politico e militare), a un potere totalitariamente allargato a tutta la vita sociale, economica, familiare, individuale, nel lavoro e 81

nel tempo libero della persona. In altri termini la fame, la . cultura, i diritti dell’uomo, ma anche la stabilità dei confini,

il rispetto delle regole della legittimazione del potere (le elezioni), il rispetto delle minoranze possono diventare problemi svincolati dalla sovranità nazionale se la loro realizzazione cade al di sotto di una soglia minimale accettata.

Con queste premesse il controllo delle basi minimali di attuazione di alcuni diritti diventa un valore da difendere ad

ogni costo. Tale controllo avviene attraverso la costituzione di «strutture organizzative», preposte al monitoraggio dello stato di applicazione di tali valori, e cioè attraverso la formazione di confederazioni, messe in opera dagli stati che ne fanno parte e che al tempo stesso delegano ad esse alcuni poteri di organizzare una specifica «divisione del lavoro» per realizzare i valori detti. Gon ciò si ha il formarsi di organizzazioni internazionali, in cui la «riserva dei poteri» sta negli stati che vi aderiscono, ma in cui è anche difficile per questi stati contrastare troppo i «poteri» dell’organizzazione, i quali derivano dagli strumenti organizzati da essa per realizzare gli stessi valori [Picco e Delli Zotti 1995; Papisca 1995; Delli Zotti 19951.

L’istituzionalizzazione della «necessità» di assicurare un livello minimo di alcuni valori, realizzata attraverso le organizzazioni internazionali, è il risultato d’altra parte di un processo, lungo il quale le funzioni di tali organizzazioni si sono modificate, ispessite alcune e volatilizzate altre. E il propulsore di tale modifica di funzioni è da individuare nel contesto politico-sociale, politico, internazionale che si modifica. Più avanti mettiamo in risalto proprio il fatto che le funzioni delle organizzazioni internazionali hanno subito una evoluzione notevole con la caduta del comunismo, e in

qualche modo l’espansione senza confini di un globalismo a una sola dimensione. Ed in effetti prima del 1989 le organizzazioni internazionali erano al servizio di un controllo passivo di sfere di influenza ideologiche, mentre successivamente le funzioni di simili organizzazioni hanno cominciato a svolgere un ruolo più attivo per l’intervento con aiuti umanitari, con forze militari che operano direttamente, con la creazione di soluzioni politiche provvisorie in attesa di una pacificazione stabile, e così via. 82

Dunque, z0r solo le organizzazioni hanno fatto mutare il contesto di relazioni internazionali da «coalizzativo» a «federativo» [Warren 1967, 404-407], da sistema di conferenze a organizzazioni internazionali; ma le stesse organizzazioni

hanno subito delle modificazioni nelle funzioni svolte, poiché da strumenti statici e passivi sono diventati strumenti dinamici, attivi e interventivi: l’evoluzione della Nato, dell'Unione Europea, dell’Osce, dell'Onu lo sta a dimostrare.

Da ultimo non bisogna scordare che l’organizzazione, in quanto insieme di elementi interdipendenti, orientato razionalmente a realizzare obiettivi, si compone: 1) di una struttura di regole e di comportamenti; 2) di un certo numero di partecipanti che interpretano i loro ruoli; 3) di certe tecnologie composte di abilità professionali, di tecniche, di strumenti operativi; 4) di obiettivi che l’organizzazione deve realizzare; 5) di un ambiente esterno che ne condi-

ziona l’azione. Ciò significa che per realizzare tali obiettivi l’organizzazione inventa delle modalità tecniche, operative e di efficacia diverse dalle direttive ricevute dagli stati-nazione ma specifiche della stessa organizzazione, in quanto «macchina» sociale burocratica e tecnica [Warren 1967]. Così Nato, Onu, Osce, Ong, ecc. agiscono sulla base del

funzionamento dei propri organi, degli strumenti e delle risorse a disposizione. Ciò configura un ulteriore ambito di libertà che l’organizzazione internazionale si ritaglia a scapito dei «soci fondatori» che ne hanno legittimato l’esistenza [Touzenis 2002; Pieterse 1998].

2. Le organizzazioni internazionali dopo la caduta dell'Unione Sovietica e per il superamento della solitudine degli Stati Uniti Il ruolo di governo svolto dalle organizzazioni internazionali nelle aree mondiali di crisi ha subito un’accelerazione dalla caduta dell’Unione Sovietica e del comunismo. A mio avviso le ragioni sono molteplici, poiché hanno a che fare con i nuovi valori, con la legittimazione ideologica, con l’impossibilità di uno stato (come gli Stati Uniti) di essere 83

legittimato a perseguire i nuovi valori, con l’impossibilità di lasciare alle sovranità delle nazioni locali l’onere di essere i garanti esclusivi e finali del buon governo dei valori ultimi sopraddetti. Tutto ciò tentiamo di esprimere e di richiamare nei seguenti punti, che fanno riferimento sia alle condizioni da cui nasce il rinforzo di tali organizzazioni che all’allargamento delle loro funzioni. 1) La scomparsa dell’Unione Sovietica e la caduta del comunismo internazionale hanno avuto almeno due effetti.

Il primo effetto è stato quello di far scomparire una contrapposizione dualistica, che oltre ad essere politica era ideologica per alcuni valori di fondo: libertà individuale vs. uguaglianza e giustizia sociale. I due valori erano perseguiti da Stati Uniti e Unione Sovietica in un contesto internazionalista, il che dava lorò il diritto e la legittimazione a controllare e a proteggere una parte del mondo che si ispira a ognuno di questi valori, e al contempo a perseguire da parte delle due superpotenze la collegata politica di potere mondiale. Naturalmente l’ideologizzazione dei due valori comportava che per il mondo occidentale venisse enfatizzata la libertà individuale e sottovalutata l’equità; mentre comportava per il mondo socialista che venisse enfatizzata l’equità e sottovalutata la libertà individuale [A. Gasparini 2000, 29-42].

Il secondo effetto è stato che l’unico controllore e garante della realizzazione dei valori di fondo delle società del

mondo restavano gli Stati Uniti. 2) La conseguenza di questi due effetti, portati dalla scomparsa dell’Unione Sovietica e del comunismo, è che la funzione di ideologizzazione di alcuni valori generali delle società attuali, svolta anche al di sopra della sovranità dei singoli stati-nazione, viene profondamente alterata in quanto gli Stati Uniti non possono sostituirsi all'Unione Sovietica. Ciò avviene perché ora resta perseguita solo l’ideologizzazione della libertà e del benessere individuale, ma con questa ideologizzazione la funzione di tali valori si riduce sempre più a mera prassi quotidiana.

In secondo luogo gli Stati Uniti non possono ergersi a controllori e sostenitori ideologici di tali valori, poiché sono anzitutto una potenza dominante che esprime potere puro, 84

senza avere, alla lunga, l'autorevolezza e la legittimazione di farsi paladina privilegiata di questi valori (libertà individuali e civili contro i localismi etnici e nazionali esasperati) e quindi di poter intervenire a difenderli. In altri termini gli Stati Uniti non possono farsi gendarme e garante per tutto il mondo di valori tanto universali e tanto importanti come sono i diritti dell’uomo. Ciò può essere invece compiuto dalle organizzazioni internazionali, semmai innovando attraverso le loro prassi di difesa dei diritti suddetti e di intervento anche armato, per questa via modificando anche le norme del diritto internazionale [Touzenis 2002]. Legittimazione a, e capacità di esplorare, integrazioni al diritto internazionale sono le doti principali che le organizzazioni internazionali traggono dai loro interventi sulla scena mondiale nella salvaguardia dei valori universali sopra indicati. D'altra parte queste organizzazioni internazionali ottengono la legittimazione su uno specifico valore comprendente: diritti dell’uomo o fame o cultura o rifugiati o stabilità interstatale, e così via. In definitiva /a funzione ideologica e di controllo delle due antiche potenze (Usa e Urss), con la scomparsa di una delle due, non può essere svolta dalla potenza rimasta per difetto di legittimazione, ed invece viene assunta dalle organizzazioni internazionali che sono legittimate a svolgere valori universalmente riconosciuti e che ad ogni modo sono nelle condizioni di svolgerne principalmente uno, e solo sussidiariamente (ed eventualmente) qualche altro. 3) In questi ultimi venti anni le organizzazioni internazionali dunque hanno subito una mutazione «genetica» per le nuove attribuzioni funzionali di intervento, in quanto intervengono in un vuoto di conflitto ideologico, e per la scomparsa del polo dell'ideologia per la quale anzitutto esiste la «comunità» nazionale e tutte le persone in essa sono uguali, senza diritto a differenziarsi entrò questa comunità, ma spostando la differenziazione tra chi è dentro e chi è fuori la comunità ideologizzata: chi è comunista e chi non lo è, chi è dentro a questa Comunità internazionale (in qualsiasi luogo del mondo esso dunque sia) e a chi ne è fuori. Gli stati «soci fondatori» di queste organizzazioni inter85

nazionali condividono (o si associano alla condivisione di) . una visione di società democratica, in cui il diritto di citta-

dinanza

è sostanzialmente

svincolato

dall’appartenenza

etnica, territoriale, razziale, religiosa, e nella quale un ruolo

fondamentale è attribuito all’individuo. A questo proposito già abbiamo parlato dei valori di fondo, i quali comprendono la difesa dei diritti dell’uomo e il depotenziamento dei significati da attribuire all’etnia e agli altri criteri selettivi delle persone in gruppi para-naturali. Come si vede questi elementi fondanti della cultura occidentale e della definizione di individuo vengono a rappresentare una nuova ideologia, che però non è totalitaria ma anzi lascia una larga autonomia di credere o non credere a molte cose, salvo che

a queste relative ai valori di fondo della persona. Tali valori si configurano perciò come le vie lungo le quali assicurare la comunicazione tra i cittadini dei tanti stati-nazione. Si tratta di organizzazioni internazionali che presentano spazi di autonomia, e quindi anche di possibile opposizione, rispetto a «soci fondatori» forti come gli Stati Uniti o a qualche altro paese, in quanto queste organizzazioni internazio-

nali sono sostenute anche da stati diversi da quelli «forti» e in secondo luogo perché, nonostante tutto, le organizzazioni in quanto tali seguono proprie logiche interne, a carattere organizzativo, che ne limitano la razionalità («razionalità limitata» di March e Simon [1958, trad. it. 1966, 172-177]), 24

al tempo stesso le liberano da determinismi esterni. 4) Il rapporto di queste organizzazioni internazionali con la sovranità nazionale, si è già visto, è di attacco alla legittimazione di questa. La sovranità nazionale si è talmente abbarbicata all'essere più intimo della persona da trasformare la sua funzione in una funzione simile a quella realizzata nella comunità locale tradizionale. In questa, infatti, si operava una sorta di simbiosi e di con-fusione dell'individuo nella comunità fino ad annullarsi in questa. Sovranità come possibilità di controllare anche la vita quotidiana e personale, e tutto ciò perché il nazionalismo ha talmente calato la sfera pubblica della patria e dell’organizzazione dei bisogni da parte del pubblico nella vita quotidiana da erigere un muro tra chi appartiene alla nazione e chi 86

non vi appartiene, tra chi è uomo a titolo pieno e chi è «mezzo uomo», residente all’esterno ed anzi per questo quasi «non uomo». Simile tipo di sovranità, con il potere, di chi lo detiene, di fare quello che vuole all’interno del proprio spazio, è in qualche modo andato ben oltre e ben più in profondità del potere che si erano arrogati gli stati emergenti dalla pace di Westfalia. E per questo lo stato non poteva più dialogare con gli altri stati (o con le altre sovranità) se non con il confronto di poteri in conflitto o ad ogni modo con il confronto per analogia (cfr. capitolo II). Tale concezione della sovranità nazionale non poteva reggere le regole delle relazioni internazionali, ma soprattutto non poteva rendere comunicativi i diritti minimali dell'individuo in quanto uomo e in quanto membro di civiltà dialoganti. La custodia e il controllo del rispetto di questi valori di base e di questi diritti fondamentali sono stati staccati dai contenuti della sovranità nazionale (nel caso che la loro gestione operata da questa non fosse congruente a degli standard prefissati) per essere attribuiti alle nuove entità indicate come organizzazioni internazionali.

A tale ristrutturazione dei contenuti della sovranità nazionale si sono aggiunti ulteriori fonti di diminuzione della presa della sovranità nazionale sui cittadini, che essa dovrebbe controllare consensualmente o coercitivamente. Tali fonti sono generate in particolare dalle nuove tecnologie della comunicazione. Televisione satellitare, diffusione del-

‘la conoscenza di una lingua franca come l’inglese, internet che fa dialogare e diffonde nuove modalità di mass m2edia scritti o parlati e interattivi sono altrettanti strumenti che confrontano stili di vita, verità, immagini, realtà che pos-

sono confliggere con quelle diffuse dallo stato nell’esercizio della propria sovranità nazionale. Cosa può fare questo stato nazionale per confezionare e/o tenere una verità «per-

fettamente completa» entro il proprio spazio di potere? Come può impedire che i suoi cittadini vengano a sapere che vi sono altri posti in cui questi diritti e valori di base sono vissuti in forme congruenti alla valorizzazione dell’individuo? Come può impedire che i suoi cittadini si mettano 87

in contatto con gli altri cittadini che godono questi diritti e questi valori di base e soprattutto che i suoi cittadini si connettano con le organizzazioni internazionali preposte al controllo e alla difesa dei diritti e dei valori di base? La sovranità nazionale anche per questa via vede minate la propria onnipotenza nel costruire il consenso e la legittimazione al suo manifestarsi secondo le modalità tradizionali ereditate dagli originari principi dello stato-nazione conseguente la pace di Westfalia [Picco e Delli Zotti 1995]. 5) Di fronte all’indebolimento del concetto e dei conte-

nuti della sovranità nazionale, stanno dunque le organizzazioni internazionali, come soggetto dotato di nuove funzioni assunte dopo la scomparsa del comunismo statuale e dunque come superamento di un monopolarismo impossibile da sostenere e da legittimare nel medio-lungo periodo. St afferma con le organizzazioni internazionali l’idealizzato governo mondiale? [Kant 2009; Rosseau 1961; Herz 1951]. Naturalmente non è così, se si pensa a un governo

che esercita una sovranità analoga a quella elaborata, e ora in crisi, per lo stato-nazione. Qualche tratto di governo

mondiale tuttavia queste organizzazioni internazionali lo svolgono, ma solo qualche tratto. Infatti e anzitutto, se questo governo mondiale esiste, ri-

guarda la gestione di specifiche funzioni, legate solo a diritti dell’uomo, alla fame nel mondo, agli aiuti umanitari, alla difesa di minoranze vessate, al rispetto di norme elementari del diritto internazionale. E ovviamente è difficile che un’organizzazione internazionale svolga tutte insieme queste funzioni ed obiettivi, ma in generale ne svolge una o due. In secondo luogo, tale mondialità del governo si esercita non nel senso che è estesa a tutto il mondo, ma invece si ma-

nifesta nel fatto di intervenire nei luoghi di qualsiasi parte del mondo in cui vi è crisi nell’applicazione dei diritti e dei valori di base sopra richiamati. Ciò capita nell’ex-Jugoslavia, nel Caucaso, a Timor, in Corea, in Libano, a Cipro, negli stati africani in conflitto, ecc. [N. Gasparini 2004, 15-56]. ‘ Su alcuni aspetti organizzativi di tali organizzazioni cfr. Bach [1997]; N. Gasparini [2004].

83

Infine, il governo delle organizzazioni internazionali si esprime nelle situazioni di crisi nel mondo per brevi periodi, assumendo la forma del protettorato di una situazione, per portarla verso una situazione pacificata ed equilibrata nuova e possibilmente stabile. Vi sono stati alcuni esempi di protettorati in questo secondo dopoguerra: la Germania divisa, l’Austria divisa, il Territorio libero di Trieste, le due Coree, la Bosnia e il Kossovo, ecc. Sono tutti esempi, questi, che mostrano come tali soluzioni siano

provvisorie e perciò create in attesa di essere trasformate in qualcosa d’altro, stabile e pacifico appunto. In definitiva il governo delle organizzazioni internazionali si esprime nel governare la transizione da uno stato di guerra a uno di pacificazione, e quindi nelle intenzioni esso dovrebbe estendersi a un periodo sufficientemente breve da proteggere il percorso verso la pacificazione. Tale governo si esprime quindi anche nel controllare la sovranità dei governi locali, affinché si comportino congruentemente ai valori e ai diritti condivisi. Infine il governo si esprime nel preparare soluzioni pensate e gestite da sovranità nazionali sempre meno sovrane, in quanto spinte a elaborare delle forme confederative di parti che originariamente erano in conflitto: il caso della Bosnia di Dayton è emblematico di queste progettazioni federali, in cui ogni parte è autonoma ma anche vincolata a una qualche forma di sovranità comune espressa in modalità blande (spesso appunto confederazione).

3. Il risultato: il governo mondiale a macchia di leopardo La conseguenza dell’azione delle organizzazioni internazionali è dunque il sostenimento di alcuni valori di fondo: lotta alla fame, difesa dei diritti dell’uomo e del cittadi-

no, difesa delle culture minori ma al tempo stesso non esasperazione della loro originalità, convivenza tra etnie differenti, difesa della stabilità dei confini consolidati fra stati, e

così via. Ma per arrivare a tale sostegno è necessario elaborare una nuova «ideologia», che legittimi l'intervento delle 89

organizzazioni internazionali. È questa l'ideologia della «solidarietà internazionale», che per certi aspetti evoca la teoria della «sovranità limitata» affermata dall'Unione Sovietica di Breznev e praticata dagli stati egemoni di ogni epoca storica [Touzenis 2002]. Il governo di queste organizzazioni internazionali, legittimato dalla «solidarietà internazionale», tuttavia si realizza in una serie di discontinuità: 1) rel terzpo perché gestisce le fasi acute e la transizione e 2) rello spazio perché interviene in singole parti del pianeta. Attraverso questo processo le organizzazioni internazionali realizzano il sogno tanto caro ai globalizzatori, quello del goverzo mondiale [Falk e Kim 1983; Papisca e Mascia 1991; Murphy 2001, 119 ss.]. Questo tuttavia si configura 4 rz4cchia di leopardo, poiché è limitato nel tempo ed è realizzato in isole politiche dello spazio del nostro pianeta, poiché è più legato alle funzioni di superamento di crisi nell’applicazione dei valori di base condivisi nelle società di un certo momento storico e alle funzioni di controllo dell’applicazione dei medesimi valori di fondo. Un'altra novità, portata da tale governo delle organizzazioni, è rappresentata dalla creazione di un nuovo genere di rapporto fra società politica e società civile (cfr. il capitolo I di questo libro). Così il fatto che le organizzazioni internazionali si occupino di problemi specifici, settoriali e concreti, le porta ad essere più legate alla gente, e cioè agli utenti, di cui sollecitano la collaborazione diretta per meglio penetrare, gestire e rispondere ai bisogni della loro vita quotidiana. Ma tali organizzazioni internazionali, oltre che essere formate da entità interstatali connesse a problemi concreti, sono esse stesse radicate nella società civile, in quanto

formate anche da associazioni volontarie, Ong, comitati per la raccolta di fondi o di beni. Queste agenzie anche per tale via riconcettualizzano il rapporto tra società civile, come settore organizzato dalla gente per gestire la vita quotidiana, e società politica che l'entità generale rappresentata dallo stato (territorio, popolazione, sovranità) ha prodotto per gestire l'ordine, il potere e la felicità come idea astratta.

90

4. Kossovo, Jugoslavia, Bosnia, tra governo delle organizzazioni internazionali e governi nazionali

In quella che era la seconda Jugoslavia si è svolto, passo passo, il processo che ha portato alla mutazione genetica delle organizzazioni internazionali. Qui vogliamo ripercorrere questo processo, e ciò lo facciamo dotandoci di una interpretazione di quello che è successo nella Balcania ed analizzando il ruolo delle organizzazioni internazionali per fare uscire quest'area dalla guerra. Tale risultato è stato conseguito togliendo il conflitto dall’indifferenza per il localismo balcanico e internazionalizzando la soluzione del conflitto. 4.1. Chiavi di lettura del disordine balcanico

Tra le variabili importanti (cfr. più analiticamente il capitolo XIV) per interpretare i fatti che succedono nell’exJugoslavia alcune fanno riferimento al sovrapporsi perverso di aggressività del piccolo gruppo e aggressività del grande gruppo: la coabitazione dei due tipi di aggressività fa emergere una nuova

aggressività ancora più potente nei suol

elementi distruttivi. L’aggressività del piccolo gruppo (con il minimo di «modernizzazione» portata alla sua realizzazione da parte delle squadre speciali) viene mantenuta accanto a quella del grande gruppo nazionale, e quindi trasformata in politica: l’infrangere il mito della purezza del gruppo e dell’etnia attraverso lo stupro, il cacciare dal villaggio il piccolo gruppo o l’assassinarlo, seguendo ritualità vecchie di secoli. Un’altra variabile, in qualche modo prodotta dalla sovrapposizione delle due aggressività, è stata quella della cultura del sacrificio estremo: se V’atfermazione dell’etnia del proprio gruppo, di villaggio e di nazione, implica l’attivazione dell’aggressività (del piccolo gruppo e del grande gruppo), allora bisogna aspettarsi che anche i gruppi avversari si comportino allo stesso modo, e ciò significa che al termine di questo scontro si possa perdere. Certamente è una sconfitta momentanea, ma è pur sempre

dolorosa: dunque bisogna elaborare una cultura del sacriE

ficio, per la quale in qualche modo si devono sopportare le. violenze altrui (a cominciare dalla pulizia etnica), in vista di una «immancabile» vittoria propria. Tale cultura del sacrificio è funzionale al mantenimento della fiducia estrema nella supremazia del proprio gruppo (e della sua missione) su quella degli altri e di conseguenza nella considerazione che questo grande valore ha il prezzo, che è morale pagare, di dovere subire alcune volte anche le violenze altrui come reazioni alle violenze proprie, pur restando inteso che vincerà il proprio gruppo. Una terza variabile che serve a capire la realtà balcanica è la fuga dal presente nel passato e nel futuro: la seconda Jugoslavia ha fondato la sua legittimazione più profonda sull’«uomo nuovo socialista» da realizzarsi nel futuro; gli stati delle attuali Slavie meridionali hanno legittimato se stessi ancorandosi alla storia e all’etnia, e cioè al passato,

piuttosto che al benessere e alla felicità presente della gente. Come si vede, sovrapposizioni di aggressività del piccolo gruppo e del grande gruppo, di cultura del sacrificio e di fuga nel passato e nel futuro sono tre variabili che hanno funzionato, e in qualche modo spiegano tanto quello che è successo in Kossovo quanto la resistenza della Serbia ai guasti dei bombardamenti per più di settanta giorni. Ci si può domandare tuttavia perché tutto ciò è potuto succedere alle soglie del XXI secolo e in una qualche parte dell'Europa. La spiegazione possiamo averla ricorrendo alla variabile relativa alla posizione di confine (e quindi marginale) di quest'area balcanica, in cui l’accento è posto più su quello che distingue e separa che non su quello che unisce: così il confine passa all’interno del villaggio, tra villaggio e villaggio, tra «sistema di villaggi» (la regione), tra «sistema di sistemi di villaggi» (lo stato nazionale). E questa Balcania è terra di confine, perché è sempre stata ai margini di imperi: di Occidente e di Oriente, asburgico e ottomano, cattolico-ortodosso-musulmano. Infatti in questa terra di confine hanno potuto mantenersi le tre variabili citate (aggressività, sacrificio, fuga dal reg in quanto si sono prodotti almeno i due seguenti atti.

97

Il primo è che queste aree non interessavano a nessuna

potenza delle diverse epoche, e dunque venivano abbandonate a loro stesse: i signori locali potevano impunemente fare quello che volevano e il localismo assumeva i tratti della più sfrenata esaltazione di particolarismi di villaggio e di piccolo gruppo. Probabilmente solo l’Austria ha cercato, quando si è aggiudicata la Bosnia-Erzegovina, di introdurre in queste aree l'ordine che deve regnare nel centro, ma era ormai troppo tardi. Il secondo fatto è stata la sovrapposizione perversa di due culture: quella del villaggio e quella delle grandi civiltà, in modo tale che quella del villaggio si sentiva depositaria della civiltà cattolica od ortodossa o musulmana. In questo senso il localismo del villaggio era al confine di un altro localismo del villaggio vicino, i quali avevano la «missione» di difendere la civiltà. Dunque la civiltà diventa elemento politico in mano ai mini-stati che rivendicano una grande nazione, che sta però al di là dei loro confini. 4.2. La «solidarietà internazionale» è la via per rompere gli incantesimi della cultura di confine?

È possibile rompere la sindrome della cultura di confine, e fare in modo che l’aggressività sia meno «via di soluzione» di ogni conflitto, che il sacrificio sia meno al servizio dei miti, che il presente della popolazione e dei suoi bisogni -sia il punto di riferimento degli interessi della società e delle sue élite; in altre parole che questa area balcanica sia sempre meno periferia abbandonata a se stessa in nome dell’inammissibilità che possano ancora succedere fatti che sconvolgono i più elementari diritti dell’uomo? Credo che ci stiamo avviando verso questa direzione, ma per iniziativa di potenze esterne, e questo del resto secondo una constatazione di reapolitik, per cui vi «deve» essere ordine in quelle aree che interessano, e vi deve essere portato proprio da chi ne è interessato, in modo che queste aree siano immesse, anche con la forza, nel circuito della

centralità. 93

Lo strumento operativo è la «solidarietà internaziona- . le», che viene a confliggere con i principi della sovranità nazionale. Ma nel caso dell'Europa balcanica interviene quando queste sovranità non riescono a portare il proprio paese entro le regole della convivenza delle popolazioni, omologate dalle organizzazioni internazionali (e dietro di queste, perché no, dalle potenze politiche che ne assicurano l'osservanza). E d’altra parte tale solidarietà internazionale agisce attraverso gli aiuti umanitari (per momenti contingenti, soprattutto), i controlli delle economie, le compo-

sizioni dei conflitti, gli interventi armati, per mezzo di organizzazioni come Unicef, Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati-Acnur, Banca mondiale, Onu, Ocse, Nato ecc. [N. Gasparini 2004].

Ebbene, sta avvenendo ciò nei paesi dell’area balcanica? Senz'altro l'approccio è stato molto lento, poiché nella guerra tra Croazia e Federazione jugoslava non ci fu alcun

intervento

esterno, se non

quello diplomatico;

nella

guerra bosniaca, molto lentamente, vi fu l'intervento inconcludente dell’Onu, poi quello sempre più attivo della Nato attraverso le forze armate Sfor che tuttora mantengono l’ordine nella Repubblica di Bosnia-Erzegovina sotto la forma di protettorato [Icva 1999; Cereghini 1999; Ianniello 20051]. Infine, l'intervento della Nato è stato immediato per il Kossovo, con gli interventi aerei sulla Federazione jugoslava

prima e poi con l’intervento diretto nel Kossovo attraverso le forze Kfor [Ferluga et al. 2005; Pocecco e Tarlao 20071]. La via che sembra portare centralità nell’area balcanica è dunque quella della «solidarietà internazionale». E l’ordine nuovo per i Balcani sembra essere perseguito per almeno due vie: una da far valere anche nel medio-lungo periodo, la seconda nel breve periodo. La via del breve periodo è quella di scardinare gli equilibri consolidati, che hanno visto nella Serbia l’attore principale nel tirare le fila delle azioni possibili. L'intervento aereo della Nato ha avuto lo scopo di ridimensionare fortemente questo ruolo centrale della Serbia, in modo da renderla una realtà politica meno

credibile e meno capace di decidere per gli altri nell’area, trasformandola quindi in una Serbia più piccola, privata 94

del Kossovo e poi del Montenegro, ed eventualmente in futuro della Vojvodina. La seconda via (del medio e lungo periodo) che sembra essere perseguita è di internazionalizzare grandi e piccole aree della ex-Jugoslavia, ponendole sotto il controllo Nato-Onu nella forma di protettorati, in attesa che maturino le condizioni di scelte definitive. E questo è ancora adesso il caso della Bosnia-Erzegovina e del Kossovo. Il futuro della sistemazione di tali aree protette, può essere visto nella costituzione di una «media Albania», o nella

formazione di mini stati indipendenti, od anche nel mantenimento di larghe autonomie all’interno di stati attuali (come in Bosnia), che però siano salvaguardate da stabili presenze di forze internazionali? Queste sembrano le vie che si delineano, e che ad ogni modo indicano anche la direzione per immettere nella centralità la Balcania. Tale centralità, operata a spese della sovra-

nità nazionale, è però meno legata a fattori di globalizzazione economica (che anch'essi ci sono), quanto invece a fattori di modernizzazione delle relazioni etniche, che dunque sono poste al centro di interventi armati esterni, allo scopo di fare diventare queste aree meno confine tra realtà radicalmente differenti, come possono essere percepite le culture locali dei villaggi e le grandi civiltà difese da questi localismi del villaggio.

99

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CAPITOLO QUARTO

GLOBALIZZAZIONE E CITTÀ

Interpretare il mondo partendo dalle città, siano esse piccole, medie, grandi, metropoli o giganti significa in primo luogo considerarlo come un insieme di reti, organizzate a loro volta in sistemi, gerarchizzati e a dimensioni variabili e orientati da tante funzioni, economiche, comunitarie, po-

litiche, culturali [Alger 2004]. E tutti insieme, queste reti e questi sistemi, costruiscono un comune e generico campo di comunicazioni, di sensibilità, di valori, di orientamenti economici che chiamiamo globalizzazione [Mlinar 2004]. Quell’invenzione messa in atto nel neolitico, chiamata

città, è dunque più che mai viva, fino ad attrarre la maggior parte della gente degli stati e del mondo; e fino a organizzare secondo i propri standard l’intero territorio, almeno quello del Nord del mondo. La città è passata per tante esperienze, da quella dell'autonomia politica della città-stato, a quella di centro di un impero, a quella di centro di sistema di città entro lo stato nazionale, a quella di centro di sistemi mondiali di città. Naturalmente, in ogni occasione la città è stata il centro delle innovazioni, produttiva, amministrativa, industriale, terzia-

fia; e per ognuna di tali innovazioni la città. si è trasformata urbanisticamente, si è adattata alle nuove funzioni, si è ri-

qualificata per adattarsi a nuovi birterland [cfr. A. Gasparini, Logan e Mansurov 1994].

Dunque la città è luogo delle trasformazioni e delle società civili dinamiche e instabili, ma anche «co-editore»

della società civile. In Europa c’è stato un‘periodo in cui essa è rimasta schiava del pensiero nazionale e dell’ideologia nazionalistica, ma se ne è liberata fino a diventare attore

principale nella globalizzazione, risalendo allo stato più puro di quella globalizzazione che può essere assicurata dalle relazioni tra stati nel sistema internazionale alla Kaplan [1957]. I

Questa è la situazione attuale, in cui si avverte l’atte-

nuarsi del sistema di stati a favore di sistemi prodotti da attori, i quali per conto loro riescono a dare un volto nuovo e meno politico-militare alla globalizzazione. Questi attori sono anzitutto le città, le società civili, le imprese.

È a questo punto che possiamo osservare le città e le relazioni che esse instaurano, per considerare il futuro dei nuovi sistemi mondiali da esse formati [Dogan 2004; Le Galès e Zagrodzki 2008; A. Gasparini 2004d; Sassen 2004]. Se le reti relazionali tra stati perdono di importanza per le tante ragioni che vedono lo spegnersi delle idee «forti» che hanno sostenuto la sovranità dello stato, e quindi l’assolutezza artificiosa del potere e del controllo su tutto ciò che sta dentro i confini dello stato, gli elementi della città e le società civili in esse residenti hanno la capacità di relazionarsi, indipendentemente dallo stato di appartenenza, in legami talmente forti da mettere lo stato stesso davanti al fatto compiuto o addirittura da imporre a questo la relazione e i contenuti di essa. Anzi, tali legami forti entro le reti urbane si differenziano da stato a stato: gli Stati Uniti sono il tipico esempio di uno stato in cui sono nate prima le città, le lobbies e gli interessi che governano lo stato centrale [cfr. anche Borgatta 1965; Turk 1977; Logan 1994; Mansurov e Barbakova 1994].

A questa variabile della presa «del potere mondiale» da parte delle città, delle società civili e delle imprese, sempre più forte nel determinare il futuro dell’ordine mondiale, bisogna aggiungerne molte altre nell’influenzare il futuro mondiale. Proviamo a richiamare qualcuna. Una di queste variabili riguarda il tipo di rete che le città riescono a produrre: in primo luogo, area metropolitana e sistema di città [A. Gasparini 2004d]. Una seconda variabile riguarda l’epoca in cui sono nate queste aree metropolitane o questi sistemi di città [Borgatta 1965]. Una terza variabile riguarda il rapporto tra urbano e non urbano, tra concentrazione o diffusione della città [Dogan 2004; Ardigò 1967; Brazzoduro 1988]. Una quarta variabile riguarda il rapporto fra gruppi urbani, le funzioni che svolgono e la posizione che occupano, le quali possono configurare una pluralità di città conviventi oppure una unica città fortemente integrata.

98

1. Area metropolitana e sistema di città come tipi di reti

Area metropolitana e sistema di città rappresentano

due tipi di reti [A. Gasparini 2000]. L’area metropolitana è costruita intorno ad un nucleo-città centrale, e tale concentrazione assume un carattere integrale in quanto l’espansio-

ne di questa città e la concentrazione su di essa delle altre città riguarda tutte le attività e le funzioni sociali, economiche, culturali, politiche, residenziali. La gente dell’esterno

vi trasferisce la residenza, perché è attratta dalle funzioni economiche, amministrative e politico-culturali. La rete che ne risulta è rappresentata da una forte gerarchizzazione, dove al vertice sta il nodo centrale, e poi in una continuità di edifici si collocano altri nodi in forte connessione con il centro, fino ai comuni paesi-villaggi sempre più periferici, e ognuno di questi nodi periferici perde la propria identità per cederla al nodo centrale. Il sistema di città si fonda su una rete di città, ognuna delle quali, pur nelle differenti dimensioni demografiche e caratteri simbolici, conserva la propria identità e la capacità di ispirare sentimento di appartenenza, ma le cui relazioni non sono integrali come quelle dell’area metropolitana poiché l’individualità propria è espressa nella capacità di mantenere la popolazione e l’organizzazione comunitaria. Per il resto i contenuti delle relazioni tra i nodi della rete riguardano lo scambio di funzioni economiche, di funzioni politiche e amministrative rare [A. Gasparini 2004d]. È chiaro che vi sono delle condizioni perché si possa passare dall’area metropolitana al sistema di città o almeno perché il processo non si inverta. Alcune di queste condizioni riguardano il contesto delle comunicazioni e la possibilità di vivere bene la qualità della vita sia nel nodo centrale della rete che negli altri spazi perifetici di essa. In effetti le comunicazioni, ad esempio, permettono: 1) di dotare di un ottimo collegamento viario l’area regionale, nazionale o internazionale del sistema di città; 2) di spostarsi con mezzo privato o pubblico nell’ambito dell’area del sistema; 3) di centralizzare solo funzioni

produttive che non sono soggette a decentralizzazione; 4) di diffondere le stesse possibilità di accesso ai servizi di vita 99

quotidiana; 5) di valorizzare gli elementi simbolici dello: spazio comunitario

da vivere non in opposizione ma in

complementarietà con quelli del centro della rete. 2. I tempi di formazione e gli spazi dell’area metropolitana e del sistema di città Area metropolitana e sistema di città rappresentano due modalità di sistemi urbani. Per porre il problema del futuro di questi, è necessario rendersi conto dei tempi attraverso cui

si sono formati e trasformati; e, in secondo luogo, è necessario considerare gli spazi del «sistema mondo» attraverso i quali questi medesimi sistemi sono emersi e si sono modificati. Seguendo la.falsariga delle variabili spazio-tempo ci possiamo rendere conto del tipo di globalizzazione che essi produrranno nel futuro. Il terzpo di area metropolitana e di sistema di città e dei reciproci rapporti è dominato dall’irruzione di alcune tecnologie pre-moderne, moderne e post-moderne, e in secondo luogo dagli spazi in cui questi si manifestano e innovano. In altri termini, simili tecnologie orientano i processi urbani in maniere differenti a seconda che riguardino le società che hanno elaborato tali tecnologie oppure le società che le recepiscono a posteriori. Una prizza tecnologia che produce l’area metropolitana è stata la funzione di capitale di un grande stato, meglio se esso è un impero. In questo caso si ha concentrazione di funzioni rare, immigrazione di popolazione da spazi vicini alla, e lontani dalla, città centrale, espansione a macchia d’olio

della città verso l’esterno, dominio di questa città centrale su tutte le città che fanno parte dell’area metropolitana. Gli esempi più celebri sono senz'altro quelli di Roma e Costantinopoli-Istanbul, e più tardi di Vienna. Ma anche negli stati nazionali che sono al centro di imperi coloniali, come Francia, Gran Bretagna, Spagna, si forma un’area metropolitana intorno alla capitale, che estende le proprie relazioni gerarchizzanti verso e da tutte le città del regno. In tutti i modi, in questo contesto pre-industriale l’area metropolitana non assume le dimensioni delle epoche indu100

striali e post-industriali. All’interno invece di aree imperiali, in cui sull'onda di un sistema feudale a maglie gerarchiche molto allentate per tali feudi/mini-stati, vi è abbastanza diffusa la condizione di capitale delle molteplici città: l’Italia e la Germania forniscono esempi di diffusione di tanti piccoli stati, con città capitali (dai cinquanta ai centomila abitanti), artisticamente molto belle e curate, che stanno al centro, non ecces-

sivamente gerarchizzato, di un sistema di città all’interno del mini-stato e verso le città dei piccoli stati vicini. L'Italia del Nord e del Centro pullula di signorie, ognuna con le proprie città, connesse intensamente fra loro, ma attente a salvaguar-

dare la propria specificità rispetto alle altre. Ci troviamo di fronte, ante litteram, a tanti sistemi di città, tra le capitali dei

tanti piccoli stati e tra le città di ognuno dei singoli stati. L’industrializzazione rappresenta il punto di svolta del passaggio da sistemi di città a nuove aree metropolitane contrapposte a città medie indipendenti, non capaci di essere centro metropolitano e non capaci di costruire un siste-

ma di città con altre città indipendenti [cfr. Ardigò 1967]. Più analiticamente, l'incapacità di diffondere funzioni,

energia elettrica, strade ben percorribili, residenze diffuse omogeneamente per tutto il territorio produce l’area rzetropolitana. Anche in questo caso, la città metropolitana si forma per stadi. Nella prima industrializzazione si assiste ad un aumento radicale degli abitanti del centro metropolitano, attraverso l’immigrazione dalle campagne circostanti ma anche dalle aree lontane del meridione per l’Italia settentrionale, dall'Europa per le città americane [cfr. Mortara 1968]. Roma, ad esempio, nei cento anni 1861-1971 ha visto aumentare la popolazione del 1329,6%, contro un aumento del 386,5 % nei tre secoli compresi tra il 1550 e il 1861. Nella fase successiva all’industrializzazione matura, nella rete me-

tropolitana la città razionalizza la propria funzione di centro accentuando la concentrazione di funzioni attraverso le organizzazioni di livello provinciale e regionale, il che fa convergere popolazione dall'esterno anche verso le città periferiche al centro metropolitano. Anzi, la città centrale,

dopo avere esteso i confini amministrativi fino ad inglobare i comuni vicini, perde una parte di popolazione, che dal 101

centro cintura Ma qualità effetto

della città si sposta verso i comuni e le città limitrofa [cfr. Ardigò 1967]. anche questo modello, per effetto del declino della vita che può offrire la città metropolitana della dotazione di servizi delle città intermedie

delladella e per [Ba-

gnasco 1977] e della facile accessibilità, entra in crisi, libe-

rando, almeno per l'Europa e per l'America settentrionale, la «voglia» di città medio-piccola e «propria»: ecco dunque che all'area metropolitana si sostituisce l’importanza del sistema di città. Si tratta di un sistema in cui ogni città riacqui-

sta nel «cuore» e nelle aspettative della gente e dei residenti il ruolo di punto di riferimento stabile in una vita vissuta nel più profondo movimento. Come detto altrove [A. Gasparini 2010], l’area metropolitana rimane, ma con connotati più aspaziali, puntuali e tonnessi a funzioni di potere (economico innanzitutto), e meno legati alla residenza, alla vita quotidiana, ai valori dell’appartenenza e dell’identità. Tale processo tuttavia è più caratteristico di quella parte del mondo, e del relativo spazio, che ha elaborato ed esperito

il sistema di città pre-moderno e l’area metropolitana prodotta dall’industrializzazione. Cosa succede e cosa è successo però nella parte Sud del mondo, nell’altro spazio mondiale? Il Sud del mondo è molto vario dal punto di vista urbano e lo dimostra lo stesso grado di urbanizzazione illustrato nella tabella 1. TAB. 1. Percentuale di popolazione urbana a seconda della media dei paesi appartenenti ai sei continenti

Percentuale dei paesi, secondo la popolazione urbana 0-49%

50-79%

Totale

80-100%

Europa

10,6

61,7

27,

100,0

(47)

Asia

46,5

30,2

2355

100,0

(44)

Africa

TIA

17,0

5,6

100,0

(53)

3

100,0

-

100,0.

(2)

America Centro-Sud

25,0

56,3

18,7

100,0

(32)

Oceania

61,5

2390

15,4

100,0

(14)

America del Nord

Fonte: rielaborazione di dati tratta dall’At/lante geografico De Agostini 2003.

102

L’Europa è il continente della medio-alta urbanizzazione (nel 61,7% dei paesi vi è dal 50 al 79% della popolazione urbanizzata), ma esiste anche un 27,7% di paesi con alta

urbanizzazione. In Asia circa la metà (46,5%) dei paesi è al di sotto del 50% della popolazione urbanizzata (soprattutto paesi del sud), ma vi è anche un’alta percentuale di paesi (23,3%) con oltre 180% della popolazione concentrata nella città. L'Africa è connotata dal 77,4% di paesi con bassa concentrazione urbana (fino al 50%). Situazione analoga si rileva in Oceania per la diffusione di mini-stati/isole, a parte l’Australia e soprattutto la Nuova Zelanda per la più alta concentrazione urbana. Analoga all’Europa è invece lAmerica (soprattutto del Nord, ma anche del Centro-Sud). Dietro a questa concentrazione stanno realtà contestuali molto diverse, dai mini-stati ad alta concentrazione urba-

na ai mini-stati formati da isole con città capitali con pochi abitanti, ma anche con alle spalle processi di formazione dello stato cominciati in tempi e in forme differenti. Ad ogni modo, la formazione dello stato moderno ha privilegiato l’allargamento e la concentrazione demografica in poche città centrali. Il processo è stato abbastanza analogo: primo dello stato moderno vi è una sorta di confederazione di villaggi-comunità; essi sono pressoché autonomi e retti da un capo-villaggio il cui potere viene dal prestigio e dalla saggezza del notabilato (francese). Sono comunità autosufficienti economicamente, i terreni sono spesso comuni e opere

comunitarie vengono svolte seguendo il modello della corvée. Il potere centrale è molto lontano e non pretende altro che una quota dei prodotti. In questa situazione, le città centrali e capitali sono molto piccole per popolazione, e rispetto alle città-villaggio sono contenitori della simbolica del potere, della cultura del popolo e della civiltà. Con l’introduzione dei modelli dello stato moderno, si

produce la distrettualizzazione del territofio. Il suo governo è attuato attraverso un funzionario del potere centrale: i villaggi pagano tasse in moneta, l'economia agricola è realizzata per il mercato nazionale e non solo per il mercato locale, i terreni vengono attribuiti per proprietà, vengono at-

tivati nuovi sistemi formativi della popolazione con ciò pro103

ducendo nuove classi sociali formate nelle scuole delle città centrali e attratte dagli stili di vita della città. Le conseguenze sono molteplici e di queste ricordiamo le seguenti. Anzitutto si ha la distruzione del vecchio ordine del potere locale fondato sul villaggio, sull’autorevolezza del capo-villaggio, sull’autarchia dell'economia locale. In secondo luogo, vi è una rigida ristrutturazione del sistema urbano, fondato sulle città sede di distretto, che tuttavia hanno una scarsa autonomia nel relazionarsi con città e at-

tori che non siano la città capitale e gli attori ivi localizzati (scuole superiori, grandi aziende, potere politico), e ciò perché il riordino urbano è venuto da forze e poteri politici, economici e culturali.

Acquista centralità estrema la città capitale, che spesso raccoglie i resti (anzitutto architettonici, urbanistici, simbolici) della cultura locale assunta a «identificare» il nuovo

stato. Questa grande città è l’unico canale per i rapporti con l’esterno, è il mediatore privilegiato dei miti e degli stili vissuti nell’Occidente, e soprattutto diventa il punto di riferimento di una immigrazione proveniente dall’ordine scomparso della cultura-economia del villaggio. La città «scoppia» per effetto delle immigrazioni «selvagge», e quindi non è in grado di dare accoglienza adeguata alle aspettative «moderne» della nuova popolazione, e d’altra parte questi immigrati si sistemano nella città «inventando» uno stile fatto da sé, basato sul modo di abitare che hanno lasciato

nel villaggio rinforzato da alcuni strumenti «moderni» come può essere la televisione e la radio. In altri termini, è in queste grandi città che nascono vaste zone di squatters, barrios, favelas, in cui abitano gli immigrati che vengono dalla foresta, dalla campagna e dall’agricoltura della sussistenza. In sintesi, nel Sud del mondo si forma secondo un processo nuovo, non visto prima, un’area metropolitana: 1) sen-

za industrializzazione; 2) senza un background precedente e autoctono di un sistema di città; 3) ed invece con un’indu-

zione primaziale originata dal potere politico modellato sullo stato moderno di origine occidentale ma gestito secondo rapporti di potere tradizionale tra gruppi sociali a carattere etnico o militare; 4) e, infine, con un rapporto molto forte

104

con il resto del mondo sia delle classi dominanti attraverso i rapporti interstatali che delle classi dominate attraverso l'emigrazione.

3. Il futuro di area metropolitana e sistema di città, con un ritorno al sistema di città Dal confronto tra area metropolitana e sistemi di città vediamo che vi è netta differenza tra il Nord del mondo e il Sud del mondo. Nel Nord del mondo: 1) sono sempre esistiti i sistemi di città cui ha fatto seguito l’area metropolitana per effetto dell’industrializzazione o della funzione di capitale politica, ma a cui, nel presente e nel futuro, fa seguito il riemergere prepotente del sistema di città per la funzione residenziale e identitaria e il rifunzionalizzarsi dell’area metropolitana (a carattere economico soprattutto); 2) l'emigrazione campagna-città, periferia-centro non ha distrutto il sistema di città già esistenti, anzi essa si è fermata anche per effetto delle nuove tecnologie viarie; 3) la ripresa di importanza del sistema di città fa scomparire la distinzione fra urbano e rurale, in quanto la popolazione vive gli stessi valori e stili di vita, e quel che resta di discriminante tra città e campagna sono gli spazi tra costruito e non costruito, e l’attività dell’agricoltura in quella che chiamiamo «campagna»; 4) il declino dell’area metropolitana residenziale a favore del sistema di città attenua la possibilità del formarsi di uno zorzng spinto che localizza popolazioni povere e immigrate in ampie zone urbane fino a formare s/ur2 degradati, e in secondo luogo la piccola-media città favorisce il mantenimento di un mix residenziale delle classi sociali e una conseguente qualità della vita e attenua per tali vie le distanze sociali e culturali. Nel Sud del mondo: 1) non vi è stato; in linea di massi-

ma, un sistema di città medio-piccolo, con una propria forza ed ‘energia messa in essere dalle classi sociali autoctone (si consideri a questo proposito quanto scrive Weber

[1979,

21 ss.] sulla città asiatica), ed invece si è formata una città a

| carattere amministrativo e con la forma di area metropo105

litana; 2) questa città metropolitana si è formata soprattutto . per effetto dell’immigrazione dai villaggi del precedente ordine distrutto e dalla concentrazione delle professioni e della formazione con carattere strettamente urbano; 3) la

debolezza dei sistemi di città in connessione/antitesi con l’area metropolitana conserva ancora molto forte la divisione tra urbano e rurale, e tra città e campagna, non solo distinte per funzione economica (agricola e non agricola) ma

anche per vita quotidiana moderna e tradizionale; 4) il consolidarsi dell’area metropolitana nella città centrale enfatizza ancora di più la radicalizzazione sociale, economica e culturale dello z0r:rg urbano per le classi sociali, denotando anche spazialmente l’esistenza di molteplici città sociali nella città metropolitana che non si incontrano e non dialogano se non per alcuni punti, quali l’azienda, i servizi sociali, le scuole. In queste condizioni la fuga dall’emarginazione metropolitana non può che avvenire attraverso l’emigrazione, in questo caso però verso le città di paesi del Nord del mondo. Quale futuro per i sistemi urbani? La risposta è molto complessa. Mi limito a sviluppare alcune considerazioni, che cominciano senz’altro dal confronto asimmetrico tra sistemi urbani del Sud e del Nord del mondo. Il sistema di città diffonde più l'identità e l'appartenenza nel Nord del mondo (nel Sud esso è molto debole), e quindi nel prossimo futuro ci si può aspettare che si espanda sempre di più. Più difficile e più lungo è il processo nei paesi del Sud del mondo, poiché, come abbiamo detto, tale sistema di città o non

ha storia o l’ha molto locale: certamente vi è un movimento che favorisce lo sviluppo modernizzante, cercando di convincere la gente a restare nelle piccole-medie città di provincia piuttosto che emigrare nella metropoli. Un tale movimento trova attori nelle politiche governative locali, ma soprattutto nelle azioni delle Ong internazionali (e nazionali) e dei fondi per la cooperazione e lo sviluppo. Questa è una linea della globalizzazione e delle relazioni internazionali tra le parti del mondo. Ed inoltre è una globalizzazione che si realizza anche attraverso la valorizzazione del locale, 106

delle culture e delle tradizioni locali e più in generale attraverso l'enfasi dell’appartenenza alla comunità della città medio-piccola. Nelle aree metropolitane, le relazioni implicate dalla globalizzazione, e quindi tra le metropoli mondiali (del Sud e del Nord), seguono due direzioni che non si toccano: la prima è costituita dagli immigrati che vengono dall’area metropolitana del Sud del mondo verso il Nord a cercare lavoro e condizioni di vita migliori di quelle vissute nella propria metropoli, la seconda è costituita dai turisti che vanno dalle aree del Nord verso quelle del Sud [Zago 2004]. Il risultato, attuale e futuro, è la sostituzione di popolazione autoctona con quella immigrata nelle aree metropolitane del Nord del mondo con la richiesta di politiche urbane per ricomporre un’alta qualità della vita nella città metropolitana squilibrata dalla nuova situazione [A. Gasparini 2000, 231-256]; e l'adeguamento delle città del Sud del mondo ai flussi turistici (fonte di reddito) con l’organizzazione dei siti culturali e ambientali e dell’accoglienza dei turisti che vengono dal Nord del mondo. Pur con le differenti situazioni urbane esistenti per i continenti (come appare nella tabella 1 di questo capitolo) abbiamo che, a livello mondiale, la popolazione urbana per paese corrisponde al 54,5%, e cioè più di metà della popolazione mondiale vive nelle città sia che appartengano a sistemi di città che ad aree metropolitane. La diffusione degli stili di vita urbani per tutti i territori nazionali fa supporre - poi che la percentuale di popolazione urbanizzata sia ancora più elevata nei paesi del Nord del mondo e (in futuro) anche in quelli del Sud. In queste condizioni si accentua la possibilità che la popolazione mondiale sia sempre più globalizzata, ma al tempo stesso inserita nei processi relazionali che abbiamo fin qui considerato. Tuttavia proprio questi processi relazionali, realizzati da una popolazione sempre più urbana, sono alla portata dell’individuo, della sua valutazione e della sua scelta, indipendentemente dal sistema politico, dalla religione, dalla cultura, dalla nazione da cui proviene. Certamente si tratta di un individuo che può agire singolarmente, o nell’ambito 107

della propria famiglia, o nell’ambito di una organizzazione . con le sembianze di un’impresa, di un’associazione, di una cooperativa o di una istituzione. Per tale via osserviamo che questo individuo, derivante da una cultura dell’autorealizzazione e della società civile, e nella forma individuale od

organizzativa (comprese le multinazionali), diventa motore della globalizzazione e del localismo. E questa è una situazione molto vicina a chi vede che la politica (locale, nazionale e mondiale) è fatta dagli individui, poiché sono loro che prendono le decisioni ed è a loro che bisogna attribuire la responsabilità (si veda il capitolo I, ma anche Picco [{1999]). Si può pensare anche a un individuo manipolato, ma senz'altro la cultura diffusa e di contesto è quella di valorizzazione dell’individuo, che contribuisce a contenere, se non

a impedire, simile manipolazione. Più in generale, dunque, nell’era del locale la cultura dell’individuo e dell’individuo urbano, con le sue opinioni, i voti elettorali e le sue azioni pubbliche, entra direttamente e influenza il globale e il locale, e al tempo stesso influenza con il suo lavoro e il suo tempo libero quotidiano il locale e il globale contemporaneamente.

108

CAPITOLO QUINTO

IL PROFILO: LA PACE NELLE AZIONI DELLE ORGANIZZAZIONI E DELLE ONG INTERNAZIONALI

1. La pace dell’uomo quotidiano, del creativo, delle organizzazioni

Lo sapevano anche gli scopritori di nuove terre, e lo sanno pure i ricercatori scientifici, che senza fondi finanziari (seppur minimi) e strutture di organizzazioni non è possibile realizzare progetti più o meno complessi, nonostante la creatività, la forte motivazione e l'impegno della singola persona. Ciò è vero anche per chi vuole contribuire alla creazione

della pace laddove esistono conflitti, o al mantenimento della pace laddove esiste una situazione senza marcati conflitti. È chiaro che dietro a queste azioni del singolo individuo stanno delle concezioni della pace, dei valori su ciò che è ordine e disordine, la convinzione che si può fare qualcosa per introdurre la pace [A. Gasparini 2008a]. Tali concezioni, valori e convinzioni sono alla base del formarsi dell’opinione pubblica, la quale nella realtà attuale è espressa dalla cultura liberal-cristiana-occidentale. E questa ha elaborato: 1) una concezione dell’individuo separato dalla comunità e dalla nazione; 2) una concezione del pluralismo che opera dialetti‘camente, raggiungendo modificazioni senza la violenza; 3) una concezione dello stato che è capace di superare l’idea ottocentesco-novecentesca dello stato-nazione; 4) una concezione del

. minimo vitale che crea le condizioni perché la maggioranza della gente sia localizzata nella parte centrale di una curva gaussiana della distribuzione del reddito; 5) una concezione che l’accesso delle masse a un reddito medio avvenga senza violente rivoluzioni, per il quale, pur restando sempre le differenze di classe, i livelli più bassi della popolazione hanno reddito sufficiente per accedere a consumi vistosi e congruenti all'essere cittadini di una società mediamente affluente; 6) una 109

concezione della mobilità di tutto ciò e soprattutto l’idea che.

c'è sempre la possibilità, e ad ogni modo la speranza, che esso si realizzi anche se attualmente non esiste; 7) una conce-

zione per la quale la giustizia sociale rappresenta una sorta di garanzia che le regole del gioco valgano per tutti e «pressappoco» nella stessa maniera [A. Gasparini 2002e]. Tali concezioni costituiscono le fondamenta, a mio av-

viso, della pace, e sono una sorta di garanzia che questa sia socialmente diffusa per la società e che possa mantenersi, pur nella dinamica dei mutamenti sociali prodotti all’interno e indotti dall’esterno della società. Come si contribuisce alla pace? L'uomo quotidiano, o ad ogni modo quello che si realizza in un 772x di vita pubblica e di vita privata, vi contribuisce attraverso il suo consenso, che si trasforma in opinione pubblica, e quindi in sostegno alle linee politiche dei suoi governanti e a linee alternative espresse dalle organizzazioni che si occupano di diritti umani, di giustizia sociale, di pace. In generale nei paesi occidentali, dai quali sono nate le concezioni richiamate, tali sostegni a governi, ma soprattutto a organizzazioni, as-

sumono l’aspetto del controllo dell’applicazione delle regole del gioco democratico all’interno del proprio paese e dell’attesa dell'intervento attivo nei paesi in cui tali concezioni di pace sono molto deboli. Un secondo modo di contribuire alla pace avviene attraverso l’opera delle organizzazioni internazionali, le organizzazioni non governative e in generale i segmenti organiz-

zativi indipendenti. Queste entità sono il frutto di un ideale nato dall’Illuminismo europeo e da un sogno wilsoniano del governo mondiale (ad esempio l'approccio WompWorld Order Models Project) [Falk e Kim 1983], il quale a sua volta è un 772x di estensione dei vantaggi di impero mondiale e di un’analogia con l'insieme di stati che compongono gli Stati Uniti. In passato le organizzazioni internazionali hanno avuto alterna fortuna. All’interno di imperi hanno avuto la funzione di espandere gli interessi e i valori del centro, di omogeneizzare culture tra di loro e con quella del centro, di dare legittimità all’esterno, di far sentire la voce delle periferie. Le 110

organizzazioni concrete corrispondono a nomi molto noti negli ambiti diversificati di imperi territoriali o mondiali. Un esempio è dato dal sisterza di organizzazioni culturali che nell’Impero asburgico ha elaborato una cultura al di sopra delle culture nazionali, che permetteva alle élite dell'Impero di comunicare e di operare un mix tra esse, basato su matrimoni, interessi economici, accademie umanistiche, istituti scientifici. Si trattava della cultura maittel-

europea che si configurava come una necessità per creare integrazione da cosmopolitismo in una particolare e specifica realtà politica e sociale. Altro esempio è rappresentato dalla chiesa cattolica di Roma che si è sempre configurata come un’organizzazione internazionale o un insieme di organizzazioni internazionali che, al di là delle ragioni territoriali e statali del Papato o dello Stato pontificio, è stata presente e ha perseguito i suoi obiettivi cosmopoliti in ogni parte del mondo. In effetti la fautrice delle crociate e della lotta ai turchi è stata soprattutto la chiesa cattolica: era il Papa che sosteneva la crociata e spronava a ciò Federico II, era il Papa il migliore alleato degli Asburgo quando i turchi erano alle porte di Vienna. La capacità di andare oltre e contro la volontà delle autorità politiche locali e nazionali è stata espressa ancora dalla chiesa cattolica (si pensi alle «riduzioni» in Paraguay, Brasile, Argentina da parte dei gesuiti), ed è tuttora la chiesa cattolica di Roma ad essere presente in ogni parte del mondo e a sostenere lo sviluppo e la dignità dell’uomo e dei gruppi deboli. Un terzo esempio è dato dalla ragnatela dinastica dentro e fuori degli imperi, che è stata una sorta di organizzazione internazionale che ha assicurato lealtà di nazioni differenti e

di sudditi di nazioni e di imperi. Anzi tale ragnatela di connessioni familiari ha spesso elaborato un sistema di gerarchizzazioni e di pacificità politiche entro i territori di un impero, controllato anche solo nominalmente da un monarca.

E ilcaso del Sacro rozzano impero, che si estendeva nominalmente per tutta la Germania, l’Austria, l'Europa centrale e gran parte dell’Italia. Il sistema dinastico, in quello che poi diventò l'Impero d'Austria, assicurava all’interno dell’Impero stesso la lealtà dei tanti popoli (boemi, moravi, polacchi, deli

ungheresi, sloveni, croati, italiani, galiziani, ruteni, bucovini, . ecc.); ma anche una sorta di lealtà veniva assicurata attraver-

so l’istituzione dell’investitura, per la quale, ad esempio, i territori ereditati da Matilde di Canossa venivano confermati di monarca in monarca agli Estensi, ai Gonzaga, ai Medici e

poi agli Asburgo-Lorena, ecc. I legami dinastici dunque rappresentavano un punto di riferimento, di sanzionamento e di lealtà che portava alla, o doveva consentire la, pace. Con questo sistema matrimoniale, seguente un 772x di diritto succes-

sorio salico e di diritto successorio longobardo, si instaurò una sorta di organizzazione internazionale implicita al servizio della politica e della diplomazia, ma anche al servizio di élite e di popoli che gerarchicamente entravano in un ordine condiviso. Ciò cominciò a decadere con l’affermarsi dello stato-nazione e del nazionalismo non più retto su un diritto fondato sulla «grazia di Dio», ma su tratti etnici, storici e culturali della comunità insediata sul luogo nazionale. La logica dinastica ad ogni modo perforò la modernità e continuò a svolgere un ruolo di pacificazione negli imperi che rimasero in piedi fino alla Prima guerra mondiale: l’austro-ungarico, il germanico, ma anche il russo, l’ottomano, il francese, l’anglosassone.

Altri esempi di organizzazioni internazionali del passato, che svolgevano funzioni diverse o anche di supporto velato dello stato nel quale si erano sviluppate, non mancano: le Associazioni geografiche nazionali come stimolo alle scoperte geografiche, la Compagnia delle Indie nel commercio con le nuove terre, e così via.

Possiamo dunque affermare che il ruolo delle organizzazioni internazionali è sempre esistito in un contesto imperia-

le, poiché è qui che tali organizzazioni hanno bisogno di connettere le periferie sociali, comunitarie, territoriali con il

centro e viceversa, al fine di assicurare una partecipazione pluralistica al potere, alla cultura e ai valori, ma al tempo stesso

per realizzare un'integrazione sufficientemente pacifica nell'ambito di un sistema di pesi e contrappesi. Ma è altrettanto chiaro che tali organizzazioni internazionali pre-Novecento svolgono le proprie azioni soprattutto all’interno del proprio impero, con eventualmente qualche connessione reciproca con analoghe organizzazioni operanti negli altri imperi. 112

Lo scenario cambia quando è un unico impero che globalizza e diffonde il proprio ordine e i propri valori. Ciò, a maggior ragione, sembra essere la situazione attuale, anche se un tale impero è costituito da stati che sono formalmente indipendenti e non inglobati, seppure gerarchicamente ordinati. Dunque possiamo renderci conto che, dopo la lunga notte di sonno delle organizzazioni internazionali, avvenuta durante il predominio assoluto degli stati-nazione e dell’ideologia nazionalistica, il loro ruolo riprende estrema importanza per coordinare, diffondere e assicurare, in un certo grado, pluralismo all’interno di un mono-impero, diffuso a tutto il mondo seppure formalmente rispettoso delle sovranità statuali dei circa duecento stati. E tali organizzazioni internazionali non sono solo diffusori di consumi e di clienti di consumi, ma anche operatori di congruenza tra i valori del centro ‘con i valori profondi delle culture locali dei luoghi del mondo. Le organizzazioni internazionali dunque, originate organizzativamente dall’Occidente e dalla sua opinione pubblica, si fanno diffusori di valori centrali, generatori di con-

gruenza tra valori differenti, ma per questa via anche diffusori di secolarizzazione nell'approccio ai conflitti e di standardizzazione dei modi di intendere la pacificazione, i rapporti interetnici e la soluzione dei conflitti. E, nonostante tutto, si fanno anche diffusori della convinzione che sia

possibile, doveroso, premiante lo spostarsi (migrare) per il mondo e verso le zone in cui vi è la migliore realizzazione dei valori sostenuti dalle organizzazioni internazionali, in «quanto si vive un mondo standardizzato. La pace assume i colori e il volto figurato del Primo Mondo, dal quale partono le organizzazioni internazionali, ma tutto ciò non è automatico, e allora anche nel mondo ricco e di partenza possono realizzarsi quei conflitti che Occidente pensava essere realtà solo degli altri [cfr. A. Gasparini 2008a, 45-50]. 1.1. L’uomo creativo e le organizzazioni L’ultimo aspetto che ci preme considerare nel rapporto tra organizzazioni e individuo per la pace è che alla guida 113

di tali organizzazioni vi sono spesso degli uomini creativi, e . cioè delle persone che presentano una forte motivazione alla realizzazione di un obiettivo che richiede di elaborare delle risposte uniche, non esplorate, sentite come neces-

sarie per realizzare aspetti concreti di situazioni di pace. In altri termini la forte motivazione allo scopo pacifico attiva un’altrettanto forte ricerca di soluzioni nuove a problemi reali e di messa in opera di tale ricerca. Tali organizzazioni si basano molto spesso su un elemento carismatico, richiesto dall’idea e dall’individuo, per elaborare gli obiettivi, le risposte organizzative, l'orientamento di risorse finanziarie, umane e operative verso l’organizzazione, ecc.

Queste medesime organizzazioni poi si mettono al servizio della società politica statuale e della società civile locale per quanto riguarda gli obiettivi, ma sono molto gelose della propria indipendenza operativa e realizzativa dell’obiettivo. Si tratta di una sorta di cosmopolitismo, che ne garantisce l'operatività ma anche il mantenimento della carica carismatica intrinseca e al tempo stesso la fedeltà al valore globale e profondo (non conflitti, giustizia sociale, sviluppo e così via) sul quale fondano la loro natura. Simili organizzazioni possono prendere la forma di movimenti utopistici, e in tal caso vogliono proporre soluzioni anche estreme a un problema, le quali potranno essere verificate nel piccolo ed eventualmente fornire elementi per la soluzione nella realtà macro. Ma tali organizzazioni, che trattano di problemi che implicano alte motivazione e creatività, possono anche svolgere le funzioni della ricerca per il tema particolare della pace e della soluzione dei conflitti e le funzioni della formazione professionale alla gestione dei processi per arrivare a mantenere la pace. In am-

bedue i casi le due funzioni implicano una certa sensibilità e una certa capacità di trovare soluzioni specifiche a condizioni nuove e di esplorare la validità di questi. In altri termini il trattare i problemi della pace vuol dire mettere nell’azione una forte volontà di esplorare cosa c’è oltre «il già visto», e di conseguenza organizzare le risorse in modi anche radicalmente nuovi [AA.VV. 2002].

114

2.

Le organizzazioni per la ricerca e formazione per la pace

L’Unesco, attraverso il suo Centro di documentazione di scienze umane e sociali (Shsdc), periodicamente invia al-

le istituzioni di formazione e di ricerca della pace esistenti nel mondo un questionario nel quale si chiedono informazioni su come sono organizzate tali istituzioni, quali attività svolgono, quali rapporti mantengono con le altre organizzazioni, verso quali direzioni sono orientati questi rapporti: a livello nazionale o a livello internazionale, ecc.

La directory così ottenuta ha compreso nel 1991 (settima edizione) 418 organizzazioni, mentre nel 1999 esse sono cresciute a 580. Di queste poi avevano uno status interna-

zionale o regionale 60 nel primo caso e 47 nel 1999. Qui di seguito utilizziamo i dati della Banca dati del 1999, per descrivere la condizione e la natura delle organizzazioni. Per utilizzare in maniera aggregata i dati abbiamo dovuto trasformare la directory in archivio, costruendo una Banca dati informatica! [Unesco 1999] composta dei singoli dati, quindi calcolandone le distribuzioni e incrociando le informazioni tra di loro. Il risultato di tali nostre elaborazioni è rappresentato dalle caratteristiche che qui presentiamo e discutiamo. Vi sono alcune limitazioni nell’interpretazione di tali risultati, che derivano, da un lato, dal fatto che non si sa

quanto il campione di organizzazioni rappresenti l'universo, e dall’altro, dal fatto che esiste un certo numero di mancate

risposte ai quesiti posti (a volte abbastanza elevato). 3. I/ grado di autonomia delle organizzazioni

Per verificare il grado di autonomia dell’organizzazione, abbiamo a disposizione due informazioni: il numero di appaftenenti allo staff, l'appartenenza dell’organizzazione ad una università. Come operano i due indicatori dell’autonomia? Anzitutto vi è da dire che lo staff comprende il personale che si dedica a tempo pieno all’organizzazione, e per delle funzioni di routine: così, se sono indicati pochi addet! Questi dati sono stati elaborati dal dottor Luca Bregantini.

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ti, ciò può voler dire che tali funzioni di routire sono svolte . da persone già impegnate per la maggior parte del tempo in funzioni simili per l’organizzazione-madre in cui è incardinato il centro per la pace di cui stiamo trattando. In altri termini l’amministrazione, il trairing, la ricerca di questo centro è svolto da chi è incardinato in altra organizzazione.

Ciò spiega perché il 3,6% di queste organizzazioni per la pace non ha nessun componente dello sta/f, come appare nella tabella 1. D’altra parte di simili organizzazioni ben il 39,1% è emanazione di una università.

Dalla tabella 1 appare che hanno un livello di maggiore autonomia le organizzazioni con un numero più alto di componenti dello sa/f. Ed in effetti il 51,6% ha più di dieci dipendenti (con il 29,9% che ne ha più di venti); mentre minore autonomia ha il 44,8%.

Alla complessità degli addetti poi contribuisce più la ricerca (con il 41,7% di organizzazioni che ha più di cinque ricercatori), l’amministrazione (con il 23,7% di organizza-

zioni che ha più di cinque impiegati), la formazione (con il 18,6% di organizzazioni che ha più di cinque addetti), e infine il personale addetto alla documentazione (con 1°8,5% di organizzazioni che ha più di cinque addetti). Osservata la realtà dalla parte dell’assenza di complessità ci rendiamo conto che non c’è staff addetto alla cura della documentazione nel caso del 75,9% delle organizzazioni e non c'è staff per la formazione nel caso del 56,3% delle organizzazioni; anche se poi osserviamo che il 59,2% delle stesse si dedica all'informazione e alla documentazione, e il 63,9% al tratning.

Ciò conferma l'ipotesi fatta sopra: una parte di queste organizzazioni, pur non avendo personale preposto alle funzioni di training e di documentazione, svolge le stesse funzioni ricorrendo a personale di altre organizzazioni. In sintesi queste organizzazioni preposte a studi sulla pa-

ce comprendono sia quelle che presentano una labile differenziazione funzionale da un’altra organizzazione e quindi senza una vera autonomia e sia quelle organizzazioni che hanno una forte e spiccata autonomia di funzioni e di personale.

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4. Pubblica o privata Le organizzazioni di formazione e di ricerca sulla pace sono per più di metà private (58,3%) contro il restante 41,7% pubbliche. Ciò significa che esse sono più espressione della società civile e degli interessi e dei valori sui quali essa si fonda, che non del mondo organizzato o che persegue valori e obiettivi diretti delle società politiche dei paesi di appartenenza di tali organizzazioni. Le organizzazioni private, che in generale sono poco

soggette a controlli e a vincoli statali ma che presentano anche una mortalità e una elasticità più marcata di quelle pubbliche, sono più diffuse in America (e quindi soprattutto negli Stati Uniti), trattano temi di ricerca nuovi [come ad esempio il terrorismo (87,5% delle private vs. il 12,5% delle organizzazioni pubbliche)] o di carattere gestionale della società e dei suoi rapporti [violenza, nonviolenza (71,9% privati vs. 28,1% delle organizzazioni private)] o più propriamente di trasformazione della struttura della società (66,7% private vs. 33,3% pubbliche). Si tratta inoltre di organizzazioni con pochi addetti, ma inserite in reti interorganizzative o almeno con diffusi collegamenti esterni (il 63,9% ed il 64,5% vs. il 36,1% ed il 355% di quelle pubbliche).

Le organizzazioni pubbliche naturalmente sono espresse dalla società politica, e in particolare dalle università (il 55,9% vs. il 44,1% delle organizzazioni private), sono mag-

gioritarie soprattutto in Oceania (87,5% vs. 12,5%), Africa (56,5% di tutte le organizzazioni africane), Europa (55,4% di tutte le organizzazioni europee), Asia (92,6% di tutte le organizzazioni asiatiche). In generale sono dotate di uno staff numeroso (oltre 20 persone) in totale (il 53,8% vs. il 46,2%), ma anche nella ricerca, documentazione e soprat-

tutto amministrazione (oltre 10 addetti nel 59,3% delle organizzazioni). Le relazioni con le altre organizzazioni invece sono molto modeste. I temi di ricerca più specifici riguardano il peacemaking e il peacekeeping (il 52% vs. il 48%), la sicurezza internazionale, la strategia e la difesa (il 47,9% vs.

il 52,1%), la democrazia, la pace e i diritti umani (il 47,9% vs. il 52,1%), il disarmo (il 47,5% vs. il 52,5%). 118

In sintesi la differenziazione tra pubblico e privato passa fra tradizioni organizzative (gli Stati Uniti più privati e gli altri continenti più pubblici), temi nuovi che richiedono maggiore elasticità e piccoli interventi (privati) contro i temi più tradizionali globali e richiedenti maggiore complessità, diffusività internazionale realizzata attraverso l’inserimento in reswork relazionali contro la tendenziale chiusura in se stessi nel perseguire i propri obiettivi. AI di là di tali distinzioni tipologiche, generate da pubblico e privato, vi sono anche dei tratti che accomunano tutte le organizzazioni per la ricerca della pace e la formazione. Così, puntando l’attenzione sulle percentuali vicine a quella del numero di organizzazioni pubbliche (41,7%) e di organizzazioni private (98,3%), osserviamo che carattere comune a tutti i tipi di organizzazioni è la dimensione media (per lo sta/f) e degli addetti alla formazione: ma un po’ tutte le organizzazioni pubbliche e private organizzano conferenze, fanno ricerca, pubblicano bollettini, riviste, libri; so-

no centro di documentazione; promuovono trasmissioni in mass media; elaborano cooperazione transfrontaliera. Sono molto comuni e diffusi poi i temi di ricerca connessi alla consulenza e alla mediazione, alla cooperazione internazionale e alla pace, all'educazione alla pace, alla coesistenza pacifica, alla soluzione dei conflitti, al peacebwilding, al peacemaking, ecc. 5. Anno di costituzione

La World directory dell'Unesco sulle organizzazioni di peace research e di training indica che delle 580 riportate, l’organizzazione più antica (che ha risposto al questionario Unesco) è stata fondata nel 1831, ed ha la sede centrale nel

Regno Unito (essa è la Royal United Services Institute for Defence Studies), la seconda risale al 1866, ed ha la sede nel Sud-Africa (University of Stellenbosch, Department of Political Science). Queste sono organizzazioni nazionali. La più antica a carattere internazionale è del 1889, ha sede centrale

a Ginevra ed è l’Inter-Parlamentary Union: ha stretti rapporti con le agenzie delle Nazioni Unite, ha uno staff di trenta 119

persone, pubblica libri e riviste e organizza conferenze e. convegni.

La tabella 2 evidenzia che tendenzialmente le organizzazioni internazionali e regionali sono nate prima di quelle nazionali. Il 13,1% di quelle internazionali è stato costituito pri-

ma del 1945, cui è seguito un aumento del 21,8% nel ventennio della ricostruzione successiva alla Seconda guerra mondiale e nel pieno della Guerra fredda (1946-°60), un ulteriore aumento del 32,6% nel ventennio della distensio-

ne tra i due blocchi (1961-’80), e un successivo ampliamento numerico (28,2%) nel decennio alla fine del quale c’è l’implosione dell’Unione Sovietica e dei paesi socialisti dell'Europa dell'Est (1981-’90). Dopo, comincia la decisamen-

te modesta costituzione di organizzazioni internazionali per la pace (solo il 4,3% negli anni Novanta), e ciò coincide

proprio con il nuovo corso mondiale in cui avvengono dei profondi rivolgimenti, ma per i quali si utilizzano le organizzazioni internazionali già esistenti, oppure si ricorre ad

altre, private e nazionali, che tuttavia svolgono pur’esse delle funzioni internazionali. Delle organizzazioni nazionali nate prima del 1945 la directory dell'Unesco ne indica 29, e cioè il 6,4% di quelle

registrate nel 1999, e nel quindicennio successivo (fino al 1960) il numero non aumenta che di un altro 5,9% (27 in va-

lori assoluti), poi vi è un aumento di circa il 30% (28,9%) nel ventennio (1961-’80) della distensione tra i due blocchi;

e successivamente vi è una sorta di esplosione nel ventennio di fine secolo (1980-’99) con circa il 60% (58,8%).

Ciò è molto indicativo, se si tiene conto che queste organizzazioni con status giuridico nazionale si occupano di temi internazionali, operano all’estero e in particolare nei paesi in via di sviluppo, e i valori che perseguono sono ivalori della pace, della soluzione dei conflitti, del disarmo e delle strategie globali. A tutto ciò possiamo dare la seguente interpretazione: la legittimazione delle azioni internazionali passa attraverso le organizzazioni internazionali (a cominciare dall’Onu e dalle sue agenzie) e queste già esistono; mentre le azioni operative 120

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composte di singoli percorsi formativi, di operazioni concrete, di ricerca sugli stessi temi internazionali sono riconosciuti a, e realizzati da, organismi nazionali delle singole società civili. Possiamo considerare meglio ciò, osservando quali sono i caratteri delle organizzazioni nazionali costituite in tre periodi: prima del 1946, dal 1946 al 1989, dal 1990 in poi. Le tabelle 3, 4, 5 offrono gli elementi per comprendere se ci troviamo di fronte a tre tipi di organizzazioni: ciò viene fatto osservando il discostamento di ogni carattere dalla percentuale media nella distribuzione delle organizzazioni stesse: e cioè il 6,2% quelle costituite prima del 1945, il 67% quelle costituite tra il 1946 e il 1989; il 26,8% quelle costituite successivamente. Le tre tabelle sono eloquenti nel tratteggiare altrettanti profili per le organizzazioni costituitesi nei tre periodi. h'

TAB. 3. Gli elementi caratterizzanti le organizzazioni nazionali costituite prima del 1946

% sul tot. delle organizzazioni —

Tema di ricerca: peacebuilding Tema di ricerca: relazioni internazionali Tema di ricerca: disarmo

11,4 8,7 8,5

Attività di cooperazione internazionale

8,3

Tema di ricerca: peacerzaking/keeping/building

8,2

Percentuale delle organizzazioni costituite prima del 1946 sul totale

6,2

Collegamenti interorganizzativi: n. 1

29

Tema di ricerca: coesistenza pacifica Tema di ricerca: educazione alla pace Fa parte dell'università Tema di ricerca: peacerzaking/keeping Sede centrale: Asia

25) 2,4 24 2A 1,4

Attività di consulenza/mediazione Tema di ricerca: ruolo organizzazioni internazionali

0,0 0,0

Tema di ricerca: terrorismo

0,0

Le organizzazioni costituite fino alla fine della Seconda guerra mondiale sono caratterizzate da temi di ricerca a carattere macro, in quanto orientati in aree in cui vi sono con122

flitti da sanare attraverso interventi di «solidarietà internazionale» sia militare che politica. Lo conferma anche il fatto che i temi di ricerca connessi alla società civile e allo sviluppo o ai valori della pace non sono molto perseguiti. TAB. 4. Gli elementi caratterizzanti le organizzazioni nazionali costituite tra il 1946 e il 1989 % sul tot. delle organizzazioni Tema di ricerca: terrorismo

87,5

Tema di ricerca: cooperazione internazionale/pace/sviluppo Tema di ricerca: sicurezza internazionale/strategia/difesa Tema di ricerca: studi generali sui conflitti

80,0 78,7 78,7

Collegamenti interorganizzativi: n. 1

78,6

Tema di ricerca: corsa armamenti

78,1

Tema di ricerca: ruolo organizzazioni internazionali

71,8

Sede centrale: America

TIA

Tema di ricerca: relazioni internazionali Tema di ricerca: conflitti internazionali Tema di ricerca: disarmo

VITRO) 77,0 764

Tema di ricerca: conflitti regionali Tema di ricerca: disarmo/corsa armamenti

76,3 75,0

Inserita in una zetwork

1339

Fa parte dell’università

73,6

Attività di promozione (Tv, trasmissioni, ecc.)

70,3

Attività di pubblicazione

70,2

Percentuale delle organizzazioni costituite tra 1946-1989 sul totale

67,0

Sede centrale: Europa Collegamenti inteorganizzativi: n.2’ Tema di ricerca: peacemaking/keeping/building

61,6 60,0 MEO)

Tema di ricerca: cultura della pace

54,8

Sede centrale: Africa

Attività di cooperazione internazionale Tema di ricerca: tecniche di mediazione e negoziazione Tema diricerca: peacebuilding

55,0

7

54,2 52,4 45,5

A queste organizzazioni, nei quarantacinque anni suc-

cessivi, se ne sostituiscono altre più complesse, poiché ai te123

mi «macro» predetti se ne affiancano altri connessi alle ri-. cerche sul terrorismo e allo sviluppo e alla cooperazione internazionale. Inoltre sono organizzazioni emanate o strettamente legate alle università, esprimono le proprie attività soprattutto attraverso pubblicazioni e utilizzo di mass 2edia, sono inserite in retwork relazionali, e in particolare so-

no diffuse in America e negli Stati Uniti. TAB. 5. Gli elementi caratterizzanti le organizzazioni nazionali costituite dopo il 1989 % sul tot. delle

organizzazioni

Tema di ricerca: peacebuilding Tema di ricerca: cultura della pace Tema di ricerca: tecniche di mediazione e negoziazione

43,2 41,9 40,5

Sede centrale: Africa

40,0

È

Sede centrale: Asia

37,8

Attività di cooperazione internazionale

SI

Tema di ricerca: xenofobia/conflitti etnici

35,2

Collegamenti interorganizzativi: n. 2

31,4

Sede centrale: Europa Organizzazione con statuto pubblico

31,4 30,6

Sede centrale: Oceania

30,0

Percentuale delle organizzazioni costituite dopo il 1989 sul totale

26,8

Attività di pubblicazione

259

Attività di informazione e documentazione

2501

Collegamenti interorganizzativi: n. 1 Tema di ricerca: disarmo/corsa armamenti/strategia Tema di ricerca: conflitti regionali

18,5 1750.

Tema di ricerca: corsa agli armamenti

16,7

Tema di ricerca: conflitti internazionali

16,2

Tema di ricerca: studi generali sui conflitti

15:37

Tema di ricerca: disarmo Sede centrale: America

1551 SY

Tema di ricerca: relazioni internazionali Tema di ricerca: sicurezza internazionale/strategia/difesa

14,3 13,4

Tema di ricerca: terrorismo

12,5

17/9

Infine il tipo di organizzazione, costituito dopo la caduta del comunismo (negli anni Novanta), assume connotazioni 124

radicalmente differenti. Il peacebwilding, con tutto quel che significa in termini di ricostruzione di una nuova società civile nei paesi usciti dal conflitto, è predominante; ma esso è

pure associato ad altri temi strettamente espressi da una società pacifica e ai valori sui quali essa deve fondarsi, quali la cultura della pace, la mediazione e la negoziazione, la solu-

zione dei conflitti etnici, la cooperazione internazionale. Tali organizzazioni sono inoltre interconnesse con altre organizzazioni, hanno riconosciuto uno statuto pubblico e sono diffuse in Africa, Asia ed Europa. Come si può constatare, l'evoluzione della tipologia organizzativa va verso un’attenzione sempre più marcata per

una concezione e un’attuazione di pace sempre meno pura, intesa come semplice divisione di contendenti, imposizione di armistizi e controllo della diffusione delle armi; e sempre più verso un’offerta di strumenti di pacificazione civile, di costruzione di una società sufficientemente giusta, di una condizione di sviluppo sociale ed economico. 6. Localizzazione della sede centrale

Le 529 organizzazioni nazionali sono localizzate in gran parte in Europa e in America (insieme corrispondono al 77,71%), ma anche, in questo caso, nei paesi più grandi e soprattutto più modernizzati. Più analiticamente la loro distribuzione per i cinque continenti è riportata nella tabella 6. TAB. 6. Numero e percentuale delle organizzazioni secondo la localizzazione della. sede centrale n.

%

Europa

213

40,3

America Asia Africa

198 79 27

Oceania

12

Ù

37,4 14,9 DA 2,3

I paesi in cui si addensa il maggior numero di esse sono in termini assoluti gli Stati Uniti con 151 organizzazioni, cui

D25

seguono la Germania con 38, la Gran Bretagna con 28, il . Canada con 26, il Giappone con 20, la Francia e l’India con 19, la Federazione Russa con 13, la Spagna con 12, Israele e

la Svezia con 11, l'Australia e l’Italia con 10. In totale in questi tredici paesi si concentra il 69,6% di tutte le organizzazioni. I caratteri specifici di tali organizzazioni localizzate nei cinque continenti sono raccolti nelle tabelle 7, 8, 9, 10, 11.

6.1. L'Europa

La distribuzione per le differenti parti dell'Europa vede la concentrazione delle organizzazioni nei paesi dell’Unione Europea con il 72,7%: salvo che per il Lussemburgo in tutti ipaesi hanno sede centrale organizzazioni per la ricerca e la formazione sulla pace. TAB. 7. Gli elementi caratterizzanti le organizzazioni nazionali con sede centrale in Europa

% sul tot. delle organizzazioni europee

Collegamenti interorganizzativi: n. 2

Organizzazioni con statuto pubblico

60,5 DI

Tema di ricerca: peacebuilding

DONI

Tema di ricerca: relazioni internazionali

47,9

Data di costituzione: dopo il 1989 Tema di ricerca: sicurezza internazionale/strategia/difesa Tema di ricerca: coesistenza pacifica

47,5 46,9 46,9

Tema di ricerca: xenofobia/conflitti etnici

46,9

Data di costituzione: prima del 1946

46,4

Collegamenti interorganizzativi: n. 1 Attività di informazione e documentazione

44,3 43,8

Percentuale delle organizzazioni con sede centrale in Europa sul totale

40,3

Data di costituzione: dal 1946 al 1989

37,4

Attività di cooperazione internazionale Tema di ricerca: conflitti regionali Organizzazione con statuto privato Tema di ricerca: ruolo organizzazioni internazionali

32,0 31,3 30,6 27,8

Tema di ricerca: terrorismo

25,0

126

In altri paesi non ex-socialisti è presente il 7,4% delle organizzazioni (Norvegia 8, Svizzera 7, Islanda 1). Nei paesi ex-socialisti dell'Europa centrale e balcanico-danubiana un altro 7,9%; il restante 12% èlocalizzato nei paesi ex-sovietici (concentrazione massima — 13 — è nella Federazione

Russa).

Alcune specificità (rispetto a quelle degli altri continenti) delle organizzazioni europee sono riscontrabili: nella data di costituzione successiva alla caduta del comunismo, ma

anche nei tempi precedenti la Seconda guerra mondiale; nella diffusa connessione con altre organizzazioni; in una certa attenzione per il pacifismo e per la ricostruzione delle società colpite da guerra interna (si veda in particolare l’area balcanica dell’ex-Jugoslavia). 6.2. L'America

Le 198 organizzazioni americane per la ricerca e la formazione alla pace sono localizzate per 89,4% nel NordAmerica (con presenza quasi esclusiva negli Stati Uniti: 85,3%). I caratteri più significativi (rispetto alle organizzazioni degli altri continenti) sono indicati nella tabella 8. Nelle organizzazioni americane (soprattutto statuniten-

si), rispetto a quelle degli altri continenti, molta attenzione è prestata alle ricerche sul terrorismo, ai conflitti regionali e internazionali, al peacerzaking, keeping e building, il che indica un’attenzione alla strategia e alle soluzioni militari e politiche dei conflitti. Vi è invece una minore enfasi sugli aspetti della pace nella società civile e sui valori dell’educazione alla pace e alla coesistenza pacifica. Inoltre queste organizzazioni sono soprattutto di carattere privato, anche se connesse, nella leadership e nella le-

gittimazione, alle università; e sono connesse anche a molteplici altre organizzazioni. Si tratta infine di organizzazioni costitùite in gran parte prima della caduta dell’Unione Sovietica.

427

TAB. 8. Gli elementi caratterizzanti le organizzazioni nazionali con sede centrale in . America % sul tot. delle organizzazioni americane

Tema di ricerca: terrorismo Tema di ricerca: conflitti regionali

‘62,5 56,6

Tema di ricerca: conflitti internazionali

56,0

Organizzazione con statuto privato

SITI

Tema di ricerca: studi generali sui conflitti Inserita in una retwork Tema di ricerca: ruolo organizzazioni internazionali Tema di ricerca: peacemaking/keeping/building Fa parte dell’università Tema di ricerca: peacemaking, keeping

50,8 50,4 50,0 47,0 46,4 46,3

Attività di consulenza/mediazione Tema di ricerca: questioni%di violenza/nonviolenza

46,2 45,3

Tema di ricerca: tecniche di mediazione e negoziazione Collegamenti interorganizzativi: n. 3-5

44,2 43,3

Percentuale delle organizzazioni con sede centrale in America sul totale

37,4

Attività di cooperazione internazionale Collegamenti interorganizzativi: n. 1 Tema di ricerca: educazione alla pace

32,0 31,6 28,4

Tema di ricerca: democrazia, pace, diritti umani

27,8

Collegamenti interorganizzativi: n. 2 Tema di ricerca: coesistenza pacifica Tema di ricerca: cultura della pace

23971 22,4 De

Data di costituzione: dopo il 1989

20,5

Organizzazione con statuto pubblico

16,9

6.3. L'Asia

Giappone, India e Israele sono i paesi in cui si trovano localizzate più della metà (e cioè il 64,9%) delle 79 organizzazioni asiatiche. La tabella 9 ne delinea i caratteri più significativi. Le organizzazioni asiatiche si occupano più di quelle degli altri continenti di cooperazione internazionale, la quale nelle ricerche assume i connotati della cultura della pace, della coesistenza pacifica, dell'educazione alla pace. 128

TAB. 9. Gli elementi caratterizzanti le organizzazioni nazionali con sede centrale in Asia

% sul tot. delle organizzazioni asiatiche

Attività di cooperazione internazionale Tema di ricerca: cultura della pace

28,0 25,3

Attività di «promozione» (Tv, mostre, ecc.)

25,0

Tema di ricerca: coesistenza pacifica

24,5

Data di costituzione: dopo il 1989

23,0

Tema di ricerca: educazione alla pace

21

Organizzazione con statuto pubblico

19,9

Percentuale delle organizzazioni con sede centrale in Asia sul totale

Inserita in una network

14,9

8,4

Fa parte dell’università

8,2

Tema di ricerca: tecniche di mediazione e negoziazione Tema di ricerca: conflitti internazionali

Var] 2

Tema di ricerca: studi generali sui conflitti Tema di ricerca: peacemaking/keeping Tema di ricerca: peacemaking/keeping/building Tema di ricerca: peacebuilding Data di costituzione: prima del 1946 Tema di ricerca: conflitti internazionali Attività di consulenza e mediazione

Yol 5,6 4,8 4,1 3,6 24 0,0

È una ricerca molto meno militar-strategico-politica e molto più attenta ai contenuti della pacifica convivenza tra le classi sociali, i gruppi etnici e le nazioni. Si tratta d’altra parte di organizzazioni recenti (nate soprattutto dopo il 1989) e di origine pubblica. 6.4. L'Africa

Le 27 organizzazioni africane sono diffuse in quindici stati, con una certa concentrazione

in Sud-Africa

(8) e in Nigeria (5). I loro caratteri sono espressi nella tabella 10.

129

TAB. 10.

Gti elementi caratterizzanti le organizzazioni nazionali con sede centrale. in Africa % sul tot. delle organizzazioni africane

Attività di cooperazione internazionale Tema di ricerca: cultura della pace Data di costituzione: dopo il 1989 Organizzazione con statuto pubblico



8,0 6,7 6,6 6,5

Percentuale delle organizzazioni con sede centrale in Africa sul totale

bu

Organizzazione con statuto privato Data di costituzione: prima del 1946

3,6 3,6

Data di costituzione: tra il 1946 e il 1989

3,6

È filiale di altra organizzazione

DE)

Fa parte di una retwork

5

Tema di ricerca: conflitti internazionali

2,4

Tema di ricerca: conflitti regionali Tema di ricerca: peacemaking/keeping/bwilding

2,4 24

Tema di ricerca: xenofobia/conflitti etnici

23

Tema di ricerca: peacebwilding Tema di ricerca: peacemaking/keeping

2,0 JE9

Tema di ricerca: terrorismo

0,0

Le organizzazioni africane sono relativamente (a parte qualcuna con sede centrale in Sud-Africa) recenti (costitui-

te dopo il 1989), attive nella cooperazione internazionale (soprattutto africana), con orientamenti tematici alla cultura della pace; e sono espresse dalla società politica (statuto pubblico) piuttosto che dalla società civile. 6.5. L’Oceania

Come abbiamo considerato altrove, su 12 organizzazioni 10 sono localizzate in Australia e non sono molto numerose sul totale mondiale, anche se il rapporto con la popolazione del Continente è più alto che negli altri continenti. Le loro caratteristiche sono riportate nella tabella 11. L'aspetto più evidente di queste organizzazioni per la pace è quello della mediazione, della negoziazione e del peacezzaking e del peacekeeping. 130

TAB. 11. G% elementi caratterizzanti le organizzazioni nazionali con sede centrale in Oceania

% sul tot. delle organizzazioni dei paesi dell'Oceania Attività di consulenza/mediazione

12,8

Tema di ricerca: tecniche mediazione e negoziazione

DIS

Fa parte dell’università Tema di ricerca: peacemaking/keeping

3,9 DI

Percentuale delle organizzazioni con sede centrale in Oceania sul totale

DIG

Organizzazione con statuto privato

0,4

Attività di cooperazione internazionale Tema di ricerca: ruolo delle organizzazioni internazionali

0,0 0,0

Tema di ricerca: terrorismo

0,0

Tema di ricerca: coesistenza pacifica

0,0

Sono dunque funzioni strettamente proiettate all’interno e per svolgere una funzione di superamento della crisi acuta dei conflitti. D'altra parte il ruolo delle università nell’esprimere queste organizzazioni può indicare che ancora esse sono connotate per l’aspetto accademico e culturale e probabilmente meno politico e istituzionale. 7. Le organizzazioni per la pace all'opera Dopo aver considerato i caratteri delle organizzazioni per la pace, l’età e il contesto in cui si muovono, è necessario affrontare il problema del dove operano e del cosa in concreto fanno. Ancora le domande del questionario Unesco ci aiutano a delineare il profilo delle risposte. 7.1. Dove operano

Il punto di avvio dell’analisi è quello di rilevare in quali continenti e aree geografiche della terra operano le organizzazioni: quante azioni hanno realizzato nel proprio continente, quante in ognuno degli altri continenti. La tabella 12 è la fonte delle informazioni per dare le risposte sopra delineate. 131

TAB. 12. Area geografica delle azioni di pace, secondo il continente in cui ha sede centrale l’organizzazione Area geografica © Americhe

Sede dell’organizzazione Africa Asia Europa

Totale Oceania

Americhe Africa

83 76

0 DI

11 16

47 164

Asia

86 78

4 2

82 21

70 242

14

256

2

345

1

0

0

2

6



75

3

25)

V2.

4

179

2

0

0

1

1

4

Europa

Oceania Mondo

Regioni polari Totale

N. organiz.

îì 0

142 315

401

68

155

598

28

1250

(198)

(27)

(79)

(213)

(12)

(529)

Dai dati della tabella 12 si può ricavare un indice percentuale di funzione etero-diretta: Out America

/in America

(401 - 83) : (142 - 83) x 100 = 539% Out Africa / in Africa (68- 59) :(315-59)x 100=4%

Out Asia / in Asia (155 - 82): (256 - 82) x 100 = 42%

Out Europa / in Europa (598 - 242) : (345 - 242) x 100 = 346% Out Oceania / in Oceania

(28- 6):(9- 6)x 100 = 733%

Nella tabella vengono incrociati i continenti in cui hanno la sede centrale le singole organizzazioni per la pace con le aree geografiche in cui operano. Le 529 organizzazioni operano in 1.250 luoghi statali, per cui ognuna di esse in media opera in 2,36 (cioè 1250:529) luoghi-aree. La maggiore diffusione è presentata dalle organizzazioni di origine europea (cioè ogni organizzazione è diffusa in 2,81 luoghi), poi vengono le organizzazioni d'Africa (2,52 luoghi), quelle di Oceania (2,33 luoghi), quelle d'America (2,03 luoghi), e infine quelle d’Asia (1,96).

132

L'indice di funzione eterodiretta, svolta dalle organizzazioni di un continente verso gli altri continenti si ottiene seguendo il seguente algoritmo: azioni di pace svolte dalle organizzazioni di un continente negli altri continenti rapportate alle azioni di pace svolte nel proprio continente dalle organizzazioni localizzate negli altri continenti. Formalmente, per l'America, ad esempio, si ha: azioni 04 America (401-83°): azioni n America (142-83) x 100. L'indice per-

centuale di funzione eterodiretta dà i seguenti risultati per i cinque continenti: America 539, Africa 4, Asia 42, Europa 346 e Oceania 733. In termini descrittivi l’idice di ne

eterodiretta ci dice che: 1) per 100 organizzazioni esterne che operano in Oceania, ve ne sono 733 dell’Oceania che operano negli al-

tri continenti; 2) per 100 organizzazioni esterne che operano in America ve ne sono 539 americane che operano negli

altri rano altri rano

continenti; in Europa continenti; in Asia ve

3) ve 4) ne

per 100 ne sono per 100 sono 42

organizzazioni esterne che ope346 europee che operano negli organizzazioni esterne che opeasiatiche che operano negli altri

continenti; 5) per 100 organizzazioni esterne che operano in

Africa ve ne sono 4 africane che operano negli altri continenti. In realtà l’indice di funzione eterodiretta può essere interpretato come contributo che i singoli paesi dei continenti danno alla globalizzazione, anche e soprattutto nel diffondere la concezione e i contenuti della pace negli aspetti della ricerca e della formazione. L'America e l'Europa (insieme all'Australia) sono gli attori capaci di esportare, regimentare e orientare la globalizzazione e la standardizzazione del mondo. Tutto ciò possiamo esprimerlo in termini più analitici, individuando i percorsi che segue la spinta alla globalizzazione data da ognuno dei continenti. La figura 1, tratta dai dati della tabella 12, indica infatti la percentuale delle azioni di pace diffusa nel mondo per area geografica di origine.

2 Queste sono le azioni delle organizzazioni americane svolte in America.

133

Regioni polati

Ametica "a

20,7% 3

Reg

Oceania

214%

Regioni polari

FIG. 1. Percentuali delle azioni di pace svolte nelle diverse parti del pianeta, secondo l’area geografica di origine.

La spinta sostantiva alla globalizzazione viene dai paesi dell'America (e dagli Stati Uniti in particolare), poiché le organizzazioni americane per la pace trattengono in America solo il 20,7% delle azioni svolte, mentre un 21,4% le

134

orienta verso i paesi dell'Asia, un 195% verso l'Europa, un 19% verso l'Africa, un 18,7% verso il Mondo (e cioè indi-

stintamente verso la maggior parte dei paesi della terra), uno 0,5% verso le regioni polari e infine uno 0,2% verso l’Oceania. Le organizzazioni europee orientano le azioni per il 40,5% verso i propri paesi (europei) e poi per un altro

27,4% verso l'Africa; a questi continenti seguono percentuali più modeste di azioni verso l'Asia, il Mondo e l America (7,9%). Ancora più auto-centriche sono le organizzazioni asiatiche poiché mantengono all’interno dei propri paesi ben il 52,9% delle azioni; mentre a notevole distanza vengono orientate le azioni verso il Mondo (16,1%), l'Europa (13,6%), l'Africa (10,3%), e, ancor più distanziata,

l'America (7,1%). Le organizzazioni africane sono pressoché auto-centrate nella loro espressione di azioni, poiché queste sono svolte: addirittura per 1'86,8% in Africa, e il resto è suddiviso per gli altri continenti. All’opposto, il modello di azioni delle organizzazioni di Australia e Nuova Zelanda è sostanzialmente tutto proiettato verso l'esterno, e in ciò sono radicalmente privilegiati i paesi dell'Asia (50%). In sintesi abbiamo che: 1) le organizzazioni d'America svolgono azioni in tutti i continenti; 2) quelle d'Europa soprattutto a favore dell’Africa; 3) quelle dell'Oceania a favore dell'Asia; 4) mentre le organizzazioni degli altri due continenti (Africa, soprattutto, ma anche l'Asia) sono sostan-

zialmente auto-centrate. Finora abbiamo considerato «mezza faccia» delle azioni svolte dalle organizzazioni per la pace, e cioè da dove vengono. Possiamo tuttavia cambiare l'ottica dell’analisi, e cioè

considerare le azioni svolte nell’area geografica di destinazione secondo l’area di origine. La figura 2 ce ne permette la lettura. . Poste uguali a cento tutte le azioni di pace (in termini di ricerca e di formazione) svolte in un continente, si osser-

va che nei continenti del Primo Mondo la maggioranza (o quasi) di tali azioni proviene dalle organizzazioni dello stesso continente: ciò vale nell'Europa per il 70,1% delle azioni, nell’Oceania per il 66,7% delle azioni e nell'America per il 58,5% delle azioni.

135

MONDO

2,2%

FIG. 2. Percentuali delle azioni di pace svolte nelle diverse parti del pianeta, secondo l’area geografica di destinazione.

In un continente con paesi variamente sviluppati come

l’Asia l’autodirezione delle organizzazioni asiatiche si riduce al 32% delle azioni; mentre per l’Africa la percentuale delle azioni delle organizzazioni africane si restringe addi136

rittura al 18,7% del totale delle azioni ivi svolte. Dunque i continenti con società «moderne» risolvono da soli i problemi della pace e della formazione ad essa connessa; mentre i continenti con società più «tradizionali» sono in balia degli interventi di altri paesi e di altre concezioni della pace e della formazione. A ciò bisogna poi aggiungere che vi è un interscambio tendente alla simmetria tra l'Europa e l’America: 22,6% dall’ America all'Europa, 33,1% dall’Europa all'America. In realtà la preminenza dell'Europa verso America sull’America verso Europa è dovuta al fatto che l'Europa conserva ancora dei forti legami con l'America meridionale e l'America centrale (comprese qui nella generica dizione «America»). La Spagna, il Portogallo, l’Italia vi mantengono forti legami e presenze. All’opposto Asia e Africa sono tributarie di azioni provenienti da Europa e da America: anzi queste sono presenti in pressoché ugual misura nell'Asia (27,3% l’Europa e 33,6% l'America), mentre nell'Africa le azioni vengono in massima parte dall'Europa (52,1%), e anche in questo caso sulla scia degli antichi imperi coloniali europei: francese, inglese, portoghese, belga, tedesco, italiano.

Sembra dunque di poter concludere che i percorsi dei vecchi e dei nuovi imperialismi si siano (consolidati e) trasformati in vie privilegiate alla globalizzazione dei metodi e delle concezioni per la ricerca scientifica e la formazione alla pace. Tale conclusione è ancor più evidente se si confrontano i dati della figura 1 (che indica l’origine delle azioni di pace) con quelli della figura 2 (che indica la destinazione delle azioni di pace). Per prima cosa infatti appare che, se le azioni di pace messe in atto dalle organizzazioni africane sono orientate prevalentemente alla stessa Africa (86,8%), queste stesse azioni «africane» di pace contano sul totale di quelle riscontrate in Africa solo per il 18,7%. Ciò significa che le organizzazioni africane operano quasi esclusivamente in Africa, ma il loro contributo sul totale delle azioni svolté in Africa è minimo (solo 18,7%). Anche

questo è un indicatore della scarsa

capacità (anzitutto numerica) dei paesi africani di risolvere i conflitti, ma soprattutto è indicatore di un persistente loro infeudamento a quei paesi (europei soprattutto) che una volta ne erano i colonizzatori. 137

La verifica di una tale interpretazione l'abbiamo osservando il rapporto tra le organizzazioni di ogni continente e le azioni di pace che queste svolgono nel proprio continente (indice di funzione auto-diretta). Da questo rapporto appare che, se in Europa opera il 40,5% delle organizzazioni europee, questè coprono le azioni di pace svolte in Europa per il 70,1%; in America il 20,7% delle organizzazioni americane copre il 58,5% delle azioni; in Oceania il 21,4% delle orga-

nizzazioni oceaniche copre il 66,7% delle azioni. L'Asia invece si trova ancora una volta in una situazione intermedia tra

America-Europa-Oceania e Africa: il 52,9% delle organizzazioni asiatiche copre il 32% delle azioni. Altro indicatore di ruolo globalizzatore svolto da America ed Europa è rappresentato dalla capacità delle rispettive organizzazioni per la pace di essere presenti in tutto il «Mondo»: il 41,9% delle azioni viene dall’ America e il 40,2% dall'Europa; mentre il resto proviene in massima parte dall'Asia (14%), e in minima parte da Oceania (2,2%) e Africa (1,7%).

Il quadro generale descritto si articola ulteriormente nelle azioni di pace, osservate per singole parti di Europa, Asia e Africa, come lo indicano le figure 3 e 4. Infatti si osserva che è l'Europa a gestire le azioni di pace (nella ricerca scientifica e nella formazione) per le sub-aree regionali dell’Unione Europea (73,2%), dei Balcani (72%) e dei paesi dell’Eu-

ropa centrale e orientale (65,9%), con una secondaria presenza dell’ America. Nel Medio Oriente invece le azioni di pace sono gestite in proporzioni analoghe da organizzazioni provenienti da Europa, America e Asia. AI già visto sui rapporti tra Africa e il resto del mondo si inscrivono le azioni di pace per le aree regionali dell’Africa: circa la metà (dal 53,5% al 45,6%) delle azioni ven-

gono svolte dall'Europa, cui seguono per un quarto (dal 23,2% al 25%) le azioni di pace attivate dai paesi americani;

e.solo il restante quarto (dal 17,9% al 25%) delle azioni è derivato dalle organizzazioni localizzate in Africa.

138

7 Paesi Ue

5,4%

Paesi Eutopa America

65,9%

centro; otientale

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FIG. 4. Percentuali delle azioni di pace svolte nelle aree regionali di Africa, secondo l’area geografica di destinazione.

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7.2. Quali azioni di pace

Fin qui si è individuato e descritto il volto delle organizzazioni per la pace, mantenendo sempre sullo sfondo i contenuti delle azioni svolte. E se si sono considerati i contenuti di tali azioni, essi sono stati osservati solo in relazio-

ne alla struttura delle organizzazioni e alla loro localizzazione per i differenti continenti. Conviene però, e lo facciamo ora, rendersi conto della

natura di queste azioni, e la diffusione di ognuna di queste in relazione alle altre azioni. Le 509 organizzazioni che hanno risposto a queste domande (20 non lo hanno fatto), operano nelle seguenti aree di attività: — — — —

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— 15,1% fanno opera di promozione della pace; -74% svolgono consulenza e advocacy; — 4,7% svolgono cooperazione internazionale. L'articolazione delle azioni svolte offre la possibilità di fare molte considerazioni. Le cinque azioni svolte più diffusamente dalle organizzazioni riguardano azioni rivolte ai pae-

si in cui esse hanno la sede centrale: sensibilizzare l'opinione pubblica del proprio paese attraverso conferenze (85,3%) e la pubblicazione di libri e riviste (77,9%); fornire ai propri governi, alle proprie società civili, alle proprie opinioni pubbliche dei modelli per comprendere i, e agire sui, problemi della pace dei paesi in cui essa è compromessa da conflitti locali attraverso la ricerca scientifica (84,9%). Le azioni forma-

tive vengono in secondo luogo, e sono effettuate soprattutto nei paesi in via di sviluppo, in generale lontano dal proprio paese «occidentale» (63,9%). Infine la raccolta e la distri-

buzione di informazione e di documentazione, pur svolte da più della metà delle organizzazioni (59,2%), è messa a disposizione sia della popolazione di origine dell’organizzazione che di destinazione della propria azione. 141

Come si vede, le funzioni richiamate sono decisamente

svolte dalla maggioranza di tali organizzazioni, e sostanzialmente sono volte a produrre conoscenza e cultura (la ricerca) e a creare sensibilità verso i problemi mondiali c i luoghi del mondo che richiedono azioni pacifiche per le loro soluzioni. È rilevante d’altra parte che la formazione, sotto forma di corsi svolti per preparare gli operatori nazionali ad agire nei paesi che vivono crisi conflittuali, ma anche per professionalizzare la popolazione e i formatori locali dei paesi in via di sviluppo, sia svolta da un numero di organizzazioni relativamente meno numeroso di quelle dedite a ricerca e a socializzazione dell’opinione pubblica nazionale. Inoltre le cinque funzioni considerate coprono la quasi totalità delle azioni di pace delle organizzazioni esaminate. Ciò è dimostrato dal fatto che le percentuali di organizzazioni che si dedicano alle opere concrete di pace, alla consulenza e alla cooperazione internazionale sono estremamente più modeste delle precedenti: 15,1%, 7,4%, 4,7% rispettivamente.

A trattare temi di ricerca e di formazione sono molte organizzazioni, più quelle di ricerca che quelle formative (156 e 71 rispettivamente); e di questi temi, più di due sono perseguiti da parte di ogni organizzazione (3,2 temi di ricerca affrontati da ogni organizzazione, e 6,5 materie insegnate da ogni organizzazione), ed inoltre il 97,7% delle organizzazioni afferma di svolgere ricerca contro il 64,1% che afferma di organizzare corsi di insegnamento. Più analiticamente, 242 organizzazioni svolgono ricerche su soluzione di conflitti; 72 su studi dei conflitti; 39 su

gestione del conflitto; poi vi sono 84 organizzazioni che studiano gli armamenti; 69 la sicurezza; 40 la difesa; 66 orga-

nizzazioni svolgono ricerche sui modi di fare formazione; 65 organizzazioni fanno ricerche sulle relazioni internazionali e i trattati; 47 fanno ricerche sui diritti umani. Non vi sono

temi preminenti invece per quanto riguarda la pace, lo sviluppo, l’integrazione sociale, i rapporti interetnici. Nelle materie insegnate si osserva una certa differenza rispetto all'ambito della ricerca, perché, se continua ad essere preminente la soluzione dei conflitti (in 282 organizzazioni), il

conflitto internazionale (in 129 organizzazioni) e il conflitto 142

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regionale (in 95 organizzazioni), la security internazionale (in 116 organizzazioni) e il disarmo (87 organizzazioni), vi è anche una consistente presenza di insegnamenti sulla pace (129 organizzazioni), la pace e lo sviluppo (118 organizzazioni), l'educazione alla pace (115 organizzazioni), la coesi-

stenza pacifica (94 organizzazioni), la democrazia e la pace (89 organizzazioni), la cultura della pace (79 organizzazioni). Ma sono diffusi pure gli insegnamenti su violenza e non violenza (133 organizzazioni), guerra (94 organizzazioni), polemologia (79 organizzazioni), terrorismo (47 organizzazioni); poi su conflitto internazionale (129 organizzazioni) e infine sulle organizzazioni internazionali (116 organizzazioni). I temi di ricerca scientifica e le materie insegnate possiamo raggrupparli in poche categorie, in modo da arrivare a una sintesi, che consenta un’interpretazione più generale.

Nella tabella 14, temi e materie sono raccolti in quindici categorie, di cui vengono presentate le percentuali sul totale dei temi di ricerca e delle materie insegnate e le percentuali di ognuna di tali categorie in rapporto al numero delle organizzazioni. La sistemazione dei risultati che ne segue offre ulteriori elementi interpretativi. Anzitutto vi è da dire che più di tre quarti delle organizzazioni dedica la ricerca ai conflitti e alle loro soluzioni (84,7%)

e ai temi militari, alla corsa agli armamenti e al disarmo (75,6%). Ciò indica come la pace sottoposta a ricerca sia quella studiata nel momento della crisi acuta del conflitto e come questa ricerca sia effettuata molto spesso dalle istituzioni militari. Ed in effetti temi più costruttivi e di largo e lungo respiro come quelli relativi alla pace (30,8% delle organizzazioni) e alle relazioni internazionali (28,2% delle organizzazioni) non superano di molto il quarto delle organizzazioni. Infine altri temi di ricerca più di carattere sociale, e di ricostruzione/costruzione della società civile, sono affrontati da percentuali di organizzazioni davvero modeste. Fra temi sottoposti a ricerca e temi (materie) insegnate si verifica una distribuzione e un’al-

locazione radicalmente diversa. Infatti, se per la ricerca le organizzazioni si distribuiscono per le molte categorie di temi, nell’insegnamento si verifica una concentrazione di queste organizzazioni in poche categorie di materie insegnate. 144

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Infatti sono le materie inerenti la pace ad essere mediamente insegnate in tutte le organizzazioni (193,8%, e cioè quasi due materie per ogni organizzazione), e poi quelle connesse alla soluzione dei conflitti (162,8%, e cioè la media di

1,6 materie per ogni organizzazione) e le materie generali (culturali)- riguardanti la violenza e la guerra, insegnate in ogni organizzazione (105,9%). Sono invece relativamente poco insegnate le materie connesse a militari, armi e disarmo, poiché esse non superano i tre quarti (74,3% delle organizzazioni). Ancora più modeste sono infine le organizzazioni (tra quelle che svolgono attività didattica) che impartiscono formazione su materie connesse alle relazioni internazionali (il 44,8%) e alle organizzazioni internazionali (il 35,7%).

La conclusione che possiamo trarre da queste percentuali di organizzazioni che affrontano temi di ricerca scientifica e materie insegnate è abbastanza articolata, e la possiamo sintetizzare nei seguenti punti:

1) i temi di ricerca perseguiti dalle organizzazioni per la pace riguardano aspetti molto concreti, puntuali nel tempo e nello spazio come lo sono le fasi acute delle crisi e dei conflitti; ma spesso sono trattati secondo le modalità tecniche,

strategiche e politiche connesse alle soluzioni militari e ai trattati internazionali. I temi connessi ai valori della pace, allo sviluppo e alla società civile, sono meno affrontati. Le soluzioni e la cultura della pace conseguente sono quindi poco connesse ai valori e ai progetti della società civile, ed invece più connesse a soluzioni di carattere operativo e puntuale, militare e strategico; 2) l’attività formativa elaborata dalle organizzazioni al-

l'opposto tende a privilegiare aspetti dei valori della pace, della violenza ed anche della soluzione dei conflitti; mentre i

temi più operativi, come i militari, le armi, il disarmo, i trattati e la politica internazionale e le organizzazioni internazionali sono meno oggetto centrale di tale opera di formazione; 3) da quanto osservato finora sembra dunque che i risultati prodotti dalla ricerca sulla pace da parte delle organizzazioni considerate siano concreti, puntuali e operativi e

di conseguenza poco utilizzabili nei contenuti delle materie insegnate che invece sono molto teorici e generali in quanto 146

enfatizzanti i contenuti della pace, della violenza e della guerra. Tale contraddizione sembra attenuarsi in verità se si considera l’ampia categoria di temi di ricerca e di discipline insegnate, centrata sui conflitti e sulla soluzione dei conflitti. Certamente si tratta di ricerche e di didattica molto concrete, puntuali e focalizzate sulla crisi acuta, ma queste

sono al tempo stesso studiate scientificamente e i loro risultati sono travasati direttamente nell’insegnamento, portato

dai paesi di origine delle organizzazioni nei paesi in cui queste operano con e per le popolazioni locali.

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CAPITOLO SESTO

BIN LADEN COME SIMBOLO E GLI APPRENDISTI STREGONI DI TERRORISMO. IL-RUOLO DELL'EUROPA

1.

Premessa

Pace, terrorismo ed Europa come soggetto politico-militare sono alcuni dei temi intorno ai quali si sviluppa la ricerca attuale di ordini mondiali più o meno stabili. Ci troviamo cioè di fronte a tante situazioni che esprimono alcune spinte alla rottura di vecchi assetti e alle imposizioni del nuovo (terrorismo), alcune esigenze al superamento dei conflitti (la pace), alcune aspettative da attori che potenzialmente possono dare risposte alternative a un impero coloniale statunitense (l’Unione Europea, l’Onu e la riforma del suo Consiglio di sicurezza). La ricerca di ordini mondiali nuovi e adeguati alla presente situazione in realtà si colloca in un periodo storico in profonda ebollizione ed evoluzione. Infatti tutti e quattro i temi citati (terrorismo, pace, Europa e Onu) hanno cominciato a evolvere profondamente con la caduta della superpotenza sovietica, che assicurava la pace di (quasi) «una

metà» del mondo; e poi hanno subito un’ulteriore mutazione con gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001. Con la caduta dell’Unione Sovietica: 1) si sono resi disponibili alla superpotenza rimasta tutti i paesi dell’Est-Europa; 2) hanno cercato soluzioni nuove gli erzbrassons nous e le ingegnerie statali, prodotti forzatamente dalla Prima guerra mondiale (Cecoslovacchia e Jugoslavia); 3) questi paesi ex-comunisti hanno orientato il processo di transizione verso l'Unione Europea; 4) i paesi extra-europei hanno eliminato i regimi che si ispiravano al socialismo di osservanza moscovita, salvo alcuni casi, dotandosi di governi più vicini a quelli occidentali; 5) alcuni paesi dell’area musulmana hanno tentato di costituirsi a potenze regionali; men149

tre in altre parti (nel Sud-Est asiatico, Africa e America Latina) altri paesi si sono dotati di un’area di influenza regionale (Thailandia, Vietnam, Malaysia, Indonesia, India, Sud-

Africa, Nigeria, Brasile, Messico); 6) gli Stati Uniti hanno ondeggiato tra una politica imperiale di sostegno di alcuni governi, una indecisione sul da farsi se intervenire direttamente o agire con la legittimazione dell'Onu e una tentazione di isolarsi dai problemi che l'essere restata l’unica superpotenza in vita in qualche modo consigliava di affrontare; 7) l'Onu si è trovato legittimato ad essere guardiano mondiale sull’osservanza dei diritti umani, ad intervenire per risolvere i conflitti e a governare il periodo di crisi e di transizione nei paesi che escono dai conflitti (paesi della Jugoslavia e dell’ex-Urss, Timor-Est e paesi africani, sono gli esempi più noti). Coò ciò l’Onu è chiamato a gestire dei governi mondiali a macchia di leopardo. L’11 settembre 2001 ha rappresentato un grosso colpo e una grave sfida alla credibilità, all'orgoglio e ai tentennamenti statunitensi. Quello che conta dell’11 settembre 2001

è dunque la parte simbolica, poiché in sé e per sé non scalfisce la potenza statunitense così come dimostra che per quanto sia potente l’organizzazione di uno stato occidentale essa può essere sempre perforata dai metodi terroristici: i servizi segreti sono stati poco efficaci per prevenire l’attacco, il terrorismo ha utilizzato alcuni adepti capaci di gestire la guida di un aereo oltre al più classico sistema di sistemare bombe in punti differenti (Bali, Madrid, Londra), e il gioco

di colpire dei simboli è fatto [Bonanate 2006, 73 ss.]. La reazione a tali atti è stata di assumere il potere mondiale per mano militare, e ciò in contraddizione agli usi degli imperi capitalisti che hanno più spesso espresso il potere attraverso l'economia e le reti commerciali. Dunque, a questo punto, si è prodotta una militarizzazione della politica, e la gestione diretta di questo potere per il mondo, e in particolare nelle aree musulmane del pianeta, focalizzate intorno al Medio Oriente. Ma già dopo cinque anni si è verificato un cambiamento proprio nel terrorismo sunnita di Bin Laden, e ciò per mano degli Stati Uniti che destabilizzando l'Iraq di Saddam Hus150

sein hanno rafforzato un altro potere di marca sciita, imperniato su Iran, Siria ed Hizballah del Libano. E questo nuovo potere non si propone come potere universale simile a quello di Al Qaeda, ma piuttosto come potere politico regionale, allo stesso modo di come lo sono altri poteri forti quali quelli cinese, indiano, indonesiano, brasiliano ed anche europeo.

Siamo dunque passati dalla «fine della storia»! (non necessariamente come definita da Fukuyama [1992]) a una storia movimentata da un nuovo attore universale come è Al Qaeda, ad un’altra in cui può emergere una nuova storia per mano di un nuovo attore regionale qual'è quello iraniano e per la possibile fine dell’ esperienza ebraica in Israele. In questa fase, che ancora non sappiamo bene come possa evolvere, si colloca il rapporto tra la pace, il terrorismo e il ruolo dell’ Europa nelle soluzioni dei conflitti e del peacekeeping. ! Per «fine della storia» e «ripresa della storia» ci riferiamo a quei momenti o periodi in cui la «vita quotidiana» delle relazioni internazionali e del sistema mondiale è prevedibile ed eventuali sommovimenti «macro» sono controllabili dal potere dominante, dagli equilibri sociali ed economici consolidati, dalla cultura diffusa della società e della persona accettata in maniera globale. Le epoche della globalizzazione tendono a dare questa impressione di fine della storia: sia per la stasi di fatti emergenti (sincronia) e sia perché si ha l'impressione (in realtà certezza) che tale quotidianità del mondo possa essere «eterna». Questa impressione di fine della storia si ha in generale un attimo dopo (che dura qualche anno, qualche decennio, qualche secolo addirittura) la vittoria completa di un dorzinus dell’area da controllare, e ciò fa denotare tale momento come dominato da una pax, sia essa romana (Augusto ne era convinto), inglese, americana, europea, ecc. Per certi

aspetti tale concezione/impressione è vicina a quella di Fukuyama. Per ripresa della storia si intende qui «la meraviglia» che segue il «giorno dopo» la pax romana, inglese, americana, europea. Da questo momento gli attori, le azioni, le situazioni non sono più le stesse di prima, e quindi il futuro non è più prevedibile, e la storia ricomincia ad essere un gioco le cui conseguenze non si sa quali siano. La metafora della «ripresa della storia» che riprendiamo non è solo costituita da fatti, ma anche e soprattutto di attori nuovi (Al Qaeda) e di reazioni nuove alle loro azioni di cui non si conosce l’esito, di messa in discussione della globalizzazione, di ridefinizione delle basi del riconosci-

mento (per dirla con Fukuyama), della creazione di fratture nella linearità della scienza e del progresso tra il prima e il dopo, di riconcettualizzazione dei rapporti internazionali per l'intervento di attori radicalmente nuovi, ecc.

151

Dese Pace

C'è posto per la pace quando vi è movimentismo della storia?

Nel primo capitolo di questo volume [cfr. anche A. Gasparini 2008c] ho voluto dimostrare come in un mondo globalizzato e a intense relazioni internazionali, e in più in una fase in cui con l'emergere di nuove (possibili o reali) superpotenze, si scontrino concezioni della pace molto diverse nella loro proiezione verso un ordine futuro piuttosto che nel loro mantenersi e consolidarsi nella situazione attualmente esistente. In tali situazioni, la pace reale, nei rapporti interni a uno stato e nei rapporti internazionali, produce si-

tuazioni già riconosciute (Stati Uniti, Europa, Cina, Giappone, India, e così via)»che però sono molto meno frequenti laddove non c’è condivisione di politica espansiva (realtà che fanno riferimento ad Al Qaeda, volontà di portare «democrazia» in paesi esterni, espansione verso l'esterno, e così via).

Si è verificato senz'altro uno spartiacque nel considerare la pace, e nel gestire la pace, tra il periodo in cui esistevano aree controllate, sostanzialmente due, e in cui esiste-

vano i due controllori Unione Sovietica e Stati Uniti e il periodo in cui queste aree di controllo non esistono più, con il conseguente formarsi solamente di aree di interesse diretto degli Stati Uniti (Medio Oriente e petrolio, in primo luogo) e di aree a controllo più fluido (l’area africana, anzitutto). Certo, l'equilibrio duale lasciava spazio a terre di nessuno, in cui potevano capitare conflitti, e in queste i conflit-

ti diventavano endemici, e le soluzioni temporanee si alternavano a improvvisi scoppi di conflitti. Il problema dei conflitti e della loro soluzione in realtà si complica notevolmente con la caduta dell’Unione Sovietica, poiché nessuno si occupa di trovare le soluzioni, o me-

glio: per le aree di interesse diretto degli Stati Uniti vi intervengono prima indirettamente e poi via via direttamente gli stessi Stati Uniti, come succede in Iraq (1991, 2003), in Jugoslavia e in Somalia. Al contrario i conflitti di scarso interesse,

disseminati per tutto il mondo, vengono affidati a degli attori universali, che vengono dotati di legittimazione e di ri152

sorse costituite da funzionari, militari, polizia internazionale. Così le organizzazioni internazionali come l'Onu, l’Osce,

PUe, la Nato e le organizzazioni non governative si assumono l’onere di imporre la pace (peace-enforcing), di mantenere la pace (peacekeeping), di creare la pace (peacemaking): e tutto ciò in base al principio di difendere i gruppi deboli e i loro diritti umani, di produrre istituzioni nuove nelle nuove entità statali in grado di farsi garanti del nuovo ordine. In altri termini l’aggiustamento successivo alla caduta del bipolarismo Stati Uniti/Unione Sovietica, che controllava le proprie aree per trovare soluzioni ai conflitti, avviene con un altro bipolarismo tra Stati Uniti e Onu (Oig e Ong) (cfr. il capitolo II) che si spartiscono funzioni, compiti e aree di influenza: è significativo che dei cinquantuno interventi dell'Onu, trentotto siano iniziati nel decennio 1989-2002

[N.

Gasparini 2004, 17]. Se è corretta questa interpretazione della realtà, si viene a creare una sorta di governo mondiale a tempo e a luogo operato dall'Onu, che in qualche modo gestisce il mondo bipolarmente, in quanto altre funzioni di tale globalizzazione sono assolte dagli Stati Uniti (fino a quando riusciranno

a farlo). Nel dopo 11 settembre 2001 la pace mondiale poteva subire un ulteriore aggiustamento: la militarizzazione del ruolo imperiale statunitense porta all’intervento militare diretto degli Usa e alla «sistemazione» della situazione conflittuale, la quale sarebbe poi stata gestita, nella fase ricostruttiva dalle organizzazioni internazionali mondiali e regionali e dalle organizzazioni non governative. Secondo questa dottrina (imperante nell’era di Bush figlio) gli Stati Uniti prima intervengono militarmente a bombardare e a rovesciare regimi, e poi intervengono le truppe Onu, euro-

pee ed extra-europee: 1) a mantenere quanto è conquistato, 2) a tenere separati i contendenti, 3) ad abituarli a collaborare di nuovo, 4) ad aiutare il costituirsi di una società civile e dotarsi di servizi primari e portare aiuti primari: i casi dell’Afghanistan e dell’Iraq sembrano assestare «il processo di pace» su queste divisioni mondiali del lavoro.

153

3. Il terrorismo marcato 11 settembre 2001 per cambiare la storia

Il terrorismo è un sistema di violenza, organizzato in eventi non prevedibili nel tempo e nel luogo, messi in aito con strumenti «non ammessi» e odiosi, realizzati da attori ester-

ni al «potere costituito» ma anche da «segmenti paralleli» a questo potere costituito, se non da burocrazie statali solo latamente soggette al diritto; e, infine, organizzato in eventi destinati a colpire degli innocenti che dovrebbero essere protetti dal «potere costituito» e che di questo costituiscono la base del consenso [Schmid 1983; Jenkins 1982; Hoff-

man

1998; Badey 1998; Laqueur

1999; Bonanate 2004;

Turk 2004].

Il terrorismo può anche costituire un tipo di «arma» utilizzato dalla forza «anti-stato» che non dispone delle armi «legali» e codificate nei momenti dell’uso e nella selezione delle occasioni e dei soggetti destinatari. All’inizio quindi il terrorismo è l'arma del debole che non dispone di quantità e qualità delle armi (anche nel loro potere di deterrenza) e di regole di uso; ma se le forze politiche (o aspiranti ad essere tali) che usano il terrorismo risultano vincenti e rifondano a loro immagine lo stato, abbandoneranno l’arma del terrorismo. Il terrorismo è dunque attivato da gruppi interni a uno stato e marginali (o auto-emarginati) alla sua società, come

possono essere i gruppi rivoluzionari [Brigate rosse o Rote

Arme Fraction (Raf)] o i gruppi etnico-nazionali (in Europa, l’Eta e l’Ira); ma è attivato anche da poteri paralleli a quelli legali (gli «Squadroni della morte» del Sud-America), dalle pulizie arbitrarie dei paesi da poco rivoluzionati (Rivoluzione francese, fascista, nazista, comunista) [Bonanate 2006, 87

ss.:; Rummel 2005°]. Ma soprattutto il terrorismo è attivato, 2 Rudolph Rummel nel libro Stati assassini [2005, 7-8] fa il calcolo dei democidi operati dagli stati: prima del XX secolo gli assassinati sono stati in situazioni di terrorismo 133,147 milioni, e durante il XX secolo 169,198 milioni. Tra questi l’autore indica in 61,911 milioni assassinati

dall’Urss; 35,236 milioni dalla Repubblica popolare cinese; 20,946 milioni

154

dopo 111 settembre 2001, dalla congiunzione di alcuni fatti,

succeduti 1) alla caduta della superpotenza sovietica per l'impossibilità di controllo dei conflitti locali da parte di essa, 2) alla profondissima crisi sociale ed economica dei paesi excomunisti dell'Europa che li ha spesso spinti a reperire risorse con la vendita al mercato nero internazionale di armi altamente sofisticate per usi locali (anche se superate tecnologicamente) [Burba 2003], 3) al diffuso legame dei piccoli nuovi stati d'Europa (soprattutto balcanico-danubiani) con la corruzione e con la criminalità organizzata, 4) alla radicalizzazione delle frustrazioni dei paesi musulmani per non essere in grado di modernizzarsi, con il conseguente consolidarsi della strategia di fondare un contropotere a quello occidentale-americano. Quest'ultimo tipo di terrorismo internazionale è stato attivato dalle distruzioni dell’11 settembre 2001, e, in qualche

modo, ha segnato una spinta alla rimessa in moto della storia. Le ragioni per cui questo attentato sembra avere rimesso

in moto la storia sono parecchie [su questi aspetti cfr. anche A. Gasparini 2002b]. 1) L’11 settembre ha dimostrato che gli Stati Uniti non

sono più invincibili, poiché il loro cuore è profanabile, il loro centro è perforabile e distruggibile; e la loro popolazione civile, e non solo i loro soldati che manda per il mondo, sono

alla mercé della paura. E cioè gli Stati Uniti sono meno in grado del passato di difendere e di essere considerati il «gendarme del cosmo». dalla Germania nazista; 10,075 milioni dalla Cina nazionalista (1948-49); 5,964 milioni dal Giappone (1936-45); 3,466 milioni dalla Cina sovietica di Mao (1923-’49); 2,035 milioni dalla Cambogia; 1,883 milioni dall’Impero ottomano (1900-1918); 1,678 milioni dal Vietnam (1945-87); 1,585 milioni dalla Polonia (1945-’87); 1,503 milioni “dal Pakistan (1958-87);

1,072 milioni dalla Jugoslavia (1944-87); 1,663 milioni dalla Corea del Nord (1948-’87); 1,417 milioni dal Messico (1900-20); 1,066 milioni dalla

Russia zarista (1900-17); 0,910 milioni dalla Cina dei signori della guerra (1917-49); 0,878 milioni dalla Turchia di Ataturk (1919-’23); 0,816 milioni dal Regno Unito (1900-’87); 0,741 milioni dal Portogallo (1926-’82); 0,729

milioni dall’Indonesia (1965-’87).

155

2) La prima conseguenza è che, attraverso la Nato (articolo 5) e la sua estensione a paesi ex-comunisti, gli Stati Uniti si sono creati molti stati-cuscinetto facendo appiattire sulle proprie ragioni e sulle proprie paure, gran parte degli stati che fanno parte dell'Alleanza atlantica e in primo luogo l'Europa, nonostante la riluttanza iniziale di Francia e Germania.

Così l'Europa, come entità autonoma e inter-

locutore unitario, è sostanzialmente scomparsa, diventando molti suoi paesi potenzialmente un’unica cosa con gli Stati Uniti, ed anzi costruendo tra loro una gerarchia di importanza a seconda della partecipazione maggiore o minore alle reazioni che hanno elaborato gli Stati Uniti. 3) La seconda conseguenza è che, fatta sparire l'Europa, gli Stati Uniti hanno cercato alleati dappertutto per abbattere il terrorismo, corì ciò elevando allo stato di comprimari potenze extra-occidentali, con le quali si potrebbero in futuro trovare a spartire un dalarce of power [Kaplan 1957], che già abbiamo conosciuto quando vi era un equilibrio tra potenze in Europa, con l'Inghilterra come bilanciatore. É così che Russia, Cina, ma anche India, Indonesia, Pakistan si so-

no sentite elevate a potenze. Sarà questo un equilibrio che acquisterà molta importanza nel futuro? E un'ipotesi plausibile che vedremo quando considereremo gli scenari possibili per i prossimi dieci anni. 4) Il terrorismo ha subito una profonda evoluzione. Ora, lo si è visto dopo l'11 settembre, il terrorismo non è solo un fatto locale (di certe aree di un paese e interno a molti stati) per ragioni specifiche, o un fatto locale gestito con attentati internazionali, per attrarre attenzione e moniti

sulla soluzione di un problema locale da parte della collettività internazionale. Al contrario, il terrorismo ha elaborato

un’ideologia e una strategia da guerra totale contro quello che è «il male» estremo e irrecuperabile, quali sono gli Stati Uniti e l'Occidente, e un bene estremo recuperabile con le masse che vivono nei paesi musulmani moderati. 5) Il terrorismo è una «internazionale» gestita (ancora distante di qualche anno dal 2001) con criteri efficientistici e strumenti altamente tecnologizzati, è organizzato per nuclei dispersi per tutto il mondo ma federati e fortemente 156

coordinati da «figli degeneri» delle élite dei paesi islamici che hanno perso la sfida della modernizzazione realizzata secondo i criteri dei paesi occidentali. Tale terrorismo trae legittimazione dal riferimento:a una interpretazione «fondamentale» del pensiero islamico [cfr. Victoroff 2005, 3-42]. Simile coordinamento è un vantaggio però nei tempi brevi, altrimenti il valore aggiunto rappresentato dal fare insieme e secondo una logica di rete, si sfalda irrimediabilmente. È quello che sembra stia accadendo ora. 6) Il terrorismo è una «internazionale» che ha avuto a disposizione uno spazio statale, radicalmente tradizionale, per organizzarvi liberamente le proprie attività come l’Afghanistan a cui si è aggiunta la disponibilità di spazi entro altri stati in cui provare e rodare tecniche terroristiche nuove e sofisticate, come la Palestina e l'Iraq del post-Saddam Hussein; e forse la Siria, il Sudan, la Somalia. Inoltre il terrori-

smo può servirsi di basi economiche per «dissipare» segmenti di popolazione giovanile o istruita, delle società occidentali, attraverso la produzione di droghe (oppio) e di loro derivati: in Afghanistan pare che si produca la pressoché totale quantità di oppio circolante nel mondo. 7) Il terrorismo è la definizione di una violenza ingiusta, data da chi la subisce; mentre, per chi la effettua,

tale violenza è un atto necessario per riaffermare la giustizia e riportare le persone da «non uomini» a «uomini». Violenza naturalmente è sacrificio e dolore, e di conse-

guenza, se si porta violenza sotto forma di terrore a chi «non è uomo», il terrorista stesso si immerge totalmente nel sacrificio, fino a procurare a se stesso il sacrificio massimo e certo. Il suicidio viene considerato inevitabile, ed

anzi diventa l’arma vincente poiché «fa la differenza» con chiè superiore tecnologicamente e per ricchezza diffusa, ma al tempo stesso ha incorporato la superiorità dell’individuo e dell’attaccamento alla vita nell’appartenenza alla società. La difesa dalla violenza di chinon teme di morire,

è radicalmente diversa dalla violenza di chi colpisce senza volere morire. Questo è un punto di forza notevole del terrorismo rispetto alle società che hanno fatto della vita il valore massimo e assoluto. 157

8) Il terrorismo poi si è dimostrato un fatto radicalmente nuovo, poiché è riuscito a coagulare un’élite nuova, formata dai «cadetti» delle famiglie che occupano il potere costituito nei paesi arabi o islamici, spesso moderati: essi hanno ricchezze ma poco potere in patria, specializzazione raffinata e prestigio all’estero [Sageman 2004}?. Ora queste élite «cadette», non tutte, allevate accanto al potere ma senza potere, de-

stinate spesso ad essere una /ezsure class, molto educate e istruite, si sono fatte un’idea «perfetta» di come dovrebbe essere la realtà del proprio paese. E tuttavia vedono l’impossibilità di realizzarlo, a causa dei propri leaders che hanno e gestiscono un potere compromesso, e dietro a questi, come

causa ultima, del capitalismo internazionale e degli Stati Uniti. Molto spesso le rivoluzioni sono nate da questi «perfezionisti» che godono di vantaggi materiali, ma sono frustrati nelle loro idee della perfezione della realtà e delle vie per realizzare il mutamento. E d’altra parte questi «cadetti della società imperfetta» [Weinberg e Eubank 19874], ma che ne sognano una perfetta sono molto simili ai «cadetti» del cattolicesimo e del marxismo che con il ’68 europeo avevano creduto che fosse possibile realizzare un «mondo perfetto» più vicino alle idee e alle immaginazioni e meno ai prodotti e ai tempi delle relazioni interpersonali e sociali e del consenso. E pure questi cadetti hanno cominciato a credere di poter realizzare, in tempi brevi, la perfezione che la maggioranza non era in grado o non voleva perseguire; hanno pensato che le regole della convivenza fossero un mero specchietto per le allodole che nascondeva la violenza degli affari e dello sfruttamento dei deboli; hanno pensato che un colpo mortale alla è Da una recente ricerca di Sageman su 102 terroristi musulmani Salafi provenienti dall’Arabia Saudita, Egitto, Francia, Algeria, Marocco

e Indonesia risultava che essi avevano un’età compresa fra i 25 ed i 69 anni e appartenevano: il 18% alla classe alta, il 55% alla classe media e il 27% alla classe bassa. 4 Qualche informazione possiamo ricavarla da una ricerca di Weinberg e Eubank su 451 terroristi donne italiane. Di queste il 60% aveva un'età compresa tra i 20 e i 29 anni, ed erano per il 35% studenti, il 43%

colletti bianchi o insegnanti e il 7% «lavoratori».

158

sicurezza delle regole della convivenza esistente potesse venire dalla paura che viene dal fatto che la violenza nuova è casuale e senza senso, e dunque generava terrore ed essa stessa si configurava come terroristica. 9) Il terrorismo come distruzione di certezze e messa in balia dell’imprevedibile delle proprie vite e delle proprie certezze è stato vinto, quando la società nella sua quasi interezza si è coalizzata per emarginare le frange (più ancora che minoranze) che usano impaurire con il terrore, e poi ha schiacciato i movimenti terroristici. Il successo che conosciamo bene è quello italiano degli anni Ottanta: partiti di governo e partiti di opposizione, partiti di massa e partiti di opinione, sindacati e società civile si sono coalizzati [Bonanate 2006], e ciò ha isolato le Brigate rosse e i movimenti neri, e quindi ha debellato il fenomeno con gli strumenti legislativi e di polizia. Tale via tuttavia implica grandi alleanze, che possono aversi quando vi è una condivisione di fondo dei valori e soprattutto non vi sono delle spaccature di carattere sociale, economico, culturale, etnico. In Italia non

esistevano tali spaccature, ma ciò non può dirsi, ad esempio, in Israele/Palestina, poiché le differenze economiche (livello di vita), sociali (classi sociali), culturali ed etniche

tra le maggioranze israeliane e le maggioranze palestinesi sono troppo marcate e distanti. La conseguenza è che è difficile pensare che in caso di accordo tra le élite israeliane e palestinesi le due maggioranze si compattino per far fronte al terrorismo dell’una parte e dell’altra parte. Tale discorso lo richiamiamo per sottolineare che è ben difficile che in questo momento storico si produca un’alleanza forte tra élite musulmane al potere e le'loro basi popolari contro l’attuale terrorismo internazionale, proprio perché le distanze tra élite di governo e base popolare sono notevoli in termini sociali, economici, di potere, culturali ed anche etnici. . In tal modo viene meno una forma’di lotta endogena al terrorismo, e si sa che Osama Bin Laden enfatizza molto la corruzione delle élite al potere nei cosiddetti paesi arabi moderati. 10) La strategia della «rivoluzione» o della presa del potere per cambiare la società può essere molto simile a quella 159

richiamata da Galtung: uno squilibrio di vertice, una massa

cosciente, un contatto tra lo squilibrio di vertice e la massa cosciente, un capo carismatico, un’ideologia e una crisi economica [Galtung 1971]. Se caliamo tale strategia nella realtà islamica attuale possiamo forse coniugare il paradigma nei termini seguenti. Lo squilibrio di vertice sta nel fatto che, accanto all’élite che detiene il potere, si è formata una élite di «figli degeneri» che cerca di ristabilire l'originalità e la perfezione della società. La massa islamica è convinta del fatto che l’unica certezza sia quella che sono falliti i sogni di vivere i valori e gli stili dell'Occidente e che è allora necessario combattere l'Occidente, e la stessa massa è cosciente che «si può» abbattere l'Occidente. Il contatto tra élite «degeneri» e massa cosciente di cambiarè è in attesa di essere realizzato, poiché molto spesso le masse islamiche, soprattutto non arabe, mostrano comportamenti aggressivi contro minoranze in-

traprendenti, che possono essere di volta in volta i cinesi (in Indonesia) o i cristiani. Il capo carismatico può venire facilmente da questa élite «degenere», e il caso di Bin Laden lo sta a dimostrare. Anche l’ideologia già esiste in questo ritornare a un islamismo arcaico, in cui teocratico e poteri po-

litico e civile si fondono. La crisi economica è una realtà vissuta dalla massa sia per l'incapacità di realizzare gli stili di vita della società occidentale e sia per la frustrazione di vedere che semmai questi sono invece realizzati da minoranze nazionali attive. In tale contesto di possibile «rivoluzione» è evidente che il ricorso a violenze non codificate, e quindi non previste e oscure nei percorsi seguiti, diventa un fatto

molto probabile, e genera terrore dentro e fuori il paese. Se sono corrette tutte queste valutazioni, allora possiamo attenderci che vi siano probabilità che si tenti di usare politicamente il terrorismo per costruire un ordine politico RISTONO, nell’ambito dei paesi islamici. È chiaro che quandoi portatori di terrorismo politico controllano il potere legittimato dallo stato, allora il terrorismo scomparirà perché non serve più. 11) Un ulteriore elemento della nuova situazione che sembra giustificare la messa in moto della storia è il fatto che le masse in «un sonno molto leggero» e pronto a svegliarsi fra160

gorosamente sono quelle di paesi non arabi: e, in primo luogo, le folle musulmane del Pakistan, dell’Indonesia, delle Filippine, della Nigeria. Esse sono pronte a esplodere e a mettere in discussione le classi politiche che le governano. E ciò avviene dopo che già le masse fondamentaliste hanno fatto la rivoluzione in Iran, e hanno ricacciato i sogni secolarizzatori sovietici in Afghanistan negli anni Ottanta. Ci troviamo di fronte a un «tam tam» di masse che interessa in primo luogo l’islamismo del Sud e dell’Est asiatico, ma che potrebbe contagiare anche le masse occidentali e africane di segno arabo, molto più sensibili all’irrisoluzione del problema israelo-palestinese. 12) Ma allora di fronte a questo terrorismo, a queste masse diseredate e frustrate, a questo mondo musulmano in ebollizione, come evolverà la situazione mondiale? E più in particolare, se il terrorismo internazionale è uno strumento di lotta utilizzato da chi non controlla l'ordine mondiale, semmai globalizzato, a quale obiettivo strategico esso punta? Vi sarà una nuova superpotenza che riporta a un

equilibrio bipolare già visto ai tempi di Stati Uniti e Unione Sovietica? E tale superpotenza, che per affermarsi all’inizio strumentalizza terrorismo e scontro di civiltà, quali connotati avrà? Quello dello stato tradizionale con una ramifica-

zione imperiale? Oppure sarà un insieme unitario di politiche statali musulmane unite in una certa confederazione? Oppure sarà una «realtà» nuova e attualmente ancora indicibile, ma il cui cemento è la religione e la lotta verso . tutto quello che non è musulmano? Per alcuni anni è sembrato che il ruolo di superpotenza alternativa agli Stati Uniti fosse svolto dalle organizzazioni internazionali e dall'Onu in particolare, ma soprattutto nell’ambito degli interventi di «solidarietà internazionale» per far fronte alle crisi internazionali generate da «attentati» ai diritti delluomo e dei gruppi etnici sociali religiosi culturali. Ma perché questa «superpotenza atipica» non potrebbe convivere con gli Stati Uniti e il futuro attore musulmano? A questo punto bisognerebbe anche interrogarsi sul ruolo che potranno giocare Europa, Russia, Cina, India, Brasile, Sud-Africa nei

confronti di un ordine mondiale, che almeno per molti decenni dovrebbe contrastare il nuovo attore musulmano. 161

4. Scenari dal 2001 per una storia che si rimette in moto

Se abbiamo concluso con un riferimento al macro-equilibrio da realizzarsi nei prossimi decenni, cosa può succedere nel decennio cruciale successivo? Il futuro possiamo rappresentarlo per sequenze di scenari, che progressivamente si modificano fino a creare le condizioni di nuovi scenari in corrispondenza delle situazioni che progressivamente evolvono. Tali aggiustamenti di scenari sono tanto più indispensabili quanto più si operano interventi di variabili casuali, dovute alle irrazionalità prodotte dalle combinazioni di reazioni ai fatti della politica internazionale, alle strategie alternative che gli Stati Uniti e gli altri attori mettono in opera per effetto di nuove maggioranze che guidanò gli stati e i problemi del mondo, ecc. Prima di procedere è opportuno spiegare perché utilizziamo gli scenari per spiegare il processo degli eventi, e perché anche elaboriamo scenari e sottoscenari che si modificano progressivamente con il modificarsi di eventi imprevisti. Infatti gli scenari non servono tanto a conoscere come sarà il futuro, ma come

sarebbe il futuro se non intervenissero

variabili imprevedibili e casuali. E soprattutto tali scenari possono avere successo solo se si rispettano tempi rapidi, il

che significa in sostanza evitare che intervengano in tempi allungati le variabili imprevedibili o casuali sopra richiamate. E al tempo stesso, se l’efficacia di uno scenario è concepita per far sì che queste variabili non si verifichino (e quindi bisogna prevedere in tempi rapidi) o a incorporarvi le risposte a tali variabili imprevedibili o casuali, allora bisogna costruire degli scenari molto accurati nel prevedere il processo che porta allo scenario previsto attraverso le risposte e le reazioni alle proprie azioni e attraverso la dominabilità delle conseguenze prodotte da tali reazioni. Tutto ciò è particolarmente vero, in quanto si ha l'avvertenza che tali scenari servono a prendere la migliore decisione per raggiungere un obiettivo fra i possibili e che sono tanto più validi quanto più sono costruiti anche per far fronte ad eventi imprevedibili. Conduciamo il discorso degli scenari seguendo binari temporali del dopo attentati dell’11 settembre 2001, e poi dell’anno e 162

mezzo che intercorre da quella data fino allo scoppio della «guerra preventiva» all’Irag, e infine secondo le date del dopo guerra Iraq. 4.1. Scenari per il post 11 settembre 2001

Cinque sono gli scerari che potevano essere formulati in maniera discorsiva per il futuro conseguente l11 settembre 2001 [Bestuzhev-Lada 2001; Schwartz-Morgan 20017]. 1) Con il prizzo scenario, che possiamo definire scerario

radicale, si ha la ricostituzione di un bipolarismo tra Nord e Sud, che viene a sostituirsi a quello tra Est e Ovest durato fino alla caduta dell’Unione Sovietica, e si forma dopo una situazione di monopolarismo statunitense. Da una parte stanno gli Stati Uniti, i paesi europei, Russia, Cina, Thailandia e

India, oltreché alcuni paesi del Sud-America. I rapporti tra questi stati, anche se persiste la preminenza degli Stati Uniti, generano un balance of power tra gli stessi stati, con bilanciatore che potrebbe essere l'Europa. Dall'altra parte sta il mondo islamico «ordinato» inizialmente da quello che ora è il terrorismo

internazionale

(come

strumento

transitorio)

e

l'ideologia del fondamentalismo islamico. Tale polarizzazione islamica avviene perché l'Occidente non ha saputo tenere separati nelle motivazioni alla guerra i contenuti anti-terroristici da quelli religiosi e di civiltà. E quindi involontariamente l'Occidente è stato tirato dentro la trappola di una ‘ guerra lunga ed estesa a molti paesi islamici — supposti santuari del terrorismo. Con ciò l'Occidente è caduto nella ? Molti sono stati gli scenari elaborati, da quelli radicalmente tragici in termini di guerra, a quelli che evocano un uomo radicalmente nuovo. Qui voglio richiamare due esempi di scenari: quello di Igor BestuzhevLada indicato come «World War II» in quanto viene dopo la Terza guerra mondiale della «Guerra fredda» (cfr. World future society 2001; www.wfs.org/mmlada.htm); e quelli di Nicole Schwartz-Morgan indicati il primo come «scenario sperabile: Global political management», il secondo come «scenario emergente: Israel goes global», il terzo come «scenario della previsione: Homo sapiens re-made» (cfr. World future society 2001; www.wfs.org/mmmorgan.htm).

163

«trappola» di Bin Laden, che vuole trasformare la guerra al terrorismo in guerra di civiltà e di religione e vuole spingere le masse fondamentalizzate dei paesi moderati islamici a rivoltarsi. Lo scenario è certamente radicale, ma dimostra

che a questo si può arrivare, se l'Occidente non è oculato per evitare certe estensioni militari e non riesce a impedire la caduta dei governi islamici attuali. Si tratterebbe di uno scenario che prima di assestarsi in una sorta di divisione del mondo e di aree di influenza, come capitava con Stati Uniti e Unione Sovietica, dovrà subire dei lunghi e drammatici periodi di violenza dentro il nuovo polo islamico e fuori di esso. 2) Un secondo scenario è rappresentato dallo scenario attuale con aggiustamento, in direzione della soluzione del conflitto israelo-palestinese e del governo degli effetti della globalizzazione. Secondo questo scenario: 4) nei tempi brevi viene rovesciato il regime dei talebani in Afghanistan; b) vengono rimossi da parte degli Stati Uniti gli ostacoli alla soluzione del conflitto del Medio Oriente, imponendo la presenza dello stato palestinese e mettendolo in grado di funzionare (oppure uno stato multietnico ebraico-musulmano-cristiano, il che è più difficile da realizzare per la sua complessità). Ciò toglie un elemento forte di contrapposizione degli islamici contro l'Occidente, oltre a sanare una situazione insostenibile; c) vengono adottati elementi concreti ed efficaci di governo e di controllo politico del potere economico internazionale delle multinazionali. Tale fatto orienta la globalizzazione verso un equilibrio più giusto tra i paesi e verso lo sviluppo dei paesi non ricchi. Il risultato di tale scenario sposta la lotta al terrorismo e alle premesse e conseguenze della guerra pura e semplice verso una lotta mirata su specifici obiettivi, soprattutto volta a rimuovere le ragioni profonde dell’ingiustizia verso un popolo e di un sistema di relazioni «troppo libero» e per questo capace di produrre povertà, e nuovi assetti sociali nelle società del «Terzo Mondo». Attraverso questa via l'11 settembre produce veramente uno spostamento verso un mondo più giusto e una globalizzazione guidata. 3) Il terzo scenario è un neo-bilanciamento delle potenze. Esso significa che il futuro prossimo non sarà composto da 164

un’unica potenza «cosmica» né da un gendarme e nemmeno da un bipolarismo Occidente-Islam, ma da un sistema di medio-grandi potenze, situate nella sfera tecno-culturale occidentale e in quella islamica. Tali paesi potranno essere da una parte Stati Uniti, eventualmente

Europa, Russia,

Cina, Giappone, India; e dall’altra paesi islamici fondamentalisti che riescono a diventare referenti regionali di altri paesi, e paesi islamici moderati che fanno altrettanto. Tale bilanciamento di potenze deriva da due fenomeni: da una parte gli Stati Uniti devono sopravalutare certe potenze che un tempo vedevano come competitori, in quanto indeboliti dalla messa in discussione della loro leadership da parte del terrorismo internazionale; e dall’altra l’opera di disgregazione dei paesi islamici moderati da parte di Bin Laden non riesce. In queste condizioni il ruolo di bilanciatore, svolto un tempo (fino alle due guerre mondiali) dalla Gran Bretagna, sarà ora svolto semmai dall'Europa, se tuttavia riesce a

staccarsi dall’appiattimento e dalla regressione alle ragioni statunitensi. Certamente in quest'ottica, l’Italia in passato ha spesso svolto un ruolo intermediario e di paciere, che anche in occasione della lotta al terrorismo internazionale avrebbe potuto svolgere invece che ambire a fare solo quello che fanno i «grandi» dell'Europa. In questo scenario non vi è molto di nuovo nelle relazioni più «giuste» tra popoli, poiché l’enfasi è sempre sulla rea/politik, anche se ci troviamo con gli Stati Uniti indeboliti e avvolti nei com| plessi della paura di essere vulnerabili e anche se l'Europa può svolgere funzioni più di «saggio» che ha accumulato nel passato tante colpe, ma proprio per questo può svolgere un ruolo di mediazione e di appoggio al più debole. 4) Il quarto scenario è quello della storia che non c'è 0, se vogliamo, della storia che «disbriga la normale amministrazione». In tale scenario quindi, anche dopo un certo periodo, non succede niente di nuovo, perché intorno all’11 settembre non viene sviluppata alcuna costruzione sociale, culturale e politica. La guerra statunitense nell’ Afghanistan si incancrenisce, poiché i talebani non abbandonano definitivamente il potere: il paese viene unito, ma sostanzialmente diviso in territori controllati dai tanti signori della guerra 165

e viene tolta la capacità di azione a Bin Laden e alla sua diretta organizzazione (Al Qaeda). Questa poi e le altre agen-

zie terroristiche sparse per il mondo vengono disattivate o messe in condizione di non nuocere, almeno a livello inter-

nazionale. Alla fine si sgonfia il tema «terrorismo internazionale», e non c’è bisogno di fare niente altro e di conseguenza non c’è bisogno di agire sulle basi sociali che altrimenti avrebbero giustificato la sua trasformazione in nuove forme di stato, in costruzione di nuove società, in elabora-

zione di un’ideologia per nuovi poteri. È quindi uno scenario che permette di dimenticare l’11 settembre, salvo ricordarlo nelle mitologie patriottiche, nella memoria per le lotte «titaniche» condotte contro il male, e nel dolore delle fa-

miglie degli scomparsi che con il tempo si stempera. Tuttavia questo ritorno allo status quo, e quindi al sistema di giustizie e di ingiustizie del pre-11 settembre, avrà un prezzo: e cioè ancora ci saranno, per un futuro più o meno immediato, masse diseredate che ambiscono a diventare eredi

legittime del benessere e della dignità praticata dall’Occidente; e tecniche di violenza, élite «degeneri» e ideologie «pronte a soccorrerle» per trovare strade alternative a un benessere e a una dignità impossibili da raggiungere. 5) Il quinto e ultimo scenario è che, al di là della lotta

(non guerra) tra Occidente e terrorismo internazionale di marca islamico-fondamentalista, emerga il ruolo essenziale delle organizzazioni internazionali come attori di mediazione e di governo del rischio, affinché i diritti umani siano salvi, gli scontri non siano tra religioni e civiltà, lo sviluppo nei paesi prenda forme istituzionali che trasformino le domande della società civile in risposte della società politica nei paesi che vivono attualmente la povertà. Già nel capitolo secondo abbiamo messo in evidenza il ruolo fondamentale dei «governi mondiali a macchia di leopardo» (nel tempo e nello spazio) sviluppati dalle organizzazioni internazionali (a cominciare dall'Onu), organizzazioni non governative, la chiesa

cattolica, le organizzazioni religiose. Esse sono altrettanti attori di mediazione che gestiscono la pacificazione, la riconciliazione, lo sviluppo, soprattutto nelle aree che hanno fortemente bisogno di ciò. Abbiamo sotto gli occhi l’azione svolta 166

in questo senso dall’Onu e dalle sue agenzie, ma anche dalle organizzazioni non governative volte a modificare culture e condizioni locali per favorire la dignità della persona e lo sviluppo delle comunità. Ma anche organizzazioni cattoliche od anche ecumeniche si dotano spesso di segmenti organizzativi (commissioni) e di occasioni di dialogo tra le religioni del mondo, per smontare paradigmi perversi per i quali la religione deve essere elemento di odio e di guerra. 4.2. Scenari per il 2001-2003 e oltre, che potevano verificarsi Dei cinque scenari delineati per i primzi due anni (dal settembre 2001 al marzo 2003) quello che ha avuto rzaggiore realizzabilità è stato il quarto, quello della «storia che non c'è». In questo periodo, cioè, vi è stata la reazione di basso profilo di abbattere il regime dei talebani, in quanto statocontenitore dell'ordine di «Al Qaeda». Tale fatto ha evi-

denziato i limiti delle armi iper-moderne per sconfiggere un nemico: esse non riescono ad andare oltre ad interventi macro che lasciano circolare per il territorio interventi militari micro utilizzanti armi e ambienti pre-moderni. Il risultato è l’attuale Afghanistan che è lasciato in mano a interventi e a forze provenienti da molti paesi sotto la bandiera della Nato. La storia dell’anno e mezzo compreso tra settembre 2001 e marzo 2003 è rimasta sostanzialmente entro lo scenario quarto, salvo pencolare sul cosa fare veramente per © mettere in moto la stessa storia, e quindi attivare altri scenari. L’indecisione degli Stati Uniti, prodotta in primo luogo, dal fatto che per gli altri paesi occidentali il tutto non costituiva un vero problema, ha riguardato la messa a punto della strategia della lotta al terrorismo internazionale: da quale «paese canaglia» o santuario del terrorismo cominciare tra Somalia, Sudan, Yemen,Pakistan, Corea del Nord, Iran, Iraq? E poi, quale criterio seguire? I paesi con

governi che appoggiano apertamente Al Qaeda, o i paesi che chiudono un occhio sul terrorismo, o i paesi in cui vi sono movimenti terroristici islamici incontrollabili (Pakistan, Indonesia, Filippine), o i paesi in cui i governi chiudo167

no uno 0 due occhi sul commercio di armi verso il terrorismo stesso (e in questi paesi rientrano molti paesi ex-comunisti dell’ Europa)? Alla fine, e ad ogni modo pian piano, gli Stati Uniti (con il Regno Unito) si sono orientati verso le intenzioni di abbattere il governo dell’Iraqg, che in realtà è sempre sembrato uno degli stati meno disponibili verso il terrorismo internazionale musulmano di Al Qaeda, e che perciò viene di-

strutto, per ragioni di «democrazia» [Sardar e Davies 2003]. Da questo momento sembra ci si rivolga verso l’attivazione del prezzo scenario che abbiamo indicato come scenario radicale: è da questo momento che in qualche modo l°11 settembre 2001 comincia a produrre delle conseguenze reali. Il pericolo di una radicalizzazione globale del conflitto, ma anche in questo casò lo scenario che abbiamo prefigurato sembra seguire una variante: essa è dovuta alla presunzione di fondo che le ragioni degli Stati Uniti siano giuste e indiscutibili a priori fino al punto da rendere legittima la guerra preventiva. Le conseguenze di tale variante allo scenario uno

sono molteplici e le possiamo raccogliere nei seguenti punti: 1) le opinioni pubbliche di tutte le società del mondo sono profondamente contrarie alla guerra all'Iraq perché considerata illegittima, e i governanti statunitensi sono costretti a ri-

correre all’esagerazione della realtà di fronte alla propria opinione pubblica; 2) gli Stati Uniti elaborano una propria concezione di impero mondiale, ottenuto e controllato militarmente, enfatizzando l’ideologia di unica potenza mondiale; 3) gli Stati Uniti sono più efficaci nel gestire la globalizzazione economica che l'impero controllato direttamente dai militari; 4) in questa visione l’Europa ha lo scopo di intervenire dopo l'intervento militare e nei settori assistenziali e civili; 5) l’idea dell'impero solitario si fa sempre più forte perché la «lotta contro il male» musulmano (come altra superpotenza potenziale) in realtà è sempre più remota se si riesce a limitare nel tempo la guerra all’Iraqg. Ed in effetti tale variante dello scenario primo ha generato i tre seguenti possibili scenari, che variano a seconda della durata della guerra. Il primo sotto-scenario radicale (1.1.) si realizza quando la guerra dura poche settimane, e si concretizza nei seguenti fatti. 168

Gli Stati Uniti e il Regno Unito attaccano potentemente, da Sud e da Nord. Anche dall’Iran intervengono fuoriusciti «veri» e «presunti» iracheni, ma la loro presenza è solo di disturbo. I governi arabi stanno a guardare e si augurano che l'attacco duri poco tempo. Le masse di questi paesi arabi sono attivate da leader nazionalisti e fondamentalisti, ma

fanno fatica ad aderire nel breve tempo. L’Europa si barcamena dando appoggi logistici, più o meno mascherati alle rispettive opinioni pubbliche. Gli attacchi sfondano in pochi giorni le resistenze, e nel giro di un paio di settimane vincono anche le ultime resistenze irachene e dell’entourage organizzato di Saddam Hussein. Il rapido evolvere dei fatti impedisce reazioni «irrazionali» su obiettivi in Israele da parte delle strutture belliche irachene. Il secondo sotto-scenario radicale (1.2.) si realizza quando la guerra dura mesi, e si concretizza nei seguenti fatti. Stati Uniti e Regno Unito non riescono a risolvere la guerra in 15-30 giorni. Gli scudi umani vengono fortemente utilizzati a Baghdad. Vengono abbattuti alcuni aerei, e le truppe di terra vengono falcidiate dalle armate speciali di Saddam Hussein. Missili di Saddam Hussein colpiscono le città di Israele. I paesi musulmani sono pressati dalle masse che vogliono che i loro governi intervengano, ed anzi mandano brigate internazionali. Di tali governi alcuni cadono, altri prendono le distanze e condannano gli Stati Uniti e i paesi che sono intervenuti. L'Italia manda le proprie trup| pe scelte, così come fanno altri paesi europei. Si produce un'alleanza di acciaio tra Iraq e terrorismo internazionale. Il terzo sotto-scenario radicale (1.3.) si realizza quando la guerra si incancrenisce, e allora si possono concretizzare

due alternative. 1) Non si opera una saldatura forte tra regime iracheno allo sbando ma operante in certe zone e Al Qaeda. Ed inoltre.i governanti arabi riescono a controllare i propri popoli, evitando un supporto attivo a Saddam e soprattutto alla guerra totale tra civiltà. In questo caso il conflitto diventa sempre più una guerra dimenticata. L'Italia in queste condizioni dapprima convive con tali condizioni di guerra, che poi via via si attenuano, riprendendo sempre più consisten-

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za la normalità della vita quotidiana: si pensa sempre meno alla guerra, ci si comporta come non esistesse. E si ritorna a

fare quello che si è sempre fatto. 2) I popoli musulmani di Indonesia, Iran, Pakistan, Nigeria, paesi arabi moderati, spingono a rovesciare i propri governi al fine di costruire una sorta di grande alleanza contro il mondo non musulmano. Il terrorismo viene a sostituire le funzioni delle antiche invasioni di popoli, e quindi si passa a degli atti terroristici sempre più diffusi, di grandi dimensioni, e utilizzanti la minoranza musulmana nei paesi cristiani (Stati Uniti, Europa, Russia, in primo luogo). Gli atti terroristici più eclatanti sono portati negli Stati Uniti. Sono tanto forti che l'opinione pubblica americana diventa sempre più anti-guerra e isolazionista. Altre destinatarie di attentati sono le chiese cattolica e ortodossa. Gli Stati Uniti ne escono sconfitti e l'Europa si trova a decidere di essere unita, ad avere una propria politica estera, e a diventare la potenza egemone (o balancer) insieme a Cina, Russia, Stati Uniti e alcuni paesi musulmani. A prima vista anche queste varianti dello scenario radicale, non hanno che un valore storico, in quanto già sappiamo, dal 1° maggio 2003, che si è realizzato il primo sotto-scenario radicale, e cioè la guerra è durata qualche settimana, e quindi Stati Uniti e Regno Unito (e altri governi) hanno dimostrato la ragione dei vincitori, e in qualche modo si è accentuato l’aspetto positivo della militarizzazione dell'impero degli Stati Uniti e del loro essere un gendarme militarizzato del mondo. In realtà quello che sta succedendo dalla fine della guerra, è una sorta di 725x di prizzo e terzo sotto-scenari dello scenario radicale (il primo originario),

poiché, se è vero che la guerra sul campo di battaglia è finita, in realtà è iniziata una sorta di guerriglia di gruppi religiosi e laici iracheni contro gli americani (e i paesi della coalizione), il che tra l’altro fa chiedere se sia veramente realistico uno stato a tre dimensioni: sciita, sunnita e curdo.

Il rischio è che l’idea di inzuppate di petrolio dei dicatore di questa crisi statunitense si riconosce 170

impeto si impantani nelle sabbie deserti mesopotamici. Già un indell’auto-candidatura all’Impero nell’evocare ed eventualmente ri-

correre sempre più frequentemente al coinvolgimento di altri attori nel post-guerra: l'Europa in primo luogo, ma anche la Nato, l'Onu e i paesi medio-orientali per la soluzione (un po’ pasticciata in realtà) del conflitto israelo-palestinese. A mio avviso, vi sono alcune ragioni che impediscono che gli Stati Uniti diventino un vero impero piuttosto che co-controllore della globalizzazione mondiale. La prizza ragione è che gli Stati Uniti sono incapaci di essere sufficientemente imperiali, poiché per essere tali bisogna conoscere, e avere sperimentato, l’arte di gestire la convivenza complessa di popoli, l’arte di usare la forza non indiscriminatamente e gratuitamente dirompente. Anche su questi aspetti

è sempre molto significativa l’analisi che Luttwak [1993] fece in La grande strategia dell'Impero romano (sua tesi di dottorato), se confrontati i bombardamenti indiscriminati

degli americani nelle battaglie che hanno combattuto (a cominciare da Montecassino e dalle tante città tedesche e italiane nella Seconda guerra mondiale). La seconda ragione che impedisce l’imperialismo militarizzato degli Stati Uniti sta nel fatto che gli americani sono un popolo troppo democratico, come cultura e come prassi, e troppo attento al-

l’individuo per accettare la logica della guerra preventiva, le esagerazioni per manipolare il consenso dell’opinione pubblica; e per permettere che fatti illegittimi possano restare non conosciuti alla stessa opinione pubblica (vedi l’assenza di armi di distruzione di massa e le torture dei prigionieri). In effetti è ben difficile che il sistema mediatico permetta che resti segreto qualcosa di illegittimo, ed è ben difficile che ad esso non conseguano sanzioni politiche a chi lo mette in atto.

Le difficoltà imperiali degli Stati Uniti, che cercano di realizzare il primo scenario radicale, danno possibilità di verificarsi al terzo scenario che enfatizza la funzione mediatrie di conflitti da parte dell'Europa; ma implica anche il concretarsi di aspetti dello scenario quinto dei cinque elaborati originariamente (subito dopo il 2001), in quanto enfatizza il ruolo nuovo e disattivante di conflitti e di governo dello sviluppo da parte delle organizzazioni internazionali o mondiali. Proviamo ora ad esplorare il ruolo possibile dell'Europa. dA

5. Terrorismo che spinge la storia già messa in moto nel 2001 verso obiettivi imprevisti

Mettiamo insieme i quattro fatti che sono avvenuti nell’arco creativo dei nove anni dal 2001 ad oggi, e ci rendiamo conto quanto la prospettiva sia radicalmente cambiata: gli attentati terroristici del 2001 e quelli successivi (Bali, Madrid, Londra, e altri), l'intervento armato nell’Afghani-

stan, dal 2001 e successivamente quello della Nato (vedi soprattutto gli Stati Uniti), l'intervento in Irag, la guerra in Libano. Per ognuno di questi fatti si può osservare come si sono formate dal vivo le modificazioni della storia. 1) Anzitutto vi è stato ilfallizzento dell'obiettivo univer-

sale e strategico del terrorismo di Al Qaeda. Possiamo dire ora che tale fallimentò è avvenuto per le seguenti ragioni. a) Il fatto eclatante delle distruzioni dell’11 settembre 2001 poteva avere successo alla condizione che ir2z2ediatamente (o quasi) rispondessero le masse dei paesi musulmani moderati e si fossero rivoltate ai loro governanti in nome dell’interpretazione fondamentalista sunnita e perché fortemente deluse dalla mancata modernizzazione e dall'ingiustizia dilagante. Ciò però non è avvenuto, sia perché le misure adottate dai relativi governi sono state immediate e sia perché le folle difficilmente seguono nel breve periodo la violenza del terrore che coinvolge anche innocenti appartenenti alle masse che dovrebbero beneficiare successivamente della rivoluzione fondamentalista. Il coinvolgimento delle stesse masse, anche se è tale, richiede tensione costan-

te e quindi tempi brevi perché tali popolazioni non possono accettare di essere distolte per troppo tempo dalla vita quotidiana intrisa di stili moderni. Il terrorismo di Al Qaeda non è riuscito ad attivare le ribellioni delle masse, e

quindi questi hanno rinunciato (semmai hanno avuto intenzione di farlo) a seguire le regioni della nuova società di credo musulmano ortodosso. In senso strategico l’°11 settembre doveva essere l’inizio di un periodo breve, intenso,

e qualitativamente decisivo per la realizzazione di una svolta mondiale, il che non è stato e di conseguenza si è ritorto contro la medesima strategia. Ciò capita molto spesso nel 172

terrorismo, quando viene realizzato un fatto radicalmente nuovo e di sfida totale al «nemico». Se ad esso non seguono altri fatti della stessa portata e con effetti altrettanto dirompenti, il fatto «radicalmente nuovo» (assassinio di un imperatore o di un presidente della potenza mondiale, strage con molte vittime, ecc.) si configura come l’inizio della fine,

e cioè come l’elemento massimo della strategia, cui non segue nulla di ancor più strategicamente dirompente. Noja Noseda [2007] legge in questi termini il fallimento degli insuccessi musulmani della presa di Costantinopoli (711) e di Vienna (1683), o aggiungiamo noi la sconfitta di Lepanto (1571); Bonanate [2006, 33 e ss.] legge negli stessi termini il declino delle Brigate rosse italiane dopo l’assassinio di Moro. b) AI Qaeda l'abbiamo indicata come «internazionale» del terrore, e con ciò intendevamo riferirci a un retwork di

gruppi terroristici, dislocati per tutto il mondo, arabo e non, che condividevano gli obiettivi del centro di Osama Bin Laden. Le difficoltà di coordinamento tra questi gruppi hanno allentato fortemente le relazioni tra di loro. Ciò ha significato che ogni gruppo andava per conto proprio, salvo blande consultazioni con il centro esistente in Pakistan/Afghanistan. Così ogni gruppo sceglieva propri ambiti e obiettivi: Al Zarkawi in Iraq, imarocchini a Madrid, gli ini glesi-pachistani a Londra, e così via. In questo modoè tut: tavia difficile perseguire con efficacia l’obiettivo universale e strategico, che dalla gente è percepito fine a se stesso (la violenza per cambiare radicalmente il mondo). Ì

c) Le élite iniziali del terrorismo sono i «cadetti» delle

famiglie al potere (in senso lato) nei paesi arabi e che godono i vantaggi economici e di status delle loro famiglie, anche se non i vantaggi politici e di guida dei fratelli maggiori e dei padri: essi sono istruiti, ricchi e rispettati, e abbracciano questo terrorismo universale e strategico per raggiun-

gere obiettivi che pensano possibili e Si impegnano a co-

struire un mondo radicalmente nuovo e buono. Con il tempo, esse vengono eliminate nelle loro stesse azioni suicide o vengono perseguitate dai paesi che subiscono il terrorismo, ma più ancora si rendono conto dell’impossibilità e non attrattività di tale mondo nuovo. Ai «cadetti» succedono in173

dividui che sono molto operativi, fanatici e inseriti nei paesi occidentali, perché immigrati già da tempo o addirittura perché sono nati nel nuovo paese (la Gran Bretagna) e appartengono alla terza generazione. Essi hanno solo la capacità di sacrificare se stessi e di fare attentati ma non sono potenziale classe dirigente. E d’altra parte come terza generazione diventano terroristi perché sono alla ricerca delle radici che vanno oltre le generazioni e di identità che poi li rendono oggetti nelle mani di altri. E evidente che essi fanno parte di gruppi lontani dal centro Al Qaedista e che rappresentano il fallimento del terrorismo strategico ed universale. d) Tale genere di terrorismo è condotto nel nome dell’ortodossia sunnita, ma nella realtà musulmana vi sono an-

che gli sciiti, che dall’Iran arrivano al Libano, i quali non possono accettare ilxfuturo proposto dal fondamentalismo (sunnita) del terrorismo universale. Gli sciiti si presentano come dei fieri oppositori del relativo disegno. e) Infine l'isolamento del capo carismatico tra le monta-

gne afghane e pachistane, braccato da americani ed europei da una parte e dagli uomini di Musharraf dall’altra, rende difficili i contatti con i nodi della rezwork mondiale di Al Qaeda, così come problematizza i rapporti con finanziatori e con fornitori di tecnologie altamente sofisticate necessarie per le azioni terroristiche. 2) In secondo luogo, l’attacco occidentale (soprattutto) all Afghanistan ha senz'altro tolto l’ambito territoriale e sovrano per la progettazione e la realizzazione dei piani terroristici a Bin Laden e ad Al Qaeda. Tuttavia, data la con-

formazione della società tribale, del territorio e degli insediamenti afghani, la vittoria non è stata completa e soprattutto definitiva. Ciò significa che quel che sembrava tolto ai talebani e a Bin Laden, ora è sempre meno certo, e la con-

seguenza è quella di rendere pressoché incontrollabile e insicuro il paese ai fini di un superamento del terrorismo, almeno a livello locale. 3) In terzo luogo, il macroscopico errore degli Stati Uniti di abbattere il regime di Saddam Hussein in nome di principi democratici e per avere accesso diretto a un’area

strategica, nella realtà ha destabilizzato quell’area nelle sue 174

tre parti etniche, soprattutto dando un grande peso agli sciiti iracheni. Ciò ha fornito un wotevole spazio all'Iran sciita, il quale può espandere la propria influenza alla parte sciita irachena, alla Siria alauita e quindi agli sciiti Hizballah. La conseguenza evidente è che l’incapacità degli Stati Uniti di dominare la situazione locale ha enfatizzato la nascita di una potenza (anche atomica) regionale che si aggiunge alle altre esistenti nel mondo. 4) Infine la guerra in Libano tra Israele e gli Hizballah (2006) ha indicato la strategia della nuova potenza regionale dell’Iran, ma lo ha fatto nel punto più delicato e dai problemi irrisolti che stanno nel Medio Oriente israelo-palestinese. E si sa che, se si vuole essere tenuti in considerazio-

ne, bisogna fare sentire la propria presenza nelle situazioni più controverse e che necessitano di soluzioni. E d’altra parte un avvertimento forte per Israele, che bisogna risolvere la controversia per il futuro stato palestinese e la condizione dei palestinesi, altrimenti la stessa esistenza di Israele può trovarsi in serio pericolo. Un’alleanza tra gli sciiti Hizballah e i sunniti palestinesi può essere tattica per quanto si voglia, ma se avviene la situazione sarebbe estremamente problematica per Israele. Osservata da un punto di vista positivo vi è ad ogni modo da aggiungere che i palestinesi sunniti hanno finora preso le distanze da Al Qaeda e dagli Hizballah, e ciò è garanzia per Israele che una soluzione (veramente) positiva per la Palestina e i palestinesi, diventa una soluzione giusta anche per sé. Per concludere sull’incrocio dei quattro fatti sopra richiamati (brevemente), possiamo osservare che la storia messa in moto dagli attentati del 2001 e da Al Qaeda ha preso un orientamento diverso da quello iniziale di cinque anni prima. E ciò non è avvenuto per un processo necessario e

deterministico, ma anzitutto perché le reazioni degli attori e l’inattività dei bystander ai fatti hanno generato fatti nuovi, non voluti (anche se facilmente prevedibili) connessi a volte anche a situazioni nuove. Ciò conferma ancora una volta che 1’11 settembre 2001 è stata una svolta, un salto

qualitativo, perché si è voluto che fosse una svolta e si è voluto innestare su questo fatto dei progetti politici di più fa175

cile e più esteso dominio del mondo. E ciò ci conferma altresì che il terrorismo universale e strategico (per dirla con i termini di Picco [2006]) è troppo generico, troppo svincola-

to dalla realtà quotidiana, è troppo intellettuale e illuminista per essere vincente, soprattutto nei tempi medi e lunghi. D'altra parte è molto più efficace il terrorismo tattico [ancora per dirla con i termini di Picco] nel produrre risultati, perché è connesso alla realizzazione di obiettivi concreti, visibili, e resi «indispensabili» perché si tratta di ingiustizie sociali, politiche, comunitarie vere (o supposte tali). L'Ira, l’Eta,

o anche gli Hizballah, sono movimenti di questo genere, che usano e hanno usato il terrorismo per tali ragioni tattiche. D'altra parte può essere che tale terrorismo tattico produca convenienze politiche per stati esterni all’arena di azione: è questo il caso degli Hizballah per l’Iran, che anche per questa via si afferma progressivamente come potenza regionale con il

diritto di confrontarsi con le altre potenze regionali disperse per il mondo (a cominciare da Europa, Russia, Cina, ecc.).

Tale conclusione possiamo esprimerla con i nostri cinque scenari originari. Se dunque si è partiti nel 2001 dal quarto scenario della storia che non c'è in quanto non si è

reagito massicciamente al terrorismo; e poi dal 2003 è sembrato prevedere il prizzo scenario radicale della creazione di un nuovo bipolarismo con l'errore dell’intervento statunitense in Irag; ora nel 2010 una conseguenza dello sfaldamento dello stato iracheno tende a rendere sempre più plausibile lo scezario terzo con un reo-bilanciamento delle potenze, per l’aggiungersi ad esse dell’Iran. E ciò avviene con il decadere dell'importanza dell'Onu come governo mondiale a macchia di leopardo, ma anche con l’affermarsi molto forte della necessità di risolvere in maniera giusta per tutti del nodo israelo-palestinese. 6. Il ruolo dell'Europa in questo muoversi della storia come attore di soluzione dei conflitti e di peacekeeping

L'esplorazione dell’ipotesi che l'Europa abbia un ruolo di motore della storia attraverso la soluzione dei conflitti

176

nel mondo è molto problematica. Tentiamo di sviluppare tale discorso attraverso diversi momenti: anzitutto ci dobbiamo chiedere che cosa è l'Europa unita; poi passiamo a confrontare due modelli di pax mondiale, la pax americana e la pax europea; e infine proviamo a valutare quale dei due è più efficace per il mondo e per il suo equilibrio. La base sociale dell'Europa unita (o meglio Unione Europea) si è già visto in altra sede [A. Gasparini 2004g] essere costituita dalle società civili, e quindi dalla base organizzata che si sono dati i cittadini, trattati come individui, e

che costituisce l'elemento portante di tutte le società dei ventisette paesi dell’Unione Europea. Tale unitarietà europea basata sulla società civile ha diverse conseguenze. La prima è che la società civile è volta a soddisfare i bisogni dei suoi utenti e «associati» e quindi è più volta a realizzare il benessere del semi-privato che quello del pubblico. Una seconda conseguenza è che lo strumento di politica comune e di equilibrio tra le società civili europee è rappresentato dalla negoziazione permanente [Puscas 2006], nella quale anche il valore ultimo viene trattato come valore intermedio, la cui soddisfazione non è mai assoluta ma concatenata

ad altri bisogni-esigenze da soddisfare (lateralmente o successivamente) [A. Gasparini 2008c]. Un'ulteriore conseguenza è che tale negoziazione vale meno per la sfera della società politica comunitaria (di Bruxelles) e più per la sfera dei singoli stati quando negoziano tra loro nell’ambito dell’Unione Europea, e per quello dei | «grandi» stati e soprattutto di quelli che hanno una tradizione politica e militare di potenza o coloniale. Da questo punto di vista diventa perciò molto difficile elaborare una politica estera comune, e ciò lo si vede e lo si è visto (anche

a livello Onu) nel Consiglio di sicurezza, nell’elaborare una strategia comune verso il terrorismo, nel condividere linee comuni di politica estera. La conseguenza delle conseguenze è che l’Europa non si può proporre come grande potenza militare mondiale, perché non ha la volontà di mettere insieme le risorse necessarie e le rinunce al benessere per i propri cittadini per le spese militari necessarie. Quel che al massimo può offrire LIZ

al mondo è il proprio modello di stato (ancora in costruzione) orientato verso la propria società civile, e un modello di intervento che cerca di convincere i contendenti ad arrivare a una pacificazione condivisa e non imposta. Questa è la «pax europea» per sé e per il mondo, che Winn

[2003] ha contrapposto alla «pax americana». Per

«pax americana» si fa riferimento alle forti risorse destinate agli armamenti militari da parte degli Stati Uniti, alla diffusa presenza militare per i molti luoghi del mondo soprattutto in quelli dove vi sono crisi o regimi in contrasto con

quelli statunitensi, alla militarizzazione della politica nei paesi di interesse particolare, come recentemente l’Afghanistan e l'Iraq, all’uso massiccio e spesso fine a se stesso dell’intervento militare, alla convinzione che il potere mondiale e il controllo dei foci di crisi è meglio realizzabile con le armi o con la sobillazione che non con altri strumenti [cfr. anche Belohradsky 2004]. E chiaro che tra «pax europea» e «pax americana» il modello più efficace nel breve periodo può essere quest’ultimo, poiché dà più evidenti risultati, eppure nel lungo periodo esso non offre molta efficacia: lo si è visto in conflitti che si sono incancreniti, e in cui la ricon-

ciliazione tra gruppi contrapposti diventa impossibile. Tra i due modi di gestire l’impero (mondiale o regionale) abbiamo già visto che più efficace è quello che elabora una sorta di saggezza, composta di comprensione delle ragioni dei competitori e di sforzo verso la negoziazione e verso uno stile di risolvere i conflitti fondato sul principio che i valori in gioco devono essere considerati come intermedi piuttosto che come valori ultimi [A. Gasparini 2008c]. Ciò porta a reinterpretare gli interventi di pacificazione più in termini di peacekeeping che non di termini di peaceenforcing. Infatti peacekeeping è interposizione tra contendenti, è negoziare soluzioni accettabili, è creare le condizioni perché si abbia la fiducia reciproca e quindi la pacificazione: peacekeeping è anche equilibrio e costruzione dei tempi della pace, perché i contendenti se non sono convinti che è meglio fare pace (perché nessuno vince, perché i costi del conflitto sono rilevati inaccettabili, perché il consenso

evapora, ecc.) o almeno non fare la guerra, non accetteranno 178

peacekeeping solo perché vi sono dei soldati Onu che si interpongono; e la stessa cosa si può per il peace-enforcing con l'aggravante che tale strategia esacerba le contrapposizioni e rimanda a tempi lunghi l’eventuale soluzione del conflitto. In tali condizioni si può concludere che è molto più efficace la via alla pacificazione della «pax europea» rispetto alla «pax americana», così come sono state presentate e discusse finora. E ciò perché la «pax europea» offre simboli, stili e contenuti che sono direttamente connessi alle so-

cietà in cui sono nati dei conflitti: essa offre un’attenzione centrale alla società civile, valorizza più le soluzioni pacifiche rispetto a quelle militari, elabora delle azioni di peacekeeping in cui la funzione civile è strettamente connessa alla ricostruzione di una fiducia reciproca e di una «società normale» in una società già dilaniata dal conflitto. Una tale «pax europea» ha già conseguito successi sia nelle transizioni degli stati ex-comunisti e sia nell’attrazione di immigrati dai paesi del Terzo e Quarto Mondo. In secondo luogo, tale «pax europea», basata sul civile e molto meno sul militare, è compatibile con l’attuale allentamento della politica estera comune dell’Unione Europea e quindi con il ruolo di attori primari dei singoli stati. Tale successo, fondato sulla capacità di un bystander come l'Unione Europea di essere attivo nel pacificare, potrà d’altra parte essere ancora più reale se essa rinuncia ai tanti affari (privati, ma anche pubblici) che provengono dalla produzione e dalla vendita (legale o illegale) degli armamenti. A questo proposito sappiamo quanto il legame tra acquisto di armi, droga, mafia, lavaggio del denaro sporco sia un forte alimento alle forze sotterranee del terrorismo,

sia strategico che tattico. L’Europa, unita dalle società civili ma divisa nelle sovranità di politica estera dei suoi stati, può esprimere un suo ruolo di attore per contribuire alla pace mondiale e soprattutto per alimentare la fiducia in essa e la sua saggezza, in quanto garanzia che essa può essere veramente equidistante ed equivicina agli attori in conflitto che vogliono cercare delle vie per la pace. A mio avviso anche in questo sta la saggezza di quell’imperialità che può essere utile alla pace nel mondo.

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CAPITOLO SETTIMO

IL TERRORISMO COME MODO PER MANTENERE: LA RIVOLUZIONE ILLUMINISTICA

1. Le rivoluzioni utopiche e gli «uffici» che le gestiscono La faccia orribile della rivoluzione, attuata sulla falsari-

ga dell’utopia violenta, è progettata e gestita negli «uffici» di cui la sfera pubblica si dota per assistere al meglio questa realizzazione, per «difendere» la rivoluzione dalle forze che vi si oppongono, per smorzare le tentazioni che i singoli possono sviluppare costruendo propri spazi in contraddizione con i valori portanti (ma anche totalizzanti) dell’uto-

pia. Come costruire questi «uffici», e le vestali di questi uffici, in modo tale che essi vengano organizzati sulle regole della «normalità» prescritta dall’utopia e in modo che tali vestali considerino come ovvio, naturale, giusto e umano

applicare queste regole della «normalità»? Entrando dentro alla sindrome criminale di questi uffici delle vestali dell’utopia rivoluzionaria, quello che colpisce è che tutto ciò sia considerato normale, umano e pietoso; sia considerato lavoro e routine. Ciò è capitato negli uffici nazisti, sovietici, fascisti, franchisti, cambogiani di Pol Pot,

| cinesi comunisti, nei quali gli addetti agli interrogatori, alle torture, alla sorveglianza dei campi, allo sterminio consideravano

«non-uomo», non appartenente alla propria specie,

alla propria ideologia di società felice e di comunità propria chi stavano interrogando, torturando, vessando, sterminan-

do: il «radicalmente altro» esisteva, stava di fronte, e non doveva esserci perché non era previsto dal codice della società rivoluzionata dall’utopia. Un cartello, in khmer e in inglese, posto all’interno del campo di concentramento e di

tortura di Tuol Sleng di Phnom Phen, indica questa non umanità dell’altro nelle seguenti dieci regole di sicurezza: 1) rispondi a tono alle mie domande. Non evitarle;

181

2) non tentare di nascondere i fatti con chissà quali pretesti. Ti è tassativamente proibito contestarmi; 3) non renderti ridicolo osando contestare la rivoluzione;

4) devi immediatamente rispondere alle mie domande senza sprecare tempo a riflettere; 5) non parlarmi né delle tue immoralità né dell’essenza della rivoluzione; 6) mentre vieni frustato o sottoposto a scosse elettriche non devi assolutamente urlare;

7) non fare niente, stai seduto ed aspetta i miei ordini. Se non ce ne sono, stai quieto. Quando ti chiedo di fare qualcosa, fallo subito senza protestare; 8) non prendere a pretesto il partito democratico cambogiano (Kampuchea Krom) per nascondere la tua infamia di traditore; 9) se non obbedisti a queste regole, subirai moltissime scariche elettriche; 10) se disobbedisci a qualcuna di queste mie regole, riceverai o dieci frustate o cinque scosse elettriche.

Un perché di questa distorsione possiamo ricavarlo dal colloquio che Arthur Koestler mette sulle labbra di Gletkin, «l’uomo di Neanderthal», nel corso dell’ interrogatorio al quale sottopone Rubasciov, il comunista della prima ora. A questi che difende l'’«umanità» della gente comune affermando: «L'accusa di sabotaggio industriale è un’assurdità, ... (in quanto) le vere cause dello stato insoddisfacente delle nostre industrie ... (sono) salari troppo bassi, sistemi schiavistici e misure disciplinari da barbari» [Koestler 1996, 246], Gletkin risponde: Nel mio villaggio, quando i contadini dovevano recarsi in città, andavano alla stazione ferroviaria all’alba e si coricavano a

dormire nella sala d’aspetto in attesa che il treno arrivasse, cosa che avveniva di solito a mezzogiorno, o addirittura in serata o la mattina dopo. Questi sono i contadini che ora lavorano nelle nostre fabbriche. Per esempio, nel mio villaggio c’è ora la più grande fabbrica di rotaie del mondo. Durante il primo anno, i capi reparto si mettevano a dormire tra una colata e l’altra degli altiforni fino che non furono fucilati. In tutte le altre nazioni, i contadini 182

hanno avuto da cento a duecento anni per sviluppare l’abitudine della precisione industriale della manutenzione delle macchine. Qui hanno avuto solo dieci anni. Se non li licenziassimo e non li

fucilassimo per qualsiasi lieve mancanza, tutto il paese si arresterebbe, i contadini si butterebbero a dormire nei cortili delle fab-

briche, l’erba spunterebbe fuor dai camini e tutto tornerebbe come prima. [...] Se si andasse a dire alla gente del mio villaggio che è lenta e arretrata nonostante la Rivoluzione e le nuove fabbriche, non le farebbe alcuna impressione. Se le si dice che i suoi operai sono eroi del lavoro, più bravi degli americani e che ogni male viene solo dai sabotatori e dai malvagi, questo produce almeno qualche effetto. La verità è ciò che è utile al genere umano,

la menzogna, ciò che gli è dannoso. Nei lineamenti di storia pubblicati dal partito per le scuole serali per adulti, si insiste sul fatto che nei primi secoli la religione cristiana ha realizzato un progresso obiettivo per l’umanità. Che Gesù dicesse o non dicesse il vero quando affermava d’essere il figlio di Dio e di una vergine, non offre alcun interesse a una persona intelligente. Dicono che la cosa abbia un valore simbolico, ma i contadini la prendono alla lettera. Noi abbiamo lo stesso diritto di inventare simboli utili, che i contadini prendono alla lettera [1biderz, 247-250].

Arthur Koestler in Buio 4 mezzogiorno costruisce una

fiction di rapporti tra carnefice e vittima nella Russia sovietica, ed efficacemente coglie una parte della verità di questo rapporto: il sistema rivoluzionario ha bisogno di capri . espiatori per mantenere serrate le fila delle società sottoposte a obiettivi rivoluzionari; e questi capri espiatori sono

degli interi gruppi: le classi sociali perdenti, chi non riesce a «capire» le logiche inumane della rivoluzione, ma anche i gruppi perdenti entro la battaglia intestina del nuovo ordine rivoluzionario (i generali, i gerarchi, i «frazionisti», e così via). Questa interpretazione può essere vera nei tempi

della rivoluzione, e cioè quando la rivoluzione non riesce a mantenere le promesse utopiche, e quindi deve scaricare sugli «altri» le colpe e la necessità di annientarli. Hannah Arendt mette l’accento su un altro aspetto della violenza della rivoluzione: e cioè sulla «banalità del male». Questa interviene quando «l’altro» è già stato indivi183

duato come male da annientare, in quanto non fa parte, 0 è

stato confinato al di fuori del sistema delle norme. E la banalità esiste perché il male prodotto è un fatto gratuito, senza motivazione, perché si deve fare e perché «è giusto» che l’«altro» debba essere oggetto del male. Il male è banale perché dal punto di vista dell’individuo questo male è tutto spostato sul sistema dei valori, sull’organizzazione dello stato, sul piano delle istituzioni, le quali lo considera-

no come «non male», anzi come un fatto quotidiano perché questo «cosiddetto male» (cfr. anche Lorenz) non è altro che difesa (anzitutto della società, da «alieni» che dall’esterno ne minacciano l’esistenza), e così l’essere difensore dei confini

della società (dall’esterno) diventa una professione come le altre. Lo stato hai suoi funzionari che lo proteggono nelle istituzioni che impediscono che vi si inseriscano degli «antistato», nella magistratura che istruisce i processi, nella polizia (sia essa Kgb o gestapo), negli «impiegati» del lager o del campo di concentramento, nei boia che formalmente eseguono le condanne a morte, nei corpi speciali che com-

piono le pulizie etniche, nei rastrellamenti e nelle persecuzioni. Essi non producono un «male banale», ma «onestamente» e routinariamente svolgono un proprio lavoro di difesa del sistema «rivoluzionario». 2. Il terrorismo come modo rapido per realizzare la rivoluzione illuminata

I due aspetti illustrati, la persecuzione di gruppi esternalizzati al sistema e considerati capri espiatori, e le operazioni svolte dalle persone dentro il sistema verso quelli che ne sono stati cacciati fuori, in realtà fanno parte di un processo molto più complesso, che possiamo considerare come tipico di una rivoluzione delle istituzioni statali attuata da élite nuove, in termini nuovi che hanno preso il nome di

giacobinismo. E non solo! Queste élite illuminate hanno in mente un’'«idea» e per le mani uno strumento. Da questa idea derivano gli elementi e la fiducia estrema nella rivoluzione e nella sua connotazione catartica e insieme utopica 184

della realtà. Gli strumenti tecnici sono gestiti da una nuova classe che è costituita dai tecnocrati, i quali operano secondo criteri universalistici, e sono legittimati dalla giustezza ontologica dell’«idea», la quale dà loro un potere assoluto per realizzarla. Tale processo in realtà non è esteso a tutte le società moderne, ma deriva senz'altro da quelle concezioni. Più in concreto, l’«idea» è rappresentata dalla modernizzazione, intesa però come affrancamento della tradizione, trasposizione al futuro di una nuova religione «secolarizzata» (la patria nazionale, la patria socialista, l’internazionalismo socialista), come inizio di una nuova e millenaria

era di cui è necessario documentare ai posteri i metodi di costruzione del nuovo e di annientamento del vecchio e documentarli scientificamente, e cioè in modo che questi metodi offrano una qualche forma di riproducibilità. Si tratta quindi di un'idea che spesso riprende alcune idee collettive (la piccola comunità allargata alla nazione o al partito), alle quali essa delega il potere di sovraintendere ai classici poteri liberali dello stato moderno i quali sono più capaci di tenere in equilibrio l’esistente che modificarlo e orientarlo all'innovazione. Al di sopra dei (e a orientare i) poteri ese-

cutivo, legislativo e giudiziario, sta quindi la religione laica della patria con i suoi imperativi, sta l’idea di società nuova e futura del fascismo e del nazismo e di capo carismatico che la interpreta e la realizza (Mussolini, Franco e Hitler), il

partito comunista che rigidamente «comanda» i tre poteri . dello stato moderno. In queste condizioni, la modernizzazione non produce degli individui (almeno culturali e politici) che sanno produrre una società civile autonoma

ed

espansiva, ma al contrario vi è enfatizzata l’appartenenza del singolo a una grande comunità, al capo, direttamente e senza intermediazione delle piccole comunità autonome e dei gruppi autonomi. La modernizzazione produce invece una industrializzazione, altamente tecnologizzata e fortemente controllata. La conseguenza finale è dunque un sistema sociale in cui il «grande fratello» è anche il «progettista massimo», e quello che pensa il migliore progetto possibile. Ma altra conseguenza è pure il fatto che la società civile non ha capacità di realizzarsi o di affermarsi, e tutto ciò 185

in una situazione in cui vi è più che mai bisogno di società civile, in quanto dal complesso di piccole comunità dalle quali si poteva uscire ed entrare, si è passati ad un’unica comunità (società nazionale, società fascista-nazista, società comunista) onnicomprensiva e con impossibilità di uscire

da essa. Le élite illuminate sono molto ristrette (numericamente e in relazione al grande compito rivoluzionario che si propongono) e controllano con potere assoluto il processo rivoluzionario. Non è un compito facile, questo, e per realizzarlo sono costrette a dotarsi di strumenti che devono essere efficaci allo scopo. A ciò bisogna aggiungere che le élite hanno una identità composita, poiché in esse convergono intellettuali che elaborano utopie perfette, componenti marginali delle élite» al potere, figli cadetti e degeneri di queste ultime élite, avvocati, imperatori che hanno il potere e vogliono trasformare la società (Giuseppe II d'Asburgo, ne è un esempio), sbandati dai ruoli sociali esistenti, ecc. In-

somma, è un’élite proiettata al futuro, sicura che questo futuro sia assolutamente realizzabile e convinta che tale futuro sia realizzabile per via tecnica e cioè anche senza la gente e il suo consenso. Eppure dobbiamo ancora ribadire che questa élite è numericamente limitata, in una società molto ampia che si vuole rifondare e rivoluzionare, e soprattutto per realizzare una società che è radicalmente diversa da quella precedente e senza nessun appiglio realistico nell’attuale. Gli strumenti che tale élite troppo piccola per gli obiettivi che si propone di elaborare, devono essere funzionali a: 1) diffondere gli obiettivi della rivoluzione in tempi molto brevi, se non immediati; 2) controllare che questi obiettivi radicalmente

nuovi

siano realizzati; 3) assicurarsi

che i

gruppi contrari non nuocciano a tale rivoluzione; 4) diffondere una cultura per la tecnocrazia possa essere la via principale, efficace e rapida per la rivoluzione, al posto del consenso della maggioranza e del dissenso attivo delle opposizioni. Nella condizione di una élite poco numerosa che ha fretta di fare la rivoluzione senza aspettare il consenso è chiaro che la diffusione degli obiettivi avviene attraverso: 1) l’iposizione del terrore agli oppositori e ai passivi (che sono tanti): 186

Lenin teorizza questa modalità politica fin dal suo esilio di Zurigo; 2) la costituzione di una burocrazia che sia attore della rivoluzione e al tempo stesso controllore del suo stato di avanzamento; 3) una cultura che esprima l’idea della rivoluzione; 4) le vie operative per la sua realizzazione; 5) la loro applicazione tecnica e carismatica che assicuri la riusci-

ta nei tempi immediati della società perfetta e rivoluzionata perseguita. A questo punto non c'è nemmeno bisogno di tensione rivoluzionaria, perché, messo in atto il terrore,

messa in piedi la burocrazia del funzionamento dello stato e della somministrazione delle pene a chi «strutturalmente» e «oggettivamente» devia, la macchina per forza di inerzia, «tecnicamente» e «automaticamente», realizza la rivoluzio-

ne. La rivoluzione francese aveva cominciato a compiere ciò; la rivoluzione nazista aveva cominciato a realizzare ciò;

ma è soprattutto la rivoluzione bolscevica che ha avuto il tempo ed anche, a mio avviso, alcune condizioni ottimali come la modesta esistenza della concezione di individuo e della classe media ed invece l’ancor forte attaccamento alla piccola comunità, per portare a uno stato di forte avanzamento questo modello di rivoluzione. Eppure, proprio per questo l’immensa letteratura sull'argomento ha messo in risalto le degenerazioni strutturali di tale rivoluzione, e soprattutto che il «male» provocato non era assolutamente banale: esso era un male strutturale se visto dalla parte della persona, e non era nemmeno «male» se visto dal punto di vista dello stato rivoluzionato, della burocrazia e del funzionario «carta penna e calamaio» che lo produceva. D'altra parte, terrore (come strumento imprevedibile e incomprensibile in quanto al di fuori delle regole) e burocrazia (come surrogato razionalizzato del consenso dei gruppi sociali) sono aspetti fortemente interrelati, in quanto il terrore è un’opzione utilizzata per qualsiasi obiettivo contingente ed è un'atmosfera psicologica costruita per impedire la formazione di dissenso attivo, mentre la burocrazia è un apparato preposto alla gestione di un sistema di re-

gole ancora volte a dare attuazione al terrore, che può essere prima, durante e dopo le regole che coordinano il terrore. 187

L’esempio più compiuto (dall’inizio alla fine) di tale processo di formazione e di realizzazione dell'idea rivoluzionaria attraverso l’élite, il terrore, la burocrazia e la tecno-

crazia è rappresentato dall'Unione Sovietica. Ed è in questo processo che possiamo osservare come effettivamenie siano andate le cose. Le tante biografie post-sovietiche di Lenin e Stalin, così come le storie degli utopisti internazionali (dai grandi ai piccoli Guarnaschelli), le descrizioni dello stalinismo di Medvedev, dell’ Arcipelago Gulag di SolZenicyn, de Il libro nero del comunismo sono altrettante indicazioni di come si passa dallo slogar alla realizzazione del terrore, di come si costruisce un’organizzazione che gestisce la con-

danna degli «anti-rivoluzionari» (i Gulag, appunto) e di come essa funziona quotidianamente. Prima della caduta dell'Unione Sovietica, e'soprattutto nel periodo staliniano, era possibile solo disquisire sull’borzo sovieticus, prototipo del funzionario (in Cuore di cane, Diavoleide, Le uova fatali di Michail Bulgakov), o sull'uomo non ancora sovietico che,

disibernato dopo molti anni, mice che si portava addosso: illustrare le distorsioni di una rivoluzione non poteva essere

188

trova compagnia solo nella ciin quei tempi l’unica via per tal burocrazia al servizio della che la parodia.

CAPITOLO OTTAVO

SIMMETRIE E ASIMMETRIE FRA STATO ENAZIONE, ELE DEBOLEZZE DELIRIGCOLO.STATO

1.

Premessa

La sovrapposizione (come realtà o come orientamento) fra stato e nazione e il loro rapportarsi possono creare simmetrie o asimmetrie, che meglio comprendiamo se ricorriamo alla storia letta in chiave sociologica, anche se la sociologia viene considerata più astorica di altre discipline. Alla trattazione di questo tema, voglio premettere qualche elemento definitorio e porre un quesito del genere seguente: «è nato prima lo stato oppure la nazione?». Rispondere all’interrogativo è importante per capire come si è verificato, dapprima, un certo tipo di abbinamento di stato ‘e nazione nell'Europa occidentale [Albertini 1997; Reich 1991], dal quale poi partire per avere un altro tipo di abbinamento, rovesciato, dei due concetti, nell'Europa centrale [Goio 1994; Rusconi 1993].

2. Qualche riferimento a stato e nazione in Europa occidentale Nasce prima lo stato, nell'Europa occidentale (Francia, Inghilterra, Spagna, Portogallo, in primo luogo), e questo ha un effetto ovviamente su quella che sarà la funzione dei contenuti del concetto di nazione e sulla natura stessa della nazione. L'esempio francese è illuminante a questo proposito. Già Carlo VII di Francia, alla sua morte nel 1461, lasciava uno stato unito e risultante dal collage delle vecchie formazioni feudali, quindi di diversi ducati, di Aquitania, di Normandia in primo luogo. A questo punto il problema è che questo stato, fortemente perseguito e voluto anche da suo figlio, Luigi XI, è uno stato che svolge la funzione di 189

dotarsi di regole e di gestirle, e di gestire il potere per fare rispettare tali regole [Cooper 2004, 7]. In sostanza, comincia a formarsi lo stato moderno che assume, alla sua base,

tutta una serie di principi, il primo dei quali è l’universalismo nel giudicare i cittadini. Le regole cioè, ad eccezione spesso di re o di alcuni altri, valgono per tutti. Soprattutto nasce una globalizzazione intesa come ambito della comunicazione, e quindi cosmopolitismo significa trovarsi a casa propria, e trovarsi bene, dappertutto, in tutti i luoghi dello stato, potere comunicare bene in tutte le parti di questo stato che si dota di comuni strutture amministrative, fiscali,

legislative, di polizia, di difesa, ecc. Questo stato deve anche essere ampio in quanto è mercato. Tale processo di ampliamento dello stato avviene un po’ dappertutto in Europa, e anche nella nostra Italia notiamo, dal 1500 al 1600, la sparizione delle piccole signorie quasi insignificanti per essere inglobate nei ducati e granducati che rappresentano degli stati già abbastanza grandi rispetto alle precedenti realtà politiche. Lo stato che così si forma, in quanto combinazione di formazioni politiche feudali precedenti, ha dei confini precisi, cosa che la nazione non ha, e per questo viene seguita una politica di omogeneità al di qua e al di là del confine. Il problema dello stato moderno che sta dandosi tutte queste caratteristiche e altre ancora non accennate, è che tuttavia esso non è sufficiente a generare lealtà a se stesso, stato centralizzato, ampio, medio-grande, ma ha bisogno di

costruire un sistema di motivazioni alla lealtà [Smith 1984]. Tale sistema di motivazioni poi deve essere fondato su dei valori espressivi, culturali, meta-razionali se non addirittura

irrazionali [Csepeli e Orkeny 1998]. Nasce dunque l’importanza della nazione per la Francia, la nazione per la Spagna e per tutti quegli stati che si avviano alla modernità. Questi hanno bisogno di dotarsi, per l'integrazione interna, proprio di questo elemento culturale, rappresentato dalla nazione. Nazione non è un concetto nato all'improvviso, ma si è

formato e trasformato nel tempo: nel XIII secolo rationes, ad esempio, erano dei gruppi di studenti polacchi e tedeschi nelle università di Bologna, Padova o Parigi; nel Quat190

trocento, rationes erano i delegati provenienti da varie sezioni

territoriali — polacche o tedesche — al concilio di Costanza; dopo il Quattrocento il concetto di nazione enfatizza l’importanza dell’autoctonia per radicare il popolo agli aspetti politici dello stato. Dunque la nazione nasce e si configura come elemento integratore dello stato. Esso riscrive la storia e le tradizioni, «riscopre» una unitarietà che semmai non è mai esistita e

quindi ricorre alle «enfasi» ed ai «silenzi». Enfasi su dei tratti insignificanti e silenzi su dei fatti che contraddicono questa immagine unitaria, reale, logica e «razionale». Anche la nazione italiana è stata formata da quelle poesie e da quei poeti e letterati della seconda metà dell’Ottocento che enfatizzavano la disfida di Barletta, Pier Capponi che oppone le campane della città alle trombe dell’esercito di Carlo VIII, ecc.

Tra enfasi e silenzi all’interno dello stato si crea la nazione che implica una cultura non costringente, non ancora etnica [cfr. Goio 1994]. 3. Nazione e stato verso l'Europa centro-orientale e balcanico-danubiana Non così avviene nello stato imperiale, dove vige una «cultura forte», rappresentata da valori standard, cioè mol-

to generali e che devono essere validi per tutti, volti ad assi| curare innanzitutto una convivenza generica tra i molti e

differenti popoli, differenti per lingua, tradizioni, origini, ecc. [Luttwak 1993; Pagden 2005]. Questi valori sono anche volti ad assicurare un controllo amministrativo e militare del territorio imperiale, sono volti ad assicurare l’adozione di regole universalistiche e un ambito cosmopolita della comunicazione: si può comunicare perché, come ho detto prima, ci si trova a casa propria. In questo contesto imperiale, e quello asburgico è il primo che viene in mente, l’integrazione è fondata sulla lealtà alla dinastia [Fejtò 2004, 57 ss.] che è direttamente responsabile per l’unione personale dei singoli territori: regni, du191

cati, contee, margraviati e così via. La dinastia ha rappre-

sentato il principio integratore forte nell’Impero asburgico [Agnelli 2005; Cipàianu e Vesa 2000]. In secondo luogo l’integrazione è ottenuta dal perseguimento di un generico principio di equilibrio e rispetto delle nazionalità e delle loro culture, per ottenere una convivenza. Qui non esiste ancora la nazione, e men che meno V’etnia.

Esse (nazione ed etnia) sono il risultato del processo di valorizzazione della propria cultura, che vale la pena di perseguire anche se si è perdenti nel contesto sociale. Infatti in passato poteva avvenire lo svilimento di una cultura per il concorrere di due tipi di rapporti con la cultura diventata ormai dominante. Nel primo non si aveva fiducia nella propria cultura, perché il divario percepito con la vincente era troppo forte: ciò è capitato per la cultura degli emigrati italiani dal Sud al Nord Italia, o dall'Italia ai paesi europei e di oltreoceano, per effetto del rifiuto delle proprie culture di origine. Ma è capitato anche il contrario: la cultura perdente veniva assorbita da quella vincente, della quale riplasmava i più intimi modi di sentire se stessi come portatori di una civiltà raffinata e superiore. La cultura dei greci (perdente politicamente) penetrava profondamente in quella dei romani (vincitori), la cultura dei romani in quella dei barbari, quella degli italiani in quella dei portoghesi, spagnoli, francesi, inglesi del 1400-1500. E tale travaso non era solo della cultura, ma anche dei creatori che la

cultura al tramonto esprimeva: quanti italiani andarono nelle corti straniere per scoprire gli spazi sconosciuti (transocea-

nici) e per insegnare come si deve leggere l’animo umano! In terzo luogo, in questo limbo di formazione della nazione e dell’etnia convivono le culture locali spesso orali con le culture centrali scritte: vi è dunque una sorta di equilibrio tra questi aspetti. Eppure l'evoluzione e il processo, attraverso il quale si formano la nazione e l’etnia, si concretano nel fatto che le lingue e le culture orali cominciano ad essere trasformate in scritte. Ciò avviene per valorizzare il concetto di popolo e di nazione, ma soprattutto nell’ambito di una società complessa, ovvero incurante delle comunità locali e soprattutto di tutti quei gesti (ad esempio, la stretta di ma192

no) usati per siglare un rapporto che diventa molto più vincolante di un qualsiasi contratto scritto, proibente la giustizia personale legittimata in qualche modo dalla piccola comunità tradizionale (delitto d’onore, ad esempio). Tale società complessa è invece orientata ad amalgamare le diversità sociali della cultura urbana in un’unica cultura, la quale poi può dialogare con altre culture simili per formare un’area, un cosmopolitismo interno (dialogo anche se subalterno fra culture locali e cultura nazionale) e cosmopolitismo esterno di civiltà (con le culture delle altre nazioni con «linguaggi» di significati fondamentalmente comuni). 4.

Le conseguenze di simmetrie e asimmetrie fra stato e nazione

Più in generale la nazione che nasce nei regni dell'Europa occidentale viene presa in consegna e ideologizzata dal romanticismo ottocentesco, e allora vi compare pure il recupero del luogo e dell’irrazionale del localismo, che trasforma la nazione in una comunità in grande [A. Gasparini 1996a], la quale viene culturalizzata in una nuova immagine chiamata ora «patria», e intorno alla quale viene elaborata una sorta di religione e di religiosità laica, i cui depositari ed interpreti più puri sono i riti delle forze armate, dei soldati e dei codici militari [Lucchitta 1997; Smith 1992; Kellas 1993].

Di questa immagine della nazione, un estremo porta al ‘naturalismo, alla naturalità, allo stesso legame del biologico e del suo conformare la collettività (bio-sociologia) con la conseguente enfasi sull’etnia. L’altro estremo porta invece ad enfatizzare la ‘cultura comune, e l'esempio è quello della nazione araba, nella quale le minoranze etniche, giocano un ruolo diverso da quello svolto in Occidente [Kallas 1996a]. La trasformazione del concetto di nazione [Smith 1984;

1991], e soprattutto della sua interpretazione, da quello realizzato dai regni occidentali a quello qui richiamato per effetto dell’ideologizzazione romantica avviene in una situazione particolarmente favorevole, e cioè negli stati imperiali del centro e Sud-Est Europa. 193

Il concetto di nazione, passando da Occidente ad Orien- ‘ te d'Europa, subisce infatti delle modificazioni e soprattutto una reinterpretazione che ha delle profonde conseguenze sulla funzione svolta dalla nazione stessa [Halas 1998]. Così, se in Occidente essa è una sorta di finzione, in cui si fondono vero e falso, «realtà reale» e realtà desiderata, che

allarga alcuni valori del gruppo dominante ad altri gruppi ma offerti in termini di cultura complessa e in nuce cosmopolita; invece nello stato imperiale il concetto di nazione è sostanzialmente affermazione del particolare da realizzare in un contesto imperiale, in cui esso è arena (cioè contenitore), è legittimità burocratica, è razionalità asettica. I sin-

goli popoli elaborano una nazionalità che fornisce il cuore specifico, le emozioni specifiche, i simboli e i valori specifici dei singoli gruppi. Dunque per via analogica il concetto di «nazione» viene reinterpretato e funzionalizzato, cioè deve servire a scopi differenti da quelli originari occidentali, viene de-territorializzato ed invece legato alle persone che appartengono alla stessa cultura. Per questa via la «nazione» assume caratteri che sono sempre più simili a quelli dell’etnia e del gruppo etnico: l’etnia esiste laddove sono persone che appartengono al gruppo etnico e ancor più quando queste formano un gruppo, anche se piccolo. Infatti l’etnia è legata a caratteri distintivi «naturali» e primaziali, come le lingue, la coscienza di avere radici comuni, di venire da un luogo comune,

di avere costumi comuni, di avere semmai anche

tratti somatici simili [cfr. ancora Smith 1992]. In sostanza la diffusione dell’idea di nazione in questi stati imperiali fa sì che il relativo concetto assuma significati, interpretazione, ri-funzionalizzazione ancora molto differenti da quelli originari dell'Europa occidentale e del romanticismo. Per la cultura araba la nazione è l'insieme dei popoli che vivono la stessa cultura e gli stessi valori e scrivono la stessa lingua, e dunque essa va dall’ Atlantico al Golfo Persico [A. Gasparini 1996b; Vatikiotis 1998]. Per gli indiani d'America la nazione Navajo o Apache e tutte le altre sono la cultura autoctona, il modo di vivere la famiglia, l'insieme delle istituzioni e delle strutture che questi popoli si sono dati. I nuovi significati che prende il concetto di nazione negli 194

imperi dell'Europa centrale e orientale, la de-territorializzazione che essa implica, e soprattutto il loro incorporare elementi che sono tipici dell’etnia, la quale anch’essa come concetto è in formazione, ripropongono anche il rapporto della nazione con lo stato [Agnelli 2005]. Porsi a cavallo di questo rapporto ci porta a considerare la genesi dei nuovi stati dell'Europa centrale, e in particolare a individuare le ragioni dell’instabilità delle relazioni internazionali e interne che segnano la storia del dopo la caduta dell'Impero asburgico. Lo stato, nato in Occidente, nell’approccio alla nazione elabora una via di mezzo tra i due estremi «nazionali» sopra richiamati, che abbiamo definito rispettivamente come spinte al naturalismo e spinte all’enfasi sulla cultura comune. La via di mezzo creata da simile stato è una nazione che ha qualche riferimento al luogo ma in senso molto generale (che sta dentro-ai confini politici dello stato) e molto

culturale. Da questo punto di vista tale concezione si incunea, ed enfatizza una differenza, tra appartenenza etnica e appartenenza territoriale (il territorio dello stato), privilegiando quest’ultima attraverso i diritti di cittadinanza, e favorendo la creazione di una nuova categoria concettuale, cioè l’individuo, che ha un riferimento diretto alla collet-

tività nazionale e che viene giudicato per quello che riesce a fare piuttosto che per l’appartenenza. Così tale individuo nasce dalla razionalità, e nell’attenuazione delle appartenenze troppo costringenti.

Tuttavia, se da una parte la nazione è funzionale in un certo modo allo stato occidentale in quanto produce appartenenza; dall’altra, in uno stato imperiale, sotto la spinta di

un romanticismo bucolico che trasfigura i miti usati per la nazione, si fanno strada almeno tre aspettative che diventano valori; 1) è più importante perseguire la realizzazione della propria nazione che non l’equilibrio tra nazioni; 2) a una nazione deve corrispondere uno stato; 3) non ha importanza che lo stato sia piccolo in quanto la nazione è piccola. I tre elementi vengono a scardinare la logica dell’equilibrio tra le diverse nazionalità all’interno dello stato impe195

riale, e la loro realizzazione rappresenta l’inizio di un nuovo feudalesimo, che questa volta avviene non tra nazionalità all’interno dell’autorità imperiale, ma tra i piccoli stati di provenienza imperiale e gli stati-nazione già consolidati e medio-grandi per estensione e popolazione. Da tali premesse, entro lo stato imperiale comincia a nascere prima la nazione che poi ambisce a dotarsi di uno stato sui generis. I termini diacronici di genitore/figlio si ribaltano: è la nazione che si forma all’interno di uno stato che già esiste. Ed è sotto la spinta di questi diversi aspetti che vediamo l’inizio dello sgretolamento dell’Impero ottomano: la Serbia nel 1808 e poi la Grecia nel 1821 diventano indipendenti, la Romania nel 1856, la Bulgaria nel 1878.

Vediamo poi nel 1918 il successivo formarsi della Cecoslovacchia, della Jugoslavia e l'Albania, dell'Ungheria e dell’Austria; nel ’91-’92 della maggioranza di altri stati, Slovenia e Croazia, Jugoslavia, Macedonia, Bosnia; nel ’93 di Cechia e di Slovacchia; nel 2006 del Montenegro e nel 2008 del Montenegro, della Serbia, del Kossovo.

Si passa dall’asimmetria tra un unico stato (imperiale) e tante nazioni all’asimmetria del piccolo stato nella grande nazione. Questa è grande, perché il piccolo stato non può che essere attribuito dalle potenze esterne ad una popolazione nazionalmente omogenea, per cui comincia a verifi-

carsi una situazione di rivendicazione, dato che il piccolo stato non contiene tutta la nazione; e d’altra parte la nazione che non è contenuta nel piccolo stato, è eterogenea, è intramezzata con altre nazioni e vengono a crearsi le basi per un conflitto [Forrest 1994]. Quali sono i prezzi di questa operazione? Se ne possono individuare almeno quattro: 1) etnicizzazione forzata dello stato. Lo stato costa, e se è

piccolo costa proporzionalmente di più, costa in termini di ministeri, di ambasciate, di amministrazione pubblica, in ter-

mini di polizia e di esercito da mantenere. Bisogna trovare quindi delle legittimazioni forti per questo stato; e la forzatura etnica è una via formidabile per raggiungere questi scopi; 2) l’etnicizzazione viene ottenuta ponendo una fortissi-

ma enfasi sui miti, legati alla religione laddove è possibile 196

(religione cattolica contrapposta a quella ortodossa o a quella protestante, o anche la religione cristiana contrapposta a quella islamica o ebraica), oppure al territorio, all’epoca d’oro, alla discendenza, alla grande nazione, ecc.

In base a

queste enfasi si scardina la storia consolidata, la si riscrive, la si ripensa e la si enfatizza, dando corpo a una (nuova) iden-

tità e ad eroi più o meno veri; 3) nascita della minoranza etnica. Questo è un elemento,

molto forte, che produce instabilità nelle relazioni internazionali, poiché le minoranze avanzeranno, ovviamente, richieste

per il riconoscimento di autonomie, gli stati etnici tenderanno ad usare le proprie minoranze all’esterno, o saranno tentati di assimilare le minoranze interne. Per quanto riguarda la forte instabilità un indicatore possiamo rilevarlo dal confronto dei numeri degli appartenenti alle minoranze, dati dalle minoranze stesse e dai censimenti nazionali, espressioni questi dei numeri dati dalla maggioranza. Le differenze tra i numeri ufficiali dati dai governi e i dati forniti dalla minoranza sono riportati nel numero di «Futuribili» dedicato a Etnia? Stia se volete che sia (nn. 1-2, 1997) [A. Ga-

sparini numeri zionale trale e

1997]. Le differenze percentuali più elevate tra i due (numero dato dalle minoranze e dal censimento narispettivamente) le troviamo in paesi dell'Europa cenbalcanico-danubiana: il 387,9% in Ungheria, il

215,8% in Albania, il 194,5% in Grecia, il 117,4% in Turchia, il 116,7% in Polonia, ecc. Tale indicatore, distanza nella

valutazione auto/etero del numero di appartenenti alle minoranze, può essere considerato se non proprio fattore di instabilità, senz'altro come un problema di possibile fonte di instabilità tra maggioranze e minoranze, e tra stati confinanti;

4) un ultimo prezzo è che la nascita di questi stati asimmetrici è dovuta sempre all’ingegneria politica derivata dalle imposizioni di grandi stati e di grandi potenze, le quali si presentano in qualche modo come delle «balie». Difficilmente uno stato imperiale, o anche semplicemente uno stato sovrano, riconosce indipendenza ad una porzione della propria popolazione, se non sotto la spinta di queste grandi «balie» esterne. E ciò, in questi tempi, viene sempre più

197

svolto in nome di una «solidarietà internazionale», per difendere i diritti umani. A maggior ragione i piccoli stati perciò si sentono frustrati, in quanto in balia di grandi stati e di grandi politiche. Le conseguenze di questi aspetti e di questi prezzi le abbiamo osservate: negli anni recenti, nell’ex-Jugoslavia. Abbiamo un'idea di ciò dai dati del prima e del dopo la guerra in Bosnia e nel Kossovo. Nella Bosnia serba (ad esempio, Srebenica, Visegrad) prima del ’91 vi erano 40 mila croati, 261 mila musulmani, 305 mila serbi; nel 1997 vi erano4 mila croati e musulmani, 450 mila serbi. Nella Bosnia serba occidentale (Bozanska, Gradiska), nel 1991 vi erano 180 mila croati, 356 mila musulmani, 624 mila serbi, nel 1997: 9 mila croati, 13 mila musulmani, 719 mila serbi. Questi sono

numeri, impressionanti, della pulizia etnica e dunque dell’incapacità delle asimmetrie tra stato e nazione a impedire l’instabilità delle relazioni fra nazioni. Qual è la conseguenza generale? L'Europa centralebalcanico-danubiana risulta composta da piccoli stati che formano un’area di forte instabilità per effetto dell’etnicizzazione spinta dello stato e quindi per la costruzione culturale, per certi aspetti fittizia, di proprie minoranze al di là dei confini e di minoranze altrui al di qua dei confini. L’instabilità è accentuata anche dalla modesta forza politica che questi piccoli stati hanno e quindi dal senso di frustrazione che viene dal sentirsi in balia di stati grandi e potenti ad Est, a Ovest e a Nord. 5.

Prospettive

C'è un modo per limitare le conseguenze altamente negative della frammentazione di questi piccoli stati, per i quali altrimenti bisognerebbe concludere con il titolo di un libro non molto celebre: Sw24// is dangerous [Harden 19851]. Come possiamo orientarci per un'uscita da questo tunnel? Abbiamo a disposizione un ambito regionale ed un ambito europeo. L’ambito regionale comprende, non tanto le singole re198

gioni ma l'Europa meridionale, il bacino del Mediterraneo in senso molto ampio, il quale può limitare l’invadenza di altre Europe a cominciare dall'Europa del «Sacro romano impero» franco-germanico. Ci ‘sono molti elementi, guardando verso il Mediterraneo, di sinergia e di costruzione di mercati, di società, di istituzioni che possono dialogare.

Il secondo è un ambito europeo che si pone come portatore di una cultura «forte», in quanto composta da valori che valgono per tutti, e all’interno di questo ambito vivono delle vivacissime culture «deboli». Tale cultura europea «forte» basa la sua vitalità sull'idea di rifondare una nuova idea imperiale, in cui entrano in crisi gli stati nazionali e la loro sovranità ed è enfatizzata la componente regionale in quanto fattore fondante. Da questo punto di vista l'Europa può esprimere un’idea imperiale (e non imperialistica), ed essa sarà tanto più stato nuovo quanto più riuscirà a pren-

dersi i molteplici poteri del singolo stato attuale. Sembra un’affermazione di principio, ma in effetti questa limitazione della sovranità nazionale non è un’idea tanto lontana dalla realtà come si configura sempre più. Credo che in questa idea neo-imperiale dell'Europa, con tutte le caratteristiche ed i vantaggi che può offrire tale neo-impero, vi possa essere il posto pacifico per i piccoli, ed eventualmente medi, stati dell'Europa centrale, che per ciò stesso non soffrono per la limitata potenza. Come quesito finale ci si può veramente porre il problema se ciò funzionerà bene nel periodo di transizione tra questo momento e il momento in cui l'Europa sarà diventata stato neo-imperiale, e se l’attenuazione delle nazioni potrà portare a nuovi 777x di nazione e stato: ma quando, e se, questo stato entrerà in crisi, cosa accadrà? Siamo ancora molto lontani da tale evenienza, ma probabilmente, in una sorta di corsi e ricorsi, si ricreeranno situazioni di instabilità che hanno

lasciato come eredità la caduta dei diversi imperi. Tale instabilità tuttavia è avvenuta, perché questi 772x e le idee nazionali andavano troppo velocemente? Se ciò è vero, allora il problema reale potrebbe diventare quello della saggezza politica pet cogliere il momento opportuno per il processo, ma anche per preparare e gestire questo momento e questo processo. 199

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CULTURE LOCALI ED ECONOMIA MAGGIORE FRA REGIONE E PICCOLO STATO

1. Introduzione

Il tema di questo capitolo si colloca e si svolge in un incrocio di strade e di problemi: il piccolo territoriale è vincolo o risorsa per lo sviluppo di un’economia forte? Le esplorazioni perciò vengono condotte sull’incrocio tra culture minoritarie ed espansione economica: qui si incontra-

no dei problemi, dei concetti, delle relazioni tra problemi e tra concetti, che hanno a che fare con la regione, con il rapporto tra regione ed espansione economica. Dobbiamo interrogarci sul rapporto tra stato grande e stato piccolo: tra piccolo stato ed espansione economica, e quindi chiederci se c'è una compatibilità tra cultura locale e cultura globale, tra localismo e cosmopolitismo, tra tradizionalismo e modernizzazione, tra comunità e individuo, tra la cultura del

lavoro e l'espansione economica, tra piccolo stato e regione (la regione può essere più compatibile con l'espansione economica che non con il piccolo stato).

2. Incrocio tra cultura locale ed espansione economica Cominciamo con una domanda: c’è una relazione necessaria tra cultura locale ed espansione economica? [A. Gasparini 1985b; Pollini 1991] Cioè, l’esistenza in qualche modo di una cultura locale porta sempre all’espansione economica di una regione? Io credo che dobbiamo rispondere sì e no al tempo stesso: sì in certe condizioni, no in altre. In altri termini, la risposta è negativa nel senso che non

vi è un automatismo tra cultura locale ed espansione economica: la cultura locale può essere molto chiusa e quindi in conflitto con alcuni aspetti fondamentali dell’espansione 201

economica, la quale per definizione è orientata all’apertura verso l’esterno. Quindi la relazione tra cultura locale ed espansione economica è vera solo a certe condizioni, e certamente que-

ste condizioni sono più facili da realizzare in aree geografiche non grandi, che vivono sovrapposizioni politiche, culturali, economiche, le quali risultano stabilizzate per secoli. Infatti, se per linee politiche intendiamo l'abitudine a stare nell’ambito di una medesima entità politica, allora ciò si è verificato nell'Europa spezzettata prima in feudi, poi in città-stato, poi in mini-stati moderni che via via sono stati aggregati. L'esempio più tipico l'abbiamo in Italia, ma anche la Germania e la Francia hanno sviluppato una traiettoria di unificazione per aggregazione di piccole entità intorno ad un’entità forte, semmai in origine anch'essa piccola. Quindi l'Europa si è formata in aggregazioni politiche piccole, in qualche modo stabili, integrate. Anche l’integrazione per linee culturali avviene attraverso il consolidamento nel tempo di culture comunitarie contigue. Le affinità linguistico-dialettali tra comunità tradizionali creano un campo di comunicazione vasto, anche

se non scompaiono le differenze e le appartenenze, e di conseguenza consolidano un sentimento di comunanza che oppone a chi sta al di là di un confine politico o di espansione culturale (l’area veneta, l’area celtica, e così via), ma

anche di un confine segnato da barriere naturali, come i fiumi, le montagne, i bracci di mare. Tutti simili elementi

confinari producevano isolamento culturale e quindi specificità da esibire e della quale andare fieri. In terzo luogo le linee economiche dell’integrazione di una piccola area passano per il rapporto tra risorse disponibili o inventabili 2 loco e i sostegni e i vincoli politici e culturali che vengono dall’utilizzo di tali medesime risorse. E chiaro che gli spazi limitati rendono più stretto il rapporto, e quindi più integrato il 777x e l'equilibrio tra i molteplici settori produttivi agricoli, artigianali, commerciali, industriali. Quel che nasce da tale integrazione può essere una serie di specificità nella cultura del lavoro, nelle professioni, nelle tecnologie adottate, nelle unità produttive, e così via.

202

Inoltre una simile integrazione economica è tanto più forte quanto più la sua struttura permette il coinvolgimento totale di ogni individuo nella cultura dei più diffusi ruoli professionali, e ciò avviene attraverso la possibilità di ognuno di esperire ruoli di proprietario e di dipendente, di responsabile del proprio lavoro e di coadiutore della creatività del lavoro, di essere libero in differenti forme e ambiti

professionali, di avere il senso della produzione creativa e il senso delle esigenze del mercato. Il risultato di tale struttura economica può essere (anche se non necessariamente) quello di una diffusione imprenditoriale (r22x di produttività sistemica e di collocazione extra-sistemica del prodotto), e al tempo stesso di un’articolazione molto densa di piccole unità produttive, quindi con forti caratterizzazioni postmoderne. Tutto ciò lo comprendiamo abbastanza bene, se richiamiamo l’opposto tendenziale della società industriale moderna: grandi aziende in cui il senso della libertà professionale è monopolizzato da una piccola minoranza di imprenditori di fronte alla grande maggioranza di operai cui non rimane che una condizione di dipendente con una conseguente cultura alternativa di rivendicazionismo. In sostanza la sovrapposizione di integrazioni politiche, di integrazioni culturali, di integrazioni economiche nelle stesse e piccole aree geografiche hanno rafforzato identità e appartenenza verso nicchie che noi chiamiamo «regioni». Il risultato di tale connubio triangolare può essere una cul| tura circoscritta al luogo che esprime un’economia capace di espandersi al di fuori del luogo. Una condizione fondamentale perché vi sia espansione economica in una cultura locale è che si instauri, 0, ad ogni

modo, esista una stretta compatibilità tra questa stessa cultura locale e l’universalismo nel trattare le cose economiche all’interno e all’esterno della regione. È una compatibilità che anche in questo caso combina degli estremi. Infatti l’universalismo si fonda su un criterio per discriminare non basato su un carattere indipendente dalla volontà e dall’azione dell’individuo (come è l’appartenenza alla famiglia, alla razza, alla cultura locale), ma invece

fondato su un carattere dominabile dall'uomo stesso in 203

quanto è libero di seguire una norma o di giudicare secondo un principio; mentre la cultura locale tende ad enfatizzare i confini che separano il «noi» dagli altri e ad enfatizzare che il meglio sta nel «noi». Come si vede universalismo e cultura locale si legittimano in quanto si fondano su criteri opposti.

Ora, come abbiamo già detto, la cultura locale per produrre espansione economica deve sviluppare la propria identità intorno a un punto di equilibrio compreso tra forte e originale capacità di motivare produzione economica disponibile «solo» nell’ambito dell’area di tale cultura economica e forte capacità di metterla a disposizione anche di altre aree esterne (espansione economica). In altri termini,

simile cultura locale deve essere capace di elaborare unità produttive e motivazioni al lavoro efficienti per produrre beni, e al tempo stesso questi beni debbono essere il prodotto di una specializzazione che l'esterno chiede. In definitiva la cultura locale deve esprimere una forte motivazione a una razionalità che produce un volto «unico» e per l'esterno. La razionalità dunque è nei modi di produrre, ma anche nel collocare al di fuori del proprio contesto locale. La forza di tale cultura locale sta inoltre sia nel creare motivazione forte e fiducia in se stesso in modo tale che si può produrre «unicità», ma al tempo medesimo volontà di confrontarsi con l'esterno in modo tale che simile «prodotto della cultura locale» sappia conquistare il mondo esterno del mercato e delle altre culture locali e cosmopolite. 3. I caratteri della cultura locale che sa esprimere un’economia maggiore: da un'economia tradizionale a una post-in-

dustriale

Cerchiamo di vedere ora quali sono gli elementi salienti delle culture locali, che contengono compatibilità con il formarsi di una cosiddetta «economia maggiore». A nostro avviso tali elementi possiamo sintetizzarli nei punti seguenti.

1) Tale cultura è trasmessa più per via orale che per via scritta, il che significa che si forma e si modifica più per via 204

relazionale (delle relazioni sociali) che per via razionaleastratta, cioè tramite un mediatore che è l’intellettuale o il

creatore dei processi artificiali della burocrazia. Questa, la seconda caratteristica (scritta), indica che la cultura è più direttamente controllata dalle classi e dai gruppi che controllano la collettività: gli intellettuali in primo luogo creano le mode e gli standard, e i gestori dell’amministrazione riproducono i rapporti tra cose, persone, servizi secondo il nuovo ordine astratto dell’amministrazione. La cultura orale, quella sostanziale dei valori più che quella delle regole formali, dunque è più pervasiva di tutti i gruppi della collettività locale; è più sensibile a modificazioni che vengono non si sa «da chi» e «da quale situazione» e cioè se ne perdono le origini e quindi diventano più accettabili. In altri termini sia le origini che la diffusione sono più «interclassiste» di quelle che possono esistere nella cultura scritta. Ciò significa pure che la distinzione dei riferimenti e degli usi di tale cultura locale tra sfera pubblica e sfera privata è molto labile, in quanto è più pervasiva del pubblico e del privato, ma anche nel senso che attraverso essa si assiste al duplice processo di privatizzazione del pubblico e di pubblicizzazione del privato. 2) Tale cultura locale è p72 legata al luogo che alla storia della popolazione; e quindi la contrapposizione è più tra la gente che abita qui e quella che abita altrove piuttosto che tra gli stili di vita e la storia nostra e gli stili e la storia degli altri. La distinzione è importante in quanto la contrapposi-

zione tra il «noi» e gli altri non è totalitaria, quasi storicobiologica, ma è settoriale e riguarda sostanzialmente solo l’appartenenza territoriale! Ciò significa che il nucleo «irrazionale», chiamiamolo così, della cultura locale è rappresentato dal luogo di nascita (essere di qui o venir da fuori, il che crea qualche iniziale ritrosia); e dal sistema di relazioni

consolidate, mentre il resto della storia della propria gente diventa ininfluente (perché essere venuta da tante parti) e l'appartenenza alla comunità è aperta a comprendere chiunque mostri di adeguarsi a valori e criteri universalistici. Il ra! In altre parti abbiamo concettualizzato la regione come fonte di autoctonia [A. Gasparini 2004e].

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gionamento porta a considerare come una cultura locale che ha capacità di creare economie maggiori elabora in misura minore di altre culture locali una identità etnica, di

propria contrapposizione storica, linguistica se non addirittura fisiognomica. Anzi verso la parlata viene sviluppato un atteggiamento di indifferenza, che si adegua anche a considerarla più dialetto che lingua. 3) La lingua (0 dialetto) locale riproduce meno i miti di

grandezza del popolo e di un’età dell’oro perduta, unitamente alla più labile riproduzione della realtà e della soddisfazione dei bisogni collettivi in relazioni tra parole e strutture linguistiche astratte; la lingua invece riproduce la realtà vissuta nella vita quotidiana e nei rapporti tra le cose, tra gli uomini e le cose, e tra gli uomini.

Più in particolate nella cultura locale che ha saputo esprimere una economia maggiore si sono verificate le seguenti situazioni.

1) Le élite fondano il loro prestigio non tanto sulle professioni burocratiche, amministrative e politiche, ma piuttosto su professioni e «fortune» dall'economia produttiva, e soprattutto dall'industria e cioè dalla trasformazione delle materie prime.

2) Le élite sono profondamente comprese nei valori dell’autorealizzazione, sia della persona che della propria famiglia. Le ragioni di ciò stanno nella connessione di alcuni elementi che si sono succeduti nel tempo. Infatti in queste aree di cultura locale in cui si generano le economie maggiori la formazione dell'impresa industriale è avvenuta in tempi in cui il modello della grande fabbrica ha mostrato i limiti in altre zone (in Italia, nel triangolo industriale), in termini di concentrazione di larghe masse di lavoratori dipendenti in luoghi di produzione, di organizzazione del lavoro e dei processi produttivi e di creazione di una cultura esclusivamente rivendicazionista (liberazione da) che tuttavia a un certo punto aveva sempre meno da rivendicare. La famiglia del piccolo contadino ha offerto un modello di autorealizzazione ambito in una cultura tradizionale anche dalle altre categorie rurali (mezzadri e coloni,

braccianti); ed anche le famiglie mezzadrili, pur sottoposte 206

ad angherie da parte del proprietario del fondo, vivevano un’analoga cultura dell’autorealizzazione. L’urbanizzazione in queste regioni è stata alimentata da modelli culturali naturali in questi tipi di famiglia. L’unità produttiva, in presenza della crisi della grande fabbrica e della scarsità di capitale da investire, si orienta a settori dove il solidarismo del lavoro è più rilevante che non il conflittualismo di addetti provenienti dall'esterno della famiglia. Viene dunque rienfatizzata quell’unità produttiva urbana che è stata fortemente sacrificata dalla fabbrica della prima industrializzazione, e cioè viene rifondata l’azienda artigiana e la piccola azienda industriale. In queste condizioni, e cioè per queste nuove élite imprenditrici, è chiaro che l’autorealizzazione diventa elemento motivante centrale. 3) Spesso la modernizzazione di tale cultura locale è stata introdotta da élite izferze, ma con esperienze di altre culture o che ad ogni modo svolgevano attività di confine al sistema economico. Dagli studi e ricerche sull’imprenditorialità Achille Ardigò mette in risalto che a Carpi erano spesso i venditori ambulanti, che distaccatisi da famiglie contadine, partecipavano con i loro chioschi ai mercati e alle fiere o alle sagre locali [cfr. anche Cappello e Prandi 1973]. Nel Friuli erano invece gli emigranti, i quali dopo anni di lavoro all’estero, oltre a farsi la casa al paese, vi aprivano il negozio o la piccola fabbrica. 4) L'espansione verso le aree esterne ha assunto un ca-

rattere più economico che politico o amministrativo: ciò | d’altra parte poteva generare meno conflitti con l’esterno e quindi è un potere senz'altro più condiviso e complementare di quanto non lo sia quello politico che implica un controllo diretto e visibile. 5) I valori del lavoro sopravanzano nella gerarchia dell’evidenza e della specificazione gli altri valori e i criteri per la valutazione e la selezione. Infatti questi altri valori (rispetto della vita, della dignità, della salute, ecc.) rappresentano un contesto minimale da «dover seguire» nell’essenza e da interpretare secondo criteri di privacy per la restante parte. 6) È ben comprensibile che sizzile cultura del lavoro sia espressa dalla produzione di beni e servizi piuttosto che dalla 207

produzione di organizzazione e ordine sociale come è quello politico-amministrativo, e quindi, per effetto dell’autorealizzazione, spinga alla formazione di un sistema produttivo

fondato sulle piccole aziende e su settori economici ai quali tutti possono accedere. 7) Si genera quindi una vz4 al mutamento della comunità locale e della relativa cultura che sorpassa la modernizzazione attuatasi con il formarsi di un sistema industriale da prima accumulazione e della relativa cultura della contrapposizione tra sfruttati e sfruttatori per passare direttamente dal tradizionale al post-moderno e al post-industriale. Ciò è tanto più vero quanto più si osserva che questo post-mo-

derno e post-industriale è fondato su dimensioni aziendali piccole, frazionate in molteplici settori, e che producono l'esplosione degli antichi gruppi sociali (sfruttati e sfruttatori) in tanti piccoli gruppi in cui si è al tempo stesso, o anche in tempi differenti, sfruttati e sfruttatori. Per effetto dell’automazione, della micro-componentistica, della informatizzazione dei processi produttivi si opera in sostanza un

recupero di alcune caratteristiche strutturali della società tradizionale, ma profondamente rivedute e re-ideologizzate dalle innovazioni tecnologiche, dalla formazione dell’individuo e del suo diritto all’autorealizzazione. Il post-industriale è compatibile con questa dimensione molto di più che l’industriale tradizionale. 8) Infine la socializzazione in una comunità locale con

queste caratteristiche è portata prima dalla vita e dalle relazioni informali sulle quali essa si basa che non dalla scuola formale espressa più da una cultura nazionale e astratta. Una delle conseguenze è anche una notevole elasticità nel passaggio da una professione all'altra, indipendentemente dal titolo di studio. Ciò avviene perché l’enfasi in tale cultura-comunità locale è posta più sull’indipendente-dipendente della realizzazione del lavoro che non sulla posizione del dipendente all’interno della gerarchia in cui è strutturata l’organizzazione produttiva.

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4. Lo stato-nazione come contenitore iniziale di una cultura locale che produce una economia maggiore, e il suo superamento

La cultura locale con le caratteristiche che favoriscono la nascita di un’economia maggiore è strettamente vincolata a un’area limitata, spesso la regione, la quale tuttavia non esercita funzioni politiche, svolte invece da una formazione più ampia qual è lo stato. Abbiamo quindi che la cultura locale vive dentro lo stato, che nell’Europa attuale è quasi sempre lo stato-nazione. Anzi possiamo dire che questa cultura locale si trova a nuotare entro la cultura più vasta della nazione, la quale perciò ha avuto il ruolo di allargare i confini delle culture locali fino a comprenderne molte al suo interno, rendendole compatibili nell’ambito del principio che le specificità regionali rappresentano quel che di «originale» e di «unico» ogni gruppo conserva nel suo vivere, convivere e condividere sentimenti e modi di realizzare con gli altri gruppi di un contesto più vasto. In tale opera di convivenza e di integrazione culturale la nazione si è servita del braccio integrativo, a carattere operativo-amministrativo, dello stato. In fondo lo stato-nazione nasce così, e di conseguenza il suo affermarsi: 1) craplica la tolleranza tra culture locali e l’arretramento degli aspetti irrazionali della cultura locale («il mio culturale è meglio del tuo!») a un ambito irrilevante per le relazioni, e quindi esso diventa più «punto di vista»; | 2) produce un contesto universalistico per le relazioni sociali e la secolarizzazione di alcune sfere fondamentali, in

particolare per l'economia; 3) riduce l’irrazionalità ad alcune sfere come la patria, che resta ad ogni modo aspetto culturale, poco influente per la modernizzazione e per l’industrializzazione. Per questa via la nazione contribuisce a integrare chi abita nello stesso territorio ed entro lo stesso ordine politico, e lo opera facendo coincidere tale cultura nazionale con i confini dello stato e cioè allargando al territorio dello stato il campo della comunicazione. È questo un notevole passo avanti per potere costruire l’ordine politico dello stato 209

dove valgono le stesse regole della convivenza di una collettività sottoposta a uno stesso ordine, a una stessa giustizia,

alla distribuzione dello stesso carico fiscale per mantenere lo stato, alla stessa istruzione per affrontare gli ampi problemi economici portati dalle innovazioni tecnologiche della produzione industriale, allo stesso senso attribuito alle cose e allo stesso modo di sentire bisogni, cose, sentimenti,

relazioni con gli altri, fuori e dentro la comunità. In tali condizioni la cultura nazionale «serra le file» a chi è «cittadino» dello stato, e il suo linguaggio si arricchisce, rispetto alle parlate delle culture locali, di parole ed espressioni che riproducono la nuova società tecnico-statale: questa lingua

nazionale, come si è visto prima, è quindi più scritta che orale (il patto che vale è quello scritto!), è più astratta e scientifica che attratta dalla realtà e dalle metafore delle cose, è più burocratico-universalistica ed esplicita piuttosto che complessa e piena di implicazioni accanto alle poche esplicitazioni. Per questa via anche la nazione costruisce dei miti (anzitutto la patria, la repubblica, la monarchia), che però sono gestiti dallo stato. Il risultato di tale processo è lo stato-nazione, che si sviluppa come un processo teso a modernizzare un gruppo vasto, organizzato politicamente e socialmente e insediato in un territorio. Territorio e potere organizzano se stessi e la popolazione in uno stato-nazione se-

condo parametri di convivenza sistemica, e quindi tutto è interdipendente e orientato verso il centro, e secondo i criteri universalistici della modernizzazione e dell’industrializzazione. Ma cosa succede quando tutti gli stati-nazione sono moderni, industrializzati, e soprattutto la sfera pubblica (cioè lo stato) è articolata negli stessi elementi e segmenti

burocratici? Anche quel che di irrazionale esiste nella nazione, e che provvisoriamente abbiamo indicato nella patria, perde in specificità e contenuti: tutti gli stati-nazione hanno lo stesso livello di istruzione; la loro lingua è perfettamente traducibile nelle altre, i gusti quotidiani, i processi produttivi e imodi di pensare sono gli stessi (che differenze vi sono da questi punti di vista tra italiani, francesi, inglesi, tedeschi?), e dunque la specificità sta solo in parole come «patria», «Italia», «Francia», cioè in termini che diventano 210

evocativi di sentimenti e non di realtà, come dei contenitori

che si possono anche riempire ma che, con ragionamento a freddo, si sa che sono riempiti solo di «nonsense», bugie,

esagerazioni, la cui unica realtà èsemmai quella che vogliamo credere che essi siano reali e veri. In queste condizioni quel che resta in piedi dello statonazione è la consistenza sistemica, e cioè il controllo eserci-

tato dal centro, e cioè dallo stato. Ma allora è in queste condizioni che appare la crisi della formula stato-nazione; e si affacciano altre forme di nazione, allargate ad aree in cui si pensa di avere una comune storia, comuni modi di risolvere i problemi e di creare i processi produttivi; mentre lo stato, come fatto organizzativo vede erodere, se ve ne sono le condizioni come nel caso dell’Unione Europea e delle euroregioni, spezzoni del suo potere fino a porsi alla fine il problema se conservare:o meno il nocciolo del potere, e cioè quello che i politologi chiamano «riserva dei poteri». Per tale via si vede dunque che la nazione da cultura superiore alla cultura locale, entra in crisi per lasciare il posto a una cultura supernazionale, con la quale ha dunque a che fare la stessa cultura locale. Ciò significa che a una compatibilità tra cultura locale e cultura nazionale si affianca (e forse si sostituisce) una compatibilità tra cultura locale e cultura supernazionale. Ciò è ancora più vero quando la cultura genera una economia maggiore. Anzi la compatibilità tra cultura locale e universalismo economico nasce da questo inserimento del locale nello spazio cosmopolita, che in prima istanza è nazionale, ma poi diventa inter-nazionale, spazio della civiltà.

Simile compatibilità rende ancor più interessante e anzi emblematica la figura del forestiero, nella concettualizzazione di Simmel, in quanto il passaggio da una cultura locale all'altra entro una cultura sovranazionale avviene perché ogni cittadino della cultura locale è psicologicamente anche mobile (compatibile) e neutrale (universalista), mentre riserva la generalità nel valutare gli altri solo a chi abita al di fuori della propria civiltà (occidentale, o islamica, o buddi-

sta, e così via). In altri termini ogni cittadino della cultura locale appartiene alla propria cultura ma decodifica, capisce Q4Ò

e prova il piacere di essere al tempo stesso «forestiero» nei rapporti con chi non è perfettamente uguale a lui stesso. 5.

Un'unità dinamica di mobilitazione all’interno della cul-

tura locale: la famiglia e l'individuo L'individuo, come concetto e come realtà vitale, si for-

ma nella città occidentale, anzi nel borgo che nasce ai piedi e in contrapposizione al castello e al sistema feudale da esso realizzato. In questo borgo/città nasce l'individuo, poiché qui si valuta il prodotto e la funzione, e quindi anche chi mette in atto tale prodotto. È l'individuo, che è, e viene giudicato, per quello che fa e non per le appartenenze di famiglia, di clan, di casta, di partito. Nelle collettività che sviluppano una cultura locale capace di generare un’ «economia maggiore» emerge l’individuo, ma attraverso un percorso diverso da quello sopra richiamato, e nel quale un ruolo fondamentale è giocato proprio dalla famiglia rurale. Consideriamo dunque il ruolo di questa famiglia nel formarsi dell'individuo e dei valori dell’indipendenza e della creatività come base di una «economia maggiore». In effetti questa famiglia vive la cultura dell’indipendenza dalle altre famiglie, ma soprattutto dalla comunità. L'indipendenza poi è intesa come auto-contenimento, cioè si intende che la famiglia è un’unità di fronte alla quale, più che rispetto alla comunità, stanno gli interessi economici, e quindi sta anche il mondo, visto con gli occhi dell’universalismo. Certo la tecnologia agricola è rudimentale e quindi non permette delle grandi fortune al piccolo proprietario contadino, tuttavia egli è indipendente, nel bene e nel male, e quindi la comunità locale non ha molta autorità sulla famiglia contadina e sui suoi dipendenti. La conseguenza di tale rapporto ha significato la spaccatura della comunità e della sua cultura che in generale nella tradizione si trovava contrapposta all’esterno, in nome della propria purezza e della propria «superiorità». Un indicatore evidente di tale rapporto distaccato tra famiglia contadina e comunità è 212

l'accusa di «egoismo» che parroci od operatori di comunità o di cooperativa lanciano ai membri delle rispettive collettività. D'altra parte quando si parla di famiglia contadina ci si riferisce soprattutto a quella piccolo-proprietaria, ma vi si può aggregare anche la cultura della famiglia mezzadrile e del riverbero che tale cultura ha sui membri che sono costretti ad abbandonarla per diventare braccianti. Tale famiglia inoltre, e forse per questo, non si integra completamente

con

la comunità,

è un’unità

economica

(azienda agricola, poi azienda commerciale, poi azienda industriale), e per questo si sviluppa un coinvolgimento molto stretto dei suoi membri, in quanto l’economicità di una azienda si fonda sulla capacità dei suoi componenti. In qualche modo nasce qui, in questa famiglia, l'individuo, che tuttavia ha un forte senso della solidarietà verso la famiglia. Questa è la via, alternativa a quella urbana, per la formazio-

ne dell’individuo. In definitiva lo spirito di indipendenza e la coscienza delle necessità economiche spingono la famiglia agricola, di un contesto economico in cui prevale (o prevaleva) la piccola proprietà, il podere, la mezzadria, a reagire all’ambiente: 1) con il conservare alla famiglia una funzione vitale nella produzione economica, 2) con il ricostituirsi di tale funzione economica in settori economici non agricoli (industriali, in primo luogo), 3) con il trasferimento dei ruoli tradizionali nei ruoli di imprenditore e di coadiutori che riproducono facilmente la struttura «famiglia», ma anche il suo facile trasformarsi e invertirsi, 4) con il mantenimento e

il riaffermarsi dell'individuo, il quale tuttavia è solidale con la famiglia. Tale situazione, composta di individui che operano entro, o con il supporto de, la famiglia, è talmente coinvol: gente da assicurare allo stesso tempo la creatività della famiglia (coniuge, figli, genitori, altri parenti). Probabilmente è a questo punto che si coglie il punto di contatto tra cultura locale forte, che è «minore» solo perché è diffusa in una piccola area, e l'economia aperta all’esterno e che dunque presenta i caratteri espansivi di una «maggiore».

215

6. Un ultimo riferimento a piccolo stato versus regione Il discorso fin qui svolto ha voluto vedere cosa si trova nel punto di incontro tra cultura minoritaria regionale ed espansione economica. E ha trovato che su questo punto vi

è una cultura locale particolare, centrata su spazi piccoli ma con riferimenti aerali molto ampi. Essa d’altra parte enfatizza valori del lavoro sui quali si gioca in qualche modo il destino dell’uomo, poiché è questa la via «che paga» sia a livello individuale (in quanto questo individuo si rispecchia in quello che fa e in quello che l’ambiente gli permette concretamente di fare) che a livello sociale, in quanto dal successo deriva prestigio mentre dall’insuccesso non deriva una condanna irreparabile (e quindi rimane sempre aperta la via del tentare di nuovo). È una cultura, d’altra parte, del concreto della vita quotidiana e della trasformazione della materia prima in cose da usare, piuttosto che una cultura dell’astratto burocratico e dell'ordine delle relazioni tra gruppi sociali (e cioè politico). Cuore poi di tale cultura è la famiglia, che è unità collettiva per la produzione, per la formazione dell’individuo, per la solidarietà: avviene cioè che istanze del successo individuale e istanze solidaristiche si trovano fuse in questa unità (la famiglia) che gestisce la modernizzazione, l'economia, e in fondo il passaggio dal moderno industriale vissuto dall’Occidente al post-industriale: Ora, per concludere,

conviene

spostare l’ottica dal-

l’interno di questa cultura locale che è capace di creare una economia maggiore al problema geopolitico del fatto che il contenitore di questo tipo di cultura locale debba essere la regione nello stato grande oppure lo stato-regione. Per porre in maniera adeguata il problema vi è da dire che la differenza tra stato e regione sta probabilmente nella traiettoria perseguita da ognuna di tali realtà. La traiettoria dello stato è quella dell’ordine globale, espresso con strumenti astratti (anche se concreti negli ef-

fetti per le singole persone) e simbolici, e quella del relazionarsi verso l'esterno soprattutto con strumenti a carattere politico e militare, oltreché quella di costituire dei quadri regolativi per i rapporti degli attori interni verso gli esterni 214

costituiti dagli altri stati. Ciò significa che lo stato ha costi derivati dalle funzioni politiche (sovranità e controllo) oltre che da altre funzioni di carattere militare e integrative. Ora, se lo stato è grande, e si è consolidato favorendo il formarsi di una nazione, questi costi possono essere suddivisi tra un numero alto di contribuenti e utilizzando risorse che vengono da molte regioni, più o meno ricche. Situazione peggiore si ha quando lo stato è piccolo e corrisponde più o meno a una regione, 0 a un insieme di alcune micro-regioni. In questo caso i costi pro-capite dello stato sono molto alti, e, per legittimarsi, questo stato «deve» valorizzare variabili nazionali/nazionalistiche di forte coloritura etnica. Il prezzo pagato da simile stato-nazione è quindi molto alto, e, ad ogni modo, le funzioni politiche, come la sovranità in-

terna, da esso svolte, sono sempre affidate a equilibri internazionali, verso l'esterno, e risultano abbastanza fittizie. L’etnicizzazione dello stato piccolo, e l'enfasi su ciò, è affer-

mata soprattutto da questo stato, ed entra in conflitto con le variabili universalistiche necessarie perché un’eventuale cultura locale riesca ad esprimere una economia «maggiore». La traiettoria della regione è [cfr. A. Gasparini 2008b, 7-11] decisamente rivolta verso il basso, e cioè verso la società

civile costituita dai gruppi e dalle organizzazioni poste in essere dalla comunità e nella comunità locale; ma la regione sviluppa pure una propria espansione verso l'esterno proprio e dello stato, ma ancora a livello di società civile. Se poi tale società civile presenta le caratteristiche di una cultura locale che è capace di costruire una economia «maggiore», allora essa esprime: 1) delle aziende non molto grandi, 2) una imprenditorialità diffusa alla gente, 3) un atteg-

giamento verso consumi vissuti per esibire la posizione dell’azienda piuttosto che come fuga per esibire un «se che non si è», come capita più spesso per il lavoratore dipendente. Tenuto conto delle due traiettorie; è chiaro che è più compatibile la regione (che contiene una cultura locale per un’èconomia maggiore) nello stato grande piuttosto che la coincidenza di tale regione con lo stato piccolo. Probabilmente la compatibilità diventa massima se dai singoli statinazione si passa a un'Europa delle regioni, tuttavia in tale 20)

condizione può succedere che allora le regioni riacquistino le funzioni politiche che appesantiscono l'espansione di un'economia maggiore, e di conseguenza l’ispessimento at-

tuale dei confini si trasferisce dagli stati alle regioni ° Tutto ciò in altre parole possiamo sostenerlo in quanto la regione più del piccolo stato, o anche dello stato in generale, sintetizza le due esigenze dell'economia: 1) quella della produzione, assicurando mantenimento e coesione della cultura locale, in particolare attraverso la cultura del lavoro; 2) quella dello scambio e del mercato, assicurando una apertura all’esterno basata sui puri interessi economici,

proprio perché non vi sono i vincoli politici della sovranità. In sintesi nella regione vi è una realtà economica che viene dal basso, la quale si correla, eventualmente, con al-

cune macro-realtà produttive che vengono dal centro dello stato o semmai dal multinazionale. Ma allora cosa possiamo rispondere a domande del tipo: stato sì, stato no? regione o stato piccolo?

Ovviamente per ragioni analitiche abbiamo affrontato in un certo modo i pro e i contro, ma nella realtà non è solo così. E, se devono esistere, per tante ragioni, gli stati piccoli, per far funzionare le proprie economie (e trasformarle in economie maggiori) devono perseguire, a mio avviso, la realizzazione di almeno due situazioni: 1) che i confini di stato diventino sempre più labili: possono esistere ma siano fatti funzionare poco!, 2) chei principi della sovranità siano fatti funzionare proprio nelle condizioni estreme, e cioè come fini ultimi, e quindi facendo scattare le risorse in esse implicite solo quando effettivamente tali fini ultimi siano messi in pericolo dall'esterno, e non siano invece usati per ragioni di integrazione sociale interna. In altri termini c'è bisogno di un’Europa per le regioni e gli stati europei, ma c'è bisogno anche di un’Europa che ? Sul tema dell’indurimento dei confini di regione rispetto all’apertura di quelli statali gioca un ruolo specifico la costituzione delle Euroregioni e dei Gect, ma anche delle regioni nazionali riconosciute dall’Unione Europea per finanziare progetti di ricerca o di intervento sulle strutture e i servizi locali.

216

assicuri integrazione nell’ambito delle società civili, affinché siano considerate reno un problema le differenziazioni esistenti, entro l'ambito delle singole sovranità. Queste, proba-

bilmente, sono alcune condizioni perché le culture locali cosiddette «minori» sappiano conservare o generino delle economie maggiori nel quadro dell'Europa in costruzione.

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CAPITOLO DECIMO

FORMAZIONI SOCIALI ED EUROPE UNITE. CLASSI SOCIALI: STRUMENTI PERCHE IN FUTURO ST ABBIA L'EUROPA DELLE SOCIETÀ CIVILI

1. Gli strumenti storici per realizzare o anche solo per tentare l'Europa unita L’Europa come realtà unica, od anche come insieme di sotto-sistemi di aree omogenee, è stata un riferimento co-

stante nella storia degli ultimi duemila anni. Gli struzzenti per realizzare ciò sono stati molteplici, ma solo alcuni hanno avuto successo, e ciò in dipendenza delle situazioni e delle formazioni sociali nuove che si sono realizzate [Pocecco 1997, 87-124]. | 1) In particolare l'Europa, come coscienza, è emersa dal-

la sua contrapposizione con qualcosa d’altro, che poteva essere l'Asia, l'Africa, il mare, i barbari. Certamente tale con-

trapposizione poteva essere assorbita nell'Europa per espansione politica e/o culturale come è avvenuto con l'Impero romano che coordinava l’interno e sottometteva a questo ordine l’esterno o lo difendeva da quello che è stato il mondo magmatico delle tribù barbariche. Questo impero, dell'espansione militare, politica ed amministrativa, è stato realizzato dal Sud al Nord, dall'Italia e dalla Spagna alla Francia- Germania e Inghilterra, per poi difendere il tutto con un sistema di Zizes [Innocenzi 1997, 11-52; Wilson e Dussen 1995]. 2) Da tale pax romzana si passa ad un’altra pax che è

quella carolingia e quindi del Sacro romano impero, che si espande progressivamente a est, con la costituzione dei regni autocefali di Danimarca, Boemia, Polonia, Ungheria,

Kiev e Novgorod, Svezia, e poi di altre entità politico-militari sotto la spinta dell’ordine teutonico. In realtà l'eredità carolingia si apre a est, e la marca orientale (attuale Austria) avrà poco da combattere verso Est (se non cinquecento-sei-

cento anni dopo contro i turchi), perché il cristianesimo «conquista» le élite delle tribù diventate popoli e le «ordi219,

na» entro i contesti politico-amministrativi (feudali) propri . dei nuovi regni che sorgono sulle rovine carolingie (regni di Francia, Italia, Borgogna, Germania e i tanti ducati e marche). È così che diventano cristiani e si dotano di una struttura politico-amministrativa il regno di Boemia con i Premistidi, di Polonia con i Piasti, di Danimarca con gli Skiold, di

Ungheria con gli Arpad, e così via [cfr. Cappelli 1969]. L’Europa si allarga a Est senza conquiste militari, ed invece con una semplice estensione dei modelli politici, amministrativi, di classi sociali, degli ordinamenti sociali, della

fede religiosa e della legittimazione derivante dal radicarsi di una dinastia. Sarà poi l'estinzione maschile di queste dinastie che permetterà l’inglobamento di questi regni nel Sacro romano impero degli Asburgo, attraverso però la legittimazione delle relazioni matrimoniali. Ed in effetti è interessante notare che i periodi bui dell'Europa unica (indicati spesso come «interregno»), che possono durare qualche anno, qualche decennio o addirittura secoli (vedi la guerra dei cent'anni o la guerra delle «due rose») si hanno quando la dinastia non fornisce figli maschi per la successione. In questo modo l’Europa si fa unita anzitutto per via culturale, per stili di vita, per élite che gestiscono il potere allo stesso modo, per simili istituzioni: ed è nell’ambito di questa Europa che l'Europa si fa sistema, almeno culturale, per il quale a periodi alternativi si espandono per tutta Europa e imperalisticamente modi e stili di vita italiani, spagnoli, francesi, tedeschi, inglesi. Ciò significa che i modi e

le lingue franche parlate dalle élite sono le stesse, e per tale via le stesse élite si omogeneizzano fortemente. 3) Un altro strumento che ha avuto successo, almeno

per una certa area europea, è derivato dal sapiente r2élange politico-diplomatico che si è attuato nella Germania postWestfalia e; in altre forme, nell'Europa post-congresso di Vienna. Si tratta di uno strumento in cui la politica riconosce la piena sovranità di un monarca/dinastia in un certo stato, ma al tempo stesso prevede che questi monarchi possano dialogare nell’ambito di una Dieta perpetua [cfr. Ferraris 2001, 74-85], attraverso gli incontri dei rispettivi diplomatici. È un modello molto enunciato ma poco realiz220

zato, anche se in realtà ha funzionato nell’ambito del Sacro

romano impero asburgico e del post-congresso di Vienna, ma che tuttavia evoca molto da vicino quello che è avvenuto ora fino alla vigilia delle differenti versioni di Costituzione europea. E un’Europa unita ancora dalle élite, che questa volta sono oltre che la nobiltà, soprattutto la borghesia: un'Europa unita in grandi spazi borghesi. 4) Dall’Ottocento in qua altri strumenti sono stati tentati per costruire l'Europa. Questi sono stati rzz/itari e ideologici. Lo strumento militare-ideologico è stato utilizzato per primo da Napoleone, il quale attraverso le sue armate e la sua ideologia di contrapposizione all’«ancien regime» ha cercato di ridisegnare un nuovo ordine politico dell'Europa e quindi di un'Europa unita e ordinata dal re dei re: appare per la prima volta l’idea di ridisegnare nuovi stati retti da nuove dinastie. Il secondo esempio di utilizzo dello strumento militare-ideologico per costruire la nuova Europa è offerto dalla Germania hitleriana, che si propone di ridisegnare la mappa degli stati europei e di imporre il proprio ordine politico europeo attraverso l’esercito, la gestapo e i campi di concentramento. In tale percorso, seppure questa volta di divisione, si è collocato anche la spaccatura verticale tra Est e Ovest Europa nel secondo dopoguerra. Anche in questo caso lo strumento militare non ha prodotto alcuna Europa, e quello ideologico lo ha prodotto solo nel breve periodo, in quanto esso richiede tensione molto intensa e questa non può valere che per i tempi brevi. Dunque, dopo queste avventure militari per un'Europa unita abortita, il ritorno agli stati è rimasta la conclusione naturale, salvo che nell’ambito di questo ritorno si è attivato un processo di tempi lunghi e con strumenti alieni dalla pura sovranità nazionale per la nuova Europa, ancora in formazione.

221

2. Gli strumenti e la creazione dell'Europa dell’Unione Europea (Ue) 2.1. Antefatti

Probabilmente il Novecento è stato un secolo dimezzato, o almeno un secolo strano, perché sono crollati tanti

strumenti per unificare l'Europa o almeno per mantenerla al centro del sistema mondiale e composta di stati in equilibrio di potenza che si accettano e non vogliono annullarsi reciprocamente. In effetti dal congresso di Vienna alla vigilia della Prima guerra mondiale ci fu questo primato dell'Europa policentrica ma in qualche modo unita nell’essere dominatrice di quel che stava fuori d'Europa e nel condi-

videre medesime strutture nazionali e stesse basi della so-

vranità. Questa, per certi aspetti, poteva considerarsi una

Europa unita da molteplici collanti: 1) le forme statuali, costruite secondo un progetto analogico (stessa strutturazione); 2) le dinastie, che vengono chiamate o cui vengono lo-

ro offerte le corone di altri o nuovi stati: i Coburgo-Gotha di Sassonia in Belgio (dal 1831), in Portogallo (dal 1853), in Gran Bretagna (dal 1901), in Bulgaria (dal 1887); gli Wittelbach di Baviera in Grecia (1835-62); gli Schleswig-Hol-

stein-Sondenburg-Glucksburg di Danimarca in Grecia (dal 1863); i Battemberg di Assia in Bulgaria (1879-86); gli Hohenzollern-Sigmaringen di Germania in Romania (dal 1866); i Brunswick-Luneburg-Estensi di Hannover in Gran Bretagna (1714-1901); i Borboni di Francia in Spagna (dal 1700); 3) i matrimoni tra dinastie, che hanno assicurato un’unità

tra le classi dominanti europee; 4) la diffusione di un’unica cultura, di mode simili, di lingue franche (francese, tedesco, veneziano, ecc.); 5) la diffusione di una rivoluzione indu-

striale e di una rivoluzione urbana; 6) l'interscambio di popolazioni attraverso l'emigrazione. Il risultato di tutto ciò è stata l’omogeneizzazione dell’intera Europa all’ombra di stessi valori, di stesse società politiche (poteri e classi politiche), ma anche di stesse società civili (ancora classi dominanti e classi dipendenti, e stili di aggregazioni e di azioni sociali comuni). 422

Nel Novecento tuttavia presero il sopravvento alcune vie per la distruzione di quella sorta di unità interna ed esterna per analogia organizzativa degli stati dell'Europa. La prizza fu quella della mondializzazione di un conflitto spinto fino alla soluzione finale, e cioè fino alla distruzione dell’avversario: con la Prima guerra mondiale ci fu la distruzione dell'Impero austro-ungarico, e con la Seconda guerra mondiale la vivisezione della Germania in due parti, Est e Ovest. La guerra ancora una volta distruggeva un equilibrio europeo. La seconda via è stata quella che Féito [2004] indicò come tendenza alla repubblicanizzazione dell'Europa post-Prima guerra mondiale. Ciò ha significato rompere definitivamente quel fitto sistema di relazioni che collegava tutti i paesi europei nell’unica rete delle dinastie sovrane e negli interscambi che avevano tenuto insieme tutta l'Europa.

La terza via alla distruzione dell'Europa unita ha avuto un carattere ideologico: quello pangermanico hitleriano che ha esportato le leggi razziali e una gerarchia di razze, da quella ariana alle altre, che bisognava asservire o distruggere; e quello internazionalistico sovietico che ha enfatizzato la rottura in due parti dell'Europa stessa. La fine della Seconda guerra mondiale e la caduta della cortina di ferro hanno indicato il velleitarismo del ricostruire l'Europa ran militari o ideologica. E tutto ciò perché la conquista fondata sulla contrapposizione tra vinti e vincitori non poteva produrre base consensuale duratura, ma altrettanto perché l'ideologia totale divideva tra leali e non - leali ed era destinata a degradare la sua magia iniziale perché la tensione utopica necessaria era troppo forte per essere mantenuta per lungo tempo. 2.2. Basi

È da queste due fonti di delusione che è nata l’ideazione e il perseguimento di una nuova via all’unificazione europea. Il cuore della nuova ideazione si fonda su due valori di fondo: la pace e l’individuo come motore della società (sia civile che politica). 223

I cittadini europei hanno elevato a valore assoluto delle relazioni interne europee ed internazionali la pace, e ciò è il risultato di due guerre mondiali che hanno stravolto l’unitarietà e la centralità dell'Europa. La pace è valore, è modo di relazionarsi, è l’unica, in assoluto, via da perseguire per risolvere i conflitti che nascono: il dramma della guerra jugoslava degli anni Novanta è stato vissuto con profondo orrore dal resto d'Europa. Ciò credono soprattutto i giovani che non comprendono perché bisogna uccidersi per conflitti costruiti dalle società politiche e dai mass media, gli adulti che hanno provato il sogno di realizzare se stessi con il lavoro e la propria creatività, gli anziani che hanno provato o avuto eco diretta della barbarie della guerra. Il valore della pace lo si è visto all’opera in occasione del conflitto iracheno, quando l’opinione pubblica europea all'80-90% era contraria all’intervento della coalizione [Fejt6 2004]. Il secondo valore è rappresentato dall’individuo. In realtà questo è un valore molto vecchio, nato all'ombra delle libertà riconosciute all’individuo nelle città medievali italiane, e poi fortemente legittimato dalla visione dell’uomo del protestantesimo e in particolare del calvinismo. In Europa l’individuo è stato talmente potente da attribuire alla società politica e istituzionale (lo stato) l'onere di assolvere i bisogni fondamentali attraverso i servizi di base del welfare state, riservando a se stesso però la possibilità di agire in un’area di autonomia economica, politica, sociale, culturale,

ed elaborando così una società civile, organizzata perciò dal basso, essenziale nel gestire i rapporti e le reti tra gli individui, e punto di controllo e di orientamento della società politica. E quest’ultima a sua volta risulta fortemente soggetta, nell’attribuzione di legittimazione, alla società civile stessa. In sintesi valori come individuo e pace hanno rifondato la società civile, attribuendo ad essa la capacità di controllare e di avere potere di iniziativa sulla società politica e su quelle che sono state sempre le azioni fondamentali dello stato. Addirittura con il welfare state integrale lo stato diventava povero perché l'individuo potesse diventare ricco, e quindi soddisfare i bisogni superiori e dell’autorealizzazione. L'economia delle piccole organizzazioni, l’associa224

zionismo come elemento organizzato per difendere ed affermare la difesa dei valori più spesso laici che religiosi, vecchi e nuovi e tra questi l’assolutezza della pace, le interconnessioni nazionali e internazionali di queste organizzazioni stanno alla base della società civile nuova europea, con ciò offrendo quella nuova via all’unificazione europea di cui sopra abbiamo parlato [Bettin Lattes 1995, 2002; Longaro 1997; Pirzio Ammassari 1997]. Dunque abbiamo una società civile per l’unificazione europea, la quale è estremamente potente nell’orientare la politica nazionale, poiché essa controlla anche gran parte dell'economia, della cultura, della società. E più in generale ha la capacità di confermare o di modificare la società politica, rappresentata in particolare dal governo in carica, attraverso il voto: qualche anno fa abbiamo visto in Spagna la punizione data dal governo che ha osato contravvenire al valore della pace, abbiamo visto recentemente in molti paesi europei ex-comunisti la punizione ai governi che hanno impoverito troppo violentemente e senza la protezione di welfare state adeguati i ceti più poveri e indifesi della società. In sostanza l’iniziativa nell’unificazione europea è in mano ai governi nazionali (la società politica), ma sono le società civili che danno legittimazione (che possono togliere) ai propri governi e danno realtà operante e concreta

all’unificazione europea attuale e futura. 23.

Realizzazione

Non a caso gli anni Cinquanta segnano un’Unione Eu-

ropea da Nord a Sud (dal mare del Nord al mare Mediterraneo), fondata sugli attori economici che sono i gestori dell’agricoltura e del carbone e dell’acciaio, ai quali si assoceranno altri attori e valori culturali, sociali, amministra-

tivi, politici. In sintesi possiamo dire che dopo gli eserciti, le dinastie, i politici e le ideologie ora provano, e hanno provato da cinquant’anni, a unire l'Europa i popoli, le etnie, i giovani, i diritti civili, tutte le classi sociali, le società civili,

le organizzazioni e le associazioni formate dalla gente. È co209)

sì che sono i piccoli interessi a unire l'Europa più che i. grandi interessi nazionali, i quali continuano a essere depositari di sovranità ma sono sempre più erosi dagli erogatori di risorse e di regole di Bruxelles, dai 72455 72edia, dai principi della solidarietà internazionale che producono peacekeeping, peacemaking, peacebuilding. Ed è questa l'Europa di cui parliamo, che si è estesa verso Ovest e verso Est dell’asse originario Nord-Sud, cambiando con ciò anche la centralità dei paesi, spostandola verso Nord (con l'Inghilterra e la Scandinavia) e poi verso Sud con la penisola iberica ed ellenica, e poi verso Nord-Est. Il risultato è un'Europa allargata forte dal punto di vista della società civile ma debole nella sua società politica soprattutto nell’orientamento verso l’esterno (politica estera), forte nel versante Nord-Est lungo la rotta dell’espansione del Sacro romano impero, verso Est lungo la rotta dei Cavalieri teutonici o attraverso le alleanze familiari che inglobano nella dinastia asburgica i regni polacchi (del sud), boemi e ungheresi. È ciò a scapito dell'Europa meridionale e mediterranea. Ci si può chiedere quale Europa unita ci aspetta, e in secondo luogo quale rilevanza può avere questa Europa nelle relazioni e soprattutto nei conflitti mondiali. 3. L'emergenza di nuove classi e di nuovi assetti sociali come strumento prevalente per costruire Europe unite

Da quanto scritto finora vi sono almeno due aspetti dell'Europa unita. Il prizzo è che vi sono state più Europe unite nella storia dell'Europa ovviamente separate dalla frantumazione di ognuna di esse. Il secondo è che alla base, o all’origine, di ogni Europa unita vi è stato l'affermarsi di una classe sociale nuova, la quale ha avuto la capacità di «ordinare» l'Europa in una sua nuova unitarietà.

La prima Europa unita, al di là dei primi modelli parziali degli Imperi romano e carolingio, è quella unita dalle classi cavalleresche, nobiliari e feudali con la diffusione di

medesimi stili, strutture, processi di legittimazione, fede cristiana, diritti di successione (salico o longobardo), pote226

re, vigenti dall’ Atlantico alla Russia dei Rurik, dal Mediter-

raneo alla Scandinavia. Questa Europa consiste in un ampio spazio entro il quale comunicare, dialogare e connettersi liberamente. Tra la molteplicità delle famiglie feudali che elaborano reti di potere molto diversificate e unificate al tempo stesso nel Nord-Italia intorno al Mille-Millecento possiamo prendere come esempio le famiglie piemontesi degli Aleramici (da Aleramo) e degli Anscarici (da Anscario

e alla quale appartiene anche Arduino di Ivrea) e quella ligure-lombarda-veneta-emiliana degli Obertenghi (cioè gli Este). Gli Aleramici seguono il diritto salico di successione e si ramificano in molti e ben delineati marchesati, i principali dei quali sono quelli di Monferrato e di Saluzzo, i quali entrano in una rete parentale italo-francese. Gli Anscarici invece seguono il diritto longobardo di successione con la conseguente polverizzazione di proprietà e possedimenti ed entrano in una rete parentale strettamente locale. Gli Obertenghi-Este spaziano infine in reti matrimoniali europee (Garsenda del Maine, Cunegonda d’Altdorf), e queste a loro volta li fanno capostipiti di rami dinastici italiani come Este, Pallavicini, Malaspina, ecc. e di rami tedeschi come i Guelfi, i Brunswick, gli Hannover, i re d'Inghilterra. Questa situa-

zione indica la rete continentale di un’Europa unita dalle classi nobiliari e di cavalieri, che possono diventare fungibili nei diversi territori europei e per le diverse popolazioni che restano fuori e indifferenti agli assestamenti locali del potere. Altra Europa unita è stata quella del Settecento nel no-me dei lumi e quindi sulla base della classe degli intellettuali, e di un ideale di struttura universale politica assicurata dalla «dieta perpetua» e dalla elettività dell’imperatore del Sacro romano impero; e culturale (nel nome dell’arte e delle scienze). A queste classi intellettuali nell'Ottocento si aggiunge la borghesia imprenditoriale, commerciale e finanziaria che oltrepassa prepotentemente i confini degli stati per affermare uno spazio di affari, comuni a tutta l'Europa e a quelle riserve di risorse e di materie prime che sono le colonie extra-europee. Diversamente da quello che ha teorizza-

to Morton Kaplan in realtà alla base delle potenze che governano l’Europa si stava affermando un attore universale, 227

neanche tanto occulto, rappresentato dalle regole e dai va- . lori condivisi dalla nuova classe, che imponevano agli statinazione di dialogare e di non spingere le vertenze politiconazionali fino al punto da far scomparire un singolo statonazionale e fino al punto da comprendere questa unitarietà economica a favore della politica di potenza dei singoli paesi. A questo elemento sociale unificante l'Europa si aggiungeva poi anche la fitta rete di relazioni tra le dinastie regnanti nei singoli stati-nazione. Certamente anche questa

è un'Europa unita, che è composta di unità statali al suo interno, che tuttavia assume su di sé sempre maggiori com-

piti nazionali e pian piano nazionalistici; ed è la concentrazione di compiti nello stato che fa esplodere proprio questa Europa unita. E cioè avviene che si affianca alla classe media produttiva e diventa sempre più preponderante la classe media amministrativa e burocratica. Questa afferma prepotentemente il primato dello stato-nazione sull’idea di Europa unita. La prima metà del Novecento è stata caratterizzata dallo sfaldamento dell'idea di Europa unita prodotta dalla combine di borghesia industriale-commerciale-finanziaria e rete dinastica europea, e dalla ripresa dell’autonomia esasperata dello stato nazionale. E tuttavia dopo la Seconda guerra mondiale si è rimessa in moto una nuova idea di Europa unita, anche questa volta attivata da un nuovo rivolgimento delle classi sociali, e cioè dalla diffusione dei valori della classe media e dalla sua ideologia movimentista per la quale tutti gli individui possono teoricamente, ma anche concretamente, essere nodo di una rete di relazioni a livello locale, nazionale e interna-

zionale. Nella nuova Europa unita esistono ancora gli statinazione, ma il referente privilegiato è l’individuo, le organizzazioni che egli crea, la pluralità di interessi e di azioni che egli riesce a creare, le attività economiche sociali e culturali che sviluppa e che danno luogo, nel loro insieme, alla società civile. E quindi un'Europa unita dal doppio binario degli stati che difendono le loro «riserve di poteri» e delle società civili (fondate sull’individuo e sugli spazi formati dalle relazioni), che sempre più dialogano e si integrano; con l’orientamento ideologico che le sovranità nazionali 228

contino sempre meno e l’unitarietà delle società civili abbia sempre più consistenza.

4. L’Europa che ci si aspetta E un'Europa che offre naturalmente molti vantaggi, ma presenta anche molteplici situazioni problematiche, che possiamo far derivare tutte da alcuni punti fermi essenziali: il valore della pace interna ma anche internazionale, il valore originario della società civile estesa a tutte le società nelle espressioni della vita quotidiana, il 7zelarge delle società civili; una società politica unica difficile da realizzare perché i singoli stati esistono ancora, ma anche perché questa Eu-

ropa ha «somatizzato» la dipendenza da un sistema bipolare diventato per ora monopolare e nel quale essa può difficilmente individuare la propria «saggezza» all’imperialità. Dalla fusione dei quattro punti esce la nuova Europa del futuro, ma escono anche le difficoltà che questa deve affrontare e le opportunità che le situazioni nuove ed esterne offrono ad essa. Mi piace accennare ad alcune. 1) L’equilibrio tra le società civili di ognuna delle ventisette nazioni e la società civile della nuova Unione Europea è abbastanza prevedibile e in qualche modo il momento più semplice da realizzare. L'Unione Europea ha una tradizione consolidata di attenzione e azione per uniformare le società civili e renderle dialoganti. Le direttive e le rac-

“comandazioni comunitarie che diventano obbligo hanno avuto un ruolo fondamentale in questa realizzazione: per l'economia, per la moneta unica, per i diritti civili e umani,

per la cultura, per la realizzazione diffusa di opere pubbliche che i paesi più poveri altrimenti non sarebbero riusciti a fare (vedi Portogallo, Irlanda, Grecia, Italia del Sud, Spa-

gna, e così via), per la regionalizzazione e quindi per la distribuzione alle periferie del potere centrale (Euroregione), per la sottrazione progressiva di contenuti alla sovranità al-

meno per quanto riguarda la società civile. L’entrata di nuovi paesi nell'Unione Europea, e successivamente degli altri candidati e dei non attualmente candidati, tutti prove229,

nienti da esperienze centralistiche, egualitarie e comuniste, non vi è dubbio che pone degli enormi problemi alla nuova omogeneizzazione all’altro, e soprattutto richiede molto tempo. Infatti per parecchi anni ancora molte risorse interne, e il loro travaso da una all’altra parte, sarazzio assorbite da tale perequazione: c’è infatti da contribuire fortemente al formarsi di nuovi ceti imprenditoriali, di altri ceti di consulenti, di nuove burocrazie adeguate alle nuove regole, ecc. In questo processo il rischio da evitare è che si creino delle società civili di serie A o di serie B se non addirittura di serie C; ma vi è anche la necessità di affrontare la mobilità

delle risorse umane da un paese all’altro per favorire proprio questa perequazione. Come si vede anche da queste poche considerazioni emerge la complessità del processo ed anche la tensione che implica la sua gestione e il suo orientamento verso la costruzione di un’unica, per sintesi

od anche per analogia, società civile europea. 2) L’attuale Unione Europea è il prodotto della società

civile, e di un insieme di gruppi sociali, organizzazioni, associazioni, governati dagli interessi e dai diritti dell’individuo, di tutti gli individui. Ciò l’abbiamo sottolineato diverse volte. Ora dobbiamo aggiungere che un sistema sociale nazionale può mantenersi e può mantenere le proprie relazioni internazionali (soprattutto quelle molto impegnative) se le componenti della società civile danno il corserso alla classe politica che ha fatto le scelte strategiche per il paese. Nel nostro caso vi è la scelta strategica di far aderire i paesi alla nuova Unione Europea. Tuttavia, cosa succede se questo consenso all’élite politica viene meno? Senz'altro si hanno nuovi governi, anche a carattere populista o neo-comunista: ciò può produrre la tentazione, se non la realizzazione, di uscire dall'Europa unita. Questa non è un’ipotesi molto realistica, poiché l’adesione dei paesi già comunisti è venuta da una sorta di patto fatto dai cittadini con i propri governi e con l'Unione Europea: voi ci assicurate una qualità della vita elevata, il lavoro per tutti, l’autorealizzazione nel mer-

cato attraverso la privatizzazione, e noi ci lasciamo affascinare dall’idea di fare parte della Nuova Europa unita. E se 230

ciò non avviene? Se gli incanti e le implicite promesse non si avverano, allora vengono meno le condizioni del patto, e

ognuno, gruppo, individuo, votante, organizzazione, si sente libero di seguire le strade che ritiene migliori, compresa quella di seccedere da questa Europa unita. Tale diritto è riconosciuto nella Costituzione europea, e sappiamo che molti paesi, anche della vecchia Unione Europea, sono tentati di utilizzarlo. Anche per questa via, della delusione e dei governi nazionali che nascono da un consenso nuovo e diverso, si produce la disunione di questa Europa unita. 3) Ma quale società civile europea può derivare dai rapporti fra le tante vecchie e nuove società civili nazionali, e quindi dalle politiche della nuova Unione Europea? I nuovi paesi hanno in linea di massima un’attrazione storica per le società mitteleuropee e per quelle scandinave, e quindi in qualche modo andranno a rinforzare i rapporti economici, culturali e sociali con i paesi a cultura scandinava e tedesca. Ciò sarà fonte di squilibri tra le differenti anime europee, con il rinforzo di quella nordica a influenza tedesca a scapito di quella latina, mediterranea e per certi aspetti anche anglofona. I/ risultato può essere costituito da conflitti latenti, per la tendenza al costituirsi di cerchi di centralità e perifericità nell'Europa unita. Ciò spinge i paesi marginali a integrare nel-

l'Europa non solo i paesi balcanico-danubiani, anche quelli mediterranei, a cominciare anzitutto dalla già consolidata Turchia per proseguire con i paesi arabi e magrebini della sponda nord-africana. La spinta sarà dunque verso un ulte. riore allargamento dell’Europa, il che produce un’ulteriore spinta e nuovi equilibri europei. Ma fino a quando l'Europa allargata potrà anche essere un'Europa equilibrata ed integrata al suo interno? Non può questa spinta all’interno in realtà essere l’inizio di un processo di nuova divisione dell'Europa nelle sue parti più omogenee? Del resto sappiamo bene che le decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio dei ministri della nuova Unione Europa, almeno secondo la Convenzione, necessitano di coalizioni tra stati, piccoli, medi

ma anche grandi per concorrere alla maggioranza qualificata: di stati e di due terzi di popolazione. E in definitiva, quali coalizioni di stati e società emergeranno? Saranno fluttuanti

231

o stabili? La società civile europea è quindi tutta da elaborare, sondare e stabilizzare.

4) Inoltre proprio l'inesistenza di precedenti rende tali processi politici molto complessi; con tempi lunghi al fine del formarsi di tali coalizioni e del loro eventuale stabilizzarsi. Tuttavia proprio tale complessità e tali lunghi tempi di preparazione e raggiungimento della decisione (che implica anche i tempi di attesa perché il consenso e la convergenza si formino) assorbe molte energie, molta tensione e troppa attenzione per tali processi, a radicale scapito del ruolo con l’esterno che la nuova Unione Europea deve giocare. Il che è ancora più accentuato dal fatto che il ministro degli esteri europeo è una figura nuova per l'Europa, e anche in questo caso è necessario che si consolidi l'indipendenza di esso dai governi dei ventisette paesi. Tutto ciò porta a valutare che per molti anni ancora questa Unione Europea si troverà ad essere incapace a giocare un ruolo internazionale, in cui sia-

no messi in atto i valori consolidati dai popoli europei, e cioè quello della pace sulla base della quale affrontare i conflitti (da mantenere quindi a livello virtuale e sublimato) e quello

della «saggezza imperiale» che l'Europa sembra avere accumulato dalle esperienze tragiche e imperialistiche del passato. 5) A questo punto dovremmo concludere che il ruolo internazionale dell'Europa dovrebbe continuare ad essere ancora per molti anni quello di organizzazione internazionale, cui fa da contrappeso uno stato vero e proprio a livello interno. Suo malgrado tuttavia l'Europa unita potrebbe essere costretta a dotarsi di una politica estera e di una'forza militare, anche se da peacekeeping, di fronte all’evoluzione drammatica della guerra irachena, come del resto abbiamo previsto nello scenario catastrofico da noi più avanti elaborato. Gli Stati Uniti non sono capaci di raggiungere gli obiettivi che si erano prefissi, anche se fin dalla loro enunciazione vennero considerati impossibili da realizzare e politicamente non legittimabili: il risultato è la destabilizzazione di un grande paese con in più l’incapacità culturale e politica di portare anche quella democrazia molte volte affermata. Il rischio in queste condizioni è nel breve periodo il disimpegno americano conseguente a una chiusura in se 232

stessi (isolazionismo), e quindi il caos iracheno e il suo trasformarsi in un luogo da cui parte il terrorismo internazionale e la destabilizzazione degli altri paesi musulmani. In queste condizioni si può fare sempre più realistica l’opzione dell’azzeramento degli interventi militari europei, oltre che di quello americano, per partire dalla politica europea che viene dal consenso della società civile e della popolazione. E sappiamo che questa è all’80-90% per la pace, per la pacificazione e per trovare una via che restituisca un equilibrio condiviso all’Iraq e alla Palestina/Israele. L’Europa delle società civili, in altri termini, chiede tutto ciò ai suoi governanti; e quindi questi governanti si trovano «co-

stretti» politicamente a mettere da parte le contrapposizioni (tra l'Europa per l’intervento e l'Europa contro l’intervento americano); a trasformare le loro forze presenti in Iraq in un qualcosa d’altro di quello che sono attualmente; e poi a rendersi credibili negli spazi della pacificazione dell’Irag, e quindi ad affrontare in maniera radicalmente nuova il terrorismo internazionale ed anche i rapporti con i governi musulmani dei tanti paesi di Africa e di Asia. Anche in questo senso la spinta iniziale all'Europa politica è data dalle società civili e dalle popolazioni europee che vogliono la pace; ma il risultato è che da una situazione eccezionale di conduzione disastrosa della guerra all'Iraq emerge più un'Europa unita nel ruolo internazionale, mettendo a disposizione del futuro del pianeta la saggezza (che proviene anche dagli errori commessi nel passato) di gestore di un ‘impero, in cui si combina il bisogno di sicurezza dei popoli e degli stati insieme al rispetto degli stessi popoli e stati. 6) A questo punto possiamo concludere su un’altra #77passe originata, questa volta quasi casualmente, da quella irachena. Si tratta dell’imzpasse nella quale si trova l’attuale Europa «unita» senza una comune politica estera. Infatti lo stato attuale di politica estera come risorsa unicamente in mano ad ognuno dei ventisette stati ha fatto più che mai esplodere la corsa degli stati più forti a giocare in proprio un ruolo originario, come hanno fatto Francia e Germania rivendicando per sé un direttorio della pace; il che ha fatto conseguentemente scattare in molti altri paesi un meccani-

235

smo per il quale ci si difende dal vicino pericoloso e/o arrogante alleandosi al lontano forte (come gli Stati Uniti). Ciò è valido probabilmente per l'Europa mediterranea che si è discostata dall’«arroganza» franco-tedesca ed ancor più da parte di Cechia ma soprattutto della Polonia per i timori politici nei confronti della Germania. In altre parole la mancanza di un’unica e comune politica estera europea nella crisi irachena ha scatenato nell'Europa «cosiddetta unita» proprio quei meccanismi centrifughi di rifiuto dei vicini forti europei per alleanze extraeuropee. Tale riproduzione di meccanismi può enfatizzare la coscienza che solo un’unica politica estera può stare alla base di una vera Europa, per la quale può anche valere la pena di rinunciare a spezzoni sempre più consistenti di so-

vranità nazionale.

234

CAPITOLO UNDICESIMO

SIGNIFICATI D'EUROPA

1. Quali significati può avere l'Europa Cosa significa l'Europa per gli europei, di tante parti d’Europa o di luoghi non europei in cui si trovano gruppi sociali di origine europea? In questo capitolo vogliamo proporre le risposte che in una ricerca hanno dato quattordici campioni di europei, con l’intervista a circa 2.700 persone delle regioni del Friuli Venezia Giulia (Italia), della Vojvodina (Serbia), di Kharkiv

(Ucraina), di Tjumen (Russia-Siberia). A mo’ di premessa possiamo tuttavia chiederci quali sono i possibili significati dell'Europa. Una risposta la troviamo nel fatto che il significato di una entità astratta si trasforma in un riferimento concreto, se il

contesto/luogo vissuto assume una pluralità di significati in modo da proporsi come simbolo di un mondo integralmente compiuto, e, nel caso dell'Europa, come estensione da un

luogo piccolo a un luogo grande nel quale sono contenute tante varietà culturali storiche, sociali di un’unica globalità. In tal caso la polisemicità acquista il valore del simbolo glo‘ bale di un qualcosa d’altro che esprime le funzioni sociali di identità, appartenenza, attaccamento, emergenti da un 777x di conoscitivo selezionato, di emozionale che dà sicurezza, di

radicato nella storia delle comunità. Il significato viene quindi a segnare il simbolo di qualcosa di rilevante socialmente per l'integrazione e l’attaccamento che produce. Del resto abbiamo in altre occasioni già evidenziato come le fonti della simbolica degli spazi siano da individuarsi negli archetipi dello spazio stesso, nelle relazioni sociali svolte in quello spazio, e infine nella storia e nella diacronia della comunità, piccola o grande, in cui si vive [A. Gasparini 2000]. Pi 0)

I significati possono riferirsi a tanti elementi: l’estensione geografica, le divisioni politiche, i valori e la cultura, la famiglia, la religione, i rapporti sociali dialettici [cfr. anche Wilson e Dussen 1995; Shelley e Winck 1993]. L’Europa che forma identità e produce attaccamento vogliamo esplorarla nei seguenti significati. Il primo consiste nell’identificare l'Europa con l’Occidente (l’Europa è l'Occidente): alla caduta del comunismo

la parte ad ovest di quella che era la «cortina di ferro», con il cuore in Italia, Germania, Francia, Gran Bretagna, rappresenta la libertà, l’affluenza, l'affermazione della società civile. Cioè questo Occidente è il luogo dove è bello vivere, e che deve essere modello di riferimento. Il secondo significato vede l'Europa come luogo di scontro tra popoli, con analoga cultura di fondo ma con culture locali e soprattutto con interessi differenti, accentuati dalla specificazione dello stato-nazione, delle sue istituzioni e dei popoli che la compongono. Ma in particolare tale significato deriva dalla realtà vissuta dagli stati d'Europa, di continui conflitti tra le entità politiche che l'hanno composta e la compongono, e quindi dai governi stranieri che hanno dominato tanti popoli e regioni. Il terzo significato si fonda sull’identificazione dell’Europa con la Cee diventata Unione Europea (Ue). Si tratta di un significato, richiamato dalla comune dizione di «essere in Europa», «entrare in Europa», che si fonda quindi sull'idea che all’interno dell'Europa vi sia un'Europa più Europa, e cioè un cuore e un centro intorno cui ruota un sistema di

speranze di entrarvi e un sistema di diffusione delle regole standard adottate dall'Unione Europea. Il quarto significato enfatizza l'Europa come realtà culturale unitaria. Una realtà culturale vuole dire un insieme di valori, di idee, di modi di sentire e di pensare, di stili di vita

che si sono formati per effetto di diffusione per i paesi d’Europa, di sedimentazione per i secoli e di sintesi in un qualcosa di unico e specifico. Gli attori, di secolo in secolo, si sono succeduti per effetto di condivisione, espansa da un centro verso la periferia: dalla Grecia verso la Magna Grecia e l’attuale bassa Francia; da Roma verso Spagna, Francia e

236

parte ropa dalla dalla

di Germania e Inghilterra; dalla Germania verso l’Eucentrale e orientale; dall'Italia verso il nord Europa; Spagna verso l’Italia e gran parte dell'Europa centrale; Francia verso tutta l'Europa e la Russia; dalla Gran Bre-

tagna verso l'Europa; ecc. Sono tante espansioni che toccano

prima di tutto le élite culturali e intellettuali e la società civile formata da queste élite, e, sedimentandosi, hanno formato una cultura comune e unica, dove è radicato il senso della storia e delle radici comune, della sua ricca arte, dei suoi stili di vita,

della concettualizzazione dell'individuo e poi delle forme di governo che enfatizzano sempre il ruolo creativo della società civile, della laicizzazione della sfera politica per cui il potere passa dalla «grazia di Dio» all’illuminazione dell’idea superiore (Illuminismo), e infine al ruolo di sostegno e di fissazione di regole-quadro per la dominante società civile. Un quinto significato assume più un carattere geografi-

co, e riguarda quindi la fissazione dei confini estremi entro cui si è sviluppata la cultura unitaria, i conflitti tra popoli, ecc. È chiaro che qui ci riferiamo ai confini estremi costituiti dall'Oceano Atlantico a quella esile catena montuosa costitutta dagli Urali, che divide due pianure immense. Il sesto significato considerato vede l'Europa come una famiglia comune nella quale (in questa famiglia comune) si sono succeduti nel tempo chi comandava e chi obbediva. L’Europa perciò è vista come una lunga, lunghissima, millenaria saga familiare: la saga come metafora di successione di un’infinita catena di generazioni. E naturalmente in ogni famiglia, . per ogni generazione, vi è una generazione che comanda, altre che comandano un po” meno, altre che obbediscono: vi sono i vecchi patriarchi, vi sono i figli adulti, vi sono i fratelli (piccoli e grandi), vi sono i bambini; e poi vi sono gli uomini,

vi sono le donne. Proprio come metaforicamente nella famiglia europea vi sono gli stati-nazioni «patriarchi», vi sono gli stati medi collegati (cinghie di trasmissione anche), vi sono gli stati medi recalcitranti (l’oppositore o la «pecora nera»), vi sono i piccoli stati; vi sono gli stati politico-guerrieri, vi sono gli stati pacifici, vi sono gli stati dediti al commercio e alle attività economiche, e così via: questo può essere un nuovo

specchio dell’Europa passata per i tanti secoli della sua vita. 237

Il settizzo significato che introduciamo nella nostra analisi è relativo all'Europa in quanto civiltà cristiana. Si tratta di una civiltà cristiana che si è espansa per tutta Europa per tante ragioni. Anzitutto perché si tratta di una religione (quella cristiana): 1) che serve a scardinare il potere delle classi dominanti; 2) che connette l’uomo con un Dio inter-

locutore diretto della persona stessa, anche se per certi aspetti con la mediazione della chiesa; 3) che favorisce il formarsi dell'idea che il rapporto uomo-Dio sia l’asse portante della società. Ciò significa che l’uomo: può ribellarsi anche allo stato, è legittimato a perseguire la via indicata da Dio direttamente (con santità) e anche con le proprie azioni, è convinto di essere depositario di propri diritti autonomamente dalle lealtà alla comunità locale, allo stato, alla chiesa,

è tentato di trasformare la sua prossimità e il contatto diretto con Dio in una sorta di propria sostituzione a Dio stesso (an-

che se un «Dio piccolo» padrone di sé dalla nascita alla morte). In quarto luogo questa specificità cristiana dell'Europa è stata sostenuta (soprattutto in passato) dalla «pulizia religiosa» verso quelle frazioni di popolazione che sono musulmane o con l'isolamento di altre frazioni che non si omologano al cristianesimo come è il caso degli ebrei. Al tempo stesso il cristianesimo, come religione che connette direttamente (pur con la mediazione delle chiese) l’uomo a Dio attraverso la fede e le azioni, si laicizza sempre più, e cioè l’uomo, e l’individuo come sua entità sociale e operativa, de-

ve riconoscere che tutti hanno il diritto di connettersi direttamente con Dio, e, dato che tutti agiscono nella società,

ognuno deve riconoscere che l’altro può leggere e agire questo fare il bene sociale secondo modalità ottimali (in quanto collegate direttamente a Dio). Ciò ha due conseguenze: la prima è che tale azione deve avere delle connessioni e dei contenuti direttamente collegati all’efficacia per la concretezza della vita comunitaria, della città e della società (e quindi

Dio rimane un riferimento ultimo e ideale in situazioni di vita quotidiana orientate da obiettivi intermedi solo indirettamente orientati a Dio); e la seconda è che, proprio perché ogni persona è collegata con Dio, può esprimere in maniera

originale e giusta l'approccio ai problemi sociali. In altri ter238

mini l’azione sociale ha un riferimento concreto solo indiretto con Dio, e tutti sono portatori di verità nell'azione so-

ciale che svolgono. La conseguenza è la laicità dell’azione sociale e politica, e il cristianesimo, che radica di sé l'Europa,

assume connotati esso stesso laici. D'altro canto ci troviamo di fronte a una proposta di civiltà cristiana per l'Europa, che nei secoli ha operato qui una sorta di pulizia religiosa rispetto alle altre religioni vicine, si è frazionato in tante modalità, e infine ha assunto connotati molto/abbastanza laici.

Ottavo e ultimo significato preso in considerazione consiste nell’indefinibilità e indicibilità, forse affettiva, per /E-

ropa considerata «idea vaga». In questo caso «vago» può indicare un sentimento, incapace da dirsi, di affetto per l’idea d’Europa, perché è tutti o solo alcuni dei significati sopraddetti, ma anche altri che non si è in grado di dire. In tal caso

idea vaga può significare puro attaccamento, e quindi «rumore» emozional-valoriale, e ancor più contesto, arena e contenitore dove si trovano o si incontrano l'Europa come cultura, radici cristiane, espressione geografica, formazioni politiche, nucleo centrale di un più ampio raggio (l’Occidente), e così via. È chiaro che tale significato, proprio in questa funzione di contesto, di rumori dello sfondo emozionale, di indicibilità, potrebbe giocare un ruolo fondamentale

per capire l’attaccamento dei popoli europei all’Europa. 2. Intensità della condivisione dei significati per gruppi europei

I significati presentati sono dei significati reali? Troviamo risposte all’interrogativo, chiedendo agli intervistati dei nostri quattordici campioni etnico-culturali se sono moltoabbastanza-poco-niente d’accordo con ognuno dei significati.

2.1. I significati, in generale

,

La traduzione percentuale delle risposte assume la configurazione riportata nella tabella 1.

259

TAB. 1. Significati di Europa, secondo l'accordo delle minoranze e delle maggioranze Significati: l'Europa è

% di molto/abbastanza d’accordo



areadall’Atlantico agli Urali

7°.

civiltà cristiana

55,4



Unione Europea

53,8



famiglia comune

Gilgil



Occidente

41,2



sopraffazione di alcuni popoli

35,1



realtà culturale unitaria

3207



idea vaga

28,3

Media generale dei significati

59,9

44,7

Le opzioni degli\intervistati (dal Friuli Venezia Giulia all’est) raggruppano le adesioni (molto e abbastanza forti) ai significati in due gruppi più un ultimo, più marginale, significato. Nel primo gruppo vi sono le delimitazioni geografiche (59,9%), poi la civiltà cristiana con tutti i caratteri da noi evi-

denziati (55,4%), l'Unione Europea come elemento politicoeconomico organizzato (53,8%), e infine la metafora biologico-generazionale e strutturata della famiglia comune (51,1%). I quattro significati configurano quindi una sintesi tra contenimento entro confini estremi, radici religioso-culturali, riferimento organizzato e radicamento macro-etnico parentale. Si tratta di una sintesi in quanto contiene elementi essenziali di una sorta di unità. Tale risultato ha un certo valore se considerato alla luce del preambolo della Costituzione dell'Unione Europea, in cui si trova il lungo dibattito sulle radici cristiane, che naturalmente la gente, sia essa cristiana

come ebrea (come vedremo nel campione di ebrei della provincia di Kharkiv) e musulmana (come vedremo nel campione di tartari della provincia di Tjumen), enfatizza. Il secondo gruppo contiene significati meno condivisi dei precedenti, i quali ruotano intorno al significato dell'Europa come Occidente (41,2%), come sopraffazione di 240

alcuni popoli sugli altri (35,1%), e come realtà culturale unitaria irradiata di volta in volta da alcuni paesi verso gli altri d'Europa (32,7%). Una prima generica interpretazione ci porta a conside-

rare che i tre significati sono in gran parte centrati sulle relazioni tra componenti interne all'Europa, e sui contenuti dialettici di tali relazioni: l'Occidente come punto di riferimento per tutto il resto d'Europa per i valori liberal-democratici, dell’individuo e dell’affluenza; la lotta di so-

praffazione tra i popoli europei; l’unitarietà culturale che è il risultato di globalizzazioni culturali diffuse relazionalmente da un punto (Italia, Spagna, Francia, Germania, In-

ghilterra) per tutti i paesi dell'Europa (attraverso la cultura delle élite e degli intellettuali). Infine, con minore condivisione, si trova il significato

dell'Europa come idea vaga, che dunque è meno sentita e meno scelta a interpretare l'Europa come rumore, contesto, indicibilità.

Al contrario i rispondenti alle questioni hanno espresso la propria definizione di Europa nei termini definiti dagli altri significati proposti. In altre parole tale significazione dell'Europa (ancora in questa interpretazione generale) è più esplicita, e in qualche modo fondata su elementi definibili, che implicita e vagamente e olisticamente riferita a elementi emozionali. 2.2. I significati, per le quattro regioni I 2.798 intervistati sono suddivisi in 14 campioni che appartengono a quattro regioni europee. La prima è interna

all'Unione Europea ed è italiana: il Friuli Venezia Giulia!; la vi

! La ricerca è stata finanziata dal Cnr e, nell’ambito del Dipartimento di Scienze dell’uomo dell’Università di Trieste, è stata svolta da una

équipe di ricercatori diretta da Alberto Gasparini, Giovanni Delli Zotti e Moreno Zago. Sono stati intervistati campioni di tre gruppi etnico-nazionali del Friuli Venezia Giulia: italiani (272 intervistati), friulani (141

intervistati), sloveni (187 intervistati) per un totale di 600 intervistati.

241

seconda regione è balcanica ed è inclusa nella repubblica serba: la Vojvodina”; la terza regione è inclusa nella repubblica di Ucraina: la regione di Karkhiv?; la quarta regione è inclusa nella Federazione Russa: la regione di Tjumen*. L’accordo (molto o abbastanza) degli intervistati sui si-

gnificati proposti possiamo riassumerlo nel seguente sistema di percentuali esposto nella tabella 2. Le condivisioni degli otto significati sono per alcuni abbastanza diffuse nelle quattro regioni, mentre eterogenee sono le condivisioni per altri significati. Quel che possiamo dire è che mediamente la condivisione da parte degli intervistati degli otto significati è generalmente molto alta in Vojvodina (il 61,8% in media condivide ognuno degli otto significati con un massimo del 71% e un minimo del 43,9%); è mediamente abbastanza alta nel Friuli Venezia Giulia anche se frastagliata (il 49,6% con un

massimo del 77,5% e un minimo del 29,1%); è abbastanza

bassa, anche se decisamente frastagliata, nelle regioni di Kharkiv (il 38,1% con un massimo del 57,9% e un minimo del 10,6%) e di Tjumen (il 36,1% con un massimo del 66,7% e un minimo LR 5,59%).

? La ricerca è stata svolta dall’équipe di ricercatori diretta da Miroljub Radojkovic e Srbobran Brankovié, nell’ambito dell'Istituto di Studi politici di Belgrado. Sono stati intervistati campioni di tre gruppi etnico-nazionali della Vojvodina: serbi (195 intervistati), ungheresi (222

intervistati), slovacchi (132 intervistati) per un totale di 549 intervistati. è La ricerca è stata svolta dall’équipe di ricercatori diretta da Vil Bakirov, nell’ambito dell’Università di Kharkiv. Sono stati intervistati campioni di quattro gruppi etnico-nazionali della regione di Kharkiv (Ucraina): ucraini (209 intervistati), russi (200 intervistati), bielorussi

(200 in-

tervistati), ebrei (200 intervistati) per un totale di 809 intervistati. 4La ricerca è stata svolta dall’équipe di ricercatori diretta da Klara Barbakova, nell’ambito dell’Università di Tjumen. Sono stati intervistati campioni di quattro gruppi etnico-nazionali della regione diTjumen (Federazione Russa, Siberia): russi (265 intervistati), tartari (258 intervistati), ucraini (181 intervistati), caucasici (136 intervistati) per un totale

di 840 intervistati.

242

TAB. 2. Significati di Europa, secondo le regioni Significati: L'Europa è

% di molto/abbastanza d’accordo nelle regioni Friuli-VG

Vojvodina

Kharkiv

Tjumen

In generale

TO)

71,0

SI

66,7

599

58,2

67,9

DIO:

42,0

55,4

3° Unione Europea (Ue)

48,5

60,0

DD

51,8

53,8

6° famiglia comune 1° Occidente

60,1 49,7

69,3 63,6

525 SI

Su 5,6

5 412

5° area Atlantico-Urali - 7° civiltà cristiana

2° sopraffazione di 38,8

43,9

10,6

52,6

B5l

4° realtà culturale unitaria

alcuni popoli

29,1

63,3

41,9

515)

324]

8° idea vaga

852

DDI2

ZI

1047

28,3

Media generale dei significati

49,6

61,8

38,1

36,1

44,7

In realtà, ciò può voler dire che tutti i significati sono condivisi (anche quello dell'Europa come idea vaga) oppure che vi è una selezione tra questi significati. Per leggere tali tendenze dall’alto o al basso, e considerando che sono

dovute anche a una cultura della positività generica o alla negatività altrettanto metodologica quanto culturale, possiamo rapportare ognuna di queste percentuali di condivisione (molto/abbastanza d’accordo) alla percentuale media della stessa condivisione, ponendo tale percentuale media - uguale a 100. Il risultato della precedente tabella (tab. 2) può essere quindi trasformato nella tabella seguente (in cui, come sopra detto, ogni percentuale è rapportato al 100 della media) (tab. 3). Ilrapportare (e quindi lo standardizzare) a 100 le condivisioni verso i significati d'Europa offre il vantaggio non indifferente di rendere comparabile ogni percentuale di significato condiviso per le regioni considerate. E ciò perché tutte le percentuali hanno una nuova media che è 100, e ognuna di esse è da leggere come discostamento (in più o in meno) da 100. Una prima lettura dei dati possiamo svolgerla per ognuno dei significati. 243

TAB. 3. Significati di Europa, secondo le regioni e la media = 100

Significati: L'Europa è

% standardizzata della condivisione (molto/abbastanza d’accordo) li-VG

Friu-

Vojvodina

5° area Atlantico-Urali

156,3

114,9

86,9

184,8

134,0

7° civiltà cristiana

[Mo7z5:

109,9

152,0

116,3

123,9

97,8

971

146,2

143,5

120,4

84,8

142,1

114,3

15,5

So

3° Unione Europea (Ue)

6° famiglia comune

ZI

112,1

1° Occidente

100,2

102,9

2° sopraffazione di

alcuni popoli

4° realtà culturale unitaria 8° idea vaga Media = 100

x

Kharkiv

52

Tjumen

In generale

78,2

71,0

27,8%

Dro

78,5

58,7 71,0

102,4 89,3

110,0 572

ISÒ2 SO:

73,2 63,3

100,0

100,0

100,0

100,0

100,0

(49,6)

(61,8)

(38,1)

(36,1)

(44,7)

Così appare che l'Europa è significata dalle sue delirz:tazioni e dai confini esterni (Atlantico e Urali) anzitutto da-

gli abitanti di una regione estrema all'Europa come è la parte siberiana dell’euroasiatica Federazione Russa: infatti a Tjumen la percentuale è uguale a 184,8%; e in secondo luogo è significata da questi confini dagli abitanti di una regione interna alla vecchia Unione Europea come lo è il Friuli Venezia Giulia con il 156,3 %. E notevole che una re-

gione esterna ed una integrata all'Europa percepiscano l'Europa allo stesso modo, mentre per le regioni di mezzo (Vojvodina e Kharkiv) ciò non accade, il che indica due

modalità convergenti di leggere (esterna e interna) i confini e la capacità di questi di delimitare l'Europa. L’Europa come civiltà cristiana è al di sopra della media (uguale a 100) in tutte le regioni, segno che vi è diffusione omogenea del significato dell'Europa, con un’accentuazione in Ucraina (152,0%) dove è diffuso il cristianesimo orto-

dosso ma questo vale anche per gli intervistati non cristiani quali sono gli ebrei, la cui condivisione di Europa come civiltà cristiana è la più alta fra tutti e quattordici i campioni

244

(165,3%). Ma considerano civiltà cristiana l'Europa anche i tartari di Siberia. L’appiattimento dell’Europa sull’Uzione Europea (CeeUe) è più condiviso dalla popolazione dell'Ucraina (146,2%) e della Siberia (143,5%) che non da gruppi etnici e nazionali interni o in prossimità dell’Unione Europea: ciò può essere letto come un’enfasi da scarsa conoscenza di cosa sia e significhi appunto l'Unione Europea. Una cosa simile si ha per quanto riguarda l’identificazione dell'Europa con Occ:dente, che è sentita molto fortemente, forse con eccessiva

enfasi, dai gruppi che vivono nella parte orientale dell'Ucraina (Kharkiv appunto) (135,2%). Al contrario è decisamente bassa tale identificazione nei popoli considerati della Siberia (15,5%), indice di una non ben chiara idea di

cosa significa l'Occidente per chi è separato dalla parte europea della Russia e poi dall'Europa orientale. Il significato dell'Europa come farziglia comune è diffuso al di sopra della media di tutti i significati per Friuli Venezia Giulia e Vojvodina, ma è soprattutto valido per i siberiani (142,1%) e molto meno per gli ucraini (84,8%). Anco-

ra ci troviamo di fronte a contrapposizione tra chi legge l’Europa anche in termini biologico-generazionali (con la sorta di nativismo che ne consegue) (i siberiani) e chi al contrario la legge più come unità culturale (e nazionale) (gli ucraini). In effetti nella rilevazione dell'Europa come realtà culturale unitaria sono proprio gli ucraini a sentirla come un tratto caratteristico (110,0%), mentre ciò è molto meno sentito in

- Italia (58,7%) e soprattutto tra chi è meno preso da tale unità culturale come capita per i siberiani di Tjumen (15,2%). La sopraffazione di alcuni popoli sugli altri è centrale nei significati dell'Europa ancora una volta per chi legge l’Europa stessa dall’esterno, come i popoli della Siberia anche di origine europea quali russi, ucraini, caucasici e forse anche tartari (145,7%). Gli europei orientali, come i gruppi della regione di Kharkiv, sono quelli che meno di tutti enfatizzano questa sopraffazione di popoli (27,8%), segno che essi idealizzano il processo relazionale tra i popoli europei. . Infine l’idea di Europa come idea vaga è generalmente poco condivisa, ma anche in questo caso lo è ancora meno 245

nella regione di Tjumen (35,2%) e cioè qui manca l’idea di contesto, di rumore, di attaccamento emozionale che può giustificare l’indicibilità e la vaghezza dell'Europa. In sintesi dalle quattro regioni considerate sembra emergere una combinazione di diffusione di significati abbastanza diversificata. In Friuli Venezia Giulia i significati dell'Europa più riconosciuti (con picchi percentuali che si discostano dalla media (= 100) riguardano la delimitazione confinaria dell'Europa (dall’Atlantico agli Urali) (156,3 %), la famiglia comune

(121,2%), la civiltà cristiana (117,3%). Nell’area

balcanica (Vojvodina) sono riconosciuti un po’ tutti i significati proposti (eccettuato l'Europa come sopraffazione di popoli), ma con una condivisione che non si allontana dalla

media (peraltro già abbastanza alta). Per la regione di Kharkiv i significati prevalenti dell'Europa sono la civiltà cristiana (la più alta condivisione) (152,0%), poi l'aspetto politico dell’Unione Europea (146,0%), l'attrazione dell’idea di Oc-

cidente per l'Europa (135,2%), e poi l’unità culturale (110%). Infine i gruppi della regione di Tjumen elaborano un’idea di Europa in cui viene enfatizzata la sua delimitazione geografica che si conclude sugli Urali (184,8%), la sopraffazione di popoli che ha contrassegnato la storia europea (145,7%), l’esistenza di una famiglia comune con le metafore nativistiche implicatevi delle successioni generazionali (142,1%), e infine l’Europa come modello politico indicato dall’Unione Europea (143,5%).

In altre parole si configurano quattro modelli di significati, che dall’interno dell’Unione Europea al periferico e all'esterno enfatizzano: 1) il contesto, la religione e la metafora della famiglia (Friuli Venezia Giulia); 2) la combinazione di molti significati senza accentuati picchi di condivisioni (Vojvodina); 3) la civiltà cristiana come radice, l'Occidente

come riferimento e l'Unione Europea come modello politico (Kharkiv); 4) il confine che separa (Atlantico-Urali), la so-

praffazione di popoli, il nativismo della famiglia, il modello politico dell’Unione Europea, e cioè una sintesi di significati che si compongono a indicare l'Europa come un qualcosa di ben «confinato», definito da elementi relazionali (sopraffazione) e biologici (metaforizzati) e poco culturali (Tjumen). 246

2.3.I significati, per i gruppi etnici

C'è un’altra prospettiva da cui possiamo vedere i significati attribuiti all’Europa, ed è quella che riguarda i gruppi etnici. Simile prospettiva è rilevante, in quanto connette il micro nazionale con il macro nazionale, e si sa che nella storia e nella teoria vi è sempre stata una sorta di attrazione

tra questi due estremi, dovuta al fatto che il macro, in cambio della lealtà, ha sempre riconosciuto larga cittadinanza al piccolo e ad ogni modo ha ristretto la propria espansione ad alcuni aspetti, valori e regole generali lasciando ampio spazio interpretativo e attivo al locale. E un po’ la logica della cultura diffusa per grandi spazi che è forte ma che si limita alle aree del coordinamento, del riferimento, dello

sprone, della legittimazione del dominio e quindi si arrocca

in una sorta di cultura debole; ed è la logica della cultura dei gruppi etnici circoscritta ai piccoli spazi che è debole in quanto non pretende di imporsi ad altri vicini e contermini, ma proprio da questo understatement trae la forza di essere largamente condivisa in loco. È un tipo di relazione tra macro e micro che trova rinforzo reciproco in funzioni che si rendono complementari. Ed è un tipo di relazione ben diverso da quello che è intercorso, e che ancora intercorre, tra il meso nazionale (dello stato nazionale) e i gruppi etnici in cui si articola, in cui prendono il sopravvento la competizione e le paure (più o meno dicibili) che il piccolo etnico metta in crisi il meso nazionale, e il meso nazionale metta in

‘ pericolo il piccolo etnico, attentando così alla sua legittimazione del dominio e della libertà delle azioni. Da queste premesse, è nata la suddivisione dei quattro campioni regionali indagati in alcuni campioni di gruppi etnici significativi per le realtà analizzate. Per il Friuli Venezia Giulia sono stati studiati campioni dei gruppi etniconazionali italiano (maggioranza), friulano (maggioranza locale ma minoranza nazionale), sloveno (minoranza etnica

con un stato nazionale sloveno oltre il confine italiano). Per la regione Vojvodina i gruppi riguardano la maggioranza serba, e le minoranze ungherese e slovacca. Per la regione di Kharkiv (Ucraina) i gruppi comprendono la maggioran247

za ucraina e le minoranze russa, bielorussa ed ebrea: è stato

compreso anche quest’ultimo gruppo in quanto gli ebrei sono numerosi, organizzati e con forte sentimento di appartenenza. Infine della regione di Tjumen (Siberia della Federazione Russa dell’area dell’Ob/Irtish) sono stati considerati quattro gruppi: uno della maggioranza russa e i gruppi

minoritari dei tartari, degli ucraini e dei caucasici?. Di tali gruppi solo i tartari sono sostanzialmente autoctoni, anche se non tutti, mentre gli altri sono immigrati dalla Russia e,

dai tempi di Stalin, dall’Ucraina e dal Caucaso. Da un punto di vista culturale e soprattutto religioso, abbiamo quattro gruppi che sono decisamente cattolici (italiani, friulani, sloveni, slovacchi), un altro a maggioranza

cattolica con presenze protestanti (ungheresi), sei decisamente ortodossi (serbi, ucraini di Ucraina, bielorussi di Ucraina, russi di Ucraina, russi di Siberia, ucraini di Siberia), uno cristiano con presenza musulmana

(caucasici), e

infine il gruppo tartaro a maggioranza musulmana. Come si può osservare, le pluralità culturali esistono, e ciò può essere un elemento molto prezioso per meglio comprendere i significati dell'Europa indagati. I dati a disposizione li ordiniamo ancora una volta secondo la percentuale standardizzata intorno a 100: ricordiamo ancora che tale metodo permette la comparabilità tra i quattordici gruppi etnici (cfr. tabella 4). I dati suggeriscono alcune considerazioni che possiamo riassumere nei punti seguenti.

1) L’attribuzione di importanza (molto/abbastanza) data dagli intervistati agli otto significati considerati è in generale molto diffusa, ma è più elevata (in quanto superiore alla media uguale a 100), in tredici gruppi etnico-nazionali su quattordici, per l'Europa come civiltà cristiana. Solo per i serbi la percentuale di questo significato è più bassa a 100 (cioè è uguale al 96,2%), mentre per gli ebrei (non cristiani) è uguale al 165,3% e per i gruppi ortodossi ucraini e ortodossi tale percentuale è pure molto alta (dal 154% al ? I caucasici intervistati comprendono 56 georgiani, 39 azeri,23 armeni, 11 ceceni, 4 ingusci, 3 osseti.

248

118,4%), poi vengono i gruppi etnici musulmani (tartari e in parte caucasici). Come si vede la civiltà cristiana è enfa-

tizzata dai non cristiani (ebrei) come riconoscimento di una situazione, poi dagli ortodossi e dai cattolici in i quanto gruppi interni al cristianesimo. Dopo il riconoscimento di questo carattere BARI vengono, per diffusione maggiore, / significati politico-geografici di Europa come Unione Europea e di Europa dal l'Atlantico agli Urali: infatti undici gruppi si collocano in una posizione superiore a 100, mentre solo tre al di sotto. È rilevante notare che questi gruppi che attribuiscono minore rilevanza all'Europa come Unione Europea sono o gruppi già entrati nell'Unione Europea, come italiani, friulani italiani e sloveni, od anche i serbi che ne sono ancora lontani anche se

balcanici. Per quanto riguarda invece l’Europa dall’ Atlantico agli Urali si trovano nell’alta concordanza o nella bassa concordanza i gruppi che vivono ai margini o immediatamente al di fuori di questa definizione geografica: per i gruppi siberiani questo è un valore discriminante l'Europa, per gli ucraini al contrario questo non è valore rilevante. Altro valore largamente diffuso (percentuale superiore a 100) a molti gruppi (dieci sui quattordici gruppi) riguarda l'Europa come famiglia comune, un significato, come detto altre volte, più biologico e nativistico degli altri. E tale significato è affermato in particolare da tartari (164,4%) e dai gruppi siberiani insieme ai gruppi etnico-culturali friulani e sloveni. I significati di Europa come Occidente e di Europa come realtà culturale si distribuiscono intorno alla media (100,0%),

con gli ebrei e le minoranze ucraine che condividono molto tali significati, e con i gruppi siberiani che condividono meno gli stessi valori. Infine l'Europa come idea vaga è condivisa più da serbi e caucasici e meno da tutti gli altri gruppi: mentre l'Europa come sopraffazione di popoli su altri è una costante riconosciuta più da chi sta oltre gli Urali (i siberiani, appunto) e meno da tutti gli altri gruppi con gli ebrei che solo per il 16,5% rispetto alla media di 100 attribuiscono rilevanza a tale significato. 249

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2) Un secondo aspetto da considerare è che i tre gruppi del Friuli Venezia Giulia si collocano in una posizione intermedia nei significati attribuiti all'Europa, ed anzi meno degli altri gruppi interpretano l'Europa come Unione Europea. Ciò indica come i significati riservati all'Europa abbiano un carattere più culturale che politico. Anche i gruppi della Vojvodina enfatizzano meno di altri gruppi regionali i significati detti dell'Europa, salvo che per l'Europa come idea vaga, e cioè come rumore, contesto, indicibilità (in particolare serbi e slovacchi).

I gruppi che invece si collocano agli estremi della rilevanza attribuita agli otto significati sono i gruppi ucraini e i gruppi siberiani. Gli ucraini (ucraini, russi, bielorussi, ebrei)

enfatizzano i significati dell'Europa come Occidente, realtà culturale, civiltà cristiana; mentre enfatizzano meno l’'Eu-

ropa come sopraffazione, dall’Atlantico agli Urali, famiglia comune. Anche i gruppi siberiani (russi, tartari, ucraini, caucasici) mostrano tali divaricazioni di enfasi, ma in senso

complementare: per essi l'Europa è soprattutto sopraffazione, Unione Europea, dall’Atlantico agli Urali, famiglia comune; mentre l'Europa è meno Occidente, realtà culturale,

idea vaga. Abbiamo già, di volta in volta, provato a dare un senso a questi orientamenti. 3) Tutto ciò non deve però essere interpretato come as-

senza di differenze (statisticamente) significative tra i gruppi etnici regionali. Lo dimostra il fatto che proprio nell’incrocio delle percentuali di adesione ai significati per i gruppi etnici di ognuna delle quattro regioni, il «chi quadrato» (x?) indica una

differenza significativa (tra distribuzione

teorica ed empirica) per sette significati su otto (eccettuato:

Europa come realtà culturale) tra i gruppi siberiani (russi, tartari, ucraini, caucasici); per cinque significati su otto (ec-

cettuato: Europa come Occidente, dall’ Atlantico agli Urali, civiltà cristiana) tra i gruppi della Vojvodina (serbi, ungheresi, slovacchi). Per i gruppi del Friuli Venezia Giulia (italiani, friulani, sloveni) e dell'Ucraina (ucraini, russi, bielo-

russi ed ebrei) invece le distanze significative tra i gruppi stessi riguardano rispettivamente solo due e tre significati. In particolare i friulani enfatizzano l'Europa più come so252

praffazione che non gli italiani, e gli italiani enfatizzano più l'Europa dall’Atlantico agli Urali che non i friulani. Come interpretare tutto ciò, e in particolare le differenze tra i gruppi della Vojvodina e della Siberia? Una prima e generica considerazioneè che all’interno di queste regioni le etnie considerate hanno sviluppato delle sensibilità, delle «conoscenze» e degli approcci all'Europa fortemente articolati, nonostante il loro mostrarsi relativamente omogenei rispetto alle etnie delle altre regioni e parti dell'Europa. Così nella Vojvodina si osserva una certa divaricazione di attribuzione di significati all'Europa tra ungheresi e serbi; mentre in Siberia la divaricazione si osserva tra russi e ucraini nei confronti di tartari e caucasici. È evidente che un approfondimento ci porterebbe ad enfatizzare tra le variabili esplicative quelle relative alla storia, ai rapporti consolidati tra gruppi, alla religione, alla cultura. 3. Indipendenza e interdipendenza reciproca dei significati dell'Europa

A questo punto si può concludere l’analisi dei significati dell'Europa, partendo dalla constatazione che i significati in realtà fanno parte di un insieme integrato di segni qualificanti un concetto e una cultura. Ciò vuol dire che anche gli otto significati considerati, si possono raggruppare in insiemi più generali, i quali configurano dei significati più comprensivi di ognuno degli stessi singoli otto significati. . Possiamo individuare tali insiemi-fattori sottostanti ricorrendo alle correlazioni tra i significati e poi ai fattori emergenti dalle analisi fattoriali svolte a livello delle quattro regioni e dei quattordici gruppi etnici. Alcuni risultati sono riassunti nella figura 1, in cui sono riportati i contenuti dei primi tre fattori per ogni regione, e poi per ognuno di que-

sti fattori viene riportata la potenza esplicativa (varianza spiegata) ed entro ognuno di essi vengono considerate le correlazioni tra i significati che compongono il fattore stesso. Al di sotto dei singoli significati vi sono delle dimensioni/fattori variabili, che indicano come l'Europa stessa vie259

ne percepita, interpretata, vissuta nelle sue tante aree geogra-

fiche. Si tratta di dimensioni concettuali essenziali che localmente si arricchiscono di combinazioni segniche particolari. Le dimensioni dei significati nelle quattro regioni riguardano anzitutto (prizza dimensione) una sorta di identificazione tra Europa come Occidente e come Unione Euro-

pea, e quindi tra forze di organizzazione politica e di un nucleo centrale e autorevole della medesima Europa. La seconda dimensione è rappresentata dall’identificazione dell’ Europa come civiltà cristiana e come unità culturale comune: la correlazione significativa tra i due significati, che in Vojvodina e a Kharkiv è particolarmente alta (r = 0,43 e 0,34 ri-

spettivamente), sta a indicare che la civiltà cristiana attenua la sua valenza religiosa per fondersi in una comune realtà culturale dell'Europa. Una terza dimensione concettuale è data dal fatto che i significati dell'Europa come sopraffazione di popoli sugli altri, di sua estensione dall’Atlantico agli Urali, come idea vaga si trovano strettamente interconnessi

fino a comporsi in un significato più ampio: l’idea vaga di Europa in realtà è un contenitore di idee dell'Europa di carattere spaziale e geografico e di popoli che storicamente sono stati in conflitto e in stato di sfruttamento. Il rumore del-

l’idea vaga che avevamo evocato all’inizio per definire questo significato di Europa in verità è contesto socio-spaziale più che indicibilità di emozioni. In sintesi dunque vi sono tre dirzensioni sottostanti ai

significati di Europa reciprocamente indipendenti nell’ambito di ognuna delle regioni e comuni per le quattro regioni europee ed extra-europee: la pri7z4 dimensione è /aico-politica (Occidente e Unione Europea); la seconda dimensione è culturale in cui la comune cultura è individuata nella civiltà cristiana; la terza dimensione, pur’essa indipendente dalle altre due, è socio-spaziale del contesto generico e vago (sopraffazione di popoli sugli altri, dall’ Atlantico agli Urali, idea vaga). Le dimensioni dei significati sono indipendenti (in quanto emerse dai fattori di ogni regione), il che vuol

dire che il cittadino europeo ha visioni moderne e poco comunicanti nell'azione concreta e nei modi di pensare e vivere l'Europa stessa, e riguardano /a politica e la vita quoti254

diana, la cultura e l'identità, il contesto socio-spaziale europeo. D'altra parte le correlazioni tra le variabili che compongono ognuna delle dimensioni di significati sono molto alte. Se esistono le tre dimensioni generali di significati nelle regioni considerate, in ogni realtà regionale presentano intorno alla comune struttura dei significati dei rapporti privilegiati con altri significati, in modo da formare delle configurazioni molto specifiche per ognuna delle stesse quattro regioni. E opportuno (continuando a leggere la figura 1) enucleare i caratteri principali di ognuna di queste configurazioni specifiche. Tali specificità vedono ai due estremi il Friuli Venezia Giulia e Tjumen, e intermedie, e abbastanza simili,

la Vojvodina e Kharkiv. Per i residenti (italiani, friulani e sloveni) del Friuli Ve-

nezia Giulia il fattore più importante mette in correlazione e distingue dagli altri significati quelli connessi alla politica e alla vita quotidiana (Europa come Occidente e come Unione Europea: r = 0,35), che però vengono strettamente integrati nella realtà culturale comune dell’Europa (r = 0,39

con l'Unione Europea e 0,23 con l'Occidente). Ciò è interessante in quanto indica che: 1) Occidente ed Unione Europea sono un tutt'uno con la dimensione culturale di Europa; 2) tale immagine culturale è piuttosto scorporata dall’idea di Europa come civiltà cristiana. Questa (civiltà cristiana) al contrario (fattore secondo) assume più un significato di radicamento a una metaforica famiglia comune, che si colloca nello spazio compreso tra Atlantico e Urali. In altri - termini la civiltà cristiana risulta più connessa ai significati dell’appartenenza ascritta della famiglia che non dell’appartenenza di un’unica grande cultura, con i valori, gli oggetti e le norme che denotano quest’ultima. Infine sia l’Europa come sopraffazione di popoli che come idea vaga sono isolati (indipendenti) in un «non fattore» qual è il terzo: in effetti questo, oltre a spiegare solo il 13,5% di varianza totale, colloca in una dimensione indipendente dalle altre dimensioni due significati che per questi residenti italiani hanno ben poco in comune (r = 0,08).

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In sintesi nel Friuli Venezia Giulia, unica regione inter- . na all’Unione Europea, i due fattori politici e spaziali (primo e secondo) si arricchiscono di valenze culturali, le quali si identificano meno con la civiltà cristiana, in quanto questa è frutto soprattutto di un’anima ancora più profonda qual è quella denotata dalle relazioni riproduttive (della personalità e dell’uomo sociale) rappresentate dalla famiglia (anche se in questo caso l'Europa non può che essere famiglia in senso metaforico). La sopraffazione di popoli infine è molto labilmente collegata all’idea vaga di Europa. Vojvodina e Kharkiv, abbiamo già detto, presentano una struttura di significati indipendenti molto. simili, sia per quanto riguarda il primo, il secondo e il terzo fattore: nel primo fattore vi è la sopraffazione di popoli fortemente connessa con l’idea vaga di Europa; nel secondo fattore vi è l'Occidente connesso all'Unione Europea; nel terzo fattore vi è la civiltà cristiana connessa alla cultura comune. In verità anche per queste due regioni la gente percepisce tale struttura dei significati con intensità significativa del legame (correlazione) tra i significati stessi, ma combina

i medesimi significati in aggregazione un po’ diversa. Anzitutto osserviamo che è in Vojvodina che le variabili all’interno di ogni fattore sono molto correlate: tale correlazione (r) si aggira frequentemente tra lo 0,50 e lo 0,43; mentre in Kharkiv le correlazioni più alte sono comprese tra lo 0,41 e lo 0,34. Ma, ancor più rilevante è che il significato di Europa come famiglia comune, in Vojvodina va a rinforzare l’idea di Europa come sopraffazione dei popoli e idea vaga, con ciò enfatizzando le relazioni asimmetriche e dialettiche che esistono tra le generazioni della famiglia (soprattutto tradizionale). All’opposto in Kharkiv l'Europa come famiglia comune va a rinforzare l’idea di Europa come civiltà cristiana e realtà culturale unica, con ciò enfatizzando la

profonda realtà emozionale e di formazione dell’appartenenza sociale dell’individuo che la famiglia elabora e soprattutto ha sempre elaborato. Da ultimo le dimensioni indipendenti (fattoriali) dei significati dell'Europa vissuta da russi, tartari, ucraini, cauca-

sici della regione di Tjumen sembrano enfatizzare delle «vi258

ste» dall’esterno sull'Europa, e cioè dalla Siberia, e quindi

abbastanza differenti dalla «vista» interna dei residenti del Friuli Venezia Giulia. Così, anzitutto, i veri fattori (dimensioni indipendenti)

sono nella realtà due, e non tre, perché il terzo fattore è composto da un unico significato che è l'Unione Europea: è un significato «muto» e che non si collega a nessuno degli altri sette. In secondo luogo il primo fattore collega fortemente (r = 0,48) l’idea di Europa come Occidente all'idea vaga di essa: e quindi «idea vaga» sembra significare nulla (non emozionalità, rumore) se non Occidente e contesto di questo Occidente. In terzo luogo gli altri cinque significati si compongono in un’unica dimensione/fattore indipendente (fattore secondo), ma con legami reciproci (correlazioni) molto modesti, e che spingono a un’interpretazione nuova dell’idea di Europa come sopraffazione di popoli. Infatti tale sopraffazione di popoli su altri popoli non è tanto legata all'Europa come idea vaga quanto alle relazioni asimmetriche esistenti nell’ambito della famiglia (comune) (r = 0,13) e in particolare alla civiltà cristiana (r = 0,17), interpretata perciò come un contesto ideologico, e alla cultura comune (r = 0,11), che ha fatto da supporto e da cemento alla sopraffazione di popoli forti su popoli deboli. In altri termini, nei gruppi di Tjumen appare che a una «vista» sull'Europa dall’esterno (fattore primo) si accompagna un'immagine stereotipata di significati utilizzati per significare l'Europa al di là degli Urali, dove si individua ‘una sopraffazione di popoli, una civiltà cristiana, una famiglia comune, una cultura unitaria, uno spazio che comincia

dall’ Atlantico e finisce sugli Urali. Potremmo concludere il discorso fin qui fatto, approfondendo l’analisi anche per i singoli quattordici gruppi etnici. L’economia dello scritto e del libro in cui è inserito consiglia di non sviluppare tale analisi molto puntuale per etnia, e quindi possiamo solo richiamare nelle linee generali come gli otto significati d'Europa si combinano in fattori/dimensioni indipendenti. La figura 2 indica come si sviluppano le combinazioni binarie (a due a due) dei significati. 259

Atlantico agli Urali

35,7%

42,9%

Occidente

bi

357% 50%

Famiglia comune

Sopraffazione

357%

35,7%

Civiltà cristiana

Unione Futopea

357% 50,7% Realtà culturale unitaria

\ Idea vaga

FIG. 2. Percentuale delle combinazioni a due a due tra significati in un qualsiasi fattore delle quattordici analisi fattoriali di altrettanti gruppi etnici.

La più diffusa combinazione di significati si ha tra Europa come Occidente e come Unione Europea: essa è affer260

mata da dodici gruppi etnici su quattordici, alta combinazione diffusa è tra l'Europa come sopraffazione di popoli e: 1) famiglia comune in dieci gruppi etnici; 2) dall’ Atlantico agli Urali in sei gruppi etnici; 3) idea vaga in sette gruppi etnici. Inoltre altra combinazione diffusa è tra l'Europa come civiltà cristiana e realtà culturale unitaria in otto dei quattordici gruppi etnici; dall’Atlantico agli Urali in sette dei gruppi etnici; famiglia comune in cinque dei gruppi etnici considerati. 4.

Conclusioni para-operative

L’Europa nei significati è stata individuata sia per l’intensità di ognuno di essi per le quattro regioni che per le quattordici etnie. E in secondo luogo abbiamo anche voluto indagare quanto tali significati siano interconnessi e quanto essi siano indipendenti. Possiamo concludere lo scritto, evidenziando l’utilità per la politica culturale che possono avere i risultati emersi dalla ricerca. Anzitutto conoscere quanto un significato è condiviso e quanto non lo è, è rilevante ai fini di orientare le azioni culturali o anche semplicemente conoscitive per rinforzare i singoli significati, se ovviamente vengono considerati positivi o per indebolirli ulteriormente quando non sono considerati positivi. Operata tale azione analitica, diventa rilevante sapere - come i significati si aggregano, si combinano o se essi sono

indipendenti, in quanto proprio da ciò possiamo renderci conto se l’azione culturale messa in atto per enfatizzare (o indebolire) un significato può avere un effetto di enfasi (o di indebolimento) su un altro o su altri significati di Europa. Conoscendo l’esistenza di combinazioni o di indipendenza tra significati, possiamo di conseguenza ancor meglio progettare e mettere in atto strategie più opportune, perché

l'Europa sia più Europa nella mente e nelle emozioni della gente di adesso e del futuro.

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CAPITOLO DODICESIMO

ITALIANI «URBANITI», ITALIA POLITICA E IL COSMOPOLITISMO

1. Premessa sull'Italia e sugli italiani

Cosa può succedere se rovesciamo la frase celebre di D'Azeglio affidata alla storia alla metà dell’Ottocento, trasformandola in «Gli italiani ci sono, a quando l’Italia?». Certamente all’indomani dei plebisciti l'élite cosmopolita che aveva fatto l’Italia nazionale, dato il momento, si trovava

ad avere tra le mani un giocattolo statale che bisognava riempire di gente che lo sentisse proprio. C'erano federalisti, legittimisti verso i propri monarchi, paesani che non avevano mai visto niente al di là del padrone, del parroco e del mercato, altri che conoscevano la storia che «I reali di Francia», le saghe di Orlando o i calendimaggio raccontavano loro come fossero gli antefatti delle grida lette dai banditori lungo le strade o dai parroci nelle chiese. L’élite cosmopolita, liberale e capitalista, che dialogava molto meglio con i francesi o con i polacchi («sangue polacco» afferma l’inno di Mameli!) o con gli ungheresi che non con i propri contadini o servi, era molto orgogliosa di questa Italia unita, che essa aveva costruito smentendo un’altra frase - celebre che impudicamente Metternich rilasciava alle agenzie di stampa: «L'Italia è un’espressione geografica». Eppure «L'Italia è fatta, adesso bisogna fare gli italiani» probabilmente per D'Azeglio era un’affermazione liberatoria, che esorcizzava anche il pericolo che l’Italia ridiventasse uN’espressione geografica. A distanza di centocinquant’anni dall’unificazione, restano ancora valide, pur reciprocamente escludentesi, le affermazioni di D'Azeglio e di Metternich? Cerchiamo la risposta, verificando se esistono finalmente gli italiani e se veramente l’Italia c'è. Un secolo e mezzo a vivere le stesse leg-

gi, le stesse opportunità ed obblighi indubbiamente ha ac263

comunato i tanti tipi di italiani residenti sotto differenti bandiere nel 1859. Li hanno creati i piemontesi comandati a gestire la burocrazia e a reprimere il brigantaggio nelle province meridionali, le guerre combattute nelle stesse trincee, la vita militare vissuta insieme nelle stesse caserme, i me-

desimi programmi scolastici, le migrazioni dal Sud al Nord di servitori dello stato e di servitori delle industrie del Nord,

i mass media nazionali con il linguaggio, i valori e gli stili di vita diffusi; ma soprattutto lo hanno fatto i valori della cultura urbana vissuti dalle élite che hanno fondato l’Italia e anche dalle élite che nell'Ottocento hanno contrastato il progetto. E tale diffusione della cultura urbana a tutte le classi, operaie e contadine, è stata mediata semmai da una fase di lotta per il proprio affrancamento da strutture di opposizione sociale attraverso l'adesione ai fenomeni collettivi delle leghe, dei sindacati (non solo rivoluzionari ma anche riformisti) e dei movimenti socialisti. E tutto ciò è avvenuto, nonostante Alfredo Niceforo vedesse nell'ambiente

e nel clima un fattore di differenziazione tra i caratteri dell’italiano del Sud e del Nord. Alla fine, e cioè con la ricostruzione dell’Italia dell’ulti-

mo dopoguerra (fenomeno largamente individuale), tutta la società italiana e tutte le classi sociali si sono convertite a quella cultura urbana, che, dal basso Medioevo, ha fatto sentire la persona, che aderiva alla città, libera, indipendente

da ogni appartenenza, fabbricatrice del proprio destino, e dunque individuo, uomo pieno. La società affluente e la società dei consumi hanno permesso di rifiutare, con grande forza, che i giochi fossero a somma zero, con il correlato che tutti guadagnavano dal gioco e, di conseguenza, tutti in qualche modo potevano essere uomini liberi (anche se con libertà a prodotti differenti) e individui, i quali esistono indipendentemente dallo stato, dalla nazione, dalla regione, dalla città.

2.

Gliitaliani che ci sono

Gli italiani dunque ci sono, e sono uniti dal sentirsi tutti individui, tutti liberi, tutti toccati da una scintilla di divini-

264

tà. A questo punto ci si potrebbe chiedere: che società può venire dall’accumulo di un infinito numero di monadi, ognuna proiettata a realizzare se stessa, nonostante tutto? Cercheremo di rispondere all’interrogativo, individuando altri esempi di società composte da individualità e soprattutto complicando il quadro che, come espresso nell’interrogativo, sembra essere troppo semplice. E possiamo fare tutto ciò, ponendoci domande e cercando di dare ad esse qualche risposta. Anzitutto: veramente l’individualismo è sempre e solo reazione individuale a una situazione di dominio altrui e vessatorio? Vi sono altri popoli individualisti che esprimono questo loro carattere in situazioni radicalmente diverse? Inoltre, l'italiano è veramente localista tutto cam-

panile e comunità paesana, oppure è un 772x di tante appartenenze che giocano ruoli culturali, politici, sociali molto differenti, non necessariamente sovrapposte, e che noi sbrigativamente unifichiamo nella categoria del localismo da contrapporre al nazionalismo? Infine, in che rapporto si collocano questi localismi e questo nazionalismo con l’universalismo, e quindi con quello che sta fuori dal locale e dal nazionale? 2.1. Popoli a cultura individualista A mio vidualismo - fronto con frontando

avviso, un modo utile per contestualizzare l’indidi un popolo lo otteniamo con il metterlo a conquello di un altro popolo, nel nostro caso congli italiani e gli americani: ambedue i popoli en-

fatizzano una cultura dell’individualismo, ambedue enfatiz-

zano le possibilità creative dell’individuo; ambedue, di conseguenza, mettono in risalto che esso può fare «grandi

cose», meglio dell’apparato pubblico, sia con il supporto della tecnologia che con il dominio lobbistico del pubblico, che può arrivare laddove il singolo individuo non può arrivare. Del resto, l’individuo ha pur sempre la possibilità di creare un’organizzazione adeguata all’obiettivo con la creazione di un’impresa produttiva. Certamente ambedue gli individualismi nascono da una fuga dalle rigidità del pote265

re: la fuga individuale dal potere vessatorio del feudatario verso la città medioevale in Europa, la fuga individuale dal potere vessatorio sociale e religioso dell'Europa verso gli spazi sconfinati dell’ America. Il risultato, negli Stati Uniti, è un paese che elabora l’ideologia del «sogno americano» (e dietro di esso l'ideologia calvinista), e che si oppone ferocemente all’invadenza dello stato nella vita quotidiana (ne ha saputo qualcosa Roosevelt mettendo in opera il suo New Deal!).

Il risultato, in Italia, è un paese che riprende l'ideologia dell’uomo libero della città medioevale-rinascimentale, rea-

lizza una perequazione verso l’alto delle condizioni di vita per dare corpo a questa ideologia dell’uomo libero urbano, e si oppone con lo «sberleffo» e con l’apertura verso l’esterno all’enfasi centralista dello stato imposta dalle condizioni (probabilmente imperative) di costruire l’unità del paese, nell’Italia della metà dell'Ottocento. Certamente una differenza tra individualismo italiano e individualismo statunitense sta nel contesto in cui essi nuotano e si irrobustisco-

no: da una parte si trova soprattutto la famiglia, dall’altra soprattutto il gruppo di pressione, l’associazione. Ma anche in questo caso possiamo cogliere la differenza, e dunque senza la necessità di ricorrere a valutazioni aprioristiche in termini di bene e di male, se facciamo un ragionamento socio-storico.

In Italia, il gruppo comunitario, il comparatico, la parentela, la corporazione o altro, sono crollati con il crollo

della società tradizionale, e non è rimasto nessun gruppo a sostituire quello precedente, poiché le forme di associazionismo moderno non sono riuscite a captare le lealtà precedenti e soprattutto, o di conseguenza, non hanno saputo «essere utili» per l'affermarsi dell’individuo. In queste condizioni l’unico elemento di supporto alla nascita dell’individuo è diventata la famiglia, che, però, ora non pretende lealtà e non la elabora in codici di difesa dell’onore e in una pretesa di appartenenza, anche, eventualmente, senza amore. Ora la famiglia per l'italiano è diventata (prima non era così) il sostegno per il formarsi delle doti dell’indipendenza creativa dell'individuo e il punto d’appoggio per sostenere i 266

passi concreti di questo suo affermarsi nelle prime difficoltà economiche, logistiche e strumentali. La famiglia italiana non pretende più niente dai suoi componenti, né di avere l’onore difeso né di essere affermata come appartenenza a una sequenza di generazioni (di bisnonni, nonni, genitori, e

poi ancora avi di un genere o dell’altro, e così via): la famiglia italiana crea quel contesto che in altre società è svolto dalle associazioni, dal piccolo e medio gruppo, e in altre ancora dallo stato assistenziale o dallo stato. organizzato. Per questa via l’uomo italiano, nella sua formazione e nella sua introduzione alla società, ha meno bisogno di altri uomini del pubblico e della società politica. Negli Stati Uniti è avvenuta una situazione analoga ma

anche un po’ diversa. Singoli individui abbandonano la famiglia di origine d'Europa per fuggire le vessazioni o la fame o per fare fortuna, ma una fortuna che, sanno, è tutta

sulle loro spalle; singoli individui vanno «alla conquista del mondo» seguendo il sogno che essi possono fare tutto e, una volta arrivati in America, ancora continuano ad andare

a conquistare «il mondo» dell’oro. Per far ciò, si costruiscono o enfatizzano alcune certezze: l’altro è importante o non importante in quanto individuo, e nonostante l’appartenenza ad un altro gruppo etnico. Su tale appartenenza etnica o religiosa c'è da «spegnere le luci» poiché la vera cultura è quella del 7elting pot, in cui tutte le razze si fondono e si riformano. È chiaro che questa è un’ideologia (di matrice protestante e calvinista), ma è altrettanto vero che

. essa viene a costituire il criterio per giudicare e il riferimento per il comportamento. Ciò che è meno influente è la protezione da parte della famiglia di origine, con cui sono stati rotti i ponti e dalla quale non vi è da aspettarsi amorevolezza perfino nei momenti bui degli impatti e, per proiezione, meno influente è anche la protezione della famiglia propria, perché questi sono uomini che.hanno respirato fin da bambini la cultura dell’avventura individuale. Ma poco importante è anche la protezione dello stato e del pubblico che non esiste all’origine delle cose (della città, dell'ordine sociale, e così via), e che dev'essere mantenuto debole, per-

ché così l’individuo si sente più libero. La conseguenza è 267

che bisogna lottare contro i tentativi di allargamento del potere statale, proprio perché si ha la possibilità di agire prima che lo stato allarghi le proprie funzioni. In ciò si distingue l’individualismo americano da quello italiano, in quanto quest’ultimo, nato entro una lunga storia di potere pubblico, non pensa che esso possa non esserci, e quindi sviluppa un atteggiamento ambivalente, di delegittimazione del potere pubblico (è solo prevaricazione) e di giustificazione dell’utilizzo privatistico di tale potere pubblico, conquistandolo e poi usandolo per i propri fini. In questo contesto italiano termini come «voltagabbana», «gattopardismo», «opportunismo» sono considerate categorie concettuali inadeguate a spiegare e coniate da altre culture, poiché in quella italiana esse si riferiscono semplicemente (e con connotazioni negative) alla volontà di utilizzare l’am-

biente, ciò che sta intorno a sé, per realizzare i propri individuali percorsi e traiettorie di obiettivi. Ci si può chiedere come resiste l’individualismo americano in assenza di un minimo di protezione, almeno nel momento della formazione dell’individuo, portata dalla famiglia o dal potere pubblico. In verità, le ricerche sul reed for achievement, svolte negli anni Cinquanta da David MacClelland, hanno mostrato che la spinta all’auto-realizzazione dell’individuo è molto forte nelle persone che hanno avuto una madre che li ha «amorevolmente» orientati a sviluppare una interna motivazione a realizzare degli obiettivi e delle mete. (Se ciò lo applichiamo agli italiani, dovremmo concludere che il, giudicato negativamente, «mammismo» sta alla base della loro creatività, forte motivazione, orienta-

mento a conseguire mete di autorealizzazione!). Ritornando all’individualismo degli americani, possiamo dire che, in linea di massima, se essi hanno svalutato la famiglia e il potere pubblico come agenzie di protezione, ne hanno inventato un’altra, nuova e moderna per quel contesto, rappresentata dalla piccola organizzazione. Questa non è la parentela o il comparatico della società tradizionale, ma è un associarsi di persone per realizzare specifici obiettivi, legati al tempo libero o al lavoro e agli affari, in cui l’espressivo e lo strumentale sono intimamente inter268

connessi. In altri termini, l’associazionismo, che serve per

«trovarsi bene» in una mini società formata da persone del proprio ceto ma anche per fare /obby, per organizzare pressione, per difendere i propri interessi, diventa l’elemento protettivo, composto di un 772x di elementi: il micro-sociale dominabile attraverso il quale passa l’aiuto a «te» e il «tuo» controllo di un mondo esterno che altrimenti sarebbe disordinato, in quanto già in partenza abbiamo rinunciato alla penetrazione «eccessiva» dello stato e della sfera pubblica. In sintesi, appare dunque che parlare di individualismo per gli italiani non significa denotare unicamente e negativamente la «personalità di base» di un popolo, perché: 1) vi sono altri popoli che elaborano personalità individualistiche ed ovviamente hanno elaborato delle forme di società,

delle organizzazioni del potere centrale e dell’assolvimento delle sue funzioni e dei rapporti con l'esterno che sono differenti e con risultati altrettanto vari; 2) la «personalità di

base» individualista più che essere un fatto negativo, per essere valorizzata al massimo ha bisogno di forme specifiche di governo della società e dello stato. 2.2. L'italiano come mix di appartenenze deboli Un altro interrogativo che ci siamo posti riguarda il supposto localismo degli italiani. Cosa significa localismo in questo caso? È attaccamento al paese o alla città o alla re. gione o alla nazione? Il luogo dell’uomo tradizionale è composto di punti contigui e con questi si produce una continuità dello spazio: esso è un luogo circoscritto perché i punti di localizzazione delle funzioni vitali, familiari, comunitarie, culturali,

relazionali sono talmente vicini e parzialmente sovrapposti da produrre una rete senza soluzione della continuità. Man mano che la tecnologia, le esigenze dell'economia e le relazioni mediate dai nuovi mezzi di trasporto permettono di accedere quotidianamente (o quasi quotidianamente) a spazi più ampi, lo spazio allarga le maglie dei punti fino a diventare un insieme di punti discontinui, reciprocamente di269

stanti, e sconnessi per quanto riguarda le reti relazionali create dalle differenti funzioni (produttiva, tempo libero, amicizia, acquisti, comunità, ecc.). E questo lo spazio mo-

derno della nazione, del mondo, ma anche della regione. Se questa è un’interpretazione corretta, nella quale abbiamo già cominciato a inserire il tradizionale e il moderno, con l'avvertenza tuttavia che elementi del tradizionale possono riaffiorare nel post-moderno ed elementi del moderno possono senz’altro impiantarsi in situazioni tradizionali, allora possiamo anche considerare tale localismo-continuità di punti e il suo superamento negli spazi a punti discontinui come due dimensioni (semmai collocate agli estremi di un continuum) di una stessa realtà. D’altra parte, anche questa discontinuità di punti, tipica della modernità, si è articolata in dimensioni sempre più vaste, poiché dalla comunità allargata a punti discontinui si è via via formata una città, una regione, uno stato-nazione, un mondo a punti funzionali, a loro volta sempre più discontinui; ed ognuna di queste dimensioni elabora una specifica appartenenza nell’uomo. L’individualismo italiano l'abbiamo visto nascere nella città, e perciò in un localismo che è cosmopolita, cioè in un luogo caratterizzato dall'incontro di persone che provengono da esperienze e culture differenti, e quindi in un luogo che è crocevia di interessi di persone appartenenti a ceti differenti e di persone che provengono da luoghi lontani e diversi per funzioni. In secondo luogo, l’individualismo italiano nasce dalla rielaborazione di un concetto di libertà e di creatività personale, il quale per formarsi ha bisogno di un contesto protettivo, che nel nostro caso è la famiglia, prima per le famiglie borghesi-patrizie, poi per quelle contadine piccole proprietarie, e infine per tutte le famiglie della società industriale e post-industriale; prima con la concettualizzazione della libertà-creatività dei figli perché non vi sono le condizioni di realizzarla per i genitori (esempio tipico è l'investimento sui figli della famiglia povera facendoli studiare), e poi con la concettualizzazione della propria libertà-creatività nell'ambiente relazionale della città. In tutte queste condizioni è evidente che la «personalità di base» italiana creata sull’individualismo, si forma e si esprime 270

ottimalmente nella città, e quindi in un microcosmo che non è più «comunità di sangue», anche se ne conserva alcuni caratteri, ma che non è ancora regione, nazione, ma piutto-

sto «pezzo» di mondo; in un microcosmo che permette alluomo di controllare informativamente e organizzativamente quello che gli è possibile «creare» direttamente. Il prodotto urbano di tale libertà e di tale creatività, d’altra parte, può diffondersi per tutto il mondo, permettendo anche la costruzione di grandi «imperi» economici in loco e per il mondo. Certo, una tale organizzazione della società riesce con difficoltà a produrre le infrastrutture e soprattutto non riesce a creare il coordinamento di tutto ciò che produce collegamento (strade, porti, e altro) così come, a stento, riesce a interpretare e a soddisfare i bisogni primari (che stanno alla base dell’auto-realizzazione), di questi uomini che vivono intensamente i valori della libertà e della creatività.

In ciò si incontrano il potere politico delle élite subite dall’ordine sociale fondato sull’individuo e le necessità che si assume lo stato moderno, dotandosi di amministrazione razionale e di welfare state. L'italiano dell’individualismo urbano si trova dotato, o

viene dotato, di un potere politico di piccoli stati, di entità regionali e con questi convive per molti secoli, in pratica dal Medioevo all’unità d’Italia, e vi si abitua. Con essi ela-

bora una propria cultura e soprattutto una storia e miti specifici; e alla fine accanto alla città, madre della propria li. bertà creativa, sviluppa un’identità e un’appartenenza regionale e micro-statale. In qualche modo ha ragione Metternich quando afferma che l’Italia è politicamente un’espressione geografica. Fin dal tempo di Roma gli abitanti della penisola sanno di abitare in Italia e di essere italiani (almeno le élite lo sanno e quelle dei conquistatori lo condivideranno dopo qualche decennio); e la stessa cosa sanno gli abitanti del Medioevo, del Rinascimento e dei secoli successivi.

La novità dell’Italia unita sta nell’aggiungere a questa coscienza culturale di essere italiani, anche quella politica e nazionale. A questa si unisce anche la novità che tutti gli abitanti d’Italia (e non solo le élite), alla fine del XX secolo, 271

prendono coscienza di essere italiani, e questo per effetto, insieme vita e simbiosi di vita vissuta da gente proveniente da tutte le parti d’Italia, dell'espansione della cultura urbana dell’individualismo a chi abita l’Italia, in quanto l’affluenza economica diffusa a tutte le classi sociali permette l’accesso e la condivisione di tale cultura urbana. In sintesi possiamo concludere che, se il localismo originario della città è il cuore ideologico del tratto culturale dell’italiano ed ha sviluppato una conseguente appartenenza, ad esso si sono aggiunte e saldate culture regionali elaborate nella lunga storia di piccoli e medi stati; e si è poi prodotta una grande spinta all’omogeneizzazione dei parlanti l'italiano nell’unico stato nazionale italiano, che, con

l’industrializzazione e la post-industrializzazione, è riuscito a costruire l'italiano attuale al quale forse aspirava D'Azeglio. Tali complessità hanno sedimentato, nella cultura dell’abitante della Penisola, molteplici appartenenze, di cui possiamo richiamare la rilevanza: quella urbana (anche se

del piccolo urbanesimo) quella regionale, quella nazionale ma anche quella della famiglia di origine (limitata alla generazione dei genitori). Si sa tuttavia che vivere dentro a molte appartenenze è sempre molto difficile, sia perché ve ne sono alcune più forti e altre più deboli e sia anche perché esse, nel loro insieme, devono essere comunque labili per permettere di entrarvi e di uscirvi a seconda dei molteplici contesti in cui l’individuo vive. A ciò dobbiamo aggiungere che proprio la cultura individualistica dell’italiano e la sua tendenza a delegittimare il potere pubblico, vissuto come «sopruso» da irridere o da utilizzare per i propri fini, tenderanno a far sentire più forte l'appartenenza a «micro» formazioni politico-sociali piuttosto che alle «macro» formazioni «invedibili» e «indominabili»: da questo deriva un maggior attaccamento alla città e uno decrescente verso la regione storica e ancora più verso la nazione.

Vi è infine un’altra ragione, più vera e più profonda, per la quale l'italiano sviluppa una debolezza verso qualsiasi appartenenza territoriale, sia essa urbana, regionale, nazionale. Tale debolezza la si osserva nella capacità dell’italiano di integrarsi in qualsiasi parte d’Italia o del mondo in 242

cui egli si sposti: vi si integra e sviluppa sentimenti di appartenenza anche intensi, salvo mantenere il legame con il luogo di origine, che tuttavia è più dovuto ai ricordi dell’infanzia e della giovinezza e ai genitori, che all’appartenenza al territorio e alla sua storia. La ragione di tale labilità delle appartenenze, in sostanza, è dovuta al fatto che l’elemento culturale di fondo che muove l'italiano è l’ideologizzazione della libertà e della creatività, e cioè la profonda convinzione che al di là, e alle origini, delle cose che valgono per sé sta il fatto di essere un individuo, che,

in quanto tale, pretende che gli venga riconosciuta una nicchia di originalità e di indipendenza tutta propria. 2.3. L'italiano per l’universale L’ultimo interrogativo sul quale vogliamo ragionare riguarda il rapporto tra l’italiano e l’universalismo. Tale rapporto esiste e possiamo esprimerlo nei seguenti punti.

1) La diffusività delle appartenenze per molteplici luoghi (il paese, la città, la regione, la nazione) fa sì che ognuna di queste, presa singolarmente, non sia vissuta con particolare intensità, e che nel loro insieme permettano l’attenuazione dei confini tra l’una e l’altra, la loro perforabilità e in fondo la conoscenza, vissuta, di ognuno dei mondi e delle culture che il paese, la città, la regione, la nazione implicano. Alla . fine, l'italiano domina bene i codici di comportamento e di comunicazione sui quali si fonda ognuna di queste realtà. La conseguenza ulteriore è che tale labilità e tale diffusività delle appartenenze generano una capacità, per analogia, a comprendere i codici e le culture degli altri paesi, città, regioni e nazioni (esterni all'Italia). E ciò sta alla base dell’universalismo, come capacità di muoversi in un campo di comunicazione molto vasto, differenziato e senza unicità di

attaccamento a un solo luogo spaziale e/o sociale. 2) Un'altra faccia di tale labilità e diffusività dell’appartenenza è la scarsa integrazione ad ognuna di esse, la quale poi si manifesta nella irrisione di chi prende troppo sul serio la 273

società e nella impermeabilità agli eccessi del nazionalismo autoctono (che diventa macchietta); e tutto ciò avviene perché la persona può vivere la libertà (può conservarla fino all’ultimo!), anzitutto di se stesso in quanto individuo. Anche per questo aspetto l’individuo italiano può osservare nella cultura degli altri un vestito, una curiosità, una sovra-

struttura al di sotto della quale esiste l’individuo. In tal senso l’universalismo si manifesta sotto forma di capacità di vedere gli altri al di là della loro cultura, e quindi nell’assimilare tale cultura alla cultura locale e come una variante della cultura più ampia che anche l’italiano ha contribuito a formare e al di sotto della quale sta l'individuo con i suoi comuni problemi della vita quotidiana e dei bisogni di vivere e di esprimere la propria unicità vera e creatività. Universalismo, dunque, perché al di sotto delle varianti culturali esiste l’uomo o, se vogliamo, l’individuo.

3) L'idea cristiana dell’uomo e l’idea cattolica del suo rapportarsi con gli altri, la società e il trascendente, anch'esse portano a sviluppare un’anima universalista nell’italiano. Questi vive la propria limitazione come tensione alla perfezione. Vita reale e vita ideale rappresentano un dualismo costante: l’uomo è peccatore ma al tempo stesso, con la riconciliazione con Dio (la confessione), si ricongiunge con l'ideale; l’individuo con i suoi sforzi quotidiani e la sua creatività fatti di tentativi e «a volte» di errori, orienta la

sua tensione verso la costruzione dell'ideale e del progetto perfetto. Tale dualismo si esprime in maniera più che evidente nella gestione della vita collettiva e dello stato: l’italiano come cittadino e come politico elabora dei modelli di soluzione dei problemi (sanitari, scolastici, legislativi) che sono perfetti e avanzatissimi, ma lo sono in modo talmente staccato dalle possibilità reali da divenire irrealizzabili. E di conseguenza, al di sotto di tale perfezione, la soluzione dei problemi generali è realizzata secondo le modalità del compromesso e semmai secondo modelli privatistici di chi imposta e soprattutto di chi gestisce tali modelli «perfetti». In questo ambito subentra una sconsolante auto-punizione, enfatizzata come incapacità di gestire le cose in grande, e di conseguenza come apertura («esterofila») alle altre società 274

e culture che riescono a realizzare dei modelli di soluzione non perfetti ma senz'altro alla portata di possibilità significative. Anche per questa via viene enfatizzato l’universalismo dell'italiano, sia come considerazione degli altri popoli sia come convinzione che l’individuo può essere il centro motore dell’ideazione e della gestione delle soluzioni dei problemi sociali, perché oltretutto questo individuo, se sbaglia, non fa mai un errore definitivo, ma può sempre farvi fronte in seguito, dato che egli poi orienta la tensione verso la realizzazione del modello perfetto. 4) Il significato dato al rapporto dei valori affermati dagli ordini politici e sociali tra la loro pretesa di assoluta validità per il futuro e la reale valenza come risolutori di problemi e di «felicità», è risolto dall’italiano in un modo ambivalente. E cioè, la non-convinzione dell’assolutezza di tali valori e la non-convinzione che questi possano risolvere interamente i problemi fanno sì che l’italiano guardi con disincanto a tale rapporto e a tali valori. In pratica, nella sua lunghissima storia, l'italiano ha visto passare tante idee di società «felici», ed esse sono tutte naufragate o si sono trasformate in tirannie o in dominazioni di potenti e prepotenti. Nell'ambito di queste esperienze, quella che rimane rafforzata è la necessità di vedere per tutto il mondo e per tutte le cose gli spezzoni di ciò che è buono (anche a livello

di cose micro-meso piuttosto che in quelle macro della società globale). Ciò porta ad affermare più che mai il valore della libertà dell'individuo, compresa la libertà estrema e . passiva di irridere e di mugugnare. Essa è una via ulteriore che porta a, o almeno rafforza, l’universalismo degli italiani. Si tratta di una libertà, d’altra parte, per la quale si direbbe che il rispetto per l'individuo è massimo. Nel positivo e nel negativo. Si attribuisce molta importanza al lasciare libero l'individuo perché realizzi al meglio la sua creatività, e lo si avverte, solamente, dei pericoli, senza niente imporre:

Luigi Barzini Jr. [1983, 178-179] giustamente scriveva che al passeggero dei treni italiani non si vieta di sporgersi, ma più semplicemente lo si avverte che «è pericoloso sporgersi». Tale orientamento al «non ordine» in qualche modo è pure istituzionalizzato, come si nota nella non regolamentazione del275

l’accesso all'università. L'italiano può accedere a qualsiasi facoltà (salvo in pochi casi per i quali è previsto il numero chiuso) e il completamento del corso di laurea scelto dipende solo dal giovane interessato: se fare molti esami, se farli in tempi brevi, se abbandonare anzitempo, ecc. E vediamo, da questo punto di vista, quanto siamo lontani dai sistemi universitari stranieri, in cui i giovani vanno avanti se sono accettati, anno per anno, dalla struttura. Anche in tal senso,

individuo e libertà sono regolati in maniera talmente universale, da sganciarli dalle strutture della nazione e dalle regole sociali. 3. Sull’Italia per l'italiano L’idea dell’italiano, del suo essere persona e individuo,

generata dai tempi lontani dei primi messaggi del cristianesimo che distingue per l’uomo la lealtà tra Dio e Cesare, e poi dal formarsi della città come luogo laico della libertà dell'individuo; ma anche dalla diffusione di queste personalità (soprattutto di quella urbana) dalle élite a tutta la socie-

tà italiana, ci ha portato a comprendere le ragioni dell’individualismo dell’italiano, delle sue pluri-appartenenze e della loro labilità a cominciare da quella nazionale, del suo rapporto nuovo con la famiglia, del suo conseguente atteggiamento universalistico. Possiamo molto schematicamente tradurre nei seguenti

termini la struttura concettuale dell’individualismo italiano. L’individualismo dell’italiano nasce dall’incontro delle tre seguenti convinzioni: 1) che una «cosa grande» si può fare, niente è escluso; 2) che una «cosa grande» per essere realizzata ha bisogno di creatività, cioè la propria; 3) che il pubblico o gli altri aggregati sociali non riescono a farla. A queste conseguono due idee subalterne: 1) degli altri non ci si può fidare, perché la pensano come te e si comportano come te; 2) il sociale non può che sfruttare, come si è visto nei potenti che hanno usato il sociale per realizzare propri interessi. Un’eventuale conseguenza per il rapporto con l’esterno è che ci si può rapportare al sociale in termini strumentali 276

per realizzare la «cosa grande» e i grandi progetti che sono utili per sé e per gli altri. Se consideriamo corretta tale interpretazione della personalità dell’italiano e degli italiani, allora possiamo domandarci: quale Italia è migliore per questi italiani che ci sono ora e come può funzionare per loro come individui e come insieme? Certamente l’Italia del futuro è da pensare per gli italiani di adesso e per i loro valori ed aspettative, e quindi non per un italiano di cent'anni fa o per un «italiano teorico», rinchiuso e «vessato» nei luoghi comuni, interpretati negativamente, dell’individualismo e del familismo da società

tradizionale. E per fare ciò, a mio avviso, è necessario pensare 4, e agire per, un'Italia, come del resto pensare 4, e agire per, delle organizzazioni che valorizzino le virtù dell’individuo/uomo: 1) orientando questo ai fini della società, 2) introducendo elasticità nelle interconnessioni tra le parti del sistema, 3) calando le sensazioni del lavoro fatto per il pubblico nelle intime soddisfazioni e motivazioni che dà il lavoro svolto per se stesso, nel privato. Possiamo chiederci se non bisognava fare ciò, e cioè valorizzare un’organizzazione elastica, in particolare nella gestione di quei settori delicati che sono direttamente connessi ai grandi valori e agli obiettivi sociali (servizi sociali, in

primo luogo) dello stato-nazione italiano, invece che centralistico, fin dall’inizio dell’unificazione nazionale nel 1860.

Probabilmente, in quel momento, con i pochi italiani «nazionali» dell’élite liberale e con i molti ancora fortemente leali - agli stati locali, la soluzione centralista, era l’unica via percorribile, per non avere qualche tempo dopo un'Italia rissosa e sempre sul limite del diventare una «espressione geografica». 3.1. L'Italia federale che avrebbe potuto essere, per dimostrare le molte possibilità di essere dell’Italia (nel passa‘ toe nelfuturo)

Possiamo esprimere la problematicità implicita nella soluzione federalista della metà dell’Ottocento, simulando cosa «verosimilmente» poteva succedere con un'Italia fedePAS

rale. Una tale simulazione del «futuro del giorno prima» [cfr. A. Gasparini 1993], nonostante una spessa considerazione negativa tra gli intellettuali, in quanto «la storia non si fa con i se», ha ormai una certa tradizione.

Certamente

questa è viva in studiosi di previsione come il russo Igor Bestuzhev-Lada che la chiama «futurologia retrospettiva» [1997], ma vi si sono avventurati anche storici come Fisher,

Trevelyan, Taylor. È la proposizione in italiano del libro curato da Squire Se la storia fosse andata diversamente. Esso è prefato da Sergio Romano, il quale parla di «storia virtuale». Perché avventurarsi in queste ricostruzioni possibili? Perché simuliamo una storia d’Italia federale? Vogliamo anzitutto riaffermare che la storia è un misto di progetto, di capacità di gestire il progetto e le relazioni tra le forze operanti in una situazione, ma pure di casualità anche minime, che stravolgono completamente la direzione della storia. Una morte improvvisa, l’interpretazione sbagliata delle intenzioni altrui, un ritardo nell’intervento, un piccolo disguido possono cambiare gli eventi, anche radicalmente. Possono avere un po’ ragione gli storici quando sostengono che sottostanti agli eventi contingenti vi sono le tendenze che connettono e uniformano i grandi movimenti storici, tuttavia questa giustificazione è tanto simile alla voglia dell’uomo e della società del presente di sentirsi il punto terminale di un processo lineare, naturalmente interpretato a posteriori. In altri termini, a mio avviso, è difficile sostenere

una «necessità» nella storia di un paese, e nelle relazioni tra le parti di un paese. Con la simulazione che segue vogliamo dimostrarlo, e contemporaneamente vogliamo «illustrare» ciò con dei fatti concreti (anche se immaginari). Possiamo dunque simulare come la storia d’Italia avrebbe potuto essere con l’adozione di una formula federale. Naturalmente, se, come illustriamo, tale formula porta l’Italia

sempre sull’orlo dell’«espressione geografica», non significa che la soluzione centralistica non sia immune da limiti, anche

forti. Per tutti pensiamo alla burocrazia centralistica, che non tiene conto dei bisogni delle tradizioni degli stati locali; ma in verità, forse, tale inefficienza della burocrazia, è anche

figlia della «personalità di base» dell’italiano, libera e creativa. 278

Partiamo dall’ipotesi che nel 1831 venga realizzata la formula federalista. L'Italia diventa uno stato monarchico federale retto da un re già capo di un piccolo stato come quello di Modena!. Il vantaggio di questa scelta è che egli non avrebbe potuto orientare l’unificazione verso gli interessi del proprio stato. Del resto Francesco I (IV come duca di Modena) d’Asburgo-Este, genero del re di Sardegna (Vittorio Emanuele I), austriacante ma amico di liberali, con Ciro Menotti primo ministro, e con rapporti privile-

giati con il Regno d’Ungheria, è percepito come garanzia per il potente vicino austriaco, e per altri stati, come l’Inghilterra: un’Italia così configurata può in futuro rendersi più autonoma dall'Austria e soprattutto quest’ultima non occupa direttamente il Lombardo-Veneto. La capitale nel breve periodo è fissata nella stessa Modena. Ogni stato italiano federato, mantiene la propria autonomia economica; le proprie leggi, la propria polizia, la propria amministrazione. Il problema sorge quasi subito, e si acuisce via via nei primi anni Cinquanta, con la formazione di un esercito comune per il quale ogni stato federato non vuole contribuire al di là della formazione di una guardia reale. Il Regno di Sardegna impone come capo del governo federale il «piemontese» Carlo Farini. D'altra parte l’Austria non si decide a ritirare le proprie truppe dal Lombardo-Veneto, mantenendo in tal modo una condizione di instabilità interna all’Italia. Anzi viene sempre più a crearsi un sistema di alleanze tra gli stati federati: gli stati filo-austriaci (Lombar- do-Veneto, Modena, Toscana), uno stato filo-inglese (Re-

gno delle due Sicilie), uno stato filo-francese (Regno di Sardegna) e infine Parma e il Papato equidistanti. Una prima crisi viene sventata quando scoppia la guerra fra Prussia e Austria-Ungheria nel 1866, nel corso della quale gli stati non-austriacanti vorrebbero liberarsi definitivamente dall’influenza austriaca su parte dell’Italia, La crisi precipita tuttavia quando il governo centrale cerca di impostare una politica nazionale che uniformi i modelli scolastici per tutti :! Questo del resto era il sogno di Francesco IV, che cercò di sondare attraverso Enrico Misley.

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gli stati federati, sia favorendo la diffusione della lingua italiana e abolendo i dialetti locali che ricostruendo la storia, i

miti e la coscienza in termini italiani più che di appartenenza ai singoli stati. Si opera una sorta di alleanza tra ceti liberali e ceti operai in contrapposizione a quelli tradizionali più leali ai singoli stati federati. Inizia un periodo di tensioni sociali, nel quale si verifica il tentativo del Regno d’Italia di staccarsi dall’alleanza troppo stretta con l’Austria. A questo punto tuttavia, siamo verso il 1880, appaiono

delle profonde spaccature tra gli stati federati, per le quali appare una sempre più marcata affermazione, e tentazione, di secessione da parte degli stati più grandi come il Regno di Sardegna e il Regno delle due Sicilie. La posizione dello Stato della Chiesa è abbastanza ambigua, in quanto sempre

più si convince della disfunzionalità di uno stato temporale

della Chiesa per il perseguimento della sua missione religiosa e sociale, ed è dunque tentata di seguire ora l’una e ora l’altra linea (austriacante e filo anglo-francese). Il nuovo re d’Italia Francesco II (V come duca di Modena) intende rifondare lo stato su basi centraliste, e quindi si dota di un esercito abbastanza numeroso e forte, in ciò spalleggiato dall’Austria-Ungheria, e con esso cerca di imporre tale modello a tutti gli stati federati. Iniziano contrapposizioni, o a volte anche guerre di fatto, tra le due parti d’Italia, con la neutralità della Chiesa. Ed è proprio il Papa che ricompone nel 1902 la frattura, con la rifondazione di una seconda Monarchia, in cui il re viene costretto a dimettersi a favore del fi-

glio, che prende il nome di Alfonso I (V come duca di Modena); ma soprattutto il Regno d’Italia nella realtà risulta separato in due parti, con influenze esterne ancora più evidenti rispetto al passato. Francia e Inghilterra danno il loro assenso al nuovo assetto del regno federale d’Italia in quanto Sardegna e due Sicilie sono vicini a loro, e l’Austria-Ungheria accetta in quanto Lombardo-Veneto, Modena e Toscana, pur unite nel Regno d’Italia, sono filo-austriache. Parma e Vaticano restano ancora in una posizione di neutralità.

Tale seconda Monarchia, in realtà, risulta ancora più debole di quanto lo fosse prima. Inoltre le due parti accentuano le differenze sociali, economiche, e di orientamento 280

delle rispettive relazioni. La parte filo anglo-francese sviluppa la propria economia verso questi paesi e i loro imperi coloniali e la parte filo-austriaca tende a integrarsi all’Europa centrale e balcanico-danubiana. Tuttavia anche tale assetto è di breve durata, poiché esplode letteralmente con lo scoppio della Prima guerra mondiale del 1914: non solo si osserva la spaccatura dell’Italia in due (una filo potenze centrali e l’altra filo potenze atlantiche); ma addirittura si ha la tendenza della Toscana del Granduca Salvatore d’Asburgo ad avvicinarsi ai paesi occidentali, e di Parma ad avvicinarsi agli imperi centrali. Il risultato è che l’Italia ridiventa una «espressione geografica», composta di alcuni stati più o meno grandi. La fine della Prima guerra mondiale, del 1916, sancisce l’avvicinamento ancora più stretto della parte Nord-orientale dell’Italia all’Impero austro-ungarico, il quale in verità nel 1918 diventa una repubblica confederata di tanti paesi dell'Europa centrale e balcanico-danubiana, in cui si diffondono dei ten-

tativi isolati di orientare verso il socialismo tale confederazione e in cui l'Adriatico diventa sempre più un mare mitteleuropeo, poiché il regno temporale del Papato si è anche formalmente sciolto riducendosi alla sola Città del Vaticano. Per tale motivo, della repubblica confederata mitteleuropea (così ora si chiama formalmente l’ex-Impero austro-ungarico) sono venute a far parte anche le Marche e Umbria. Gli ultimi guizzi nazionalistici europei, d’altra parte, si fanno sentire anche negli stati italiani. Il nazismo hitleriano, ‘ nato in Germania sull’onda della reazione al «comunismo» tedesco, fa scuola anche negli stati italiani, andando a confrontarsi con le tentazioni comuniste degli stati dell’EstItalia e con le frange socialiste degli stati filo anglo-francesi. Nasce un forte movimento

fascista, che, nell’ottobre del

1932, tenta di unificare gli stati italiani in un unico stato individuando in Roma la capitale. Il progetto va in direzione di ùno stato centralistico e fondato su un forte nazionali smo, ‘questa volta italiano e fascista. Il tempo che separa questo progetto dalla Seconda guerra mondiale è troppo poco, e gli stati italiani si trovano ancora isolati, indipendenti, deboli, in quanto anche la Repubblica confederata 281

mitteleuropea si è praticamente dissolta sotto la pressione . dell’espansionismo nazista della Germania. L'Italia si presenta, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, ancora profondamente «espressione geografica». E sarà proprio l'andamento finale di questa guerra mondiale che in qualche modo fa la fortuna dell’Italia, o meglio la trasforma in uno stato-nazione. Infatti, è per impedire l’idea di Stalin di creare uno stato italo-jugoslavo, composto dalle regioni costiere jugoslave e da quelle adriatiche italiane (dalla Venezia Giulia alla Puglia), che gli Alleati occidentali impongono l’unificazione dell’Italia nello stato italiano. Nel 1945 nasce così lo stato italiano, e l’Italia non è più una «espressione geografica». E un'Italia occidentale, non mitteleuropea, e soprattutto è un'Italia che si rende conto che un mondo di piccoli stati presenta dei costi insostenibili e ad ogni modo troppo alti. Inoltre, per certi aspetti, e ancora una volta, la storia italiana che va dal regno estense della prima metà dell'Ottocento a quello in balia delle grandi potenze europee fino alla Seconda guerra mondiale ha dimostrato che è meglio che vi siano gli italiani piuttosto che tanti popoli che hanno élite che parlano italiano. 4. Dalla storia virtuale d’Italia ad oggi In definitiva la simulazione di una storia virtuale d’Italia dimostra come per molti aspetti il modello centralistico adottato da Cavour fosse probabilmente nel 1861 l’unico possibile per mantenere unito un paese appena composto. A ciò possiamo aggiungere che ora, dopo cinquant’anni di cambiamento avuto dall'Italia da paese contadino a uno industriale e urbano e dopo centoquarant’anni di migrazioni, guerre, scuole obbligate, vita di caserma fatta insieme, veramente esistono gli italiani. Il problema è quello di costruire, o forse di adattare sempre più, l’Italia come stato e come nazione che vogliamo, agli italiani e ai cittadini del luogo e del mondo.

282

CAPITOLO TREDICESIMO

COME UNA CITTÀ AUTOCTONA SI FA MONDIALE. IL CASO DI TRIESTE, IN CUI LA SOCIETÀ CIVILE È RIFONDATA DA GRUPPI INTERNAZIONALI 1. Introduzione

Il rapporto fra tempo e città è abbastanza cumulativo, nel senso che più aumenta il tempo di una città e più la città accentua la capacità di far fronte alle crisi cui una serie di innovazioni tecnologiche, spesso esterne ad essa, la sottopongono. Infatti la sedimentazione selettiva di segni culturali (la cultura urbana), di integrazioni tra le comunità che si susseguono, di tipi sociali di gruppi professionali e sociali, di elementi architettonici e urbanistici, tutti quanti, danno la possibilità di

conservare come valore positivo la propria unicità per affrontare, dominare e trarre quindi nuove creatività dai nuovi elementi e tecnologie. Al contrario la città giovane rischia di seguire le sorti della «ragione» dalla quale è nata: le città capitali possono seguire il destino dell’impero che le hanno create, o delle dinastie che le hanno fondate nel caso che sia invalso il principio di far cominciare i simboli della nuova dinastia con una nuova città; le città nate dalle nuove tecnologie più difficilmente riescono a conservarsi quando le tecnologie o le ‘condizioni politico-economiche mutano radicalmente.

Pure il rapporto tra spazio e città varia lungo la vita di questa, ma anche in tale caso si nota una differenza tra lo spazio urbano generato da una innovazione tecnologica presente (l’industrializzazione nella città, ad esempio) e quello generato dalla sedimentazione selettiva di ciò che resta dall’eredità del passato delle innovazioni tecnologiche che si sono avvicendate (palazzi «riusati», archeologia produttiva riadattata, linee urbanistiche, professionalità che si sono trasformate in cultura del lavoro, ecc.).

In altri termini si ha che l’espansione del manufatto urbano e il rapporto di questo con l’area variano per effetto 283

dell’innovazione tecnologica e delle differenti fasi che vive . la città, mentre l’anima della città è prodotta da una sorta di sintesi selettiva della vita storica e del tempo delle comunità che si succedono nella città, e che si dotano di un centro, il quale può essere quello delle comunità precedenti o accanto ad esso od anche più lontano. Per tale processo il centro della città, urbanistico, architettonico ma anche culturale e valoriale, si arricchisce, si fa complesso, si espande a comprendere spazi, esperienze, valori nuovi.

Se l’analisi fin qui tratteggiata della vita della città in rapporto al tempo e allo spazio, e quindi al suo hinterland è corretta, e per una trattazione più estesa rimandiamo a Alberto Gasparini [2000, 17-25], allora è immediatamente

necessario chiedersi come tutto ciò incide sul futuro della città, e soprattutto come esso condiziona il futuro di Trieste. È una questione che vogliamo sviluppare in termini emblematici di come una città si trasforma per effetto di impulsi internazionali, e poi sviluppa anime che al tempo stesso sono localiste e mondiali. Il discorso sul futuro di Trieste lo cominciamo dal suo passato, perché siamo convinti che la storia, se proprio non insegna molto, può però offrire degli spunti per pensare al futuro e in qualche modo mostrare dei meccanismi da evitare o da rivalutare per prevedere i risultati dell’intervento, delle azioni e della rete relazionale da esse formate.

2. Alcuni caratteri della storia di Trieste, la loro dissipazione nel tempo e la formazione delle due anime della città È interessante per uno studioso, ma forse è ancor più istruttiva per chi pensa al futuro di Trieste, osservare la sua storia, in quanto evidenzia in un breve e controllabile periodo l'evoluzione della città moderna, in cui è avvenutala

rifondazione della città e poi la trasformazione del modello realizzato in un qualcosa di nuovo e di diverso. E tutto ciò avviene sotto gli occhi di chi interpreta ora un periodo moderno della città, contrassegnato da profonde fondazioni e rifondazioni di città nei continenti extra-europei, ma anche nella stessa Europa [A. Gasparini 1995]. 284

Qui vogliamo rivedere questa storia moderna di Trieste, ma allo scopo di individuarvi gli aspetti puntuali o processuali che rappresentano dei vincoli, ma anche delle opportunità, per una seconda rifondazione della città. Tali aspetti, a nostro avviso, sono da recuperare e da inserire nel modello di trasformazione per la Trieste del futuro. Gli elementi storici che possono pesare o insegnare il futuro li sintetizziamo in temi che riguardano: le élite vecchie e nuove, la trasformazione delle élite attraverso le generazioni e il passaggio dagli affari alla cultura e alla burocrazia, le élite del sincronico e della libertà, il travaso da settori produttivi industriali

e commerciali a finanziari e amministrativi, la

formazione delle anime della città e la convivenza, la parlata da lingua franca a veicolo di nazionalismo, il passaggio dalle élite minoritarie degli affari a élite della maggioranza della cultura nazionale. Schematizziamo tutto ciò nei punti seguenti.

i

2.1. Forza e limitazioni di un hinterland troppo dipendente dalle situazioni politiche Trieste, la nuova, ha un anno di nascita, il 1719, anno in

cui dall'imperatore d'Austria Carlo VI viene concesso ad essa (con Fiume) il porto franco, e viene considerata «città immediata» dell'Impero, diventando con ciò direttamente soggetta alla sovranità dell’imperatore. Dall’esterno dunque vengono favorite nuove funzioni economiche, che si possono sintetizzare in un 772x di commercio all’ingrosso — industria cantieristica — finanza assicurativa, attraverso la creazione di un ambiente (nella de-

finizione della sociologia dell’organizzazione) imperniato: sulla proclamazione della libertà di navigazione (1717), su trattati internazionali di commercio (1718), sulla concessio-

ne del porto franco (1719), sulla soggezione diretta di Trieste all’autorità centrale («città immediata», cioè) in modo

da poter intervenire direttamente sul «sistema-Trieste» e da poter costruire per esso un birterland espanso a tutte le parti, soprattutto le più interne, dell'Impero. 285

Il «sistema Trieste» deve esprimere tale complesso di . funzioni economiche «imperiali», attraverso un sistema di tecnologie, che implicano macchine, processi produttivi, professionalità, organizzazione del territorio, ecc. Nel suo insieme tutto ciò denotiamo come porto, fondachi, agenzie di assicurazioni, e così via, e quindi come un insieme di or-

ganizzazioni in cui si esprime la funzione del «sistema Trieste». Tali tecnologie d’altra parte devono funzionare entro una nuova società, che agisce attraverso regole nuove e diverse da quelle vigenti nella Trieste precedente, città-stato e unità indipendente. Le nuove regole vogliono che: 1) si lavori per un hinterland molto vasto in cui Trieste è il passaggio intermodale tra paesi marittimi e paesi intercontinentali; 2) la mentalità universalistica giudichi le persone per quello che fanno e sanno fare piuttosto che per quello che sono; 3) il forestiero sia portatore di informazioni per conoscere e per operare piuttosto che per attentare all’integrità della comunità locale; 4) non conti tanto la fede religiosa quanto la razionalità dell'economia, per cui la fede religiosa può essere un fatto religioso rinforzato da un’appartenenza a una piccola comunità; 5) si stemperi l’appar-

tenenza a Trieste a favore di un’appartenenza a tale piccola comunità e contemporaneamente all’azienda che si riesce a creare, a consolidare, a mantenere; 6) valga molto la lealtà al gruppo economico

piuttosto che alla classe sociale, e

dunque vogliono che valga più la pressione esercitata attraverso i gruppi (anche in senso lobbistico) che non attraverso l'appartenenza al patriziato; 7) l’istruzione sia funzionale al funzionamento dell'economia piuttosto che al mantenimento delle differenze di classe; 8) la mobilità professionale e sociale sia un valore da enfatizzare e vivere intensamente;

9) la formazione di nuove professioni sia un fatto altamente positivo per il formarsi di un sistema economico adeguato alle nuove funzioni della città; 10) la formazione di una

sfera privata nella vita della persona sia legata alla comunità religiosa e alla famiglia, e la sua difesa strenua venga a sostituirsi alla difesa (altrettanto strenua) che prima esisteva per la comunità urbana, e quindi al luogo tradizionale in cui si collocava la distinzione tra l’ix e l’out. 286

Tali regole, che seguono altrettanti valori dell’uomo e della società moderni, ovviamente non sono fluorescenze

della Trieste tradizionale, ma devono essere portate dall'esterno, sia come frutto di immaginazioni e di imposizioni illuministiche di regnanti imperiali, sia come stili di vita di nuove élite le quali creano un ambiente lavorativo nel quale si inseriranno le maggioranze subalterne che sono attratte. Dall’esterno del «sistema urbano» esistente vengono anche le ideazioni, le progettazioni e le realizzazioni architettoniche e urbanistiche della nuova Trieste. Tale forte intrusione esterna su Trieste fa dire a molti che si viene a produrre una «Trieste artificiale». In realtà ciò che osserviamo è la profonda distruzione di un sistema sociale che è ancora vivo ed è durato più di tre secoli in una situazione di apparente vuoto ambientale (città-stato), so-

stituita dalla costruzione di un sistema che si dimostra altrettanto vitale (e quindi non posticcio o artificiale), il quale però, appena oltrepassata la prima generazione, ricomincia a modificarsi per effetto dell’accavallarsi di generazioni élitarie e di situazioni esterne che mutano. Da questo punto

di vista dunque più che di «Trieste artificiale» si può parlare di una vera e propria Trieste, che è molto viva e che sembra assolutamente contrapposta alla precedente. In realtà vedremo che ciò non è vero, sia perché coesisteranno sempre le due anime e sia perché anche per questa Trieste il legame con l’esterno è essenziale per la sua vita e, quando verrà meno, lo stesso «sistema Trieste» resterà fortemente

- alterato o addirittura crollerà. Infatti appare, ancora una volta, che la nuova Trieste è un sistema fortemente dipendente dall'ambiente imperiale che l’ha prodotto, e con la caduta dell’Impero austriaco cadrà anche la struttura sistemica di Trieste. In altre parole, i cambiamenti traumatici tra la prima e la seconda Trieste, conseguenti alle radicalmente differenti tecnologie che le hanno create, hanno reso difficile il sedimentarsi della realtà urbana in un’unica anima, ma al contrario restano a con-

vivere due anime, per certi aspetti alternative (localista e cosmopolita), ma per certi altri versi due facce della stessa

medaglia. Si tratta però di due anime, il cui destino è stato 287

generato e radicalmente modificato da forze esterne alla . città: in questo probabilmente è stata finora la difficoltà per Trieste di essere una città e un sistema sociale autonomo e autoriproducentesi, e in ciò sta la difficoltà di Trieste di trovare una via autoctona allo sviluppo e all’adattamento originale al contesto e all'ordine mondiale. 2.2. Le nuove élite nella prima ora e la loro propagazione nella società cultural'amministrativa

Gli effetti della rifondazione di Trieste secondo un progetto pensato lontano riescono nel breve periodo, e perno di tale riuscita sono le nuove élite immigrate, le quali sono attratte dalla libertà per la cultura e il credo religioso e dalla libertà degli affari. Si tratta di libertà per certi aspetti contraddittorie, poiché la prima nasce dalla relativizzazione della fede e del culto religiosi e la seconda si forma sulla razionalità della relazione economica. In realtà sono ambedue libertà che si formano nell’unico contesto illuministico della visione laica e borghese della comunità, della società,

di sé e del proprio rapporto con il divino, e quindi enfatizzano la distinzione tra una sfera pubblica alla quale si perviene per acquisizione e una sfera privata nella quale conta l’esserci per ascrizione (come nella famiglia o nel gruppo). D'altra parte la libertà di pensare la religione e la famiglia come si vuole e la libertà di fare affari con tutto il mondo sono fondate su un impegno (verso la scelta di trasferirsi a Trieste) di liberarsi dal luogo di origine e sulla garanzia concessa loro di potersi liberare da un sistema rigido stratificato in classi sociali nobiliar-patrizie e classi sociali subalterne esistenti quasi sempre nel paese di origine. In altri termini le libertà realizzate a Trieste (di religione ed economiche) implicano lo sradicamento dal luogo di origine e lo sradicamento dalla struttura sociale della comunità lasciata: la conseguenza è che simili gruppi di tali sradicamenti faranno una bandiera (e dunque essi non rappresentano aspetti negativi) e porteranno a Trieste il loro rapporto solitario con la professione e gli affari ed è unica288

mente il loro inserimento (più o meno intenso e positivo) in questo che indicherà il contributo alla rifondazione di Trieste. Certo sarà necessario un minimo di sicurezza, ma

questa viene dalla famiglia e dalla comunità religiosa che è spesso nient’altro che una famiglia allargata. Tanti sono gli individui che formano pian piano le prime élite, e sei sono le comunità che ottengono uno status riconosciuto: la greco-ortodossa, la serbo-ortodossa, l’armena, l’ebrea, la svizzero-calvinista, la luterano-stiriana.

Si tratta di provenienze che indicano anche una prima polarizzazione dell'hinterland di Trieste, compreso tra la Balcania e l’Europa centrale. Ed è da queste libertà interne (prima fra tutte dalla comunità triestina esistente) e da tali liberazioni esterne che si

forma il cosmopolitismo di Trieste e quindi la sua anima proiettata verso il mondo e capace di trasformare Trieste nella patria di forestieri (alla Simmel) e in cui è bello tro-

varsi tra forestieri in quanto ognuno di essi è portatore di una diversità degna di essere conosciuta ed esperita anche nella vita quotidiana. L’anima cosmopolita di Trieste rappresenta l’apertura massima che ogni individuo sviluppa verso l’esterno in quanto egli è disponibile ad allargare al massimo il suo darsi alla sfera pubblica della città, riducendo complementariamente la sfera privata agli spazi relazionali minimi della famiglia e della piccola comunità religiosa e culturale. Ciò significa che introduce se stesso in un campo simbolico comunicazionale amplissimo, in cui gli elementi segnici e valoriali condivisi fanno riferimento all’individuo più che alla comunità dove vive, alla razionalità dell’azione economica,

alla convinzione che ogni fede religiosa e ogni cultura è degna di rispetto in quanto esprime il rapporto con il divino, all'esperienza che possono essere differenti le soluzioni dei bisogni umani ma sempre sono funzionali all’efficacia della soddisfazione, all'apertura massima della sfera pubblica ma anche il riconoscimento che un minimo di spazio di sfera privata resta invalicabile a tutti sia al pubblico esterno che al pubblico interno della città.

289

2.3. Le generazioni successive al primo momento dell’inse-. diamento delle élite nuove ed esterne, e il loro radica-

mento a Trieste

Le prime e fondanti élite di Trieste si distinguono per la leadership economica, la quale coinvolge lealtà e risorse della famiglia. Esistono in tali leader forti riferimenti alla relazione con l’esterno della città e alla famiglia che si sono formati in Trieste o anche altrove. Più blando è invece il riferimento a Trieste, poiché quella vecchia non «dice niente» a loro e quella nuova è in faticosa formazione. E attraverso la sequenza di figli e nipoti che si costruisce la storia della leadership economica, ma è anche attraverso questa sequenza che si hanno profondi cambiamenti in tale leadership e il radicamento alla città attraverso l'espansione nelle istituzioni economiche e culturali. Infatti tale mutazione avviene perché: 1) dei figli dei padri fondatori solo uno erediterà il carisma (semmai c’è) della continuazione dell’azienda; 2) altri figli maschi o convivono nella impresa paterna oppure ne fondano una propria, ma tutti e due i casi implicano o capacità di trovare un equilibrio di sudditanza funzionale con il nuovo capo-famiglia o originale energia per generare dal nulla un’impresa economica. Tutto ciò implica però o doti di duttilità o doti di creatività, e non tutti i figli le avranno e soprattutto tali doti, anche se esistono, non necessariamente sono di carat-

tere economico; 3) succede quindi che altri figli maschi ancora si dedicano ad attività artistiche, intellettuali, istituzionali, o anche a nessuna attività. Le arti, i giornali, il Comune, le istituzioni religiose, la scuola, e così via diventano i

luoghi in cui si inseriscono spezzoni di questa famiglia nella società civile, meno produttiva e più comunitaria. Due sono le conseguenze: la famiglia si radica negli affari della comunità urbana di Trieste e nella sua cultura, e tale cul-

tura trasforma la lingua italiana (veneta) da lingua franca in lingua nazionale che rafforza l’appartenenza alla nazione italiana. In altri termini attraverso questi componenti periferici all'attività economica della famiglia si forma una /eadership della «italianità» di Trieste, che tenderà poi a permeare 290

di sé la leadership della città in termini nazionalistici, e per un altro verso tenderà a spostare le attività economiche della città verso attività burocratico-finanziarie (le assicura-

zioni, in primo luogo) a scapito di quelle industriali e commerciali; 4) le donne delle famiglie (madri, mogli, figlie),

salvo eccezioni sempre esistenti, hanno una funzione notevole nel far nascere e/o orientare e motivare i figli/mariti verso attività comunitarie espressive piuttosto che strumentali e legate a una carriera realizzata nel lavoro. Sembra in ciò di vedere le donne e le madri di tante famiglie sensibili più alle arti e all’assistenza che non al supporto a mariti e figli e sviluppare un forte achieverzent verso il lavoro. Tutto ciò capita in quanto è forte il sentimento di essere élite nel senso completo del termine (e cioè non solo nel lavoro, nella proprietà ma anche nel prestigio, nella cultura, nello stile); 5) la personalità forte dei padri produce contraccolpi in quella dei figli, sia di rifiuto di quanto rappresenta il padre che, spesso, in formazione di personalità meno convinte e più deboli. Da quanto considerato sul sedimentarsi delle generazioni, e quindi con l’allontanarsi dai modelli offerti dal patriarca, si assiste: 1) a una notevole attenuazione della fede nella rifondazione economica di Trieste; 2) a una forte inte-

grazione nella comunità triestina; 3) a una coloritura nazionalistica di quella che era la lingua e la cultura franca di stampo veneto-italiana. Infatti con il venire meno di Venezia come entità politica, con il confronto di tante culture eterogenee e con l’affermarsi del paradigma nazionalistico il Veneto diventa sempre più italiano, da esibire (e da contrapporre, semmai) alle altre lingue e culture, a cominciare anzitutto dal tedesco ma anche dallo sloveno.

2.4. La scomparsa di una élite gentilizia che però lascia in eredità un'anima triestina

,

Ciò che meraviglia in Trieste è che le nuove élite si inseriscono, agiscono e hanno successo senza sostanzialmente dover fare i conti con le élite esistenti seppure la città sia tale fin dai tempi romani. 291

Una combinazione molto forte (e vincente): 1) di intervento amministrativo da parte del centro imperiale, 2) di élite sradicate e provenienti da contesti balcanico-mitteleuropei, 3) di immissioni di tecnologie produttive che non hanno bisogno né di élite locali né di masse locali, 4) di lavoratori provenienti pur’essi dall’esterno anche se prossimo dell’Istria, della Carniola, del Friuli e del Veneto, il che fa sì che del patriziato, cioè delle tredici «casade», non vi sia

alcun bisogno nella trasformazione di Trieste. E tale «non necessità» e incapacità di inserirsi nella nuova Trieste fa sì che l’élite nobiliare irrimediabilmente scompaia. Anche in questo senso viene a dimostrarsi che dell’élite nobiliare come Zraît-union tra vecchio e nuovo non vi sia assolutamente

bisogno, poiché la nuova élite degli affari può acquisire già

con la seconda generazione lo stile che differenzia questa

classe dalle altre e la «legittima» a trovare soluzioni ai bisogni culturali delle altre classi sociali, anche quando non c’è più bisogno del carisma dei padri «rifondatori» di Trieste. La dissoluzione irrimediabile del patriziato della cittàstato Trieste lascia tuttavia un’eredità alla città, che assume

sempre più i lineamenti di un’anima profonda: e cioè dell’anima localista. Essa riemerge, nonostante il primo momento carismatico. dell’affermazione dell’anima cosmopolita portata dalle élite balcanico-mitteleuropee e dai lavoratori delle regioni prossime. Tale arzizza localista riemerge sulle ceneri delle sue vestali scomparse, rappresentate dal vecchio patriziato proteso a difendere la specificità della città-stato di Trieste, per opera di quegli spezzoni di élite periferiche al mondo cosmopolita degli affari che abbiamo visto formarsi nelle generazioni successive alla prima nelle famiglie dei «rifondatori». L’anima localista di Trieste consiste nell’enfasi sull’unicità della città, che non appartiene a nessuna entità statale (la nazione è un’altra cosa!), in quanto può essere essa stessa entità statale (o, nell'ipotesi minimale, ad essa viene riconosciuta una larga autonomia). Tale unicità ovviamente permette ad essa di essere libera di gestire le relazioni con chi vuole, e ovviamente realizzando il migliore vantaggio. Simile localismo, proiettato per l’universo relazionale, na292

sce dalla presunzione di poter dominare questo universo, ovviamente alla portata delle possibilità esplorative e utilizzative di Trieste. Esso d’altra parte ha radici storiche profonde, e in ciò sta la garanzia che simile localismo «vince»: infatti è dal 1382 che Trieste è una città-stato. Essa ha saputo mantenersi al di fuori della dominazione veneziana, anche se dimentica facilmente che il prezzo è stato quello di essere vissuta entro l'orbita austriaca e di conseguenza di dovere molto della propria autonomia all’esterno. Un altro prezzo pagato è stato perciò quello di essersi dovuta accontentare di una rete di relazioni sostanzialmente locale. 2.5. La sintesi felice (ma anche drogata?) tra anima localista e anima cosmopolita In definitiva nell'ambito di un hinterland imperiale si sviluppa la nuova Trieste, ed entro questa la nuova cultura si fonda su un’anima localista e un'anima cosmopolita. Si tratta di due anime che solo a una considerazione superficiale sono contrapposte e si contraddicono; in realtà l’una è funzionale all’altra. Ciò avviene per almeno due ragioni. La prima è che la flessione su se stessa significa maggiore libertà da lacci statual-politici esterni e quindi maggiori possibilità di proiettarsi per il mondo; la seconda è che localismo e cosmopolitismo devono essere gestiti in modo che il localismo formi una mentalità capace di capire il mondo e il cosmopolitismo formi una mentalità in cui è compresa la convinzione che nel locale (a Trieste) si elaborano valori e dati che sono necessari al mondo. In altri termini la sintesi tra localismo e cosmopolitismo può avvenire alla condizione che sia l'uno che l’altro non degenerino in un qualcosa che è solo radici (il locale) o solo sradicamento (il cosmopolita). In altri termini ancora deve esserci un equilibrio tra l’una e l’altra anima, e che dunque l’una non si sviluppi troppo a danno (o in contrasto) dell’altra e viceversa. Ora, se ciò è stato vero in passato, può essere vero anche per il futuro? Non v'è dubbio che la sintesi di anima localista e anima cosmopolita si fonda sulla presunzione 293

che il locale e la società triestina riescano a produrre cose che sono fondamentali per coloro con i quali entrano in rapporto: mentalità, professioni, tecnologie, servizi, prodotti, commerci, e così via. Se ciò è vero allora la presunzione di essere dotata di carisma si realizza, in caso contrario tale

presunzione rimane solo «peccato» in quanto è falsa idea di sé e delle proprie possibilità. Nel caso di presunzione realizzata, l’anima localista svolge quella funzione positiva di approfondire il senso di appartenenza da cui partire per capire, valorizzare e mettersi in relazione con l'ambito cosmopolita. In caso contrario il destino di Trieste è segnato negativamente, poiché vi si aggirano solo delle ombre tinte di sogni e di miti, che passano per i muri senza lasciare segno se non quello interiore della frustrazione. Tutto ciò avviene, a meno che.non si intraprendano delle strade di riorganizzazione della società triestina per costruire su di essa delle nuove centralità, basate su nuove tecnologie ma anche su un nuovo approccio di localismo-cosmopolitismo. 3. Dalla storia al futuro: le variabili principali per prevedere un’altra Trieste 3.1. Introduzione

Quello che abbiamo fatto fin qui non è un breve corso di storia di Trieste, ma molto più proficuamente una individuazione degli elementi salienti della storia sociale di Trieste che servono a spiegare la sua rifondazione e il suo declino. Siamo convinti che la loro considerazione insegna a capire le linee lungo le quali orientare nel futuro le risorse per discutere del modello di sviluppo della città. Le variabili storiche evidenziate si possono sintetizzare nelle seguenti: 1) tecnologie e innovazione tecnologica; 2) funzione cruciale dell'ambiente esterno a Trieste ad alterarne profondamente il sistema sociale ma anche a condizionarne il destino di quella della nuova Trieste; 3) le élite balcanico-mitteleuropee e il nuovo rapporto tra esterno e interno di Trieste; 4) la cultura cosmopolita di cui si fanno portatori; 5) le masse 294

lavoratrici esterne; 6) la scomparsa delle élite tradizionali; 7) la

conquista della società civile (culturale e formativa, in primo luogo) da parte degli spezzoni periferici delle famiglie «rifondatrici» di Trieste; 8) la riaffermazione della cultura loca-

lista; 9) la sintesi dell'anima localista e dell'anima cosmopolita; 10) la funzione del nazionalismo alla base della contrap-

posizione etnica ed anzi la riscoperta delle differenze etniche; 11) lo spostamento della struttura economica di Trieste da settori industriali e commerciali a quelli finanziari e amministrativi. Cosa rimane di queste variabili, e quali le modificazioni che esse necessitano per il futuro? 3.2. Tecnologie e innovazione tecnologica Non v'è dubbio che la tecnologia del porto rimane tuttora valida, e capace di innovare il ruolo di Trieste. Ciò che forse cambia sono le connessioni tecnologiche a quella principale del porto. Cioè è meno necessario che le merci portate a Trieste vengano conservate in fondachi per lo stoccaggio, ma al contrario attraverso i cort4izer possono direttamente proseguire per il paese terrestre di destinazione. Al massimo, le connessioni possono riguardare la costruzione delle navi e della loro manutenzione. Il nuovo del porto di Trieste può ora essere rappresentato dalla sua complementarietà con un sistema di porti dell’alto Adriatico, in primo luogo, in Italia, con Monfalcone e Porto Nogaro, e poi con i porti sloveno di Capodistria e croato di Fiume. Le sinergie dovranno ovviamente basarsi sulla competizione nelle tariffe, ma anche nella specializzazione delle funzioni commerciali, nei collegamenti stradali reciproci e nell'esistenza di una sorta di comune fascia «duty free» intorno a questi porti. Per Trieste possono essere pensate tecnologie aggiuntive,

ad alto contenuto innovativo come la conversione tecnologica delle scoperte scientifiche (città della scienza) e la for-

mazione aziendale ad alta specializzazione. La diffusione dei prodotti di tali tecnologie ha un hinterland molto ampio per l'Europa centrale, balcanica e orientale. Accanto a queste tecnologie si può considerare importante il rafforza295

mento di altre due specializzazioni tradizionali, a carattere commerciale (e turistico, come residuale) per l’area balcanica. Ciò non deve meravigliare, se si pensa quanto Trieste fosse già consolidata come mercato di beni ad alta tecnologia perle repubbliche dell’ex-Jugoslavia, comprese la Serbia e la Macedonia. Certamente questa funzione potrà essere insidiata dalla spinta «occidentale» di Slovenia e Croazia, ma ciò significa che Trieste dovrà trovare e rinforzare in altre forme il suo tradizionale ruolo commerciale. 3.3. Funzione dell'ambiente esterno

La volontà imperiale e le azioni imperiali hanno creato Trieste, e l’hinterland imperiale l’ha protetta fornendole il mercato e il contestò economico entro cui nuotare. Inoltre proprio queste condizioni hanno attratto élite, ancora una volta dall’esterno. Si è cioè determinata una situazione perversa per la quale non era l'interno che attraeva l'esterno,

ma era questo esterno che svuotava radicalmente l'interno per renderlo fortemente dipendente da un mercato percorso da frontiere inesistenti o labili e da un centro che stava all’esterno, anzitutto a Vienna. È evidente che in queste condizioni la caduta di un ordine sovra-nazionale portava con sé la caduta anche di Trieste, ridefinita in termini nazionali e italiani. Probabilmente ora, dopo il 1989, la caduta del nazio-

nalismo e poi della contrapposizione ideologica come elementi indurenti i confini tra gli stati formatisi sulle ceneri dell'Impero asburgico, ridà a Trieste chances di ricostituzione di mercato «imperiale», con la novità però ora che i singoli stati (piccoli) si sono dotati (o hanno tentato di farlo) di un’autonomia portuale, attraverso Capodistria e

Fiume, innanzitutto.

In altri termini il diventare le fronetetà statali più «thin» e più amministrative che politiche spinge Trieste a giocare il suo ruolo portuale nell’ambito della competizione economica, e cioè entro a una complessità di porti non ordinata da una mente unica e centrale. Da qui nasce la 296

necessità di sviluppare delle strategie di ampio respiro e articolate per le aree che la città deve «servire». 3.4. Le élite balcanico-mitteleuropee Trieste, s'è già detto, è stata rifondata da élite marginali nel proprio paese, o perché questo era troppo piccolo per le ambizioni di tali persone, o perché troppo arretrato o perché troppo vessatorio delle opinioni religiose. E dunque da situazioni di discriminazione queste singole persone si sono allontanate per approdare a una condizione di libertà di agire economicamente e culturalmente. Sono dunque improponibili, ora, tali élite, o almeno tali

motivazioni a spostarsi a Trieste; tuttavia lo sviluppo endogeno di centralità in una città attrae sempre dall’esterno persone e attività, stabilmente o anche solo per qualche periodo. Nella situazione attuale Trieste e la sua condizione economica offrono indubbiamente opportunità di attrazione di élite dall’esterno, certamente economiche ma anche cul-

turali, per quanto riguarda la tecnologia espressa dagli istituti di ricerca sulle alte tecnologie. Si tratta perciò di élite non in fuga da qualcosa, ma attratte da opportunità: a nostro avviso esse verranno anzitutto dalle aree balcaniche per le attività commerciali, dalle aree del centro Europa per le attività portuali, dalle aree dell’Est-Europa per le attività di alta formazione, da tutto il mondo ma anche dalle aree

scientifiche del Terzo Mondo per la ricerca e la conversione e la diffusione dei suoi prodotti in tecnologia. Per le funzioni terziarie e amministrative le élite saranno di origine locale, e accentueranno e in qualche modo riverbereranno il cosmopolitismo della cultura triestina in una sorta di neo-cosmopolitismo attivato dalle nuove élite di origine esterna a Trieste. #

3.5. La cultura cosmopolita Abbiamo individuato le radici del cosmopolitismo triestino per un verso nella generazione di un linguaggio co-

291

mune a Trieste tra gruppi provenienti da paesi diversi in cui essenziale era la non rilevanza delle fedi religiose che perciò si trovano relativizzate nella sfera privata del gruppo. Per un altro verso tale linguaggio occupato da valori, comportamenti standardizzati, modi di relazionarsi permea di sé una sfera pubblica molto ampia che ha perciò sfondato i perimetri fissati dalla comunità tradizionale e che va a incontrare il muro, ora molto rigido, della sfera privata che avvolge ora il gruppo, integrato per valori e osservanze religiose o per interessi concreti, e la famiglia entro la quale è pure difficile penetrare. Tali radici del cosmopolitismo ormai si sono diffuse a tutta la popolazione e sono diventate cultura urbana; ma proprio per questo è difficile pensare che siano capaci di liberare nuove energie per rifondare Trieste. Tutto ciò può essere vero, a meno che queste stesse radici del cosmopolitismo mutino e introducano nuove motivazioni culturali al mutamento. Ciò può avvenire lungo la seguente direzione: almeno questa è la nostra ipotesi.

L’attuale cosmopolitismo non presenta più la novità di un linguaggio comune in cui la libertà religiosa è un fenomeno che ha sostituito i contenuti specifici della fede religiosa (integrati nella sfera del privato del gruppo), in quanto è un valore condiviso da tutte le società moderne. Semmai il volto nuovo del cosmopolitismo triestino è che è capace di dialogare con tutte le culture, occidentali e orientali, europee e

non europee, in quanto anche le diversità culturali, quando vi sono, sono interpretate come accidenti o epifenomeni della sfera privata del singolo individuo, famiglia o anche piccolo gruppo. Dunque non solo le diversità religiose ma anche quelle culturali delle grandi civiltà (cristiane, islamiche, bud-

diste, ecc.) diventano espressioni del privato, non in quanto svalutate, ma in quanto il criterio della relazionalità nella sfera pubblica è dominato dalla razionalità del commercio, della scienza, della manifattura.

A tale nuova mentalità che pensiamo indicare come «neo-cosmopolitismo» fa da contrappeso il localismo della nazione che prende le vesti del nazionalismo. Questo è una forza in decadenza rispetto alle enfasi dell’Ottocento-Nove298

cento, ma che in qualche modo può innestarsi al vecchio localismo della città-stato, che genera controspinte rispetto a quelle del neo-cosmopolitismo. Ciò vedremo più avanti. 3.6. Le masse lavoratrici esterne

Le attività portuali, sia legate al commercio che alla fabbricazione di navi, dello sviluppo Sette-Ottocentesco di Trieste hanno attirato masse di lavoratori sia dall’interno sloveno che dall’interno friulano e veneto. Anche questa immigrazione ha stravolto radicalmente la società triestina, la quale in tal modo è risultata ancor più complessa, per l’attenuazione della spinta nazionalistica portata dalle classi lavoratrici nel contesto di classe media creato pian piano dalle élite pur’esse immigrate. In un rilancio può ripetersi tale immigrazione di classi lavoratrici? La risposta viene da alcune constatazioni: 1) si-

mile immigrazione è connessa alle attività che hanno capacità di attirare: e ciò non è possibile per attività rare come sono quelle scientifiche o formative o implicanti alta tecnologizzazione dei processi produttivi come è il caso del porto, o infine ancora richiedenti conoscenza di lingue locali differenti come è necessario nel caso del commercio al dettaglio o all’ingrosso; 2) la società post-industriale risulta molto frastagliata socialmente e professionalmente e bisognosa di professionalità con formazione specializzata; 3) restano forse libere manodopera non specializzata, professioni interstiziali; 4) lo scollamento tra potenzialità economiche e residenza degli addetti a queste fa sì che la città possa non aver bisogno di nuovi residenti pur godendo di alto e accelerato sviluppo economico. - In queste condizioni è difficile prevedere l’immigrazione di nuove masse esterne di livello sociale basso, salvo poter prevedere l’immigrazione di non consistenti flussi dai. paesi della ex-Jugoslavia oppure dal Terzo Mondo. L'immigrazione più caratteristica potrà essere quella elitaria oppure quella periodica di studiosi e ricercatori che vengono da soli o con la famiglia a svolgere lavori di ricer299

ca 0 a seguire o gestire corsi di alta formazione professionale. 3.7. La società civile prodotta dall’espansione delle famiglie «rifondatrici» di Trieste Abbiamo già evidenziato come è avvenuta la riformazione della società civile nella Trieste delle nuove élite e delle nuove masse. E abbiamo anche sostenuto che ciò è avvenuto attraverso la «presa del potere» della società civile da parte dei figli cadetti e delle mogli. Ma è pure avvenuto che attraverso questa espansione alle sfere non razionali al di fuori dell'economia delle nuove famiglie si è venuta ad annidare nella società triestina l'ideologia corrente del nazionalismo. Si realizzeranno nuovamente tali processi, con l'avvento di nuove élite a Trieste? La nostra ipotesi è che ogni innovazione tecnologica introdotta in un sistema sociale produce nuove élite, le quali si troveranno a gestire anche la società civile. E chiaro dunque che i nuovi venuti, legati alla ricerca, alla formazione e

anche al porto porteranno mutamenti nell’insieme di organizzazioni emanate dai gruppi e dagli individui e dai ritmi della vita quotidiana. D'altra parte però non v'è dubbio che la limitata distanza tra la società civile esistente e quella legata ai tempi nuovi delle nuove élite non produrrà eccessive fratture tra il prima e il dopo della società civile. Inoltre la minore presa della famiglia e della coscienza di appartenere ad essa non è capace di contrapporre troppo radicalmente nuovi e vecchi gruppi, nuove e vecchie lealtà e appartenenze. 3.8. La riaffermazione della cultura localista

La cultura localista a Trieste gruppi soppiantano i precedenti, onda lunga dell’abitudine della dersi isolata e avvolta da nemici, 300

riemerge dopo che i nuovi ed essa si configura come Trieste pre-portuale a vecon un amico potente nel-

la lontana Vienna. Questa Vienna diventa una sorta di me-

tafora che però è reale, o forse come il convitato di pietra di cui si minimizza l’importanza ma che è essenziale evocare per tenere lontano i nemici vicini. Ci troviamo di fronte a un localismo, nel cui magma vi sono radici e manifestazioni molto diverse: v’è una sorta di sintesi di cielo-mare-collina e di costruito e naturale separato per profonde fratture dal resto del territorio oltre il Carso; v'è un fiore di cultura urbana che cresce entro un contesto di tante culture rurali molto diverse tra loro: friulana, carniola, croata, veneta, e che nel momento stesso in cui vie-

ne contrapposto alle culture contermini diventa localista; v'è un nazionalismo d’epoca che trasforma in termini di confronto radicale l’italianità di Trieste con la slavità del territorio oltre il crinale di Opicina; v'è una voglia di confrontarsi direttamente con il mondo oltrepassando le periferie immediate: il Territorio libero di Trieste, la lista per Trieste, i sot-

terranei sogni di «recuperare» indipendenza dal Friuli. V’è cioè la voglia di dialogare e comunicare con il mondo e non con il luogo, per punti più che per aree, per gruppi sociali e per popolazioni più che per regioni e territori. È un localismo che non disdegna il confronto, ma questo vale più per il grande che per il piccolo e immediato. Resta una costante anche per il futuro tale localismo? Probabilmente sì, e ciò può restare enfatizzato proprio perché le centralità prodotte dalle nuove tecnologie hanno a che fare e servono (e si alimentano di) utenti lontani e collocati in hirxterland molto vasti piuttosto che immediati e simili per cultura. D'altra parte si sa che l’izprinting culturale è difficile che si modifichi, e questo enfatizza l’«unicità» del luogo triestino contro la «banalità» dei luoghi con i quali è a contatto.

3.9. Sintesi dell'anima localista e dell'anima cosmopolita Tale sintesi è stata una sorta di risultato naturale, poiché Trieste ha avuto poco a che fare con i luoghi vicini e molto con i luoghi lontani. La conseguenza è che il localismo di Trieste in realtà è vissuto come cosmopolitismo del301

l’isola immersa in un mare di localismi strettamente provinciali. Trieste si sente unica, alla maniera locale, in quanto tale unicità dialoga con le tante unicità cosmopolite disperse per il mondo. In altri termini Trieste è tanto più unica quanto più si

sente di condividere e comunicare come i tanti luoghi cosmopoliti del mondo. Tale sintesi, pur in forme differenti, si può pensare che rimanga anche nel futuro, nella misura che riesce a produrre e a esportare per distanze notevoli prodotti rari e raffinati e ciò nonostante che l’interdipendenza dei tanti posti del mondo si faccia sempre più forte: si pensi a questo proposito al Friuli. 3.10. La funzione del nazionalismo

La funzione del nazionalismo nel passato ha compromesso la razionalità della nuova società triestina. Ora, e per il futuro, tale nazionalismo gioca ruoli molto

meno precisi e recisi, in quanto le singole nazionalità all’interno di un sistema statuale sono reciprocamente rispet-

tose, almeno nelle prossimità di Trieste e dell'Europa centrale. Una funzione di incomunicabilità forte viene semmai dal fatto che ogni nazionalità risulta incapsulata in un piccolo stato, e questo tende ad essere geloso di una sorta di autosufficienza economica. I danni di ciò ricadono immediatamente su Trieste, in quanto deve fare i conti con micro e macro concorrenza di porti o di iniziative innovative nell'economia, che limitano la possibilità di essa di svolgere relazioni con questi nuovi mini-stati e con gli stati che stanno al di là di essi, nell’Europa centrale e balcanica. E chiaro che in queste condizioni, Trieste le può superare sviluppando una capacità notevole di dialogare con i vicini, per operare congiuntamente verso i mercati dell'Europa centrale, orientale e balcanica oltre che settentrionale.

302

3.11. Mobilità nelle strutture economiche

Trieste è nata da strutture economiche commerciali e poi industriali, in quanto il commercio estero-estero ha enfatizzato al massimo il rapporto tra l’oltremare e l’hirterland di Trieste, riducendo al minimo i tempi della permanenza della merce nella città e della sua trasformazione. In queste condizioni l’aspetto industriale si riferisce alla costruzione di navi e alla loro manutenzione: è così che gli armatori si dotano di navi in proprio. Per il resto Trieste resta la città dell’incontro di punti molto distanti tra loro e in generale delle grandi distanze. D'altra parte si associano a tali attività commerciali la copettura dei rischi dei trasporti. Le attività assicurative e finanziarie vi si associano, e per questa via si formano dei ceti nuovi, legati a una società esclusivamente monetaria e

quindi meno espressione della trasformazione e della manipolazione di cose concrete. Per questa via dunque Trieste tende a scivolare sempre verso strutture economiche, a preparare professionalità e a spostare il baricentro delle élite verso la realtà astratta della grande finanza di gruppi potenti. Dagli «affari» della produzione si passa agli «affari improduttivi» dei grandi capitali, da una funzione di servizio e di connessione dei paesi lontani del mare con i paesi imperiali lontani per terra a un’altra connessione localistica di una ricchezza che rimane a Trieste o al massimo arriva ai gruppi finanziari dei grandi centri dell’Impero. Con il crollo dell’Impero del 1918 si produce un «necessario» e ulteriore spostamento della specializzazione eco-

nomica: l’Italia tenta di rivitalizzare Trieste come avamposto del suo nazionalismo e quindi come centro per un’area (Istria compresa) che deve diventare italiana anche se tale italianità, quando esiste, è molto complessa. La conseguenza è che Trieste diventa un centro produttore locale e soprattutto un centro culturale.

Nel secondo dopoguerra l’Italia per Trieste cerca una ulteriore diversione della specializzazione, e dopo l’effimera internazionalizzazione portata dagli alleati con il governo militare alleato. E cioè trasformare Trieste nel centro ammini303

strativo regionale per un verso e in una corzpany town della grande industria delle partecipazioni statali per l’altro. Il risultato è un 724x di regionale e nazionale, che tuttavia già dagli anni Settanta ci si accorge che non risolve il grande problema di dare una stabilità allo sviluppo di Trieste. È in questo contesto di città rinata dalle ceneri del premoderno, ma sempre per forze esogene, e che dunque ne ha seguito le sorti, che si forma la necessità di individuare tecnologie che innovino ora e nel futuro Trieste e al tempo stesso si colleghino a quanto può esistere del passato. Ed è per questo dunque che articoliamo l’attenzione su tre tecnologie, che ipotizziamo, rifondano Trieste. Le tre tecnologie sono le seguenti: 1) le altre tecnologie, elaborate da una cittadella della

scienza per un contesto industriale locale, nazionale, internazionale; 2) la formazione professionale e imprenditoriale, 3) il sistema portuale.

Le alte tecnologie (high tech) sono espresse da un complesso di strutture e di ideazioni già teorizzate nella «cittadella della scienza», centrata sull’azione dell’università, dell’area di ricerca, del Centro di fisica teorica e delle strut-

ture collegate, le quali dai prodotti della ricerca pura da essi elaborata e dalla loro trasformazione in prodotti per la ricerca applicata si collegano a istituti di ricerca e ad aziende utenti collocate in hinterland vicino e lontano, locale, nazionale, internazionale.

In secondo luogo l’alta formazione professionale e imprenditoriale può essere proiettata a un hinterland che, oltre ad essere italiano e regionale nonché triestino, è soprattutto Est e Sud-europeo. Si tratta cioè di paesi che hanno appartenuto all'area centro-orientale del comunismo reale (in primo luogo i paesi del triangolo di Visegrad [Delli Zotti 1994] e ai nuovi paesi dell’ex-Jugoslavia e in generale a paesi danubiani come Bulgaria e Romania). Per tale strada dunque Trieste diventa un punto di riferimento per la formazione delle classi dirigenti di tali paesi, necessarie alle nuove economie di mercato. Un primo punto

di riferimento per lo sviluppo ditale formazione professio304

nale e imprenditoriale può essere visto nel Business Innovation Center. Infine il sistema portuale, inteso come un insieme integrato delle attività del porto, del commercio all’ingrosso, del trasferimento delle merci per l'Europa Nord-orientale, dell’indotto industriale connessovi, riprende e rivaluta la funzione che ha dato la seconda vita a Trieste dal Settecento in poi. Il suo hinterland è evidente, in quanto collaudato nel passato nell’ambito dell'Impero austro-ungarico. Nelle condizioni attuali i clienti del porto sono nei grandi stati del Nord e nei piccoli stati dell'Europa centro-meridionale. La situazione dunque si trova fortemente frammentata e per di più bisogna ricercare un nuovo ordine entro il quale relazionare porti che appartengono a stati altrettanto differenti. Trieste deve trovare un equilibrio relazionale con Capodistria, Fiume, Bar; e poi in Italia con Monfalcone, San Giorgio di Nogaro, Venezia, Ancona e così via.

Per tutte le tre tecnologie Trieste si inserisce in una rete relazionale internazionale, che può essere mondiale per le alte tecnologie; internazionale (soprattutto del Centro-Sud Europa) per la formazione imprenditoriale e professionale; est-adriatica per il sistema portuale.

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CAPITOLO QUATTORDICESIMO

LERADIGLE:LE CONSEGUENZE DELLE GUERRE BALCANICHE. PICCOLI DEI CON GRANDI SOGNI

1. «Parole chiave» per definire un conflitto, che in realtà possono considerarsi variabili di un ipotetico modello esplicativo La spiegazione di ciò che è successo nell’ex-Jugoslavia possiamo impostarla ricorrendo a spezzoni di variabili indipendenti, che ovviamente hanno condizionato l'evolversi della dissoluzione della vecchia forma federale di parecchie entità nazionali, verso l'affermazione di un diritto all’in-

dipendenza e all’organizzazione politica in tanti stati. Ciò è avvenuto secondo modalità altamente cruente e finalizzate a realizzare stati etnicamente omogenei, il che comporta quella che viene chiamata «pulizia etnica». Tale omogeneità esisteva già in Slovenia, il paese meno balcanico e più centro-europeo della Slavia del Sud, e dunque l’indipendenza non vi ha incontrato ostacoli. Consideriamo quindi le variabili di un modello esplicativo, ma con un approccio più problematico che completo e definitivo, e mettendo anche in risalto le connessioni reciproche delle variabili. 1.1. La cultura di confine La cultura che si sviluppa nelle zone intorno al confine è molto spesso complessa, e su tale complessità si possono costruire delle centralità: è questo il caso delle aree in cui convivono, secondo modalità relativamente pacifiche e tolleranti, due o più culture etniche. Tale cultura del confine sviluppa la coscienza, e la fierezza, di essere diversi e «più ricchi» di altri popoli. Ciò è avvenuto nella maggior parte dei casi intorno ai confini sviluppatisi in zone molto urbane, com'è il caso dell'Europa occidentale. 307

I

Il confine tuttavia può anche marcare separazione, contenimento, difesa. Ciò capita quando l’area entro la quale esso passa serve a dividere e a segnare il margine di un sistema rispetto ad un altro, e quindi, complementariamente, a rendere marginale rispetto al centro del sistema quel che è contenuto entro la linea confinaria.

All’interno della regione che va sotto il home di Jugoslavia si è consolidata una separazione confinaria fin dai tempi romani. Qui passava il confine tra Pannonia e Mesia;

tra Impero d’Occidente e Impero d’Oriente; tra Regno di Ungheria e Impero bizantino, Serbia e Bulgaria; tra AustriaUngheria e Impero ottomano [Magris 1986]. Inoltre questo confine ha avuto sempre la funzione di separare culture molto differenti, ed anzi il confine doveva rappresentare una sorta di cuscinetto, se non addirittura una terra di nessuno in grado di tenere lontani i centri delle unità politiche separate. Inoltre queste erano spesso delle grandi unità statali, più spesso degli imperi, mentre nella parte ortodossa della Jugoslavia si formarono entità politiche dalla vita effimera. Il fatto era ben dimostrato dalla politica confinaria dell’Austria che aveva collocato, anche con trasferimenti lungo il confine:con l'Impero ottomano (nelle attuali Kraine), popolazioni serbe e croate, in una sorta di cordone sanitario cattolico-ortodosso intorno alla Bosnia musulmana. Simile cultura del confine, fondante la realtà jugoslava, ha dunque incorporato i valori della separazione tra popolazioni quasi conviventi nella medesima area, e perciò ha favorito il farle sentire lontane ed emarginate dai luoghi in cui risiedeva il potere, il frammentarle in piccoli gruppi giustapposti, il non essere mai stata luogo di creazione di valori centrali per grandi imperi, il mantenere una omogeneità esasperata, l’affievolire il riverbero della cultura urbana a favore dei valori tipici della società rurale. Ora, l’avvicendamento di confini e di dominazioni imperiali lontane, indeboliti o favoriti anche, a seconda delle occasioni, da poteri locali, ha prodotto situazioni geo-politiche a nicchia, molto spesso chiuse su un’unica etnia, ma anche vissute in una non-convivenza multietnica, impostata 308

su un sostanziale apartheid, come è mirabilmente descritto da Ivo Andrié [1983] ne I/ ponte sulla Drina. Le conseguenze si sono fatte sentire nella concezione del rapporto fra città e campagna, nella violenza in cui è vissuta tale emarginazione, nell’enfasi sull’appartenenza etnica messa a confronto (e a scontro) con le altre appartenenze pure etniche [Shils 1975]. 1.2. Rapporto tra città e campagna

La campagna è, ed è stata, per definizione il contenitore di una società rurale, dove vi è una certa semplificazione della struttura sociale, e di conseguenza i criteri di selezione sono radicati all’appartenenza al gruppo e quindi all’ascrittivo e al particolaristico. Inoltre la proliferazione di piccole comunità accentua un tipo di «legami forti» [Granovetter 1973], fortemente intrisi di emozionalità, che poi si riverberano nei rapporti sociali sotto la forma di sopravalutazione dell’«amore» per l’îr e della ripulsa dell’out. È evidente che la città contiene meno questi caratteri, anche se non spariscono del tutto, ed invece si presenta con quelli opposti: universalismo nel considerare l'individuo, eterogeneità delle appartenenze accompagnata a una deemozionalizzazione dei legami e della fine dei legami, per la quale l’apostasia non è più un «peccato mortale» [Andrié 1993; Mlinar 1992].

Il rapporto tra cultura urbana e cultura rurale, così sommariamente richiamato, è stato sempre molto ambivalente. La campagna è stata. di volta in volta interpretata come genuinità e autenticità, controllo sociale e grettezza, calore proteggente e asfissiante, sottosviluppo; la città invece è stata vista come libertà e solitudine, sovraccarico di sti-

moli e società senza cuore, caos e piacere della complessità. L'atteggiamento duale di città e campagna (spesso dicotomico) poi è stato ondivago: a situazioni di anti-urbanesimo e di scoperta dell’arcadia sono succedute altre situazioni in cui il rifiuto della fissità di una struttura sociale rurale portava ad enfatizzare la cultura della liberazione dai clan e di 309

un’organizzazione sociale astratta della città. I poteri cen- . trali austriaci ed ottomani sono lontani, per le aree della Slavia del Sud, e gestiscono un controllo reale ma secondo modalità astratte (e cioè urbane). Il romanticismo con la riscoperta di miti brumosi e quasi «biologici» ha in qualche modo semplificato la vita complessa della città secondo il criterio etnico-nazionale. Ora, nella ex-Jugoslavia la variabile città-campagna è passata attraverso i gruppi etnici, e cioè serbi e croati si sono trovati, e sono stati costretti, a sviluppare la propria atti-

vità e cultura nella campagna e nei villaggi piccoli; mentre italiani (sulla costa)

e musulmani

(all’interno) hanno por-

tato e sviluppato una cultura e delle attività strettamente connesse alla città. In definitiva si è sviluppato una sorta di dicotomia: agricoltura per serbi e croati, commercio/amministrazione per italiani e musulmani. La sovrapposizione tra luogo-cultura-settore economico-etnia ha pure sviluppato in serbi e croati un disprezzo per «la corruzione» urbana e una sorta di rovesciamento del rapporto tra città e campagna. E cioè la città appartiene alla campagna in quanto essa è semplicemente un contenitore di servizi per chi abita e vive la cultura della campagna, e non viceversa [Novak 1970, 13].

1.3. Emarginazione e violenza Emarginazione e violenza sono conseguenze di una cultura di confine vissuta in comunità rurali isolate. Vi è emarginazione culturale e politica in quanto sono aree/zone che non interessano a nessuna delle grandi entità politiche, siano esse austro-ungariche, ottomane, ungheresi, francesi; russe, tedesche, italiane. Non interessano a nessuno, e quindi

diventa irrilevante l’esistenza in queste aree di un ordine. Sono aree emarginate, e quindi sono abbandonate a se stesse,

al loro destino, alle soperchierie di capi locali. In questo senso quindi la violenza locale è frutto del disinteresse, e dell’essere ai margini dei molteplici sistemi. D'altra parte il confine, nonostante sia un limite di uno stato, è mantenuto fluido e violento in quanto area, e cioè

310

in quanto «terra di nessuno». E cioè in questo caso il confine serve a rendere sicure aree interne, da un nemico esterno, musulmano e austro-ungarico, da «mantenere sulla corda», attraverso le micro-violenze delle scaramucce e delle

scorrerie. In una terra che in gran parte è tutta violenza, è chiaro che gli odi locali dei molteplici gruppi religiosi, culturali, etnici sono elementi da sfruttare a fondo.

Emarginazione e violenza sono modalità dei rapporti anzitutto tra musulmani e cristiani, e in misura minore tra

cattolici e ortodossi. I turchi e gli slavi islamizzati della Bosnia non hanno cercato una sorta di integrazione, almeno a livello etnico e culturale, con i serbi e i croati. Anzi, l’emar-

ginazione è stata talmente spinta e radicale da assumere i connotati dell’apartbe:d all’interno della medesima comunità [Volcic 1993; Bianchini 1993]. Tale emarginazione è stata mantenuta senza l'introduzione di un sistema di tolleranza e di attenuazione delle forme e cioè l'emarginazione non è stata mediata da norme e da criteri che sublimassero la violenza e la rendessero più psicologica e culturale che, brutalmente, fisica. La violenza fisica è stata la prassi normale della gestione dell’emarginazione. Ciò sta alla base del mantenimento dell’aggressività nei rapporti interetnici ma anche sociali e interpersonali. 1.4. Il confronto etnico

Mancanza di ordine centrale conseguente a disinteresse, emarginazione, cultura delle specificità spinta all’estremo, ruralità delle piccole comunità, con in più distanza «siderale» tra le culture di tali comunità, hanno trasformato tutto in

confronto etnico, inframezzato da esplosioni e scontri etnici. L’ethnos chiama a raccolta, fa convergere, induce alla ri-

flessione su di sé, e molto meno proietta verso l'esterno. Il numero limitato diffonde una spinta verso un radicamento centrato ‘sul passato (riconsiderato) e su ciò che differenzia dagli altri, e quindi sviluppa un sentimento di difesa ad oltranza. . Nei paesi dell’ex-Jugoslavia la cultura di confine ha sfilacciato la realtà sociale in tanti gruppi e sottogruppi etnici, 34

racchiusi in proprie nicchie con differenze reciproche trasformate in tratti diametralmente opposti; e la prevalenza della campagna sulla città ha isolato e reso estranee ancor più le tante nicchie. Inoltre la messa a confronto delle etnie avviene nella vi-

ta quotidiana, e dato che lo spirito che prevale nel pensare all’altro è lo scontro, questa vita quotidiana è vissuta non come relazione tra individui che hanno bisogno reciproco di amore, di aiuto, di segnali, ma come relazione negativa tra etnie.

E sul volto dell’altra etnia viene vista in azione la diversità «malefica». Cioè non è la diversità simbolizzatadi una etnia da grande gruppo, lontana dalla vita quotidiana e più fatto mentale e storico-culturale, ma si tratta di diversità co-

struita su spezzoni di storie passate, vere o gonfiate, di ragazzi rapiti per diventare giannizzeri e di esempi molto evidenti di apostati, le quali gravano sugli abitanti di un gruppo di case rurali, di una serie di tuguri urbani, contrapposti ad altri nodi insediativi del quartiere accanto. Tutti questi si fanno elementi discriminanti, che danno il senso di «male» e di «pericolo» a ogni più piccola diversità nelle parole, nei comportamenti, nelle soluzioni dei problemi dal proprio standard. E simile diversità è lì, ogni giorno, a rafforzare la «coscienza» di tale pericolosità e a far dubitare della propria sicurezza. In definitiva più della nazione e ancor più dello stato da essa formato, che spesso era un elemento organizzativo molto lontano come fonte di protezione e di ordine e molto pressante negativamente come somma di obblighi, è lo stato del gruppo etnico e il ricorso «maniacale» alla sua logica che ha dominato la storia e la vita sociale della Balcania. Insieme dunque questi fatti hanno poi generato un clima relazionale tra i gruppi etnici di reciproca chiusura e scontro, con un metodo violento di interpretare i rapporti e risolvere i problemi, positivi e negativi, che vi sorgevano.

312

1.5. Razionalità, tolleranza, scontro etnico culturale

utopia versus

radicalità dello

La tolleranza dell’altro, e soprattutto della cultura di cui l’altro è portatore, è un prodotto della ragione, e cioè della convinzione che la propria cultura non è l’unica depositaria della verità: certamente essa si fonda sulla verità ma anche le altre culture condividono grani di divinità. Da ciò deriva il tollerare l’esistenza delle differenze, e cioè significa che la diversità non è radicale e quindi che la comunicazione non è irrimediabile. Ecco il punto: la non radicalità indica che l’orizzonte si allarga, in esso la diversità diventa sempre più punto di vista, da rispettare perché la comunicazione è possibile e su di questa si può impostare un processo di «movimento» fondata sulla relazionalità. Dice Kant in Alla pace perpetua [2009] che il progresso dell’umanità verso il meglio è un pensiero necessario e al tempo stesso, come progetto, impossibile. Questa relazionalità, si sa, non offre delle certezze in partenza, poiché la «certezza certa» è il frutto della relazionalità stessa. La tolleranza dunque è il frutto di una razionalità, che è tale in quanto trova ragionevole che altri siano portatori di una propria «porzione di verità», la quale tuttavia rientra in un paradigma culturale più vasto, che può essere l’individuo, o l'Europa, o il cosmopolitismo, oppure un’utopia nuova che tratteggia i tratti felici e indispensabili dell’«uomo nuovo». Entro questo nuovo paradigma le antiche culture etniche diventano com. patibili e congruenti, vedendosi attribuire i connotati di cultura locale. Un processo simile ha cercato di realizzare il socialismo di Tito, rendendo compatibili le differenti appartenenze etniche entro un contesto societario più vasto generato dall’idea dell’«uomo nuovo» socialista e della società comunista. Simile utopia, pur proponendo una sorta di religione dell’«uomo nuovo intollerante», era profondamente laica verso le culture slovena, croata, serba, musulmana, ecc., nel senso che tendeva a trasformare in «non problema» le radici religiose, etniche, storiche, anche linguistiche di simili

culture. Esse venivano considerate sostanzialmente in ter313

mini folclorici. È chiaro il vantaggio di questa reimposta- . zione del problema jugoslavo: partire da zero rispetto ai valori tradizionali significava anche non dover scegliere tra ortodossi, cattolici, musulmani, e significava anche svestire

il tempo sociale delle vesti sontuose della «Storia» per distribuirvi i panni ruvidi e dér20dé delle «storie locali». Eppure il disegno di realizzare una tolleranza tra le etnie e i differenti nazionalismi, in quanto inseriti in un contesto più ampio, di stampo socialista, non ha funzionato, se ne è sfaldata la forza, in altri termini è fallito [Beloff 19871]. Quale il motivo? [Cviic 1993, Fisher 1966; Frescobaldi 1991; Garde 1992; Vucinich 1969]. A mio avviso è successo che la tolleranza tra le culture locali si è realizzata, o è

stata imposta, con l’affermazione dell’intolleranza di un’utopia totalizzante proiettata in uno spazio futuro. Ma si sa che le utopie, in quanto progetti predeterminati e completi, sono rigide e non lasciano spazi alla «fantasia» e alla casualità (intesa anche come prodotto dell’incrocio di molteplici, indipendenti o contrapposte causalità) dei risultati della relazionalità. Inoltre l'utopia per essere realizzata ha bisogno di forte e costante tensione, il che, si sa, è possibile

semmai assicurare nel breve periodo, ma nel lungo periodo diventa altamente improbabile, se non altro perché l’utopia come progetto si sposta sempre più avanti nel tempo. È

chiaro dunque che di fronte alle incertezze e alle delusioni derivate dall’«uomo nuovo» promesso in un futuro sempre più futuro, riappaiono le «certezze» della tradizione etnica e le promesse ovunque mantenute della plausibilità della nazione che su di essa si organizza. Ma perché tali certezze siano ancor più certe è necessario il paradigma della radicalità delle differenze etniche, e dell’erezione di uno stecca-

to tra la propria etnia e le altre attraverso l’intolleranza e quindi la violenza. Ecco il punto di non ritorno realizzatosi nella situazione dei paesi della seconda Jugoslavia. E la negatività di tale situazione non sembra che si possa superare se non con la formazione proprio dello stato-nazione, per il quale è stata riscoperta e riproposta l’intolleranza, la violenza di segno etnico.

314

1.6. Il ruolo del nazionalismo nello stato grande e nello stato piccolo

Anche il nazionalismo è elaborato dalle grandi culture europee e trova giustificazione nella semplificazione dei problemi, anche organizzativi, dello stato moderno, poiché in tal modo non è necessario approntare meccanismi di difesa delle minoranze culturali od etniche e al contrario il nazionalismo offre una base di integrazione per una società che ha bisogno di essa per far funzionare la struttura industriale dell'economia, e di conseguenza si incammina verso la formazione dello stato-nazione [Goio 1994; Pollini 1991; M:F1993»Govia199Lakacoste:1992];

Il nazionalismo come ideologia ha tuttavia conseguenze diverse per formazioni politiche diverse (cfr. il capitolo VIII di questo volume).

Per gli stati già formati all’avvento della nazione, Francia, Spagna, Inghilterra in primo luogo, il nazionalismo in realtà semplifica una situazione etnica che già da secoli è semplificata: tutti questi stati hanno visto l’agglutinazione di tanti feudi o regni più o meno indipendenti fin dalla fine del Quattrocento-Cinquecento; e quindi il nazionalismo si-

gnifica mobilitazione delle energie intorno all’idea di Francia, Inghilterra, ecc. come superiore agli altri popoli, e che all’interno accomuna tutti gli individui. Il nazionalismo in questo contesto di grande stato ha contribuito a produrre perciò la modernizzazione della so‘cietà; e cioè è servito anche al superamento della cultura locale del villaggio, all’universalismo dei giudizi e dei rapporti, alla secolarizzazione della società e della cultura. In altri

termini ancora, è servito a portare a valutare sulla base della funzione (funzionalismo), che è forma di razionalità fon-

data ‘sulla simulazione degli effetti, e a decidere sulla base di tale causalità verificata a posteriori. Inoltre il nazionalismo ha de-legittimato il conflitto interculturale tra i conflitti ammissibili, in quanto l’ha spostato al di fuori del sistema nazionale. All’interno è importante la comune storia e lingua, e i conflitti «comprensibili» assumono caratteri più sociali, politici, economici. Il nazionalismo ha favorito la se315

colarizzazione e quindi la razionalizzazione della società, . salvo che per un punto, irrazionale anche se immanente, qual è la nazione, intesa soprattutto come elemento per identificare e per agire. Diversa è la situazione dell'ideologia nazionalistica quando è vissuta in formazioni o in aspiranti formazioni statuali piccole, poiché queste risultano legittimate in massima parte dall’appartenenza etnica. Ora, tale forte sovrapposizione di nazione-etnia rappresenta un «peccato originale», che condiziona troppo la vita dello stato sia nei termini di una indipendenza più fittizia che reale (lo stato costa!) e sia in una spinta a giustificare se stesso sulle componenti «uniche» dell’etnia e cioè su una «quasi biologica e naturale» specificità di sé da contrapporre agli altri. In tali condizioni il rimando ad alcuni concetti della teoria evoluzionistica, quali la selezione, la pulizia etnica, la vittoria del forte sul

debole, dell’î7 sull’out offre una tentazione interpretativa forte. E cioè il nazionalismo in questo caso più che mobilitare le risorse per l'affermazione dello stato verso l'esterno, le attiva per sopravvivere in una stretta, ultimativa ed esasperata enfasi sulla propria diversità. In questo contesto si inscrivono i piccoli stati-nazione, e in particolare quelli che sono nati(e ancora nascere) nella balcanica ex-Jugoslavia. E chiaro che questo nazionalismo è concettualmente più intriso di valori rurali che non di valori urbani. 1.7. I miti della «Grande nazione» vissuti dentro il «Piccolo stato»

Spiegano la situazione della Slavia del Sud e forse più avanti dell'Europa balcanico-danubiana i miti della Grande Serbia, della Grande Croazia, della Grande Albania, della Grande Bulgaria, e perché no della Grande Ungheria e della Grande Romania? La nostra ipotesi è che questa sia una variabile molto importante. Vediamone i termini e le origini. Il rapporto tra stato e nazione è nato per essere simme-

trico, ma poi per effetto della etnicizzazione del concetto di 316

nazione si è fatto sempre più asimmetrico. Possiamo capire

ciò rifacendoci proprio alla storia di stato e nazione, nella tradizione occidentale. Nasce lo stato, né troppo grande né troppo piccolo per dimensione, come sommatoria di formazioni politiche feudali e dove i confini sono ancora più «terra di nessuno» e meno linee precise con intermezzi di feudi non ancora ag-

gregati allo stato; ma con tale stato si fanno strada esigenze di controllabilità, di universalità nel trattamento dei suoi

abitanti, di giurisdizione piuttosto che di patrimonialità, di orientamento delle risorse umane e di altro genere verso obiettivi che sono più politici e meno di puro potere. L’elaborazione di una cultura comune e di «valori forti» comuni offre la possibilità di dare integrazione allo stato. Tale cultura comune che trova in un’unica istruzione e in un’unica lingua i suoi punti di forza è portata dall’idea di nazione, ed è evidente che ciò sposta le differenze tra il noi degli appartenenti alla nazione e gli altri che ne stanno fuori. Il confine come barriera diventa sempre più visibile e l’omogeneità culturale da opporre ad altre omogeneità alternative di oltre confine sono conseguenze abbastanza scontate. L'esempio più chiaro di questa genesi del rapporto tra stato e nazione è dato dalla Francia: la nazione francese va ben oltre e non schiaccia le singole etnie che restano ancora per molto tempo culture locali. La nazione è un’idea che si diffonde, e quel che colpisce è il suo carattere culturale e la sua omogeneità linguisti- ca che con il tempo produce l’intervento organizzativo dello stato. Ed in effetti se ci si basa sul criterio linguistico e della comunanza storica per definire la nazione, ci si accorge che esistono tante nazioni «già bell’e fatte», cioè senza il bisogno che lo stato attivi dei meccanismi perché tali nazioni si formino. Anzi se si enfatizza l’a-priori come base della nazione, si può far balenare l’idea che l’etbros rappresenti la più forte legittimazione della nazione. Ciò capita in quelle formazioni politiche a carattere imperiale dove non è possibile ricorrere alla nazione come risorsa per produrre integrazione. È chiaro che in tali condizioni si deve riconoscere rilevanza a un concetto di derivazione negativa della BILI

nazione, e cioè a quello di integrazione sovranazionale, multinazionale, multiculturale. Questo concetto però è molto labile, e quindi è instabile, in un periodo in cui le élite europee concepiscono come unica via all’integrazione quella na-

zionale. Insomma negli imperi danubiani, ottomani e russi si afferma prima di tutto la nazione, la serba, la croata, l’ungherese, la romena, e così via, e questa nazione aspira a rinchiu-

dersi in uno stato. Il prius della nazione rispetto allo stato è fondato sull’omogeneità linguistica ed etnica già esistenti. Tuttavia succede anche che tale omogeneità sia molto forte in una zona, ma poi man mano che ci si allontana da tale centro essa si intersechi, si incontri con altre omogeneità

etniche, pur conservando ognuna una propria identità. Minima è la dispersione etnica per cechi, slovacchi, sloveni; ma molto forte è presso.i serbi, i croati, gli albanesi, i macedoni,

i romeni, gli ungheresi. In queste condizioni, quande finalmente lo stato imperiale si dissangua o entra in crisi, arriva il momento di formare degli stati nazionali, che tuttavia comprendono solo la parte della nazione in cui l'omogeneità etnica massima è associata alla (quasi) assenza di altre etnie. Altri spezzoni della nazione restano intrappolati in altri stati, dove vigono omogeneità di altre etnie. In altri termini succede che lo stato non copra interamente la nazione, si opera cioè un’asimmetria tra stato (pic-

colo) e nazione (grande) che tuttavia si vuole trasformare in simmetria.

Il mito della «grande nazione» dunque si contrappone alla realtà del «piccolo stato»; il che, quando lo stato è troppo piccolo e soprattutto è balcanico, suona come una «grave» contraddizione, poiché non si crea quel binomio organizzativo e culturale che è rappresentato dallo stato-nazione. Tale situazione produce una tensione, e cioè un tendere a combinare per sovrapposizione dei due termini. E ciò avviene perché l’omogeneità etnico-culturale è ottenuta (o è avvenuta) nello stato per riduzione e quindi per esclusione di una parte della nazione. Si opera perciò una stortura del principio dell’omogeneità nazionale già richiamata. Il professare tale «Mito» ha molteplici conseguenze, giocate da alcune parti come vantaggi. La prizza è che nello 318

stato nel quale si professa la «grande nazione» è possibile scaricare sull’esterno tensioni interne dandovi un significato etnico e fornendo nel futuro una legittimazione per l'espansione; la seconda conseguenza è che lo stato ospitante questa frangia esterna di nazione sarà portato a omo-

geneizzarla alla maggioranza, in modo da rimuovere il problema una volta per tutte, facendo opera dissuasiva di ritorsione con la mobilitazione della minoranza etnica che a sua volta anche questo stato ha nello stato che rivendica una parte di nazione incorporata nel proprio stato; la terza conseguenza è il rifiuto della minoranza nazionale fuori del proprio stato nazionale, e inglobata in uno stato a maggioranza etnica diversa, a farsi assimilare e quindi la minaccia o di andare con lo stato di riferimento (se questo è più ricco) oppure di recedere da ambedue per formare un proprio ministato composto da una frazione omogenea della nazione. Questo stava succedendo nell’attuale Bosnia e nelle Krajine croate, e poi è successo anche con il Kossovo e il Montenegro. Ciò che si verifica è in generale un’instabilità permanente, che cambia le situazioni geopolitiche di stati e le forme istituzionali (piccoli stati indipendenti versus confederazioni di mini-stati). E più in particolare si ha l'affermazione

e la pratica del principio della pulizia etnica come elemento dirimente in via definitiva le situazioni che vengono considerate ambigue e instabili e che sono di effettiva eterogeneità etnico-culturale. 1.8. L’aggressività del grande gruppo e l'aggressività del piccolo gruppo

Un'altra variabile, che a mio avviso ha potuto spiegare la guerta «barbara», selvaggia e senza regole nella Bosnia (ma anche nel Kossovo) è da individuare nel modo di immettervi l'aggressività [sul tema dell’aggressività la letteratura è molto ampia, ma qui basta citare alcuni titoli: AA.VV. 1985; Caprara 1979; Kosloski 1992; Lorenz 1974; Manganelli Rattazzi 1980; Mitscherlich 1972; Colovic 1993]. Quando si dice che la società è violenta, o come dice Galtung è una società «macho»,

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vuol dire che viene esercitata una violenza non finalizzata a . un obiettivo, cioè che non è strumentale e in qualche modo quindi non è «razionale», ma è fine a se stessa, almeno come molla di chi la esercita direttamente. Non è cioè la violenza razionale e considerata necessaria di chi la svolge «suo malgrado» per ottenere qualcosa, ma nasce da una carica emozionale contro il diverso da sé per appartenenza e perché responsabile, anche personalmente, di tutti i mali del gruppo. In questo caso l’aggressività è legittima in quanto sono contrapposte e alternative due morti: o la mia o la tua, e perché ciò pone fine a un attentato alla stessa vita quotidiana di sé e della propria famiglia. Cioè alla base dell’aggressività non stanno solo idee nazionali (difesa, interessi economici, strategici) e molto generiche, anche se trasformate in molto

importanti; ma vi è la stessa sopravvivenza di sé e del proprio gruppo (valori ultimi). Come si vede non è l’aggressività che uccide un punto che si muove lontano, ma è quella che affonda il coltello nella gola o nel cuore facendo entrare la lama fino al manico. È questa l’aggressività più tipica del piccolo gruppo piuttosto che della società nazionale di ampia dimensione. Ed è l'aggressività che riaffiora più facilmente quando, come in Bosnia o nelle Krajine croate o nel Kossovo, vi sono

comunità con prevalenza di un’etnia, incastonate in altre comunità con rapporti numerici tra etnie differenti o altre etnie. In verità anche l'aggressività del piccolo gruppo può esercitarsi in forme di violenza fisica molto varie, o addi-

rittura in una sorta di trarsfer e simbolizzazione di tale violenza. E il caso della violenza tra le città italiane dell’epoca comunale, o tra le entità feudali in lotta, che con il passare

dei secoli viene trasferita verso forme simboliche o sublimate, rappresentate dal «campanilismo» e dalle gare sportive stracittadine (derby). Si può quindi dire che in queste realtà italiane è rimasta a livello simbolico la violenza del piccolo gruppo (salvo esplosioni violente isolate e sempre possibili), mentre è restata l’aggressività del grande gruppo nella guerra dello stato-nazione verso l’esterno, vista come «necessaria», «scientifica» e «subita».

Ma allora perché l’aggressività del piccolo gruppo espressa in violenza fisica è restata molto forte e vitale in Bosnia e 320

nel Kossovo, quando abbiamo visto che, pur partendo da condizioni di rapporti inter-feudali e inter-città-stato in altri posti d'Europa, tale aggressività si esprime in forme simboliche e sublimate? Una spiegazione possibile è da ricercarsi nella variabile tempo: più è lungo quello passato dalle condizioni di contrapposizione tra piccoli gruppi (città o feudi o enclave etniche) e più è facile che l’aggressività venga espressa in modalità simboliche, e viceversa. Se ciò è vero, è chiaro che la tradizione di violenza vissu-

ta, per essere stata terra di soldati di confine il cui sostentamento non veniva dal lavoro agricolo ma dal bottino di guerra (nelle Krajine croate) oppure per essere stati sempre

contrapposti gli uni agli altri anche dentro allo stesso paese (nel caso della Bosnia musulmana e del Kossovo) è stata dismessa da poco piùdi un secolo, e semmai è restata viva

ancora per molto altro tempo sotto la forma di tensione interetnica. In altri termini non vi è stato il tempo e il clima politico e culturale sufficienti perché anche nei paesi della Bosnia-Erzegovina, del Kossovo e in altre parti dell’ex-Jugoslavia si potesse affermare un’aggressività del piccolo gruppo espressa in forme simboliche e sublimate. Il risultato è dunque che la violenza fisica espressa dall’aggressività del piccolo gruppo si è trovata strumentalizzata, senza che vi fosse la necessità di considerarla una «opzione indispensabile ma dolorosa», e quindi si è trovata, soprattutto nella sua carica emozionale, integrata e sommata all’aggressività del grande gruppo, che è quello serbo, quello croato e quello musulmano.

1.9. La pulizia etnica La pulizia etnica è una variabile importante per comprendere quanto è avvenuto nella ex-Jugoslavia, poiché essa è attuata in un momento storico di suo rifiuto [Kellas 1993]: Non è sempre stato così, poiché la pulizia etnica è stata prassi costantemente seguita, nel tempo e nello spazio e in tutte le realtà statuali, fino ai tempi recenti, almeno fino ai primi anni del secondo dopoguerra. La cacciata dal324

le terre avite, le deportazioni in massa, le infiltrazioni orga- . nizzate dai vincitori, i genocidi «scientifici» hanno rappresentato altrettante modalità di pulizia etnica. Ora però questa è inaccettabile, e perciò diventa sempre più appariscente quando è attuata. Le ragioni della inaccettabilità sono molteplici. Anzitutto è largamente condiviso il principio della tolleranza interetnica, il che, come abbiamo visto, è

una conquista della razionalità e dell’universalismo. In secondo luogo l’affermazione «forte» dei diritti umani è direttamente legata alla scoperta e all’affermazione dell’individuo e della persona e dei suoi diritti, il che attenua l’appiattimento totale dell’individuo sull’appartenenza razziale, etnica, culturale della comunità. Infine, deterrente alla pra-

tica della pulizia etnica è anche l’aumentata interdipendenza mondiale, che ha legittimato l’intervento esterno nello stato per salvaguardare il rispetto degli stessi diritti umani. Per almeno queste ragioni la pulizia etnica, teorizzata e praticata in varie forme nella Bosnia-Erzegovina e del Kossovo si è dimostrata inaccettabile, con in più l'aggravante che in essa si riversa tutta l’aggressività «non scientifica» che abbiamo visto sostanziare le micro-nazionalità di tale regione. 1.10. Il rinforzo perverso del sovrapporsi della cultura cosmopolita e della cultura locale

Il cosmopolitismo in qualche modo è un’ideologia dei modi di risolvere i problemi e dei fini ultimi e condivisi che hanno sedimentato culture locali avvicendatesi nella creazione di centri entro un filo invisibile, e che spesso viene indicato come civiltà; e di conseguenza il cosmopolitismo è anche una ideologia delle conseguenze e delle non incompatibilità tra culture che nuotano entro, e condividono, tale quadro cosmopolita. Questa ideologia va sotto il nome, spesso, di tolleranza inter-culturale, che costituisce un allar-

gamento del quadro (o spazio di accettazione) in cui si situa la singola cultura locale. E chiaro che con ciò si relativizza l’importanza della singola cultura di appartenenza, si attenua la rigidità del confine della propria cultura per aprirsi a 322

comprendere anche quella degli altri, si forma quindi un contesto nel quale si situano più culture che si capiscono per l’esistenza di un linguaggio comune. La tendenziale identificazione di cosmopolitismo e di civiltà porta a individuare più cosmopolitismi (ad esempio, occidentale, slavo cirillico, islamico), tra i quali si frappongono dei confini di contenimento/esclusione, e lungo i quali passa la linea (se contrassegnata da incomprensione) dell’incapacità a comunicare e a capirsi tra le culture di uno e dell’altro cosmopolitismo, perché appunto i «linguaggi» non sono comuni. Nella parte balcanica composta da Serbia e Croazia e soprattutto con il 725x di questi popoli, inclusi imusulmani, esistenti in Bosnia-Erzegovina e gli albanesi in Kossovo, si realizza tale situazione particolare, in cui il locale e il cosmopolita si rafforzano a vicenda, in quanto sono dello stesso segno, invece di situarsi in posizioni e svolgere funzioni differenti se non contrapposte. È successo cioè che i cosmopolitismi oltre che rappresentare dei modi ideologici di interpretare l’uomo e il mondo di una civiltà si sono trovati a legittimare i valori della comunità locale in quanto percepita come baluardo estremo della civiltà in cui si riconosce la stessa cultura locale. Anche in questo caso, la sovrapposizione tra localismo e cosmopolitismo era forte perché avveniva al confine — che questa volta è fra i tre cosmopolitismi — tra le grandi culture cosmopolite: occidentale, slavo-cirillica e islamica [Mandic 1973]. I valori universalizzanti dei tre cosmopolitismi e i valori particolarizzanti delle culture locali, nel senso finora considerato, si sovrapponevano e generavano un’ideologia radicale, da «fini ultimi» della propria cultura (725x appunto di valori locali e di valori cosmopoliti). Anche da questa prospettiva è derivata una forte caratterizzazione

delle mini realtà statali-nazionali,

che le ha

portate a impostare il rapporto con lo stato vicino più in termini di radicale divisione e di alternativa piuttosto che di buon vicinato e di tolleranza.

323

1.11. Le élite: dal perseguimento di un ordine per il futuro . al recupero di un ordine legittimato dal passato, senza passare per il presente

Lasocietà per funzionare ha bisogno di un qualche ordine, e i principi sui quali si fonda questo ordine possono essere molto differenti: può essere l’«uomo nuovo» del futuro utopico; può essere una sistemazione degli interessi individuali, della società civile e della vita quotidiana, in una

«competizione ordinata»; può essere la tradizione che si esprime nell’etnia e nella nazione. Ognuno di questi ordini è enfatizzato da rispettive ideologie. Quello che chiamiamo modernizzazione e democrazia occidentale si identifica più con il secondo tipo di ordine, anche se pure il primo e il terzo vi sono in qualche forma presenti. In tali contesti di ordine societario ovviamente l'elemento mobilitante sono le élite, e cioè dei gruppi, articolati ma anche omogenei, che tra le aspirazioni profonde ma anche contrastanti della popolazione ne individuano alcune sulle quali ricostruire una visione ideologica (e quindi completa, integrale e consistente) dell’essere e del dover essere. Tali élite indicano come desiderabile una certa visione della realtà e la propongono alla popolazione e alle istituzioni che governano la vita di questa; e di conseguenza si fanno operatori di potere per realizzare questa visione del mondo. Si badi bene che ognuna di queste élite «eleva» la popolazione della società connettendola a mete e valutazioni del mondo «superiori» a quelle della vita quotidiana, e inserendo nel tempo della storia propria e della civiltà questa popolazione che dunque si collega a una cultura o la rifonda per il futuro. Da tale punto di vista cosa è successo per le élite dell’ex-Jugoslavia? La prima nostra ipotesi è che si è operata una mutazio-

ne della élite comunista in quella nazionalista, con l’espulsione della frazione comunista che è rimasta jugoslava. Ciò è successo perché nella realtà l’uomo nuovo socialista nell’ex-Jugoslaviaè sempre stato intriso di nazionalismo: la via nazionale al comunismo è nata ante litteram proprio qui. È stato dapprima un nazionalismo socialista jugoslavo, che 324

poi le esigenze scarsamente accettate di riequilibrio economico regionale hanno lacerato in situazioni regionali. Alcune di queste regioni si sono percepite come vittime della povertà e della inefficienza delle altre regioni che devono essere mantenute, e altre regioni invece si sono sentite

frustrate nel compito (o missione) di regolare e ordinare l’intera Jugoslavia. La conseguenza è stata che all’interno di ogni repubblica e di ogni nazionalità l'élite ancora socialista ha pensato e risolto i problemi in termini sempre più nazionalistici. Se a ciò si aggiunge poi l’inefficienza dell’ «autogestione» che doveva far governare il socialismo dalla società civile e da quella che abbiamo chiamato «competizione ordinata», allora possiamo capire l’insostenibilità di un socialismo che da un certo punto in poi produce sempre meno ricchezza e sempre più differenze di classe. In queste condizioni l’élite è diventata progressivamente più compresa di un nazionalismo locale e sempre meno attratta da un socialismo che si è fatto progressivamente poco internazionale (come lo era ai tempi del non allineamento) e poco jugoslavo. La seconda ipotesi che sosteniamo è che questa élite tra le differenti anime dei popoli della Slavia del Sud ha valorizzato quella storicae tradizionale del comunitarismo, il quale trova i suoi archetipi nella piccola comunità e nel rapporto di trasmissione di essa nel singolo portatore di tradizione (genitore, anziano, saggio) più che nelle organizzazioni. Certamente di questo comunitarismo vi era traccia,

almeno al livello di criterio, nel socialismo jugoslavo; alla ‘caduta di questo esso è stato riletto lungo la falsariga del nazionalismo, secondo i canoni che abbiamo già in precedenza indicato. Certamente vi era un’altra élite, la quale si rifaceva e sosteneva l’altra anima, moderna e senza tempo insieme, radicata alla vita quotidiana, ai suoi ritmi e ai desideri di pacifica convivenza con gli altri: perché tutti vivono una famiglia, rapporti di amicizia e di soddisfazione/insoddisfazione nel lavoro, perché tutti sanno che gli altri hanno gli stessi pensieri e gli stessi sentimenti, perché tutti vogliono vedere il concreto delle conseguenze delle proprie azioni. É un’anima moderna anche perché ha prodotto l’individuo, i suoi 325

bisogni e i suoi diritti, composti pure di beni di consumo, e soprattutto è un’anima che ha un occhio volto ai processi di modernizzazione dell'Occidente. A mio avviso questa è l’anima più pragmatica e quindi più comprensibile da parte della gente proprio perché è più vicina alla vita quotidiana rispetto a quella più contorta, astratta, intellettuale che abbiamo chiamato «comunitarismo»; eppure l’élite vincente è quella che enfatizza e costruisce i nuovi ordini socio-politici proprio sui comunitarismi a connotazione nazionalistica.

I perché di tutto ciò possono essere molteplici, e vanno dal fatto che le élite in quanto operatori del potere, hanno la possibilità di controllare risorse come l’informazione e la forza e la cultura; e in secondo luogo hanno il potere di dare risposte «convincenti» a movimenti sotterranei e magmatici che convivone con, e soverchiano, la tolleranza, qua-

li le frustrazioni, le paure, le risposte esperite da secoli di storie locali, e in definitiva tutte quelle dimensioni in precedenza viste, e che insieme hanno la capacità di integrare,

anche in contraddizione con i bisogni della vita quotidiana e degli affetti personali, in maniera emozionale e ideologica molto forte e in tempi particolarmente brevi. A mio avviso attraverso il percorso descritto si è verificata la conversione della vecchia élite nella nuova élite [Lewin 1980; Gilas 1968], con il vantaggio tra l’altro di non dovere rispondere dei fallimenti, dell’inefficienza e dell’eventuale corruzione, prodotti quando questa era élite socialista. In sintesi l’élite politica, questa come tutte le altre, in-

sieme alle altre élite — e tra queste quelle intellettuali —, è importante, in quanto si fa vestale ed esprime dei principi ordinatori e i conseguenti elementi organizzativi dei nuovi stati sulla base delle dimensioni culturali sopra considerate — cultura del confine, città/campagna, omogeneità etnica, ecc. Tali dimensioni, utilizzate per mantenersi al potere, per esprimere giudizi negativi da parte del nuovo assetto societario, per costruire una integrazione forte e in tempi brevi,

si sono trasformati da fatti contingenti in elementi strutturali? Siamo tentati di dare una risposta positiva all’interrogativo, poiché il piccolo stato per convincere la propria popolazione che ha pieno diritto di esistere deve produrre pa326

triottismo, e quindi integrazione all’idea di stato-nazione, e alla fine deve convincere che i costi, anche economici, per il mantenimento del piccolo stato sono indispensabili. Dunque anche i motivi che legittimano questa élite politica si trasformano da contingenti in strutturali.

2. Ricomposizione delle variabili in un modello provvisorio Sono undici le variabili considerate, e tutte sono ordinate

secondo un criterio di crescente dipendenza dalle precedenti o, detto in senso complementare, ognuna è ordinata secondo

la perdita di capacità esplicativa delle successive. Dalla sequenza di tali variabili prendono consistenza i connotati del dramma di molti paesi dell’ex-Jugoslavia, che si possono sintetizzare nel fare proprie le idee politiche, culturali e istituzionali elaborate altrove, e soprattutto in contesti statuali con ampi territori e con dimensioni demografiche notevoli, senza adattamenti di rilievo alle proprie piccole realtà. Si tratta cioè: 1) di cultura di confine che

non è capace di inventare delle centralità; e che resta emarginazione per il sovrapporsi di molteplici confini (politici, etnici, culturali, sociali, psicologici), 2) di piccole unità che pagano il prezzo dell’identità con l'isolamento e la chiusura, 3) di violenza fisica che non riesce a coagularsi in astrazione e in sublimazione dei simboli di pressione, 4) di «grande» vissuto come sogno e perseguimento di un ricon-

‘ giungimento con un’«età dell’oro» che deve rimontare il limite del «piccolo», 5) di élite che perseguono l’integrazione e costruiscono la legittimazione di sé come principio ordinatore sui miti del futuro o del passato più che sul concreto delle aspirazioni, vissute dall’individuo, dalla famiglia e dal gruppo comunitario nella concretezza della vita quotidiana. In sintesi dunque dal modello molte schematicamente illustrato sono emersi i colori e le emozioni del dramma dei popoli e dei paesi dell’ex-Jugoslavia: vivere nel «piccolo» secondo le idee e gli standard elaborati, tarati per sé, e

quindi vissuti come «ottimali» dal «grande» (stato). Queste unità politiche sono orfane di, e sono al tempo stesso rabd27

biosamente contro, una visione «federalista» e universa- .

listica delle relazioni politiche tra culture differenti, e non sono capaci di realizzare (o inventare) una forma statuale nuova, e ad ogni modo sufficientemente ampia che possa pensare non solo alla sopravvivenza e all’auto-mantenimento, ma anche alla espansione (economica, culturale in pri-

mo luogo) e alla condeterminazione degli equilibri regionali se non continentali. La frammentazione statuale dell’ex-Jugoslavia, pur con tutte le specificità locali, può offrire un esempio concreto e antesignano se si volesse perseguire il disegno di un'Europa delle regioni, quasi indipendenti e sotto un evanescente governo europeo che lascerebbe ampio margine alla litigiosità e agli egoismi di regioni ricche contro regioni povere, di regioni «colte» contro regioni «non colte». 3. I percorsi per la formazione degli stati attuali

La situazione di guerra di tutti contro tutti, negli ultimi vent'anni e nel prossimo futuro, nasce dal sovrapporsi di condizioni, di stili, di modalità di vivere la vita collettiva e i

relativi valori ancestrali o ancestralizzati. Lungo il percorso fin qui schematizzato si è consumato il dramma della Bosnia-Erzegovina e prima delle Krajiné e di parte della Slavonia, e dopo del Kossovo. Alla fine di tale percorso ci sono dei nuovi «mini-stati», che, oltre a nascere

da simili «peccati originali», cercano una pace futura interna fondata sul principio dell’omogeneità etnico-culturale, dopo aver considerato impercorribile quella utilizzante l’eterogeneità come risorsa.

Agli effetti di tali peccati, tuttavia, si sono aggiunti gli effetti di due conseguenze, che condizionano fortemente la stessa vita dei nuovi stati. La prima è che la modernizzazione della violenza ha portato all’adozione di armi e di tecniche militari sempre più sofisticate tecnologicamente, e quindi ciò ha comportato una dipendenza dall’esterno sempre più forte, sia per reperimento di armi che di gruppi ar-

mati. La seconda conseguenza è nata dal fatto che tale di-

328

pendenza dall’esterno è stata resa sempre più difficile dall'isolamento internazionale e dalla conseguente applicazione di sanzioni ed embarghi. Gli effetti delle due conseguenze sono a loro volta altamente catastrofici: alla perdita di quel po’ di convivenza costruito in quarant'anni di federazione e alla disarticolazione delle basi economiche, si sono aggiunti fenomeni di «illegalità strutturali», che difficilmente anche un’omogeneizzazione statale futura riuscirà nel breve periodo a smontare e a disintegrare, almeno per nuovi stati come Kossovo, Bo-

snia e Montenegro. Mi riferisco in particolare al contrabbando, all’burzan trafficking, alla dipendenza dai mercati mondiali della droga per il procacciamento delle armi, al mercato pure clandestino delle armi. 4. Quali legalità future dalle illegalità presenti negli stati emergenti dall’ex-Jugoslavia? La formazione di nuovi piccoli stati è stato lo sbocco del marasma etnico nel breve o anche nel medio periodo. E tuttavia questi stati sembrano essere troppo piccoli per sapere organizzare e orientare a una nuova convivenza e a

una nuova legalità la vita collettiva e le risorse economiche, grandemente compromesse fino al momento della loro formazione. A ciò si aggiunge poi l’instabilità derivante dalle difficoltà di controllare i fenomeni indotti dalla lunga lotta, ‘che abbiamo visto esprimersi in formazione di bande armate, in mercati illegali di armi e nel fiorire dei narcotraffici. Certamente a ciò può sopperire la formazione di confederazioni

a carattere

economico,

orientate

alcune

verso

l'Europa centrale, dove pure esistono alcuni piccoli stati, e altre verso la Balcania vera e propria con orientamenti privilegiati verso Albania, Grecia, Bulgaria e Romania.

Tali forme organizzative possono rappresentare un po’ di rinuncia all'indipendenza sostanziale in campo economico, ma questa potrebbe essere considerata un pedaggio di carattere organizzativo per la ricostruzione e il mantenimento in vita dello stesso stato. 329

Simile possibilità formale tuttavia può approssimarsi allo scenario vero, se aggiungiamo, e quindi non omettiamo, l’importanza dei fattori che determinano l'instabilità politica interna di ognuno di questi piccoli stati. Inoltre l’instabilità generalizzata a tutti questi stati produce un «effetto di contaminazione», diffusione e saldatura in un’area molto vasta di instabilità economica, politica, sociale, istituziona-

le, culturale. In altri termini potremmo spingere più avanti l’immagine di un futuro, ipotizzando che una larga parte dell'Europa meridionale e orientale diventi instabile, in quanto incapace di estirpare l’intrusione dai singoli stati delle influenze perverse di gruppi di interessi a carattere criminal-mafioso, i quali occupano gangli vitali dell’economia in cui i confini tra il legale e l’illegale risulta altamente vago, ed anzi il legale può rappresentare la copertura di traffici illegali legati in primo luogo a droga e ad armi. Si verrebbe così a saldare e «organizzare» in qualche forma di integrazione un’area che dalla Balcania, attraverso Bulgaria, Romania, la Transcarpazia e la Moldavia (Transnistria), arriva fino alle nazioni caucasiche (Ossezia, Inguscia, Cecenia). Questo potrebbe essere il cuore di una sfera di turbolenza più ampia, compresa tra la Sicilia e il lago d’Aral. E oltre alla debolezza a debellare le tante illegalità ora presenti e a imporre un ordine statale nuovo, questo cuore è formato da stati che tutti, chi più chi meno, hanno un contenzioso da buttare sul piatto delle relazioni interstatali, è cioè il mito della «Grande nazione» vissuto nel «Piccolo stato».

330

CAPITOLO QUINDICESIMO

LA TRANSIZIONE COME DARWINISMO SOCIALE

1. Introduzione

«Capitani o pirati» come li chiama Schoenman

[2005],

«asceti del lavoro o robber barons» come li chiamano rispettivamente Weber e Veblen? Quali sono le élite che emer-

gono da una rivoluzione? La nostra risposta è che in un’epoca di transizione, e per definizione, la rivoluzione si completa in un tempo di transizione — non ha importanza se tra classi sistema e antisistema oppure tra classi che emergono all’interno del nuovo sistema —: le élite sono un po’ tutto questo. Obiettivo del presente capitolo è di capire cosa avviene nel tempo della transizione, inteso come tempo in cui si consolida una rivoluzione. Ma in questo caso la transizione è differente a seconda che la rivoluzione abbia una funzione pedagogica, per la quale i maestri diventano la nuova classe e restano (per una legge ferrea dell’oligarchia) gli stessi e non ammettono altri, o che la rivoluzione sia il punto terminale di un processo che vede affermarsi, alla fine, un nuovo ordine e una nuova società civile [Gilas 1968, 47].

Per far ciò richiameremo (brevemente) gli aspetti della rivoluzione, la quale in realtà avviene entro un certo periodo in cui si formano le nuove classi sociali e le nuove organizzazioni che realizzano e mantengono il nuovo ordine espresso dalla rivoluzione stessa. È un tema, quello della rivoluzione, che affronteremo quindi nel suo evolvere all’interno di un tempo, in cui si inizia e si completa il nuovo ordine sociale, economico,

organizzativo,

culturale. L'aspetto

che però a noi interessa di più è quello di discutere di ciò che avviene in questo tempo, che abbiamo indicato come transizione. È un periodo in cui la dinamica si muove attraverso i modi del darwinismo sociale, e questo perché è un 331

periodo di non regole, compreso tra vecchie regole che sono disattivate e nuove regole che sono affermate ma non ancora interpretate nelle possibilità di realizzazione. L’ultimo, e a nostro avviso più importante, aspetto della nostra analisi è quello relativo ai modi concreti in cui si è sviluppata la transizione per effetto della caduta del comunismo sovietico in Europa, anzitutto nei paesi del socialismo reale, ma anche nei paesi occidentali che erano connessi, in qualche modo, ai paesi ex-comunisti dell’Est-Europa. Quel che risulta sono le forme concrete in cui il darwinismo sociale in questi paesi ha fatto emergere prima élite al di fuori di regole sociali, poi la loro evoluzione, e infine classi adeguate e obbedienti alle regole del nuovo ordine sociale. x

2. Rivoluzione, interregni e il processo del loro compimento Non è nostra intenzione analizzare il fenomeno indicato come «rivoluzione», e quindi osservare come per le teorie e i sociologi essa cambia e si configura. Coglieremo ciò considerando solo alcune definizioni, in cui vi è un intreccio tra cambiamento dello stato nazionale,

ma anche l’emergere di nuove élite e di assetti sociali e istituzionali radicalmente nuovi. Pareto sosteneva che la rivoluzione avviene perché gli individui al potere diventano sempre meno capaci di usare la forza, e si ha una infusione di persone più fortemente dotate di questa capacità, indicate come «persistenza» o «residui» della «classe», che diventa necessaria se una società vuole evitare il caos interno e la conquista dall'esterno. Ciò capita in due modi: «Il popolo in cui prevalgono i “residui” della classe II, li porta nella classe governante sia per infiltrazioni (circolazione delle classi elette), sia

a scatti, con le rivoluzioni» [Pareto 1916, 2227]. Tilly elabora la ben nota tesi che l’aspetto caratterizzante della rivoluzione è la «sovranità multipla». Una situazione rivoluzionaria comincia quando un governo pre-

cedentemente sotto il controllo di uno stato unico e sovrano diventa oggetto di rivendicazioni efficaci, in competizione e reciprocamente

332

esclusive da parte di due o più distinte forme di stato. Essa si conclude quando una singola forma di stato sovrano riguadagna il controllo del governo [Tilly 1978, 191].

Nella nostra analisi allarghiamo l’ambito della rivoluzione da élite squisitamente politiche anche a élite sociali, economiche e culturali, da un movimento rapido a un processo ancora più lungo e sufficiente perché si abbia un completo cambiamento non solo delle élite, ma anche delle organizzazioni, delle classi sociali, del modo di produrre e di vivere la vita quotidiana. Dal punto di vista delle trasformazioni sociali ed economiche radicali la rivoluzione può avere tempi rapidi e improvvisi e tempi più lunghi, e al termine di questa transizione può prodursi la sostituzione delle nuove élite a quelle vecchie. Dal punto di vista istituzionale il mutamento radicale può avvenire all’inizio o alla fine di un processo sociale ed economico più o meno lungo. Due esempi lo indicano molto bene: la Rivoluzione francese e la Rivoluzione sovietica. Nella Rivoluzione francese il cambiamento politico è avvenuto alla fine di una rivoluzione borghese durata un paio di secoli e molti decenni; mentre nella Rivoluzione sovietica il cambiamento politico è stato l’inizio di un processo sociale ed economico radicalmente nuovo. In queste condizioni l'emergenza di élite nuove può seguire vie differenti: nel caso delle rivoluzioni istituzionali che sanzionano situazioni sociali ed economiche

consoli-

- date, le élite si sono già formate e quelle politiche derivano dalla situazione rivoluzionaria; mentre nel caso che il muta-

mento sociale ed economico derivi dalla rivoluzione istituzionale allora le élite, e le relative classi sociali, cominciano

a formarsi proprio da quel momento rivoluzionario, come è successo per la Rivoluzione sovietica. Anzi queste élite che fanno la rivoluzione si trasformano esse stesse in una classe sociale, come ha ben evidenziato

Gilas nei suoi libri su La nuova classe [1968] e La società imperfetta [1969]. Anche nel caso che vogliamo qui discutere, il passaggio dal socialismo al mercato inizia con una rivoluzione, alla

933

quale succedono nuove formazioni economiche e sociali, du- . rante un processo (transizione) più o meno lungo. Può capitare pure che si abbia una sorta di «rivoluzione» anche con il solo emergere di nuove élite, senza che si formino nuove classi sociali o nuove istituzioni, senza sostituzione di classi sociali, ecc. É questo il caso degli interregni (intesi come periodo tra due regni dinastici stabili) tra dinastie negli imperi, regni, ducati, contee medioevali. Basta osservare una qualsiasi sequenza storica tra il periodo in cui regna saldamente una dinastia e quelli in cui questa si estingue e viene sostituita da un’altra [cfr. A. Gasparini 2004g]. L’interregno è un periodo di transizione, in cui lo stato feudale è in profonda crisi, durante il quale rischia di sfaldarsi o di ricombinarsi, perché il potere passa da una dinastia all’altra e alle élite ad essa collegate. Alla fine spesso il vincitore emerge da un periodo di violenze. La ragione di ciò naturalmente è legata al massimo di movimento nelle élite, per cui i perdenti di un tempo possono ora diventare vincitori. E tale movimento è dovuto allo sbiadirsi del principio di legittimazione del potere, connesso alla famiglia, ai matrimoni, e al maggiorascato indicante la modalità di scelta del membro della famiglia legittimato a governare. È chiaro che quando viene meno il maschio (maggiore o anche no), allora si apre il periodo di interregno, al termine del quale succederà la dinastia di chi ha sposato la figlia o la sorella della dinastia estinta per via maschile. Qualche esempio illustra molto bene quanto detto. Un esempio è dato dalla guerra dei «cent'anni» (1337-

1450) tra Valois di Francia e Plantageneti di Inghilterra, dopo l'estinzione del ramo principale dei Capetingi, e durante la quale la legittimità dei Valois è fortemente contrastata dai re inglesi. Altro esempio è dato dalla guerra delle «due rose» in Inghilterra, che capita perché si estingue il ramo principale dei Plantageneti (1400), e i due rami collaterali di Lancaster e di York si contendono il regno, fino a che il potere non si stabilizza con i Tudor di Enrico VII (1485). Ma più significative ancora sono le turbolenze degli interregni effettivi tra i Sacri romani imperatori, all’estinguersi di dinastie, che nei 1006 anni di durata dell’Impero 334

(dall’incoronazione di Carlo Magno dell’800 alla rinuncia di Francesco II del 1806) hanno visto ben 253 anni occupa-

ti da contrasti per la stabilità di una dinastia. E i più lunghi interregni si hanno tra l’estinzione dei Carolingi (888) e

l'ascesa degli Ottonidi (962) per ben 74 anni, e tra l’estinzione degli Hohenstaufen (1254) e l’ascesa dei Lussembur-

go (1353) per ben 99 anni. Naturalmente gli esempi di questi interregni tra un’élite in decadenza e la stabilizzazione di un’altra sono infiniti. Più in generale possiamo anche concludere che la #ransizione è costituita da un irferregno: «presto o tardi qualche gruppo elitario opera per consolidare il potere e terminare la rivoluzione» [Higley, Burton e Field 1989, 8]. Le rivoluzioni non si verificano solo a livello di stato,

ma abbiamo anche esempi in cui esse avvengono nelle città rifondate da nuove élite od anche da una nuova tecnologia. Un esempio molto chiaro avviene a Trieste, quando all’inizio del Settecento Carlo VI e Maria Teresa d'Asburgo la rifondano. Nella Trieste precedente esiste una élite tradizionale dedita a rendite terriere e mercantili modeste, tipiche di una città piccola per abitanti. Con la concessione del porto franco e con l’incoraggiamento a trasferirsi a Trieste fatto a gruppi commerciali marginali nell’Impero [armeni, ebrei, ortodossi (greci e serbi), protestanti (luterani e calvinisti)] con la promessa delle libertà di religione e di affari, le nuove élite arrivano, sostituiscono le vecchie élite e rifon-

dano la società economica e la società civile. Alla fine le . nuove élite penetrano in tutti gli ambiti della società, e le vecchie élite scompaiono, senza lasciare tracce [cfr. A. Gasparini 1995, 21-29]. 3.

Ndarwinismo sociale della transizione rivoluzionaria

«Come possiamo definire la transizione? E cosa succede in questo periodo? Queste sono domande alle quali vogliamo rispondere in questo paragrafo. Provvisoriamente e genericamente possiamo definire la transizione come il periodo in cui si realizza il cambiamen335

to radicale, e cioè essa è il periodo compreso tra il momento in cui le regole e i valori di una società vengono meno (o almeno tendono a venir meno) e il momento in cui le nuove

regole sono già consolidate e verificate. Una tale generica definizione lascia irrisolti alcuni aspetti: il primo è che l'intervallo tra i due estremi è molto vario. È relativamente breve quando vi è una rivoluzione improvvisa, e cioè quando la nuova élite e le regole che esprime cancellano l’ élite precedente e fanno decadere le vecchie regole. Tuttavia, mentre l'affermazione del nuovo potere e delle nuove regole viene rapidamente ottenuta, il consolidarsi delle nuove regole richiede più tempo e soprattutto la nuova élite si forma con una sequenza di persone e di interessi che incarnano le regole finali e quindi risultano da un conflitto e da un gorgoglio di interessi e di interpretazioni. Un esempio illuminante di questo tipo di transizioni è senz'altro dato dalle rivoluzioni, fasciste e comu-

niste, che si sono sperimentate nel Novecento. La transizione tuttavia può anche essere molto più lunga, quando la rivoluzione avviene nel tempo, come quella borghese, moderna, illuminista e poi industriale. In tale transizione le vecchie élite convivono per molto tempo con quelle tradizionali ed anche le élite tradizionali conservano il potere per molto tempo e cercano di differenziare i poteri tra classi sociali esistenti e classi nuove: i poteri politici restano alle classi tradizionali, mentre i poteri culturali ed economici sono riconosciuti alle nuove classi borghesi. È un equilibrio che non può durare all’infinito, perché alla fine il cerchio delle nuove regole economiche deve chiudersi con quelle politiche ed istituzionali: ciò significa che alla fine vi sarà la rivoluzione, come è successo nel 1789 francese.

Può però succedere il caso per cui la rivoluzione non è un suggello finale, ma una spinta primordiale, come è successo con la presa del potere comunista da parte di Mao in Cina, che mette in moto una rivoluzione che ancora non sappiamo come si esaurirà, dato che ora vi è una sorta di contrapposizione tra la rivoluzione iniziale diventata attualmente quasi solo politica e la ripresa del potere e la fissazione delle regole che ora è quasi solo economica e di stile di vita. 336

A parte le diversità dei tempi della transizione, a noi interessa sapere come si disattivano le vecchie regole e come si formano e si consolidano le nuove regole, e cioè come prendono consistenza le nuove regole e come il nuovo potere centrale, politico soprattutto, non riesce che blandamente a imporre regole, finora relative a cose «sconosciute» (si pensi al post-comunismo, il sistema di regole che governano il mercato, la privatizzazione del pubblico, e così via). Ciò avviene, questa è la nostra ipotesi, perché le nuove élite non restano le stesse, ma si sedimentano ed esperisco-

no le regole in un vuoto di riconoscimento istituzionale e valoriale, il che significa che scelgono le regole che più sono consonanti ai propri interessi.

Tale processo produce alcune conseguenze: vi è una lotta di interessi (e interpretazioni) di persone diverse, appartenenti all’ élite che ha fatto o che è delegata a fare la rivoluzione, la quale (lotta) produce alla fine una sedimentazione di persone, che vincono momentaneamente il conflitto e che poi possono soccombere ad altre persone. È evidente questo nella Rivoluzione francese: Robespierre e i Girondini, Robespierre e Danton, Robespierre e tutti gli altri. È molto evidente ciò nel caso della Rivoluzione di ottobre: Lenin, poi Stalin e Trotzkij, poi Stalin e ZinovievKamenev, Stalin e Bucharin, e poi Stalin e le ombre del terrore. Ma è evidente anche nell’attuale transizione post-comunista: prima la nomenclatura degli apparati di stato, poi l'economia ombra, poi gli imprenditori che cominciano a capire il mercato, e poi gli imprenditori e i consulenti che dominano e governano il mercato interno e internazionale. In tale processo le regole che sembrano funzionare, al di là delle loro linee generali, sono quelle che nascono dall’esperienza concreta delle relazioni e dei processi produttivi in cui operano le singole persone: e vincono quelli che vincono, o quelli che capiscono e dominano i percorsi più efficaci, sia perché vi si adattano più prontamente, sia perché li sanno utilizzare bene. Le regole finali sono quelle che nascono dalle relazioni conflittuali che abbiamo delineato: certamente esse sono conformi alle indicazioni generali date fin dall’inizio dalle 337

istituzioni politiche, ma queste non possono entrare nelle, e

dettare delle, regole specifiche di una situazione che è tutta in costruzione. Inoltre queste regole finali danno una nuova certezza di quello che c’è da fare e bisogna fare: e tale certezza produce un’attenuazione dell’ansietà personale, l’attenuazione dell’anomia molto diffusa, e in definitiva un equilibrio nello stile dei rapporti sociali non solo a livello interpersonale ma anche a livello sociale, economico, culturale.

A questo punto finisce la transizione. Nel periodo (solo in questo) della transizione si mette in atto un darwinismo sociale!, che si concreta nelle fasi della variazione delle professioni e delle organizzazioni, nella loro selezione e infine nella loro ritenzione. Il processo dell’evoluzione d’altra parte non riguarda solo le persone, ma anche le organizzazioni: anzi dal punto di vista strutturale sono soprattutto queste organizzazioni che hanno rilevanza. Certamente sono importanti le nuove classi sociali che si formano: Gilas [1968, in particolare 58 ss.] ha ben descritto il formarsi della nuova classe di partito; ma altrettanto chiaramente Michels [1966] ha messo in risalto come anche all’interno delle organizzazioni (partito, nel suo caso) si formino le classi sociali per effetto della «legge ferrea dell’oligarchia». Ma sono ancora più importanti le organizzazioni che emergono e cambiano nell’evoluzione, quando si tratta di aziende private e del loro agire nell’ambito del mercato. Hannan e Freeman [1989]? hanno ! La letteratura sul darwinismo sociale nella tradizione sociologica è consistente, ed ha avuto molto successo nella prima sociologia, da Spencer alla scuola di Chicago e oltre. Esso è stato valorizzato e teorizzato come ideologia per spiegare il conflitto e il mutamento sociale, ed ha avuto un seguito rilevante nei periodi e nei paesi in cui si formavano, con poche regole e con sperimentazioni continue, le società industriali tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Cfr. a questo proposito Martindale [1968, 262 e ss.] o anche Ferrarotti [1974]. L’interpretazione che qui diamo a darwinismo sociale tuttavia si diversifica significativamente dalle concezioni sviluppate dal sopradetto filone di pensiero sociologico. ? Hannan e Freeman rivalutano il processo di evoluzione (nella varietà, nella selezione e nella ritenzione) nelle modificazioni che subiscono le

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evidenziato come le organizzazioni-imprese evolvano per effetto dei processi che avvengono nel periodo che abbiamo indicato come transizione, e per effetto di un cambiamento delle regole che avviene nelle relazioni tra le organizzazioni e nella capacità di vincere le sfide ecologiche dell’ambiente e del mercato composto di concorrenza e di conflitto con gli imprenditori nati prima e nati dopo, diventati tali «per grazia ricevuta» o per capacità di dominare le regole, queste sì, del mercato. Ma cos'è il mercato in queste condizioni? E soprattutto in un contesto culturale in cui esso è stato visto come un demonio da esorcizzare e ora come un oggetto da interpretare? Anche in questo caso il mercato diventa una serie di opinioni che si sedimentano: forse in un primo momento è solo legittimazione degli interessi privati e della sfera libera di azione. Poi, tuttavia, l’accesso a questa condizione di privatizzazione

e libertà fa sì che molti soggetti entrino in competizione, e di conseguenza la sopravvivenza di sé come imprenditore è affidata alla ristrutturazione dell’azienda, e quindi all’enfasi sulla produttività del lavoro e del processo produttivo. Un terzo livello di maturazione dell'idea e della prassi di mercato avviene infine nel momento del confronto dei costi, della qualità e dei prezzi dei prodotti dell’azienda della transizione con i costi, la qualità e i prezzi dei prodotti delle aziende internazionali. Anche questa breve disanima di una possibile sedimentazione di idee e di prassi di mercato descrive un processo e un'evoluzione dello stesso mercato nei paesi in transizione.

In verità la transizione è un tempo in cui vi è tutta la popolazione, che agisce da sola e attraverso un’organizzaorganizzazioni nel loro crescere, affermarsi, od anche morire. Per rendere meglio il processo di evoluzione delle organizzazioni, gli autori le considerano in termini di ecologia di popolazioni, e quindi di una sorta di tipi aggregati, che devono adattarsi dialetticamente all'ambiente. Il pensiero evoluzionistico, in generale, viene anche connesso a una evoluzione orientata a un fine. Teilhard de Chardin [1968] infatti declina il «fenomeno umano» attraverso il lungo processo evoluzionistico che comincia dalla pre-vita, e poi continua con la vita, con il pensiero, per sfociare nella super-vita.

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zione, della società che ha disattivato le regole del passato. Ma una certa parte di questa popolazione, incapace di reagire e senza strumenti per agire, sprofonda nell’anomia, intesa come incapacità di capire come e cosa fare, in quanto è presa da un «intontimento» generale. Per questa parte della popolazione molto spesso comincia un periodo buio, fatto di pensioni che non valgono più niente, di stipendi pubblici insufficienti a vivere, di welfare state disattivato, di incapacità di assumere decisioni e iniziative autonomamente

[Sztompka 1991, 355]: Questi sono i perdenti della transizione, e bisogna aspettare la generazione successiva, perché le regole nuove siano compatibili con lo standard di vita diffuso. In realtà con quello che siamo venuti a discutere sulla transizione, ci siamo riferiti soprattutto agli attori delle regole, e cioè a quella parte di popolazione attiva della nuova situazione, che gestisce in prima persona la rivoluzione, e cioè quel mutamento radicale compreso tra una situazione di regole disattivate e un’altra situazione finale di | assetto delle regole nuove. La transizione è in sintesi assimilabile a quel periodo che già abbiamo indicato come interregno, in cui si opera il cambiamento all’interno di un laboratorio, in cui le fasi ini-

ziali sono-sempre diverse da quelle finali. Perché tutto questo? Anzitutto, abbiamo visto, non si sa bene se le regole affermate producano gli effetti desiderati e attesi (il mercato, nel nostro caso), poiché vi è una pluralità di valori (vecchi, nuovi, e ancora più nuovi) e perciò essi hanno una presa blanda e inoltre le istituzioni (macro, meso, micro)

sono tutte nuove di zecca e non sanno bene fin dove spingere e pretendere l'applicazione dei comportamenti nuovi, delle regole e delle leggi neonate. Quello che c’è di sicuro, e vale di più, è l'atteggiamento di fare i propri interessi e cioè quello di interpretare il pubblico in termini privatisti. Quante volte rappresentanti di istituzioni e imprenditori dei paesi della Comunità Europea hanno verificato ciò nei rapporti con colleghi, persone e istituzioni di paesi ex-socialisti, nei primi anni Novanta. È successo infatti che ognuno si muove per proprio conto, come se le regole non esistessero o come se le regole fossero quelle che ognuno si 340

dà. Si genera, in altri termini, una sorta di anarchia hobbesiana, in cui ha la meglio chi è più capace nelle relazioni sociali, nell’accaparrarsi delle risorse dell’ambiente, nell’assoggettare a sé le istituzioni e il pubblico anche attraverso la corruzione, nel costruire una organizzazione (impresa) che è capace di resistere alle pressioni negative esterne ed anzi di dominarle. Chi opera ciò non è un «cattivo in natura», che sfrutta per sfruttare, non è un «gattopardo»? che passa da una istituzione dell’arcier regimze ad un’altra del nuovo regime: è semplicemente uno che usa gli strumenti che ha a disposizione (compresa la capacità soggettiva di cogliere le occasioni e piegarle ai propri interessi), ed èuno cheè alla ricerca di una organizzazione (impresa) o di una posizione sociale che dalla varietà delle situazioni emergenti riesca a risultare stabile tra le tante caduche e che dunque risulti selezionata tra esse, e di conseguenza abbia vita lunga, e cioè sia soggettaa ritenzione anche per il futuro. Sono 3 È nota l’affermazione amara che Tomasi di Lampedusa [1962] mette in bocca al principe di Salina nel parlare del futuro della Sicilia e delle sue élite, sul nipote Tancredi che fa carriera nello stato italiano: questi abbandona il vecchio per il nuovo perché con tale cambiamento nulla cambi. Tale affermazione ha avuto molta fortuna e si è guadagnata il nome di «gattopardismo»: cioè cambiare radicalmente per non cambiare nulla. In realtà di vero in questa affermazione vi è solo la constatazione che le élite del vecchio ordine tendono a (e fanno di tutto per) restare élite anche nel

nuovo ordine. Ciò è stato giudicato un fatto negativo, in termini di coeren‘za nel tempo, e quindi per tale élite è stato coniato il termine di voltagabbana e di opportunista. In realtà in tale fatto non vi è nulla di negativo, in quanto non si può chiedere a una persona di restare fedele a ciò che non esiste più; e, d’altra parte, da tale continuità della persona nel cambiamento radicale viene la possibilità di gestire la transizione da un ordine all’altro in maniera professionale e non violenta in quanto tale persona capisce le ragioni della persona e del cittadino per traghettarlo nel nuovo ordine. Come si vede, non è che non cambi necessariamente nulla nel nuovo ordine. Può non cambiare nulla solo se il nuovo consiste in uno stato nuovo ma con lo stesso tipo di società e di organizzazione di essa. Ma se

anche cambia solo la struttura sociale delle élite (liberale invece che feudale e terriera), allora, pur restando la stessa élite, essa si converte alla nuo-

va struttura sociale in quanto la vecchia non esiste più.

341

queste le tre fasi dell'evoluzione (varietà, selezione, ritenzio- .

ne), lungo le quali passa la transizione, il consolidamento delle nuove regole, valori, istituzioni,

e del nuovo ordine.

Possiamo esprime ciò nella figura 1. Cosa succede nella transizione

Fasi

varietà

fase della legalità non provata +

fase della trasformazione (del laboratorio)

fase della nuova legalità

++

selezione ritenzione

FIG. 1. Transizione secondo le fasi e i contenuti di ognuna di queste.

Abbiamo iniziato questo capitolo con l’interrogativo se la transizione produce pirati o capitani. Ebbene possiamo ora rispondere che rispetto alle regole condivise, all’inizio vi sono le imprese e gli individui (élite) che le fissano e le «provano», e da questo punto di vista essi possono configurarsi anche come pirati; ma poi le imprese e gli individui che emergono (élite) indicano quali sono le regole operative vincenti, e cioè meglio adeguate a consolidare il nuovo ordine e a perpetuarlo nel tempo, e allora queste élite tendono a configurarsi come capitani. Tutto ciò non vuol dire che non vi siano delle regole «pubbliche» anche durante la prima transizione, poiché nel caso della transizione qui presa in considerazione si sono

adottate regole del mercato e della privatizzazione; ma piuttosto vuol dire che queste regole e queste leggi sono troppo generali e troppo globali per dare delle norme «legali» per attuare concretamente il mercato e la privatizzazione. Inoltre, è comprensibile che chi fa mercato e privatizzazione sono le vecchie élite convertite a questa nuova necessità di ordine sociale, e di conseguenza queste stesse élite cercheranno di essere loro quelle élite che realizzano il nuovo ordine, e quindi di restare ancora, esse stesse, le élite nel momen-

to in cui le nuove regole gestiranno la nuova società uscita dalla transizione. 342

In definitiva, se in ogni società può esserci un certo gra-

do di darwinismo sociale, piccolo o grande che sia, esso assume una dimensione consistente soprattutto nelle fasi di transizione per tutte le ragioni che abbiamo fin qui delineato. Se accettiamo tale impostazione del mutamento sociale, allora diventa meno negativa la valutazione della Scuola di Chicago, laddove, con Park [1979], evidenzia come, in ca-

renza di regole di integrazione e di controllo, nella città americana per i nuovi immigrati resti solo la lotta per la sopravvivenza per arrivare a una sorta di selezione per la società

americana dei singoli individui. Infatti, di fronte a questi immigrati, che vanno a collocarsi nelle aree «di transizione» della città resta l’alternativa o di rinchiudersi nella propria comunità etnica (ma questa non è un'alternativa, se non per i

vecchi) o di lottare per emergere dalla miseria (in presenza di regole spesso inapplicate o inesistenti) attraverso la garg, il vagabondaggio, la taxi-dance hall, ecc. Tuttavia queste sono risposte che nel medio periodo non producono soluzioni accettabili. 4.

La transizione e le nuove società post-comuniste

Pirati o capitani? Nella transizione vi sono ambedue queste figure, anzi possiamo concludere (almeno come ipotesi) che si nasce pirati e si diventa capitani, dove per capitani si intendono punti di riferimento, fonte primaziale di regole derivate, paladini (quasi) delle regole nuove, dardy delle belle maniere e del tè preso alle cinque del pomeriggio con la grazia che si deve tenere in un salotto dove la forma è sostanza. In tale periodo di transizione, abbiamo già detto, avvengono i processi del darwinismo sociale, in cui si produce la selezione dei nuovi capitani. Nella realtà però questi capitani, alla fine della «rivoluzione capitalistica» nei paesi dell’ex-socialismo reale e quindi della transizione, assumono delle connotazioni diverse, 0,

anche, risultano alla fine di un processo di transizione a tempi differenti a seconda dei paesi già socialisti. Una prima 343

differenza avviene tra la Russia e gli altri paesi già satelliti . del’Unione Sovietica, e in secondo luogo tra i paesi che hanno goduto di una precedente (al regime comunista) industrializzazione liberale (Slovenia e Repubblica Ceca, ma anche Ungheria, Polonia e Repubbliche Baltiche) oppure in cui la prima modernizzazione è avvenuta con il comunismo post-’45 (Romania e Bulgaria) [Gubert 2007]. Infatti, le strategie, gli obiettivi, i risultati e itempi sono stati radicalmente differenti se in tutti i paesi vi è stata una via alla privatizzazione con la vendita delle shares delle aziende di stato attraverso vouchers distribuiti a tutti i cittadini (o ai dipendenti dell’azienda); se lo stato ha seguito delle politiche simili alla privatizzazione e alla ricostruzione della società, comprese tra quelle soft e le shock therapy; se

l’obiettivo finale era quello di costituire una struttura economica fondata sulla società civile e quindi su piccole e medie imprese. 4.1. Elementi della transizione in Russia

Il tempo della transizione, se lo consideriamo come quel segmento che porta tutta la società a fondarsi sulla realizzazione di imprese piccole, medie e grandi, in Russia non si è ancora realizzato, poiché allo stato attuale vi è la formazione delle grandi imprese connesse alle materie prime e alle produzioni militari di un grande stato, dotato di risorse, qual è la Russia; mentre è ancora molto carente la

presenza di piccole e medie imprese. In realtà la formazione del settore privato, ancora illegale e sommerso, comincia ben prima del programma governativo di privatizzazione iniziato nel 1992, e ad ogni modo prima di quando venisse affermata la legalità della privatizzazione (1990). Infatti già con l’ultimo periodo di Breznev, i futuri imprenditori legali aprono una cooperativa sotto iltetto di un ‘impresa statale, o di una qualsiasi istituzione statale solida, diretta da loro stessi o da qualcuno che conoscono personalmente e con il quale sono entrati in contatto [Codagnone e Kristanovskaja 1994, 187].

344

Questo schema era conveniente per entrambi: gli imprenditori marginali trovavano un tetto giuridico e fisico, l’accesso alle materie prime, e contatti aggiuntivi; il direttore dell’impresa statale, si sarebbe diviso il profitto e, attraverso la cooperativa, avrebbe potuto godere di maggiore libertà d’azione. In altri casi essi hanno ottenuto finanziamenti dalle imprese statali i cui direttori divenivano azionisti della nuova impresa. Un altro canale tipico di accumulazione primitiva è stato quello di esportare materie prime richieste sui mercati internazionali ed importare computers e beni di consumo occidentali. Ciò è stato possibile grazie alla mobilitazione di rapporti personali con i direttori delle imprese che producevano dette materie prime e con le autorità preposte al controllo del commercio con l’estero [Codagnone e Kristanovskaja 1994, 187-188;

ma anche Kristanovskaja 1995; Gubin 1995].

Dunque, già prima del crollo del comunismo e dell’economia di stato si affermano delle élite economiche private, parassitarie delle imprese di stato, il che dimostra che la privatizzazione (anche dell’economia di stato) riguarda prima i profitti, poi la proprietà quando crolla il comunismo e poi la privatizzazione del debito. La letteratura racconta come l’oligarca Berezovsky abbia tratto i profitti dalle Lada vendute: all’Autovaz, la fabbrica, un auto costa 4.700 dollari, viene venduta al com-

merciante di auto per 3.500 dollari, il quale le vende al privato a 7.000 dollari. Già da questi prodromi della privatizzazione che verrà legalizzata nei primi anni Novanta del se‘colo scorso, in Russia si affermano situazioni e fenomeni che tuttora esistono e sono consistenti:

1) nel 1993 Iurij Utariansky [1994] rileva che tra il 70% e il 90% dell’economia è sommersa, con tutto quello che ciò significa in colossale evasione fiscale; 2) le nuove grandi imprese, gestite dagli oligarchi connessi strettamente al potere, sono legate allo sfruttamento e alla vendita delle materie prime (gas, in primo luogo); 3) già altre imprese nascono per gestire le finanze, sotto la forma di banche, e le relazioni internazionali attraverso le

quali importano materiali informatici e beni di consumo; 4) le relazioni che permettono l’accesso all'impresa so345

no mantenute in massima parte con il potere politico ed . economico di stato per iniziare, e con la mafia per mantenere le posizioni raggiunte «per grazia ricevuta» [Kristanovskaja 1994, 139-40];

5) vi è perciò una diffusa economia criminale e molteplici forme di corruzione, la prima delle qualièquella legata ai funzionari appartenenti a strutture legali [Krilov 1994, 134; Zabriansky 1994, 136];

6) le piccole e medie imprese industriali si diffondono in un secondo momento, e sono tuttora in formazione, hanno

carattere interstiziale, e assumono spesso il carattere di doppio e triplo lavoro di professori, ricercatori ed altri lavoratori altamente istruiti. D'altra parte le nuove classi sono generate dalle vecchie classi sociali comuniste, proprio come era apparso all’affermazione dell’Unione Sovietica e come ha efficacemente descritto Gilas. Ciò appare da uno studio di Codagnone e KriStanovskaja [1994, 178 ss.], in cui essi individuano negli in-

tellettuali, negli intellettuali marginali, negli intellettuali «quasi nomenklatura», nei Komsomol’cy, nei dirigenti statali. Gli sntellettuali hanno lavorato in istituti di ricerca scientifica o all’interno dell’università e quindi fanno parte dell’7telligencija scientifica. Hanno abbandonato il loro impiego statale (semplice ricercatore) per iniziare la carriera imprenditoriale, ad esempio come presidente del gruppo industriale Interprom. Gli intellettuali marginali sono imprenditori che provengono dai settori marginali dell’intelligencija, come quella dei tecnici e degli ingegneri delle imprese industriali e da altri settori a retribuzioni più basse. Anche questi abbandonano il loro precedente lavoro, e si lanciano in attività alternative, divenendo spesso imprenditori di successo. Gli intellettuali «quasi-nomenklatura» si differenziano da quelli del primo tipo di imprenditori in quanto hanno una maggiore contiguità con il potere politico, ma per il resto sono impiegati in istituzioni scientifiche o culturali non membri della rorzenklatura. Ad esempio l’imprenditore X, quando ha aperto l’impresa, aveva suo zio membro del Politburo,

l'organo di potere più alto del Pcus. Questi imprenditori erano i primi ad aprire delle joint ventures con grandi partners

346

occidentali* quando non esistevano ancora basi legislative solide e ratificate per tale operazione, ancora controllata dal Kgb. I Korzsorzol’cy comprendono gli imprenditori provenienti dai ranghi del Komsomol, dove essi lavoravano come funzionari di medio livello. Le loro prime esperienze di imprenditori cominciano con gli esperimenti economici di autofinanziamento, con l’organizzazione di festival musicali e concerti rock, con il coordinamento delle «brigate edili studentesche» che d’estate costruivano edifici e dacie sulla base di contratti privati. Questi /eaders dei giovani comunisti erano

spesso pragmatici e ambiziosi e trovavano

nel

Komsomol la possibilità di avanzamento professionale. Infine i dirigenti statali sono dirigenti di livello medio ed elevato nelle strutture economico-amministrative statali e nelle imprese industriali, che si convertono in imprenditori. Come si vede, queste nuove élite sono connesse agli apparati accademici, politici, amministrativi, industriali, anche se in

posizioni diverse, e prima o dopo l’accesso al mondo del lavoro. Non vi sono invece membri della rorzenklatura vera e propria, e cioè del partito e dello stato, che si limitano ad appoggiare. Con la disintegrazione del sistema sociale e politico, si impongono, o ad ogni modo si tenta di adottare, terapie shock, in molti stati ex-comunisti.

Ricordiamo

la shock

therapy adottata in Polonia, ma soprattutto quella progettata e tentata in Russia dal primo ministro EFigor Gajdar. Tale terapia shock si fondava sulla filosofia del darwinismo sociale, ma imposto dall’alto e secondo la teoria totalitaria relativa alla riformabilità del socialismo di stato [Gubin 1995, 163]. Gli elementi economici della terapia politica shock furono «la liberalizzazione dei prezzi, le relazioni di mercato spontanee o poco regolate, una rigida politica monetaria e la fiducia verso un’auto-riorganizzazione e autoregolazione macro-economica» [ibidem, 162]. Un esempio in cui era inserita questa terapia shock è stato il progetto di 4 Un esempio delle dinamiche e dei processi in queste relazioni è fornito dalla ricerca di Francesca Dallatana sui rapporti tra la filiale della Parmalat in Russia e le autorità e i dipendenti russi [Dallatana 2000, in particolare il capitolo secondo].

347

Gajdar di costruire una serie di new towns negli estesi territori , di proprietà del Kgb tra San Pietroburgo e Mosca, al fine di costituire un sistema di piccole aziende ad alta tecnologia, alla guida delle quali porre i militari di una armata russa riconvertita a scopi civil?. In generale però il risultato di simile terapia shock fu l’aumento enorme dei prezzi di alimentari e beni di consumo, la diminuzione dei salari e dei risparmi in rapporto al costo della vita, la perdita della possibilità di ottenere appartamenti per milioni di persone, il pagamento privato delle spese per l'istruzione e la salute [idem]. Di fronte a tale orientamento verso la catastrofe, il progetto della terapia shock venne abbandonato, e il suo fautore principale, Eigor Gajdar,

venne rimosso da capo del governo dal presidente Eltsin. Una ragione concomitante per tale rimozione era dovuta anche al fatto di avere tentato la riconversione civile di gran parte dell’armata russa, che nel sistema di fiducia della popolazione occupava il primo posto (60,4%) quasi alla pari con la chiesa ortodossa (58,6%) [Mansurov 1993, 155].

A distanza di venti anni dalla disintegrazione del sistema sovietico e dal processo della sua ristrutturazione, possiamo

rilevare che i tipi ideali delle nuove classi economiche che stanno emergendo dal darwinismo sociale, compreso tra i due ordini di regole, sono riconducibili ai seguenti: 1) gli oligarchi, che controllano le materie prime abbondanti e sono protetti o combattuti (a seconda dei casi) dal potere centrale. Alcuni nomi che hanno avuto grande importanza a cavallo degli anni Novanta e dei primi anni del 2000 sono i seguenti: Boris Berezovsky, Vladimir Gusinsky, Mikhail Khodorkovsky, Alexander Smolensky, Vladimir Potanin, Vladimir Vinogradov, Mikhail Friedman [cfr. Klebnikov 2000; Freeland 2000; Goldman 1996; Hoffman 2002];

2) i nuovi imprenditori nei settori del commercio internazionale, delle nuove tecnologie, e in misura minore nel° All’Isig (Istituto di sociologia internazionale di Gorizia) venne proposto di creare una filiale a Mosca per formulare ricerche e progetti di realizzazione di questo obiettivo di costruzione di rew towns e di individuazione della modalità della messa in atto di queste nuove aziende ad alta tecnologia, orientate alla riconversione dei militari dell’Armata rossa.

348

l'industria, che appaiono, scompaiono, per poi lasciare spazio ad altri. Questi imprenditori sono cominciati ad apparire negli ultimi anni dell’Unione Sovietica, e molto spesso hanno avuto accesso a tale posizione attraverso l’acquisizio-

ne dei vouchers messi all’asta od ottenuti «per grazia ricevuta», ma non sono stati in grado di rimanere nel mercato e nelle sue regole. Tutto ciò capita a meno che essi non cerchino delle protezioni, che si sostituiscono a quelle della vecchia nomzenklatura, ormai scomparsa o ridimensionata. Così se prima la protezione veniva dal Partito comunista che dominava esecutivo, giudiziario e legislativo, ora, con la caduta del Pcus, la protezione è assicurata dalla mafia [Satarov 1995, 52-53]; 3) la 7zafia protegge soprattutto quelli che hanno avuto una «grazia», e faticano a far fronte alle logiche del mercato e ai nuovi concorrenti. Anche la mafia cambia con il tempo i suoi metodi, da violenta si fa solo parassitaria. Nei confronti degli investitori internazionali, se prima la mafia li costringeva a vendere o ad andarsene quando avevano realizzato un’impresa, ora essa offre propri uomini e richiede una sorta di intermediazione;

4) le agenzie di consulenza. Il consulente (sia esso avvocato, commercialista, o conoscitore di regole internazionali)

assume una funzione sempre più importante di fronte alla mobilità degli imprenditori (che appaiono e scompaiono) e alla complessità delle regole del mercato interno ed internazionale. Tale consulente si configura come un co-attore di . questo processo di diffusione di regole sempre più standard, che poi diventano, alla fine, le regole dell’ordine nuovo. 4.2. Elementi della transizione nei paesi ex-socialisti dell'Europa centrale La transizione della Russia da un ordine comunista a un altro ordine liberal-democratico ha avuto delle caratterizzazioni, dei modi concreti e dei tempi molto diversi da quelli degli altri paesi ex-comunisti, di quella che in Occidente veniva chiamata l'Europa dell’Est. Conviene richia349

mare alcuni caratteri che la transizione ha avuto in questi paesi, e quindi la brevità del darwinismo sociale che anche qui si è verificato e che ora è in via di conclusione. Le ragioni di tutto ciò le abbiamo già richiamate, e in particolare quella della brevità dell’esperienza del socialismo reale statale e quella delle precedenti esperienze di capitalismo pri-

vato che hanno vissuto. Ma in questi paesi vi è l’ulteriore ragione della prossimità all'Unione Europea, e soprattutto appare influente la loro volontà di affrettare i tempi per l’entrata nell'Unione Europea con l’accettazione di criteri e tempi che rendano sempre più compatibili le società politiche, le società civili e le economie dei paesi dell'Europa centrale e di quelle occidentali dell’Unione Europea. Le compatibilità significano capacità di dialogo, e si può dialogare perché si è uguali all’interno dell’Unione Europea per sviluppare complementarietà all’esterno (dell'Unione Europea stessa), e perché si è complementari già all’interno dell’Unione Europea. Probabilmente la via europea vincente del dialogo è (stata) quella dell'essere uguali quel minimo necessario per economici e professionali), e tarietà nei settori economici. economici e professionali «si

poter cominciare (in termini pos realizzare una complemenFuori di metafora, i sistemi capiscono» (e ancor più si ca-

piranno), perché il mercato dei valori, dei gusti, delle aspettative, dei modi di risolvere i problemi sono (e ancor più saranno) simili, ma poi (almeno nel periodo breve-medio) le singole parti dell’Unione Europea allargata sviluppano economie agricole, industriali e di servizi complementari, così come potranno elaborare differenziate marce di sviluppo. Il discorso sulla compatibilità fra l'Unione Europea dei quindici e quella che da virtuale è diventata reale dopo il 2004-2007, ci introduce alle considerazioni sul processo della transizione, che in questi paesi assume specifici caratteri, rispetto a quelli dell’ex-Unione Sovietica. Già abbiamo scritto che transizione significa che non esistono più regole e non esistono ancora regole, lo spazio

del potere si allarga a nuovi individui e gruppi, i concetti di mercato e di privatizzazione vengono reinterpretati. A tutto 350

ciò bisogna aggiungere che emergono nuove professioni. Queste non sono necessariamente quelle del vetero capitalismo con il grande imprenditore e le masse di dipendenti, da cui nascono di conseguenza partiti di massa e sindacati forti. Al contrario, le nuove tecnologie, ma soprattutto la

scelta politica di coinvolgere il più possibile la popolazione nella co-decisione sociale, favoriscono la nascita di piccoli e medi imprenditori di stampo tradizionale e di nuove figure professionali free lance stabili intorno alle quali nascono strutture aziendali variabili. Queste nuove professioni d’altra parte emergono da un processo di darwinismo sociale, in cui la società politica e la società civile assumono configurazioni nuove e svolgono compiti e modi di agire anch'essi nuovi. Così la società politica nei paesi ex-comunisti dell’Europa centrale non sa cosa fare, se non fissare regole [Schoenman 2005], che non sa cosa produrranno e che sono orientate semmai dai consulenti dell’Unione Europea, della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale, ecc.; e se

‘non appoggiarsi e appoggiare i singoli interessi lobbistici o addirittura i propri interessi. Anche in questo caso la società civile si arricchisce di due tipi di figure professionali essenziali: l'imprenditore privato e il consulente. Il nuovo imprenditore (più spesso piccolo o medio che

grande) ha drenato vouchers dagli altri dipendenti della fabbrica o è il piccolo auto-procacciatore d’affari (può cominciare con l’affittare il proprio appartamento, ad esempio) ‘o è il finanziere che gestisce i giochi bancari e finanziari. Sono professionisti che spesso non si trovano nelle condizioni di gestire produttivamente la propria impresa, sia perché il contesto è troppo imprevedibile e indicibile per la loro cultura (cos’è mai il mercato?!); sia perché il patrimonio lo hanno avuto per «grazia ricevuta», senza meri-

to, e sono perciò disposti a mantenerli con tutti i mezzi (leggi: corruzione, mafia, ecc.!); ma sia anche perché non riescono a dominare l’ambiente delle regole imposte dall'Unione Europa (leggi: non sanno utilizzare le opportunità che l'Unione Europea offre attraverso i progetti Interreg, Phare, Tacis, ecc.!).

351

Alla professione dell’imprenditore industriale e com- . merciale, che opera in un paese con poche materie prime, si associa, pian piano e di conseguenza, la nuova professione del consulente (avvocato, ma soprattutto commercialista, intermediario, produttore di pareri per utilizzare i bandi Ue, ecc.).

Tale consulente diventa una figura centrale perché: 1) conosce quello che sta fuori dell'impresa (il contesto); 2) conosce e interpreta le regole e le conseguenze cui esse portano; 3) è il professionista dei contatti con l’esterno del paese; 4) è il professionista che media il rapporto con le potenzialità delle nuove tecnologie; 5) è il consigliere del principe che inventa le nuove modalità destinate a consolidarsi; 6) è il professionista dei contatti con le regole dell’Unione Europea; 7) è il professionista che contribuisce, orienta, e in qualche modo produce la nuova selezione darwiniana. Insomma il consulente è il creativo rispetto all'imprenditore per «grazia ricevuta» o per rendita di posizione. I nuovi due tipi di professioni nel tempo della transizione subiscono una stabilizzazione (istituzionalizzazione) o anche un ridimensionamento, quando si passerà dalla transizione alla certezza delle regole o, se vogliamo, quando verrà superata la fase strettamente darwiniana delle società che aspirano alla, e poi che entrano nella, Unione Europea. Come si vede, il tempo della transizione per i paesi dell'Europa centrale che sono entrati nell'Unione Europea, o che ancora vi aspirano, è stato (ed è) relativamente breve,

per le ragioni dette. Di conseguenza possiamo ritenere che questo periodo si sia sostanzialmente concluso, o almeno il periodo darwiniano si sia fortemente assottigliato, in quanto le nuove élite economiche non possono che formarsi seguendo le regole nazionali ed europee, e quindi il loro formarsi non può che essere affidato alla loro capacità innovativa, espressa entro i limiti fissati dalle regole. Un residuo di darwinismo sociale può essere giocato nell’ambito di un ancora alto livello di corruzione (variabile

DIL

da paese a paese) [cfr. Marcon 2005, 298 ss.]° e di presenza mafiosa, che intaccano la presa delle regole del nuovo ordine sulla formazione delle élite economiche. Tale presenza di corruzione e presenza mafiosa, d’altra parte, oltre che intaccare

l'applicazione delle nuove regole, introduce anche una profonda distorsione nella formazione del nuovo capitale sociale per l’uomo delle nuove società europee. Infatti, se con la caduta del comunismo (o anche delle società tradizionali) la singola persona si trova di fronte alla necessità di riarticolare il proprio capitale sociale, al termine del processo di transizione ci si aspetta che tale nuovo capitale sociale sia fondato sulle regole che fanno emergere (o sanzionano l’emergere delle) nuove élite, le quali, almeno da qui in poi, dovrebbero riuscire ad affermasi per meriti propri e per capitali sociali che sono fondati su relazioni positive e costruttive dell'impresa efficace ed efficiente. Nel caso di prevalenza di corruzione, se non addirittura di mafia, è evidente che la

concezione e la realtà del capitale sociale vanno contro a quella che chiamano una economia e un’élite «sane» e positive. 6 Marcon [2005] riporta l’indice di corruzione in termini di percezione della corruzione nel 2000 e nel 2003. TAB. 1. Indice di corruzione secondo alcuni paesi Paesi

Indice 2000

Indice 2003

Popolazione 2000

EU15 media

7511

753

V4 media

4,2

3,8

64.347.090

EU15 + V4

6,6

6,8

440.674.750

6,3

410.266.000

Nafta media

6,8

376.327.660

Ungheria

COAZA

48

Repubblica Ceca

4,3

3,9

10.022.000

10.273.300

Polonia

4,1

3,6

38.650.000

Repubblica Slovacca Irlanda

355 ez

31 159,

5.401.790 3.794.000

Stati Uniti

o

TOT

Canada

9,2

8,7

281.550.000

Messico

33

3,6

97.966.000

Giappone

6,4

7,0

126.870.000

Tailandia

DZ

39

60.728.000

30.750.000

Nota: più è basso l'indice e più è alta la percezione della corruzione.

353

5.

Per concludere

La transizione di una società e quello che avviene durante questo periodo li abbiamo trattati, inquadrandoli in una rivoluzione politica (che può avvenire al termine o all’inizio della transizione), una rivoluzione politica che non necessariamente coincide con la rivoluzione della società. Quello che viene definito come mutamento improvviso, radicale, violento in realtà possiamo indicarlo come rivoluzione politica, e cioè come un cambiamento nelle classi che detengono il potere e quindi la sovranità di uno stato, e che riguarda la sostituzione violenta di una élite politica da parte di un’altra. Ma ciò che avviene in questa rivoluzione violenta è la destrutturazione della società: essa nel suo carattere finale (rivoluzione borghese) o iniziale (rivoluzione bolscevica) è un fatto che sanziona l’eliminazione di classi

sociali perdenti oppure sostituisce a queste delle nuove, magmatiche, indeterminate classi sociali. Quindi: la rivoluzione come cambiamento radicale, improvviso, violento è in verità solo una parte della rivoluzione della società, e cioè essa è la destrutturazione politica del sistema esistente. L’altra parte della rivoluzione della società in realtà prende tempi più lunghi, è il periodo della invenzione del nuovo assetto, che può essere pur’esso violento (anche molto).

Questa parte della rivoluzione è occupata dalla ristruttura zione della società che si gioca interamente all’interno dei gruppi che hanno destrutturato l’antico ordine, e che ora, raggiunto questo obiettivo, manifestano opinioni differenti su come deve essere l'ordine nuovo e soprattutto manifestano interessi differenti, compresi tra i «gattopardi» e i radicali e assertori di terapie shock. È in questo versante della rivoluzione che si apre il periodo più o meno lungo della transizione, sia nei paesi ex-comunisti che in quelli occidentali dell’Unione Europea che hanno subito contraccolpi dalla caduta dei regimi del socialismo reale. In definitiva, quindi, la definizione di rivoluzione della

letteratura corrente è congruente con ciò che avviene a livello di stato e di strutture politiche, ma non con ciò che avviene a livello di soczetà. L'analisi che abbiamo svolto sulla trax354

sizione ci appare intimamente connessa al processo della rivoluzione, nel quale tuttavia non avviene solo la distruzione di un sistema sociale, ma anche la sua ristrutturazione.

Tutto ciò però richiede tempo, in quanto si realizza in un periodo di transizione, ma soprattutto in questo periodo si liberano delle forze e delle energie che sono solo in parte dominate dalle regole, ancora in costruzione, ma che rispondono al contrario ad energie personali, a dinamiche relazionali, per le quali la legalità è spesso un «nonsenso». In altri termini tali energie e relazioni sono dominate dal darwinismo sociale. Naturalmente è un darwinismo sociale del momento della transizione, ed è destinato, come fenomeno sociale, a scomparire.

Sono queste ipotesi che abbiamo cercato di verificare per la Russia e per i paesi ex-comunisti dell'Europa orientale, e che ci sembrano soddisfacentemente dimostrate. Il

problema individuato in tale dimostrazione è che il periodo della transizione è diverso nei due tipi di paesi: in Russia è più lungo, nei paesi dell'Europa centrale è stato in linea di massima più breve, anzitutto perché il loro obiettivo era quello di entrare presto nel «mondo delle regole» dell'Unione Europea. E tale differente periodo di transizione è anche dovuto a, e al tempo stesso ha prodotto, una conseguente lunghezza temporale di quello che abbiamo denominato «darwinismo sociale».

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Finito di stampare nel marzo 2011 dalle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino

Alberto Gasparini è professore ordinario di Sociologia delle relazioni internazionali e di Sociologia urbano-rurale nell’ Università di Trieste e direttore dell’Istituto di

Sociologia internazionale di Gorizia (Isig). Tra le sue pubblicazioni più recenti ricordiamo «Ritorno a Euradria» (Gorizia, 2008) e «Cross-border cooperation in the Balkan-Danube area» (Strasburgo, 2008).

ISBN

€ 27,00 Grafica: A. Bernini

978-88-15-1472b-4

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9 "7888151 147264